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Il manifesto, 18 aprile 2015

La tra­ge­dia che insan­guina la Nige­ria da anni rap­pre­sen­tata su un gom­mone di dispe­rati che rischiano di affon­dare e pre­gano il loro dio. Un dio che invece di unirli li divide.

Il gom­mone bar­colla, il «nemico» è al tuo fianco, ti sfiora, men­tre invoca il suo dio, non serve nem­meno il machete, basta una spinta e un «kafir» (miscre­dente) fini­sce tra le onde. Le minacce non ser­vono: di fronte alla morte chi ha un dio lo prega. E i cri­stiani del gom­mone, come i musul­mani con­ti­nuano a pre­gare. Altri fini­scono tra le onde… Dodici muo­iono, vit­time non del mare, o per man­canza di soc­corsi, ma per un pro­se­gui­mento della guerra che li ha costretti a lasciare il loro paese. Quasi una rap­pre­sen­ta­zione pla­stica di un con­flitto ter­ri­bile. Orri­bile. Ancora di più se avviene su un gom­mone, per­ché non hai scampo.

Ma non l’hanno avuto nem­meno le due­cento donne rapite da Boko Haram in Nige­ria, un anno fa.

La tra­ge­dia del gom­mone avrà delle con­se­guenze, non solo per i quin­dici musul­mani accu­sati della strage. La rea­zione in Ita­lia è stata imme­diata: la guerra di reli­gione è qui tra noi. Un nuovo motivo per respin­gere i dispe­rati del mare, per riman­darli indie­tro, per non lasciarli nem­meno par­tire, dalla Libia. Ovvero con­dan­narli tutti a morire se non di reli­gione, di fame o di guerra.

Un ulte­riore imbar­ba­ri­mento, tra di noi, non solo in Libia o in Nige­ria, ma in Europa. Come se l’Europa non avesse mai cono­sciuto le guerre di reli­gione, il nazi­smo, il fasci­smo (per­ché que­sto è il fana­ti­smo di chi fa della reli­gione la legge per eli­mi­nare tutti i diversi, anche coloro che cre­dono nello stesso dio, per oppri­mere le donne) e ora si chiama fuori, man­cano le risorse. In nome del dio denaro si lasciano al loro destino i fedeli di Allah, di Dio e quelli che un dio non ce l’hanno nem­meno. Ma l’Italia è immersa nel Medi­ter­ra­neo e da mil­lenni meta di chi lo attra­versa, que­sta è stata la sua ric­chezza non una condanna

Granello di Sabbia , "Fermate il mondo: voglio scendere!", marzo/aprile 2015

Il primo step della difficilissima trattativa che vede protagonisti la Grecia e la Ue si è concluso con un compromesso che dà via libera alla sostanza delle richieste greche. Il confronto è del tutto asimmetrico, per questo molto arduo per la Grecia. La Germania può contare sul sostegno aperto, in qualche caso più realista del re, di diversi paesi. La Spagna e il Portogallo, e finanche l’Irlanda, preoccupati che una vittoria negoziale della Grecia spiani la strada all’affermazione elettorale delle sinistre nei loro paesi afflitti dalla cura dimagrante impostagli. La corona dei paesi nordici, poiché fanno parte del sistema produttivo allargato tedesco. I paesi dell’ex blocco sovietico, spaventati che le riforme greche – come l’aumento del salario minimo - creino un effetto di traino per analoghe rivendicazioni al loro interno. Altri, come l’Italia – che pure Tsipras ha ringraziato come deve fare un buon negoziatore - hanno dispensato sorrisi ma giocato per i tedeschi, mentre la Francia si è mossa troppo tardi lungo una linea timidamente mediatrice.

Ma il fronte dell’austerity non è compatto né invincibile, anche se ancora largamente prevalente. In Germania si è aperta una frattura. La Spd ha preso le distanze almeno dal ministro Schauble. Probabilmente ha pesato su questo atteggiamento l’esito elettorale di Amburgo, negativo per la Merkel, e le pressioni dei sindacati tedeschi, dei quali la Spd deve pure tenere un qualche conto. Contemporaneamente oltreoceano giungono messaggi assai diversi. Obama ha preso con maggiore nettezza la distanza verso le politiche pro-austerity che si conducono in Europa, in coerenza con misure di interesse sociale e contro gli eccessi di ricchezza assunte nel proprio paese.
E’ chiaro che la mossa di Obama va anche letta in chiave elettorale interna. Dopo la sconfitta nelle elezioni di medio termine ha deciso di spingere sull’acceleratore e sta preparando la strada al nuovo o alla nuova candidata democratica alle prossime presidenziali. Ancora più forte è probabilmente per il Presidente Usa la preoccupazione geopolitica. La stessa che lo spinge ad essere estremamente aggressivo sul fronte della questione ucraina, con frizioni con la Germania. Lo preoccupa la crescita di forza e di attrazione della Russia. Non gli sfugge la possibilità che un pericolo molto ravvicinato di default della Grecia o addirittura l’uscita dall’Euro e dalla Ue di quest’ultima, potrebbe spingerla direttamente nelle braccia di Putin.

Come si vede - anche se qui non c’è lo spazio necessario per poterne parlare nel modo dovuto - la vicenda greca e quella ucraina sono molto più legate tra loro di quanto non si creda, pur essendo diversissime tra loro. Entrambi i paesi occupano posizioni geopolitiche ai confini fra occidente e oriente, politicamente più che geograficamente intesi. Si trovano in una posizione di faglia entro quel processo epocale di transizione egemonica tra ovest ed est, che viene accelerato – ma non causato – da questa lunga crisi economica dell’occidente capitalistico, ma che covava da tempo nel contemporaneo decadere del primato economico mondiale degli Usa e nella crescita dei cosiddetti Brics. I primi cercano ovviamente di resistere al loro declino, i secondi spingono con decisione, anche se con tempistiche differenziate. Guerre commerciali e monetarie, accordi vessatori (si pensi al TTIP), guerre civili etero dirette, minacce di estensioni di queste ultime alla dimensione di una vera e propria guerra totale, ne sono la conseguenza più evidente.
L’Europa, a causa delle politiche in essa dominanti, dove grandi sono le responsabilità tedesche, gioca un ruolo negativo in questo quadro, mentre avrebbe ben altre potenzialità. Se torniamo al caso greco, la cosa risulta evidente.
Nella trattativa in corso il governo greco ha guadagnato tempo e ossigeno finanziario, seppure ridotto a quattro mesi. Era questo il principale e più urgente obiettivo per evitare il default e la fuga dei capitali dalle banche greche. La lista di riforme inviata a Bruxelles non contiene tutto il programma di Syriza, ma non lo contraddice e avanza diversi suoi contenuti, specialmente in campo sociale. Lo si vede sui temi dei buoni pasto, dell’energia elettrica e della sanità per i poveri. Nello stesso tempo si parla di estendere il sistema pilota del salario minimo e di progressiva introduzione della contrattazione collettiva. Basta ricordare l’email giunta a dicembre dalla Ue, che conteneva ulteriori tagli alle pensioni e stipendi pubblici, nonché l’abolizione di ogni diritto sindacale, per vedere l’enorme differenza fra il programma della Troika e quanto l’Eurogruppo, non senza scetticismi al proprio interno, ha accettato martedì 24 febbraio.
Tutto bene quindi? No, è solo l’inizio di un lungo braccio di ferro. La Grecia dovrà intanto ottenere quei risultati in termini di lotta al contrabbando di combustibile, alla corruzione e soprattutto alla enorme evasione fiscale, da cui si attende 7 miliardi di euro di entrate, per riaprire il fronte dei prestiti da parte europea che può permettere l’avvio di un nuovo programma economico antiausterity.
E’ evidente che i margini di autonomia decisionale dentro questa Europa sono molto stretti. La crepa aperta dalla Grecia deve perciò allargarsi. E’ quello che le élites neoliberiste europee temono. Sta qui la ragione di tanto accanimento contro un paese il cui debito non supera il 3% di quello dell’eurozona. Una bazzecola quindi. Ma se la linea della Grecia dovesse prevalere si dimostrerebbe che un'altra via è possibile per affrontare il tema del debito. Il fiscal compact e il sistema di governance della Ue crollerebbero miseramente. Non solo. Ma si dimostrerebbe che la Unione europea non può sopravvivere senza darsi degli organismi realmente democratici ed effettivamente decisionali, attraverso i quali la volontà popolare può farsi valere. Se avvenisse sarebbe la sconfitta storica del neoliberismo in Europa. Per questo lo scontro è tanto duro e ci riguarda in prima persona.
La Grecia ha fatto molto, ma non può vincere da sola. E’ indispensabile la coesione interna e la connessione sentimentale fra quel popolo e il suo nuovo governo. Ma altrettanto decisiva è la crescita della solidarietà internazionale, la affermazione dei movimenti e delle sinistre anche in altri Paesi. A cominciare dalla Spagna nel prossimo autunno.

Il manifesto, 16 aprile 2015

Siamo alla conta finale? L’appello delle oppo­si­zioni a Mat­ta­rella con­tro il ricorso alla fidu­cia per la legge elet­to­rale usa parole molto pesanti. Ma non è dub­bio che l’arrogante testar­dag­gine del governo, nel lasciar inten­dere che alla que­stione di fidu­cia potrebbe giun­gersi, ha creato una situa­zione di straor­di­na­ria gra­vità. In tale ipo­tesi non saremmo più di fronte a una nor­male dia­let­tica poli­tica, dura quanto si vuole, ma ad una patente e voluta vio­la­zione del rego­la­mento par­la­men­tare. Per que­sto è bene che il Pre­si­dente rac­colga l’appello, e dia ad esso seguito nei modi che riterrà opportuni.

Sulla legge elet­to­rale il governo non può porre la fidu­cia, se viene richie­sto il voto segreto (già da alcuni pre­an­nun­ciato). Ce lo dicono con chia­rezza gli artt. 49 e 116 del rego­la­mento Camera. Per l’art. 49 il voto è palese, salvo che per alcune mate­rie enu­me­rate in cui è neces­sa­ria­mente segreto, e per alcune altre in cui è segreto a richie­sta di almeno 30 depu­tati (art. 51). Tra que­ste ultime – voto segreto a richie­sta – tro­viamo appunto la legge elet­to­rale. Per l’art. 116 la que­stione di fidu­cia non può essere posta «su tutti que­gli argo­menti per i quali il Rego­la­mento pre­scrive vota­zioni per alzata di mano o per scru­ti­nio segreto». Il che è ovvio, visto che la fidu­cia si vota per appello nomi­nale. La domanda dun­que è: lo scru­ti­nio segreto a richie­sta sulla legge elet­to­rale ex art. 49 si con­fi­gura come voto segreto “pre­scritto” ai sensi dell’art. 116? O deve con­si­de­rarsi “pre­scritto” solo il voto “neces­sa­ria­mente” segreto, e cioè segreto anche in assenza di richiesta?

La rispo­sta è chiara. Anche il voto segreto a richie­sta – benin­teso, una volta che la richie­sta sia stata avan­zata – deve con­si­de­rarsi “pre­scritto” ai sensi dell’art. 116, e dun­que ido­neo a deter­mi­nare la pre­clu­sione della que­stione di fidu­cia. Biso­gna par­tire dalla con­si­de­ra­zione che la moda­lità di vota­zione in ambito par­la­men­tare non è mai oggetto di valu­ta­zione discre­zio­nale da parte di chic­ches­sia. Che il voto sia segreto o palese non discende da una scelta di oppor­tu­nità, ma dal det­tato rego­la­men­tare. Ciò per ovvi motivi di garan­zia dei sin­goli par­la­men­tari e delle forze poli­ti­che, in spe­cie di minoranza.

Ci può essere un «dub­bio sull’oggetto della deli­be­ra­zione», cioè un dub­bio inter­pre­ta­tivo se una fat­ti­spe­cie rien­tri o meno nelle mate­rie per cui il voto è segreto o palese. Ma, sciolto il dub­bio da parte della pre­si­denza dell’assemblea, il voto è obbli­ga­to­ria­mente deter­mi­nato dalla norma rego­la­men­tare. Quindi, la moda­lità di vota­zione è sem­pre «prescritta».

Nel caso, non c’è alcuna pos­si­bi­lità di dub­bio inter­pre­ta­tivo, poi­ché la legge elet­to­rale è espli­ci­ta­mente inclusa nell’elenco delle mate­rie per cui il voto è segreto a richie­sta. E per­tanto la que­stione di fidu­cia rimane pre­clusa ai sensi dell’art. 116, lad­dove richie­sta di voto segreto vi sia. Spet­terà alla Pre­si­denza dell’Assemblea impe­dire ogni pre­va­ri­ca­zione a danno dei diritti dei sin­goli depu­tati e delle forze poli­ti­che. Essendo chiaro che la Pre­si­denza non si oppone a una scelta poli­tica del governo, ma solo applica — come deve — una ine­qui­voca norma regolamentare.

Dun­que, niente fidu­cia. Si tratta di regole, e non di bon ton poli­tico e isti­tu­zio­nale, che pure vie­te­rebbe in modo asso­luto a un governo di vin­co­lare la pro­pria soprav­vi­venza — attra­verso la fidu­cia — al testo in discus­sione. In tal modo si cer­ti­fica infatti che la legge in discus­sione non è neu­trale, ma entra nella dia­let­tica poli­tica distri­buendo van­taggi e svan­taggi deci­sivi. Né si tratta di buon senso, che ovvia­mente dovrebbe trat­te­nere un segre­ta­rio capo di governo dall’usare la fidu­cia per met­tere la mor­dac­chia a un pezzo del suo stesso par­tito. Né, ancora, si tratta di dignità poli­tica, che pure richie­de­rebbe, una volta nau­fra­gato lo scia­gu­rato patto del Naza­reno, di smet­tere la fin­zione per cui le riforme da esso gene­rate siano nell’interesse del paese. Né si tratta di cor­ret­tezza e sen­si­bi­lità costi­tu­zio­nale, che impor­reb­bero di non for­zare un par­la­mento già sostan­zial­mente ille­git­timo per una sen­tenza del giu­dice delle leggi a nor­mare appro­fit­tando dei numeri deter­mi­nati da quella ille­git­ti­mità.

Né infine si tratta di valu­ta­zioni di merito, anche se Napo­li­tano defi­ni­sce ora un grave errore aver abban­do­nato il Mat­ta­rel­lum, con ciò lasciando inten­dere per impli­cito che l’errore si per­pe­tua quando non si esce dal Por­cel­lum tor­nando al Mat­ta­rel­lum ma andando all’Italicum, pur necessitato.
Men­tre Scal­fari afferma su Repub­blica che l’approvazione delle riforme ren­ziane uccide la demo­cra­zia par­la­men­tare. Due auto­re­voli testi­moni del nostro tempo, che si gua­da­gnano la tes­sera di gufo ono­ra­rio.

Abbiamo capito che a Renzi più che il mono­poli piace la bat­ta­glia navale, soprat­tutto per la for­mula «col­piti e affon­dati». La sini­stra Pd ha qui pro­ba­bil­mente la sua ultima occa­sione. Certo, per loro Renzi è come il meteo­rite che 65 milioni di anni fa colpì la terra pro­vo­cando l’estinzione dei dino­sauri. Ma vogliamo ricor­dare a quel che resta della com­po­nente Ds nel Pd che i dino­sauri lot­ta­rono per sopravvivere.

Noi vor­remmo almeno che si rispet­tas­sero le regole. In un sistema demo­cra­tico è una pre­messa indi­spen­sa­bile, senza la quale tutto si riduce a vuota parola. Di for­za­ture e strappi ne abbiamo avuti già troppi, per un nuo­vi­smo che in tal modo nulla pro­mette di buono per il futuro. Anche per que­sto il ren­zi­smo non ci piace. E non è affatto que­stione di fiducia

La Repubblica, 16 aprile 2015

LA PAROLA genocidio pronunciata da Francesco e la reazione turca hanno fatto precipitare questioni cruciali. C’è un problema comune alla definizione del genocidio e della tortura. C’è un’affinità fra il modo in cui la Turchia reagisce all’imputazione di genocidio e l’Italia all’imputazione di tortura. C’è un legame decisivo fra la ferita aperta del 1915 e la persecuzione dei cristiani di oggi. C’è un rapporto fra una disputa che si vuole irriducibile su un genocidio di cento anni fa, e il modo in cui si tratta un genocidio di oggi.

1.
È paradossale che lo sterminio degli armeni, sul quale è stata coniata la nozione di genocidio, non possa chiamarsi genocidio. Il genocidio degli ebrei ha un nome, Shoah, quello degli zingari, Porrajmos, quello degli armeni, Meds Yeghern — ma agli armeni manca il riconoscimento del genocidio. Non so se Francesco avesse messo in conto per intero la reazione turca: il suo discorso è comunque un complemento della denuncia angosciata della persecuzione dei cristiani. Dopo aver esitato, il Papa ha preso una via dalla quale non si torna indietro. Non c’è mai stata una ragione più stringente per non poter non dirci cristiani.

2.
La Corte europea ha condannato l’Italia. Lo farà più inesorabilmente sulla caserma di Bolzaneto, dove si attuò una tortura metodica, prolungata, sessista e fascista. La Corte, all’unanimità, ci ha condannati per il crimine di tortura. Credo che abbia superato i propri precedenti, e che potesse sanzionare le nefandezze di polizia alla scuola Diaz come “trattamenti inumani e degradanti”, rientranti anch’essi nell’art.3 della Convenzione, imprescrittibili al pari della tortura. Per la Corte la sensibilità sulla tortura si affina col tempo, e le minacce — il terrorismo islamista, i venti di guerra — non devono attenuare i principii inderogabili che vietano la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Ha scelto la sanzione più severa — non negli effetti pratici, che si equivalgono, ma in quello morale — rinunciando a una determinazione più specifica della tortura (una violenza individuata e distillata e non collettiva e improvvisa, il fine di ottenere confessioni, il ricorso a tecniche di distruzione della resistenza…) per assicurarne il peculiare marchio di infamia. Ha mirato al paradosso di un Paese, l’Italia, che per trent’anni ha rifiutato di riconoscere tortura e trattamenti inumani o degradanti nel suo codice, mandando impuniti gli autori di crimini per i quali la legge internazionale impone l’imprescrittibilità. Fatte le proporzioni, l’Italia si è comportata con la tortura come la Turchia col genocidio.

3.
Tuttavia è dubbio che allargando le maglie della definizione di tortura se ne rafforzi la sanzione: può derivarne una banalizzazione. Qualcosa di simile avviene con la nozione di genocidio. Il genocidio sta agli altri “crimini di guerra e contro l’umanità” come la tortura sta ai “trattamenti inumani e degradanti”. Anche l’evocazione del genocidio segna un incomparabile marchio di infamia, benché i crimini che “tecnicamente” non vi rientrino siano a loro volta imperdonabili. Il crescente ricorso generico al nome di genocidio sta in proporzione inversa alla sua persecuzione là dove materialmente avviene: lo banalizza.

L’affinità fra tortura e genocidio è più profonda, intima. Sono ambedue difficili da definire con esattezza; ad ambedue è indispensabile il superamento di una soglia di gravità, di dimensione, ma non sufficiente. Che cosa fa della Shoah un genocidio, e dello sterminio dei kulaki no? (La discriminazione “di classe” fu espunta dalla Convenzione sul genocidio del 1948). Che cosa fa dello sterminio dei tutsi in Ruanda un genocidio e dello sterminio delle tribù del Darfur da parte del Sudan e delle milizie Janjaweed “solo” un crimine contro l’umanità? Il genocidio, avvertiva Antonio Cassese, è diventato un “ Magic Word ” cui non si vuole rinunciare, benché i crimini di guerra e contro l’umanità siano atroci a loro volta e abbiano le stesse sanzioni. Per lo sterminio degli armeni si impiega la formula “G-Word”: la parola G. Un tabù proibisce di pronunciarlo intero: come il divieto di nominare Dio, alla rovescia. A questo “G-Word” sono appesi i rapporti fra la Turchia e il resto del mondo.

4.
C’è una montagna, fra Mosul e il Kurdistan, l’abbiamo nominata tante volte, si chiama Sinjar. Vi hanno cercato scampo dopo un’odissea tremenda, decine di migliaia di yazidi. È un popolo antico che ha subito infinite persecuzioni di invasori, così superstiziosi da chiamarlo adoratore del demonio. Il cosiddetto Stato Islamico ha mirato a finire l’opera, uccidendo gli uomini, rapendo violando e commerciando bambine e donne. Era inevitabile, ascoltando i racconti degli scampati, citare I 4-0 giorni del Mussa Dagh, l’epopea degli armeni cristiani rifugiati su quel massiccio montagnoso, scritta da Franz Werfel. Da noi uscì nel 1935, nella Medusa Mondadori: generazioni di italiani conobbero là la tragedia armena.

Oggi i cristiani subiscono le persecuzioni più vaste. Minoranze come gli yazidi subiscono un tentativo di annientamento che non lascia dubbi sulla definizione, per quanto la si setacci, di genocidio. C’è una diaspora yazida che vivrà per vedersi riconosciuta la propria catastrofe. Che non è avvenuta cento anni fa: sta avvenendo. L’abbiamo documentata, abbiamo visto e ascoltato le ragazze fuggite dalla prigionia jihadista, come la bambina di nove anni incinta di cui due giorni fa ancora dicevano le cronache.

Ebbene, a Dohuk, provincia estrema del Kurdistan gremita di profughi, due magistrati hanno costituito una Commissione d’inchiesta per il crimine di genocidio. Sono Sail Khider Khalaf, procuratore, e Ayman Mostafa, giudice. «Vogliamo impedire che il tempo confonda le tracce. Raccogliamo le testimonianze, sugli stupri, i suicidi, gli ammazzati e scomparsi, la compravendita di esseri umani. Un australiano venuto a unirsi all’Is con la famiglia ha comprato 7 persone a Raqqa per 15 mila dinari — 13 euro! Cataloghiamo le fosse comuni man mano che si riconquista il Sinjar; un testimone ha seppellito 64 persone; un altro ha raccontato di averne dovuto coprire 70 col suo bulldozer. Intendiamo portare le prove al Tribunale penale dell’Aia, e riportare da noi la giustizia. Lavoriamo anche coi video dell’Is, e coi selfie che gli uomini di Daesh si fanno sopra le vittime, e li ritroviamo sui loro cadaveri. Manchiamo di risorse e competenze: per la mappatura satellitare, le indagini genetiche, com’è avvenuto in Argentina, a Srebrenica… Voi avete periti, e strumenti adeguati, sappiano che li aspettiamo. Abbiamo a malapena un ufficio. Non c’è un team forense. Ma noi proveremo la volontà genocida, e il mondo dovrà riconoscerla».

«Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi». Left, 14 aprile 2015

Come ha osservato di recente Thomas Piketty, i partiti di centrosinistra al governo hanno cessato da tempo di difendere le classi popolari: davanti alla crisi della deindustrializzazione, invece di rafforzare le istituzioni pubbliche e i sistemi di protezione sociale esistenti, i partiti di governo hanno scelto di abbandonare le classi popolari e i ceti medi.

Noi italiani lo sappiamo bene. Scomparso da tempo perfino lo spettro verbale della “patrimoniale”, da noi si fanno avanti ricette come quella di colpire le “pensioni d’oro” e ridisegnare la curva delle pensioni. Sulla pelle dei lavoratori si è abbattuta la cancellazione dell’art. 18, ultima fondamentale conquista della politica dell’abbandono delle tutele e dei servizi pubblici essenziali – si pensi alle ferrovie, alla sanità, alla scuola pubblica e all’università, ai beni culturali e al paesaggio.

Si capisce perché le classi popolari votino per le destre, osserva Piketty pensando al caso francese. Ma in Italia le cose vanno in altra direzione: un partito che si definisce ancora di centrosinistra continua a riscuotere la maggioranza dei consensi, almeno di coloro che ancora pensano di partecipare alle elezioni.

Quella italiana è una variante che non si spiega con la miseria delle destre nostrane ma chiede di essere analizzata. E qui bisogna ricorrere alla celebre formula di Tomasi di Lampedusa: bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’era. Formula suggestiva e persuasiva quanto misteriosa. Quel che resta com’era è l’ingiustizia sociale, il rapporto di sopraffazione dei vincitori sui vinti, le classi popolari: quel che cambia è la retorica. Renzi ne offre un buon esempio nel colorare di rosa la realtà.

Si pensi alla storia della ripresa dovuta al Jobs act: una vera invenzione della politica parlata. Secondo Renzi, a inizio 2015 avremmo avuto 82.000 posti di lavoro in più: un segno di speranza. Ma la realtà dei dati Istat ha calato la suo gelida carta: la disoccupazione è salita di nuovo sfiorando il 13% complessivo mentre quella giovanile tocca la cifra terrificante del 42,3%. Comunque, bando alla realtà, l’ottimismo di Stato è necessario. Perché da noi lo stato d’animo diffuso è lo scoramento. Una volta l’orgoglio nazionale scattava quando Coppi e Bartali vincevano il Tour de France. Oggi che la Ferrari è un’azienda in mani non italiane è difficile rivitalizzare l’esultanza del tifo.

Ma c’è nella retorica della comunicazione pubblica qualcosa che è cambiato, contribuendo a che tutto resti com’era. Parliamo di Chiesa e religione. Col papato argentino di Francesco è caduto in desuetudine lo sfacciato legame delle gerarchie ecclesiastiche con gli affari della destra finanziaria più feroce e gaudente incarnata da Berlusconi. Oggi la denunzia delle sofferenze ha trovato un grande amplificatore nell’uomo che fa affluire torme umane in piazza San Pietro; ma si è anche aperta la possibilità di trasformare la protesta in un dolce e gratificante lamento devoto sulla malvagità umana.

Le classi popolari sono ridiventate i poveri del mondo preindustriale. La parola dominante è misericordia. Ci sarà un giubileo col suo nome. Il consenso universale che circonda ogni uscita di Francesco ha molto di ambiguo e di strumentale: se ieri, in mezzo a una massa di indifferenti più o meno credenti, c’era anche qualche laico (magari devoto), oggi ci sono solo devoti, non importa se credenti o meno.

Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi.

Il manifesto, 14 aprile 2015
La spesa mili­tare ita­liana, cal­co­lata al tasso di cam­bio cor­rente dollaro/euro, è salita da 65 milioni di euro al giorno nel 2013 a circa 70 nel 2014.

Anche nell’ipotesi che resti inva­riata nel 2015 (cosa impos­si­bile per­ché la Nato preme per un aumento), la spesa annuale del 2014 equi­vale, all’attuale tasso di cam­bio, a 29,2 miliardi di euro, ossia a 80 milioni di euro al giorno.

Ciò emerge dai dati sulla spesa mili­tare mon­diale, pub­bli­cati ieri dal Sipri. Più pre­cisi di quelli del Mini­stero della difesa, il cui bud­get uffi­ciale ammonta nel 2014 a 18,2 miliardi di euro, ossia a circa 50 milioni di euro al giorno. Ad esso si aggiun­gono però altre spese mili­tari extra-budget, che gra­vano sul Mini­stero dello svi­luppo eco­no­mico per la costru­zione di navi da guerra, cac­cia­bom­bar­dieri e altri sistemi d’arma e, per le mis­sioni mili­tari all’estero, su quello del Mini­stero dell’economia e delle finanze. L’Italia è al 12° posto mon­diale come spesa mili­tare

Net­ta­mente in testa restano gli Stati uniti, con una spesa nel 2014 di 610 miliardi di dol­lari (equi­va­lenti, all’attuale tasso di cam­bio, a 575 miliardi di euro).

Stando ai soli bud­get dei mini­steri della difesa, la spesa mili­tare dei 28 paesi della Nato ammonta, secondo una sua sta­ti­stica uffi­ciale rela­tiva al 2013, ad oltre 1000 miliardi di dol­lari annui, equi­va­lenti al 56% della spesa mili­tare mon­diale sti­mata dal Sipri. In realtà la spesa Nato è supe­riore, soprat­tutto per­ché al bilan­cio del Pen­ta­gono si aggiun­gono forti spese mili­tari extra bud­get: ad esem­pio, quella per le armi nucleari (12 miliardi di dol­lari annui), iscritta nel bilan­cio del Dipar­ti­mento dell’energia; quella per gli aiuti mili­tari ed eco­no­mici ad alleati stra­te­gici (47 miliardi annui), iscritta nei bilanci del Dipar­ti­mento di stato e della Usaid; quella per i mili­tari a riposo (164 miliardi annui), iscritta nel bilan­cio del Dipar­ti­mento degli affari dei vete­rani. Vi è anche la spesa dei ser­vizi segreti, la cui cifra uffi­ciale (45 miliardi annui) è solo la punta dell’iceberg.

Aggiun­gendo que­ste e altre voci al bilan­cio del Pen­ta­gono, la spesa mili­tare reale degli Stati uniti sale a circa 900 miliardi di dol­lari annui, circa la metà di quella mon­diale, equi­va­lenti nel bilan­cio fede­rale a un dol­laro su quat­tro speso a scopo militare.

Nella sta­ti­stica del Sipri, dopo gli Stati uniti ven­gono la Cina, con una spesa sti­mata in 216 miliardi di dol­lari (circa un terzo di quella Usa), e la Rus­sia con 85 miliardi (circa un set­timo di quella Usa). Seguono l’Arabia Sau­dita, la Fran­cia, la Gran Bre­ta­gna, l’India, la Ger­ma­nia, il Giap­pone, la Corea del sud, il Bra­sile, l’Italia, l’Australia, gli Emi­rati Arabi Uniti, la Turchia. La spesa com­ples­siva di que­sti 15 paesi ammonta, nella stima del Sipri, all’80% di quella mondiale.

La sta­ti­stica evi­den­zia il ten­ta­tivo di Rus­sia e Cina di accor­ciare le distanze con gli Usa: nel 2013–14 le loro spese mili­tari sono aumen­tate rispet­ti­va­mente dell’8,1% e del 9,7%. Aumen­tate ancora di più quelle di altri paesi, tra cui: Polo­nia (13% in un anno), Para­guay (13%), Ara­bia Sau­dita (17%), Afgha­ni­stan (20%), Ucraina (23%), Repub­blica del Congo (88%).
Ogni minuto si spendono nel mondo a scopo militare 3,4 milioni di dollari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno

I dati del Sipri con­fer­mano che la spesa mili­tare mon­diale (cal­co­lata al netto dell’inflazione per con­fron­tarla a distanza di tempo) è risa­lita a un livello supe­riore a quello dell’ultimo periodo della guerra fredda: ogni minuto si spen­dono nel mondo a scopo mili­tare 3,4 milioni di dol­lari, 204 milioni ogni ora, 4,9 miliardi al giorno. Ed è una stima per difetto della folle corsa alla guerra, che fa strage non solo per­ché porta a un cre­scente uso delle armi, ma per­ché bru­cia risorse vitali neces­sa­rie alla lotta con­tro la povertà.

Il manifesto, 14 aprile 2015

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Può un paese, che ha appena rice­vuto la con­danna della corte di Stra­sburgo, per­met­tersi di gio­care sulle deli­cate mate­rie elet­to­rali e costi­tu­zio­nali affi­dan­dosi alla giu­liva esu­be­ranza di Boschi e di Renzi, che scom­met­tono sull’adozione in ogni angolo del con­ti­nente delle loro splen­dide riforme illiberali?

Per ora l’Europa, nel campo del diritto pub­blico, ha rice­vuto dalla poli­tica ita­liana solo la rie­su­ma­zione della tor­tura di Stato, la fio­ri­tura delle leggi ad per­so­nam, la com­parsa della giu­sti­zia penale con ben scol­pito un volto di classe. Un’ennesima legge elet­to­rale di segno illi­be­rale e com­pleto sarebbe il qua­dro della deriva dell’ordinamento.

Al posto di tante chiac­chiere di mini­stri e rela­tori incom­pe­tenti chia­mati a redi­gere le nuove norme per il voto, il par­la­mento dovrebbe con­fe­zio­nare una legge elet­to­rale non sulla base dei sogni di suc­cesso del lea­der attuale, ma avendo un qual­che dise­gno di sistema. I cal­coli di inta­scare una vit­to­ria certa, mano­vrando a pia­ci­mento le tec­ni­che elet­to­rali, peral­tro non por­tano bene.

Ne fece le spese già un De Gasperi minore, che pagò la for­za­tura illi­be­rale della legge truffa (pre­mio del 65 per cento dei seggi al “poli­par­tito” coa­liz­zato) con una scon­fitta, che acce­lerò il tra­monto di un leader.

In nome della demo­cra­zia pro­tetta e dello Stato forte, aveva sospinto il paese nelle incer­tezze di un con­flitto radi­cale (clima di stato d’assedio a Roma, inci­denti alla camera, Ingrao fu man­ga­nel­lato dalla celere, i depu­tati d’opposizione abban­do­na­rono l’aula can­tando l’inno della repub­blica). E anche la strana cop­pia Occhetto-Segni, che aveva otte­nuto il per­messo di scri­vere la nuova legge elet­to­rale sotto det­ta­tura refe­ren­da­ria, uscì di scena con le prime con­sul­ta­zioni mag­gio­ri­ta­rie. All’ingegneria elet­to­rale di Cal­de­roli non andò meglio.

Una demo­cra­zia malata che scrive tre leggi elet­to­rali in vent’anni, e che da dieci lustri con­vive con una for­mula giu­di­cata dalla Con­sulta inco­sti­tu­zio­nale, dovrebbe muo­versi con ben altra respon­sa­bi­lità e cul­tura delle regole.

Il tempo per un con­senso allar­gato del par­la­mento dovrebbe essere un impe­ra­tivo irri­nun­cia­bile. E invece il mestiere delle riforme è appal­tato a poli­tici dell’improvvisazione che pre­ten­dono, con il 25 per cento dei voti, di imporre ad ogni costo, al restante 70 per cento, la regola del gioco fon­da­men­tale, quella elet­to­rale esco­gi­tata per vincere.

Qual­che solerte giu­ri­sta all’odor di regime inco­rag­gia il pre­mier ad affron­tare lo scon­tro in campo aperto, non esi­tando a ricor­rere al voto di fidu­cia, che sarebbe un pas­sag­gio legit­ti­mato dal pre­ce­dente della legge truffa, quando peral­tro il par­la­mento aveva altri rego­la­menti. E’ vero che De Gasperi in aula pose la que­stione di fidu­cia ma, con il suo gesto (si appellò a «impel­lenti ragioni di calen­da­rio» e a «cir­co­stanze straor­di­na­rie»), pro­vocò una crisi isti­tu­zio­nale lace­rante, che nes­suno sta­ti­sta lun­gi­mi­rante può per­met­tersi di sca­te­nare. Lo stesso pre­si­dente del con­si­glio rico­nobbe che «la fidu­cia su un dise­gno di legge non appar­tiene alla pro­ce­dura usuale». Il pre­si­dente del senato Para­tore lo inter­ruppe scan­dendo: «e non costi­tui­sce precedente!».

Col­pito dalle accuse del governo, in merito ai suoi sforzi di media­zione, e anche ai suoi cenni di aper­tura all’ipotesi di un refe­ren­dum ven­ti­lata da Togliatti (si avviò la rac­colta di 500 mila firme per la richie­sta del refe­ren­dum, da abbi­nare alle ele­zioni poli­ti­che con la scelta affi­data agli elet­tori tra l’attribuzione dei seggi secondo la nuova o la vec­chia legge), Para­tore ras­se­gnò le dimissioni.

Secondo il governo d’allora, il senato avrebbe dovuto limi­tarsi a pren­dere atto della legge che riguar­dava solo le moda­lità di ele­zione della camera dei depu­tati. Ma, come ram­mentò Umberto Ter­ra­cini, i pre­ce­denti sto­rici smen­ti­vano la fretta del governo. Nel 1881–82 il senato non solo discusse i ritoc­chi alla legge elet­to­rale ma votò emen­da­menti di cui fu tenuto conto. Le oppo­si­zioni si sca­glia­rono con­tro la pre­tesa dell’esecutivo cen­tri­sta di sta­bi­lire una data per l’approvazione del testo.

Il senso illi­be­rale della legge truffa, dise­gnata per argi­nare quelli che Scelba chia­mava «i mas­sicci par­titi tota­li­tari», lo colse in pieno il giu­ri­sta Vit­to­rio Ema­nuele Orlando che stig­ma­tizzò un’arbitraria pro­pen­sione del potere in carica, quella di inven­tare le nuove regole a ridosso delle con­sul­ta­zioni elet­to­rali (il pro­getto di legge fu pre­sen­tato solo il 21 otto­bre del 1952, con ele­zioni pre­vi­ste nella pri­ma­vera del 1953), che pur­troppo farà scuola. In una let­tera Orlando ammonì: «Con­si­dero come diso­ne­sta ogni legge elet­to­rale che sia pre­ce­dente imme­dia­ta­mente le ele­zioni». E aggiunse: «Ora sic­come il governo attuale vuole que­sto atto diso­ne­sto, pre­cede la mia ribel­lione su que­sto punto».

I riscon­tri sto­rici mostrano che non può esserci il sospetto, in un sistema demo­cra­tico appena decente, di scri­vere le regole “diso­ne­ste” della con­tesa sull’abito delle con­ve­nienze del deten­tore con­giun­tu­rale del potere.

Le riforme, soprat­tutto se varate da un par­la­mento ille­git­timo quanto alla sua com­po­si­zione alte­rata dal pre­mio di mag­gio­ranza, non si defi­ni­scono seguendo le sirene del trionfo annun­ciato ma ipo­tiz­zando anche argini alla bana­lità del male. In un sistema tri­po­lare, con par­titi liquidi e forze a voca­zione anti­si­stema, è segno di pura inco­scienza con­tem­plare la pos­si­bi­lità che dal bal­lot­tag­gio esca con i gal­loni del comando una for­ma­zione con il 20 per cento o anche meno dei consensi.

Nell’attuale sistema tutto si è sciolto e non esi­stono le con­di­zioni reali per una com­pe­ti­zione bipo­lare. Per que­sto la tro­vata del bal­lot­tag­gio di lista perde ragio­ne­vo­lezza, effi­ca­cia. Lo sci­vo­la­mento ple­bi­sci­ta­rio del Pd, che invoca i pre­sunti man­dati impe­ra­tivi sca­tu­riti dai gazebo, rivela un dete­rio­ra­mento del qua­dro istituzionale.

Costi­tui­sce «un pen­siero aber­rante», ha scritto Gian­franco Pasquino, l’idea di invo­care la disci­plina par­la­men­tare sulle riforme, come hanno fatto Renzi, Boschi, per­sino i gio­vani tur­chi. «La disci­plina di par­tito –spiega Pasquino– può essere richie­sta ai par­la­men­tari esclu­si­va­mente sulle mate­rie inse­rite nel pro­gramma che il loro par­tito ha sot­to­po­sto agli elettori».

Se non una deriva auto­ri­ta­ria, un grave clima di dege­ne­ra­zione dello spi­rito costi­tu­zio­nale è già ope­rante. Non c’è spe­cia­li­sta di sistemi elet­to­rali che non abbia mostrato i limiti strut­tu­rali dell’Italicum. Anche tra i giu­ri­sti non ostili verso il rifor­mi­smo di Renzi si rico­no­sce che l’Italicum «è molto simile al Por­cel­lum» e non supera «le obie­zioni sostan­ziali» mosse dalla Con­sulta, che anzi nel qua­dro tri­par­ti­tico «risul­tano forse aggra­vate» (A. Mar­rone, “Il Mulino”, 2014 n. 4, p. 555).

Senza par­titi fun­zio­nanti, in grado cioè di cen­su­rare il lea­der, di sfi­darlo alla pari e di non essere dei pas­sivi nomi­nati agli ordini di chi ha lo scet­tro, l’Italicum oscilla tra cadute assem­bleari e vel­leità cesa­ri­sti­che. All’elezione diretta del capo di governo, il con­ge­gno aggiunge anche il con­trollo del 55 per cento della camera deli­neando così un pre­mie­rato illi­mi­tato. Una post­mo­derna repub­blica delle banane con la lea­der­ship creata dai salotti della tv.

In que­sto qua­dro, è indi­spen­sa­bile la vigi­lanza cri­tica del Colle, che dovrebbe essere aller­tato dal costoso pre­ce­dente della man­cata cen­sura pre­ven­tiva che nel 2006 con­se­gnò il Por­cel­lum viziato dai gua­sti illi­be­rali denun­ciati dalla Consulta.

Non si tratta della con­sueta arte di tirare per la giacca il pre­si­dente coin­vol­gen­dolo nel gioco politico.

E’ invece l’attesa della rigo­rosa coper­tura del ruolo trac­ciato dalla Carta e che implica l’esercizio del rin­vio per regole che ema­nano il solo dub­bio di inco­sti­tu­zio­na­lità. Dinanzi alla volontà di potenza di un par­tito (diviso) del 25 per cento, che ripro­pone una legge con anti­chi vizi (nes­suna soglia è pre­vi­sta per l’accesso al bal­lot­tag­gio), tocca al Qui­ri­nale ripri­sti­nare le con­di­zioni mini­mali di un con­fronto demo­cra­tico così gra­ve­mente alterato.

«L’impoliticità di papa Francesco mette a nudo l’imbarazzante cinismo degli Stati e dei governi refrattari a assumere la priorità dei diritti umani quando in gioco ci sono interessi economici, militari e geopolitici». La Repubblica, 14 aprile 2015

L’OSTINAZIONE con cui Ankara proibisce ai suoi cittadini di fare i conti con lo sterminio armeno si scontra con il candore di Francesco. Cioè il papa che meno di qualunque altro fra i suoi predecessori si concepisce capo di Stato, assoggettato come tale ai vincoli della realpolitik.

Quasi tutti gli storici concordano nel ritenere la cifra delle vittime, persone uccise o morte di stenti nel corso della deportazione di massa che nel 1915 le ha strappate alle loro case, ampiamente superiore al milione. È altrettanto incontestabile che quel massacro sistematico di un popolo intero, svolse una funzione decisiva nell’ispirare Adolf Hitler: gli fece cioè balenare la possibilità concreta, anche nell’età contemporanea, di concepire una “soluzione finale” di sterminio industrialmente pianificato. A partire dal 1951, dopo un ampio dibattito, le Nazioni Unite hanno deliberato che crimini di questo tipo, miranti all’eliminazione fisica di un’intera popolazione, debbono essere definiti con il termine “genocidio”. Fu un avvocato ebreo di Leopoli, prima ancora che la sua famiglia scomparisse nel gorgo della Shoah, a coniare la parola “genocidio” che gli venne ispirata dalla fine degli armeni nell’indifferenza della comunità internazionale. Lemkin condusse per decenni, in solitudine e con pochissimi mezzi, la sua battaglia per un diritto internazionale adeguato al ripetersi di crimini di Stato. Trovò udienza solo al termine della seconda guerra mondiale, dopo che quella tragedia si era replicata, su scala ancora maggiore, nel cuore dell’Europa.

L’impoliticità di papa Francesco e la reazione furiosa delle autorità turche, stanno provocando un sano cortocircuito. A dimostrazione del fatto che le ferite della storia non si rimarginano mai spontaneamente, che l’atavica legge del più forte non basta più a seppellire la memoria dei vinti. È orribile l’insinuazione di Ankara, secondo cui a influenzare Bergoglio sarebbe stata niente meno che la “lobby armena” insediatasi a seguito della diaspora novecentesca in Argentina. È il solito bieco argomento rivolto contro le vittime che non accettano di rassegnarsi in silenzio, alle quali viene attribuito subdolamente chissà quale potere e volontà sopraffattrice.

Ma l’impoliticità di papa Francesco mette a nudo anche l’imbarazzante cinismo degli Stati e dei governi refrattari a assumere la priorità dei diritti umani quando in gioco ci sono interessi economici, militari e geopolitici. Per fortuna ieri sera il ministro Gentiloni è intervenuto, sia pure con estrema cautela, a rettificare l’infelice sortita di un sottosegretario che non aveva trovato di meglio che bacchettare le parole di Francesco. Rivendicando l’opportunità che il governo italiano, per quieto vivere, releghi il genocidio armeno a mera controversia storica. Niente male per un Paese come il nostro che ha appena introdotto con voto parlamentare il (discutibilissimo) reato di negazionismo storico.

Sappiamo bene quanto sia delicato il tema delle nostre relazioni con la Turchia, soprattutto oggi che l’offensiva jihadista divampa sulle coste del Mediterraneo. Il genocidio armeno fu portato a termine da un regime che stava assumendo il nazionalismo più esasperato come nuova politica di potenza, in sostituzione del Califfato islamico morente, quando ormai stava venendo meno la secolare funzione imperiale del Sultano di Istanbul.

Di nuovo oggi Erdogan aspira a disseppellire il miraggio dell’impero ottomano. Fallito il tentativo di presentarsi come riferimento di nuovi modelli statali islamici, fondati sull’integralismo dei Fratelli Musulmani sconfitti in Egitto e Tunisia, il presidente turco non rinuncia a proporsi come leader del mondo sunnita. Fino al punto di avere intrattenuto una relazione ambigua con l’Is, che troppo a lungo ha potuto utilizzare la penisola anatolica come retrovia. Anche l’inusitata durezza con cui Ankara reagisce alle parole di Francesco, sembra mirata a trasformare la questione armena in fattore di contrapposizione religiosa fra mondo islamico e mondo cristiano.

Evitare di cadere in questa trappola, non ci esime dal tenere duro sui principi su cui si fonda la nostra civiltà occidentale. La quale, per sua natura, di fronte a un genocidio si fa carico del punto di vista delle vittime. Opponendosi alla pretesa di chi vorrebbe rimuovere con la prepotenza una memoria insanguinata. Anche chiamando col suo nome un genocidio.

La candida potenza di Francesco, il vescovo di Roma che rimette in discussione le logiche statuali con cui si è mossa per secoli la Chiesa cattolica, è una potenza davvero inerme. Ma è un richiamo di verità cui neanche la più machiavellica delle diplomazie europee può sottrarsi.

COMINCIO con una citazione dello storico francese Jacques Julliard ne “Le Monde” di venerdì scorso: «Que serait une gauche sans le peuple? Le socialisme, certes, c’est une moral mais doublée d’une empathie populaire. Or une partie du peuple des gauche fait sécession et exprime un vote de désaffiliation. Il y a surtout 50 pour cent d’abstensions, c’est-à-dire une gigantesque crise du politique, un incontestable malaise dans la représentation. Les professionnels de la politique ont rongé la vie democratique».

Non si poteva descrivere meglio quello che sta accadendo in Francia: «Un paysage bouleversé» che anche in Italia presenta esattamente la stessa crisi: i professionisti della politica stanno distruggendo la democrazia, la sinistra sta perdendo l’appoggio popolare e la sinistra senza il suo popolo non esiste più.
Ed ora citerò un grande discorso che De Gasperi tenne in Parlamento il 17 gennaio del 1953, alla vigilia del voto sulla legge elettorale che pochi mesi dopo fu battuta dalle opposizioni di destra e di sinistra. Fu chiamata legge truffa, ma non lo era affatto; dava un premio al partito o alla coalizione che aveva ottenuto il 50,1 per cento dei voti. «Questa legge non trasforma la minoranza in maggioranza. Se così facesse sarebbe un tradimento della democrazia. Si limita a rafforzare la maggioranza affinché sia più solida e possa governare come è suo diritto. Ma se perdesse il 50 meno un voto sarebbe sconfitta da chi invece prendesse due voti di più. Vi sembra che questa sia un’intollerabile sopraffazione?».
COSÌ diceva De Gasperi. Mettete insieme questi concetti espressi cinquantuno anni fa e quelli de Le Monde di tre giorni fa e vedrete una perfetta identità di ragionamento che descrive in tutta la sua evidenza lo stato della democrazia nel nostro Paese, aggravato in più da altri due fatti salienti: l’abolizione del Senato e una legge elettorale che non solo trasforma in maggioranza una minoranza cui mancano dieci punti percentuali per arrivare al 50 più uno, ma che è anche una legge di «nominati».
Le conseguenze di queste decisioni che stanno per essere approvate tra pochi giorni sono di fatto l’abolizione della democrazia parlamentare. Un Parlamento di «nominati» in un sistema monocamerale è una «dependance» del potere esecutivo che fa e disfà senza più alcun controllo salvo quello della magistratura se dovesse trovare un reato contemplato dal codice penale.
Resta naturalmente la Corte costituzionale ma anch’essa può finire con l’essere una Corte nominata dall’esecutivo se desse troppa noia all’autoritarismo d’un governo a sua volta sottomesso alla decisione d’un autocrate e del suo cerchio magico. Gli interessati si sono assai doluti perché avevamo usato il termine di democratura per descrivere l’essenza di quanto rischia di accadere. Ma quale altra parola lo descriverebbe in modo più appropriato?
Aggiungeteci la ciliegina che riguarda la dipendenza della Rai dal governo che sta per essere decisa tra poche settimane e avrete una gustosissima torta che saranno in pochi a gustare.

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Detto questo ci sono questioni economiche e sociali altrettanto urgenti e importanti da affrontare. Comincerò spiegando che cosa è e da dove proviene quel cosiddetto tesoretto di un miliardo e 600 milioni che improvvisamente il presidente del Consiglio ha estratto venerdì scorso dal cilindro tra la sorpresa del Consiglio dei ministri che stava esaminando la legge di stabilità presentata dal ministro dell’Economia.
A leggere la maggior parte dei giornali le madri del tesoretto sarebbero il miglioramento del Pil, la ripresa dell’occupazione, il mutamento delle aspettative e gli effetti che questo determina sui consumi e sulla domanda. Ebbene, non è così. Il tesoretto viene dagli effetti della manovra monetaria di Mario Draghi che come primo risultato ha prodotto un ribasso consistente del rendimento dei titoli pubblici e quindi una diminuzione di circa due miliardi di euro negli oneri che il Tesoro sopporta per pagare gli interessi sui titoli in circolazione.
Due settimane fa avevo chiuso il mio articolo scrivendo «meno male che Draghi c’è». Non voglio ripetermi, del resto i fatti stanno a provarlo e non solo per quanto riguarda l’Italia ma l’Eurozona nel suo complesso.
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Un altro problemino da chiarire riguarda il Jobs act e il ministro Poletti, che chiacchiera molto e spesso a sproposito. Quale giorno fa, citando fonte Istat e interpretandola a suo modo, informò la pubblica opinione che il primo bimestre di quest’anno, paragonato al corrispondente bimestre dell’anno scorso, registrava una crescita dell’occupazione di oltre 79 mila unità. Poco ma buono, un inizio d’anno comunque confortante.
Gli fu obiettato che doveva tener conto dei contratti stipulati sulla base del Jobs act ma non aveva tenuto conto dei licenziamenti che erano stati nel frattempo effettuati. E così si scoprì che, fatte le debite sottrazioni, il saldo tra nuove assunzioni di precari e licenziamenti era di 44 mila occupati in più.
Molto poco ma pur sempre una cifretta positiva e comunque un indizio confortante che sarebbe certamente aumentato con rapidità. Ma poi, impietosamente, ieri sono usciti i dati dell’Inps sull’occupazione nel suo complesso. Va infatti chiarito che i contratti sulla base del Jobs act non sono vere e proprie assunzioni ma semplicemente un consolidamento di alcune forme di precariato con contratti a tempo indeterminato per tre anni, salvo la facoltà di licenziamento alla scadenza del triennio.
L’Inps invece parla di occupazione e disoccupazione vera e propria, chi lavora sotto qualunque forma contrattuale e chi non lavora affatto. Anche qui il saldo è positivo e sapete qual è la cifra: 13 persone in più. La scrivo in lettere per esser sicuro che la lettura sia corretta: tredici persone in più. Una cifra che percentualmente è espressa con il numero zero perché non è matematicamente percepibile come percentuale.
Questo fatto conferma che Jobs act è una buona legge se e quando riprenderanno investimenti e domanda, ma finché questo non accadrà il Jobs act è un oggetto esposto in vetrina. Gli imprenditori lo guardano ma in vetrina rimane.
Salvo un punto: ha abolito l’articolo 18 per i lavoratori che saranno assunti con quella legge. Proposta da un partito che si proclama di centrosinistra mi ricorda la citazione poc’anzi riportata di Julliard: la sinistra senza popolo è morta. Renzi sostiene che si tratta di una sinistra nuova, moderna, cambiata e forse è vero. Però a me ricorda alcuni personaggi che provenivano tutti dal socialismo e che instaurarono qualche cosa che somiglia molto alla democratura. Si tratta di Crispi, Mussolini, Craxi. E chiedendo scusa ai tre precedenti (come ho già detto tutti e tre provenienti dal socialismo) mi viene anche da aggiungere Berlusconi che ai tempi del suo sodalizio con Bettino si proclamava socialista anche lui.
Io speriamo che me la cavo, è un vecchio detto sempre attuale di fronte a rischi di tal genere.
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In questi ultimi venti giorni sono accaduti fatti orrendi nel mondo: la strage di massa del cosiddetto Califfato che avviene in tutto l’agitatissimo Medio Oriente ma anche in Europa; il fondamentalismo nelle religioni, la strage-suicidio nell’aereo della Lufthansa voluta da un pazzo; il massacro di un altro pazzoide al tribunale di Milano, il tema della tortura e quello della corruzione.
Secondo me c’è stata una sola stella in un cielo così denso di nuvole nere: la stella è papa Francesco, il solo in grado di gestire il presente con lo sguardo verso il futuro. Chi vive il presente e non vede il tempo lungo, chi ama il potere per il potere e non guarda al bene dei figli e dei nipoti, rischia di annaspare in una palude di acque morte.
È quello il rischio, è quello il pericolo che ci sovrasta e neppure Francesco riuscirà ad evitarlo.
Noi abitiamo un Paese di grandi individui e di grande civiltà ma pochi ne hanno goduto. Una aristocrazia di geni che ha educato attraverso i secoli un popolo di persone consapevoli e responsabili, un popolo sovrano ma minoritario in patria. Il resto era plebe fatta di poveri, di deboli, di esclusi, ma anche di corrotti, di tiranni, d’avventurieri, di buffoni e di voltagabbana.
Questo avviene in tutto il mondo, la violenza, la cupidigia, l’avidità, l’avarizia di sé sono dovunque è l’animale uomo, bestia pensante che oscilla di continuo tra l’istintoanimalesco e la coscienza, il bene suo e il bene degli altri. Stiamo attraversando un fine d’epoca dominata dall’egoismo. Non potrebbe essere altrimenti, quando un’epoca tramonta e la nuova non ha ancora preso forma e creato nuovi valori.
Ho scritto molte volte queste riflessioni e mi scuserete se le ripeto. Non sono certo un oracolo e spero sempre di sbagliarmi, ma i fatti purtroppo mi danno ragione o almeno così mi sembra.
Può darsi che la comunicazione di massa che mai prima d’ora aveva raggiunto questa intensità, sottolinei le cattive notizie e trascuri le buone. Comunque suscita nuovi istinti e nuovi pensieri.
L’elemento dominante nel mondo di oggi è la società globale. Questo è il tema del quale tutti dovremo tener conto. Facciamolo questo sforzo: è già il presente ma richiede tempo lungo per essere costruito a misura dell’uomo e non della bestia dalla quale proveniamo.

La Repubblica, 9 aprile 2015

Quale onta peggiore per uno Stato della condanna per aver torturato suoi cittadini? E cos’altro deve accadere per affermare un elementare principio di responsabilità? Quale azienda, quale gruppo sociale lascerebbe ai suoi vertici chi era alla guida del corpo che ha scritto una pagina così vergognosa da procurare la più infamanti delle censure? Per questo il j’accuse di Matteo Orfini verso De Gennaro non dovrebbe destare scalpore. Essendo se mai il minimo sindacale già all’indomani dei terribili fatti di Genova, e tanto più oggi dopo la vergogna nazionale subita con la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Non si tratta qui di responsabilità penale, visto che De Gennaro è stato assolto con l’applicazione degli strumenti a disposizione dei giudici. Si tratta, ben più semplicemente, di responsabilità senza aggettivi. Se guido un corpo dello Stato che può essere anche il più meritevole, e se pure io stesso fossi il più medagliato dei funzionari, e quel corpo si rende attore di una così grave nefandezza, non ci sono alternative, la mia responsabilità deve essere pubblicamente riconosciuta al di fuori e a prescindere da ogni profilo civilistico, penalistico o contabile. Responsabilità, appunto, senza aggettivi. È una regola che dovrebbe valere per tutti.
Non solo: la Corte di Strasburgo ha messo all’indice anche l’inqualificabile condotta successiva della polizia, di autentico ostruzionismo nella individuazione delle responsabilità dei “torturatori”. I giudici europei hanno infatti censurato come la mancata identificazione degli autori dei pestaggi sia derivata dalla «mancanza di cooperazione della polizia», essendo costretta la Corte ad aggiungere il suo autentico stupore «che la polizia italiana abbia potuto rifiutarsi impunemente di apportare alle autorità competenti la cooperazione necessaria all’identificazione degli agenti suscettibili di essere implicati negli atti di tortura».
Anche di questa clamorosa omissione di collaborazione con lo stesso Stato che la polizia rappresenta, è possibile che nessuno debba pagare? Matteo Renzi dice che la risposta sarà l’approvazione della legge sul reato di tortura. Ma si tratta di risposta a metà perché abbandona del tutto il campo del principio di responsabilità che Stato e Governo dovrebbero mettere al primo posto, per non perdere ogni credibilità nei confronti dei cittadini. Peraltro anche la legge, dopo inaccettabile ritardo, rischia di nascere claudicante con il testo uscito dalla commissione della Camera che appare confondere quello approvato dal Senato, allungando peraltro i tempi del varo definitivo. Già a Palazzo Madama infatti si trovò un punto di equilibrio tra la iniziale proposta di Luigi Manconi, che voleva una fattispecie dedicata esclusivamente all’abuso di violenza delle forze dell’ordine, e le esigenze manifestate dai sindacati di polizia di evitare una sommaria criminalizzazione.
Ora però la commissione di Montecitorio chiede all’Aula di condizionare l’accertamento del reato ad una indagine sulle finalità della “tortura” (per estorcere dichiarazioni ovvero per irrogare una impropria punizione), con il rischio paradossale di lasciare fuori la peggiore delle ipotesi che è quella dell’accanimento sadico fine a se stesso, della violenza puramente bestiale. Esattamente come quella avvenuta a Genova. Rischiamo quindi dopo il danno, la beffa di varare una legge che avrebbe difficoltà a punire proprio vicende come quella sanzionate da Strasburgo. Dipende tutto dal Pd che alla Camera può molto semplicemente approvare il testo così come uscito dal Senato, dando almeno una delle risposte che non solo l’Europa ma una elementare coscienza civica ci impone. È lecito attendersi qui da Renzi una determinazione almeno analoga a quella che manifesta sul ben più controverso Italicum.
È il minimo che possiamo pretendere dallo Stato dopo che si è troppo a lungo aspettato, troppo a lungo negato. Affidandoci ancora una volta solo alla supplenza della magistratura peraltro privata di strumenti e ostacolata nei suoi accertamenti, come Strasburgo ha dovuto infine censurare. E pure sarebbe bastato, davanti alla clamorosa evidenza dei fatti, dire «lo Stato chiede scusa ai suoi cittadini, rimuove e non promuove chi aveva posti di responsabilità ». Ed essere per una volta conseguenti. Sarebbe stata a ben vedere anche la migliore autentica difesa dello Stato e della sua Polizia.
l manifesto, 9 aprile 2-15

Ad Ausch­witz, uno dei monu­menti più note­voli tra quelli dedi­cati alle varie comu­nità degli inter­nati è il cosid­detto «Memo­riale Ita­liano». Un paio di anni or sono le auto­rità polac­che deci­sero di chiu­derlo al pub­blico, nel silen­zio del governo ita­liano, e dell’Aned, in teo­ria pro­prie­ta­ria dell’opera. Pochi mesi fa la sovrin­ten­denza del campo, ormai museo, ha deciso di pro­ce­dere alla rimo­zione del Memo­riale. La sua colpa? Quella di ricor­dare che nei lager non furono sol­tanto depor­tati e ster­mi­nati gli ebrei, ma gli slavi, i sinti, i rom, i comu­ni­sti insieme a social­de­mo­cra­tici e cat­to­lici, gli omo­ses­suali, i disa­bili. Quel Memo­riale opera egre­gia, alla cui idea­zione, su pro­getto dello stu­dio BBPR (Banfi Bel­gio­joso Perus­sutti Rogers, il pre­sti­gioso col­let­tivo mila­nese di cui faceva parte Ludo­vico Bel­gio­joso, già inter­nato a Buche­n­wald) col­la­bo­ra­rono Primo Levi, Nelo Risi, Pupino Samonà, Luigi Nono…, ha dei «torti» aggiun­tivi, come l’accogliere fra le sue tante deco­ra­zioni e sim­bo­lo­gie anche una falce e mar­tello, e una imma­gine di Anto­nio Gram­sci, icona di tutte le vit­time del fasci­smo.

Ora, ai gover­nanti polac­chi, desi­de­rosi di rimuo­vere il pas­sato, distur­bano quei richiami, agli ebrei il fatto che il monu­mento

metta in crisi «l’esclusiva» ebraica rela­tiva ad Ausch­witz. Ed è grave che una città ita­liana, Firenze, si sia detta pronta ad acco­glierlo. Con­tro que­sta scel­le­rata ini­zia­tiva si sta ten­tando da tempo una mobi­li­ta­zione cul­tu­rale, che si spera possa avere un riscon­tro poli­tico forte e oggi su que­sto si svol­gerà nel Senato ita­liano una ini­zia­tiva di denun­cia pro­mossa da Ghe­rush 92-Committee for Human Right e dall’Accademia di Belle Arti di Brera. Spo­stare quel monu­mento dalla sua sede natu­rale, equi­vale a tra­sfor­marlo in mero oggetto deco­ra­tivo, men­tre esso deve stare dove è nato, per il sito per il quale fu pen­sato, a ricor­dare, pro­prio là, die­tro i can­celli del campo di ster­mi­nio, cosa fu il nazi­smo e il suo lucido pro­getto di annien­ta­mento, che, appunto, non con­cer­neva solo gli ebrei, col­lo­cati in fondo alla gerar­chia umana, ma anche tutti gli altri popoli, giu­di­cati essere «razze infe­riori» come gli slavi, o i nemici del Reich, comu­ni­sti in testa, o ancora gli «scarti» di uma­nità, secondo le oscene teo­rie degli «scien­ziati» di Hitler.

Insomma, la rimo­zione del Memo­riale, è una rimo­zione della memo­ria e un’offesa alla sto­ria. Ebbene, l’atteggiamento dell’Aned e delle Comu­nità israe­li­ti­che ita­liane, che o hanno taciuto, o hanno appro­vato la rimo­zione del Memo­riale (in attesa della sua sosti­tu­zione con un bel manu­fatto poli­ti­ca­mente adat­tato ai tempi nuovi), appare grave.

E in qual­che modo richiama le pole­mi­che di que­sti giorni rela­tive alla mani­fe­sta­zione romana del 25 aprile.

Pre­messo che la cosa «si svol­gerà di sabato», e dun­que, come ha pre­te­stuo­sa­mente pre­ci­sato il pre­si­dente della Comu­nità israe­li­tica romana, gli ebrei non avreb­bero comun­que par­te­ci­pato, la denun­cia che «non si vogliono gli ebrei», è un rove­scia­mento della verità: non si vogliono i pale­sti­nesi. Ed è grave l’assenza annun­ciata dell’ANED, per la prima volta, anche se la bagarre si è sca­te­nata sull’assenza della «Bri­gata Ebraica». La quale ha le sue ori­gini remote niente meno in Vla­di­mir Jabo­tin­sky, sio­ni­sta estre­mi­sta di destra con legami negli anni ’30 mai smen­titi con Mus­so­lini, che con­vinse le auto­rità bri­tan­ni­che, nella I guerra mon­diale, a dar vita a una Legione ebraica. Nel II con­flitto mon­diale, fu Chur­chill a lasciarsi con­vin­cere a orga­niz­zare un Jewish Bri­gade Group, inqua­drato nell’esercito bri­tan­nico: 5000 uomini che ope­ra­rono in par­ti­co­lare nell’Italia cen­trale, con­tri­buendo alla libe­ra­zione di Ravenna e di altri bor­ghi. Ebbe i suoi morti, e le sue glo­rie. Bene dun­que cele­brarla. Ma non fu né avrebbe potuto avere un ruolo emi­nente, come sem­bre­rebbe a leg­gere certe dichia­ra­zioni. Ma il fuoco media­tico supera il fuoco delle armi. E che dire di ciò che avvenne dopo? Come sto­rico ho il dovere di ricor­darlo. Quei sol­dati diven­nero il nucleo ini­ziale delle mili­zie dell’Irgun e del Haga­nah — quelle che cac­cia­rono i pale­sti­nesi nella Nakba — e poi dell’esercito del neo­nato Stato di Israele, al quale offri­rono anche la ban­diera.

Si capi­sce l’imbarazzo dell’Anpi di Roma, tra l’incudine e il mar­tello. Ma quando leggo che il suo pre­si­dente afferma che «i pale­sti­nesi non c’entrano con lo spi­rito della mani­fe­sta­zione», mi vien voglia di chie­der­gli se gli amici di Neta­nyahu c’entrino di più. Altri hanno dichia­rato in que­sti giorni che biso­gna lasciar par­lare solo chi ha fatto la guerra di libe­ra­zione; ma se così intanto andreb­bero cac­ciati dai pal­chi tanti trom­boni in cerca di applausi; e soprat­tutto se si adotta que­sta logica è evi­dente che tra poco non ci sarà più modo di festeg­giare il 25 aprile, per­ché, ahimè, i par­ti­giani saranno tutti scom­parsi.

E allora — visto l’articolo 2 dello Sta­tuto dell’Anpi che riven­dica un pro­fondo legame con i movi­menti di libe­ra­zione nel mondo — come non dare spa­zio a chi oggi lotta per libe­rarsi da un regime oppres­sivo, discri­mi­na­to­rio come quello israe­liano, rap­pre­sen­tato ora dal governo di destra di Neta­nyahu? Chi più dei pale­sti­nesi ha diritto oggi a recla­mare la «libe­ra­zione»? E invece temo si vada verso que­sto (addi­rit­tura in que­ste ore in forse a Roma) e i pros­simi 25 Aprile inges­sati e reistituzionalizzati.

Il manifesto, 4. aprile 2015

Abbiamo rag­giunto al tele­fono negli Stati uniti Noam Chom­sky. Lin­gui­sta, anar­chico e filo­sofo del Mas­sa­chu­set­tes Insti­tute of Tech­no­logy, Chom­sky è autore di pie­tre miliari del pen­siero moderno e teo­rico per una pro­fonda cri­tica del sistema media­tico. Memo­ra­bile è il suo dibat­tito sulla natura umana con Michel Fou­cault (1971). Abbiamo discusso con Chom­sky dell’intesa pre­li­mi­nare sul pro­gramma nucleare ira­niano, rag­giunta gio­vedì a Losanna e della situa­zione del Medio Oriente.

Che ne pensa di que­sta danza sul nucleare ira­niano, andata avanti per dodici anni?

L’Iran sospetta che nono­stante l’accordo, i Repub­bli­cani si rifiu­te­ranno di can­cel­lare le san­zioni. E così l’obiettivo prin­ci­pale delle auto­rità ira­niane è che le san­zioni non siano sotto il con­trollo del Con­gresso: que­sta sarebbe una tra­ge­dia. Vedremo se que­sto punto ci sarà nel testo defi­ni­tivo. La mia sen­sa­zione è che tutto il nego­ziato sul nucleare sia una farsa. Non c’è nes­sun motivo per cui l’Iran non possa avere un pro­gramma nucleare secondo il Trat­tato di non pro­li­fe­ra­zione (Tnp) che ha sottoscritto.

Per­ché parla di farsa in rife­ri­mento ai col­lo­qui sul nucleare?

Gli Stati uniti e i suoi alleati affer­mano che la comu­nità inter­na­zio­nale ha chie­sto all’Iran di fare delle con­ces­sioni per arri­vare a un’intesa. Ma i Paesi non alli­neati, che rap­pre­sen­tano il 70% della popo­la­zione mon­diale, hanno sem­pre soste­nuto gli sforzi nucleari ira­niani. Eppure la pro­pa­ganda occi­den­tale è uno stru­mento potente, per que­sto è andata avanti per tanto tempo que­sta farsa.

La solu­zione della con­tro­ver­sia potrebbe disin­ne­scare il set­ta­ri­smo che infiamma il Medio Oriente?

La que­stione cen­trale è che gli stati sun­niti sono i prin­ci­pali alleati degli Stati uniti. Gli amici degli Usa sono i fon­da­men­ta­li­sti più estre­mi­sti e vogliono domi­nare la regione. L’Iran è un grande paese, e come la Cina, aspetta per avere un’influenza nella regione. Ma l’Arabia Sau­dita non vuole mai e poi mai un anta­go­ni­sta, un deter­rente. Anche se l’Iran avesse l’atomica, quale sarebbe la pre­oc­cu­pa­zione per gli Stati uniti? Si trat­te­rebbe sola­mente di un deter­rente. Nes­suno pensa che mai e poi mai l’Iran potrà fare uso dell’arma nucleare, per­ché il paese sarebbe vapo­riz­zato all’istante e gli aya­tol­lah di certo non vogliono sui­ci­darsi. Un Iran con il nucleare sarebbe solo un deter­rente con­tro l’aggressività di Israele nella regione. È que­sto che gli Stati uniti non vogliono.

Ma Neta­nyahu non passa giorno che non gridi con­tro l’intesa con l’Iran e ora la respinge?

Israele per­se­gue una poli­tica siste­ma­tica di con­qui­sta di tutto quello che vuole per inte­grarlo nella Grande Israele in vio­la­zione dei trat­tati di Oslo. Gaza è deva­stata. Que­ste poli­ti­che sono appog­giate dagli Stati uniti e, se con­ti­nue­ranno a soste­nere Israele, non cam­bie­ranno mai. In que­ste set­ti­mane, tutta la stampa main­stream Usa ha pub­bli­cato arti­coli in cui si chie­deva agli Stati uniti di attac­care l’Iran. Per­ché la stampa ira­niana non fa lo stesso? Il pre­sup­po­sto occi­den­tale è l’imperialismo. In nome di que­sto prin­ci­pio all’Occidente tutto è permesso.

Esi­stono due posi­zioni oppo­ste tra Repub­bli­cani e l’amministrazione Obama nei con­flitti in Medio oriente?

I Repub­bli­cani sono un par­tito fasci­sta. Lo stesso Barack Obama è ter­ri­bile ma meno dei Repub­bli­cani. Il prin­ci­pale errore di Obama però è la sua cam­pa­gna con i droni. Se l’Iran facesse lo stesso con­tro gli uffi­ciali citati negli arti­coli della stampa Usa, come rea­gi­reb­bero gli Stati uniti? La guerra dei droni è la più grande ope­ra­zione ter­ro­ri­stica mai esi­stita: pro­gram­mata per ucci­dere chiun­que sia sospet­tato di poterci dan­neg­giare. Le ope­ra­zioni con droni in Paki­stan faranno cre­scere il numero dei jiha­di­sti. Quando hanno ini­ziato, al-Qaeda era solo nelle zone tri­bali di Afgha­ni­stan e Paki­stan ora è in tutto il mondo. Ma di que­sto non si può par­lare nei media occidentali.

Crede che biso­gna temere l’avanzata degli Hou­thi in Yemen?

In Yemen è vero che l’Iran dà soste­gno agli Hou­thi, lo stesso fa l’Arabia Sau­dita con i suoi, seb­bene alla fine si tratti di un con­flitto interno. Nella pro­pa­ganda occi­den­tale però se gli Stati uniti sosten­gono una forza quella è legit­tima. In Iraq, l’Iran sostiene il governo eletto. I con­si­glieri ira­niani for­mano la classe diri­gente ira­chena e sono pro­ta­go­ni­sti delle prin­ci­pali bat­ta­glie nel paese. Il governo ira­cheno ha chie­sto l’aiuto ira­niano e rin­gra­zia le sue auto­rità. Ma gli Stati uniti con­dan­nano l’influenza ira­niana in Iraq: è dav­vero comico.

Crede che que­sto atteg­gia­mento occi­den­tale ali­menti il ter­ro­ri­smo dello Stato islamico?

Lo Stato isla­mico è una mostruo­sità, ma non è niente di più che una società off-shore dell’Arabia Sau­dita che pro­paga una ver­sione estre­mi­sta, waha­bita, dell’Islam. Da Riad arri­vano ton­nel­late di soldi e l’ideologia per dif­fon­dere il fon­da­men­ta­li­smo nel mondo arabo. Certo a que­sto punto nep­pure ai sau­diti piace quello che hanno creato. Que­sta è la con­se­guenza diretta dei deva­stanti attac­chi degli Stati uniti in Iraq del 2003 e degli attac­chi della Nato in Libia del 2011 che hanno esa­spe­rato il con­flitto sunniti-sciiti dif­fon­den­dolo in tutta la regione. In Libia que­sto ha com­por­tato l’incremento del numero di mili­zie e una quan­tità di armi senza pre­ce­denti che pro­ven­gono da Africa e Medio oriente. I bom­bar­da­menti della Nato hanno fatto aumen­tare il numero delle vit­time di dieci volte, hanno distrutto la Libia. In Yemen ora Ara­bia Sau­dita ed Emi­rati stanno ucci­dendo una grande quan­tità di per­sone nei campi pro­fu­ghi. Ma anche que­sta guerra è desti­nata a fal­lire e non può com­por­tare altro che la dif­fu­sione del jihadismo.

Pochi mesi fa non par­la­vamo di ter­ro­ri­smo ma di «pri­ma­vere». Esi­ste un rap­porto tra i movi­menti sociali euro­pei e le rivolte in Medio Oriente?

Ci sono delle simi­li­tu­dini. Il mag­gior esem­pio del pas­sato è l’America latina: com­ple­ta­mente sotto il con­trollo degli Stati uniti che impo­ne­vano dit­ta­tori dap­per­tutto. Ora il Sud Ame­rica è abba­stanza libero dal con­trollo stra­niero. Que­sto è uno svi­luppo di grande impor­tanza. Molti poli­tici latino-americani sono legati ai par­titi Pode­mos in Spa­gna e Syriza in Gre­cia. Com­bat­tono tutti la stessa bat­ta­glia con­tro il neo-liberismo. Ma la rea­zione tede­sca alla vit­to­ria di Tsi­pras in Gre­cia è sel­vag­gia, ipo­crita. Nel 1953 l’Europa con­cesse alla Ger­ma­nia di tagliare gli inte­ressi sul debito. Ma ora impone misure repres­sive alla Gre­cia dopo che Ber­lino l’ha deva­stata nella seconda guerra mondiale.

Men­tre i movi­menti in Medio Oriente sono finiti con il ritorno dei dit­ta­tori, come il pre­si­dente egi­ziano al-Sisi?

Stati uniti ed Europa hanno soste­nuto i più bru­tali dit­ta­tori in tutto il mondo. In que­sto momento in Egitto si vivono i giorni più bui della sua sto­ria moderna. Que­sto è l’imperialismo tra­di­zio­nale, il potere della pro­pa­ganda non è cam­biato. I gior­nali in Europa lo descri­vono come un modello nono­stante sia un assas­sino bru­tale, un dit­ta­tore duro che ha represso la popo­lare orga­niz­za­zione dei Fra­telli musul­mani men­tre nel Sinai si con­ti­nua a con­su­mare una guerra.

Il manifesto, 3 aprile 2015


RIPENSIAMO ALL’IRI
di Valentino Parlato

La noti­zia eco­no­mica e poli­tica di que­ste set­ti­mane è che la Cina (quella una volta rossa di Mao Tse Tung) è diven­tata padrona della nostra sto­rica e famosa Pirelli. La nostra stampa, dopo aver cer­cato di assi­cu­rarci che la Cina sarà rispet­tosa dei nostri inte­ressi, con­clude ras­se­gnata: è la glo­ba­liz­za­zione. Come a dire: è il destino, la sto­ria, guar­dan­dosi bene dal pre­ci­sare che siamo al capi­ta­li­smo glo­bale. Anche la Cina “rossa” ha un suo capi­ta­li­smo che dice di gover­nare, ma chissà se è vero.

L’acquisto della Pirelli da parte della Cina, oltre che un po’ di paura, ha susci­tato anche l’invidia del capi­ta­li­smo nostrano, che si è subito affret­tato a dire che anche noi capi­ta­li­sti ita­liani fac­ciamo acqui­sti all’estero. Così il Cor­riere della Sera di lunedì 30 marzo, nelle sue pagine eco­no­mi­che, fa un titolo pre­oc­cu­pato nella prima riga («Made in Italy in ven­dita?») per poi ras­si­cu­rarci nella seconda riga («Ma c’è chi com­pra all’estero»). Ci dice che anche noi ita­liani fac­ciamo acqui­sti all’estero e spiega: è vero che i cinesi si sono com­prati la grande e sto­rica Pirelli, ma imprese ita­liane come Cam­pari, Recor­dati, Luxot­tica, Brembo, Ampli­phon e Ima hanno a segno ben 85 ope­ra­zioni di acqui­sto all’estero. Insomma, leg­gere sulla nostra stampa che non siamo da meno della Cina mi pare piut­to­sto pate­tico. Ma ci sono ancora due obie­zioni. La prima è che i nostri inve­sti­menti non sem­pre ci fanno padroni delle imprese nelle quali sono stati messi i soldi. La seconda obie­zione mi pare ancora più seria: nella situa­zione di crisi della nostra eco­no­mia la Cam­pari, invece di inve­stire all’estero i soldi gua­da­gnati in Ita­lia, avrebbe dovuto inve­stirli nel nostro paese per alleg­ge­rire la disoc­cu­pa­zione degli ita­liani, il cui lavoro ha fatto gua­da­gnare alla Cam­pari i soldi che poi è andata a spen­dere all’estero. In ogni modo com­pli­menti per il Cam­pari Soda.

Ma tor­niamo all’attuale grave crisi, che né il calo del prezzo del petro­lio, né la sva­lu­ta­zione dell’euro hanno fre­nato. La glo­ba­liz­za­zione è cosa troppo grande e com­plessa per le nostre imprese in dif­fi­coltà e che hanno biso­gno di soldi, come afferma anche Mat­teo Renzi. E i soldi (nono­stante le dif­fi­coltà di bilan­cio, può darli solo lo Stato, anche attra­verso la Banca cen­trale euro­pea (il bravo Dra­ghi un po’ di soldi li sta dando, ma non basta).

Ci vuole un serio e forte inter­vento pub­blico, man­dando al dia­volo l’austerità della Troika e di quant’altri. Altri­menti – va detto ad alta voce – anche l’Italia seguirà la Gre­cia, il cui governo sta facendo una lotta dispe­rata per sal­vare il paese. La que­stione di un serio e deciso inter­vento pub­blico va messa all’ordine del giorno.

Quando si parla di serio inter­vento pub­blico il pen­siero va subito all’Iri, nato nel 1933 e morto nel 2002. L’Iri (Isti­tuto rico­stru­zione indu­striale) salvò l’industria ita­liana dalla crisi del 1929 e pro­dusse, nel secondo dopo­guerra, il famoso «mira­colo ita­liano». Ripen­siamo all’Iri e vediamo se si può aprire una seria discus­sione sull’opportunità o meno di rimet­terlo in campo. A tal fine, sono di grande uti­lità i sei volumi sulla sto­ria dell’Iri pub­bli­cati da Laterza. Ulti­ma­mente sono arri­vati in libre­ria il quinto, a cura di Franco Rus­so­lillo, con inter­venti di nume­rosi autori, e “L’Iri nell’economia ita­liana” di Pier­luigi Ciocca, al quale soprat­tutto fac­cio rife­ri­mento per­ché libro costi­tui­sce una con­clu­sione di tutto il lavoro di ricerca sull’Iri e, ancora di più, per la sua espe­rienza nel Diret­to­rio della Banca d”Italia e la sua seria cono­scenza dell’economia ita­liana.

Vengo al capi­tolo finale del libro di Ciocca, che già nel titolo pone il pro­blema che vor­rei porre ai let­tori: «Una nuova Iri?» Riporto di seguito le prime parole, per me assai signi­fi­ca­tive, di que­sto capi­tolo: «Avrebbe gio­vato con­ser­vare l’Iri? Ovvero, avrebbe gio­vato — potrebbe gio­vare una nuova Iri? La rispo­sta è posi­tiva, qua­lora si spinga l’immaginazione a un con­tro­fat­tuale che includa l’Iri nella sua migliore sta­gione: l’Iri mec­ca­ni­smo e non stru­mento, l’Iri dotato di capi­tale del suo prin­ci­pale azio­ni­sta e ampia­mente par­te­ci­pato da pri­vati in mino­ranza, l’Iri com­preso dalla poli­tica e accet­tato nella sua auto­no­mia, l’Iri capace di con­tri­buire allo svi­luppo indu­striale del Mez­zo­giorno, l’Iri impe­gnato nelle atti­vità di R&S, fonte di inno­va­zione e pro­gresso tec­nico dif­fusi nella filiera del sistema produttivo».

Su que­ste parole di Pier­luigi Ciocca vor­rei con­clu­dere. La situa­zione è brutta. Si dovrebbe pro­vare a met­tere in campo l’Iri. Vor­rei aggiun­gere che con­ver­rebbe anche a Mat­teo Renzi, ma sarebbe un pro­getto troppo com­plesso per le sue sem­pli­fi­ca­zioni di breve periodo. Vogliamo discuterne


FINANZCAPITALISMO ALLA PROVERA
di Enrico Carucci

Globalizzazione. Le strategie finanziarie del manager italiano e le prospettive della vendita ai cinesi

A pochi giorni dall’annuncio dell’acquisto di Ansal­doSts e Ansal­do­Breda da parte di Hita­chi, un altro pezzo impor­tante dell’industria Ita­liana passa in mani stra­niere: la Pirelli ha infatti reso noto l’accordo per il pas­sag­gio di pro­prietà al colosso cinese Chem­China. Si tratta dell’ennesima acqui­si­zione di aziende ita­liane da parte di gruppi stra­nieri, un feno­meno che inve­ste la tota­lità del sistema indu­striale, dal tes­suto di pic­cole medie imprese ai grandi mar­chi. Par­ma­lat, pasti­fi­cio Luciano Garo­falo, Per­ni­gotti, Ducati, Inde­sit, Loro Piana, Kri­zia: solo qual­che esem­pio, preso in ordine sparso ma non a caso, per mostrare come tutti i set­tori chiave dell’economia ita­liana ne siano inte­res­sati, dall’agroalimentare alla mec­ca­nica ai pro­dotti di lusso.

Se si pre­sta fede al man­tra del «è neces­sa­rio atti­rare capi­tali stra­nieri», si potrebbe con­clu­dere che ci tro­viamo di fronte a un feno­meno posi­tivo: il nostro Paese è in grado di attrarre finan­zia­tori stra­nieri. Bene, siamo com­pe­ti­tivi e ciò ci per­met­terà di ripren­dere il sen­tiero della cre­scita soste­nuta. Altre voci, più scet­ti­che, vedono in que­ste acqui­si­zioni l’impoverimento e lo smem­bra­mento del tes­suto indu­striale italiano.

Pur non entrando in que­sto dibat­tito, ci limi­tiamo a far notare che il pas­sag­gio di pro­prietà (o della mag­gio­ranza delle azioni) a una società in mano stra­niera ha delle impli­ca­zioni inne­ga­bili per quanto riguarda i flussi finan­ziari a livello paese. A un’entrata una tan­tum nel momenti della ces­sione, fa seguito infatti un’uscita con­ti­nua­tiva di flussi finan­ziari tra­mite i pro­fitti rimpatriati.

La dif­fe­renza tra inve­sti­menti e acqui­si­zioni è cru­ciale. Non si sta par­lando di flussi di denaro che entrano per aumen­tare la capa­cità pro­dut­tiva della nostra eco­no­mia, bensì di un cam­bio di pro­prietà. Inol­tre, nell’ipotetico caso di un governo che deci­desse di ripren­dere a fare poli­tica indu­striale, con­fron­tarsi con part­ner stra­nieri o ita­liani non sarebbe chia­ra­mente la stessa cosa in ter­mini di agenda e priorità.

Chia­ra­mente la nuova lea­der­ship cinese pre­senta della poten­zia­lità da non sot­to­va­lu­tare, come la pos­si­bi­lità di allar­gare signi­fi­ca­ti­va­mente il mer­cato di Pirelli, apren­dolo ai paesi asia­tici. La que­stione chiave, tut­ta­via, sarà capire che parte di que­sti bene­fici rimarrà in Italia.

All’annuncio di Pirelli sono seguite alcune (poche in realtà) cri­ti­che sulla pres­so­ché totale assenza di un’adeguata poli­tica indu­striale da parte del governo, una con­si­de­ra­zione fatta tra gli altri non solo dalla lea­der della Cgil Susanna Camusso, ma anche da una figura non esat­ta­mente vicina ai sin­da­cati come Cesare Romiti. Que­sta cri­tica è stata liqui­data come «nazio­na­li­smo di maniera» da Marco Tron­chetti Pro­vera, il Pre­si­dente non­ché ammi­ni­stra­tore dele­gato della Pirelli, tra le altre cose uno dei mana­ger più pagati di Italia.

Per capire la figura di Pro­vera, è utile far rife­ri­mento a un ter­mine in voga nella teo­ria eco­no­mica: la finan­zia­riz­za­zione dell’economia. Si tratta di un con­cetto non sem­plice da spie­gare, che ha con­fini poco chiari anche all’interno del dibat­tito acca­de­mico. In poche bat­tute, è un pro­cesso che porta la sfera finan­zia­ria dell’economia a pre­va­lere su quella reale: la finanza, la borsa, la spe­cu­la­zione che pre­val­gono sulla indu­stria, l’imprenditoria e la pro­du­zione. Da un punto di vista mana­ge­riale, ci si foca­lizza più sul valore di borsa delle azioni che sulle per­for­mance com­mer­ciali dell’azienda. Que­sto signi­fica avere un oriz­zonte tem­po­rale assai limi­tato. La finanza, è risa­puto, corre molto, ha tempi brevi e poco si adatta a com­plessi pro­getti impren­di­to­riali di lungo respiro.

La linea mana­ge­riale di Pro­vera si è mossa in que­sto solco. Pro­vera con­trolla la Pirelli tra­mite un sistema pira­mi­dale (con del capi­tale crea una società che si inde­bi­terà e potrà com­prare una società più grande che si inde­bi­terà, potendo a sua volta com­prare una società più grande e così via) e ha con­cen­trato tutti i suoi sforzi sul valore di Borsa dell’azienda, indub­bia­mente con qual­che successo.

Le azioni di Pirelli hanno incre­men­tato con­si­de­re­vol­mente il loro valore da quando ne ha assunto la Pre­si­denza. Il lato impren­di­to­riale è stato però messo in secondo piano. Gli inve­sti­menti sono dimi­nuiti, cosi come le spese in ricerca. Ciò, unito alla com­pres­sione sala­riale, può aver favo­rito la red­dit­ti­vità di Pirelli nel breve ter­mine ed aver quindi faci­li­tato la distri­bu­zione di divi­dendi, con­tri­buendo a deter­mi­nare il valore di borsa di un titolo, ma senza coniu­garsi a una con­cor­renza indu­striale in mer­cati sem­pre più aperti e competitivi.

Per­ché le aziende e l’economia ita­liana pos­sano fare fronte alle sfide e alle oppor­tu­nità dell’economia glo­bale e dei mer­cati emer­genti, è fon­da­men­tale avere una classe impren­di­to­riale capace e lun­gi­mi­rante, non­ché una finanza paziente che sia fun­zio­nale all’impresa. E ci vor­reb­bero governi capaci di fare vera poli­tica indu­striale.

Le sca­tole cinesi all’italiana, il capi­ta­li­smo da salotto, una finanza basata sulle rela­zioni, i Tron­chetti Pro­vera non sono adatti ai mer­cati mon­diali, per­ché non ne sono all’altezza. A vederli deci­dere di sot­trarsi ai mer­cati glo­ba­liz­zati e ven­dere un pezzo impor­tante dell’industria ita­liana dopo essersi arric­chiti spro­po­si­ta­ta­mente, ver­rebbe da pen­sare a Schet­tino e urlare «torni a bordo, cazzo». Ma pro­ba­bil­mente è meglio di no.

È meglio che i mana­ger di corto respiro, quelli che spol­pano le aziende — si veda anche il caso Tele­com — e che anda­vano di moda tra i venti e i trenta anni fa negli Stati Uniti (si pensi al Gor­don Gekko di Wall Street di Oli­ver Stone), si levino di torno. In un paese con una lunga sto­ria di pro­du­zione mani­fat­tu­riera come il nostro, biso­gne­rebbe che i bonus dei mana­ger non fos­sero pagati sulla base di obiet­tivi finan­ziari, come nel caso di Mar­chionne, ma sulle per­for­mance indu­striali e gli obiet­tivi di lungo periodo.

In assenza di una classe impren­di­to­riale all’altezza, ci si dovrebbe poter rivol­gere a un governo che inter­venga tra­mite poli­ti­che indu­striali. Ma avrebbe senso aspet­tarsi ciò da un ese­cu­tivo che si rifà a stra­te­gie che erano in auge in Inghil­terra vent’anni fa.

La Repubblica, 3 aprile 2015

L’ATTACCO rivendicato dagli Shabab nel campus universitario di Garissa, di certo il più micidiale da loro compiuto, è un atto d’accusa non solo contro la loro deriva criminale, ma anche contro la spaventosa irresponsabilità dei governanti keniani. Partiti in guerra contro gli islamisti somali nell’ottobre 2011, con l’intento dichiarato di proteggere i propri confini dalle incursioni lanciate nel remoto nord-est del Paese a partire dal territorio confinante, essi si ritrovano tre anni e mezzo dopo con la guerra in casa.

Hanno imposto di recente a un Parlamento in subbuglio leggi antiterrorismo considerate da molti liberticide, ma appaiono incapaci di proteggere i propri cittadini dalla minaccia di attacchi armati, o disinteressati a farlo. Hanno coltivato un sogno di egemonia regionale costruita anche con le armi, e sono finiti in uno scacco mortale in casa propria. Nel campus di Garissa il rettore aveva addirittura messo in guardia gli studenti, invitandoli a rientrare a casa per le festività: c’era qualcosa nell’aria, ma le autorità di polizia non avevano preso alcun provvedimento. Viceversa, soltanto l’altro ieri, il presidente Uhuru Kenyatta se l’era presa contro le allerta lanciate ai turisti australiani e britannici dai governi di Canberra e Londra: un imperdonabile autogol.

La parabola degli Shabab somali è unica nella galassia del terrorismo islamico perché, nati e lungamente cresciuti nella Somalia della guerra civile attraverso una serie di spaccature e scissioni sempre più radicali, essi appaiono ormai sconfitti e residuali in quel Paese — dove tuttavia ancora sono in grado di mettere a segno azioni militari, l’ultima all’hotel Makka Al Mukarama di Mogadiscio il 27 marzo, 14 morti e numerosi feriti — mentre la loro azione si va facendo più minacciosa in Kenya. Anche i Taliban si muovono da sempre a cavallo della frontiera afgano- pachistana; ma in Pakistan erano nati, negli anni 1980, prima di arrivare a prendere il potere a Kabul. Viceversa la matrice degli Shabab è puramente somala.

Durante i lunghi anni della guerra civile somala, attraverso l’ultima decade del secolo scorso e la prima di questo, mentre i signori della guerra combattevano tra di loro un conflitto per bande motivato sostanzialmente dalla brama di controllo territoriale e di guadagno, il movimento islamista cresceva lentamente, a sua volta originato dalla variegata galassia di organizzazioni, partiti e singoli esponenti fondamentalisti, in un processo di continue scissioni e ricomposizioni. Cristallizzatosi nelle cosiddette Corti Islamiche, approfittò dell’estenuazione degli abitanti, ormai stremati dalla costante insicurezza, per imporre il proprio controllo e la sharia sulla quasi totalità del sud somalo. Legge, ordine e mani mozzate. Così le Corti amministrarono per qualche anno Chisimaio e dintorni, poi nel 2006 giunsero fino a Mogadiscio. Ma la conquista della capitale causò l’intervento militare etiopico e l’inizio della loro fine.

Da quella rotta e dalla dissoluzione delle Corti Islamiche emersero gli Shabab, “i giovani”, un movimento più radicale, militarizzato e feroce, sul modello qaedista. Infatti nel febbraio del 2012 annunciarono l’affiliazione ad Al Qaeda, anche se — a differenza di Al Qaeda, portatrice di una visione di “guerra globale” — l’orizzonte degli Shabab è sempre stato somalo. Finché, accusandoli di essere i responsabili di incursioni oltre confine che avevano preso di mira turisti e operatori umanitari, il Kenya non è a sua volta intervenuto in armi in Somalia.

L’operazione Linda Nchi (“proteggere la patria” in swahili) fu lanciata nell’ottobre 2011. Sulle prime rischiò la catastrofe. Poi il coordinamento con gli etiopici e soprattutto con il contingente internazionale dell’Unione Africana che sosteneva il governo provvisorio somalo, fece rapidamente migliorare la situazione. Gli Shabab furono presto in ritirata ovunque, costretti ad abbandonare un centro abitato dopo l’altro. Passati dal controllo territoriale al terrorismo puro, cominciarono a colpire in Kenya, in un crescendo di attentati culminati nell’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi (21-24 settembre 2013, almeno 68 morti). E, oggi, all’università di Garissa.

La Repubblica, 2 aprile 2015
C’È POCO da aggiungere a quello che ha dichiarato nei giorni scorsi Raffaele Cantone, le norme approvate al Senato sono utili ma solo una parte di quel che sarebbe necessario. Non c’è da attendersi miracoli insomma da norme varate dopo un iter tormentatissimo. Difficile nascondersi poi un altro aspetto: non è più rinviabile il risanamento radicale e drastico di un partito che troppo spesso, da Roma a Ischia, a quel futuro sembra attentare più che contribuire. Forse l’indagine svolta nella capitale per il Pd da Fabrizio Barca andrebbe conosciuta meglio ed estesa ad altre realtà: solo per iniziare.

Un iter di oltre due anni e con il governo spesso in grave rischio. Norme, comunque: torna — per un soffio — il falso in bilancio cancellato negli anni berlusconiani ma sono state escluse le intercettazioni per le società non quotate in Borsa. E aumentano le pene per i reati di mafia e per la corruzione nella pubblica amministrazione, e al tempo stesso i poteri dell’Authority. Forse era difficile aspettarsi di più e in questo Parlamento poteva davvero andare peggio, con il Nuovo centrodestra di Alfano (Angelino, lo stesso del lodo) obbligatoriamente all’interno del governo e un Movimento cinquestelle perso nelle sue onnipotenti impotenze.

È evidente la sproporzione fra quel che è rimasto del testo originario e il salto di qualità, lo scatto morale e legislativo che sarebbe necessario. Sulle misure legislative possibili pesano ancora una volta i risultati delle elezioni del 2013, un caso probabilmente unico: con il partito di maggioranza che perde più di sei milioni di voti e il partito di opposizione che non ne guadagna neppure uno ma ne perde a sua volta oltre tre milioni (conseguenza quasi inevitabile di una campagna elettorale totalmente incapace di rivolgersi agli italiani).

Per il Partito democratico, costretto ad innaturali alleanze (anche — di nuovo — per il nullismo grillino), erano le condizioni peggiori per ripartire e non è possibile dimenticarlo.

Anche per questo, leggi inevitabilmente monche devono esser accompagnate e integrate dal centrosinistra con scelte nettissime e costanti sul terreno della moralità e delle regole della politica. Scelte generalissime ma innervate da decisioni quotidiane, da gesti limpidi e da comportamenti coerenti, in un Paese travolto periodicamente da ondate di spaventosa corruzione. È difficilissimo oggi anche solo indicare gli ambiti risparmiati sin qui dai miasmi. O ricordare quanto spesso riemergano quelli già noti, a partire dalle Regioni o dal mondo delle cooperative.

In questo scenario anche le scelte meno rilevanti sono significative, e se ne consideri una non proprio marginale: è una vera indecenza la candidatura in Campania del condannato De Luca, che in base alla legge Severino non potrebbe neppure esercitare il suo mandato. In Campania, luogo non irrilevante nella guerra alle corruttele: e la vicenda suona al tempo stesso come irrisione all’abituale “decisionismo” di Renzi, che in questo caso è apparso afasico e in balia degli eventi. È difficile chiedere disciplina di partito quando si tollera un vulnus così grave, e si consideri anche il coinvolgimento di alcuni sottosegretari in differenti indagini.

Certo, nella normalità della democrazia l’avviso di garanzia non è una condanna (eppure un avviso di garanzia segnò la fine del regno craxiano) ma l’Italia vive da anni una situazione totalmente anomala. È sommersa quotidianamente da scandali che crescono costantemente di intensità. Una anormalità normale, e non ha avuto sufficiente rilievo una notizia di cronaca che sembra segnare negativamente un cambio d’epoca (e speriamo davvero che non sia così): un giudice ha appena assolto i consiglieri regionali della Valle d’Aosta perché... non sapevano di commettere reato usando denaro pubblico per ragioni privatissime (feste, viaggi di familiari, divise da calciatore, cene, modesti gioielli e così via). Andrebbe riletto ogni giorno un lucidissimo articolo di qualche anno fa di Roberto Saviano che indicava proprio nella “corruzione inconsapevole” il salto di qualità che si era compiuto: corruzione inconsapevole, praticare la anormalità come se fosse normale. Smarrire l’idea stessa di confine. Non è una bella notizia che un tribunale della Repubblica la assolva.

Lo storico di domani farà qualche fatica a comprendere le differenti fasi della perversa escalation che abbiamo vissuto: dall’apparente ritorno alla normalità dopo Mani pulite sino al riemergere e all’esplodere di fenomeni che hanno offuscato quelli precedenti. Fenomeni che evocano una colossale e diffusa metastasi nazionale, quasi senza rimedio agli occhi di molti cittadini. Questa era la prima realtà che Renzi doveva “rottamare” e anche su questa base aveva costruito il suo consenso, ma da tempo quella battaglia sembra sbiadita e appannata. Inadeguata. Non assente, certo, e corroborata da scelte importanti come quella dell’Authority anti-corruzione. Non sostenuta però da un tessuto quotidiano di decisioni, dalla riconquista continua dei cittadini alla fiducia nella democrazia: eppure essa è un obbligo assoluto in un Paese che ha visto crollare la partecipazione al voto e quasi trionfare guitti di quart’ordine. Il crescere dell’astensione e il poco declinante credito di Beppe Grillo dovrebbero essere per Renzi un drammatico segnale di sconfitta. Dovrebbero imporre una decisa volontà di rivincita su questo terreno, ma troppo spesso essa sembra latitare: eppure proprio su questo, non sulle preferenze, si gioca il futuro della democrazia italiana.

Il manifesto, 2 aprile 2015

Red­dito minimo garan­tito, que­sto sco­no­sciuto. Lo si con­fonde con il red­dito di cit­ta­di­nanza, oppure con il sala­rio minimo. In Ita­lia, in realtà, non si sa ancora cos’è. Anche que­sto è il segno dell’arretratezza sociale in cui affoga que­sto paese, men­tre que­sta misura ele­men­tare di lotta con­tro la povertà e la pre­ca­rietà esi­ste in tutta Europa, tranne che in Gre­cia. E da noi. Negli ultimi mesi l’infosfera si è fatta trarre in inganno dalla con­fu­sione con­cet­tuale creata dai Cin­que Stelle. Per il movi­mento, infatti, la sua pro­po­sta di 600 euro men­sili (e non i mille pro­messi da Grillo) sareb­bero un «red­dito di cit­ta­di­nanza». Si tratta invece di un red­dito minimo che cor­ri­sponde al 60% del red­dito mediano pre­vi­sto dalla riso­lu­zione del Par­la­mento euro­peo del 10 otto­bre 2010. Non è una misura incon­di­zio­nata e uni­ver­sale – come il red­dito di cit­ta­di­nanza che viene ero­gato a tutti i resi­denti – ma è con­di­zio­nata e selet­tiva, per di più poco garan­ti­sta della libertà dell’individuo e non del tutto con­gruente con i para­me­tri euro­pei sul rispetto della dignità personale.

Nella com­mis­sione lavoro al Senato sono in corso le audi­zioni sulle tre pro­po­ste di legge pre­sen­tate da M5S, dal Pd e da Sel. Quest’ultima ha rac­colto l’eredità della pro­po­sta di legge di ini­zia­tiva popo­lare che ha rac­colto più di 50 mila firme gra­zie allo sforzo di più di 170 asso­cia­zioni e movi­menti da tempo impe­gnati nella lotta per il red­dito minimo garan­tito. Nel frat­tempo Libera, il Basic Income Network-Italia e il Cilap hanno pro­mosso la cam­pa­gna «red­dito per la dignità». La peti­zione ha rac­colto fino ad oggi 75 mila firme e punta a rag­giun­gerne 100 mila. Chiede che il par­la­mento discuta e approvi una legge sul red­dito minimo (e non di cit­ta­di­nanza) entro 100 giorni. La peti­zione è stata fir­mata anche da espo­nenti dei Cin­que Stelle come Luigi Di Majo, oltre che dalla Fiom di Mau­ri­zio Lan­dini. Si tratta di una pro­po­sta di media­zione, con­si­de­rata anche la dici­tura “red­dito minimo o di cittadinanza”.

L’espressione è desti­nata a pro­durre altri equi­voci. In com­penso pro­pone quat­tro prin­cipi per un accordo tra le parti in causa: il red­dito dev’essere indi­vi­duale, suf­fi­ciente, con­gruo e riser­vato a tutti i resi­denti. Per que­ste ragioni non va con­si­de­rato come una misura alter­na­tiva al sus­si­dio di disoc­cu­pa­zione (la «Naspi» o il «Dis-Coll» nel Jobs Act). Non è un sus­si­dio con­tro la povertà asso­luta e non è un sala­rio minimo, cioè la paga ora­ria più bassa, gior­na­liera o men­sile, che i datori di lavoro cor­ri­spon­dono agli impie­gati o agli ope­rai. Il red­dito minimo non va ristretto ad un periodo entro il quale un lavoro «pur­ché sia» dev’essere accet­tato, ma al miglio­ra­mento com­ples­sivo della situa­zione indi­vi­duale. Come dimo­strano le espe­rienze euro­pee, si rischia sem­pre di adot­tare misure ves­sa­to­rie che dan­neg­giano i beneficiari.

Interessante analisi delle diverse forme, ragioni e dinamiche dei movimenti di protesta. «Se i movimenti del 2012 erano quelli dei precari, negli anni seguenti a scendere in piazza è stata la classe impoverita. Le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è evoluta nelle strade». sbilanciamoci.info, 25 marzo 2015

Gli studi sui movimenti sociali hanno sviluppato un insieme di strumenti utile ad affrontare l’azione collettiva durante periodi normali – ovvero periodi ordinati. I sistemi a cui si sono principalmente rivolti sono le cosiddette democrazie avanzate, aventi forme di welfare sviluppate. Le teorie proposte si sono principalmente orientate verso la spiegazione dell’impatto di queste strutture sui movimenti collettivi. La principale aspettativa è che le proteste coinvolgano opportunità e risorse.

In realtà, sappiamo molto meno delle questioni che sono di fondamentale importanza per analizzare il tardo neoliberalismo ed il relativo malcontento, come:
- Movimenti in periodi di crisi, i.e. quando la protesta è scatenata più da minacce che da opportunità
- Movimenti in periodi straordinari, ovvero movimentati, quando l’azione cambia le relazioni
- Movimenti come processi, i.e. come produttori delle proprie risorse e fonte di empowerment

L’attività di ricerca in economia politica ha indicato alcune caratteristiche generali del neoliberalismo: l’emergenza di un libero mercato come ideologia, che indirizza le politiche non verso il ritiro dello stato dal mercato, bensì verso la riduzione degli investimenti nei servizi sociali che diminuiscono le disuguaglianze, e porta protezione al posto del capitalismo finanziario; la privatizzazione dei beni pubblici ed il salvataggio delle banche; la flessibilizzazione del mercato del lavoro, affiancato però a forti attività di regolamentazione, che aumentano le opportunità di trarre vantaggi speculativi.

Questi sviluppi hanno chiare conseguenze sulle basi sociali della politica del conflitto contemporanea. Entrambe le ondate di protesta del 2011 e del 2013 hanno infatti causato nuove tensioni nelle basi sociali della politica del conflitto. Nel 2011, i manifestanti sono stati generalmente considerati, per la maggior parte, come membri di una nuova classe precaria, che era stata fortemente colpita dalle politiche di austerità. Diversamente da quelli del 2011, le proteste del 2013 sono state interpretate come fenomeni del “ceto medio”.

Le informazioni collezionate sul background sociale dei manifestanti non hanno confermato in modo inequivocabile ne’ la tesi della mobilitazione di un nuovo precariato, ne’ quella di un movimento della classe media. In tutte le manifestazioni sono rappresentati una vasta gamma di background sociali: dagli studenti ai lavoratori precari, dai lavoratori manuali e non manuali alla piccola borghesia e ai professionisti. Maggiormente popolate da giovani e figure di elevata istruzione, le manifestazioni hanno anche osservato la partecipazione di altre coorti di età.

Le varie proteste coinvolgono diverse classi sociali, ma non sono un fenomeno tra classi. Tendono piuttosto a riflettere alcuni cambiamenti nella struttura delle classi sociali che hanno caratterizzato il neoliberalismo e la sua crisi: in particolare, la proletarizzazione delle classi medie e la precarizzazione dei lavoratori. Quanto al primo fenomeno, molti studi indicano il declino del potere della classe media, con le tendenze alla proletarizzazione di
a) la piccola borghesia indipendente (come ad esempio la trasformazione delle strutture commerciali che portano all’eliminazione dei negozianti indipendenti a favore delle multinazionali);
b) i liberi professionisti (attraverso processi di privatizzazione dei servizi, creazione di aziende oligopolistiche e de-professionalizzazione attraverso la Taylorizzazione dei compiti);
c) i dipendenti pubblici (attraverso la riduzione dello status e del salario, e attraverso la flessibilizzazione del contratto, etc.).

Per quanto riguarda quest’ultima, la precarizzazione colpisce i dipendenti privati nei settori industriali (attraverso la chiusura dei tradizionali settori fordisti, oltre alla flessibilizzazione delle condizioni lavorative), come nel settore terziario, con l’aumento del lavoro informale, di lavori scarsamente retribuiti, e di condizioni di lavoro precarie.

In sintesi, anziché mobilitare una singola classe sociale, le manifestazioni hanno mobilitato cittadini con diversi background sociali. I movimenti degli anni 2000 sono stati infatti visti come segni di comune opposizione alla mercificazione degli spazi pubblici, in un tentativo di costituzione comunitaria.

Nella mobilitazione di queste vaste e variegate basi sociali, i movimenti sociali in tempi di crisi devono far fronte a specifiche sfide, tra cui la simbolica sfida della costruzione di un nuovo soggetto; la sfida materiale di mobilitare risorse limitate; la sfida strategica di influenzare un sistema politico estremamente chiuso.

Anche se non totalmente limitate da esse, le risposte del movimento alla crisi sono infatti strutturate sulla base delle risorse materiali esistenti (come succede nelle reti di movimento), e anche da risorse simboliche (espresse come cultura del movimento). Questo implica una limitazione delle opzioni disponibili, ma scatena un processo di apprendimento in termini di lezioni dal passato.

Anche se certamente limitati dalle strutture esistenti, una caratteristica dei movimenti nei periodi di crisi è la loro capacità di creare risorse attraverso l’invenzione di nuove strutture, nuovi sistemi organizzativi e nuove forme di azione. In questo senso, per capire le condizioni per l’azione di conflitto, l’attenzione deve spostarsi a ciò che è stato individuato come divenire: non esistono ancora le identità, né sono state costituite; le reti si sono riformate attraverso il superamento di vecchie scissioni. In periodi straordinari, a causa della rottura di vecchie identità e di vecchie aspettative, emerge un nuovo spirito: i movimenti sociali esprimono allora, prima di tutto, il diritto di esistere.

Lo sviluppo di uno spirito nuovo è stato osservato nelle piazze occupate, che hanno caratterizzato il nuovo repertorio di proteste. Esse rappresentano infatti spazi per la formazione di una nuova soggettività, basata sulla ricomposizione di precedenti scissioni e l’emergenza di nuove identità. Le manifestazioni sono quindi da vedere come produttrici di entità emergenti, che vanno al di là dei propri elementi costitutivi. L’attenzione sul divenire affiora attraverso le pratiche che sottolineano l’importanza degli incontri – infatti, viene celebrata nelle varie piazze la diversità delle persone.

In questo senso, come indicato dal percorso evolutivo di Grecia e Spagna, anche se apparentemente in ritirata, le ampie ondate di protesta hanno un carattere costitutivo, e sospendendo vecchie regole ne creano di nuove. In questo modo la democrazia si è evoluta nelle strade.

(traduzione di Alessandro Castiello D'Antonio)

La Repubblica, 29 marzo 2015

DI FATTI politici ed economici ne sono in questi giorni avvenuti quantità innumerevoli ed anche di fatti di cronaca, uno dei quali, quello dell’aereo caduto sulle Alpi francesi, ha trascinato l’opinione pubblica di tutta l’Europa nel mondo dell’orrore e della disperazione.

Insieme ai fatti ci sono i personaggi protagonisti, quelli che non sono identificabili con un solo avvenimento ma con una serie che copre un periodo, guida un percorso, adotta una strategia. Quelli che più ci interessano operano sulla scena italiana ed europea. Non sono molti, è ovvio: i protagonisti tengono la scena riducendo gli altri al ruolo di comprimari o addirittura di comparse. Per capire il meglio possibile ciò che sta avvenendo dobbiamo dunque identificarli, per scriverne pregi e difetti, eventualmente proporre i possibili rimedi, cercando a nostra volta un possibile Virgilio che ci aiuti nel viaggio.

Io quel Virgilio lo indicai già domenica scorsa. Si discuteva del rapporto tra governo e pubblica amministrazione e feci il nome di Marco Minghetti. Visse e scrisse (e governò) 150 anni fa, e credo che come tutti i maestri sia ancora di attualità. Tra le tante cose che disse c’è una frase che trovo molto significativa: «Napoleone governò per vent’anni la Francia e il suo fu un governo che ammodernò il Paese e tutelò l’eguaglianza ma non la libertà e perciò ebbe più difetti che virtù». Ecco, già queste righe mi confermano nell’idea che è un buon Virgilio.

Il personaggio che oggi mi sembra opportuno esaminare è Matteo Renzi. In poco più di due anni è passato dal ruolo di comparsa a quello di protagonista.

Quindi ha se non altro i pregi dell’innovazione, del coraggio e della volontà. Queste doti gli hanno consentito d’essere alla testa del Partito democratico, di farne il più forte partito italiano e portare lui alla guida del Paese. È ispirato dal desiderio d’essere giovevole agli italiani, molti dei quali ripongono in lui la fiducia e quell’obiettivo ha già cominciato a realizzarsi e in tempo breve lo raggiungerà pienamente.

Naturalmente ha anche molti avversari e ancora di più molti perplessi che attendono risultati che ancora non vedono.

Attendendo si astengono dal voto o lo danno ad un movimento (quello di Grillo) che equivale da tutti i punti di vista ad un’astensione fortemente critica. Se si sommano insieme i grillini e gli astenuti così come sono registrati dai vari sondaggi, si astiene più o meno il 60 per cento degli elettori. Quindi la partita che Matteo Renzi sta giocando ha come terreno il 40 per cento degli aventi diritto al voto, ma di quelli che andranno alle urne, ivi compresi i grillini che votano ma non giocano.

Questa è dunque la situazione. Dimenticavo però di dire che un altro elemento fondamentale di Renzi è il suo Narciso. L’amore per se stessi c’è in tutti gli umani e particolarmente in quelli che si occupano professionalmente della conquista del potere. Qualunque potere, quello politico e quello economico in particolare e spesso quei due poteri sono affiancati.

Renzi ama molto se stesso, ma questo è normale. Resta solo da sapere se quest’amore non disturba il suo desiderio di giovare agli altri.

Il mio Virgilio a questo proposito dice che «l’uomo mira all’utile proprio e non all’altrui, anzi è pronto a immolare questo a quello. L’uomo singolo, come l’unione di molti e ogni classe della società e ogni corporazione tendono sempre a esorbitare, uscendo fuori dalla sfera dei loro diritti per invadere gli altrui ». Ma poi concede che questo principio illegittimo può essere contenuto dall’intelligenza di chi governa e vuole essere di giovamento agli altri sicché tiene per la briglia il suo Narciso affinché gli altri gli rinnovino la fiducia e rafforzino il suo ruolo di protagonista.

* * *

Io credo che questo progetto corrisponda alla politica di Renzi e quindi possa essere di qualche giovamento anche al Paese. Ma è dunque indispensabile per produrre questi effetti per lui positivi che il potere effettivo si concentri nelle sue mani. Questo spiega molte cose, la prima delle quali è un progressivo indebolimento dei vari ministeri e la costruzione di uno staff a palazzo Chigi capace di determinare le linee concrete dell’azione governativa. La prova più recente è quella del suo interim al ministero delle Infrastrutture e Trasporti che doveva durare pochi giorni e durerà invece più a lungo, almeno fino a quando Renzi non lo avrà completamente disossato; lo scheletro rimane ma la polpa se la porta alla presidenza del Consiglio.

Così si spiega anche l’abolizione del Senato e soprattutto dei senatori che non saranno scelti dal popolo ma dai consigli regionali. L’effetto come più volte abbiamo sottolineato è la costruzione d’un sistema monocamerale con una Camera in gran parte “nominata” dal segretario del partito di maggioranza, il che significa che il governo ha la Camera a propria disposizione e non viceversa come in teoria la democrazia parlamentare prevede.

Questo sistema risulta ulteriormente aggravato dal fatto che la legge elettorale denominata Italicum è dominata dal principio della governabilità mentre non trova spazio alcuno il principio di rappresentanza; l’effetto di tutto il sistema che abbiamo considerato è evidentemente quello di evocare la tentazione dell’autoritarismo. Non è detto che si ceda a questa tentazione ma certo ne esistono tutte le condizioni perché il solo freno a questa deriva resta il capo dello Stato. Un freno tuttavia limitato ai poteri arbitrali di cui il presidente della Repubblica dispone, basati certamente sulla Costituzione come principio ma in pratica sulla legislazione ordinaria la quale ultima è in larga misura nelle mani del presidente del Consiglio date le tante circostanze qui ricordate.

In questo quadro si iscrive anche l’eventuale conquista della Rai. Che una riforma della maggiore istituzione culturale del Paese sia opportuna, se non addirittura necessaria, è evidente ma non dovrebbe avere come elemento fondamentale il passaggio dei poteri dal Parlamento e quindi dai partiti al governo. La nomina dell’amministratore delegato dell’azienda, dotato di poteri quasi assoluti, è formalmente del consiglio d’amministrazione ma nella pratica non è così anche perché quel consiglio è di fatto nominato — come del resto è giusto che sia — dal governo e in teoria dal ministro dell’Economia che ha la completa proprietà dell’azienda. L’ideale sarebbe affidare la scelta dei consiglieri d’amministrazione e dell’amministratore delegato ad una Fondazione composta da persone non politiche ma autorevolissime per i meriti acquisiti nei vari campi del loro interesse culturale. La Bbc inglese è per l’appunto sotto la tutela di una fondazione di questo tipo che le consente piena libertà d’azione. È sperabile che la legge opti per questa soluzione, ma è un auspicio che sicuramente non sarà raccolto.

* * *

Il tema della corruzione è un altro con i quali il governo dovrà misurarsi, anzi ha già cominciato. Il mio Virgilio ne sa assai poco di questo tema: lui fu uno dei dirigenti della Destra storica e nella fase in cui fu la destra a governare la corruzione era pressoché assente dalla società e dallo Stato. Oggi la corruzione è un malanno molto diffuso, dovunque nel mondo e in Italia in particolare. Su questo tema mi dovrò ripetere perché non solo io ho già scritto più volte ma altri come e meglio di me: intellettuali “disorganici”, operatori, esperti e politici di buon conio (rari).

La prima distinzione da fare è tra il reato penale (le cui pene sono state aumentate nel disegno di legge in discussione) e il codice etico che dovrebbe essere applicato dalla pubblica amministrazione attraverso le necessarie inchieste effettuate anzitutto sulla medesima pubblica amministrazione e poi anche dal consiglio della magistratura per quanto lo riguarda e dal governo sui suoi membri. Quello che abbiamo chiamato codice etico si può anche chiamare con più chiarezza un peccato e la distinzione è dunque fra il peccato e il reato. La punizione del peccato non può prevedere restrizioni della libertà personale ma semplicemente sospensione o rimozione dall’incarico e relativa denuncia, ove ne ricorrano gli estremi, alla magistratura. Per il reato vale il principio della presunta innocenza fino a sentenza definitiva, per il peccato questo principio non vale e quindi una volta acquisiti i risultati delle varie inchieste, la punizione può e deve avvenire subito, come del resto è avvenuto nel caso Lupi. Si continua dunque a non comprendere le ragioni per le quali nel governo esistano ancora quattro persone che mantengono la loro attività governativa nonostante siano oggetto di indagine giudiziaria. E non si comprende neppure perché esistano dei candidati del Partito democratico per i quali ricorrono tutti i requisiti del “peccato” (ovviamente anche i partiti debbono indagare sugli eventuali peccati dei loro membri).

* * *

Un altro rimedio per diminuire il rischio d’un governo che abbia una vocazione autoritaria riguarda la creazione di corpi intermedi e su questo tema il mio Virgilio la sapeva lunga: «Ministri, senatori, deputati e uomini politici di ogni sorte hanno una tendenza ad insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione per trarne profitto per se medesimi e per gli aderenti ai loro partiti per mantenere il governo nelle proprie mani. Codesto pericolo che spunta sempre dove il governo di partito cresce e giganteggia si svolse storicamente per una serie lunga e non interrotta di ampliamenti e di adattamenti. Ma il vero rimedio è quello di creare o favorire le istituzioni autonome, gli enti morali e le associazioni che tengano insieme una parte dei cittadini. Con cittadini disgregati ogni conato di resistenza sarà vano ed è per questo che le democrazie sgranate si acconciano facilmente ad un padrone e purché egli rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà. L’associazione, organizzandole, raddoppia le forze dei singoli che la compongono, le disciplina e le prepara a resistere ad ogni usurpazione. Ho sovente considerato quanto poco ci siano istituzioni del genere in Italia rispetto a tutti gli altri Paesi d’Europa ».

Questi corpi intermedi che il Minghetti auspicava poiché ne sentiva la mancanza già all’epoca sua, dovrebbero dare oggi in Italia maggior peso alle forze sindacali che rappresentano gli interessi di categorie e le tutelano attraverso i contratti ma hanno anche un interesse politico per rafforzare i diritti dei lavoratori. A questo proposito è interessante la nascita della Coalizione sociale la quale ha promosso ieri una manifestazione nelle strade di Roma per iniziativa del sindacato Fiom e alla quale ha partecipato anche tutta la segreteria della Cgil. Quell’associazione si propone di rappresentare i lavoratori non più per categorie né per luoghi di lavoro né con modalità contrattuali ma di fare in modo che la politica generale del Paese tenga conto del lavoro e dei lavoratori come del resto è previsto addirittura nel primo articolo della nostra Costituzione.

D’altra parte i sindacati hanno sempre partecipato alla politica generale dai tempi di Lama, di Trentin, di Cofferati e dei loro successori. Da questo punto di vista la concertazione costruita da Amato, da Ciampi e da Prodi fu uno dei passaggi fondamentali che consentì la creazione della moneta comune europea con la partecipazione fin dall’inizio dell’Italia. Era stata ottenuta attraverso una politica di moderazione salariale che fu riconosciuta più volte nelle conclusioni finali che ogni anno il governatore della Banca d’Italia legge nell’assemblea generale dell’istituto.

Bisognerebbe dunque che questi corpi intermedi e in particolare quelli dei lavoratori fossero sviluppati e opportunamente riconosciuti.

C’erano alcuni altri temi molto importanti da trattare fin da oggi, di politica estera, di terrorismo, dell’andamento dell’economia e della congiuntura. Ne parleremo nel prossimo futuro. Per ora mi limito ad attirare l’attenzione su quello che sta accadendo sul mercato monetario. Draghi sta portando l’Europa fuori dalla deflazione e sta favorendo in ogni modo una ripresa del finanziamento delle banche alla clientela, un aumento della domanda interna e delle esportazioni e quindi dell’occupazione. L’ho già scritto una volta ma lo ripeto. Meno male che Draghi c’è.

Il manifesto, 29 marzo 2015

Se la misura della piazza serve a far capire la forza delle oppo­si­zioni sociali di un paese, si può dire senza dub­bio che piazza del Popolo a Roma ha dato un grande segnale. Con qual­che novità rispetto a molte mani­fe­sta­zioni degli ultimi anni. La pre­senza di tanti gio­vani, e quindi non solo dei valo­rosi pen­sio­nati della Cgil che di solito riem­piono i cor­tei sin­da­cali; il ritorno di molte ban­diere rosse, non del vec­chio Pci e tan­to­meno di quelle sbia­dite del Pd, ma della Fiom; l’entusiasmo della gente che si è ritro­vata per espri­mere un punto di vista che oggi non ha la neces­sa­ria rap­pre­sen­tanza politica.

Natu­ral­mente una piazza non fa pri­ma­vera, anche se la gior­nata era piena di sole e Mau­ri­zio Lan­dini, il pro­ta­go­ni­sta della mani­fe­sta­zione, con la segre­ta­ria gene­rale della Cgil, Susanna Camusso a fare da potente spalla dell’iniziativa, ha voluto sot­to­li­neare che una «nuova pri­ma­vera per il paese è iniziata».

Ma la “pro­te­sta” di ieri forse rap­pre­senta l’inizio di un pro­cesso trai­nato da un’idea forte di rin­no­va­mento delle forze sociali e sin­da­cali, poli­ti­che e di movi­mento, un’idea rias­sunta dallo slo­gan della mani­fe­sta­zione, «Unions», tra­du­ci­bile in un ritorno alle radici del sin­da­ca­li­smo. Che il segre­ta­rio della Fiom, nel suo discorso con­clu­sivo, ha rias­sunto con i ripe­tuti rimandi all’idea fon­da­tiva della Cgil di Di Vit­to­rio: di un sin­da­cato delle Con­fe­de­ra­zioni, così diverso da un sin­da­ca­li­smo cor­po­ra­tivo, basato sulla com­pe­ti­zione dei lavoratori.

E’ la spinta verso un ripen­sa­mento pro­fondo della natura del sin­da­cato, det­tata sia dalle scon­fitte subite con il pro­getto con­fin­du­striale che mar­cia spe­dito sotto le ali del governo, sia dalla per­dita di rap­pre­sen­ta­ti­vità pro­dotta da una crisi eco­no­mica che ha allar­gato il mare della disoc­cu­pa­zione e pro­dotto un eser­cito di pre­cari fuori da ogni tutela e diritto. Così chi oggi ha ancora un lavoro deve subire il comando pieno dell’impresa (abo­li­zione dell’articolo 18, deman­sio­na­mento, con­tratti nazio­nali pol­ve­riz­zati dalla catena per­versa del sistema degli appalti), e chi un lavoro lo cerca è merce di scam­bio e mano­va­lanza per la feroce guerra tra poveri.

Più che una fan­ta­sia, una vel­leità o una scor­cia­toia, la coa­li­zione sociale è una neces­sità vitale per rico­struire la figura del cit­ta­dino lavo­ra­tore (come appunto indi­cava Di Vit­to­rio quando negli anni ’50 già par­lava di uno sta­tuto del «cit­ta­dino lavo­ra­tore»). E coa­li­zione sociale vuol dire una cosa sem­plice: rico­struire le basi di una par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica, dun­que poli­tica, ai destini dell’Italia.

Per­ché chi oggi accusa il segre­ta­rio della Fiom di voler fare l’ennesimo par­ti­tino dovrebbe piut­to­sto doman­darsi come è stato pos­si­bile arri­vare a que­sto disa­stro sociale, a un così forte ridi­men­sio­na­mento del ruolo del sin­da­cato, alla nega­zione dei diritti. E anche inter­ro­garsi sulla subal­ter­nità, que­sta sì poli­tica, verso governi o par­titi amici di quel «gia­guaro» che nes­suno ha smac­chiato e in molti hanno nutrito.

Ritro­vare una sog­get­ti­vità poli­tica diventa un biso­gno natu­rale e l’alleanza con tutte le realtà asso­cia­tive che non si ras­se­gnano è una via mae­stra per raf­for­zare l’opposizione a un governo ricco di slo­gan almeno quanto è povero di un inno­va­tivo pro­getto di svi­luppo. Per­ché met­tere in pra­tica la linea di Squinzi, o una riforma costi­tu­zio­nale ed elet­to­rale di regres­sione verso forme di ple­bi­sci­ta­ri­smo media­tico non sem­bra dav­vero una grande novità. Né in Ita­lia, né in Europa. Come direbbe Lan­dini «non rac­con­tia­moci di balle». Che fa tra­bal­lare la sin­tassi, ma si capisce.

Domani è il com­pleanno di Pie­tro Ingrao. Cento anni applau­diti da tutto il popolo della piazza quando Lan­dini ha ricor­dato il giorno in cui, da pre­si­dente della Camera, si recò, come primo atto pub­blico, alle Accia­ie­rie di Terni per rivol­gersi agli ope­rai chia­man­doli «i costi­tuenti». Un mes­sag­gio a chi ha scarsa memo­ria del paese che pre­tende di governare

La Repubblica, 29 marzo 2015

Le mille bandiere che colorano di rosso piazza del Popolo garriscono più forte al vento, quando Maurizio Landini lancia la sua scomunica, l’accusa dalla quale non si può più tornare indietro: Renzi è peggio di Berlusconi. E’ lui, il leader del Pd, il vero nemico dei lavoratori. Perché è il presidente del Consiglio, e non gli industriali metalmeccanici, l’obiettivo numero uno di questa adunata generale convocata a Roma del leader della Fiom, un fiume di gente che ancora continuava ad arrivare in una piazza già strapiena quando già avevano parlato i primi tre oratori. E infatti è a Renzi, che Landini grida che «ci siamo stancati degli spot elettorali, delle slide e delle balle ». E’ a Renzi, anzi «a questi giovani ragazzi che stanno al governo», che manda a dire che «pensiamo di avere più consenso di quello che hanno loro». E’ a Renzi, che rivolge l’accusa di «aver adottato la logica padronale», e poi anche quella di «mettere a rischio la nostra democrazia». Ed è a Renzi, che lancia la sua sfida contro il Jobs Act: «Noi non ci fermeremo finché non avremo cancellato questa legge sbagliata».

Portare in piazza gli italiani che non ci stanno: che fosse questa, la vera parola d’ordine della manifestazione organizzata dai metalmeccanici della Cgil con un titolo anglosassone, «Unions!», l’avevano capito tutti, a cominciare dal gruppone milanese che è arrivato per ultimo in piazza della Repubblica per l’inizio del corteo, e mentre saliva le scale mobili della metropolitana cantava a squarciagola, tra bandiere rosse e campanacci, «Abbiamo un sogno nel cuore/ Renzi a San Vittore» (lo stesso coro che a suo tempo veniva dedicato a Bettino Craxi). E per quanto Su- sanna Camusso — accolta con un bacio di Landini ma tenuta lontana dal microfono — si sforzi ora di minimizzare l’impatto politico dell’evento, e precisi gelidamente dai gradini del palco che «in questa piazza ci sono i lavoratori metalmeccanici iscritti alla Cgil, che giustamente sono in lotta perché la legge delega sul lavoro riduce i diritti», si avvicina di più alla verità Nichi Vendola, guest star del corteo, quando spiega la vera ragione che ha spinto queste diverse anime del popolo di sinistra, queste cinquanta sfumature di rosso, a convergere su Roma nel primo sabato di primavera: «E’ ora che tutti coloro che non si adeguano all’idea che ci sia un uomo solo al comando, e che non si rassegnano a una deriva autoritaria, facciano massa critica».

E mentre il corteo passava davanti al Grand Hotel, sfidando gli sguardi curiosi ma stupiti dei suoi ospiti, sembrava di fare un viaggio indietro nel tempo risentendo gli stessi cori che — forse cantati dalle medesime voci — risuonavano quasi mezzo secolo fa, «Il potere dev’essere operaio», o ascoltando le canzonette anni Settanta del rivalutato Rino Gaetano che il furgone di testa mandava a palla, a cominciare da Nuntereggaepiù: «I ministri puliti/ i buffoni di corte/ ladri di polli/ super pensioni/ ladri di stato e stupratori/ il grasso ventre dei commendatori/ diete politicizzate/ evasori legalizzati/ auto blu/ sangue blu/ cieli blu/ amore blu/ rock and blues/ nuntereggaepiù!».

Ma se il canto che animava quel variopinto e allegro serpentone in cui si mescolavano anziani militanti e studenti barricaderi era «Bella ciao» — l’inno che tutta la piazza canterà alla fine della giornata — il vero segno unificante è la bandiera rossa. Accanto a quelle della Fiom sventolano le bandiere rosse di Rifondazione, le bandiere rosse della lista Tzipras e persino qualche bandiera rossa del Pci, tirata fuori da chissà quale armadio. Un coraggioso metalmeccanico modenese temerariamente prova ad alzare la bandiera del Pd, ma è subito circondato da gente che gli urla minacciosamente «Via, via, quella bandiera! ». E lui, sia pure protestando («Intolleranti, vergognatevi ») deve ripiegarla e rimettersela nello zaino.

Landini, intanto, marcia dietro lo striscione della Fincantieri. Cosa significano tutte queste bandiere rosse? Lui prima finge di ignorare il senso della domanda: «Significano che il lavoro vuole essere rappresentato ». Poi però sorride, e aggiunge: «A me le bandiere rosse mettono il buonumore». E allora alle sue spalle parte partito il coro: «Avanti o popolo/ alla riscossa/ Bandiera rossa/ Bandiera rossa!».

Adesso quelle bandiere rosse punteggiano piazza del Popolo, salutate dallo speaker che annuncia: «Noi siamo le persone perbene, siamo il Paese reale!». Sventolano per salutare Rodotà, salito sul palco nonostante una recentissima frattura alla gamba, che usa l’ironia per attaccare Renzi: «Non sono un professorone pigro. Sono qui con le stampelle». In piazza ci sono anche parlamentari del Pd, testimoni di un dissenso sempre più evidente. «Sono qui per colmare un deficit di rappresentanza, visto che il governo è molto più vicino ai poteri forti» dichiara Stefano Fassina, mentre Pippo Civati ricorda che lui il Jobs Act non l’ha votato e Rosy Bindi avverte che «anche chi è contro il governo deve essere ascoltato».

E’ il battesimo di un nuovo soggetto politico? Landini lascia tutti nel dubbio, ripetendo alla fine del suo comizio che lui non vuol fare un partito «ma il sindacato deve avere una sua soggettività politica». Poi conclude citando, significativamente, papa Giovanni XXIII: «Quando sei per strada e incontri qualcuno, non gli chiedere da dove viene ma chiedigli dove va, e se va nella stessa direzione, cammina insieme a lui». E chi vuole intendere intenda.

La Repubblica, 28 marzo 2015

Spaccarsi per una piazza che non ti vuole. È il paradosso che imbriglia il Pd di lotta, in corteo con la Fiom e contro i democratici di governo. Toccherà a Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati e forse Gianni Cuperlo manifestare oggi per le vie di Roma, fino al comizio finale di Maurizio Landini. Dichiarerà guerra a Palazzo Chigi, si intesterà la battaglia per abolire il Jobs act con un referendum. Ma i riflettori sono già puntati sul futuro, quando la Coalizione sociale tenterà di scalare la Cgil e, chissà, anche la sinistra.
Due settimane dopo la prima riunione a porte chiuse in un seminterrato di corso Trieste, la struttura di Landini inizia a prendere forma in piazza del Popolo. Arriveranno in migliaia. Trecento pullman, bandiere dei metalmeccanici e i colori dei poster della prima campagna presidenziale di Obama. L’obiettivo è radunare cinquantamila persone, provando a immaginare nuove “Unions”, che è anche lo slogan dell’evento. La colonna sonora, neanche a dirlo, seguirà lo spartito degli storici canti operai del gruppo “Il muro del Canto”. Sul palco interverranno rappresentanti di Libera (con il suo “reddito di dignità”) e delegati Fiom, insegnanti della Cgil, studenti e i movimenti per la casa. Sarà proiettato un saluto di Gino Strada (Emergency) e letto un messaggio di Gustavo Zagrebelsky. E parlerà anche Stefano Rodotà.
Su un punto, però, il leader non transige: braccia aperte ad associazioni e movimenti (Arci, Giustizia e libertà) porte sprangate per le vecchie sigle. Certo, ci sarà Nichi Vendola nonostante il gelo degli ultimi mesi. E pure, come detto, frammenti della minoranza dem. «Visti da fuori - li ha massacrati Landini sull’Espresso - alcuni esponenti sembrano interessati soprattutto alla ricandidatura». Previsioni impietose. L’altra faccia della medaglia, quella renziana: «Hanno visto i dati positivi sull’occupazione? - domanda il vicesegretario dem Lorenzo Guerini - Quanto ai nostri, manifestano con chi si oppone al governo guidato dal loro segretario... Fatico a comprendere, lo ammetto».
Fuori dalla Coalizione sociale, in effetti, è tutto un rebus targato Pd. Con Matteo Renzi che ridimensiona - «è una manifestazione contro il governo, “no news”, non c’è titolo» -, la pattuglia bersaniana che si sfila e un altro pezzo di minoranza dem che spera di costruire un ponte. «Sarò lì per ascoltare - spiega Bindi - E anche un grande partito di centrosinistra dovrebbe ascoltare». Non che tutto fili liscio, anzi: «Sento la contraddizione - ammette Stefano Fassina - e mi preoccupa che tanti lavoratori avvertono il Pd lontano».

La tabella di marcia delle “Unions” di Landini è serrata: ad aprile un appuntamento per stilare il programma, poi le prime sedi territoriali e a maggio la convention nazionale. Una corsa senza respiro, mentre la sinistra politica antirenziana arranca. Fino a dove? Fino all’opa sulla Cgil, che Susanna Camusso proverà a contrastare affacciandosi in piazza del Popolo (l’intervento dal palco, invece, è ancora in bilico). E soprattutto fino a una nuova forza politica, nonostante l’estenuante pretattica: «Io resterò nel sindacato - giura Landini - ma chi partecipa al percorso risponderà al vuoto di rappresentanza ». Un partito, appunto. «Il dilemma lo risolverà Maurizio», taglia corto Civati. «Noi sforziamoci di non dividere la sinistra».

L'Espresso, 2 aprile 2015 (m.p.r.)

Lo scorso autunno una delegazione libica sbarca a Roma per discutere della Coastal road. È l'autostrada che il governo italiano ha promesso al fu Muhammar Gheddafi nel 2008, con Silvio Berlusconi premier e Altero Matteoli ministro delle Infrastrutture, per compensare i danni della colonizzazione sabaudo-fascista. Lo schema dell'accordo, mantenuto anche dopo la caduta del Colonnello, prevede che la società pubblica Anas international enterprise, controllata al 100 per cento dall'Anas, si occupi del progetto e della direzione lavori. La Libia può scegliere le imprese, purché siano di preferenza italiane (Salini-Impregilo, Cmc, Condotte, Pizzarotti). L'incontro romano si svolge in un'atmosfera surreale. I libici si sentono dire che alla direzione lavori sulla Ras Ejdyer-Emssad Motorway parteciperà anche la Ingegneria Spm di Stefano Perorti. No problem, rispondono. Sanno bene che in questo momento la costruzione di un'autostrada è più probabile su Marte che nella Libia devastata da tre anni di guerra civile e dall'attacco dello Stato Islamico. Ma conoscono gli italiani e sanno stare al gioco. E in gioco per adesso non ci sono i 2,3 miliardi di euro della Motorway costiera ma i 12.5 milioni di euro di consulenze tecniche e amministrative bandite a gara dall'ambasciata di Tripoli ma pagate con fondi degli ex colonizzatori.
L'inchiesta "Sistema" della Procura di Firenze rivelerà che la Spm è stata imposta da Ercole Incalza, il burattinaio del Mit, arrestato insieme all'ingegnere Perotti. Per l'autostrada libica è finito sotto inchiesta anche il direttore generale di Anas international, Fabrizio Averardi Ripari, che oggi si difende dicendo di avere subito le pressioni di Incalza per inserire Spm nel business libico. E la stessa tesi che ha rilanciato in termini generali Pietro Ciucci, dominus uno e trino dell'Anas secondo la definizione del capogruppo Pd al Senato Luigi Zanda. Secondo Ciucci, intervistato da Repubblica, i general contractors, ossia i grandi costruttori, sono appoggiati dai politici o dai grand commis del ministero e l'Anas è loro ostaggio.
Si potrebbe eccepire che un ostaggio, al contrario di Ciucci, non riceve ricchi emolumenti e non può dimettersi quando vuole. Ma la questione esiste, e da parecchi governi. II Partito democratico nemmeno era alle viste nel 2003 quando il senatore dell'Ulivo Zanda e i suoi colleghi Paolo Brutti e Anna Donati presentavano la prima interrogazione parlamentare sul "Sistema" che accentra progettazione e direzione lavori delle opere pubbliche nelle mani di un oligopolio. Nell'ultimo decennio giovani e meno giovani leoni dell'ingegneria hanno prosperato. I contraenti generali li nominavano come progettisti o direttori dei lavori, spesso con l'intermediazione interessata di sponsor politici. L'effetto è stato l'asservimento della tecnica al profitto.
Dalla Legge obiettivo di Berlusconi (2001) il settore è stato lottizzato a vantaggio di imprenditori privati dell'engineering e a scapito delle professionalità interne di società pubbliche come la stessa Anas o l'Iralferr (gruppo Fs) guidata un tempo da Giulio Burchi, un altro indagato di "Sistema". Ha fatto comodo a tutti. Alle imprese di costruzione, che guadagnano con le perizie di variante concesse dalla committenza pubblica su imbeccata dei tecnici. Ai controllori pubblici che, invece di controllare, si sono arricchiti con i collaudi. Ai tecnici che sono nominati dai contraenti generali, che incassano fra lo 0,7 e l'1 per cento dell'importo lavori e che hanno spesso una filiale straniera per smistare il nero. Ai politici, che fabbricano consenso con le inaugurazioni e ricevono favori sotto varie forme, dal versamento estero su estero all'assunzione dei figli, com'è accaduto all'ex ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi.
Nelle carte dell'inchiesta fiorentina sono citati vari progettisti di primo piano. Alcuni non sono indagati. Nel Sistema non è necessario commettere un reato. Basta che ognuno sappia trovare il suo posto in una lottizzazione dove i grandi hanno un giro d'affari a sette zeri e i meno grandi ricavano comunque 4-5 milioni di euro l'anno.

L'infinita metro C
Di Perotti si è detto che la sua specialità sono le vie ferrate, metropolitane o treni. Con il completamento della linea dell'alta velocità (Torino-Milano-Napoli) la Spm ha allargato il perimetro verso il settore stradale prendendo tre lavori sulla Salerno-Reggio. Tecnico molto apprezzato da Incalza, Perotti ha diretto il macrolotto 2 in Basilicata (200 milioni di euro di extracosti) per conto del consorzio italo-spagnolo Sis guidato da Claudio Dogliani. Con Pizzarotti ha gestito il macrolotto 4h e con la cooperativa Cmc il tratto Atcna Lucana-Sicignano. Poco prima che l'ingegnere romano venisse arrestato, un altro intervento sulla Salerno-Reggio (macrolotto 3.2) ha creato qualche problema alla Spm, con il crollo del viadotto Italia e la morte di un operaio.

Una vera maledizione visto che Spm è subentrata nella direzione lavori dopo l'esclusione di Giuseppe Marascio ingaggiato dalla Technical di Alessandro Mazzi, arrestato per l'inchiesta sul Mose. Marascio, un tempo molto vicino agli ambienti di An e all'ex ministro Matteoli, oggi indagato per il Mose, sta valutando se presentare ricorso contro la decisione dell'Anas attraverso il figlio Francesco, avvocato amministra-tivista e autore di un testo giuridico sulla revisione prezzi nei lavori pubblici con prefazione dello stesso Matteoli. Nel curriculum di Perotti spicca la direzione lavori della tratta Colosseo-San Giovanni della metro C di Roma (Astaldi, Caltagirone, Ansaldo Sts e Lega coop). In ritardo di anni, esplosa nei costi, la Metro C ha una delle commissioni di collaudo più care della storia per un totale di oltre 7 milioni di euro pagati da Roma metropolitane ai tre commissari Giuseppe Ricceri (3,3 milioni), ex presidente del consiglio superiore dei I.avori pubblici e consulente per il Mose, Andrea Monorchio (1,9 milioni di euro), ex Ragioniere generale dello Stato, e Dario Zaninelli (1,9 milioni di euro), citato nell'inchiesta sulla Cricca per la consulenza alla Scuola dei marescialli di Firenze.

Quadri e vigneti
L'ascesa di Perotti è avvenuta quando Antonio Bevilacqua detto Nino, 52 anni, era già il numero uno grazie alla quantità di incarichi accumulati dalle sue società: la Sis e la A&S prima, e oggi l'Italconsult. L'ingegnere palermitano è passato indenne dalla decadenza dei suoi protettori forzisti, dall'ex viceministro dell'Economia Gianfranco Miccichè a Denis Verdini. Per lui c'è stato il sostegno bipartisan di Lupi e del democrat Giuseppe Lumia, mentre il suo riferimento in Anas è Ugo Dibennardo, proconsole della spa pubblica in Sicilia dal 2008 al 2013. Sotto il profilo economico, Bevilacqua è il più forte del settore. Può vantare un fatturato di oltre 30 milioni di euro all'anno con Italconsult. In aggiunta, ha due alleati di peso nell'azionariato. Uno è Intesa, il colosso bancario che Burchi si vantava di rappresentare nel mondo delle infrastrutture lombarde (Teem, Brebemi e Pedemontana). L'altro è Tecnoholding, la società che riunisce le camere di commercio italiane. Appassionato di arte moderna e vitivinicoltore part-time (Terrazze dell'Etna), Bevilacqua è stato nominato presidente del porto di Palermo nel 2001 dal sindaco forzista Diego Cammarata. Si è dimesso nel 2013.

Oltre alla Catania-Siracusa con Pizzarotti, Bevilacqua ha gestito il raddoppio della statale 640, divisa in due lotti da oltre 1,5 miliardi di euro. Nel primo è stato progettista con la Sintel di Giandomenico Monorchio (figlio e Andrea) alla direzione lavori. Nel secondo ha diretto i lavori del consorzio Empedocle (Cmc, Ccc e Tec nis). Oltre alla statale 640, Bevilacqua ha fatto la parte del leone anche con la statale 106 Jonica (Reggio Calabria-Taranto). I maxilotti 1 e 2 sono suoi. Nel maxilotto 3 l'ingegnere siciliano ha soltanto la progettazione mentre la direzione lavori è di Monorchio.

Ci pensa papà
Classe 1970, Monorchio junior ha fondato Sintel engineering nel settembre 1998, tre mesi dopo essersi iscritto all'albo professionale e tre anni prima che il padre iniziasse a occuparsi di lavori pubblici alla guida di Infrastrutture spa (Ispa), la holding di Stato creata nel 2002. Prima di essere assorbita nella Cassa depositi e prestiti (2005), Ispa ha finanziato il Quadrilatero Marche-Umbria, i lotti 2 e 3 dell'A3, l'alta velocità ferroviaria Torino-Milano-Napoli (Sintel ha lavorato sulla Firenze-Bologna) e il Tay Milano-Genova dove la Sintel ha avuto la direzione lavori dal contraente generale Cociv, passato dal controllo del gruppo Gavio a Impregilo-Condotte. Sintel ha inoltre progettato il laboratorio del centro sperimentale dell'Anas a Cesano e l'impiantistica per il nuovo palazzo del cinema di Venezia, mai realizzato ma costato 37 milioni di euro.

Nel settore strade, Monorchio ha avuto la Torino-Novara dalla Sina del gruppo Gavio. A Sud ha diretto i lavori del macrolotto 6 dell'A3 per conto di Impregilio-Condotte. In entrambi i casi, le opere sono andate avanti fra ritardi e spese fuori controllo. Anche peggio è finita sulla Palermo-Agrigento, con lo smottamento del viadotto Scorciavacche. La Sintel era responsabile della direzione lavori con Fulvio Giovannini, rimosso dopo l'incidente su richiesta del presidente dell'Anas. Monorchio ha tentato la carriera politica presentandosi alle ultime comunali di Roma nella lista del collega ingegnere Alfio Marchini. l suoi 537 voti non sono bastati per un seggio.

Transoceanica
Con i suoi 86 anni appena compiuti e una transoceanica in barca a vela portata a termine nel 2010 è il decano del settore. Ma non si limita a navigare e ad esibirsi ai fornelli durante le serate Masterchef al circolo Canottieri Aniene. Dopo che Perotti è stato estromesso dalla direzione lavori sul macrolotto 3.2 della Salerno-Reggio, dove è sprofondato il viadotto Italia, tocca a Beomonte seguire un'opera che in fase di progettazione esecutiva ha già ottenuto un ritocco economico consistente. I lavori sono passati da 425 a 495 milioni di euro. Oltre che con la sua Cilento ingegneria, Beomonte ha spesso collaborato con un'altra primaria società di engineering, la 3Ti di Alfredo Ingletti e Giorgio Casciani. 3Ti ha ricavi superiori ai 20 milioni di euro e ha lavorato sull'A3 (macrolotti 5 e 6), sugli aeroporti di Bologna e di Fiumicino, nei paesi della penisola arabica, in Romania e in Sierra Leone.

Sbilanciamoci.info, 25 marzo 2015

La nuova inchiesta della Procura di Firenze sulla corruzione nelle grandi opere pubbliche, con 51 indagati, che ha portato all’arresto tra gli altri di Ercole Incalza ed alle dimissioni del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi, rende purtroppo evidente il cronico ed endemico legame tra realizzare infrastrutture, distorsione delle regole e malaffare. Numerose sono le grandi opere nel mirino delle inchieste: tratte ad Alta velocità come il terzo valico Milano-Genova, il sottoattraversamento AV di Firenze, l’AV Brescia-Verona, o le grandi autostrade come la Orte-Mestre, la Pedemontana Veneta e quella Lombarda, la Cispadana. Ma anche linee metropolitane come la linea C di Roma, e la M4 ed M5 a Milano. Incredibilmente dieci di queste grandi opere avevano lo stesso direttore dei lavori, ora arrestato nell’ambito dell’inchiesta.

Sarà la magistratura a stabilire le responsabilità personali di tutti i soggetti indagati nel Sistema degli appalti pubblici, mentre sul piano politico ed istituzionale abbiamo l’obbligo di un cambio deciso di passo sul sistema delle grandi opere. Sugli effetti distorsivi della Legge Obiettivo, sulla sterminata lista di opere che si vorrebbe realizzare di nessuna utilità collettiva, sulle deroghe e proroghe che diventano la regola nel sistema degli affidamenti, sulla mancanza di una credibile Politica dei Trasporti sostenibile. Così, nel caso più macroscopico delle scelte per mobilità e trasporti, non si è mai valutata la qualità del servizio da offrire ai cittadini dando priorità al trasporto pendolare e nelle città, ma piuttosto si sono privilegiati gli investimenti ad alta intensità di cemento, asfalto e consumo di suolo.

E’ il 9° rapporto sullo Stato di Attuazione della Legge Obiettivo, elaborato dal Servizio Studi Camera, Cresme ed Autorità Anticorruzione che espone i numeri esatti. Dal 2001 al 2014 le grandi opere strategiche sono diventate 419 ed il costo presunto pari a 383 miliardi di euro. Di queste quelle inserite nell’Allegato Infrastrutture 2014 del Governo valgono 285 miliardi di euro, ma quelle che effettivamente hanno un progetto preliminare o definitivo approvato al Cipe sono pari a 153 miliardi di Euro. Secondo il rapporto le opere completate si fermano a 6.5 miliardi di euro pari al 4,3% del totale. Se si considerano i singoli lotti ultimati questa percentuale sale all’8,4% del totale. Per quanto riguarda la tipologia di opere il 95% del totale riguarda infrastrutture nei trasporti: tra queste ben il 52% sono strade ed autostrade, gli investimenti ferroviari il 35% e le metropolitane poco più del 6%.

Più che evidente che se le liste sono sterminate, le risorse pubbliche assai scarse, le risorse private un miraggio sventolato per farsi approvare i progetti, i sistemi di decisione accentrati e semplificatori, in assenza di valutazioni Costi Benefici accurate e senza Valutazione Ambientale Strategica sulle grandi opere, l’unico criterio di selezione diventano le pressioni debite e soprattutto quelle indebite per fare avanzare e finanziare un’opera invece di un’altra al Cipe.

Da notare che una buona parte di grandi opere sono realizzate in concessione senza gara, (vi è solo un obbligo di porre una quota dei lavori a gara sul mercato), come il Mose, le grandi Autostrade private e pubbliche in concessione, l’Alta velocità ferroviaria: ne deriva un sistema bloccato e dei soliti noti, sia sul piano delle imprese che dei referenti politici.

La legge Obiettivo, voluta dal Governo Berlusconi nel 200, nel corso del tempo è stata anche peggiorata, con la possibilità di realizzare lotti funzionali e poi ancora “lotti costruttivi” tradendo quindi completamente la logica dei “tempi certi e costi certi” per le infrastrutture. E poi le semplificazioni procedurali, la Struttura Tecnica di Missione e le decisioni al Cipe, l’esclusione degli Enti locali, il General Contractor che diviene un soggetto privato impossibile da vigilare, le Valutazioni di Impatto Ambientale addomesticate.

A questo si aggiunga un Codice Appalti del 2006 con un doppio regime tra opere ordinarie e opere strategiche, con continue modifiche normative che rendono ormai impossibile comprendere cosa e come applicare le procedure, rendendo ancora più facile la vita a chi le regole le vuole evadere per i propri interessi privati.

Ed in continuità con queste distorsioni è stata anche l’approvazione nel 2014 del Decreto Sblocca Italia, dove con l’articolo 5, il Governo vuole prorogare la scadenza delle concessioni autostradali allungandogli la vita per realizzare le grandi autostrade, nonostante che robuste proroghe siano a suo tempo già state assicurate alle Concessionarie, evitando quindi le gare. Con tanto di aiuti fiscali retroattivi all’Autostrada Orte-Mestre ed ampie garanzie pubbliche verso i privati, come ben descritto nel testo di denuncia Rottama Italia. Perché lo Sblocca Italia è una minaccia per la democrazia ed il nostro futuro.” (Altreconomia Edizioni, 2015). Non a caso il Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone, si è scagliato contro queste proroghe delle concessioni ed ha definito la Legge Obiettivo “criminogena”.

Noi ambientalisti abbiamo contestato da sempre e duramente la Legge Obiettivo, ed ancora prima la logica dei grandi eventi come Mondiali ‘90 e Colombiane ‘92, o il sistema delle Ordinanze della Protezione Civile, delle ricostruzioni post terremoto e delle grandi emergenze, vere false o presunte, invocate per evitare gare ed una selezione trasparente gli investimenti utili. Ma fino ad oggi è stato impossibile vincere la battaglia delle "opere utili" con i mezzi delle razionali analisi tecniche su costi e benefici, della discussione aperta e democratica su cosa sia davvero necessario per realizzare trasporti e infrastrutture efficienti. E’ stato impossibile perché la commistione fra irresponsabilità politica, strapotere di funzionari pubblici inamovibili, appetiti di imprenditori senza scrupoli, “deregulation” che ha fortemente ridotto le garanzie sulla trasparenza amministrativa, la mancanza di politiche dei trasporti, hanno impedito un processo decisionale pubblico e scelte razionali nell’interesse collettivo.

Questo sistema ha di certo complicato anche la vita e l’attività delle imprese sane, quelle capaci di progettare e lavorare seriamente, di realizzare investimenti complessi e promuovere l’innovazione, che spesso per sopravvivere nel mercato, ancora di più in tempi di crisi dell’edilizia, si sono dovute “adattare” al Sistema distorto degli appalti pubblici.

Adesso è il momento di voltare pagina. E’ necessario abolire la Legge Obiettivo, il suo elenco di opere spesso inutili e insostenibili e di procedure che scavalcano procedure e regole a difesa delle finanze pubbliche e dell'ambiente: bisogna rivedere le norme sulla valutazione di impatto ambientale, permettendo un vero “dibattito pubblico” che consenta una valutazione ponderata e partecipata su cosa serva davvero al territorio, alle città e alla comunità.

Va poi rivisto il Codice Appalti del 2006, introducendo norme chiare e semplici per garantire gare trasparenti e piena concorrenza nel mercato dei lavori pubblici, impedire ogni genere di proroga o deroga rispetto alle vie ordinarie, rafforzare i poteri d’intervento dell’Autorità Anticorruzione.

È indispensabile eliminare quelle disposizioni contenute nel Decreto "Sblocca Italia" e nell’ultima Legge di Stabilità che nel solco della Legge Obiettivo aprono la strada a una nuova ondata di opere di nessuna utilità pubblica (trivellazioni petrolifere, inceneritori di rifiuti) ed elargiscono inaccettabili “favori” a lobby potenti con la proroga delle concessioni ai “signori delle autostrade”.

Insieme a tutto questo, è urgente riconsiderare le scelte su opere in corsa – dal tunnel per l’alta velocità Torino-Lione, al “terzo valico Milano-Genova, ai progetti di nuove autostrade (Lombardia e Veneto, Orte-Mestre, Autostrada della Maremma) - che a fronte di un costo per la collettività esorbitante, non servono a risolvere i problemi di mobilità dei cittadini/e ed hanno un elevato impatto ambientale.

Per scegliere le opere utili, grandi e piccole che siano, serve invece adottare un Piano dei Trasporti e della Logistica Sostenibile, applicando alle grandi opere le procedure previste dalle Direttive Europee per la Valutazione Ambientale Strategica. E’ dal 2001, quando fu messo rapidamente nel cassetto il PGTL del Ministro Bersani ed approvata dal centrodestra la Legge Obiettivo, che parliamo solo di liste e di grandi opere, senza una politica dei trasporti strategica, sostenibile e capace di futuro. Una politica di non solo infrastrutture, ma fatta di servizi di trasporto per i pendolari e le città, dove si muovono due terzi dei cittadini e che oggi non hanno un sistema di trasporto adeguato ed efficiente.

La corruzione è furto di bene comune, furto di diritti e di speranze, di opportunità e di lavoro. Per sconfiggerla occorrono innanzitutto leggi all’altezza: rapida approvazione del 416ter e della legge sugli ecoreati; confisca dei beni ai corrotti; pene adeguate per "reati civetta" come il falso in bilancio, l'autoriciclaggio, l'evasione fiscale; norme rigorose sul conflitto d’interessi. Ma le leggi da sole non bastano: serve anche l'impegno di tutti - a cominciare da quanti hanno titolo nelle decisioni pubbliche - a farle vivere attraverso le scelte e i comportamenti quotidiani.

Infine, è decisivo che la scelta del/la nuovo/a Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti - che il Presidente del Consiglio Renzi si appresta a scegliere - risponda a un radicale cambio di rotta negli indirizzi e nei metodi delle politiche pubbliche in materia di infrastrutture. Occorre un/a Ministro consapevole che le grandi opere essenziali per l’Italia sono quelle dettate dall’interesse generale di tutti, non quelle imposte dalla convenienza privata di pochissimi: sono, dunque, rimettere in sesto il nostro territorio, assicurare una mobilità pubblica efficiente nelle città e rimediare allo stato arretrato del trasporto regionale, puntare sul ferro e sul cabotaggio costiero per il trasporto delle merci smettendo di favorire con regali milionari il settore dell’autotrasporto.

Questo gli ecologisti reclamano inutilmente da anni. Se il Governo vuole davvero demolire la “cupola” che da anni governa i grandi affari delle grandi opere, l’occasione è oggi.

Il manifesto, 26 marzo 2015 (m.p.r.)

La nuova diret­tiva euro­pea sugli Orga­ni­smi gene­ti­ca­mente modi­fi­cati (2015/412) è appena stata pub­bli­cata sulla Gaz­zetta uffi­ciale euro­pea. A una prima let­tura sem­bre­rebbe una norma in difesa della bio­di­ver­sità e dell’agricoltura soste­ni­bile poi­ché pre­vede la pos­si­bi­lità per gli stati dell’Unione euro­pea di vie­tare la col­ti­va­zione di Ogm. Anche i dati rela­tivi al 2014 pub­bli­cati dall’International Ser­vice for the Acqui­si­tion of Agri-biotech Appli­ca­tions (Isaaa) non sono inco­rag­gianti per le mul­ti­na­zio­nali bio­tech: con un ulte­riore calo del tre per cento la super­fi­cie col­ti­vata a Ogm in Europa si è ridotta a 143.016 ettari di mais Bt col­ti­vati in 5 paesi su 28 (si col­tiva in Spa­gna il 90% delle super­fi­cie totale). Il resto sono bri­ciole sparse tra Por­to­gallo, Roma­nia, Slo­vac­chia e Repub­blica Ceca. In Ita­lia, nell’immediato, non dovreb­bero aprirsi sce­nari allar­manti: è in vigore un divieto tem­po­ra­neo che impe­di­sce la col­ti­va­zione dell’unico Ogm auto­riz­zato per la col­ti­va­zione in Europa, il mais Mon810 di Monsanto.

Bat­ta­glia vinta? Tutt’altro. La nuova legge euro­pea pre­senta alcune cri­ti­cità. Una in par­ti­co­lare. Il governo che volesse ban­dire gli Ogm dal suo ter­ri­to­rio non potrà addurre moti­va­zioni che con­tra­stano con la valu­ta­zione di impatto ambien­tale con­dotta dall’Efsa (Auto­rità euro­pea per la sicu­rezza ali­men­tare). «Signi­fica che i governi - spiega Fede­rica Fer­ra­rio di Green­peace - non pos­sono basare i bandi su spe­ci­fici impatti ambien­tali o evi­denze di pos­si­bili danni da parte delle col­ti­va­zioni Ogm a livello nazio­nale nel caso in cui que­sti rischi non siano stati presi in con­si­de­ra­zione da parte della valu­ta­zione dell’Efsa».

Quindi i paesi non potranno uti­liz­zare argo­men­ta­zioni di carat­tere ambien­tale per giu­sti­fi­care il divieto di col­ti­va­zione. Inol­tre, la nuova diret­tiva rimette in moto l’attività della Com­mis­sione euro­pea sem­pre molto dispo­ni­bile ad auto­riz­zare nuovi Ogm (il primo in esame è il mais 1507, inven­tato per resi­stere all’erbicida glu­fo­si­nato che nel 2017 sarà vie­tato in Europa per la sua tos­si­cità). Ma anche di fronte a un Ogm buono auto­riz­zato dalla Ue e cer­ti­fi­cato dall’Efsa non sarebbe scon­giu­rato il fat­tore di rischio più peri­co­loso per col­ti­va­tori e con­su­ma­tori: la con­ta­mi­na­zione. Secondo uno stu­dio di Green­peace, con­dotto con il gruppo di ricerca inglese GeneWatch e pub­bli­cato dalla rivi­sta Inter­na­tio­nal jour­nal of food con­ta­mi­na­tion, dal 1997 al 2013 si sono veri­fi­cati circa 400 casi di contaminazione.

Ma la vera trap­pola che potrebbe vani­fi­care un decen­nio di lotte con­dotte dagli ambien­ta­li­sti euro­pei e stra­vol­gere le regole della pro­du­zione del sistema agroa­li­men­tare del vec­chio con­ti­nente - non solo per l’insidia Ogm - si chiama Tran­sa­tlan­tic Trade and Invest­ment Part­ner­ship, meglio (s)conosciuto ai più con la sigla Ttip. Si tratta di un accordo semi segreto per «faci­li­tare» gli scambi eco­no­mici tra Europa e Stati Uniti. L’obiettivo dichia­rato è age­vo­lare la cir­co­la­zione delle merci armo­niz­zando le diverse nor­ma­tive che esi­stono in Europa e negli Stati Uniti. Cosa suc­ce­derà per quanto riguarda agri­col­tura e cibo? Il mistero è fitto. Le trat­ta­tive feb­brili.

I cata­stro­fi­sti riten­gono che le nuove regole del trat­tato favo­ri­ranno le aziende a stelle e stri­sce. Le con­se­guenze? Cibi Ogm dif­fi­cil­mente rin­trac­cia­bili, mag­gior uti­lizzo di pesti­cidi, pre­do­mi­nio dei grandi car­telli agroin­du­striali, scarsa tutela dei pro­dotti tipici, eti­chet­ta­ture e trac­cia­bi­lità meno appro­fon­dite e delo­ca­liz­za­zione della pro­du­zione ali­men­tare dove costa meno. Non è la “pistola fumante” ma poco ci manca: su quasi 600 incon­tri di con­sul­ta­zione rea­liz­zati dalla Com­mis­sione euro­pea - di cui ci sono pochi docu­menti in cir­co­la­zione - circa 500 si sono svolti alla pre­senza di potenti aziende del set­tore (sementi, alle­va­mento e man­gimi, bio­tech, pro­dut­tori di bevande e cibi).

Lo scon­tro è tra un paese con un sistema agri­colo che punta sulla quan­tità e uno che sta sul mer­cato gra­zie alla qua­lità della sua pro­du­zione. Un sistema a maglie lar­ghe con­tro uno con nor­ma­tive più rigide. Per le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste e dei con­su­ma­tori l’esito è scon­tato: «l’armonizzazione» delle leggi per l’Europa si tra­durrà in una ces­sione di sovra­nità in ter­mini di sicu­rezza.

Marco Zullo, par­la­men­tare euro­peo del M5S (com­mis­sione agri­col­tura) non ha dubbi. «La qua­lità dei cibi che arri­ve­ranno sulle nostre tavole è a rischio - ha spie­gato - per­ché per­de­remo la tutela deri­vante dalle infor­ma­zioni pre­senti sulle nostre eti­chette. Gli Usa non hanno un sistema di eti­chet­ta­tura fer­reo come quello euro­peo e non hanno certo inten­zione di intro­durlo con il Ttip. In Europa le pro­ce­dure di con­trollo per otte­nere un’autorizzazione sulla sicu­rezza ali­men­tare sono più com­plesse. Negli Usa sono per­messe sostanze vie­tate in Europa, come cereali Ogm, anti­bio­tici, carne deri­vata da ani­mali clo­nati e sostanze chi­mi­che. In nome del libero mer­cato tutte que­ste infor­ma­zioni non saranno a nostra dispo­si­zione nelle eti­chette post-Ttip».
Que­sto è vero in par­ti­co­lare quando si parla di Ogm. Men­tre in Europa, nono­stante i ten­ta­tivi delle lobby, esi­ste un qua­dro giu­ri­dico che si basa sul prin­ci­pio di pre­cau­zione (pro­ce­dure rigide per l’autorizzazione ampia valu­ta­zione del rischio, con­sul­ta­zione pub­blica obbli­ga­to­ria), negli Stati Uniti gli Ogm non devono essere sot­to­po­sti ad auto­riz­za­zione. Non esi­ste nem­meno un regi­stro pub­blico degli Ogm auto­riz­zati. Per non par­lare della tra­spa­renza. In Europa, dove non esi­ste un solo pro­dotto Ogm desti­nato all’alimentazione umana, è obbli­ga­to­rio segna­lare sull’etichetta una quan­tità gene­ti­ca­mente modi­fi­cata supe­riore allo 0,9 per cento. Negli Stati Uniti, invece, l’etichettatura è volon­ta­ria. Ma anche nella patria di Monsanto&Co. i con­su­ma­tori comin­ciano a chie­dere più tra­spa­renza: lo stato del Ver­mont ha deciso che dal luglio 2016 sarà obbli­ga­to­rio segna­lare una quan­tità di Ogm supe­riore allo 0,9%, una legge che è stata impu­gnata da una potente asso­cia­zione che rag­gruppa pro­dut­tori e distri­bu­tori alimentari.

La con­sa­pe­vo­lezza del rischio per il set­tore agro ali­men­tare dell’Europa è docu­menta anche da uno stu­dio spe­ci­fico rea­liz­zato per il Par­la­mento euro­peo dalla Dire­zione gene­rale delle poli­ti­che interne. Secondo il dos­sier, «se il com­mer­cio fosse libe­ra­liz­zato senza una con­ver­genza nor­ma­tiva, i pro­dut­tori euro­pei potreb­bero subire gli effetti nega­tivi della con­cor­renza in alcuni set­tori… Que­sto è par­ti­co­lar­mente rile­vante per quanto riguarda i vin­coli dell’Ue in merito all’uso degli Ogm, dei pesti­cidi e alle misure di sicu­rezza ali­men­tare nel set­tore della carne».

Il gioco d’azzardo degli ame­ri­cani non è un mistero per nes­suno. «Nei nego­ziati rela­tivi al Ttip - si legge nel dos­sier - una faci­li­ta­zione nell’approvazione e nel com­mer­cio degli Ogm è un’importante richie­sta dei col­ti­va­tori e delle imprese sta­tu­ni­tensi. Essi sono soste­nuti dalle auto­rità Usa, che lamen­tano la len­tezza e le poche auto­riz­za­zioni alla ven­dita e al com­mer­cio di orga­ni­smi gene­ti­ca­mente modi­fi­cati. Il governo ame­ri­cano, inol­tre, ritiene che l’etichettatura obbli­ga­to­ria degli Ogm discri­mini ingiu­sta­mente que­sti pro­dotti». Come se ne esce? Secondo Dan Mul­la­ney, uno dei nego­zia­tori sta­tu­ni­tensi per il Ttip, dovrebbe essere la scienza a fare da arbi­tro: «Se l’Unione euro­pea ha un pro­cesso scien­ti­fico per le bio­tec­no­lo­gie, que­sto deve essere seguito», ecco il sug­ge­ri­mento. Quindi, «le deci­sioni in mate­ria di sicu­rezza ali­men­tare dovreb­bero essere basate sulla scienza e sulla valu­ta­zione d’impatto». Tra­du­zione: che decida l’Autorità euro­pea per la sicu­rezza ali­men­tare (l’Efsa) e che gli stati euro­pei fac­ciano un passo indie­tro davanti a un parere scien­ti­fico favo­re­vole all’introduzione di un Ogm sul mer­cato. Che si siano già accorti delle cri­ti­cità (o trap­pole) della nuova diret­tiva europea?
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