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Deluso dal con­si­glio euro­peo? «Vera­mente non mi aspet­tavo niente di più di quel poco che è stato deciso». Affon­dare i bar­coni degli sca­fi­sti? «Dovreb­bero spie­garmi come farlo senza pro­vo­care una strage». Aprire campi pro­fu­ghi in Africa? «E per­ché non al Polo Nord? Fareb­bero di tutto pur di tenere i migranti lon­tani dall’Europa».

Non si sot­trae a nes­suna domanda Romano Prodi. L’ex pre­si­dente del con­si­glio ed ex pre­si­dente della com­mis­sione euro­pea man­tiene sem­pre uno sguardo molto attento a quanto suc­cede in Europa, e in par­ti­co­lare ai drammi dell’immigrazione. Cosa che non gli impe­di­sce di repli­care al pre­si­dente del con­si­glio che ha deru­bri­cato a pub­bli­cità edi­to­riale (è in edi­cola «Mis­sione incom­piuta», il libro scritto con Marco Dami­lano) le opi­nioni poli­ti­che del lea­der dell’Ulivo. «Vera­mente la migliore pub­bli­cità me l’ha fatta lui. I librai si sono affret­tati a ordi­nare altre copie del libro», scherza.

Pre­si­dente come giu­dica le con­clu­sioni rag­giunte sull’immigrazione dal con­si­glio europeo?

Il giu­di­zio è misto, nel senso che c’è una parte di rac­colto posi­tivo, che è l’aumento della dota­zione euro­pea e poi ci fer­miamo lì. E’ un giu­di­zio di sod­di­sfa­zione nel senso che il dia­logo va avanti, ma anche di delu­sione per il fatto che sui punti car­dine, cioè sulla poli­tica dell’immigrazione e sulla stra­te­gia di acco­gli­mento non c’è pro­prio niente. Resta sim­bo­lica la frase di Came­ron: «Pren­diamo pro­fu­ghi e li por­tiamo in Italia».

Si aspet­tava o spe­rava qual­cosa di più?

Spe­ravo sì, aspet­tavo no. Pur­troppo sono abi­tuato alle delu­sioni. Era quello che nell’attuale situa­zione euro­pea si può pen­sare sarebbe arrivato.

Lei in pas­sato ha par­lato spesso di un’Europa «assente» di fronte alle grandi crisi e i risul­tati del ver­tice sem­brano con­fer­mare que­sto giu­di­zio. Quali sono le ragioni di que­sta assenza?

Il pro­gres­sivo pre­va­lere degli inte­ressi nazio­nali sugli inte­ressi col­let­tivi, un’involuzione totale che si esprime anche nei capi­toli dell’economia. Figu­ria­moci quindi in poli­tica estera e immi­gra­zione che sono il capi­tolo più deli­cato. Ho sem­pre pen­sato che poli­tica estera e difesa sareb­bero state le ultime a essere messe inte­gral­mente nell’agenda euro­pea. L’integrazione euro­pea indub­bia­mente è entrata in un lungo periodo di crisi e set­tori come esteri, difesa e immi­gra­zione sono i capi­toli dif­fi­ci­lis­simi. Quindi non rite­nevo che il ver­tice avrebbe potuto far com­piere dei passi in avanti. Il mio è un sen­ti­mento di delu­sione ma atteso. Pur­troppo è la nor­ma­lità dell’attuale situa­zione europea.

Sem­bra quasi voler san­cire il fal­li­mento del pro­getto europeo.

Il fal­li­mento no, una lunga sosta sì. Il pro­getto euro­peo non può fal­lire. Dalla boc­cia­tura della Costi­tu­zione in poi i lea­der euro­pei hanno ascol­tato i loro popu­li­smi e seguito la loro poli­tica di breve periodo. Così non si farà mai l’Europa.

Verrà però il momento in cui que­sto met­terà a rischio la stessa poli­tica interna dei diversi Paesi, allora si ricor­rerà di nuovo all’Europa, costretti da un’emergenza. Ma in que­sto momento non vedo la spinta.

Che pensa della pos­si­bi­lità di affon­dare i bar­coni degli scafisti?

Non c’è nes­suno che mi dica come si fa. Con que­sto sistema si rischia la strage di uomini, ma non mi sem­bra una solu­zione. E infatti la nota vati­cana che ho visto in mate­ria lo mette bene in rilievo. Che fac­ciamo, bom­bar­diamo i migranti? I para­goni che ven­gono fatti con l’Albania o la Soma­lia sono del tutto fuori luogo per­ché lì c’era un governo con cui si poteva interagire.

Inten­dia­moci: se uno potesse distrug­gere tutti i bar­coni vuoti messi uno in fila all’altro, io sarei il primo a dire di sì. Ma que­sta di bom­bar­darli è un’ipotesi che fa tanto pia­cere alla dema­go­gia e al sen­ti­mento popo­lare pre­va­lente. Per­ché atten­zione: quando io mi giro intorno e parlo vedo che il sen­ti­mento popu­li­stico è arri­vato alle radici del popolo ita­liano. Se votas­simo a mag­gio­ranza forse vor­reb­bero bom­bar­dare i bar­coni, ma ritengo la cosa del tutto irragionevole.

Teme un nuovo inter­vento in Libia?

Ritengo tal­mente scia­gu­rata la prima azione in Libia che l’idea di farne una seconda è impensabile.

Crede comun­que che si stia andando in quella direzione?

Vediamo prima di tutto cosa signi­fi­che­rebbe un inter­vento in Libia. Prima ipo­tesi: droni e aero­plani. Si fanno un sacco i morti e non decide niente. Seconda ipo­tesi: truppe. Signi­fica mobi­li­tare decine di migliaia di uomini o forse cen­ti­naia di migliaia di uomini, non mille o due­mila. Non è nem­meno pen­sa­bile. Poi c’è un altro pro­blema molto serio. L’obiettivo che si vuole col­pire in Libia è il ter­ro­ri­smo. Ma il ter­ro­ri­smo non è libico, è ubi­quo. Si fa la guerra in Libia e que­sti si spo­stano nel Sahel o negli altri punti già maturi per acco­glierli, come Siria, Iraq, Mali. Que­sto è l’unico effetto che si otterrebbe.

Nel libro che ha scritto insieme a Marco Dami­lano lei dice che l’intervento in Libia nel 2011 fu un errore. Le chiedo: dob­biamo a quell’errore anche l’emergenza immi­gra­zione di que­sti giorni?

Il fatto che sia incon­trol­la­bile sì, il fatto che ci sia no. Quando ero nel Sub­sa­hara me lo dice­vano tutti: guar­date che qui c’è una bomba demo­gra­fica, dove va la gente, dove scappa? Mi guar­da­vano pun­tando il dito e mi dice­vano: da voi. C’era anche prima l’emergenza, tut­ta­via alla fine pote­vamo trat­tare con la Libia di Ghed­dafi che minac­ciava sì di riem­pire dei bar­coni e di man­dar­celi, ma ave­vamo un inter­lo­cu­tore e alla fine si tro­vava il modo per farlo smet­tere. Oggi non c’è più un inter­lo­cu­tore, anzi è accla­rato che lo stesso ter­ro­ri­smo inter­na­zio­nale fac­cia buoni affari con i migranti.

A pro­po­sito, il pre­mier Mat­teo Renzi le rin­fac­cia i suoi rap­porti con Ghed­dafi.

Guardi, nel libro spiego tutta la sto­ria chia­ra­mente citando i docu­menti, com­presa la let­tera di Ban Ki-moon. Il libro non l’ho scritto per pole­mica ma per ricor­dare i vent’anni dell’Ulivo. E mi pro­pongo di scri­verne un altro tra vent’anni così potrò dare un giu­di­zio anche su que­sto periodo sto­rico, pensi come sarà bello. Ma veniamo a Ghed­dafi. Certo, gli inte­ressi ita­liani erano evi­denti. Con lui la linea è sem­pre stata ferma. Ci sono però due Ghed­dafi nella sto­ria. Il primo è un feroce dit­ta­tore all’interno del Paese. Rima­sto tale dall’inizio alla fine.

Poi c’è un secondo Ghed­dafi, quello della poli­tica estera. In una prima fase un Ghed­dafi trou­ble maker, un crea­tore di disor­dini. Ha pro­vo­cato guerre dap­per­tutto, voleva essere potenza mili­tare regio­nale e ha ali­men­tato il ter­ro­ri­smo: Loc­ker­bie, la disco­teca La Belle, tutte que­sti atti delin­quen­ziali. In una seconda fase ha capito che que­sto non gli dava frutto. Dopo alcuni anni che lo avevo capito, mi sono preso la respon­sa­bi­lità di invi­tarlo a Bru­xel­les sapendo di dare un con­tri­buto posi­tivo alla pace. Fu la sua prima visita uffi­ciale in Europa. Avevo capito che avremmo chiuso un pro­blema per la comu­nità inter­na­zio­nale. Ho avuto rea­zioni nega­tive dagli Stati uniti e da Gran Bre­ta­gna. Dopo due mesi però erano tutti con­tenti e per incon­trare Ghed­dafi biso­gnava fare la coda.

Si era chiuso un pro­blema. Da pre­si­dente della com­mis­sione divenni poi pre­si­dente del con­si­glio e ini­ziammo una lunga nego­zia­zione sul Trat­tato di ami­ci­zia che io non volli fir­mare. Non per ten­sioni per­so­nali o per­ché avevo cam­biato parere, sem­pli­ce­mente per­ché difen­devo gli inte­ressi del mio Paese e non mi era chiaro quello che sarebbe stato il costo da parte ita­liana. Poi altri hanno fir­mato. Quindi i miei rap­porti con Ghed­dafi sono stati fermi.

Le spiego un’altra cosa: io ho sem­pre avuto con­tatti anche con le tribù, i cui rap­pre­sen­tanti sono venuti in visita uffi­ciale a Bolo­gna. Pro­prio per­ché ho sem­pre col­ti­vato quel minimo di pos­si­bile dia­logo con la società civile. E que­sto mi ha reso una posi­zione abba­stanza aperta nei con­fronti sia di Ghed­dafi che delle altre realtà. Tant’è vero che l’anno scorso auto­re­voli inter­lo­cu­tori libici hanno chie­sto, in modo uffi­ciale al pre­si­dente del con­si­glio ita­liano, che io diven­tassi il media­tore in Libia. Non avendo avuto nes­suna rispo­sta né loro né io, non so cosa è successo.

Tor­niamo all’immigrazione, resta il nodo di una più equa distri­bu­zione dei richie­denti asilo, che l’Europa non sem­bra pro­prio voler sciogliere.

Que­sto è un punto che oggi non si rie­sce nean­che a discutere.

La can­cel­liera Mer­kel però ha detto che il rego­la­mento di Dublino non fun­ziona più. Si riu­scirà a modificarlo?

Mi auguro di sì, la spe­ranza c’è. Se però ragiono in modo razio­nale quando sento la rea­zione di Came­ron la leggo come la chiu­sura della porta per­fino alla discus­sione del pro­blema, per­ché di fronte ai suoi elet­tori lui dice no alla pos­si­bi­lità di acco­gliere pro­fu­ghi. Ma si rende conto di cosa ha detto? «Io li porto in Ita­lia», c’è pure lo sfottò. Poi, se la can­cel­liera Mer­kel si impunta, col tempo si può anche arri­vare a porlo all’ordine del giorno.

Ma per­ché non si aprono cor­ri­doi umanitari?

Per­ché dall’opinione pub­blica ven­gono rite­nuti dei taxi. Ritor­niamo sem­pre al pro­blema dell’elettorato. La que­stione è enorme e non si risolve senza una mas­sic­cia dose di aiuti a un’Africa che si sta sve­gliando. Que­sto è l’elemento di spe­ranza, ci vor­ranno trent’anni, ma l’Africa non è più un corpo immo­bile come era sei, sette anni fa. Pensi che il flusso delle rimesse degli immi­grati in Africa da un anno e mezzo ha supe­rato il flusso degli aiuti dall’esterno. Vuol dire che ci sono risorse auto­nome, alter­na­tive, poi ci sono inve­sti­menti stra­nieri che stanno crescendo.

Insomma il con­ti­nente comin­cia a muo­versi, se solo noi gli des­simo una spin­tina… C’è un fatto che la gente non capi­sce: che l’immigrazione cala non quando un Paese diventa ricco, ma quando nasce la spe­ranza. Comin­ciamo a inne­scare que­sta spe­ranza e il flusso dell’immigrazione calerà da solo, per­ché si emi­gra per disperazione.

Cosa pensa del pro­cesso di Khar­toum e della pos­si­bi­lità di aprire in Africa campi dove acco­gliere i pro­fu­ghi esa­mi­nando lì le richie­ste di asilo?

Pur­ché i migranti stiano lon­tani dall’Europa le pen­sano tutte. Per­ché allora i campi non li fac­ciamo al Polo Nord? (ride). Ma si rende conto? Da un lato c’è il Sudan, un Paese che tutti defi­ni­scono dit­ta­to­riale, e ci met­tiamo i campi pro­fu­ghi? Basta il buon senso per capire che non va bene.

Per finire par­liamo di poli­tica. La nuova legge elet­to­rale mette fine all’idea di centrosinistra?

Posso ripe­terle che l’Ulivo è nato per il bipo­la­ri­smo. Ho sem­pre soste­nuto all’inizio un sistema elet­to­rale di tipo inglese. Data la fram­men­ta­zione poli­tica ita­liana e che vi sareb­bero stati par­la­men­tari eletti con il 20% dei voti, sono pas­sato al sistema fran­cese a due turni. In ogni caso ci devono essere più par­titi, o più coa­li­zioni che si con­ten­dono il governo del Paese.

E’ vero, come l’accusa qual­cuno, che sta pre­pa­rando insieme a Enrico Letta un piano per suben­trare a Renzi in caso di crisi?

Dovrei rispon­derle con una risata e invece le rispondo sem­pli­ce­mente no. Tra l’altro in un Paese in cui nes­suno legge è bello pen­sare che si possa atten­tare al governo scri­vendo dei libri.

Renzi infatti ha detto che dovete pro­muo­vere i vostri libri.

One­sta­mente l’unica grande pro­mo­zione del libro l’ha fatta lui dicendo que­sta frase (ride). Nel mio caso almeno i librai si sono affret­tati a riordinarlo.

Ma esi­ste o no que­sto piano tra lei e Letta?

No, non abbiamo nes­sun piano. Non so se Letta ha voglia di rien­trare in poli­tica, ma io con l’età che ho se avessi voluto fare qual­che piano l’avrei fatto un po’ prima. Sono sette anni che sono fuori, che giro il mondo, fac­cio cose inte­res­santi e non ho nes­suna inten­zione di dare noia a nes­suno né di soste­nere nes­suno. Però ho il diritto di ricor­dare ed è per que­sto che ho scritto il libro. E ripeto, tra vent’anni ne scri­verò un altro

La Repubblica, 26 aprile 2015

«Quello che è successo a Riga è surreale. Ma chi sono questi signori che si permettono di dare del dilettante a Varoufakis? Chi è questo Djisselbloem, i ministri austriaco, maltese, sloveno, slovacco? Solo politici preoccupati del loro destino personale in patria, per lo più esponenti della destra estrema in coalizioni di centrodestra, oppure terrorizzati che a casa loro accada qualcosa di simile all’ascesa di Syriza. Magari in Spagna o Portogallo, Paesi dove si sta per votare».

James Galbraith, economista della Texas University di Austin, proprio non ci sta a vedere vilipeso e offeso di fronte a tutta Europa il suo compagno di istituto e grande amico Yanis Varoufakis.
«Ma lo sanno che è uno dei migliori economisti del nostro tempo, loro che preparazione economica ne hanno zero? E che ha il solo torto, lui che era bandito dai talk-show politici in patria fino a poco tempo fa per ragioni politiche, di essersi messo al servizio del suo Paese per cercare di salvarlo dal naufragio dopo decenni di gestione, quella sì, incompetente e corrotta?»

Però anche il ministro italiano Padoan, che non può essere certo accusato di essere un politico attaccato alla poltrona, ha accusato il governo di greco di tattiche dilatorie…

«Padoan è una persona troppo preparata e raffinata per non rendersi conto che bisogna dare un po’ di tempo alla Grecia. Io ho lavorato molto nelle passate settimane con Varoufakis e sono il primo ad ammettere che non tutti i documenti sono perfezionati, non tutte le tabelle sono complete in ogni loro parte, posso anche riconoscere che c’è qualche ritardo nelle traduzioni in inglese e francese dei testi. Ma bisogna rendersi conto che si tratta di riscrivere completamente le regole economiche con buon senso, ponderatezza, precisione. Su materie cruciali come stipendi, pensioni, privatizzazioni, evasione fiscale, corruzione, tasse. Il 20 febbraio a Bruxelles alla firma del preaccordo si era detto che il lavoro doveva essere completo per fine maggio: che senso ha ora, più di un mese prima, alzare così i toni? Solo per spaventare i mercati, o per riaffermare antiche gerarchie di potere in Europa? O forse non si vuole accettare il fatto che queste regole la Grecia ha deciso di scriverle da sola senza accettare quelle preparate dalla Troika o qualcosa di simile?».

Proprio qui sta il punto. I soldi, ci piaccia o no, sono un problema. Non pensa che i creditori comincino ad essere preoccupati di non rivedere il loro denaro?
«Se fanno così, non lo rivedranno davvero mai. Se invece permetteranno ad Atene di riprendere con le sue forze un cammino di crescita sicuramente sì, anche se in un futuro forse un po’ più lontano del previsto. Senza pretendere, per esempio, che il surplus di bilancio sia accantonato invece che essere investito. Guardi, in gioco qui c’è non solo il futuro della Grecia, ma anche dell’Europa e della democrazia. Ad un nuovo governo deve essere dato il tempo di attuare il proprio piano economico. Guardi, di tutto questo il più convinto oggi è il governo tedesco e direi personalmente la cancelliera Merkel».

Proprio lei?
«La signora Merkel si sta dimostrando una vera statista. E da questa sua nuova apertura beneficeranno anche tutti gli altri Paesi che sono stati distrutti dalla follia dell’austerity che ha aggravato oltre ogni misura una crisi che poteva essere risolta con rapidità. Ma questa è acqua passata. Il futuro sarà ben diverso, grazie alla conseguita consapevolezza tedesca. E di questo dovete tutti ringraziare Varoufakis».

La Repubblica, 26 aprile 2015

L’articolo che ora comincerete a leggere l’ho scritto ovviamente ieri, sabato 25 aprile. L’anniversario ricorda ciò che avvenne settant’anni fa: la liberazione dell’Italia dal giogo nazista ad opera delle armate angloamericane ma con il contributo importante della resistenza partigiana ed anche dei reparti dell’esercito regolare italiano inquadrati nell’VIII Armata a comando inglese.

Le brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le unificò fu l’antifascismo. Nelle varie brigate c’era quello spirito comune a tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed erano le più numerose, ma c’erano anche quelle di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche ed anche repubblicane e liberali.Complessivamente erano alcune migliaia di giovani e c’erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e all’arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni.

Fu questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base etica e politica di quell’Italia democratica delle istituzioni repubblicane e della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2 giugno del 1946.

Venerdì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato un’ampia intervista su queste pagine al direttore Ezio Mauro, chiarendo il significato di quel periodo, mettendone anche in evidenza alcune ombre che non hanno però alterato né indebolito la nascita dell’Italia repubblicana e democratica, la ricostruzione sociale ed economica che ne seguì e i martiri che persero la vita nelle camere di tortura fasciste durante quei mesi terribili e tormentati. Ma l’inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima d’ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga.

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Sulla Resistenza bisognerebbe ora raccontare i numerosi episodi già oggetto di libri, articoli, narrazioni di diverso orientamento perché diversi erano i sentimenti degli autori, ma questo lavoro è già stato fatto da altri colleghi sulle nostre pagine. Giorgio Bocca, tra i tanti, dette testimonianze di cose viste e fatte e il suo è un racconto irripetibile. Piuttosto c’è da spiegare perché la Resistenza è considerata da molti storici e politici come il secondo atto del movimento risorgimentale. Questa tesi è stata compiuta dalla Costituzione e approfondita e diffusa da Carlo Azeglio Ciampi e da Giorgio Napolitano.

Gli esponenti principali di quel glorioso movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli, Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri austriache.

Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare un’organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all’Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo.

La storia è sempre e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e sociale con grande ritardo rispetto al resto d’Europa. Questo sfasamento temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che è stata fin dall’inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente: molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un’entità estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene comune.

La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra.

Ogni tanto ci sono in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso avvengono quando al vertice dello Stato si insedia — col favore di popolo — un dittatore.

Le istituzioni per molti italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della fragilità democratica che anche ora è tutt’altro che cessata.

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I malanni di un Paese fortemente in ritardo rispetto all’orologio della storia dovrebbero tuttavia produrre degli anticorpi. È così che avviene in ogni organismo. Se vive ma ha batteri e virus che lo minacciano, gli anticorpi cercano di migliorare la situazione e di guarire la malattia. Ma accade qualche volta un fenomeno assai singolare: gli anticorpi invece di aggredire virus, batteri e corpi estranei che minacciano la vita, si rivolgono contro se stessi e finiscono per distruggersi lasciando campo libero al male ed anzi aggravandolo con la loro autodistruzione.

Se guardiamo alla storia dell’Italia moderna questo fenomeno è largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli, specialmente ora che alla sua guida c’è un personaggio coraggioso, eloquente, dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da solo. Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto.

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Prima di esaminare l’altro tema di grande attualità che è quello degli migranti, mi piace ricordare come passai la giornata del 25 aprile del 1945.

Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel ‘41 andai all’Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza.

Quella storia e quella giornata l’ho raccontata nel mio libro “L’uomo che non credeva in Dio” edito da Einaudi nel 2008.

Lo cito qui di seguito, è un piccolo spaccato che rende l’atmo- sfera di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l’ha riscattato. L’8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche.

Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori.

«Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d’improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà.

Dall’inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull’Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.

Finché arrivò l’8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall’inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.

Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell’armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.

All’annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l’intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l’esercito prima di tutto, l’autorità del governo, le leggi, la monarchia.

Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia.

Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C’erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria.

Domandammo se c’erano esplosivi. Risposero: “Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri”. “Ci sono anche i cannoni?”. Risposero di no. “I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva”. Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l’inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po’ e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.

Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d’essere venuto. “Ci vedremo presto”, gli dissi. “Non credo” rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse “ciau” con la u».

***

Dovrò ora dire qualche parola sulle decisioni dell’Europa (28 capi di Stati e di governo riuniti giovedì a Bruxelles) sul tema posto da Renzi dell’emergenza dell’emigrazione dalla Libia.

Avevano dinanzi, i 28, un problema enorme che doveva e dovrebbe affrontare almeno quattro questioni: portare in salvo i migranti che tentano di raggiungere il Sud d’Europa (praticamente la costa italiana) sfuggendo ad un inferno di povertà, schiavitù, stragi, nell’Africa subequatoriale; sgominare l’organizzazione delinquenziale degli scafisti-schiavisti che organizza i viaggi della morte; stabilizzare la Libia perché fin quando quel Paese non torni ad avere una struttura di governo è impossibile vincere la guerra del mare; infine intervenire a monte dell’emergenza nelle terre del Centroafrica dove milioni di persone sono in condizioni di stentata sopravvivenza e alimentano la fuga verso il benessere che diventa purtroppo una fuga verso la morte.

Ebbene, questi essendo i problemi intrecciati l’uno con l’altro, l’incontro a Bruxelles ha partorito un topolino: hanno deciso di portare l’assegno mensile europeo alla politica dell’immigrazione da 3 a 9 milioni al mese. Sul resto di fatto è silenzio. La Mogherini è stata incaricata di preparare un memorandum che sarà esaminato dal Consiglio d’Europa, con molti Stati membri che hanno però già detto che più di quanto è stato deciso non faranno. Si tratta di Germania, Gran Bretagna, Paesi baltici, Olanda e via numerando.

Renzi è contento. Noi no. Ma non solo noi: basta leggere su il Sole 24 Ore
di ieri l’articolo di Vittorio Emanuele Parsi che comincia dicendo che «la montagna ha partorito il topolino» e lo dimostra con una lucida analisi di quanto (non) è accaduto a Bruxelles. Lo stesso giorno è uscito l’articolo di Prodi sul Messaggero dove si spiega che per stabilizzare la Libia bisogna far intervenire le grandi potenze arabe (l’Egitto, l’ Arabia Saudita e gli Emirati) e la Turchia e il Qatar, i soli che possono assicurare in Libia un’autorità senza la quale ogni altra azione è impossibile.

Concludo tornando al tema della Resistenza.

Mi dicono che a Renzi non è simpatica la canzone “Bella Ciao” che è proprio quella dei partigiani. Sarebbe stato bello se l’avesse intonata anche lui alla manifestazione dell’Anpi. Non vorrei che invece di “Bella Ciao” dicesse “Ciao Bella”. È un cambiamento ma non andrebbe affatto bene.

Il manifesto, 25 aprile 2015

Con­trol­lare le fron­tiere, respin­gere i migranti, impe­dire che par­tano. Que­sti i prin­ci­pali impe­gni che i governi euro­pei hanno assunto in occa­sione della riu­nione di gio­vedì del Con­si­glio d’Europa. Impe­gni in sin­to­nia con quanto dichia­rato in diverse occa­sioni dal nostro pre­si­dente del con­si­glio che, nel suo discorso alla Camera, a poche ore di distanza dalla strage più grande di sem­pre nel Medi­ter­ra­neo, non ha nem­meno accen­nato al dovere dei governi ita­liano ed euro­pei di farsi carico della pro­te­zione delle per­sone che fug­gono da guerre e violenze.

Cen­trali restano, dal suo punto di vista, la lotta agli sca­fi­sti e un’ulteriore stretta alle fron­tiere, con l’aggravante, che segna un’inedita con­ver­genza tra i due Mat­tei (Renzi e Sal­vini), di dare prio­rità alla distru­zione delle imbar­ca­zioni usate per le tra­ver­sate in mare. L’Unione Euro­pea riprende, in sede di Con­si­glio, la pro­po­sta ita­liana, pre­ve­dendo anche la pos­si­bi­lità di un inter­vento mili­tare per rag­giun­gere l’obbiettivo, dimen­ti­cando però che in Libia c’è una guerra civile in corso e che il rischio di ‘danni col­la­te­rali’ è molto alto.

Grande sin­to­nia quindi tra il nostro governo e l’Europa dei 28 (ma anche con un pezzo dell’agenda poli­tica della destra xeno­foba) sulla gestione delle fron­tiere, con l’obiettivo, espli­ci­tato soprat­tutto negli accordi del pro­cesso di Khar­toum e in quello di Rabat, così come negli accordi bila­te­rali che si vanno defi­nendo in que­sti mesi, di tra­sfe­rire ai Paesi della sponda sud la respon­sa­bi­lità di gestire i flussi di richie­denti asilo per bloc­carli prima che arri­vino alle nostre frontiere.

Una con­ver­genza che segna il punto più basso delle poli­ti­che migra­to­rie, di fronte alle migliaia di cada­veri che giac­ciono sul fondo del Medi­ter­ra­neo. Nell’ordine del giorno del Con­si­glio l’accoglienza viene affron­tata come il meno impor­tante dei pro­blemi e la sban­die­rata soli­da­rietà tra gli Stati Mem­bri si riduce a pro­getti pilota di rein­se­ri­mento per 5mila rifu­giati, una cifra ridi­cola.

La grande e potente Europa met­te­rebbe in campo un pro­getto spe­ri­men­tale per almeno (sic!) 5000 posti. Tanto per capire di che stiamo par­lando, basti pen­sare che il pic­colo e povero Libano o la pic­cola e povera Gior­da­nia accol­gono circa un milione di per­sone a testa. L’Europa della Mer­kel, di Holande e Renzi, della BCE di Dra­ghi, 5000 posti. Vergogna!

Esi­ste per for­tuna un’altra Ita­lia, che ha rea­gito subito con sde­gno, por­tando in piazza migliaia di per­sone, cer­cando di resti­tuire a quei morti la dignità che meri­tano e di espri­mere un cor­do­glio ed una soli­da­rietà fatta di pro­po­ste con­crete. Non di vane parole e di cini­smo. L’Italia dei sin­da­cati, delle orga­niz­za­zioni sociali reli­giose e lai­che, di stu­denti e ambien­ta­li­sti, che ogni giorno prova a con­tra­stare il raz­zi­smo di stato. Una rete di asso­cia­zioni che si è data appun­ta­mento il 21 aprile davanti a Mon­te­ci­to­rio a Roma e in altre 100 città per chie­dere che il governo ita­liano attivi subito una ope­ra­zione di ricerca e sal­va­tag­gio (come Mare Nostrum), in attesa che tutta l’Europa si assuma que­sta responsabilità.

Allo stesso tempo è stato chie­sto che Ita­lia e UE affi­dino all’Unhcr il tra­sfe­ri­mento in sicu­rezza verso l’Europa di coloro che, nei paesi intorno al medi­ter­ra­neo, aspet­tano di poter par­tire per chie­dere pro­te­zione, con un’equa ripar­ti­zione tra i diversi stati. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifu­giati (Unhcr) è infatti l’organizzazione che ha com­pe­tenze, stru­menti e mezzi per poter gestire legal­mente il flusso di pro­fu­ghi, senza dover modi­fi­care leggi nè orga­niz­zare impro­ba­bili rap­pre­sen­tanze e campi di tran­sito in africa, col vero scopo di bloc­carli lì.

Nei pros­simi giorni la mobi­li­ta­zione con­ti­nuerà e se l’Italia e l’Unione euro­pea non cam­biano dire­zione ci sarà una rea­zione ampia e uni­ta­ria, per fer­mare la strage e resti­tuire forza e inte­grità alla nostra democrazia

Il manifesto, 25 aprile 2015

La cele­bra­zione delle date impor­tanti non è sem­pre uguale. Per­ché la memo­ria stessa è sog­getta alla sto­ria, e le cose si ricor­dano in modo diverso a seconda dei tempi. Tal­volta si è invece ripe­ti­tivi: è quando non ci sono par­ti­co­lari e nuove ragioni che spin­gono a ripen­sare l’evento com­me­mo­rato. E per­ciò resta un rituale. Quante volte nei tanti 8 marzo della mia vita mi è acca­duto di sbuf­fare per il fasti­dio della ripe­ti­ti­vità. Poi scop­piò il nuovo fem­mi­ni­smo e quella gior­nata si arric­chì di una carica inno­va­tiva che ci fece tor­nare con gioia a distri­buire mimose.

Per il 25 aprile non ho sbuf­fato mai, ma è vero che, pas­sato il peg­gio della guerra fredda — quando i governi dc arre­sta­vano i par­ti­giani, o quando arrivò Tam­broni — anche la Resi­stenza rimase spesso immo­bile. Oggi, 2015, è evi­dente a tutti che la data è cal­dis­sima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo spe­ci­fico aspetto: non tanto per­ché chi ne fu com­bat­tente riu­scì a cac­ciare i tede­schi , che pure non è poco. Piut­to­sto per­ché è in que­gli anni ’43–45 che ven­nero poste le fon­da­menta — per la prima volta — di uno stato demo­cra­tico in Ita­lia. Che oggi mi pare in peri­colo, non per­ché assa­lito dai fasci­sti, ma per­ché eroso dal di dentro.

Noi uno stato popo­lare, legit­ti­mato a livello di massa, non l’avevamo avuto mai : il Risor­gi­mento, come sap­piamo, fu assai eli­ta­rio e pro­dusse una par­te­ci­pa­zione assai ristretta, estra­nee le classi subal­terne; i governi della nuova Ita­lia nata nel 1860 restano nella memo­ria dei più per la disin­vol­tura con cui gene­rali e pre­fetti spa­ra­vano su ope­rai e con­ta­dini. Poi venne addi­rit­tura il fascismo.

A dif­fe­renza del maquis fran­cese o della resi­stenza danese o nor­ve­gese, la nostra non aveva pro­prio nulla da recu­pe­rare, niente e nes­suno da rimet­tere sul trono. Si trat­tava di inven­tarsi per intero uno stato ita­liano decente, e dun­que demo­cra­tico. (Come in Gre­cia, del resto, dove però una pur straor­di­na­ria Resi­stenza non ce l’ha fatta).

Non è una dif­fe­renza di poco. E se la Resi­stenza ita­liana ci ha per­messo di riu­scirci, è anche per­ché è stata la prima volta in cui in Ita­lia le masse popo­lari hanno par­te­ci­pato mas­sic­cia­mente e senza essere inqua­drate dai bor­ghesi alla deter­mi­na­zione della sto­ria nazionale.

E anche per un’altra ragione: per­ché il dato mili­tare, e quello stret­ta­mente poli­tico — l’accordo fra i par­titi anti­fa­sci­sti — pur impor­tanti, non esau­ri­scono la vicenda resi­sten­ziale. Un ruolo deci­sivo nel carat­te­riz­zarla l’ha avuto quello che un grande sto­rico, coman­dante della bri­gata Gari­baldi in Luni­giana, Roberto Bat­ta­glia, chiamò “società par­ti­giana”. E cioè qual­cosa di molto di più del tratto un po’ gia­co­bino, o meglio gari­bal­dino, dell’organizzazione mili­tare più i civili che ne aiu­ta­rono eroi­ca­mente la sus­si­stenza; e cioè l’autorganizzazione nel ter­ri­to­rio, l’assunzione, gra­zie a uno scatto di sog­get­ti­vità popo­lare di massa, di una respon­sa­bi­lità col­let­tiva, per rispon­dere alle esi­genze della comu­nità, il “noi” che pre­valse senza riserve sull’ “io”.

L’antifascismo come senso comune, più che nella tra­di­zione pre­bel­lica, ha ori­gine in Ita­lia da que­sto vis­suto, nell’ espe­rienza auto­noma e diretta di sen­tirsi — «attra­verso scelte che nascono dalle pic­cole cose quo­ti­diane», come ebbe a scri­vere Cala­man­drei — pro­ta­go­ni­sti di un nuovo stato, non quello dei monu­menti dedi­cati ai mar­tiri, ma quello su cui hai diritto di deci­dere, di una patria che non chiede sacri­fici ma ti garan­ti­sce pro­te­zione, legit­tima i tuoi biso­gni, ti dà voce. E’ la comu­nità, insomma, che si fa Stato, a par­tire dal senso di appartenenza.

La Costi­tu­zione par­to­rita dalla Resi­stenza riflette pro­prio que­sta presa di coscienza, e infatti defi­ni­sce la cit­ta­di­nanza come piena appar­te­nenza alla comu­nità. Non avrebbe potuto essere così se, ben più che da una media­zione di ver­tice fra i par­titi, non fosse nata pro­prio da quella espe­rienza diretta che fu la “società par­ti­giana.” E dalle sue aspi­ra­zioni. Per que­sto ha una ispi­ra­zione così ugua­li­ta­ria e for­mu­la­zioni in cui è palese lo sforzo di evi­tare for­mule astratte. E’ di lì che viene fuori quello straor­di­na­rio arti­colo ‚per esem­pio, che dice come, per ren­dere effet­tive libertà e ugua­glianza”, sia neces­sa­rio “rimuo­vere gli osta­coli che le limi­tano di fatto”.

Pro­prio riflet­tendo su quanto da più di un decen­nio sta acca­dendo, a me sem­bra che la crisi visi­bile della demo­cra­zia che stiamo vivendo non sia solo la con­se­guenza del venir meno di quel patto di ver­tice, e dei par­titi che l’avevano sot­to­scritto, ma più in gene­rale dell’impoverirsi del tes­suto politico-sociale che ne aveva costi­tuito il con­te­sto. E se è pos­si­bile l’attacco che oggi si sca­tena con­tro la Costi­tu­zione è pro­prio per­ché la nostra società non è più “par­ti­giana”, ma pas­siva, pri­vata di sog­get­ti­vità, estra­nea alla poli­tica di cui non si sente più, e infatti non è più, pro­ta­go­ni­sta, chiusa nelle angu­stie dell’”io”, sem­pre meno par­te­cipe del destino dell’altro, lon­tana dal decli­nare il “noi”.

Non ci sarà esito posi­tivo agli sforzi che in molti, e da punti di par­tenza anche dif­fe­ren­ziati, vanno facendo per uscire dalla crisi della sini­stra se non riu­sci­remo a risu­sci­tare prima sog­get­ti­vità e senso di respon­sa­bi­lità col­let­tiva . Non riu­sci­remo nem­meno a sal­vare la Costi­tu­zione, e fini­remo anche per can­cel­lare la spe­ci­fi­cità della Resi­stenza ita­liana. Quell’attacco mira pro­prio ad impo­ve­rire l’idea stessa della demo­cra­zia che essa ci ha rega­lato, ridu­cen­dola a un insieme di regole e garan­zie for­mali e indi­vi­duali, non più ter­reno su cui sia pos­si­bile eser­ci­tare potere.

Stiamo attenti a come cele­briamo il 25 Aprile. Ber­lu­sconi, quando per una volta si degnò di par­te­ci­pare a una ini­zia­tiva per il 25 aprile — fu ad Onna, subito dopo il ter­re­moto d’Abruzzo — ebbe a dire che sarebbe stato meglio cam­biare il nome della festa: non più “della Libe­ra­zione”, ma “della Libertà”. Pro­po­sta fur­bis­sima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra dà conto della sto­ria e rac­conta chi la libertà ce l’aveva tolta e cosa abbiamo dovuto fare per ricon­qui­starla. Se smar­riamo la sto­ria can­cel­liamo il ricordo delle squa­dracce fasci­ste al soldo degli agrari e dei padroni che bru­cia­rono le Camere del lavoro, la vio­lenza con­tro le orga­niz­za­zioni popo­lari; depen­niamo la Resi­stenza stessa e sopra­tutto il ruolo che ha avuto nel costruire un nuovo stato ita­liano democratico.

Rischiamo di dimen­ti­care che per man­te­nere la libertà c’è biso­gno di sal­va­guar­dare la Costi­tu­zione e per farlo di rico­struire una “società par­ti­giana” per l’oggi: uno scatto di sog­get­ti­vità, di assun­zione di respon­sa­bi­lità, un impe­gno poli­tico col­let­tivo, rimet­tere il “noi” prima dell’”io”.

Sapendo che oggi il “noi” si è estre­ma­mente dila­tato. Non è più quello di chi vive attorno al cam­pa­nile, e nem­meno den­tro i con­fini nazio­nali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quo­ti­diano, lo stra­niero — e con lui la poli­tica estera — lo incon­triamo al super­mar­ket, all’angolo della strada, nella scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra senza la sua non ha più senso. Per que­sto non è pen­sa­bile festeg­giare il 25 Aprile senza pale­sti­nesi e immi­grati, così come senza gli ebrei che da qual­che parte pati­scono tutt’ora l’antisemitismo. Non è debor­dare dal tema “Libe­ra­zione” sen­tirsi parte, vit­time e però anche respon­sa­bili, di tutti i disa­stri che afflig­gono oggi il mondo.

Il manifesto, 23 aprile 2015, con postilla

L’Europa va rico­struita dalle fon­da­menta, a par­tire dalla ride­fi­ni­zione dei suoi con­fini. L’Europa che c’è ora si sta sfal­dando per­ché inca­pace di fron­teg­giare le tre sfide che i suoi popoli devono affron­tare: la sfida ambien­tale; quella eco­no­mica; e quella dei pro­fu­ghi. Pro­fu­ghi, non migranti; gente che preme ai con­fini dell’Europa non alla ricerca di una “vita migliore”, come negli scorsi decenni, ma per sfug­gire a guerre, stragi, morte per fame e schia­vitù.

Tre crisi inter­con­nesse che richie­dono uno sguardo alto sugli oriz­zonti, senza il quale vien meno ogni ragione di sovrap­porre un’entità regio­nale come l’Europa a quelle di Stati nazio­nali ormai pale­se­mente ina­de­guati. Eppure, nel dibat­tito poli­tico il tema della crisi ambien­tale è ormai affon­dato, som­merso dalle pre­oc­cu­pa­zioni finan­zia­rie; l’economia, che dovrebbe essere scienza del ben ammi­ni­strare la casa comune, si è ridotta a una misera par­tita dop­pia del dare e del pren­dere, dove pren­dere, per chi ha il bastone del comando, ha preso di gran lunga il soprav­vento sul dare. La que­stione dei pro­fu­ghi, finora con­si­de­rata mar­gi­nale (quasi un inci­dente di per­corso) è la più grave e urgente, per­ché rias­sume in sé tutte le altre; ma ridi­se­gnerà i con­fini dell’Europa e le sue fon­da­menta.

Una classe domi­nante tir­chia e vorace cerca di elu­dere i pro­blemi posti dalla crisi ambien­tale glo­bale, dall’“emergenza pro­fu­ghi”, dalle vio­la­zioni quo­ti­diane della dignità umana subite da chi è senza red­dito, senza lavoro, senza casa, senza cure, senza fami­glia o affetti, senza futuro: «non ci sono i soldi», «non c’è più posto», «non ci riguar­dano». Sem­bra quasi che il crollo di Stati e il caos di intere regioni, il pro­trarsi ende­mico di con­flitti inso­ste­ni­bili, o le stesse guerre guer­reg­giate ai suoi bordi — a cui a volte l’Europa prende parte, a volte assi­ste ignava — non la riguar­dino. Men­tre la stanno tra­sci­nando nell’abisso. Un abisso dove si intrav­ve­dono già le prime avvi­sa­glie — ma se ne ascol­tano ormai ad alta voce gli inci­ta­menti — di una poli­tica di ster­mi­nio.

Che dif­fe­renza c’è, infatti, se non in peg­gio, come ha fatto notare Erri De Luca, tra le navi negriere di secoli tra­scorsi e le car­rette del mare che tra­sci­nano a fondo i pro­fu­ghi costretti a salirvi? O, come ha fatto notare Gad Ler­ner, tra i treni piom­bati che por­ta­vano gli ebrei ad Ausch­witz, per tra­sfe­rirli subito nelle camere a gas, e le stive dei bar­coni den­tro cui i pro­fu­ghi, chiusi a chiave, spro­fon­dano in fondo al mare senza nem­meno vedere la luce del sole? I numeri, direte voi. No, quelli ci sono. Sono sei milioni – tanti quanti gli ebrei sop­pressi nei campi di ster­mi­nio nazi­sti – i pro­fu­ghi che affol­lano i campi dei paesi ai bordi del Medi­ter­ra­neo, o che si appre­stano a intra­pren­dere un viag­gio della morte verso le coste euro­pee. E se per loro non sapremo met­tere a punto solu­zioni diverse — per­ché man­cano i soldi, o per­ché non c’è posto, o per­ché scon­vol­ge­reb­bero il non più tanto quieto vivere dei cit­ta­dini euro­pei — la sorte che gli pre­pa­riamo è quella.

Biso­gna esserne con­sa­pe­voli. Che cosa signi­fi­cano infatti le “solu­zioni” pro­spet­tate dai nostri gover­nanti: sia ita­liani che euro­pei? Distrug­gere le car­rette del mare? Ne tro­ve­ranno altre, ancora più costose e insi­cure. Alle­stire campi di rac­colta ai con­fini dei paesi di imbarco? Ma per farne che cosa? Per tra­spor­tare in sicu­rezza i rifu­giati, di lì verso la loro meta? O per affi­dare a dit­ta­ture di ogni genere cen­ti­naia di migliaia di dere­litti senza più diritti, né patria, né nome, che prima o poi ten­te­ranno la fuga o ver­ranno ster­mi­nati? Fare la guerra ai paesi da cui si imbar­cano? Ma non sono state pro­prio quelle guerre a creare un numero così alto di uomini, donne e bam­bini senza più un posto dove vivere? Com­bat­tere e arre­stare gli sca­fi­sti (la solu­zione più ipo­crita di tutte)? Ma sono loro la causa di quei milioni di esseri umani che vogliono rag­giun­gere le coste euro­pee, o è la man­canza di alter­na­tive sicure, messe al bando dall’Europa, a pro­durre e ripro­durre gli sca­fi­sti?

La verità è che quei pro­fu­ghi sono già cit­ta­dini euro­pei. Cit­ta­dini di ultima classe, per­ché non viene rico­no­sciuto loro alcun diritto; ma tut­ta­via abi­tanti che fanno parte del con­te­sto dove si decide il destino dell’Europa. Pro­prio per que­sto i paesi da cui fug­gono sono già parte inte­grante del suolo euro­peo. Ma, a dif­fe­renza dei migranti degli scorsi decenni quei pro­fu­ghi non ten­tano la tra­ver­sata del Medi­ter­ra­neo, o lo sca­val­ca­mento dei con­fini orien­tali, per tra­sfe­rirsi in Europa per sem­pre; in gran parte sono pronti a tor­nare nei loro paesi non appena la situa­zione lo per­met­tesse. Quella situa­zione è la paci­fi­ca­zione e la rina­scita di quei ter­ri­tori: cose che non si otten­gono con la guerra, né con una diplo­ma­zia che finge di trat­tare con quelle stesse fazioni che ha armato; o che con­ti­nuano ad essere armate da gio­chi e trian­go­la­zioni su cui ha sem­pre meno con­trollo.

Quella paci­fi­ca­zione, in Asia, Africa, Medio Oriente, ha biso­gno di una base sociale solida. E quella base sociale, in potenza, c’è. Il nucleo por­tante potreb­bero essere pro­prio quei pro­fu­ghi che hanno rag­giunto o che cer­cano di rag­giun­gere il suolo euro­peo; i legami che li uni­scono sia a parenti e comu­nità già inse­diate in Europa, sia a coloro che sono rima­sti, o non sono riu­sciti a fug­gire dai loro paesi. Ma a quella mol­ti­tu­dine dispersa e dispa­rata (i flussi) occorre rico­no­scere la dignità di per­sone. Aiu­tan­dole innan­zi­tutto a rag­giun­gere in sicu­rezza la meta; ma anche, una volta qui, per­met­ten­dole di siste­marsi, sep­pure in modo prov­vi­so­rio, in con­di­zioni digni­tose: in case che non siano insa­lu­bri rico­veri ille­gali; pos­si­bil­mente dif­fuse sul ter­ri­to­rio sia per non gra­vare su sin­goli abi­tati votati al degrado, sia per faci­li­tare rap­porti di buon vici­nato con i locali. Con un lavoro, anche par­ziale, a par­tire dalla gestione e dalla siste­ma­zione fisica degli ambienti in cui devono tra­scor­rere una parte della loro vita: tra loro ci sono mura­tori, fab­bri, fale­gnami, elet­tri­ci­sti, agri­col­tori; ma anche mae­stri, con­ta­bili, infor­ma­tici, inge­gneri, medici infer­mieri; per­ché mai atti­vità che, ade­gua­ta­mente soste­nute, pos­sono fare loro, ven­gono invece affi­date a coo­pe­ra­tive che li sfrut­tano e costano il tri­plo? Ma, soprat­tutto, occorre faci­li­tar loro la pos­si­bi­lità di incon­trarsi, di met­tersi in rete, di eleg­gere i loro rap­pre­sen­tanti, di farsi comu­nità sociale e poli­tica, di met­tere a punto stra­te­gie per il loro ritorno.

Ma come si può anche solo pro­porre obiet­tivi del genere in paesi dove la disoc­cu­pa­zione è alle stelle e casa, red­dito e lavoro man­cano anche a tanti euro­pei? Non si può. A meno di per­se­guire per tutti, cit­ta­dini euro­pei e stra­nieri, degli stan­dard minimi di red­dito, di abi­ta­zione, di lavoro (pro­mosso o creato diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente dai poteri pub­blici), di istru­zione, di assi­stenza sani­ta­ria. L’essenza stessa di un pro­gramma radi­cal­mente alter­na­tivo a quello per­se­guito dall’attuale gover­nance euro­pea con le poli­ti­che di auste­rità. Ma l’unico capace di affron­tare l’ondata del raz­zi­smo e della xeno­fo­bia ali­men­tata dagli impren­di­tori poli­tici della paura di destra e sini­stra. E l’unico per for­nire una road map alla rifon­da­zione radi­cale dell’Europa; a par­tire dal rico­no­sci­mento dei suoi con­fini di fatto e di quei diritti senza i quali la pre­tesa di tener uniti i suoi popoli non ha alcun fon­da­mento.

Uto­pia? Certo. Ma qual è l’alternativa? Il castello dell’euro, e quello dell’Unione, e la falsa imma­gine di un con­ti­nente oasi di pace dopo la seconda guerra mon­diale non resi­ste­ranno a lungo se non si lavora fin d’ora per inver­tire rotta. E la nuova rotta è que­sta: insieme ai nostri fra­telli e sorelle che fug­gendo dalle guerre ci por­tano, con la loro stessa vicenda esi­sten­ziale, un mes­sag­gio di pace.

postilla

A proposito di utopia. A chi lo accusava di essere utopista nella sua proposta l'economista Claudio Napoleoni rispondeva: «Il fatto è che posto a un livello più basso il problema non è risolvibile»

La Repubblica, 24 aprile 2015

La “quasi certezza”: è questo che la Casa Bianca pretende per dar via libera ai Predator B e ai loro missili Hellfire. E quando si uccidono le persone sbagliate, ha detto ieri Barack Obama, è perché «nella nebbia della guerra al terrorismo si possono compiere errori, a volte mortali». Errori che uccidono occidentali come Giovanni Lo Porto e il suo compagno di sventura, Warren Weinstein, o che straziano ragazzi, donne, civili e in genere tutti quelli che si trovavano al momento sbagliato nel posto sbagliato, Pakistan o Yemen che sia.

Al Pentagono usano l’atroce termine “danni collaterali”, presentando cifre che tutto sommato lasciano pensare a una percentuale modestissima di civili uccisi. Ma per respingere l’idea di tollerabilità, non c’è nemmeno bisogno di affrontare problemi di principio. Il fatto è che la dottrina della Difesa Usa classifica come “elementi ostili” tutti i maschi adulti presenti sul luogo dell’attacco. Il ragionamento è: se è grande abbastanza da imbracciare un kalashnikov e frequenta amicizie sospette, dev’essere per forza un nemico.
«In realtà i cosiddetti danni collaterali sono inevitabili nelle operazioni con i velivoli a pilotaggio remoto Uav. E sono già messi in conto», dice Gianfranco Bangone, autore di La guerra al tempo dei droni, edito da Castelvecchi. Secondo un rapporto del centro britannico per i diritti umani Reprieve, per inseguire i 41 super-ricercati della “lista da eliminare”, a partire dal mullah Omar ed Ayman al Zawahiri, i droni Usa hanno già ucciso 1.147 persone. Il Bureau of Investigative Journalism fornisce bilanci impressionanti, con il Pakistan al centro dell’offensiva americana (quasi 4mila vittime, un migliaio i civili), poi lo Yemen (un migliaio di vittime, un centinaio i civili), la Somalia e l’Afghanistan.
Più che un problema di droni, è una questione di scelte strategiche: colpire dall’alto — che sia dai Predator o da un cacciabombardiere — permette di ridurre o annullare del tutto le perdite, ma allo stesso tempo diminuisce la capacità di controllare quello che avviene sul terreno. In altre parole, dalla loro postazione lontana, magari in una base Usa, i piloti non hanno nessuna certezza di attaccare davvero miliziani di Al Qaeda o Taliban. Quello che conta è dunque la capacità di intelligence, cioè la raccolta di informazioni prima dell’attacco e a volte anche l’indicazione degli obiettivi in “tempo reale”, cioè con elementi delle truppe speciali infiltrati che “illuminano” l’obiettivo da colpire con speciali laser.
«Ma all’azione di un Uav partecipano più persone», dice un esperto della Difesa italiana: «Questo vuol dire che la responsabilità è distribuita a tutti i livelli. Grazie alle moderne tecnologie di comunicazione, la scelta di colpire o di rimandare l’attacco è condivisa. Insomma, quando ci sono dubbi, per decidere si coinvolge chi ha altre responsabilità, non solo tattiche, ma strategiche, e anche politiche». In più, le caratteristiche dei droni permettono ricognizioni di lunga durata, ben oltre i limiti fisici del pilota umano. E questo dovrebbe garantire una ragionevole sicurezza nell’individuare il bersaglio. A consolidare le informazioni dall’alto, deve intervenire anche l’Humint, l’intelligence umana sul terreno: i problemi sorgono solo quando il tempo stringe, magari perché si ritiene che l’obiettivo d’alto livello stia per andar via. È in questi casi che la percentuale di errore si alza.
Il Pentagono, però, ha adottato anche un sistema di individuazione degli elementi ostili basato su software. Sono i cosiddetti signature strike , cioè colpi basati su un comportamento considerato “la firma” dei terroristi. Individuato con certezza un esponente di Al Qaeda, se ne controllano le comunicazioni, dopo di che si comincia a seguire le persone che sono entrate in contatto con lui, rilevando i movimenti delle sim card contenute nei cellulari. Se alcune di queste persone frequentano altri esponenti “nemici”, o hanno comunque comportamenti “sospetti”, si presume che a loro volta siano ostili. In questo modo l’autorizzazione all’assalto dei Predator di fatto viene affidata a un calcolatore.
Molto probabilmente è a queste procedure che si riferiva ieri il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest, annunciando la decisione di Obama di “rivedere” i protocolli di attacco dei droni. La “quasi certezza” voluta dal presidente è altra cosa. Tanto più che se le informazioni sono inaffidabili, se il software del destino è imperfetto e c’è il sospetto di aver straziato civili senza colpa, anche per chi partecipa la missione è inaccettabile. Lo racconta Brandon Bryant, pilota di Predator che ha lasciato l’Air Force dopo oltre 1.600 vittime. Quando il missile Hellfire colpisce l’obiettivo, gli schermi del posto di comando mostrano l’esplosione, ovviamente senza rumore. Poi si vedono i corpi. L’immagine più sconvolgente compare sullo schermo a rilevazione termica, quando cambia la temperatura nei corpi delle persone colpite. Il sangue all’inizio appare caldo, poi si raffredda. E ha lo stesso colore, che sia di miliziani di Al Qaeda oppure di ragazzi innocenti.

Il manifesto, 24 aprile 2015 (m.p.r.)

Navi da guerra, por­tae­li­cot­teri, aerei arri­ve­ranno nel Medi­ter­ra­neo per met­tere ordine, per “smash the gangs”, come ha rias­sunto con grande ele­ganza il bri­tan­nico David Came­ron. Ma gli “inter­venti mirati” per distrug­gere i bar­coni dei traf­fi­canti, indi­vi­duati come i soli respon­sa­bili dell’ecatombe umana die­tro i quali la Ue tenta di nascon­dere le pro­prie respon­sa­bi­lità, restano un’ipotesi dif­fi­cile da rea­liz­zare nei paesi di par­tenza, a comin­ciare dalla Libia, e potreb­bero limi­tarsi ad azioni ex post, nei porti di sbarco euro­pei. A Mrs Pesc, Fede­rica Moghe­rini, è stato affi­dato il com­pito di tro­vare le vie legali per arri­vare al seque­stro e alla distru­zione dei bar­coni dei trafficanti.

Il Con­si­glio straor­di­na­rio sui migranti dei capi di stato e di governo della Ue si è aperto a Bru­xel­les con un minuto di silen­zio in memo­ria dei morti del Medi­ter­ra­neo. Sarà il solo momento in cui sono ricor­dati come esseri umani. Per il resto, i 28 hanno discusso per ore come sca­ri­carsi il “far­dello”, senza cam­biare di una vir­gola i cri­teri di Fron­tex, agen­zia nata per difen­dere la for­tezza Europa, come dice il suo nome. I finan­zia­menti a Tri­ton (al largo dell’Italia) e a Posei­don (al margo della Gre­cia) saranno rad­dop­piati: erano rispet­ti­va­mente di 2,9 milioni al mese e 8 milioni l’anno (ma anche con il rad­dop­pio non si rag­giun­gerà l’investimento di Mare Nostrum). Misure “molto lon­tane dal nostro appello pres­sante a favore di ope­ra­zioni di sal­va­tag­gio di grande ampiezza”, ha com­men­tato Amne­sty Inter­na­tio­nal, che ha fir­mato con una tren­tina di altre orga­niz­za­zioni non gover­na­tive un testo rivolto ai diri­genti euro­pei e rima­sto inascoltato.

Le con­clu­sioni del ver­tice ripren­dono i dieci punti del pro­gramma di emer­genza pre­sen­tato dalla Com­mis­sione lunedi’. Ma lo rive­dono ancora al ribasso. Biso­gnerà aspet­tare mag­gio, per esem­pio, e altre pro­po­ste della Com­mis­sione, per vederci più chiaro sulla “rein­stal­la­zione” dei richie­denti asilo nei 28 paesi: comun­que, l’offerta sarà solo “su base volon­ta­ria” e non dovrebbe riguar­dare più di 5mila per­sone, iden­ti­fi­cate dall’Onu come rifu­giati (oggi nei campi in Libano, Gior­da­nia e Tur­chia). Non è in discus­sione un cam­bia­mento di Dublino II, che pre­vede che sia il paese di primo arrivo ad aprire la pra­tica per il diritto d’asilo (cosa che incombe soprat­tutto su Ita­lia, Gre­cia, Spa­gna, Malta e Cipro). C’è una diret­tiva Ue del 2001, mai appli­cata, che pre­vede una “pro­te­zione tem­po­ra­nea” in caso di grave crisi, ma anche que­sto sem­bra troppo alla mag­gio­ranza degli euro­pei. David Came­ron, per esem­pio, che deve fron­teg­giare le ele­zioni il 7 mag­gio, ha subito fatto sapere che man­derà 3 eli­cot­teri e una nave (è già una svolta, prima non voleva nep­pur sen­tir par­lare di ricerca e sal­va­tag­gio), ma che comun­que la Gran Bre­ta­gna non accet­terà di ospi­tare rifu­giati. Nel 2014, come ha ricor­dato il pre­si­dente dell’Europarlamento Mar­tin Schultz, ci sono state 626mila domande di asilo nella Ue, ma ne è stata accolta solo un’infima per­cen­tuale (a titolo di para­gone, il Libano, che ha 5 milioni di abi­tanti, acco­glie un milione di siriani). La Fran­cia man­derà due navi e un aereo, la Sve­zia (con la Nor­ve­gia) una nave. La Ger­ma­nia, due navi. La Spa­gna e il Bel­gio accet­tano anch’esse di par­te­ci­pare. La mini­stra della difesa ita­liana, Pinotti, sostiene di sapere dove si tro­vano i traf­fi­canti, l’Italia spinge per ope­ra­zioni mirate in Libia. Ma molti fre­nano, e molto pro­ba­bil­mente la distru­zione dei bar­coni avverrà nei porti di sbarco euro­pei. Per poter agire in Libia, prin­ci­pale stato di par­tenza, ci vuole l’accordo del “governo”, ma, come ha sot­to­li­neato Hol­lande (rife­ren­dosi pole­mi­ca­mente al suo pre­de­ces­sore Sar­kozy), quel paese “non è gover­nato, è nel caos”, tre anni e mezzo dopo l’intervento. Ci vor­rebbe un man­dato Onu, ma qui l’Ue si scon­tre­rebbe con un sicuro veto russo. Il pre­ce­dente di Ata­lante, la mis­sione Ue al largo della Soma­lia con­tro la pira­te­ria, inse­gna: la mis­sione era stata decisa nel 2008, ma le prime azioni sono arri­vate solo nel 2011-12. Come ha rias­sunto un ammi­ra­glio fran­cese, Alain Col­defy: “cosa pos­siamo fare per con­te­nere que­sto traf­fico con la forza? La rispo­sta è sem­plice: niente”. Rebecca Harms, co-presidente dei Verdi al Par­la­mento euro­peo, afferma che l’ipotesi di inter­venti mirati è un “senza senso, la mis­sione di difesa e sicu­rezza comune signi­fica mili­ta­riz­za­zione della stra­te­gia Ue con­tro i migranti”.

La Ue si lascia ten­tare dal modello austra­liano. Il pre­mier, il con­ser­va­tore Tony Abbott, vanta che negli ultimi 18 mesi ci sono stati “zero morti” al largo dell’Australia, gra­zie all’operazione “fron­tiere sovrane”. Una cam­pa­gna di infor­ma­zione (“No way, you will not make Austra­lia home”) per sco­rag­giare le par­tenze, 908 baroni respinti nelle acque inter­na­zio­nali in 18 mesi, una spesa con­si­de­re­vole di cen­ti­naia di migliaia di dol­lari e per i migranti la sola pos­si­bi­lità di tor­nare da dove sono venuti oppure di andare in cen­tri di deten­zione off shore in “paesi part­ner”: Cam­berra dà soldi a paesi come la Cam­bo­gia (40 milioni di dol­lari) o la Papua­sia Nuova Gui­nea per­ché accol­gano i migranti che avreb­bero diritto all’asilo (l’Australia ha fir­mato la con­ven­zione inter­na­zio­nale del ’51). La Ue, difatti, cerca “part­ner” in Africa che si fac­ciano carico dei migranti.

eddyburg versione integrata. Alfabeta2.it, 21 aprile 2015

L’annegamento di 700 forse 900 migranti il 17 aprile 2015 è l’ennesima conseguenza diretta di due fatti principali: la riproduzione delle guerre e il proibizionismo delle migrazioni. La maggioranza dei media continua a vomitare lacrime da coccodrillo, vili ipocrisie, falsità e addirittura il compiacimento da parte degli sciacalli; ancora una distrazione di massa per nascondere le vere cause di queste stragi e i responsabili.

Soprattutto dal 1990, la maggioranza degli emigranti fugge le guerre o le conseguenze dirette o indirette di queste: palestinesi, ruandesi, sudanesi, eritrei, congolesi, originari dei Balcani, iracheni, afgani, sub-sahariani, kurdi e oggi siriani e ancora altri di altre zone di guerra che i nostri media raramente menzionano. La riproduzione delle guerre dal 1945 a oggi è dovuta innanzitutto al continuo aumento della produzione delle armi e al suo commercio legale e illegale da parte delle principali potenze mondiali e dei paesi loro alleati. È risaputo che le armi e i soldi dell’Isis provengono soprattutto dagli Emirati amici degli Stati Uniti o anche della Russia e talvolta della Cina.

Da anni la più grande fiera annuale degli armamenti si svolge negli Emirati; all’ultima, il 22-26 febbraio scorso ad Abou Dhabi (si veda anche video della precedente SOFEX) hanno partecipato 600 rappresentanti delle imprese e paesi espositori (fra cui 32 imprese italiane), ossia ministri (fra i quali la sig.ra Pinotti e il sig. Minniti), diplomatici, alti ufficiali delle forze armate e alti dirigenti delle polizie e dirigenti delle grandi imprese (per l’Italia in primo luogo la Finmeccanica presieduta dal prefetto, ex-capo della polizia e poi dei servizi segreti, De Gennaro).

Secondo il Sipri, la produzione e l'esportazione di armamenti sono notevolmente e continuamente aumentate in particolare dal 2005; i principali paesi esportatori di armamenti sono Stati Uniti, Russia, Germania, Cina, Francia e Italia che per buona parte produce in joint venture o subappalto con/per imprese statunitensi; i primi cinque paesi insieme occupano il 74% del volume mondiale di esportazioni, USA e Russia da soli il 56% del mercato; i principali paesi importatori sono India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Pakistan; i principali clienti dell’Italia sono gli Emirati, l’India e la Turchia.

Come mostrano alcune ricerche di questi ultimi anni, le lobby finanziarie-militaro-poliziesche transnazionali e dei singoli paesi soprattutto dopo l’11 settembre 2001 hanno puntato all’esasperazione di ogni situazione di crisi e a favorire la costruzione del “nemico di turno” per giustificare la guerra permanente o infinita (come la definiva senza ambasce G. Bush jr.). Dopo Al Qaeda, l’Isis è palesemente il nemico ancor più orribile e forse ormai non più condizionabile da parte delle grandi potenze e dai loro alleati arabi, così come è diventata incontrollabile la situazione in Iraq, in Libia e altrove. Ma questo va bene per il “gioco della guerra infinita” e del “governo attraverso il terrore” (J. Simon).

Ovviamente, nessun paese produttore ed esportatore di armi sembra disposto a bloccare queste attività; tanti gridano contro la guerra, anche il Papa, ma non si dice che a monte c’è la responsabilità di chi realizza profitti e mantiene o accresce il suo dominio grazie a queste attività (vedi tutte le banche, e anche la finanza vaticana). Scappare anche a costo di rischiare la vita è l’unica possibilità che resta a chi ha la forza, la capacità e i soldi per fuggire le guerre. È quindi ovvio che tanti cercano di approfittare di questo bisogno. Ma, i trafficanti di migranti possono praticare questo business a volte criminale perché c’è proibizionismo delle migrazioni.

Se le persone che cercano di scappare trovassero la possibilità di aiuto, di “corridoi umanitari” e quindi di accesso regolare ai paesi non in guerra, i trafficanti non potrebbero lucrare sul loro disperato bisogno di cercare salvezza. Ipotesi quali quella del “blocco navale”, oltre a essere del tutto insulsa anche dal punto di vista giuridico e tecnico, è degna di neo-nazistelli del XXI sec. Gli Stati Uniti, l’Unione europea, la Russia, ma anche la Cina, il Giappone e altri paesi che sono direttamente o indirettamente responsabili delle guerre e della disperata emigrazione di oggi dovrebbero essere obbligati dall’ONU a fornire aiuti e accesso regolare nei loro territori così, come si fece per i Boat people che scappavano dal sud-est asiatico negli anni Settanta a seguito della guerra in Vietnam e Laos, e i massacri di Pol Pot in Cambogia. La logica protezionista e proibizionista che prevale nell'Unione europea alimenta il razzismo e, ovviamente, anche il declino economico e l’inconsistenza politica.

Al contrario, cinicamente, gli Stati Uniti hanno continuato a costruire sulla migrazione regolare e irregolare il loro successo economico degli anni 1970-2007, e persino il superamento dell'ultima crisi. Dal 1990 la popolazione statunitense è aumentata di quasi 70 milioni. Allo stesso tempo, gli States hanno avuto e hanno più di 13 milioni di immigrati irregolari (clandestini), ogni anno ne hanno espulso tra i 400.000 e un milione e si stima che 18.500 sono stati uccisi nel 1998- 2013 alla frontiera in parte da poliziotti e anche da criminali che si divertono nella «caccia agli umani».

E' grazie all’immigrazione regolare e irregolare che gli USA sono diventati la prima potenza economica, militare e politica; le teorie razziste di Huntington si inseriscono perfettamente nel gioco tra inclusione e rifiuto, nell'inferiorizzazione degli immigrati così costretti a guadagnarsi la salvezza attraverso l'umiliazione, il sacrificio, a favore dell’alta produttività per il paese d’immigrazione.

I paesi europei sull’immigrazione sono ancorati a un proibizionismo rigido che permette solo un’immigrazione illegale per fornire neo-schiavi alle economie sommerse. Così, si producono più morti tra i migranti che cercano di raggiungere l’UE, meno naturalizzati, meno regolarizzazione e più precarietà. In tutta l’Europa a 27 (505 milioni di abitanti ufficiali) nel 2012 il totale degli immigrati regolari è stato inferiore a quello degli Stati Uniti, 21 milioni secondo Eurostat, e dal 1990 ci sono state meno naturalizzazioni. Le persone nate in un paese al di fuori dell'UE a 27 sarebbero di circa 33 milioni. Secondo le stime più attendibili, gli irregolari in Europa non sarebbero più di cinque milioni1.

Al di là della differenza tra l'Europa e gli Stati Uniti per quanto riguarda il welfare, constatiamo che gli Stati Uniti continuano a puntare sull'immigrazione con pratiche soft e altre di selezione violenta e anche razzista. L'Europa appare come un soggetto politico abortito prima di nascere, una sorta di continente dominato da buzzurri pronti solo a schiavizzare pochi passanti che si fermano mentre erigono nuove fortificazioni. Una prospettiva suicida nel mondo globalizzato, perché tra l'altro, i neo-ricchi dei paesi emergenti sembrano giocare all’asta fallimentare dei beni di un continente decadente.

Post scriptum
Secondo i razzisti queste guerre sono dovute alla barbarie propria di popoli incivili che non meritano la democrazia, insomma sono “barbari” o come diceva Lombroso “atavici”, cioè pre- umani o animali e quindi in preda a istinti di violenza e criminalità (la teoria del criminale nato). Ne consegue che i migranti sono da respingere anzi bombardare prima che partono ecc.

Secondo gli “umanitari” queste guerre sono dovute a popoli che devono essere aiutati a imparare la democrazia, insomma devono essere “educati” perché “arretrati” o come bambini non ancora maturi; di questa tesi ne approfittano le note ONG e multinazionali del cuore e persino le mafie come quella romana.

La tesi delle autorità e in particolare di quelle europee è che la “colpa” delle stragi di emigranti è dei trafficanti criminali. Ne consegue che bisogna andare a bombardare i trafficanti e distruggere i barconi ... così “prendono 4 piccioni con una fava”: 1) pensano di accontentare gli “umanitari” mostrando pietas per gli annegamenti; 2) accontentano anche i razzisti perché promettono di usare le maniere forti per impedire che gli emigranti partano; 3) nascondono le loro precise responsabilità delle stragi continue e 4) fanno anche un po’ di business spendendo soldi per l’uso di armamenti (droni, areei nuovi sistemi di intercettazione ecc.).

Chiunque abbia un minimo di conoscenze delle operazioni militari in casi del genere sa che andando a bombardare con droni o aerei i cosiddetti trafficanti e i loro barconi INEVITABILMENTE si finirebbe per colpire gli emigranti cioè i profughi sia perché probabilmente usati come scudi umani dai trafficanti sia perché è impossibile distinguere fra trafficanti e soprattutto la loro manovalanza -spesso improvvisati- e i profughi (le cosiddette guerre intelligenti hanno prodotto sempre “danni collaterali” cioè stragi di civili ...

Evidentemente il vero obiettivo delle autorità e governi è di non fare arrivare immigrati o farne arrivare il meno possibile e soprattutto nascondere le vere cause delle stragi continue, cioè la riproduzione delle guerre permanenti e il proibizionismo.

La prima responsabilità delle guerre è di chi produce e vende legalmente e illegalmente armamenti: senza la diffusione degli armamenti non potrebbero riprodursi tante guerre, semmai piccoli conflitti a “bastonate” ...

Ogni proibizionismo favorisce la criminalità: in assenza di aiuti e canali regolari di emigrazione i disperati che scappano sono inevitabilmente alla mercé di trafficanti e di chiunque offre qualche possibilità (i passeurs ...)

L’unica possibilità di salvare i profughi è di creare possibilità di aiuti, corridoi umanitari sia mettendo in mare, alle frontiere europee e nei paesi vicini a quelli in guerra navi e strutture per dare subito soccorso ai profughi e quindi subito permessi di soggiorno per lavoro

Ovviamente da parte di tutti i paesi dove questi profughi vogliono andare che sono innanzitutto: Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Australia, Canada e poi anche Italia, Svizzera, e forse anche Giappone e la Cina.

La Repubblica, 23 aprile 2015

SAREBBERO 1200 i migranti morti la settimana scorsa nel Mediterraneo per i naufragi delle fragili imbarcazioni su cui speravano di raggiungere dal Nord Africa le coste meridionali d’Europa. Venivano dalla Siria, dal Mali, dall’Eritrea e dalla Somalia, fuggivano dalla guerra e dalla povertà e, in gran parte, avevano pagato grosse somme ai trafficanti.

La tragedia sconvolge per le dimensioni, ma non rappresenta una novità. A partire dal 1993, stando alle stime, 20 mila migranti sono morti nel tentativo di varcare i confini meridionali dell’Europa. Il dato reale è indubbiamente superiore, di migliaia di morti non si è avuta notizia.

Di chi è la responsabilità? I politici europei puntano il dito contro i trafficanti. Lunedì l’Unione Europea ha annunciato un piano in dieci punti che prevede, tra l’altro. l’intervento militare contro le reti del traffico di esseri umani.

Senza dubbio i trafficanti sono personaggi spietati, che non si curano di mettere a rischio le vite dei migranti, ma se questi ultimi si affidano a loro la colpa è da attribuire alle politiche migratorie dell’Unione Europea. Il problema dell’immigrazione infatti non è stato affrontato dall’Ue sotto il profilo dell’emergenza umanitaria, ma della criminalità, attraverso una triplice strategia di militarizzazione dei controlli alle frontiere, criminalizzazione della migrazione e esternalizzazione dei controlli.

Da più di trent’anni l’Unione Europea è impegnata nella costruzione della “Fortezza Europa”, così la definiscono i critici, ossia un cordone di protezione operato da pattuglie marittime, aeree e di terra, nonché da un sistema di sorveglianza tecnologico con impiego di satelliti e droni. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita al centro operativo di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, ha osservato che vi si utilizza un linguaggio che rimanda alla «difesa dell’Europa dal nemico».

Esempio di questo approccio è stato il blocco di Mare Nostrum, l’operazione italiana di pattugliamento e salvataggio in mare, per sostituirla con Triton, un’operazione di ambito più ridotto e con un obiettivo del tutto diverso, tesa cioè a sorvegliare e proteggere i confini più che a salvare vite umane. Il numero dei migranti che oggi tentano di raggiungere l’Europa si discosta di poco dal dato corrispondente dello stesso periodo dell’anno scorso, ma il numero di vittime è di circa diciotto volte superiore.

Approcciare l’immigrazione come un problema di criminalità a volte porta a perseguire non solo i trafficanti, come avvenne nel 2004, quando una nave tedesca trasse in salvo 37 rifugiati africani imbarcati su un gommone. All’attracco in un porto siciliano l’imbarcazione venne sequestrata dalle autorità e il capitano e il primo ufficiale, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, furono assolti solo dopo una battaglia processuale durata cinque anni. Nel 2007 le autorità italiane tentarono di impedire a due pescherecci tunisini che avevano soccorso in mare 44 migranti di attraccare a Lampedusa. Di nuovo i capitani furono accusati di favoreggiamento e solo nel 2011 assolti in appello.

Non si tratta di casi limite. Che dei buoni samaritani siano trattati come criminali comuni è conseguenza inevitabile della politica migratoria dell’Unione Europea. La strategia di esternalizzazione dei controlli comporta il pagamento di somme di denaro agli stati africani affinché trattengano i potenziali migranti. Tristemente noto è l’accordo con la Libia. Nel 2010, un anno prima degli attacchi aerei operati da Gran Bretagna e Francia per rovesciare il regime del Colonnello Gheddafi, la Ue concluse un accordo con il leader libico impegnandosi a versare 50 milioni di euro perché nell’arco di tre anni le forze di sicurezza libiche fossero trasformate di fatto in polizia di confine. I ribelli anti Gheddafi acconsentirono a prolungare l’accordo ancor prima di andare al potere.

L’Unione Europea ha concluso un accordo simile con il Marocco e spera di estendere l’iniziativa a Egitto e Tunisia. In pratica lo scopo è spostare i confini dell’Europa al Nord Africa.

Il piano in dieci punti proposto lunedì dalle autorità europee è in linea con questo approccio fallimentare. Salta all’occhio la promessa di distruggere le imbarcazioni dei trafficanti, un proponimento non solo di dubbio valore morale — il messaggio ai migranti è “vi vogliamo in Nord Africa, fuori dalle scatole” — ma anche inefficace. Uno dei motivi dell’impennata del numero dei migranti è il crollo dell’autorità statale nella regione. L’intervento occidentale in Libia ha peggiorato il caos e l’azione militare ipotizzata non farà che intensificarlo.

Intanto i migranti sono costretti ad ammassarsi sulle carrette del mare perché le altre vie per entrare in Europa sono state bloccate. Distruggere le imbarcazioni dei trafficanti non farà altro che forzare le persone a scegliere di affrontare il viaggio con mezzi ancor più pericolosi.

Che fare quindi? Riattivare un’adeguata operazione di pattugliamento e salvataggio è importante, ma non basta. L’Unione Europea deve smettere di trattare i migranti da criminali e considerare il controllo dei confini alla stregua di un atto di guerra. Deve smantellare la Fortezza Europa, liberalizzare la politica dell’immigrazione e aprire vie legali per i migranti. Secondo alcuni questo comporterà un’invasione di migranti, ma le politiche attuali non impediscono la migrazione, semplicemente uccidono carichi di uomini stipati come sardine.

La Fortezza Europa non si è limitata a costruire una barriera fisica attorno al continente ma ha eretto una barricata emotiva attorno al senso di umanità dell’Europa. Finché non avverrà un cambiamento il Mediterraneo continuerà ad essere una tomba di migranti. Davanti alla prossima tragedia ricordiamoci che i nostri politici avrebbero potuto evitarla, ma hanno scelto di non farlo.

© 2-015 The New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi

Corriere della Sera, 23 aprile 2015

Lo scontro politico interno ed esterno al Pd, legato alla sostituzione dei dieci membri della commissione Affari costituzionali della Camera non allineati col presidente del Consiglio, sembra aver messo ancor più in ombra i contenuti della nuova legge elettorale. A cominciare da un punto che pure di dubbi e perplessità ne dovrebbe suscitare: la possibilità che l’Italicum spinga davvero il nostro sistema politico verso un assetto di tipo bipartitico. Lo ha sostenuto più volte, ancora nei giorni scorsi, Matteo Renzi senza suscitare alcuna particolare discussione. E la cosa è davvero sorprendente, visto che si tratta di una tesi di dubbio fondamento. Si possono dire infatti molte cose sul progetto di legge elettorale all’esame della Camera; è evidente, ad esempio, che esso garantirebbe la governabilità (sia pure al prezzo di dare la maggioranza dei seggi a chi ha avuto solo una minoranza dei voti). Ma che possa anche favorire il bipartitismo, questo sembra difficile.

Al momento il sistema politico italiano vede un solo partito in grado di superare il 30 per cento dei voti e per il resto un insieme — in continua ridefinizione — di partiti medi (Lega, Forza Italia, M5S), piccoli e piccolissimi. Dunque nella situazione esistente oggi, e presumibilmente nel prossimo futuro, quello che si configura è un particolarissimo caso di «monopartitismo». Per quanto si tratti evidentemente di un «monopartitismo democratico», rappresenterebbe egualmente un problema per chi considera l’alternanza come un elemento indispensabile in una democrazia.

Questa situazione ha dietro di sé molte cause e responsabilità, non può dunque essere direttamente imputata all’attuale presidente del Consiglio (è forse colpa sua se Berlusconi, piuttosto che cedere il controllo di FI, preferisce condannarla all’irrilevanza e forse alla scomparsa?). Ma è anche vero che l’Italicum sembra congegnato proprio per accentuare una situazione del genere, che vede un gigante — il Pd — circondato da molti cespugli, come ha efficacemente scritto Antonio Polito su queste colonne. In particolare, l’aver abbassato al 3 per cento dei voti la soglia che consente a un partito di ottenere seggi, favorendo la frammentazione politica, va nella direzione esattamente opposta a quella del bipartitismo evocato dal presidente del Consiglio.

Del resto, se una logica si può individuare nella sua strategia politica, essa sembra tutt’altro che di tipo bipartitico. La dura e insistita polemica con la Cgil e con la sinistra del Pd lascia intendere che per Matteo Renzi la nascita di una formazione alla sinistra del suo partito non sarebbe poi un dramma. Anzi, sarebbe perfino una cosa buona, non in una logica bipartitica (che implicherebbe al contrario un Pd capace di tenere anche le correnti di sinistra al proprio interno) bensì in quella del «partito della nazione» — pure più volte evocato da Renzi — che però del bipartitismo (e del bipolarismo) rappresenta l’esatto contrario.

Lo dimostrano i casi dei due partiti della nazione che a lungo hanno governato l’Italia, prima e dopo il ventennio fascista: il partito liberale in epoca Giolittiana e la Democrazia cristiana nel dopoguerra. Fatte salve le molte differenze (tra l’altro, quello liberale aveva solo in parte la struttura di un partito come lo intendiamo noi oggi), si trattava in entrambi i casi di forze collocate al centro del sistema politico, che hanno governato ininterrottamente per decenni grazie all’emarginazione dei partiti o gruppi esistenti sulla destra e sulla sinistra. È solo dopo il 1994 che questa modalità di governo dal centro ha potuto essere sostituita da un assetto che, per quanti difetti avesse, era però di tipo, se non bipartitico, bipolare.

Con l’Italicum si tornerebbe probabilmente a una condizione molto simile a quella che il Paese ha già conosciuto per tanta parte della sua storia: più che di un cambio di verso, insomma, rischierebbe di trattarsi — se vogliamo riprendere un’altra espressione volentieri utilizzata da Renzi — di un ritorno alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca.

Il manifesto, 23 aprile 2015

C’è una ter­ri­bile ipo­cri­sia in giro per l’Europa e ovvia­mente in Ita­lia. È quella dei governi che oggi tuo­nano con­tro gli sca­fi­sti da «bom­bar­dare» e i «mer­canti di schiavi». Un’ipocrisia tanto più repel­lente, quanto più suona come la giu­sti­fi­ca­zione pre­ven­tiva di un inter­vento mili­tare in Libia, o in pros­si­mità delle sue coste, tra­ve­stito da azione uma­ni­ta­ria. D’altra parte, l’ipocrisia è la norma ita­liana in que­ste mate­rie. Un anno fa, il governo Renzi van­tava il suc­cesso di Tri­ton, «a costo zero», come ripe­teva gio­io­sa­mente Alfano. Oggi lo stesso mini­stro, dopo l’immane strage in mare, dichiara l’inadeguatezza dell’operazione. Con mini­stri del genere c’è sem­pre da aspet­tarsi il peggio.

Inten­dia­moci. Le orga­niz­za­zioni di sca­fi­sti esi­stono, così come esi­ste una vasta docu­men­ta­zione degli atti di pira­te­ria: natanti abban­do­nati alla deriva, migranti get­tati in mare, vio­lenze di ogni tipo. Ma pren­dere esclu­si­va­mente di mira i «mer­canti di schiavi» signi­fica sia fal­si­fi­care agli occhi dell’opinione pub­blica la natura delle migra­zioni, sia get­tare le pre­messe di nuove sciagure.

Infatti, gli sca­fi­sti non fanno che lucrare sulla domanda di mobi­lità dei migranti. Mobi­lità nel senso di fuga dalla guerra, di ricerca di oppor­tu­nità o sem­pli­ce­mente di soprav­vi­venza. Finora l’Europa ha igno­rato le migra­zioni, pen­sando forse che un limi­tato numero di morti garan­tisse la pro­pria tran­quil­lità o meglio la pro­pria abu­lia buro­cra­tica. Ora, di fronte alla dimen­sione di que­ste tra­ge­die, si inventa la guerra agli “schia­vi­sti” e il «bom­bar­da­mento e/o distru­zione dei bar­coni», cri­mi­na­liz­zando così, insieme a loro, anche le vittime.

L’ipocrisia dilaga anche quando si vor­reb­bero distin­guere i rifu­giati dai migranti, come se, oggi, povertà e guerra non fos­sero realtà stret­ta­mente impli­cate. Si fugge da paesi deva­stati dalla guerra e dall’impoverimento cau­sato dalla guerra, da paesi distrutti da stolti inter­venti occi­den­tali o al cen­tro di ine­stri­ca­bili gro­vi­gli geo­po­li­tici. Si fugge dall’Isis, ma anche dai droni, da Assad e dai suoi nemici, dal deserto e dalle steppe in cui scor­raz­zano mili­zie di ogni tipo. Si fugge da città invi­vi­bili e da un’indigenza resa ancora più insop­por­ta­bile dal dila­gare di nuove tec­no­lo­gie che mostrano com’è, o finge di essere, il nostro mondo. Si fugge in Gior­da­nia, in Tur­chia e anche in Europa. Non c’è forse ipo­cri­sia peg­giore di quella che lamenta senza soste un’invasione dei nostri paesi, quando invece l’Europa si mostra il con­ti­nente più chiuso e ottuso di fronte alla tra­ge­dia umana e sociale delle migrazioni.

Pen­sare di cavar­sela man­dando i droni a bom­bar­dare i bar­coni è un’idea folle, che può venire solo ai poli­ziotti finiti a diri­gere Fron­tex, l’agenzia euro­pea che ha messo in piedi Tri­ton, con l’obiettivo di tenere lon­tani i migranti, infi­schian­dosi degli anne­ga­menti. Come distin­guere i bar­coni vuoti da quelli pieni, i pesche­recci o i pic­coli mer­can­tili dalle car­rette della morte? Tutto il mondo sa che i droni di Obama pol­ve­riz­zano soprat­tutto i civili in Afgha­ni­stan. Potete imma­gi­nare un drone capace di distin­guere, in un porto della Libia, tra sca­fi­sti e pesca­tori? A meno che, natu­ral­mente, tutta que­sta enfasi guer­re­sca, bagnata da lacrime di coc­co­drillo per le vit­time degli schia­vi­sti, non sia al ser­vi­zio di un’ipotesi stra­te­gica molto più pro­saica e molto meno umanitaria.

Un’Europa poli­ti­ca­mente ace­fala, gui­data da una Ger­ma­nia bot­te­gaia, pensa forse di «risol­vere» la que­stione delle migra­zioni con un cor­done sani­ta­rio di navi mili­tari e magari di campi di inter­na­mento in Libia e nei paesi limi­trofi? Tutto fa pen­sare di sì. Ma se fosse così, non si trat­te­rebbe che di una guerra ai migranti tra­ve­stita, di un uma­ni­ta­ri­smo peloso, di un neo-colonialismo mirante a tenere alla larga i poveri da un occi­dente in cui dila­gano pul­sioni xeno­fobe. Se fosse così, altre immani tra­ge­die si annunciano

«Non tutti i passeggeri sui barconi dei trafficanti sono famiglie innocenti». Matteo Renzi ammette che la presenza dell’Is in Libia, da dove partono verso l’Italia i migranti, rappresenta per il nostro Paese una minaccia terrorismo. Su questo tema è intervenuto il presidente della Repubblica. «L’Ue si faccia carico — ha detto Sergio Mattarella — della condizione drammatica in cui versa la Libia. Si ponga fine a questo sfruttamento ignobile di essere umani fatto da questi trafficanti. Contiamo su iniziative forti e significative».

Renzi va oggi in Europa con il pieno sostegno parlamentare: al Consiglio Ue sull’immigrazione, chiesto e voluto da Renzi, l’Italia proporrà una strategia in quattro punti presentata ieri al Parlamento dal presidente del Consiglio.

Nell’ambito delle misure allo studio, Renzi indica quattro punti: rafforzare le operazioni europee come Triton e Poseidon. Dichiarare guerra ai trafficanti di esseri umani con azioni mirate. Scoraggiare le partenze. Imporre la presenza delle organizzazioni internazionali nei Paesi a sud della Libia. Il governo italiano — grazie all’approvazione in Senato di una risoluzione di Fi — non esclude la possibilità di arrivare a un blocco navale in Libia. Il documento forzista dà infatti al Consiglio di sicurezza dell’Onu il compito di valutare. Ma il capogruppo del Pd nella commissioni Esteri e responsabile Esteri della segreteria nazionale del Pd, Enzo Amendola, ha fatto a questo proposito chiarezza. Al momento, ha precisato, «non c’è il blocco navale».

Ma il piano in 10 punti approvato dell’Ue sull’emergenza immigrazione, e la richiesta del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di un mandato internazionale per affondare le barche degli scafisti, sono bocciate dalla Chiesa. Per monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione Migrantes, «il piano europeo è assolutamente debole e per certi versi vergognoso. Ancora una volta si pensa di contrastare i trafficanti e non tutelare le persone attraverso i canali umanitari». Diverse le reazioni delle opposizioni. Grillo paventa il rischio che «possa entrare in Italia un milione di persone», creando nel nostro Paese uno «stato di guerra».
La Lega, con il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, dopo aver detto che «Renzi, l’Ue, l’Onu, perfino Obama dicono che bisogna fare ciò che io dico da quasi 2 anni», dice no a nuovi arrivi di clandestini nelle località turistiche. Per Berlusconi, infine (in linea con Ignazio La Russa di FdI), «servirebbero 10-12mila soldati che pattugliano le coste libiche per fermare i viaggi».
Il Sole 24ore, 23aprile 2015
Oggi si respira rassegnazione. Come se volesse dissociarsi da una decisione che, se ci sarà, sarà tutta e soltanto sua, l’Europa si mette in lutto preventivo. Aspettando il peggio, i funerali di Atene. «I greci non sono seri, il governo Tsipras non offre niente di concreto. Impossibile aiutarli», si insiste. Ma proprio lunedì il governo ha approvato il decreto per rastrellare fondi dalle casse di comuni ed enti locali, più di 1,5 miliardi, per pagare stipendi, pensioni e creditori. Si fa così anche in Olanda, l’avrebbero rassicurato i “mentori” Ue. Ma la Grecia è in piazza per gridare di nuovo «basta austerità».

Basta? La vulgata vuole che il Paese abbia incassato gli aiuti senza pagarne lo scotto. Le cifre smentiscono.Tra il 2008 e il 2013 il Pil greco è sceso del 27%, la spesa pubblica reale del 35%, i disoccupati sono arrivati al 28%. Il deficit strutturale è calato del 20% del Pil tra 2009 e 2014, il bilancio primario del 12%, come il disavanzo dei conti correnti. Sforzo irrilevante? Ancora insufficiente? Tutto positivo, visto il raddoppio del debito malgrado la parziale ristrutturazione?

Altro leitmotiv. Non si possono fare sconti alla Grecia che non collabora: sarebbe un regalo ai partiti populisti e uno schiaffo ai governi dei sacrifici.

Allora perché la Francia è stata appena risparmiata da una multa da circa 4 miliardi che avrebbe dovuto pagare per non aver rispettato il tetto del 3% di deficit negli ultimi otto anni, gli stessi del calvario greco? Nonostante la grazia ricevuta, Parigi ora rifiuta di fare i tagli strutturali richiesti, li riduce quasi a metà «per non compromettere la ripresa». In questo caso nessuno insorge né richiama l’intangibilità delle regole Ue, i patti da rispettare.

Come si fa a chiudere gli occhi davanti a un Paese grande ricco e arrogante e a infierire su uno povero e allo stremo anche per l’eccesso di sacrifici che gli è stato imposto? Come si giustifica la Caienna delle regole per alcuni e la flessibilità per altri?

La Grecia è testardamente indisciplinata, si ripete. La Francia no? Eppure continua a godere di spread e tassi “tedeschi” che non merita. Sì, ma se crolla la Francia crollano l’euro e l’Europa, se cade la Grecia non succederà quasi niente, Grecia esclusa. Questa l'ultima verità rivelata ma niente lo prova. Al contrario. Dopo 13 anni di vita, la gracilità politica e di consensi dell’euro potrebbe riservare pessime sorprese a democrazie in balia dei sondaggi quotidiani, prive di cultura e sensibilità europee, guidate da leader nazionali incapaci di guardare oltre gli ostacoli, se non fa loro comodo. Ampiamente dotati però del coraggio dell’irresponsabilità collegiale.

A loro difesa sventolano l'alibi dell'irresponsabilità della Grecia insolvente. La Grecia, 2$del Pil dell'euro e 3 % del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si da da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino, affonderà dunque nel marasma più nero. Ma prima o poi, complice l'interdipendenza, quell'atto d'incoscienza collettiva ricadrà si euro e Europa. Non sarebbe meglio una Realpolitik, meno costosa per tutti?

La Repubblica, 21 aprile 2015

I 10 “dissidenti” del Pd sulla legge elettorale sono fuori dalla commissione Affari costituzionali che oggi pomeriggio inizierà a votare gli emendamenti all’Italicum. Lo ha deciso l’ufficio di presidenza del gruppo che ha “salvato” Giuseppe Lauricella: il deputato siciliano ha assicurato che si atterrà alle indicazioni del gruppo.

Niente da fare invece per l’ex segretario del Partito Pierluigi Bersani, per l’ex presidente del partito Rosi Bindi e per Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi alle primarie. Dovranno lasciare il loro posto a colleghi di partito che rispetteranno le decisioni del gruppo e della direzione. E intantoda Bologna arriva anche la notizia che Bersani, Cuperlo e Pippo Civati sono stati invitati alla prossima festa nazionale dell’Unità.
La scelta di sostituire i 10 “dissidenti”non è però condivisa da Roberto Speranza, il capogruppo dimissionario, infatti, giudica «grave quanto accaduto nell’ufficio di presidenza. Io non avrei mai potuto sottoscrivere questa decisione». E Cuperlo aggiunge che si tratta di «un fatto molto serio» che se fosse seguito dalla richiesta di fiducia darebbe luogo ad uno «strappo che metterebbe a rischio la legislatura». Ma il partito guarda avanti. E sempre nella stessa riunione, come comunicato dal vice capogruppo Ettore Rosato, è stato deciso di convocare il gruppo per discutere della successione a Speranza.
E avanti guarda anche Renzi. Il premier ieri mattina, sulla fiducia, ha detto: «Vedremo. Ma dopo tante discussioni ora siamo a un passo, vediamo il traguardo dell'ultimo chilometro. Faremo lo sprint finale sui pedali e a testa alta». Il premier ha detto che non sarà «più consentito ai veti e controveti dei piccoli di bloccare la democrazia in Italia». L’iter della legge però deve fare i conti con l’annuncio dei grillini, che, di fronte alla scelta del Pd, hanno deciso di boicottare i lavori della commissione Affari costituzionali. E Sel e Scelta civica, che fa parte della maggioranza, stanno pensando di seguire il loro esempio. E la tentazione dell’Aventino potrebbe contagiare anche Forza Italia.

Bocchescucite.org, 20 aprile 2015

Awas Ahmed è somalo, rifugiato in Italia. Racconta il senso della fuga e il perché abbiamo bisogno di guardare oltre Lampedusa cambiando prospettiva.

A chi chiede: «Non era meglio rimanere a casa piuttosto che morire in mare?», rispondo: «Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?». Due giovani ieri sono stati uccisi a Mogadiscio perché si stavano baciando sotto un albero. Avevano vent’anni. Non festeggeranno altri compleanni. Non si baceranno più.

A chi domanda: «Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri», rispondo: «Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta».
Mio cognato scappava con me. Prima del mare c’è il deserto che ne ammazza tanti quanti il mare. Ma quei cadaveri non commuovono perché non si vedono in Tv. Perché non c’è un giornalista che chiede ripetutamente quante donne e bambini sono morti, quante erano incinte. Perché qui in Occidente a volte sembra che l’orrore non basti, c’è bisogno di pathos.

Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. Dopo 24 giorni in cui nessuno ci ha dato da mangiare. A casa c’è una moglie che non si rassegna e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai. A casa c’è quel che resta di un sogno, di un progetto, di una vita. Un biglietto per due i trafficanti se lo fanno pagare caro e, loro, i soldi non li avevano. Se fosse restato, li avrebbero ammazzati tutti e due. Il suo ultimo regalo per lei è stata la vita. Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.

A chi chiede: «Come si possono evitare altre morti nel Mediterraneo?», rispondo: «Venite a vedere come viviamo, dove abitiamo, guardate le nostre scuole, informatevi dai nostri giornali, camminate per le nostre strade, ascoltate i nostri politici. Prima dell’ennesima legge, dell’ennesima direttiva, dell’ennesima misura straordinaria, impegnatevi a conoscerci, a trovare le risposte nel luogo da cui si scappa e non in quello in cui si cerca di arrivare. Cambiate prospettiva, mettetevi nei nostri panni e provate a vivere una nostra giornata. Capirete che i criminali che ci fanno salire sul gommone, il deserto, il mare, l’odio e l’indifferenza che molti di noi incontrano qui non sono il male peggiore».

Testimonianza raccolta dalla Fondazione Astalli

Il Sole 24 ore, 21 aprile 2015

Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, indica e al tempo stesso cancella le persone. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non-respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.

A questi attori bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne richiesta: smettete l’uso di parole altisonanti; passate all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi il più grande sterminio in mare dal dopoguerra occorre mettere la parola urgenza, al posto di emergenza. Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dagli europarlamentari e anche dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.

Le azioni di urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nel secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall'Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.

Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:

Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.

Urge finanziare gli interventi di ricerca e soccorso lungo le coste europee ma anche in mare aperto come faceva l’operazione Mare nostrum, e dovrebbe fare l’operazione Triton; tutto ciò nella piena consapevolezza che la stabilizzazione del caos della Libia non è ottenibile nel breve-medio periodo.

Urge la collaborazione leale (come stabilito dall’articolo 4 del Trattato dell’Unone) smentendo cio che ha dichiarato Natasha Bertaud, portavoce della Commissione: «Attualmente la Commissione non ha né le risorse né il sostegno politicoper costituire un sistema di protezione dei confini capace di svolgere operazioni di ricerca e soccorso» . Questa frase ha lo sconvolgente significato di “mancanza di soccorso”, considerata un crimine nel nostro sistema giudiziario.

La stessa ONU dovrebbe muoversi con urgenza, e il Consiglio di sicurezza dovrebbe affrontare questa tragedia con una risoluzione. Se i delitti compiuti sul mare appaiono come il prolungamento della guerra o della carestia generate dal collasso degli stati di origine o di transitonon possiamo escludere l’intervento peacekeeping dell’ONU. L’aiuto agli sfollati e agli affamati è procedura consolidata dell’ONU: oggi deve essere applicata al Mediterraneo

Gli accordi di Dublino devono essere ripensati al più presto. Con una decisione del 21 dicembre 2011 la Corte di giustizia europea ha espresso una valutazione positiva al considerare il rischio di trattamento inumano dei profughi come una condizione essenziale peril trasferimento. Ciò costituisce un effettivo obbligo di derogare dall’elenco di criteri stabiliti dal regolamento di Dublino

Con la stessa tempestività occorre tenere in considerazione che i paesi più esposti oggi al flusso dei profughi sono quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): si tratta degli stessi paesi che sono stati colpiti, dopo la crisi del 2007-2008, da una drastica riduzione della spesa sociale. Queste voci di spesa comprendono quelle destinate alla ricerca e soccorso per i profughi. L’onere che pesa ingiustamente su questi paesi deve essere immediatamente alleviato.

Infine, c’è il problema dei tempi. Dal massacro di Lampedusa del 2013 i governi dell’Europa hanno sostenuto la cooperazione con i paesi di origine o transito dei profughi per “esternalizzare" le politiche di ricerca e soccorso e quelle di asilo. Il Commissario Dimitris Avramopoulos ha perfino auspicato la “collaborazione con le dittature” considerando respingimenti collettivi, benchè vietati dalla Convenzione per i diritti dei profughi (articolo 33) e dagli articoli 18 e 19 dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche (nell’ambito dei cosiddetti processi Rabat e Khartoum) perché i profughi sono in mare, e devono essere salvati: ovviamente dalla morte, ma anche dalle mafie che si arricchiscono dalla loro carne, aiutate dal vuoto di legalità che l’Unione europea deve ora riempire.

Gli stati europei e l’ONU sono colpevoli di delitti e continuano a vivere in una condizione delirante. Carlotta Sami, portavoce dell’ UNCHR, è stata molto chiara: «Lasciar morire la gente nel mare non scoraggerà i profughi nella loro ricerca di salvezza» dalla guerra, dalla carestia, dall’odio recentemente scatenato contro i cristiani o altre minorante e, in futuro, anche dalle catastrofi legate al clima. La velocità dei colloqui e delle trattative diplomatiche non corrisponde più all’urgenza dei fatti. Il tempo per organizzare una massiccia operazione di soccorso per l’umanità che fugge verso l’Europa è adesso, mentre parliamo.

il manifesto), Roberto Saviano e Ilvo Diamanti (la Repubblica), Claudio Magris (Corriere della sera), 19 e 20 aprile 2015

Il manifesto
LA SORDA EUROPA
di Tommaso di Francesco

Fug­gi­vano da guerra e mise­ria anche i 700 dispe­rati dei quali non si ha noti­zia e ancora tanti sono i dispersi in mare, solo 49 risul­tano in salvo. Non c’è biso­gno che lo dica il Vati­cano che fug­gi­vano da guerra e mise­ria per averne una con­ferma. Guar­date la geo­gra­fia dei luo­ghi da dove, ogni santo giorno, arri­vano in fuga: Nige­ria, Mali, Niger, Siria, Soma­lia, Libia, Egitto, Iraq…ecc. ecc. Non c’è una sola realtà che non veda la costante povertà della quale siamo respon­sa­bili – per favore qual­cuno veda come abbiamo ridotto il Delta del Niger, una regione grande come l’Italia in Nige­ria, “gra­zie” ai nostri pozzi petro­li­feri e a quelli delle altre mul­ti­na­zio­nali del petro­lio. Una fogna di bitumi che hanno deva­stato l’ambiente, rima­sto sem­pli­ce­mente senza acqua.

Ma que­sto è poco. Ognuno di quei paesi è in preda certo alle scel­le­rate avan­zate dell’Isis, ma gra­zie al ter­reno fer­tile di mace­rie che abbiamo pro­vo­cato con le nostre guerre. E’ stata la Nato a tra­sfor­mare la Libia, il paese con il red­dito più alto dell’Africa, in un cumulo di rovine senza isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive con tre governi che si com­bat­tono e ora sicuro san­tua­rio dello jiha­di­smo estremo per tutto il Medio Oriente.

O vogliamo par­lare delle magni­fi­che sorti e pro­gres­sive dello sce­na­rio somalo? Senza dimen­ti­care l’uso occi­den­tale stru­men­tale dei jiha­di­sti in chiave anti-Assad per poi sco­prire che così facendo hanno preso piede in due terzi dell’Iraq, paese dove l’occupazione mili­tare sta­tu­ni­tense — come rico­no­sce lo stesso Obama – ha per­messo alla fine l’avvento e le stragi degli ultimi radi­ca­li­smi isla­mi­sti dello Stato islamico.

Fug­gono da que­ste guerre e da que­sta mise­ria. Noi siamo per­lo­meno co-responsabili. E invece l’Unione euro­pea dichiara che “non può fare nulla”, annun­ciano gli alti fun­zio­nari dell’immigrazione Ue. E invece, come scri­vono ormai per­fino i gior­nali tede­schi, sarebbe dove­roso, urgente e ripa­ra­to­rio avviare subito una mis­sione di Mare nostrum sta­volta europea.

Quando c’era Mare Nostrum il numero delle vit­time è calato improv­vi­sa­mente. Sem­pli­ce­mente li soc­cor­re­vamo: è quello che dob­biamo fare anche adesso.

Ma chi paga? E’ sem­pre dai gior­nali tede­schi che arriva il sug­ge­ri­mento: il pros­simo ver­tice del G7 costerà milioni ai paesi euro­pei. Basta pre­miare il nefa­sto ceto polico con­ti­nen­tale con alber­ghi a 6 stelle e con pranzi raf­fi­nati. Impe­gniamo quei soldi per una mis­sione navale che soc­corra e salvi i migranti, subito.

E’ tempo di fare spen­ding review in que­sta Unione euro­pea che se non trova ragioni per esi­stere nem­meno per que­sta tra­ge­dia, è meglio che chiuda i bat­tenti. Toc­cherà a noi che siamo inter­na­zio­na­li­sti e per que­sto euro­pei­sti con­vinti, rifon­darne un’altra soli­dale ed eguale.

Quanto allo squalo Sal­vini, pro­pone un blocco navale mili­tare - di 150 navi da guerra - per impe­dire che i dispe­rati arri­vino. Come se non fosse mai acca­duto: qual­cuno si ricorda del mas­sa­cro della Kater I Rades con 100 alba­nesi, donne, bambi e vec­chi, spe­ro­nata da una nave mili­tare ita­liana nel 1997? E aggiunge lo sciacallo-squalo che ci vogliono tanti campi di con­cen­tra­mento in Africa per deci­dere lì “chi è dav­vero clan­de­stino e chi ha biso­gno d’aiuto”.

Tutti loro hanno biso­gno d’aiuto. Noi non abbiamo certo biso­gno del raz­zi­smo e dell’odio di Sal­vini. Il fascio-leghista pro­mette che andrà a Palermo e si met­terà su un gom­mone. Così lo vediamo che se ne va…su un gommone

La RepubblicaILMEDITERRANEO FOSSA COMUNE
COSÌ QUEI MORTI DI NESSUNO
PESANO SULLE NOSTRECOSCIENZE

di Roberto Saviano

Il Mediterraneo trasformato in una fossa comune. Oltre novecento morti. Morti senza storia, morti di nessuno. Scomparsi nel nostro mare e presto cancellati dalle nostre coscienze. È successo ieri, un barcone che si rovescia, i migranti — cioè persone, uomini, donne, bambini — che vengono inghiottiti e diventano fantasmi. Ma sappiamo già che succederà anche domani. E tra una settimana. E tra un mese. Spostando la nostra emozione fino all’indifferenza. Ripeti una notizia tutti i giorni, con le stesse parole, gli stessi toni, anche accorati e dolenti, e avrai ottenuto lo scopo di non farla ascoltare più. Quella storia non avrà attenzione, sembrerà sempre la stessa. Sarà sempre la stessa. “Morti sui barconi”. Qualcosa che conta per gli addetti ai lavori, storia per le associazioni, disperazione invisibile.
Adesso, proprio adesso, ne stiamo parlando solo perché i morti sono 900 o forse più: cifra smisurata, disumana. Se ha ancora senso questa parola. Continuiamo a non sapere nulla di loro, ma siamo obbligati a fare i conti con la tragedia. Fare i conti: perché sempre e solo di numeri parliamo. Fossero mancati due zeri al bollettino di morte non l’avremmo neppure “sentita”. Perché ormai è solo una questione di numeri (o dettagli drammatici come “migranti cristiani spinti in mare da musulmani”) che fa la differenza. Non per i singoli individui, non per le sensibilità private, ma per la comunità che dovremmo rappresentare, che dovrebbe rappresentarci.
Perché all’indifferenza personale, persino comprensibile, si affianca sul piano politico una gazzarra di dichiarazioni: litigi, accuse, toni violentissimi. Nessuno riesce a fare ciò di cui abbiamo più bisogno: far capire. Pochi si impegnano: Medici senza frontiere con la campagna #milionidipassi cerca di raccontare, evitando di ridurre queste persone al loro problema. Cioè a «profughi, clandestini, extracomunitari »: parole che lasciano diluire la specificità umana per farci sentire meno lo spreco infinito dinanzi alla tragedia. Molti politici, anche in questo momento, gridano. Salvini parla di «invasione», quando invece la maggior parte di chi arriva non resta affatto in Italia ma va in Francia, in Germania o nei paesi dell’est. Il M5S che nelle sue proposte aveva aperto un dibattito interessante, purtroppo si è lasciato tentare dallo spostare il baricentro della questione dal «salvare vite » a «l’espulsione», assumendo quella falsa logica per cui più si rende difficile l’entrata clandestina in Italia meno tentativi di raggiungere le nostre coste ci saranno. Non è così, non si salvano vite irrigidendo le frontiere e non solo l’esperienza italiana l’ha mostrato, ma anche quella americana. Basta leggere il libro La Bestia di Martinez per comprendere come i flussi clandestini dal Messico agli Usa sono raramente gestibili e non fermabili.

Il punto è che il primo obiettivo dovrebbe essere quello: salvare delle vite, prendersene cura. Invece si è riusciti a far diventare questa volontà come ridicola, romantica, naif. Qualunque riflessione sul dolore degli altri, di chi arriva da un “sottomondo”, deve essere contenuta. C’è un’economia nella sofferenza. Chi valuta il dolore, chi misura la tragedia umana, chi cerca di svegliare il torpore della conta degli affogati è iscritto di diritto al movimento “buonista”.

“Buonista” è l’accusa di chi non vuol spender tempo a capire e ha già la soluzione: respingimenti, arresti, blocchi. Un miscuglio di frustrazione personale che cerca il responsabile del proprio disagio, una voglia di considerare realistica e vincente solo la soluzione più autoritaria. La bontà considerata come sentimento ipocrita per definizione. E, cosa assai peggiore, una qualità morale che può avere solo l’uomo perfetto, candido, puro: quindi nessuno se non i morti, la cui vita è trasfigurata e le cui azioni sono già spese. Chiunque cerchi, nella sua umana imperfezione, di agire diversamente è marchiato con un giudizio unico: falso. La bontà diviene quindi sentimento senza cittadinanza, ridicolo, proprio perché non può essere compiuto se non nella rotonda perfezione. Questo è il cinismo miope, che liquida tutto con solerte sarcasmo.

Ovvio che razionalmente non è immaginabile una smisurata accoglienza universale, senza regole, ma la strada intrapresa delle mezze concessioni e dai mezzi respingimenti non regge più. Il peso politico che avremmo dovuto avere essendo Stato-cerniera non c’è stato riconosciuto. Dovevamo pretendere di scontrarci sul tema immigrazione con il resto dell’Europa. Dovevamo pretendere di essere ascoltati, senza che “il problema” venisse scaricato su di noi, delegato a noi.

La perenne campagna elettorale di Renzi, che sul piano internazionale sembra più voler acquistare una credibilità diplomatica piuttosto che porre e imporre temi, non ci sta aiutando ma ci sembra ingeneroso dare a questo governo ogni responsabilità. L’Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio.

Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. Parlarne in tv e sul web ma in modo diverso: come dicevamo “profugo” o “clandestino” sono termini che diluiscono la specificità umana costruendo una distanza irreale che abbassa il volume all’empatia.

Dobbiamo chiedere ai partiti di candidare donne e uomini che vengono da quest’esperienza, aprire loro le università. Tutto questo diminuirà il consenso politico con la solfa del «prima noi e poi loro»? Probabilmente sì, accadrà questo. Ma solo nella prima fase ben presto ci si accorgerà dell’enorme beneficio che avremmo. La storia degli sbarchi e dei flussi di migranti deve diventare un tema che il governo sentirà fondamentale per il suo consenso.

Renzi e il suo governo sono solleciti a rispondere quando un tema diventa mediatico e popolare: se percepiscono che il giudizio su di loro sarà determinato dal problema migrazione inizieranno a sparigliare, a trovare nuova strategia ad avere nuovi sguardi. Il semestre italiano in Europa è stato una profonda delusione, in termini di proposte sui flussi dei capitali criminali (era l’occasione per porre il tema del riciclaggio) e in termini di emigrazione. Ma in questo momento inutile rimpiangere il non fatto è necessario che l’Europa decida in maniera diversa. Dare spazio non episodico alle vicende dei migranti. La tv li accolga, cominciando a pronunciare bene i loro nomi e quelli delle loro nazioni, raccontando il loro quotidiano e la loro resistenza.

Gli unici che in queste ore rappresentano ciò che l’Europa dovrebbe essere sono gli italiani, i molti italiani che salvano vite tutti i giorni rischiando di violare leggi. La figura che sintetizza questi italiani colmi di onore è descritta dal pescatore Ernesto nel bellissimo film “Terraferma” di Crialese che viola l’ordine della Capitaneria di tenersi con il suo peschereccio lontano da un gommone rispondendo con un semplice , umano e potente: «Io gente in mare non ne ho lassata mai».

Corriere della sera
DOVE CESSA L'UMANITA'
di Claudio Magris
O gni volta la tragedia è più grande - e lo sarà sempre più - e ogni volta si dice, mentendo in buona fede a se stessi, che si è raggiunto il colmo. E che è vicino il momento in cui si volterà pagina, proprio perché è intollerabile che continui questo crescendo di orrori. Invece con ogni probabilità continuerà, se non accadrà qualche radicale e inimmaginabile cambiamento nella situazione e nella politica mondiali. La pietà, l’indignazione e lo sgomento del mondo - di noi tutti - si accenderanno, sinceri e inutili, a ogni nuovo episodio di barbarie. Ma forse sempre meno, perché ci si abitua a tutto e proprio il ripetersi delle orrende e criminose tragedie renderà più assuefatte e meno reattive le coscienze.
Che fare, come dice il titolo di un famoso pamphlet politico? Il problema è tragico, perché agli immigrati e senza nome e senza destino si oppongono non solo le livide, imbecilli e regressive paure di chi teme ogni forestiero incapace di bestemmiare nel suodialetto e sogna un mondo endogamico e gozzuto di consanguinei.

La Repubblica
DOBBIAMOAVERE PIETÀ DI NOI
di Ilvo Diamanti

OLTRE novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione.

CHE spinge ad affrontare il mare “nemico” per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza. Oggi: alla guerra. Più che di “migrazione”, si tratta di “fuga”. Anche se noi percepiamo la “misura” della tragedia solo quando i numeri sono “smisurati”. Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L’abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di “piegarla” e di “spiegarla” in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si “mobilitano”, alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita.

È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D’altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all’estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l’Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma — il fenomeno è meno noto — è al quarto posto come Paese di “emigrazione”. Gli stranieri che vivono — e lavorano — in un Paese dell’Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili.

La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l’impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento. Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l’8% della popolazione. Con un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato.

Anche se la recente Indagine dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all’Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un “pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l’immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l’approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli “altri intorno a noi”. E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come “altri noi”.

Così, la diffidenza ha cominciato a declinare. Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l’Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull’immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano “migranti” e non più “clandestini”. E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta.

Vale la pena di aggiungere, ancora, che l’immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa. L’immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D’altronde, da noi l’immigrazione è sempre più di “passaggio”. Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l’immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli.

Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l’insicurezza — e le vittime degli scafisti — in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell’Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile — oltre che giusto — fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi.

Ma l’unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste — e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L’unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri.

Non avere pietà di noi stessi.

la Repubblica) e Fiorenza Sarzanini (Corriere della sera), 20 aprile 2015

L’ULTIMA OPZIONE DI PALAZZO CHIGI
DISTRUGGERE I BARCONI IN PORTO
di Goffredo De Marchis

Il presidente del consiglio intende “dichiarare guerra agli scafisti”. Si potrebbe trattare di una vera e propria azione militare e il modello da seguire sarebbe quello utilizzato anni fa in Albania anche se in quel caso ci fu il pieno appoggio del governo di Tirana

«Dobbiamo dichiarare guerra agli scafisti». Non a parole, ma distruggendo i barconi nei porti, combattendo i criminali che spingono i profughi in mare. Matteo Renzi pensa che sia finito il tempo «delle sole operazioni umanitarie». Che Mare Nostrum scontasse «una grande debolezza. Era un’iniziativa soltanto italiana e quando chiamavamo gli altri in aiuto rispondevano: che volete, avete fatto tutto voi». Per una guerra però bisogna agire con la comunità internazionale, con l’Onu, con il via libera dell’America e della Russia, i paesi forti del Consiglio di sicurezza. «Gli schiavisti del XXI secolo non possono essere un problema esclusivamente italiano. Stavolta agiremo con la partecipazione più larga possibile. Nessuno, a cominciare dall’Europa, deve avere più alibi».
Dunque, l’opzione è quella militare. O di polizia internazionale perché i negrieri che fanno base in Libia vanno colpiti come fossero «un’organizzazione mafiosa», spiegano il sottosegretario ai servizi Marco Minniti e il direttore dell’ intelligence Giampiero Massolo durante il vertice a Palazzo Chigi. Si può usare la risoluzione delle Nazioni unite che consente i raid aerei in Siria e in Iraq contro l’Isis. La si estende alla Libia. Così diventa lo strumento per colpire anche gli scafisti. Ma lo scoglio dell’Onu non è semplice da superare. Per questo Renzi si attacca al telefono nel pomeriggio e chiama i leader mondiali. Chiede un consiglio europeo straordinario in modo che l’Unione parli una sola lingua e si faccia sentire specialmente con Barack Obama. È un’opzione che ha bisogno di una copertura militare, tecnica, giuridica. Ma non è tanto lontana nella preparazione logistica, fondamentale per le azioni di guerra, se è vero, come dicono fonti dell’ intelligence , che dell’organizzazione schiavista si sa già molto: nomi, cellulari, basi e covi. Quasi tutti piazzati in particolare intorno al porto di Zwara.

Durante il vertice del governo, con i ministri della Difesa, Roberta Pinotti, degli Esteri Paolo Gentiloni, delle Infrastrutture Graziano Delrio, con la partecipazione dell’Alto rappresentate Federica Mogherini, viene esaminata la dinamica del naufragio. Ma si passa quasi subito a valutare i passaggi per superare lo strumento umanitario e distruggere alla radice il fenomeno. Primo step, spiega Renzi, è la battaglia in Europa. «Non possiamo essere solo noi a offrire soluzioni altrimenti gli altri Paesi se ne lavano le mani», ripete il premier. Secondo step: stabilizzare la Libia. Un’impresa. «Continuiamo a sostenere gli sforzi dell’Onu e del capo della missione Bernardino Leon, ma... ». Il “ma” di Palazzo Chigi riguarda i tempi. «Non può diventare una missione senza fine. Va fissata una scadenza. Sennò attendiamo come Godot un accordo tra le tribù che non arriva mai».

Una Libia non più fuori controllo è la condizione indispensabile per avviare qualsiasi operazione che confidi in qualche successo. I paragoni avanzati da Forza Italia con le capacità di gestire un accordo durante i governi Berlusconi sono fuori luogo, dicono le fonti del governo. Il Cavaliere stringeva intese con Gheddafi, un leader che tiranneggiava su un Paese stabilizzato. Oggi la situazione è completamente diversa. Molto più complicata. «Ma non si può perdere altro tempo». L’affondamento dei barconi della disperazione funzionò in Albania, laddove, dopo una crisi politica che sfiorò la guerra civile, si insediò un governo riconosciuto. Il dialogo tra l’Italia e le autorità albanesi consentì alla Marina di distruggere la flotta criminale di Valona e Durazzo. In Libia non si sa con chi parlare. Eppure Tripoli è la capitale di una nazione sovrana, seppure trasformata in un terreno di violenze. «Il blocco navale perciò è illegittimo. È una dichiarazione di guerra non contro gli scafisti ma contro uno stato — è il ragionamento di Renzi —. Senza contare che si trasformerebbe in un servizio taxi per gli scafisti».

Il quadro complessivo spinge dunque verso un’azione europea e internazionale contro gli scafisti. Un’azione militare senza dubbio. Non mancano alcuni precedenti, ad esempio il tipo di missione anti-pirateria che fu adottata nel Corno d’Africa. Questo è l’indirizzo italiano, l’idea con cui il premier si presenterà al vertice straordinario dei capi di governo europei. E prima che le caselle del mondo vadano tutte al loro posto? L’Italia non lascerà soli i profughi, non rinuncerà alla parte umanitaria del problema. Delrio era alla riunione dei ministri in qualità di coordinatore della Guardia Costiera, che continuerà a salvare vite umane quando è possibile. Ma è una risposta non sufficiente, insiste Renzi nei suoi colloqui telefonici, perché «va affrontata la questione alla radice». E se Obama ha lasciato uno spiraglio sulla vicenda libica nell’incontro di venerdì, ora l’appoggio degli Usa diventa ancora più necessario. Insieme con quello dell’Unione europea. «Stavolta chiederò un’assunzione di responsabilità collettiva. L’Europa non deve far finta di niente», avverte il premier.

UE,PIANO CONTRO IL TRAFFICO DI MIGRANTI

di Alberto d'Argenio
Giovedì il Consiglio europeo straordinario per la sfida alle organizzazioni criminali voluta dalla Mogherini Blitz nel Sahara e scambi di informazioni tra intelligence. Presto la nuova agenda sull’immigrazione
A caldo, dopo la nuova tragedia nel Canale di Sicilia, la Commissione europea parla di «frustrazione ». Perché Bruxelles sull’immigrazione non ha competenze esclusive, gliele devono dare i governi che da anni nicchiano, divisi tra chi vuole fare di più e chi è indifferente. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, afferma: «Abbiamo detto troppe volte “mai più”, è il momento che l’Europa si occupi senza ritardi di queste tragedie». Dagli uffici del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, esce questa nota: «La Commissione è profondamente frustrata dagli sviluppi nel Mediterraneo, serve un’azione decisa».

Nelle stesse ore Renzi sente Hollande, Merkel, Cameron e Juncker, riunisce a Palazzo Chigi mezzo governo e incontra la Mogherini. Al termine della giornata chiede un Consiglio europeo straordinario. E da qui parte la storia di quello che questa volta l’Europa vuole fare sfruttando l’onda emotiva della tragedia per coinvolgere tutti i governi nell’immediato, nel medio e nel lungo periodo.

Ieri sera il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, consultava le capitali per verificare se fosse possibile convocare il summit straordinario. Si farà, assicuravano fonti europee bene informate. Molto probabilmente giovedì. Così a Bruxelles è scattato il lavoro frenetico per preparare il summit, specialmente negli uffici della Mogherini. Che oggi presiederà la riunione dei ministri degli Esteri Ue durante la quale lancerà la prima sfida. Il capo della diplomazia europea illustrerà ai ministri il suo rapporto di 46 pagine sulla Libia (come si spiega nel pezzo sotto ndr). La maggior parte delle azioni (terrorismo e immigrazione) richiedono prima un accordo tra tribù nel negoziato dell’inviato Onu Bernardino Leòn. Ma Mogherini spingerà per far approvare subito la parte della strategia slegata all’intesa per un governo di unità nazionale.

Primo, lanciare un controllo della frontiera tra Niger e Libia, là dove passa la rotta più densa di migranti guidati dai trafficanti. Secondo, intensificare lo scambio di informazioni tra le intelligence europee: si punta a bloccare i flussi di denaro dei trafficanti con operazioni congiunte e organizzare blitz mirati nel Sahara per bloccare le rotte e neutralizzare i gruppi criminali che mandano a morire i migranti.

I ministri degli Esteri prepareranno anche il vertice dei leader di giovedì e per questo alla riunione nel Lussemburgo arriverà anche il commissario all’Immigrazione Avramopoulos e forse diversi ministri degli Interni. Con due obiettivi da portare al summit per farli approvare dai capi di governo. Rafforzamento di Triton, la missione Ue nel Mediterraneo che ha sostituito Mare Nostrum: più soldi, più mezzi e un mandato che permetta un raggio d’azione maggiore nel salvataggio dei migranti. Non si parla però di blocco navale, a Bruxelles, come a Roma e in diverse capitali, considerato controproducente. Secondo, rivedere il regolamento di Dublino sull’asilo: oggi chi salva in mare i migranti poi li deve gestire fino al riconoscimento dello status di “asilante”. Si punta a spalmare lo sforzo su tutti i 28 paesi dell’Unione in modo che ognuno accolga temporaneamente i migranti. Infine l’ultima fondamentale partita. A metà maggio la Commissione approverà la nuova Agenda Ue sull’immigrazione. Innanzitutto verrà sensibilmente anticipata. Inoltre le bozze in circolazione sono poco ambiziose perché non c’è consenso tra governi su cosa l’Europa debba fare a lungo termine sull’immigrazione.

Spiega una fonte che lavora sul dossier di competenza di Mogherini, Timmermans e Avramopoulos: «Dobbiamo usare la tragedia per costruire un senso di urgenza politica tra capitali e rafforzare la Commissione», ovvero per permettere a Bruxelles di approvare un testo ambizioso. Che comprenda anche la cooperazione con i paesi di origine e di transito dei migranti (tra cui Sudan, Egitto, Ciad e Niger) per intercettarli prima che spariscano in Libia, salvarli in campi gestiti dall’Unhcr, rimandare a casa (con aiuti economici) chi non ha diritto all’asilo e spalmare in modo permanente su tutti i paesi Ue, e non sui soliti noti, chi invece lo ha. Con un occhio alla Libia, dove, si spera, a breve Leòn sblocchi la situazione e si possa finalmente bloccare le partenze via mare.

Corriere della seraMISSIONEDI TERRA IN LIBIA
PER CONTROLLARE SPIAGGE E PORTIdi Fiorenza Sarzanini
L’idea di un’operazione di polizia internazionale autorizzata da Bruxelles e Onu
ROMA Un’operazione di polizia internazionale per mettere sotto controllo le spiagge e i porti della Libia. Un contingente militare autorizzato dall’Unione Europea — possibilmente anche dalle Nazioni Unite — per fermare l’attività criminale degli scafisti e così cercare di stroncare il traffico di esseri umani. È questa la proposta che l’Italia potrebbe mettere già oggi sul tavolo dei ministri degli Esteri riuniti in Lussemburgo e del Consiglio europeo. È l’opzione più efficace, diventata oggetto di trattativa con gli altri Stati membri, per arrivare a un intervento comune e così tentare di bloccare il flusso delle partenze che rischia di avere dimensioni sempre più grandi, dunque di diventare sempre più rischioso.
I tempi non possono essere brevissimi, ma quanto accaduto ieri mostra la necessità di fare in fretta a trovare una soluzione che consenta di assistere le migliaia di disperati che cercano di salvarsi fuggendo dalla Libia. Non a caso si tornerà ad insistere con le organizzazioni umanitarie e naturalmente con l’Unione Europea, per la creazione urgente di campi profughi in nord Africa in modo da smistare le istanze per il riconoscimento dello status di rifugiato politico.

Guerra agli scafisti

Tutte le opzioni vengono analizzate prima della riunione convocata a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. E quella subito scartata riguarda il possibile blocco navale da attuare a poche decine di miglia dalla Libia. Un dispositivo del genere funziona infatti soltanto se accompagnato dai respingimenti. Vuol dire che ogni imbarcazione viene fermata e scortata fino all’imbocco di uno dei porti di partenza in Libia. Ma questo comporta pericoli altissimi e soprattutto non servirebbe affatto a fermare i trafficanti, disposti a tutto pur di lucrare sulla disperazione di chi paga centinaia di dinari pur di salire a bordo di un’imbarcazione. Impossibile anche il ripristino di una missione umanitaria sul modello di «Mare Nostrum» proprio perché agevolerebbe l’attività criminale di chi sa che alle persone imbarcate anche su mezzi di fortuna basterà lanciare un sos poco dopo la partenza per essere soccorse e salvate. «Se questa fosse la volontà — spiegano gli esperti — sarebbe più efficace creare un corridoio umanitario e portare i profughi direttamente sulle nostre coste ».
L’unica strada ritenuta percorribile in questo momento è quella di un intervento che miri a stroncare le organizzazioni criminali. La situazione attuale non consente di avviare alcuna trattativa con le autorità libiche, anche perché ci sono due governi che rivendicano la propria titolarità e soprattutto bisogna tenere conto dei miliziani che tentano di impedire qualsiasi negoziato.
Qualcosa potrebbe cambiare se davvero, come sostiene da un paio di giorni il mediatore dell’Onu Bernardino León si riuscirà, «entro breve a creare un governo di unità nazionale». Ed è proprio questa la «cornice» entro la quale ci si vuole muovere.

L’intervento

Già nel febbraio scorso, di fronte all’avanzata dei terroristi dell’Isis, il ministro della Difesa Roberta Pinotti aveva dichiarato come l’Italia fosse pronta «a fare la propria parte guidando una coalizione internazionale per un intervento militare». A questo adesso si pensa, avendo come obiettivo quelli che Renzi ha definito «gli schiavisti del XXI secolo», evidenziando poi come il controllo del mare non possa essere la soluzione per impedire i naufragi e quindi la morte di migliaia di persone.
L’ipotesi esplorata in queste ore prevede un intervento nella parte settentrionale della Libia, coinvolgendo, se possibile, anche gli altri Stati africani. Il via libera dell’Unione Europea, ancora meglio dell’Onu, si rende necessario perché altrimenti si tratterebbe di un vero e proprio atto di guerra, impensabile anche nei confronti di uno Stato che attualmente ha una situazione totalmente fuori controllo. Una missione di terra alla quale l’Italia parteciperebbe con l’Esercito, con la Marina Militare e con l’Aeronautica seguendo uno schema che ricalca in parte quello applicato in Libano nel 2006. Le condizioni in quel caso erano completamente diverse sia per quanto riguarda la realtà territoriale, sia per la presenza di interlocutori validi con i quali avviare un confronto diplomatico. Ma gli aspetti tecnici sarebbero comunque molti simili.

I campi profughi

L’opzione militare prevede comunque l’avvio di un intervento umanitario per garantire alle migliaia di persone in fuga di avere assistenza in Africa e accoglienza in Europa. Per questo si è deciso di accelerare quel progetto seguito dal ministero dell’Interno che prevede la creazione di almeno tre campi profughi. Veri e propri punti di raccolta in Niger, Tunisia e Sudan dove esaminare le istanze di asilo in modo da poter avviare la procedura con i Paesi indicati dai richiedenti.
L’organizzazione dovrebbe essere affidata all’Alto commissariato per i rifugiati e all’Oim, l’Organizzazione di assistenza ai migranti che proprio in Africa - ma anche in Libia - vanta un’esperienza decennale e ha già seguito numerosi progetti, compreso il rimpatrio assistito. In questo caso ogni Paese metterebbe a disposizione personale che possa lavorare in collaborazione con le autorità locali. Tutto in una corsa contro il tempo per salvare migliaia di persone.

Il manifesto, 19 aprile 2015

Sono 734 piazze in tutto il mondo, 41 solo in Ita­lia. Una mobi­li­ta­zione che ricorda il dicem­bre 1999, quando il movi­mento glo­bale si oppose all’allora mini­ste­riale della Wto a Seat­tle, e che oggi si mobi­lita per il Trat­tato tran­sa­tlan­tico di libe­ra­liz­za­zione com­mer­ciale Usa– Ue (Ttip) e il suo obiet­tivo di dere­go­la­men­tare stan­dard, nor­ma­tive e tutte quelle leggi di tutela ambien­tale e sociale con­si­de­rati «bar­riere tec­ni­che al commercio».

In decine di flash­mob, sciami di fan­ta­smi hanno vagato per le piazze ita­liane, come in piazza del Pan­theon a Roma dove gli spet­tri del Ttip si sono fatti inse­guire in mezzo a turi­sti incu­rio­siti, così come in piazza del Duomo a Milano o in via Lagrange a Torino, giu­sto per citare alcune mobi­li­ta­zioni ita­liane «Stop Ttip», a dimo­strare che il trat­tato fan­ta­sma sta gua­da­gnando visi­bi­lità nono­stante la ritro­sia della Com­mis­sione europea.

D’altro canto uno dei prin­ci­pali obiet­tivi della cam­pa­gna inter­na­zio­nale, di cui quella ita­liana è parte attiva, è pro­prio quello di spie­gare ai cit­ta­dini un nego­ziato non cono­sciuto ai più, seb­bene il nostro Governo sia stato Pre­si­dente di turno dell’Unione euro­pea. Aldilà della dema­go­gia sulla pre­sunta tra­spa­renza (uno dei nego­ziati più tra­spa­renti mai avuti, mil­lanta la Com­mis­sa­ria al Com­mer­cio Ue Malm­strom dal suo blog pro­prio il giorno della grande mobi­li­ta­zione) quanto si cono­sce del trat­tato, lo si deve all’azione dei movi­menti sociali che pochi giorni dal nuovo Round nego­ziale che ini­zierà il 20 aprile negli Stati uniti, sono riu­sciti a ren­dere pub­bli­che le richie­ste della Com­mis­sione euro­pea all’Amministrazione sta­tu­ni­tense: accesso al mer­cato degli appalti pub­blici negli Stati uniti in cam­bio di mag­giore fles­si­bi­lità in agri­col­tura. Ecco uno dei patti scel­le­rati che potreb­bero lastri­care la strada verso la firma, un grande mer­cato delle pulci dove tanto si ottiene quanto più si dà e dove ci si impe­gna a difen­dere un set­tore nel momento in cui que­sto risponde a inte­ressi consolidati.

Per que­sto quasi un milione e set­te­cen­to­mila cit­ta­dini euro­pei hanno scelto di fir­mare una peti­zione inter­na­zio­nale che chiede il blocco imme­diato dei nego­ziati, una rac­colta firme che nella gior­nata di mobi­li­ta­zione ha visto una netta impen­nata nelle ade­sioni verso quota due milioni, con­si­de­rata dalle reti inter­na­zio­nali l’obiettivo poli­tico da raggiungere.

Le cen­ti­naia di migliaia di per­sone scese in piazza nelle sei­cento piazze euro­pee e nel cen­ti­naio di mobi­li­ta­zioni sta­tu­ni­tensi, lot­tano per ridare senso al ter­mine «democrazia».

Chie­dere mag­giore par­te­ci­pa­zione non signi­fica, come spesso banal­mente sem­pli­fi­cato dai soste­ni­tori del Ttip, «nego­ziare in 800 milioni di cit­ta­dini», ma vuol dire essere con­si­de­rati parte in causa e coin­volti diret­ta­mente, anche tra­mite i Par­la­menti, ad oggi con un ruolo defi­lato. Ridando potere i cit­ta­dini ed evi­tando, ad esem­pio, che i Par­la­men­tari euro­pei abbiano le armi spu­tate nel dare pareri non vin­co­lanti, rati­fi­cando solo alla fine un trat­tato con la for­mula «pren­dere o lasciare» senza pos­si­bi­lità di emen­da­mento. O evi­tando le limi­ta­zioni all’accesso ai docu­menti nego­ziali impo­ste per­sino ai par­la­men­tari euro­pei, come l’europarlamentare di Pode­mos Ernest Urta­sun ha recen­te­mente denun­ciato ai media spagnoli.

I docu­menti resi pub­blici dall’Unione euro­pea gra­zie alle pres­sioni dell’opinione pub­blica e dell’Ombudsman euro­peo, sono solo testi legali di posi­zio­na­mento e non chia­ri­scono l’effettivo livello di com­pro­messo e lo stato dell’arte del nego­ziato. E forse è per­sino logico che sia così, con­si­de­rato che gli inte­ressi che si stanno tute­lando, non sono certo quelli della mag­gio­ranza dei cit­ta­dini euro­pei e statunitensi.

Die­tro alla dema­go­gia della difesa delle Indi­ca­zioni geo­gra­fi­che per Paesi come l’Italia, per esem­pio, o dell’aumento dell’export che por­te­rebbe bene­fici dif­fusi, c’è una poli­tica che parla di con­ces­sioni a pochi pri­vi­le­giati, di una posi­zione di difesa delle tipi­cità che but­te­rebbe fuori mer­cato la mag­gior parte delle nostre pic­cole pro­du­zioni di qua­lità a tutto van­tag­gio di pochi grandi espor­ta­tori, di un abbat­ti­mento degli stan­dard di qua­lità su agri­col­tura e chi­mica che ha fatto per­sino pre­oc­cu­pare la Com­mis­sione Ambiente del Par­la­mento Euro­peo in una sua recente risoluzione.

A tutto que­sto si aggiunge una poli­tica di tutela degli inve­sti­menti che svuo­te­rebbe defi­ni­ti­va­mente il potere di con­trollo dei mer­cati da parte dei Governi, con­ce­dendo alle imprese il potere di denun­ciare i Governi a causa di legi­sla­zioni non gra­dite. Nono­stante tutto que­sto, nono­stante le pro­messe di Renzi a Obama, que­sto 18 Aprile c’è un mondo che ha detto «Stop Ttip». Una posi­zione che, d’ora in avanti, sarà impos­si­bile ignorare.

*Pre­si­dente Fair­watch / Cam­pa­gna Stop Ttip Italia

La Repubblica, 19 aprile 2015

L’AMERICA deve ancora conseguire una piena ripresa dagli effetti della crisi del 2008. Tuttavia, abbiamo recuperato buona parte del terreno perduto, anche se non tutto. Altrettanto non si può affermare, invece, della zona euro, nella quale il Pil reale pro capite è ancora oggi inferiore a quello del 2007, ed è inferiore del 10 per cento rispetto a dove si supponeva dovesse trovarsi. Una prestazione peggiore di quella che l’Europa ebbe negli anni Trenta. Perché l’Europa si è comportata così? Ho ascoltato discorsi e letto articoli nei quali si ipotizza che il problema stia nell’inadeguatezza dei nostri modelli economici — nel fatto che dovremmo riformulare la teoria macroeconomica che durante la crisi non è riuscita a offrire una guida politica. Ma è proprio così? No. È vero: pochi economisti avevano annunciato la crisi. Tuttavia, il piccolo segreto dell’economia è che da allora i modelli di base spiegati nei libri di testo hanno funzionato bene. Il guaio è che i dirigenti politici europei hanno deciso di respingere quei modelli di base a favore di approcci alternativi più innovativi, più entusiasmanti e del tutto errati.

Sto rianalizzando i dibattiti di politica economica e ciò che mi colpisce in modo evidente dal 2010 in poi è la divergenza di pensiero tra Stati Uniti ed Europa. In America, la Casa Bianca e la Federal Reserve sono rimaste fedeli all’economia keynesiana tradizionale. L’Amministrazione Obama ha sprecato tempo e fatica per perseguire una “grande intesa” sul bilancio, pur continuando però a credere nella tesi sostenuta nei libri di testo, ossia che in un’economia depressa la spesa in deficit di fatto è una cosa positiva. La Fed ha ignorato gli ammonimenti secondo i quali stava “svalutando il dollaro”, ed è rimasta aderente all’opinione secondo la quale le politiche di basso tasso di interesse non avrebbero provocato inflazione, almeno fino a quando la disoccupazione fosse rimasta alta.

In Europa, al contrario, la leadership politica si è dimostrata disposta, quasi con impazienza, a gettare i libri di economia dalla finestra per prediligere nuovi criteri. La Commissione Europea, a Bruxelles, ha accolto con entusiasmo le presunte prove sull’utilità della “austerità espansiva”, respingendo le argomentazioni tradizionali a favore della spesa pubblica in deficit, e ha preferito sposare la tesi secondo cui tagliare le spese in un’economica depressa porterebbe alla creazione di posti di lavoro perché alimenterebbe la fiducia. La Bce ha preso a cuore i moniti sul rischio di inflazione e nel 2011 ha alzato i tassi di interesse, anche se la disoccupazione era alta. Ma mentre i politici europei possono aver immaginato di dare prova di apertura nei confronti di nuove idee economiche, gli economisti ai quali hanno dato retta dicevano loro proprio ciò che volevano sentirsi dire. Cercavano giustificazioni per le rigide politiche che erano decisi a imporre alle nazioni debitrici; e così hanno trattato come celebrità economisti quali Alberto Alesina, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff che parevano offrire proprio quella giustificazione. Invece, come si è scoperto, quella ricerca nuova ed entusiasmante presentava grosse pecche.

E così, mentre le nuove idee si sono rivelate un fallimento, la teoria economica dei vecchi tempi si è dimostrata più forte. Furono derise le previsioni di economisti keynesiani, me incluso, secondo i quali i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi nonostante i deficit di bilancio, l’inflazione sarebbe stata frenata nonostante gli acquisti di bond da parte della Fed e i tagli alla spesa pubblica — lungi dall’innescare espansione alimentata da fiducia — avrebbero provocato un’ulteriore crollo della spesa dei privati. Queste previsioni, al contrario, si sono avverate. È un errore sostenere, come fanno molti, che quella politica è fallita perché la teoria economica non ha fornito le linee guida di cui avevano bisogno i policy maker . In realtà, la teoria ha costituito una guida eccellente, se solo i policy maker fossero stati disposti ad ascoltare. Purtroppo, non l’hanno fatto. E continuano a non farlo. Se volete deprimervi sul futuro dell’Europa, leggete l’intervento di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, mercoledì sul New York Times. Troverete un ripudio di ciò che sappiamo di macroeconomia, delle intuizioni che l’esperienza europea degli ultimi cinque anni avvalora. Nel mondo di Schäuble l’austerità conduce alla fiducia, la fiducia genera crescita e, nel caso in cui per il vostro Paese ciò non funzionasse, significa solo che lo state facendo nel modo sbagliato. Torniamo alle nuove idee e al loro ruolo in politica: è difficile argomentare a sfavore delle nuove idee. Negli ultimi anni, tuttavia, lungi dal fornire una soluzione, le idee economiche innovative spesso sono state parte del problema. Se avessimo continuato ad aderire alla macroeconomia dei vecchi tempi staremmo di gran lunga meglio.

Traduzione di Anna Bissanti

© 2-015, The New York Times

desinit in piscem. «Renzi ha dato truppe in Afghanistan e un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro Da Obama ha avuto ornamenti di cartone». La Repubblica, 19 aprile 2015

DEBBO dire che in certe cose, in certe situazioni e in certi incontri Matteo Renzi è di fantastica bravura. Anche i suoi avversari politici dovrebbero riconoscerlo e credo che lo sappiano ed auguro loro che ne tengano conto. L’ha dimostrato quando incontrò per la prima volta Angela Merkel e poi Putin; infine l’altro ieri quando ha passato l’intera mattinata e poi il pranzo e ancora il primo pomeriggio con Barack Obama alla Casa Bianca. Gli ha perfino portato in regalo una cassa di vino d’annata. Toscano naturalmente. Immagino fosse un Brunello di Montalcino.
Angela Merkel, Putin, Obama. Su di loro ha fatto colpo e l’hanno trattato come un grande statista e l’Italia da lui guidata come un grande Paese. Che cosa ha ottenuto in cambio? Quasi nulla o nulla del tutto, ma ha avuto in cambio qualche cosa che a lui più di tutto importava: un riconoscimento da rivendicare in patria. E vi pare poco?
Del resto Silvio Berlusconi ai suoi tempi fece altrettanto. Anche lui all’inizio sedusse la Merkel e fece con lei perfino un passo di danza. Di Putin diventò addirittura socio oltreché amico intimissimo. Fecero affari insieme sul gas russo, fecero insieme il bunga bunga in una dacia assai accogliente, passarono insieme i rispettivi compleanni e quando, dopo la sentenza della Cassazione, volle essere autorevolmente confortato, Silvio volò a Mosca dove il confortatore lo accolse al Cremlino. Ma parliamo anche della sua amicizia per George W. Bush: fece entrare l’Italia in guerra contro l’Iraq insieme a lui, andò più volte a trovarlo a Washington e nel luglio del 2003 a Crawford in Texas nella residenza di campagna del presidente.
CHE cosa ottenne l’Italia da questo vasto ventaglio di amicizie di Silvio? Assolutamente nulla, ma lui se ne infiocchettò l’abito da premier sontuosamente. Purtroppo (per lui) dopo le sue sfortunate vicende giudiziarie la Merkel lo scaricò del tutto e gli altri governanti europei fecero altrettanto, al punto che evitarono di farsi fotografare in sua compagnia nelle riunioni internazionali. Avevano capito prima di noi italiani che la sua strada era finita.
Da questo punto di vista Matteo è molto più bravo di lui e col bunga bunga non ha nulla da spartire. Non possiede aziende private, non ha conflitti di interesse. Silvio sperava che fosse il suo erede al potere ma ha fatto un errore: non ha accettato la candidatura di Mattarella. Comunque Renzi non lo abbandonerà, farà in modo che abbia onorata sepoltura (politica ovviamente) e prenderà da lui parecchi voti di ex forzisti in cerca d’autore.
E questo è quanto. Ma ora vediamo che cosa veramente è accaduto a Washington a parte i complimenti reciproci, le pacche sulle spalle e il Brunello di Montalcino.
*** Obama l’ha complimentato per le riforme che Renzi ha compiuto. Non ha detto quali. Si è complimentato anche per la sua battaglia per la crescita economica in Europa, che però non è affatto venuta. In aggiunta a questi complimenti Obama si è però lamentato perché l’euro è troppo debole e rende difficili le esportazioni americane su tutta l’area europea. Renzi ha incassato il rimprovero rispondendo che vedrà quel che potrà fare. In che senso? Veramente il nostro premier non vorrebbe consolidare la rivalutazione del dollaro di fronte alla moneta europea? L’autore di quel mutamento del cambio è Mario Draghi che sta lavorando per il bene dell’Europa e quindi dell’Italia.
Poi il discorso è passato alla Russia. Poche settimane fa Renzi aveva promesso a Putin un intervento per far togliere le sanzioni economiche contro la Russia. Obama ha invece detto a Renzi che sarebbe un errore gravissimo togliere quelle sanzioni che semmai dovrebbero essere aumentate. Piglia e porta a casa.
A pranzo il discorso si è spostato sulla Libia. Obama tra un bicchiere di Brunello e l’altro ha detto che in Libia gli Usa non intendono intervenire e tantomeno fornire armi ed aerei al governo libico (che di fatto non esiste). Ha detto che bisogna pacificare le tribù e che questo compito spetta senz’altro all’Italia. Quindi l’ha incoronato negoziatore principale della pace in Libia. Naturalmente incoronare qualcuno senza avere la corona da calcargli sulla testa non costa nulla ed è quello che ha fatto Obama. La corona in questo caso ce l’ha l’Onu e sembra difficile che l’Onu la metta in testa ad un italiano che per di più rappresenta un Paese che ebbe la Libia come colonia dal 1911 al 1942, dopo la sconfitta di El Alamein.
Obama lo ha simbolicamente incoronato come leader dell’Europa (altra corona che Obama non possiede), ma a scanso di equivoci ha ricordato che gli Usa hanno un rapporto con la Germania che non può e non deve essere indebolito.
Infine Obama ha preso atto con piacere che le truppe italiane dislocate in Afghanistan resteranno in quel Paese ancora un paio di anni mentre quelle americane stanno già rientrando in patria.
Insomma: chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Renzi ha dato truppe in Afghanistan e possibilmente un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro. Ha dato anche il suo appoggio al trattato commerciale Usa-Ue attualmente in discussione. In contropartita ha avuto due corone di cartone. Su quelle due Renzi torna a Roma felice e contento. Giornali e televisioni hanno già cominciato a suonare a festa e continueranno. Mi viene in mente la canzone “Madonne fiorentine” quando dice che «Madonna Bice non nega baci/ baciar le piace, che male fa?». Infatti, che male fa mettersi in testa due corone di cartone e far credere che sono d’oro massiccio e ingioiellato. *** Tornato in Italia Matteo (che Giuliano Ferrara non a caso chiama “Royal baby”) comincerà col respingere e far respingere all’unanimità dalla direzione del Pd le dimissioni di Speranza da capogruppo dei deputati del partito. Speranza accetterà quel voto o insisterà nelle dimissioni? Per ora l’interessato ha detto che insisterà ma ha anche spiegato il perché: vuole trattare un compromesso accettabile per tutte e due le parti in causa. E qual è il compromesso? Un cambiamento della riforma del Senato in seconda lettura in Parlamento: elezione diretta dei senatori e voto compatto dei dissidenti sulla legge elettorale.
È possibile questo do ut des? Sembrerebbe di no. Secondo la legge vigente le materie già approvate dalle Camere nella prima lettura della legge costituzionale non possono essere più emendate in seconda lettura. Le cose stanno esattamente così, salvo che c’è un impensabile calembour cui appigliarsi: nella prima lettura una Camera ha votato che «i senatori saranno votati nei Consigli regionali» e l’altra Camera ha votato che «i senatori saranno votati dai Consigli regionali». Il significato è identico ma la forma è diversa.
È un appiglio valido che consente un mutamento sostanziale? La risposta sulla base dei regolamenti parlamentari spetta al presidente del Senato. Grasso non è persona che gioca alle quattro carte; in materia di legge e di procedure ha speso tutta la sua vita e perciò la sua risposta, ove fosse necessaria, sarà motivata in modo sicuramente accettabile, quale che sia.
Ma se fosse negativa? Allora mancherebbe la contropartita al voto unanime sulla legge elettorale. E allora Renzi che farà? Metterà la fiducia su quella legge? È avvenuto una sola volta, la mise De Gasperi sulla cosiddetta legge truffa del 1953. Ma in quel caso la sostanza era completamente diversa: il premio scattava soltanto nel caso che ci fosse in Parlamento una maggioranza assoluta del 50 per cento più uno. Solo allora scattava il premio per accrescere la governabilità. Comunque quella legge fu battuta nonostante la fiducia. Figurarsi qui e ora.
Perciò il problema resta apertissimo su come si comporteranno i dissidenti del Pd. Per loro il tema è se osservare la disciplina di partito o non accettarla se sono convinti che quella legge è un passo assai pericoloso verso un governo autoritario. Sta a loro rispondere e decidere come comportarsi. *** Una parola sulle decisioni di Marchionne di associare i lavoratori della Fiat agli utili dell’azienda; qualora quegli utili ci siano spetterà a lui di stabilire l’entità del premio e la sua ripartizione tra i dipendenti.
Tutti i sindacati hanno plaudito salvo la Fiom-Cgil che parla di esproprio dei poteri sindacali. Sembra un’opposizione più corporativa che sindacale. In parte lo è, ma in parte no. Infatti in quasi tutte le aziende esiste un “premio di rendimento” che le imprese discutono con le rappresentanze sindacali, le quali trattano sull’entità del premio (sempre che un profitto ci sia stato), sulla sua ripartizione ed anche su problemi connessi alle condizioni di lavoro nel comune interesse dell’impresa e dei lavoratori.
Dunque non è l’imprenditore che decide da solo, ma l’interlocutore sindacale è allo stesso tavolo e si arriva ad una decisione comune.
A me sembra che questo metodo sia buono e che comunque il profitto sia di comune utilità; senza di esso la discussione si dovrebbe spostare sui sacrifici da compiere, sia dall’una che dall’altra parte e questo è il massimo di un capitalismo democratico e di un sindacalismo riformista.
Post scriptum. La settimana che si apre domani si concluderà sabato prossimo con la ricorrenza del 25 aprile, festa della Resistenza contro il nazifascismo.
Questa festa fa parte della storia d’Italia, dal Risorgimento in poi. Quel movimento ebbe molte ombre e contemporaneamente molte luci. Le figure più rappresentative, molto diverse tra loro ma tutte votate alla fondazione dello Stato unitario e democratico, furono soprattutto tre: Mazzini, Cavour, Garibaldi.
La Resistenza fu una pagina di grande riscatto e anch’essa ebbe molte figure e apporti ideali e politici assai diversi: liberali, comunisti, monarchici, liberal-socialisti, socialisti. Ma il fine era comune e fu sancito dalla Costituzione che tuttora ci detta le regole di comuni principi di democrazia, libertà ed eguaglianza politica e sociale.

Per ciò concluderò con le parole con le quali il presidente Mattarella ha concluso due mesi fa il suo discorso di insediamento al Quirinale: «Viva la Repubblica, viva l’Italia».

Il manifesto, 18 aprile 2015

Nuovo giro di vite della Troika sulla Gre­cia. Si torna a par­lare di Gre­xit. Non è la prima volta in que­ste set­ti­mane, ma ora il tempo stringe. La liqui­dità scar­seg­gia e il paese elle­nico deve resti­tuire tra mag­gio e giu­gno al Fmi 2,5 miliardi di euro. A giu­gno e luglio sca­dono altri due bond verso la Bce per un importo ancora supe­riore di 6 miliardi. Se non doves­sero venire rim­bor­sati ces­se­rebbe anche la linea di cre­dito di emer­genza (Ela) da 73 miliardi messa a dispo­si­zione a caro prezzo dalla Bce per soste­nere le ban­che gre­che. E’ da dubi­tare che l’Eurogruppo di Riga del 24 aprile si mostri più com­pren­sivo. Situa­zione dispe­rata dun­que? Non è detto. La par­tita è ancora complessa.

La linea di Varou­fa­kis è chiara: «Faremo com­pro­messi con la Ue ma non fini­remo com­pro­messi». Ale­xis Tsi­pras dichiara alla Reu­ters che il governo lavora per una solu­zione che «rispetti il recente man­dato popo­lare come il qua­dro ope­ra­tivo dell’Eurozona», pre­ci­sando però che restano quat­tro punti di disac­cordo – non tec­nici, ma poli­tici – in mate­ria di rap­porti di lavoro (del resto il mer­cato del lavoro greco è già del tutto dere­go­la­men­tato), di sicu­rezza sociale, di aumento dell’Iva, di pri­va­tiz­za­zioni. Ovvero il cuore del pro­gramma sociale di Syriza.

Ma la Gre­cia ha biso­gno di tempo e che si allenti la morsa del debito. Varou­fa­kis ha chie­sto al Fmi una tol­le­ranza mag­giore del solito mese di gra­zia. Chri­stine Lagarde ha rispo­sto che la dila­zione dei paga­menti non è mai stata fatta per un paese “avan­zato”, che è roba da Terzo Mondo. Si potrebbe obiet­tare che c’è sem­pre una prima volta per tutto e que­sto potrebbe essere un ottimo caso, nel quale la Ue e il Fmi potreb­bero dimo­strare quella sag­gezza e pre­veg­genza di cui finora hanno dato prova di com­pleta assenza.

La Gre­cia non uscirà mai dai «sette anni del nostro scon­tento» – il rife­ri­mento sha­ke­spea­riano- steim­bec­kiano è farina del sacco di Varou­fa­kis – senza una ristrut­tu­ra­zione del pro­prio debito, la cui inci­denza peral­tro in rela­zione al debito com­ples­sivo dell’Eurozona è minima. Ma come sap­piamo il pro­blema è politico.

Se la Gre­cia se la cava, altri pos­sono per­cor­rere strade alter­na­tive all’austerità e l’influenza sul qua­dro poli­tico dei paesi in mag­giore dif­fi­coltà, che finora hanno ese­guito pedis­se­qua­mente i dik­tat della Troika tro­van­dosi peg­gio di prima, potrebbe essere letale per le destre che attual­mente li gover­nano. Il rife­ri­mento alla Spa­gna è d’obbligo.

Tut­ta­via, vale anche il ragio­na­mento con­tra­rio. Se la Gre­cia finisse in default, se - mal­grado le ultime dichia­ra­zioni più pru­denti della Mer­kel sulla per­ma­nenza greca nella Ue - ciò com­por­tasse una fuo­riu­scita dall’euro e quindi dalla Ue, non è affatto detto che per la finanza sarebbe pura godu­ria. Spe­rare infatti - scrive un edi­to­ria­li­sta del Sole24Ore - che il Gre­xit non abbia alcun impatto sui mer­cati finan­ziari e sull’economia degli paesi della Ue è come pre­ten­dere che una bomba esplo­dendo non fac­cia danni.

Per quanto la Bce abbia inon­dato di liqui­dità i mer­cati finan­ziari euro­pei, con esclu­sione come sap­piamo della Gre­cia e di Cipro, que­sti restano sen­si­bili a ogni minimo movi­mento. La situa­zione in Europa è migliore del 2011–2012, ma il peri­colo di un con­ta­gio finan­zia­rio del Gre­xit è tutt’altro che scongiurato.

E’ vero che le ban­che hanno ormai un’esposizione minima con la Gre­cia: da 200 miliardi di dol­lari del 2008 agli attuali 18,6. Ma que­sto non eli­mina il peri­colo del ritiro dei depo­siti dagli isti­tuti finan­ziari dei paesi della catena debole dell’euro, fra cui anche l’Italia, come rivela Gold­man Sachs. Se la Gre­cia se ne va, crolla il mito della irre­vo­ca­bi­lità dell’ingresso nell’Euro e altri paesi potreb­bero seguire la stessa strada. Quindi sarebbe meglio per chi ha depo­siti con­si­stenti in que­sti paesi por­tarli pre­ven­ti­va­mente altrove.

Le con­se­guenze di un Gre­xit sareb­bero ancora più gravi sugli Stati. Com­ples­si­va­mente l’esposizione di que­sti ultimi sul fronte greco è cre­sciuta, sia in modo diretto che indi­retto, attra­verso il cosid­detto fondo salva stati, giun­gendo a 194,7 miliardi di euro. Se da noi Renzi mena vanto per avere tro­vato un “teso­retto” di 1,6 miliardi, si può bene capire quale impatto nega­tivo avrebbe sulla nostra eco­no­mia e sull’opinione pub­blica dovere dire pro­ba­bil­mente addio ai quasi 41 miliardi di euro pre­stati dall’Italia alla Grecia.

Quindi, mar­gini per gio­care la par­tita il governo greco ne ha ancora. Com­presi quelli di aprire migliori rap­porti con Cina, Rus­sia e la Chiesa Orto­dossa. Ma non c’è da fidarsi, per­ché non sem­pre i poteri eco­no­mici si com­por­tano secondo logica e una dina­mica poli­tica puni­tiva potrebbe pre­va­lere. La carta migliore che Tsi­pras ha in mano resta l’appoggio del popolo greco che, nono­stante i boa­tos arta­ta­mente ingi­gan­titi su una cre­scente oppo­si­zione da sini­stra, con­ti­nua a con­so­li­darsi. Se a que­sto si aggiunge – come potrebbe in occa­sione del pros­simo Primo Mag­gio - la soli­da­rietà dei popoli euro­pei, si può capire che i nervi distesi di Tsi­pras e Varou­fa­kis non sono propaganda.

La Repubblica, 20 aprile 2014

Salviamo i diritti democratici, salviamo i diritti dei cittadini e consumatori ad ambiente e salute: l’accordo commerciale Ue-Nordamerica così non va. Ecco lo slogan della mobilitazione, alternativa ma non ideologica, che oggi investirà l’Europa intera e tutto il “pianeta blu”: manifestazioni d’ogni sorta, cortei, spettacoli, infostand per dialogare con la gente, in almeno 704 città sparse in tutto il mondo. Per dire che il Ttip e il Ceta, gli accordi di libero scambio dell’Unione europea con Stati Uniti e Canada, non sono né democratici né conformi a principi e standard europei di sicurezza e giustizia, e quindi vanno rifiutati.

“Stop Ttip!” si chiama il nuovo movimento globale, che collega senza centralismi quattrocento organizzazioni. Una catena umana nel cuore di Berlino, da Potsdamer Platz a Unter den Linden dove ha sede la rappresentanza Ue, e spettacoli in piazza a Parigi a Place Stalingrad e a Place de la République, con i potenti delle multinazionali e della politica impersonati da vampiri, saranno il clou della giornata di mobilitazione.

«È un giorno importante, ma l’iniziativa continua, come va avanti da anni», spiega Cornelia Reetz, action manager di Stop Ttip Germania, la sede che di fatto è il “comando operativo” del movimento globale cresciuto soprattutto online, al civico numero 4 di Greifswalderstrasse qui a Berlino. «Intanto prosegue anche la raccolta di firme contro il Ttip e il Ceta, che attorno al 10 ottobre presenteremo alla Commissione europea, a tutte le istituzioni Ue, ai governi nazionali i cui parlamenti dovranno ratificare gli accordi», spiega la Reetz. Il movimento cresce, in vista dell’happening in strada domani in tutto il mondo e anche con la raccolta di firme: «Puntavamo a un milione, ne abbiamo già un milione e 700 mila”.

I soliti no global, i soliti idealisti, diranno in molti. Però le obiezioni di “Stop Ttip” suonano come rilievi da prendere sul serio. L’accordo, continua la giovane organizzatrice tedesca, è stato negoziato in segreto, senza informare le opinioni pubbliche, e svuota le nostre democrazie. «Non è finita: offre vantaggi inutili e pericolosi agli interessi dei grandi gruppi economici, tende ad abbassare gli standard di sicurezza, igiene, ecologia in vigore ad esempio in Europa ai livelli nordamericani, a cominciare dal cibo transgenico per finire ai cosmetici e ad altri prodotti di uso quotidiano». E una volta innescata, la dinamica dell’accordo – sul terreno degli Ogm ma anche con la liberalizzazione spinta delle privatizzazioni – secondo il movimento di protesta sarà difficilmente reversibile.

Catena umana a Berlino, molte iniziative in piazza in diverse città italiane, spettacoli con i “vampiri cattivi” a Parigi, azioni sparse ovunque per il mondo. Le adesioni crescono di ora in ora da una città all’altra. Non avete paura di perdere contro lobby così forti? chiedo. «Chi ha paura di lottare ha già perso», risponde Cornelia Reetz, «la Commissione europea comincia a parlare di noi nei suoi comunicati, la commissaria Cecilia Maelstroem ci appoggia col suo blog. All’inizio non ci speravamo, per questo ci sprona ancor di più a continuare».

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