Deluso dal consiglio europeo? «Veramente non mi aspettavo niente di più di quel poco che è stato deciso». Affondare i barconi degli scafisti? «Dovrebbero spiegarmi come farlo senza provocare una strage». Aprire campi profughi in Africa? «E perché non al Polo Nord? Farebbero di tutto pur di tenere i migranti lontani dall’Europa».
Non si sottrae a nessuna domanda Romano Prodi. L’ex presidente del consiglio ed ex presidente della commissione europea mantiene sempre uno sguardo molto attento a quanto succede in Europa, e in particolare ai drammi dell’immigrazione. Cosa che non gli impedisce di replicare al presidente del consiglio che ha derubricato a pubblicità editoriale (è in edicola «Missione incompiuta», il libro scritto con Marco Damilano) le opinioni politiche del leader dell’Ulivo. «Veramente la migliore pubblicità me l’ha fatta lui. I librai si sono affrettati a ordinare altre copie del libro», scherza.
Presidente come giudica le conclusioni raggiunte sull’immigrazione dal consiglio europeo?
Il giudizio è misto, nel senso che c’è una parte di raccolto positivo, che è l’aumento della dotazione europea e poi ci fermiamo lì. E’ un giudizio di soddisfazione nel senso che il dialogo va avanti, ma anche di delusione per il fatto che sui punti cardine, cioè sulla politica dell’immigrazione e sulla strategia di accoglimento non c’è proprio niente. Resta simbolica la frase di Cameron: «Prendiamo profughi e li portiamo in Italia».
Si aspettava o sperava qualcosa di più?
Speravo sì, aspettavo no. Purtroppo sono abituato alle delusioni. Era quello che nell’attuale situazione europea si può pensare sarebbe arrivato.
Lei in passato ha parlato spesso di un’Europa «assente» di fronte alle grandi crisi e i risultati del vertice sembrano confermare questo giudizio. Quali sono le ragioni di questa assenza?
Il progressivo prevalere degli interessi nazionali sugli interessi collettivi, un’involuzione totale che si esprime anche nei capitoli dell’economia. Figuriamoci quindi in politica estera e immigrazione che sono il capitolo più delicato. Ho sempre pensato che politica estera e difesa sarebbero state le ultime a essere messe integralmente nell’agenda europea. L’integrazione europea indubbiamente è entrata in un lungo periodo di crisi e settori come esteri, difesa e immigrazione sono i capitoli difficilissimi. Quindi non ritenevo che il vertice avrebbe potuto far compiere dei passi in avanti. Il mio è un sentimento di delusione ma atteso. Purtroppo è la normalità dell’attuale situazione europea.
Sembra quasi voler sancire il fallimento del progetto europeo.
Il fallimento no, una lunga sosta sì. Il progetto europeo non può fallire. Dalla bocciatura della Costituzione in poi i leader europei hanno ascoltato i loro populismi e seguito la loro politica di breve periodo. Così non si farà mai l’Europa.
Verrà però il momento in cui questo metterà a rischio la stessa politica interna dei diversi Paesi, allora si ricorrerà di nuovo all’Europa, costretti da un’emergenza. Ma in questo momento non vedo la spinta.
Che pensa della possibilità di affondare i barconi degli scafisti?
Non c’è nessuno che mi dica come si fa. Con questo sistema si rischia la strage di uomini, ma non mi sembra una soluzione. E infatti la nota vaticana che ho visto in materia lo mette bene in rilievo. Che facciamo, bombardiamo i migranti? I paragoni che vengono fatti con l’Albania o la Somalia sono del tutto fuori luogo perché lì c’era un governo con cui si poteva interagire.
Intendiamoci: se uno potesse distruggere tutti i barconi vuoti messi uno in fila all’altro, io sarei il primo a dire di sì. Ma questa di bombardarli è un’ipotesi che fa tanto piacere alla demagogia e al sentimento popolare prevalente. Perché attenzione: quando io mi giro intorno e parlo vedo che il sentimento populistico è arrivato alle radici del popolo italiano. Se votassimo a maggioranza forse vorrebbero bombardare i barconi, ma ritengo la cosa del tutto irragionevole.
Teme un nuovo intervento in Libia?
Ritengo talmente sciagurata la prima azione in Libia che l’idea di farne una seconda è impensabile.
Crede comunque che si stia andando in quella direzione?
Vediamo prima di tutto cosa significherebbe un intervento in Libia. Prima ipotesi: droni e aeroplani. Si fanno un sacco i morti e non decide niente. Seconda ipotesi: truppe. Significa mobilitare decine di migliaia di uomini o forse centinaia di migliaia di uomini, non mille o duemila. Non è nemmeno pensabile. Poi c’è un altro problema molto serio. L’obiettivo che si vuole colpire in Libia è il terrorismo. Ma il terrorismo non è libico, è ubiquo. Si fa la guerra in Libia e questi si spostano nel Sahel o negli altri punti già maturi per accoglierli, come Siria, Iraq, Mali. Questo è l’unico effetto che si otterrebbe.
Nel libro che ha scritto insieme a Marco Damilano lei dice che l’intervento in Libia nel 2011 fu un errore. Le chiedo: dobbiamo a quell’errore anche l’emergenza immigrazione di questi giorni?
Il fatto che sia incontrollabile sì, il fatto che ci sia no. Quando ero nel Subsahara me lo dicevano tutti: guardate che qui c’è una bomba demografica, dove va la gente, dove scappa? Mi guardavano puntando il dito e mi dicevano: da voi. C’era anche prima l’emergenza, tuttavia alla fine potevamo trattare con la Libia di Gheddafi che minacciava sì di riempire dei barconi e di mandarceli, ma avevamo un interlocutore e alla fine si trovava il modo per farlo smettere. Oggi non c’è più un interlocutore, anzi è acclarato che lo stesso terrorismo internazionale faccia buoni affari con i migranti.
A proposito, il premier Matteo Renzi le rinfaccia i suoi rapporti con Gheddafi.
Guardi, nel libro spiego tutta la storia chiaramente citando i documenti, compresa la lettera di Ban Ki-moon. Il libro non l’ho scritto per polemica ma per ricordare i vent’anni dell’Ulivo. E mi propongo di scriverne un altro tra vent’anni così potrò dare un giudizio anche su questo periodo storico, pensi come sarà bello. Ma veniamo a Gheddafi. Certo, gli interessi italiani erano evidenti. Con lui la linea è sempre stata ferma. Ci sono però due Gheddafi nella storia. Il primo è un feroce dittatore all’interno del Paese. Rimasto tale dall’inizio alla fine.
Poi c’è un secondo Gheddafi, quello della politica estera. In una prima fase un Gheddafi trouble maker, un creatore di disordini. Ha provocato guerre dappertutto, voleva essere potenza militare regionale e ha alimentato il terrorismo: Lockerbie, la discoteca La Belle, tutte questi atti delinquenziali. In una seconda fase ha capito che questo non gli dava frutto. Dopo alcuni anni che lo avevo capito, mi sono preso la responsabilità di invitarlo a Bruxelles sapendo di dare un contributo positivo alla pace. Fu la sua prima visita ufficiale in Europa. Avevo capito che avremmo chiuso un problema per la comunità internazionale. Ho avuto reazioni negative dagli Stati uniti e da Gran Bretagna. Dopo due mesi però erano tutti contenti e per incontrare Gheddafi bisognava fare la coda.
Si era chiuso un problema. Da presidente della commissione divenni poi presidente del consiglio e iniziammo una lunga negoziazione sul Trattato di amicizia che io non volli firmare. Non per tensioni personali o perché avevo cambiato parere, semplicemente perché difendevo gli interessi del mio Paese e non mi era chiaro quello che sarebbe stato il costo da parte italiana. Poi altri hanno firmato. Quindi i miei rapporti con Gheddafi sono stati fermi.
Le spiego un’altra cosa: io ho sempre avuto contatti anche con le tribù, i cui rappresentanti sono venuti in visita ufficiale a Bologna. Proprio perché ho sempre coltivato quel minimo di possibile dialogo con la società civile. E questo mi ha reso una posizione abbastanza aperta nei confronti sia di Gheddafi che delle altre realtà. Tant’è vero che l’anno scorso autorevoli interlocutori libici hanno chiesto, in modo ufficiale al presidente del consiglio italiano, che io diventassi il mediatore in Libia. Non avendo avuto nessuna risposta né loro né io, non so cosa è successo.
Torniamo all’immigrazione, resta il nodo di una più equa distribuzione dei richiedenti asilo, che l’Europa non sembra proprio voler sciogliere.
Questo è un punto che oggi non si riesce neanche a discutere.
La cancelliera Merkel però ha detto che il regolamento di Dublino non funziona più. Si riuscirà a modificarlo?
Mi auguro di sì, la speranza c’è. Se però ragiono in modo razionale quando sento la reazione di Cameron la leggo come la chiusura della porta perfino alla discussione del problema, perché di fronte ai suoi elettori lui dice no alla possibilità di accogliere profughi. Ma si rende conto di cosa ha detto? «Io li porto in Italia», c’è pure lo sfottò. Poi, se la cancelliera Merkel si impunta, col tempo si può anche arrivare a porlo all’ordine del giorno.
Ma perché non si aprono corridoi umanitari?
Perché dall’opinione pubblica vengono ritenuti dei taxi. Ritorniamo sempre al problema dell’elettorato. La questione è enorme e non si risolve senza una massiccia dose di aiuti a un’Africa che si sta svegliando. Questo è l’elemento di speranza, ci vorranno trent’anni, ma l’Africa non è più un corpo immobile come era sei, sette anni fa. Pensi che il flusso delle rimesse degli immigrati in Africa da un anno e mezzo ha superato il flusso degli aiuti dall’esterno. Vuol dire che ci sono risorse autonome, alternative, poi ci sono investimenti stranieri che stanno crescendo.
Insomma il continente comincia a muoversi, se solo noi gli dessimo una spintina… C’è un fatto che la gente non capisce: che l’immigrazione cala non quando un Paese diventa ricco, ma quando nasce la speranza. Cominciamo a innescare questa speranza e il flusso dell’immigrazione calerà da solo, perché si emigra per disperazione.
Cosa pensa del processo di Khartoum e della possibilità di aprire in Africa campi dove accogliere i profughi esaminando lì le richieste di asilo?
Purché i migranti stiano lontani dall’Europa le pensano tutte. Perché allora i campi non li facciamo al Polo Nord? (ride). Ma si rende conto? Da un lato c’è il Sudan, un Paese che tutti definiscono dittatoriale, e ci mettiamo i campi profughi? Basta il buon senso per capire che non va bene.
Per finire parliamo di politica. La nuova legge elettorale mette fine all’idea di centrosinistra?
Posso ripeterle che l’Ulivo è nato per il bipolarismo. Ho sempre sostenuto all’inizio un sistema elettorale di tipo inglese. Data la frammentazione politica italiana e che vi sarebbero stati parlamentari eletti con il 20% dei voti, sono passato al sistema francese a due turni. In ogni caso ci devono essere più partiti, o più coalizioni che si contendono il governo del Paese.
E’ vero, come l’accusa qualcuno, che sta preparando insieme a Enrico Letta un piano per subentrare a Renzi in caso di crisi?
Dovrei risponderle con una risata e invece le rispondo semplicemente no. Tra l’altro in un Paese in cui nessuno legge è bello pensare che si possa attentare al governo scrivendo dei libri.
Renzi infatti ha detto che dovete promuovere i vostri libri.
Onestamente l’unica grande promozione del libro l’ha fatta lui dicendo questa frase (ride). Nel mio caso almeno i librai si sono affrettati a riordinarlo.
Ma esiste o no questo piano tra lei e Letta?
No, non abbiamo nessun piano. Non so se Letta ha voglia di rientrare in politica, ma io con l’età che ho se avessi voluto fare qualche piano l’avrei fatto un po’ prima. Sono sette anni che sono fuori, che giro il mondo, faccio cose interessanti e non ho nessuna intenzione di dare noia a nessuno né di sostenere nessuno. Però ho il diritto di ricordare ed è per questo che ho scritto il libro. E ripeto, tra vent’anni ne scriverò un altro
La Repubblica, 26 aprile 2015
James Galbraith, economista della Texas University di Austin, proprio non ci sta a vedere vilipeso e offeso di fronte a tutta Europa il suo compagno di istituto e grande amico Yanis Varoufakis.
«Ma lo sanno che è uno dei migliori economisti del nostro tempo, loro che preparazione economica ne hanno zero? E che ha il solo torto, lui che era bandito dai talk-show politici in patria fino a poco tempo fa per ragioni politiche, di essersi messo al servizio del suo Paese per cercare di salvarlo dal naufragio dopo decenni di gestione, quella sì, incompetente e corrotta?»
Però anche il ministro italiano Padoan, che non può essere certo accusato di essere un politico attaccato alla poltrona, ha accusato il governo di greco di tattiche dilatorie…
Proprio qui sta il punto. I soldi, ci piaccia o no, sono un problema. Non pensa che i creditori comincino ad essere preoccupati di non rivedere il loro denaro?
«Se fanno così, non lo rivedranno davvero mai. Se invece permetteranno ad Atene di riprendere con le sue forze un cammino di crescita sicuramente sì, anche se in un futuro forse un po’ più lontano del previsto. Senza pretendere, per esempio, che il surplus di bilancio sia accantonato invece che essere investito. Guardi, in gioco qui c’è non solo il futuro della Grecia, ma anche dell’Europa e della democrazia. Ad un nuovo governo deve essere dato il tempo di attuare il proprio piano economico. Guardi, di tutto questo il più convinto oggi è il governo tedesco e direi personalmente la cancelliera Merkel».
Proprio lei?
«La signora Merkel si sta dimostrando una vera statista. E da questa sua nuova apertura beneficeranno anche tutti gli altri Paesi che sono stati distrutti dalla follia dell’austerity che ha aggravato oltre ogni misura una crisi che poteva essere risolta con rapidità. Ma questa è acqua passata. Il futuro sarà ben diverso, grazie alla conseguita consapevolezza tedesca. E di questo dovete tutti ringraziare Varoufakis».
La Repubblica, 26 aprile 2015
L’articolo che ora comincerete a leggere l’ho scritto ovviamente ieri, sabato 25 aprile. L’anniversario ricorda ciò che avvenne settant’anni fa: la liberazione dell’Italia dal giogo nazista ad opera delle armate angloamericane ma con il contributo importante della resistenza partigiana ed anche dei reparti dell’esercito regolare italiano inquadrati nell’VIII Armata a comando inglese.
Le brigate partigiane entrarono per prime a Milano, Torino, Genova dopo 18 mesi di resistenza sulle montagne alpine, prealpine e appenniniche e lo spirito che le unificò fu l’antifascismo. Nelle varie brigate c’era quello spirito comune a tutti e molto variamente rappresentato: le brigate Garibaldi erano comuniste ed erano le più numerose, ma c’erano anche quelle di Giustizia e Libertà del Partito d’Azione, quelle Matteotti socialiste, quelle cattoliche, quelle monarchiche ed anche repubblicane e liberali.Complessivamente erano alcune migliaia di giovani e c’erano anche donne con loro, ma il grosso che comprendeva una parte considerevole della popolazione italiana da Firenze in tutta la valle del Po e all’arco alpino era fatto dalle famiglie che abitavano quei luoghi e che rifornivano di cibo i partigiani e li ospitavano nelle notti in cui scendevano a valle per procurarsi quanto era loro necessario, comprese armi e munizioni.
Fu questo un movimento di popolo che diede vita alla Resistenza e mise la base etica e politica di quell’Italia democratica delle istituzioni repubblicane e della Costituzione che abbiamo votato con le elezioni e il referendum del 2 giugno del 1946.
Venerdì scorso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato un’ampia intervista su queste pagine al direttore Ezio Mauro, chiarendo il significato di quel periodo, mettendone anche in evidenza alcune ombre che non hanno però alterato né indebolito la nascita dell’Italia repubblicana e democratica, la ricostruzione sociale ed economica che ne seguì e i martiri che persero la vita nelle camere di tortura fasciste durante quei mesi terribili e tormentati. Ma l’inizio di tutti quei moti popolari avvenne prima d’ogni altro a Napoli con quattro giornate di rivoluzione; le truppe alleate erano ancora a Salerno e arrivarono nella città partenopea a rivoluzione già avvenuta che aveva messo i tedeschi in fuga.
Gli esponenti principali di quel glorioso movimento risorgimentale furono Mazzini, Cavour, Garibaldi ed anche i Cairoli, Manara, Berchet, Mameli, Bixio, Pisacane e molti altri segregati nelle carceri austriache.
Anche il Risorgimento ebbe le sue ombre che segnarono profondamente il movimento e in parte ancora si protraggono con il dualismo economico tra Nord e Sud che proprio allora ebbe inizio. Proprio in quegli anni si manifestò anche il fenomeno mafioso che è andato via via crescendo fino a diventare un’organizzazione delinquenziale le cui radici restano al Sud ma le cui propaggini sono ormai arrivate fino a Roma, all’Emilia, alla Lombardia, al Piemonte, al Veneto e addirittura a Marsiglia e ad Amburgo.
La storia è sempre e ovunque molto complessa, il che non toglie che nel periodo di cui stiamo ora parlando il contenuto eticopolitico e sociale sia stato comunque positivo. Ma il nostro Paese è arrivato alla sua unità e alla trasformazione economica e sociale con grande ritardo rispetto al resto d’Europa. Questo sfasamento temporale ha avuto effetti profondamente negativi sulla democrazia italiana che è stata fin dall’inizio dello Stato unitario fragilissima. La causa è evidente: molti italiani hanno considerato e tuttora considerano lo Stato come un’entità estranea o addirittura nemica, oppure come strumento da utilizzare per i propri particolari interessi anziché a tutela degli interessi generale e del bene comune.
La diffusione non solo della mafia ma delle clientele e della corruzione così radicata sono fenomeni che hanno come causa prima il ritardo di secoli della nascita dello Stato unitario, sorto centocinquanta anni fa mentre in Francia, in Inghilterra, in Austria, in Spagna era nato quattro secoli prima e con esso economie molto più avanzate rispetto alla nostra.
Ogni tanto ci sono in Italia ventate di patriottismo, ma sono fenomeni passeggeri e non a caso avvengono quando al vertice dello Stato si insedia — col favore di popolo — un dittatore.
Le istituzioni per molti italiani sono estranee rispetto ai loro interessi ed è questa la causa della fragilità democratica che anche ora è tutt’altro che cessata.
Se guardiamo alla storia dell’Italia moderna questo fenomeno è largamente diffuso. Gli anticorpi dovrebbero mettere riparo alla fragilità della nostra democrazia e dovrebbe essere il Partito democratico a produrli, specialmente ora che alla sua guida c’è un personaggio coraggioso, eloquente, dotato di molte capacità di convincere amici e avversari. Ma il fatto strano degli anticorpi che distruggono se stessi si sta invece verificando con preoccupante intensità ed è proprio Matteo Renzi, che adottando lo slogan del cambiamento, sta cambiando la democrazia italiana non rafforzandola ma rendendola ancora più fragile sì da consentirgli di decidere e comandare da solo. Renzi sta smontando la democrazia parlamentare col rischio di trasformarla in democrazia autoritaria. Forse non ne è consapevole, è possibile, ma quella è la strada che sta battendo e sia la legge elettorale sia la riforma costituzionale del Senato rendono quel pericolo ancora più concreto.
Ero a Sanremo dove avevo frequentato il liceo e dove risiedevo con i miei genitori. Nel ‘41 andai all’Università di Roma ma per le vacanze estive tornavo a Sanremo dove ritrovato tutti i miei amici, Calvino, Roero, Pigati, Donzella, Cossu, Maiga, Turco e insomma quella che noi stessi chiamavano la banda, e con i quali avevamo vissuto il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza.
Quella storia e quella giornata l’ho raccontata nel mio libro “L’uomo che non credeva in Dio” edito da Einaudi nel 2008.
Lo cito qui di seguito, è un piccolo spaccato che rende l’atmo- sfera di un Paese allo sfascio, in fuga davanti a se stesso, dal quale la Resistenza l’ha riscattato. L’8 settembre ci furono due fenomeni contemporanei: gli italiani distrussero il loro Paese e contemporaneamente una parte di essi lo ricostruì su basi nuove, moderne e democratiche.
Voglio raccontarla quella storia e spero che interessi i lettori.
«Fu una tristissima giornata che per noi arrivò quasi d’improvviso dopo la caduta del fascismo avvenuta nel luglio precedente e la precaria euforia che essa aveva suscitato di una riconquistata libertà.
Dall’inizio di agosto avevamo visto con crescente sgomento le colonne motorizzate tedesche che scendevano sull’Aurelia verso sud e lunghi convogli ferroviari che trasportavano nella stessa direzione i carri armati con la croce uncinata sulle fiancate.
Finché arrivò l’8 settembre e ancora una volta, come tutte i giorni dall’inizio della guerra, ascoltammo la voce che leggeva le notizie del giornale radio dagli altoparlanti di piazza Colombo.
Quella voce la risento ancora quando ci ripenso: leggeva il comunicato di Badoglio con la notizia dell’armistizio e ordinava alle truppe di collaborare con gli angloamericani opponendosi a chiunque volesse impedirlo.
All’annuncio del capovolgimento di fronte, peraltro atteso e già avvenuto nella coscienza di gran parte degli italiani, l’intera nazione visse un attimo di silenzio sospeso. Poi cominciò lo sfascio che in poche ore abbatté lo Stato in tutte le sue simboliche presenze: l’esercito prima di tutto, l’autorità del governo, le leggi, la monarchia.
Il sentimento comune fu la fuga. Disperdersi. Pensare a sé e alla propria famiglia.
Anche il nostro piccolo gruppo di amici si scompose e i nostri destini si separarono. Ma prima facemmo ancora una cosa insieme: ci demmo appuntamento per la mattina dopo e andammo al deposito della Marina, un piccolo edificio di poche stanze, sopra gli scogli sulla strada litoranea per Bordighera. C’erano soltanto quattro marinai che stavano preparando i loro sacchi per andarsene. Noi dicemmo di esser lì per conto del Comune. Loro non sapevano evidentemente nulla dei poteri e delle competenze, ma soprattutto avevano soltanto voglia di lasciare quel luogo al più presto e andarsene a casa propria.
Domandammo se c’erano esplosivi. Risposero: “Esplosivi no, ci sono soltanto proiettili per i cannoni costieri”. “Ci sono anche i cannoni?”. Risposero di no. “I cannoni sono nelle postazioni della guardia costiera. Qui ci sono le munizioni di riserva”. Noi dicemmo che le prendevamo in consegna per conto del Comune e ci offrimmo di fare ricevuta dopo l’inventario. Loro risposero che se ne andavano, della ricevuta non avrebbero saputo che farsene. Ci dettero la chiave del deposito e quella del portone. E via. Lavorammo per tre ore a portar su i proiettili e gettarli sugli scogli. Pesavano un bel po’ e ne buttammo a mare la metà. Non sapevamo perché stessimo facendo quella fatica assolutamente inutile e priva di senso. Probabilmente fu il nostro modo di esprimere smarrimento e rabbia. Alla fine, stanchi e sudati, decidemmo di piantarla lì. Ci salutammo alla svelta e senza abbracci. Io dissi che appena possibile sarei partito per Roma con mio padre e mia madre.
Due giorni dopo telefonai a Italo, gli dissi che partivo col treno delle sei del pomeriggio. Ci salutammo ancora al telefono, ma poi me lo vidi alla stazione. Ero già salito e affacciato al finestrino. Lo ringraziai d’essere venuto. “Ci vedremo presto”, gli dissi. “Non credo” rispose lui. Il treno si mosse. Lui disse “ciau” con la u».
***
Dovrò ora dire qualche parola sulle decisioni dell’Europa (28 capi di Stati e di governo riuniti giovedì a Bruxelles) sul tema posto da Renzi dell’emergenza dell’emigrazione dalla Libia.
Avevano dinanzi, i 28, un problema enorme che doveva e dovrebbe affrontare almeno quattro questioni: portare in salvo i migranti che tentano di raggiungere il Sud d’Europa (praticamente la costa italiana) sfuggendo ad un inferno di povertà, schiavitù, stragi, nell’Africa subequatoriale; sgominare l’organizzazione delinquenziale degli scafisti-schiavisti che organizza i viaggi della morte; stabilizzare la Libia perché fin quando quel Paese non torni ad avere una struttura di governo è impossibile vincere la guerra del mare; infine intervenire a monte dell’emergenza nelle terre del Centroafrica dove milioni di persone sono in condizioni di stentata sopravvivenza e alimentano la fuga verso il benessere che diventa purtroppo una fuga verso la morte.
Ebbene, questi essendo i problemi intrecciati l’uno con l’altro, l’incontro a Bruxelles ha partorito un topolino: hanno deciso di portare l’assegno mensile europeo alla politica dell’immigrazione da 3 a 9 milioni al mese. Sul resto di fatto è silenzio. La Mogherini è stata incaricata di preparare un memorandum che sarà esaminato dal Consiglio d’Europa, con molti Stati membri che hanno però già detto che più di quanto è stato deciso non faranno. Si tratta di Germania, Gran Bretagna, Paesi baltici, Olanda e via numerando.
Renzi è contento. Noi no. Ma non solo noi: basta leggere su il Sole 24 Ore
di ieri l’articolo di Vittorio Emanuele Parsi che comincia dicendo che «la montagna ha partorito il topolino» e lo dimostra con una lucida analisi di quanto (non) è accaduto a Bruxelles. Lo stesso giorno è uscito l’articolo di Prodi sul Messaggero dove si spiega che per stabilizzare la Libia bisogna far intervenire le grandi potenze arabe (l’Egitto, l’ Arabia Saudita e gli Emirati) e la Turchia e il Qatar, i soli che possono assicurare in Libia un’autorità senza la quale ogni altra azione è impossibile.
Concludo tornando al tema della Resistenza.
Mi dicono che a Renzi non è simpatica la canzone “Bella Ciao” che è proprio quella dei partigiani. Sarebbe stato bello se l’avesse intonata anche lui alla manifestazione dell’Anpi. Non vorrei che invece di “Bella Ciao” dicesse “Ciao Bella”. È un cambiamento ma non andrebbe affatto bene.
Il manifesto, 25 aprile 2015
Centrali restano, dal suo punto di vista, la lotta agli scafisti e un’ulteriore stretta alle frontiere, con l’aggravante, che segna un’inedita convergenza tra i due Mattei (Renzi e Salvini), di dare priorità alla distruzione delle imbarcazioni usate per le traversate in mare. L’Unione Europea riprende, in sede di Consiglio, la proposta italiana, prevedendo anche la possibilità di un intervento militare per raggiungere l’obbiettivo, dimenticando però che in Libia c’è una guerra civile in corso e che il rischio di ‘danni collaterali’ è molto alto.
Grande sintonia quindi tra il nostro governo e l’Europa dei 28 (ma anche con un pezzo dell’agenda politica della destra xenofoba) sulla gestione delle frontiere, con l’obiettivo, esplicitato soprattutto negli accordi del processo di Khartoum e in quello di Rabat, così come negli accordi bilaterali che si vanno definendo in questi mesi, di trasferire ai Paesi della sponda sud la responsabilità di gestire i flussi di richiedenti asilo per bloccarli prima che arrivino alle nostre frontiere.
Una convergenza che segna il punto più basso delle politiche migratorie, di fronte alle migliaia di cadaveri che giacciono sul fondo del Mediterraneo. Nell’ordine del giorno del Consiglio l’accoglienza viene affrontata come il meno importante dei problemi e la sbandierata solidarietà tra gli Stati Membri si riduce a progetti pilota di reinserimento per 5mila rifugiati, una cifra ridicola.
La grande e potente Europa metterebbe in campo un progetto sperimentale per almeno (sic!) 5000 posti. Tanto per capire di che stiamo parlando, basti pensare che il piccolo e povero Libano o la piccola e povera Giordania accolgono circa un milione di persone a testa. L’Europa della Merkel, di Holande e Renzi, della BCE di Draghi, 5000 posti. Vergogna!
Esiste per fortuna un’altra Italia, che ha reagito subito con sdegno, portando in piazza migliaia di persone, cercando di restituire a quei morti la dignità che meritano e di esprimere un cordoglio ed una solidarietà fatta di proposte concrete. Non di vane parole e di cinismo. L’Italia dei sindacati, delle organizzazioni sociali religiose e laiche, di studenti e ambientalisti, che ogni giorno prova a contrastare il razzismo di stato. Una rete di associazioni che si è data appuntamento il 21 aprile davanti a Montecitorio a Roma e in altre 100 città per chiedere che il governo italiano attivi subito una operazione di ricerca e salvataggio (come Mare Nostrum), in attesa che tutta l’Europa si assuma questa responsabilità.
Allo stesso tempo è stato chiesto che Italia e UE affidino all’Unhcr il trasferimento in sicurezza verso l’Europa di coloro che, nei paesi intorno al mediterraneo, aspettano di poter partire per chiedere protezione, con un’equa ripartizione tra i diversi stati. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) è infatti l’organizzazione che ha competenze, strumenti e mezzi per poter gestire legalmente il flusso di profughi, senza dover modificare leggi nè organizzare improbabili rappresentanze e campi di transito in africa, col vero scopo di bloccarli lì.
Nei prossimi giorni la mobilitazione continuerà e se l’Italia e l’Unione europea non cambiano direzione ci sarà una reazione ampia e unitaria, per fermare la strage e restituire forza e integrità alla nostra democrazia
Il manifesto, 25 aprile 2015
Per il 25 aprile non ho sbuffato mai, ma è vero che, passato il peggio della guerra fredda — quando i governi dc arrestavano i partigiani, o quando arrivò Tambroni — anche la Resistenza rimase spesso immobile. Oggi, 2015, è evidente a tutti che la data è caldissima, un’urgenza attuale nella nostra agenda. Per via di un suo specifico aspetto: non tanto perché chi ne fu combattente riuscì a cacciare i tedeschi , che pure non è poco. Piuttosto perché è in quegli anni ’43–45 che vennero poste le fondamenta — per la prima volta — di uno stato democratico in Italia. Che oggi mi pare in pericolo, non perché assalito dai fascisti, ma perché eroso dal di dentro.
Noi uno stato popolare, legittimato a livello di massa, non l’avevamo avuto mai : il Risorgimento, come sappiamo, fu assai elitario e produsse una partecipazione assai ristretta, estranee le classi subalterne; i governi della nuova Italia nata nel 1860 restano nella memoria dei più per la disinvoltura con cui generali e prefetti sparavano su operai e contadini. Poi venne addirittura il fascismo.
A differenza del maquis francese o della resistenza danese o norvegese, la nostra non aveva proprio nulla da recuperare, niente e nessuno da rimettere sul trono. Si trattava di inventarsi per intero uno stato italiano decente, e dunque democratico. (Come in Grecia, del resto, dove però una pur straordinaria Resistenza non ce l’ha fatta).
Non è una differenza di poco. E se la Resistenza italiana ci ha permesso di riuscirci, è anche perché è stata la prima volta in cui in Italia le masse popolari hanno partecipato massicciamente e senza essere inquadrate dai borghesi alla determinazione della storia nazionale.
E anche per un’altra ragione: perché il dato militare, e quello strettamente politico — l’accordo fra i partiti antifascisti — pur importanti, non esauriscono la vicenda resistenziale. Un ruolo decisivo nel caratterizzarla l’ha avuto quello che un grande storico, comandante della brigata Garibaldi in Lunigiana, Roberto Battaglia, chiamò “società partigiana”. E cioè qualcosa di molto di più del tratto un po’ giacobino, o meglio garibaldino, dell’organizzazione militare più i civili che ne aiutarono eroicamente la sussistenza; e cioè l’autorganizzazione nel territorio, l’assunzione, grazie a uno scatto di soggettività popolare di massa, di una responsabilità collettiva, per rispondere alle esigenze della comunità, il “noi” che prevalse senza riserve sull’ “io”.
L’antifascismo come senso comune, più che nella tradizione prebellica, ha origine in Italia da questo vissuto, nell’ esperienza autonoma e diretta di sentirsi — «attraverso scelte che nascono dalle piccole cose quotidiane», come ebbe a scrivere Calamandrei — protagonisti di un nuovo stato, non quello dei monumenti dedicati ai martiri, ma quello su cui hai diritto di decidere, di una patria che non chiede sacrifici ma ti garantisce protezione, legittima i tuoi bisogni, ti dà voce. E’ la comunità, insomma, che si fa Stato, a partire dal senso di appartenenza.
La Costituzione partorita dalla Resistenza riflette proprio questa presa di coscienza, e infatti definisce la cittadinanza come piena appartenenza alla comunità. Non avrebbe potuto essere così se, ben più che da una mediazione di vertice fra i partiti, non fosse nata proprio da quella esperienza diretta che fu la “società partigiana.” E dalle sue aspirazioni. Per questo ha una ispirazione così ugualitaria e formulazioni in cui è palese lo sforzo di evitare formule astratte. E’ di lì che viene fuori quello straordinario articolo ‚per esempio, che dice come, per rendere effettive libertà e uguaglianza”, sia necessario “rimuovere gli ostacoli che le limitano di fatto”.
Proprio riflettendo su quanto da più di un decennio sta accadendo, a me sembra che la crisi visibile della democrazia che stiamo vivendo non sia solo la conseguenza del venir meno di quel patto di vertice, e dei partiti che l’avevano sottoscritto, ma più in generale dell’impoverirsi del tessuto politico-sociale che ne aveva costituito il contesto. E se è possibile l’attacco che oggi si scatena contro la Costituzione è proprio perché la nostra società non è più “partigiana”, ma passiva, privata di soggettività, estranea alla politica di cui non si sente più, e infatti non è più, protagonista, chiusa nelle angustie dell’”io”, sempre meno partecipe del destino dell’altro, lontana dal declinare il “noi”.
Non ci sarà esito positivo agli sforzi che in molti, e da punti di partenza anche differenziati, vanno facendo per uscire dalla crisi della sinistra se non riusciremo a risuscitare prima soggettività e senso di responsabilità collettiva . Non riusciremo nemmeno a salvare la Costituzione, e finiremo anche per cancellare la specificità della Resistenza italiana. Quell’attacco mira proprio ad impoverire l’idea stessa della democrazia che essa ci ha regalato, riducendola a un insieme di regole e garanzie formali e individuali, non più terreno su cui sia possibile esercitare potere.
Stiamo attenti a come celebriamo il 25 Aprile. Berlusconi, quando per una volta si degnò di partecipare a una iniziativa per il 25 aprile — fu ad Onna, subito dopo il terremoto d’Abruzzo — ebbe a dire che sarebbe stato meglio cambiare il nome della festa: non più “della Liberazione”, ma “della Libertà”. Proposta furbissima: la sua dizione richiama infatti un valore astratto calato dal cielo, la nostra dà conto della storia e racconta chi la libertà ce l’aveva tolta e cosa abbiamo dovuto fare per riconquistarla. Se smarriamo la storia cancelliamo il ricordo delle squadracce fasciste al soldo degli agrari e dei padroni che bruciarono le Camere del lavoro, la violenza contro le organizzazioni popolari; depenniamo la Resistenza stessa e sopratutto il ruolo che ha avuto nel costruire un nuovo stato italiano democratico.
Rischiamo di dimenticare che per mantenere la libertà c’è bisogno di salvaguardare la Costituzione e per farlo di ricostruire una “società partigiana” per l’oggi: uno scatto di soggettività, di assunzione di responsabilità, un impegno politico collettivo, rimettere il “noi” prima dell’”io”.
Sapendo che oggi il “noi” si è estremamente dilatato. Non è più quello di chi vive attorno al campanile, e nemmeno dentro i confini nazionali. Il mondo è entrato ormai nel nostro quotidiano, lo straniero — e con lui la politica estera — lo incontriamo al supermarket, all’angolo della strada, nella scuola dei nostri figli. La sua libertà vale la nostra, la nostra senza la sua non ha più senso. Per questo non è pensabile festeggiare il 25 Aprile senza palestinesi e immigrati, così come senza gli ebrei che da qualche parte patiscono tutt’ora l’antisemitismo. Non è debordare dal tema “Liberazione” sentirsi parte, vittime e però anche responsabili, di tutti i disastri che affliggono oggi il mondo.
Il manifesto, 23 aprile 2015, con postilla
Tre crisi interconnesse che richiedono uno sguardo alto sugli orizzonti, senza il quale vien meno ogni ragione di sovrapporre un’entità regionale come l’Europa a quelle di Stati nazionali ormai palesemente inadeguati. Eppure, nel dibattito politico il tema della crisi ambientale è ormai affondato, sommerso dalle preoccupazioni finanziarie; l’economia, che dovrebbe essere scienza del ben amministrare la casa comune, si è ridotta a una misera partita doppia del dare e del prendere, dove prendere, per chi ha il bastone del comando, ha preso di gran lunga il sopravvento sul dare. La questione dei profughi, finora considerata marginale (quasi un incidente di percorso) è la più grave e urgente, perché riassume in sé tutte le altre; ma ridisegnerà i confini dell’Europa e le sue fondamenta.
Una classe dominante tirchia e vorace cerca di eludere i problemi posti dalla crisi ambientale globale, dall’“emergenza profughi”, dalle violazioni quotidiane della dignità umana subite da chi è senza reddito, senza lavoro, senza casa, senza cure, senza famiglia o affetti, senza futuro: «non ci sono i soldi», «non c’è più posto», «non ci riguardano». Sembra quasi che il crollo di Stati e il caos di intere regioni, il protrarsi endemico di conflitti insostenibili, o le stesse guerre guerreggiate ai suoi bordi — a cui a volte l’Europa prende parte, a volte assiste ignava — non la riguardino. Mentre la stanno trascinando nell’abisso. Un abisso dove si intravvedono già le prime avvisaglie — ma se ne ascoltano ormai ad alta voce gli incitamenti — di una politica di sterminio.
Che differenza c’è, infatti, se non in peggio, come ha fatto notare Erri De Luca, tra le navi negriere di secoli trascorsi e le carrette del mare che trascinano a fondo i profughi costretti a salirvi? O, come ha fatto notare Gad Lerner, tra i treni piombati che portavano gli ebrei ad Auschwitz, per trasferirli subito nelle camere a gas, e le stive dei barconi dentro cui i profughi, chiusi a chiave, sprofondano in fondo al mare senza nemmeno vedere la luce del sole? I numeri, direte voi. No, quelli ci sono. Sono sei milioni – tanti quanti gli ebrei soppressi nei campi di sterminio nazisti – i profughi che affollano i campi dei paesi ai bordi del Mediterraneo, o che si apprestano a intraprendere un viaggio della morte verso le coste europee. E se per loro non sapremo mettere a punto soluzioni diverse — perché mancano i soldi, o perché non c’è posto, o perché sconvolgerebbero il non più tanto quieto vivere dei cittadini europei — la sorte che gli prepariamo è quella.
Bisogna esserne consapevoli. Che cosa significano infatti le “soluzioni” prospettate dai nostri governanti: sia italiani che europei? Distruggere le carrette del mare? Ne troveranno altre, ancora più costose e insicure. Allestire campi di raccolta ai confini dei paesi di imbarco? Ma per farne che cosa? Per trasportare in sicurezza i rifugiati, di lì verso la loro meta? O per affidare a dittature di ogni genere centinaia di migliaia di derelitti senza più diritti, né patria, né nome, che prima o poi tenteranno la fuga o verranno sterminati? Fare la guerra ai paesi da cui si imbarcano? Ma non sono state proprio quelle guerre a creare un numero così alto di uomini, donne e bambini senza più un posto dove vivere? Combattere e arrestare gli scafisti (la soluzione più ipocrita di tutte)? Ma sono loro la causa di quei milioni di esseri umani che vogliono raggiungere le coste europee, o è la mancanza di alternative sicure, messe al bando dall’Europa, a produrre e riprodurre gli scafisti?
La verità è che quei profughi sono già cittadini europei. Cittadini di ultima classe, perché non viene riconosciuto loro alcun diritto; ma tuttavia abitanti che fanno parte del contesto dove si decide il destino dell’Europa. Proprio per questo i paesi da cui fuggono sono già parte integrante del suolo europeo. Ma, a differenza dei migranti degli scorsi decenni quei profughi non tentano la traversata del Mediterraneo, o lo scavalcamento dei confini orientali, per trasferirsi in Europa per sempre; in gran parte sono pronti a tornare nei loro paesi non appena la situazione lo permettesse. Quella situazione è la pacificazione e la rinascita di quei territori: cose che non si ottengono con la guerra, né con una diplomazia che finge di trattare con quelle stesse fazioni che ha armato; o che continuano ad essere armate da giochi e triangolazioni su cui ha sempre meno controllo.
Quella pacificazione, in Asia, Africa, Medio Oriente, ha bisogno di una base sociale solida. E quella base sociale, in potenza, c’è. Il nucleo portante potrebbero essere proprio quei profughi che hanno raggiunto o che cercano di raggiungere il suolo europeo; i legami che li uniscono sia a parenti e comunità già insediate in Europa, sia a coloro che sono rimasti, o non sono riusciti a fuggire dai loro paesi. Ma a quella moltitudine dispersa e disparata (i flussi) occorre riconoscere la dignità di persone. Aiutandole innanzitutto a raggiungere in sicurezza la meta; ma anche, una volta qui, permettendole di sistemarsi, seppure in modo provvisorio, in condizioni dignitose: in case che non siano insalubri ricoveri illegali; possibilmente diffuse sul territorio sia per non gravare su singoli abitati votati al degrado, sia per facilitare rapporti di buon vicinato con i locali. Con un lavoro, anche parziale, a partire dalla gestione e dalla sistemazione fisica degli ambienti in cui devono trascorrere una parte della loro vita: tra loro ci sono muratori, fabbri, falegnami, elettricisti, agricoltori; ma anche maestri, contabili, informatici, ingegneri, medici infermieri; perché mai attività che, adeguatamente sostenute, possono fare loro, vengono invece affidate a cooperative che li sfruttano e costano il triplo? Ma, soprattutto, occorre facilitar loro la possibilità di incontrarsi, di mettersi in rete, di eleggere i loro rappresentanti, di farsi comunità sociale e politica, di mettere a punto strategie per il loro ritorno.
Ma come si può anche solo proporre obiettivi del genere in paesi dove la disoccupazione è alle stelle e casa, reddito e lavoro mancano anche a tanti europei? Non si può. A meno di perseguire per tutti, cittadini europei e stranieri, degli standard minimi di reddito, di abitazione, di lavoro (promosso o creato direttamente o indirettamente dai poteri pubblici), di istruzione, di assistenza sanitaria. L’essenza stessa di un programma radicalmente alternativo a quello perseguito dall’attuale governance europea con le politiche di austerità. Ma l’unico capace di affrontare l’ondata del razzismo e della xenofobia alimentata dagli imprenditori politici della paura di destra e sinistra. E l’unico per fornire una road map alla rifondazione radicale dell’Europa; a partire dal riconoscimento dei suoi confini di fatto e di quei diritti senza i quali la pretesa di tener uniti i suoi popoli non ha alcun fondamento.
Utopia? Certo. Ma qual è l’alternativa? Il castello dell’euro, e quello dell’Unione, e la falsa immagine di un continente oasi di pace dopo la seconda guerra mondiale non resisteranno a lungo se non si lavora fin d’ora per invertire rotta. E la nuova rotta è questa: insieme ai nostri fratelli e sorelle che fuggendo dalle guerre ci portano, con la loro stessa vicenda esistenziale, un messaggio di pace.
postilla
A proposito di utopia. A chi lo accusava di essere utopista nella sua proposta l'economista Claudio Napoleoni rispondeva: «Il fatto è che posto a un livello più basso il problema non è risolvibile»
La Repubblica, 24 aprile 2015
La “quasi certezza”: è questo che la Casa Bianca pretende per dar via libera ai Predator B e ai loro missili Hellfire. E quando si uccidono le persone sbagliate, ha detto ieri Barack Obama, è perché «nella nebbia della guerra al terrorismo si possono compiere errori, a volte mortali». Errori che uccidono occidentali come Giovanni Lo Porto e il suo compagno di sventura, Warren Weinstein, o che straziano ragazzi, donne, civili e in genere tutti quelli che si trovavano al momento sbagliato nel posto sbagliato, Pakistan o Yemen che sia.
Il manifesto, 24 aprile 2015 (m.p.r.)
Navi da guerra, portaelicotteri, aerei arriveranno nel Mediterraneo per mettere ordine, per “smash the gangs”, come ha riassunto con grande eleganza il britannico David Cameron. Ma gli “interventi mirati” per distruggere i barconi dei trafficanti, individuati come i soli responsabili dell’ecatombe umana dietro i quali la Ue tenta di nascondere le proprie responsabilità, restano un’ipotesi difficile da realizzare nei paesi di partenza, a cominciare dalla Libia, e potrebbero limitarsi ad azioni ex post, nei porti di sbarco europei. A Mrs Pesc, Federica Mogherini, è stato affidato il compito di trovare le vie legali per arrivare al sequestro e alla distruzione dei barconi dei trafficanti.
Il Consiglio straordinario sui migranti dei capi di stato e di governo della Ue si è aperto a Bruxelles con un minuto di silenzio in memoria dei morti del Mediterraneo. Sarà il solo momento in cui sono ricordati come esseri umani. Per il resto, i 28 hanno discusso per ore come scaricarsi il “fardello”, senza cambiare di una virgola i criteri di Frontex, agenzia nata per difendere la fortezza Europa, come dice il suo nome. I finanziamenti a Triton (al largo dell’Italia) e a Poseidon (al margo della Grecia) saranno raddoppiati: erano rispettivamente di 2,9 milioni al mese e 8 milioni l’anno (ma anche con il raddoppio non si raggiungerà l’investimento di Mare Nostrum). Misure “molto lontane dal nostro appello pressante a favore di operazioni di salvataggio di grande ampiezza”, ha commentato Amnesty International, che ha firmato con una trentina di altre organizzazioni non governative un testo rivolto ai dirigenti europei e rimasto inascoltato.
Le conclusioni del vertice riprendono i dieci punti del programma di emergenza presentato dalla Commissione lunedi’. Ma lo rivedono ancora al ribasso. Bisognerà aspettare maggio, per esempio, e altre proposte della Commissione, per vederci più chiaro sulla “reinstallazione” dei richiedenti asilo nei 28 paesi: comunque, l’offerta sarà solo “su base volontaria” e non dovrebbe riguardare più di 5mila persone, identificate dall’Onu come rifugiati (oggi nei campi in Libano, Giordania e Turchia). Non è in discussione un cambiamento di Dublino II, che prevede che sia il paese di primo arrivo ad aprire la pratica per il diritto d’asilo (cosa che incombe soprattutto su Italia, Grecia, Spagna, Malta e Cipro). C’è una direttiva Ue del 2001, mai applicata, che prevede una “protezione temporanea” in caso di grave crisi, ma anche questo sembra troppo alla maggioranza degli europei. David Cameron, per esempio, che deve fronteggiare le elezioni il 7 maggio, ha subito fatto sapere che manderà 3 elicotteri e una nave (è già una svolta, prima non voleva neppur sentir parlare di ricerca e salvataggio), ma che comunque la Gran Bretagna non accetterà di ospitare rifugiati. Nel 2014, come ha ricordato il presidente dell’Europarlamento Martin Schultz, ci sono state 626mila domande di asilo nella Ue, ma ne è stata accolta solo un’infima percentuale (a titolo di paragone, il Libano, che ha 5 milioni di abitanti, accoglie un milione di siriani). La Francia manderà due navi e un aereo, la Svezia (con la Norvegia) una nave. La Germania, due navi. La Spagna e il Belgio accettano anch’esse di partecipare. La ministra della difesa italiana, Pinotti, sostiene di sapere dove si trovano i trafficanti, l’Italia spinge per operazioni mirate in Libia. Ma molti frenano, e molto probabilmente la distruzione dei barconi avverrà nei porti di sbarco europei. Per poter agire in Libia, principale stato di partenza, ci vuole l’accordo del “governo”, ma, come ha sottolineato Hollande (riferendosi polemicamente al suo predecessore Sarkozy), quel paese “non è governato, è nel caos”, tre anni e mezzo dopo l’intervento. Ci vorrebbe un mandato Onu, ma qui l’Ue si scontrerebbe con un sicuro veto russo. Il precedente di Atalante, la missione Ue al largo della Somalia contro la pirateria, insegna: la missione era stata decisa nel 2008, ma le prime azioni sono arrivate solo nel 2011-12. Come ha riassunto un ammiraglio francese, Alain Coldefy: “cosa possiamo fare per contenere questo traffico con la forza? La risposta è semplice: niente”. Rebecca Harms, co-presidente dei Verdi al Parlamento europeo, afferma che l’ipotesi di interventi mirati è un “senza senso, la missione di difesa e sicurezza comune significa militarizzazione della strategia Ue contro i migranti”.
La Ue si lascia tentare dal modello australiano. Il premier, il conservatore Tony Abbott, vanta che negli ultimi 18 mesi ci sono stati “zero morti” al largo dell’Australia, grazie all’operazione “frontiere sovrane”. Una campagna di informazione (“No way, you will not make Australia home”) per scoraggiare le partenze, 908 baroni respinti nelle acque internazionali in 18 mesi, una spesa considerevole di centinaia di migliaia di dollari e per i migranti la sola possibilità di tornare da dove sono venuti oppure di andare in centri di detenzione off shore in “paesi partner”: Camberra dà soldi a paesi come la Cambogia (40 milioni di dollari) o la Papuasia Nuova Guinea perché accolgano i migranti che avrebbero diritto all’asilo (l’Australia ha firmato la convenzione internazionale del ’51). La Ue, difatti, cerca “partner” in Africa che si facciano carico dei migranti.
eddyburg versione integrata. Alfabeta2.it, 21 aprile 2015
L’annegamento di 700 forse 900 migranti il 17 aprile 2015 è l’ennesima conseguenza diretta di due fatti principali: la riproduzione delle guerre e il proibizionismo delle migrazioni. La maggioranza dei media continua a vomitare lacrime da coccodrillo, vili ipocrisie, falsità e addirittura il compiacimento da parte degli sciacalli; ancora una distrazione di massa per nascondere le vere cause di queste stragi e i responsabili.
Soprattutto dal 1990, la maggioranza degli emigranti fugge le guerre o le conseguenze dirette o indirette di queste: palestinesi, ruandesi, sudanesi, eritrei, congolesi, originari dei Balcani, iracheni, afgani, sub-sahariani, kurdi e oggi siriani e ancora altri di altre zone di guerra che i nostri media raramente menzionano. La riproduzione delle guerre dal 1945 a oggi è dovuta innanzitutto al continuo aumento della produzione delle armi e al suo commercio legale e illegale da parte delle principali potenze mondiali e dei paesi loro alleati. È risaputo che le armi e i soldi dell’Isis provengono soprattutto dagli Emirati amici degli Stati Uniti o anche della Russia e talvolta della Cina.
Da anni la più grande fiera annuale degli armamenti si svolge negli Emirati; all’ultima, il 22-26 febbraio scorso ad Abou Dhabi (si veda anche video della precedente SOFEX) hanno partecipato 600 rappresentanti delle imprese e paesi espositori (fra cui 32 imprese italiane), ossia ministri (fra i quali la sig.ra Pinotti e il sig. Minniti), diplomatici, alti ufficiali delle forze armate e alti dirigenti delle polizie e dirigenti delle grandi imprese (per l’Italia in primo luogo la Finmeccanica presieduta dal prefetto, ex-capo della polizia e poi dei servizi segreti, De Gennaro).
Secondo il Sipri, la produzione e l'esportazione di armamenti sono notevolmente e continuamente aumentate in particolare dal 2005; i principali paesi esportatori di armamenti sono Stati Uniti, Russia, Germania, Cina, Francia e Italia che per buona parte produce in joint venture o subappalto con/per imprese statunitensi; i primi cinque paesi insieme occupano il 74% del volume mondiale di esportazioni, USA e Russia da soli il 56% del mercato; i principali paesi importatori sono India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Pakistan; i principali clienti dell’Italia sono gli Emirati, l’India e la Turchia.
Come mostrano alcune ricerche di questi ultimi anni, le lobby finanziarie-militaro-poliziesche transnazionali e dei singoli paesi soprattutto dopo l’11 settembre 2001 hanno puntato all’esasperazione di ogni situazione di crisi e a favorire la costruzione del “nemico di turno” per giustificare la guerra permanente o infinita (come la definiva senza ambasce G. Bush jr.). Dopo Al Qaeda, l’Isis è palesemente il nemico ancor più orribile e forse ormai non più condizionabile da parte delle grandi potenze e dai loro alleati arabi, così come è diventata incontrollabile la situazione in Iraq, in Libia e altrove. Ma questo va bene per il “gioco della guerra infinita” e del “governo attraverso il terrore” (J. Simon).
Ovviamente, nessun paese produttore ed esportatore di armi sembra disposto a bloccare queste attività; tanti gridano contro la guerra, anche il Papa, ma non si dice che a monte c’è la responsabilità di chi realizza profitti e mantiene o accresce il suo dominio grazie a queste attività (vedi tutte le banche, e anche la finanza vaticana). Scappare anche a costo di rischiare la vita è l’unica possibilità che resta a chi ha la forza, la capacità e i soldi per fuggire le guerre. È quindi ovvio che tanti cercano di approfittare di questo bisogno. Ma, i trafficanti di migranti possono praticare questo business a volte criminale perché c’è proibizionismo delle migrazioni.
Se le persone che cercano di scappare trovassero la possibilità di aiuto, di “corridoi umanitari” e quindi di accesso regolare ai paesi non in guerra, i trafficanti non potrebbero lucrare sul loro disperato bisogno di cercare salvezza. Ipotesi quali quella del “blocco navale”, oltre a essere del tutto insulsa anche dal punto di vista giuridico e tecnico, è degna di neo-nazistelli del XXI sec. Gli Stati Uniti, l’Unione europea, la Russia, ma anche la Cina, il Giappone e altri paesi che sono direttamente o indirettamente responsabili delle guerre e della disperata emigrazione di oggi dovrebbero essere obbligati dall’ONU a fornire aiuti e accesso regolare nei loro territori così, come si fece per i Boat people che scappavano dal sud-est asiatico negli anni Settanta a seguito della guerra in Vietnam e Laos, e i massacri di Pol Pot in Cambogia. La logica protezionista e proibizionista che prevale nell'Unione europea alimenta il razzismo e, ovviamente, anche il declino economico e l’inconsistenza politica.
Al contrario, cinicamente, gli Stati Uniti hanno continuato a costruire sulla migrazione regolare e irregolare il loro successo economico degli anni 1970-2007, e persino il superamento dell'ultima crisi. Dal 1990 la popolazione statunitense è aumentata di quasi 70 milioni. Allo stesso tempo, gli States hanno avuto e hanno più di 13 milioni di immigrati irregolari (clandestini), ogni anno ne hanno espulso tra i 400.000 e un milione e si stima che 18.500 sono stati uccisi nel 1998- 2013 alla frontiera in parte da poliziotti e anche da criminali che si divertono nella «caccia agli umani».
E' grazie all’immigrazione regolare e irregolare che gli USA sono diventati la prima potenza economica, militare e politica; le teorie razziste di Huntington si inseriscono perfettamente nel gioco tra inclusione e rifiuto, nell'inferiorizzazione degli immigrati così costretti a guadagnarsi la salvezza attraverso l'umiliazione, il sacrificio, a favore dell’alta produttività per il paese d’immigrazione.
I paesi europei sull’immigrazione sono ancorati a un proibizionismo rigido che permette solo un’immigrazione illegale per fornire neo-schiavi alle economie sommerse. Così, si producono più morti tra i migranti che cercano di raggiungere l’UE, meno naturalizzati, meno regolarizzazione e più precarietà. In tutta l’Europa a 27 (505 milioni di abitanti ufficiali) nel 2012 il totale degli immigrati regolari è stato inferiore a quello degli Stati Uniti, 21 milioni secondo Eurostat, e dal 1990 ci sono state meno naturalizzazioni. Le persone nate in un paese al di fuori dell'UE a 27 sarebbero di circa 33 milioni. Secondo le stime più attendibili, gli irregolari in Europa non sarebbero più di cinque milioni1.
Al di là della differenza tra l'Europa e gli Stati Uniti per quanto riguarda il welfare, constatiamo che gli Stati Uniti continuano a puntare sull'immigrazione con pratiche soft e altre di selezione violenta e anche razzista. L'Europa appare come un soggetto politico abortito prima di nascere, una sorta di continente dominato da buzzurri pronti solo a schiavizzare pochi passanti che si fermano mentre erigono nuove fortificazioni. Una prospettiva suicida nel mondo globalizzato, perché tra l'altro, i neo-ricchi dei paesi emergenti sembrano giocare all’asta fallimentare dei beni di un continente decadente.
Post scriptum
Secondo i razzisti queste guerre sono dovute alla barbarie propria di popoli incivili che non meritano la democrazia, insomma sono “barbari” o come diceva Lombroso “atavici”, cioè pre- umani o animali e quindi in preda a istinti di violenza e criminalità (la teoria del criminale nato). Ne consegue che i migranti sono da respingere anzi bombardare prima che partono ecc.
Secondo gli “umanitari” queste guerre sono dovute a popoli che devono essere aiutati a imparare la democrazia, insomma devono essere “educati” perché “arretrati” o come bambini non ancora maturi; di questa tesi ne approfittano le note ONG e multinazionali del cuore e persino le mafie come quella romana.
La tesi delle autorità e in particolare di quelle europee è che la “colpa” delle stragi di emigranti è dei trafficanti criminali. Ne consegue che bisogna andare a bombardare i trafficanti e distruggere i barconi ... così “prendono 4 piccioni con una fava”: 1) pensano di accontentare gli “umanitari” mostrando pietas per gli annegamenti; 2) accontentano anche i razzisti perché promettono di usare le maniere forti per impedire che gli emigranti partano; 3) nascondono le loro precise responsabilità delle stragi continue e 4) fanno anche un po’ di business spendendo soldi per l’uso di armamenti (droni, areei nuovi sistemi di intercettazione ecc.).
Chiunque abbia un minimo di conoscenze delle operazioni militari in casi del genere sa che andando a bombardare con droni o aerei i cosiddetti trafficanti e i loro barconi INEVITABILMENTE si finirebbe per colpire gli emigranti cioè i profughi sia perché probabilmente usati come scudi umani dai trafficanti sia perché è impossibile distinguere fra trafficanti e soprattutto la loro manovalanza -spesso improvvisati- e i profughi (le cosiddette guerre intelligenti hanno prodotto sempre “danni collaterali” cioè stragi di civili ...
Evidentemente il vero obiettivo delle autorità e governi è di non fare arrivare immigrati o farne arrivare il meno possibile e soprattutto nascondere le vere cause delle stragi continue, cioè la riproduzione delle guerre permanenti e il proibizionismo.
La prima responsabilità delle guerre è di chi produce e vende legalmente e illegalmente armamenti: senza la diffusione degli armamenti non potrebbero riprodursi tante guerre, semmai piccoli conflitti a “bastonate” ...
Ogni proibizionismo favorisce la criminalità: in assenza di aiuti e canali regolari di emigrazione i disperati che scappano sono inevitabilmente alla mercé di trafficanti e di chiunque offre qualche possibilità (i passeurs ...)
L’unica possibilità di salvare i profughi è di creare possibilità di aiuti, corridoi umanitari sia mettendo in mare, alle frontiere europee e nei paesi vicini a quelli in guerra navi e strutture per dare subito soccorso ai profughi e quindi subito permessi di soggiorno per lavoro
Ovviamente da parte di tutti i paesi dove questi profughi vogliono andare che sono innanzitutto: Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Australia, Canada e poi anche Italia, Svizzera, e forse anche Giappone e la Cina.
La Repubblica, 23 aprile 2015
SAREBBERO 1200 i migranti morti la settimana scorsa nel Mediterraneo per i naufragi delle fragili imbarcazioni su cui speravano di raggiungere dal Nord Africa le coste meridionali d’Europa. Venivano dalla Siria, dal Mali, dall’Eritrea e dalla Somalia, fuggivano dalla guerra e dalla povertà e, in gran parte, avevano pagato grosse somme ai trafficanti.
La tragedia sconvolge per le dimensioni, ma non rappresenta una novità. A partire dal 1993, stando alle stime, 20 mila migranti sono morti nel tentativo di varcare i confini meridionali dell’Europa. Il dato reale è indubbiamente superiore, di migliaia di morti non si è avuta notizia.
Di chi è la responsabilità? I politici europei puntano il dito contro i trafficanti. Lunedì l’Unione Europea ha annunciato un piano in dieci punti che prevede, tra l’altro. l’intervento militare contro le reti del traffico di esseri umani.
Senza dubbio i trafficanti sono personaggi spietati, che non si curano di mettere a rischio le vite dei migranti, ma se questi ultimi si affidano a loro la colpa è da attribuire alle politiche migratorie dell’Unione Europea. Il problema dell’immigrazione infatti non è stato affrontato dall’Ue sotto il profilo dell’emergenza umanitaria, ma della criminalità, attraverso una triplice strategia di militarizzazione dei controlli alle frontiere, criminalizzazione della migrazione e esternalizzazione dei controlli.
Da più di trent’anni l’Unione Europea è impegnata nella costruzione della “Fortezza Europa”, così la definiscono i critici, ossia un cordone di protezione operato da pattuglie marittime, aeree e di terra, nonché da un sistema di sorveglianza tecnologico con impiego di satelliti e droni. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita al centro operativo di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, ha osservato che vi si utilizza un linguaggio che rimanda alla «difesa dell’Europa dal nemico».
Esempio di questo approccio è stato il blocco di Mare Nostrum, l’operazione italiana di pattugliamento e salvataggio in mare, per sostituirla con Triton, un’operazione di ambito più ridotto e con un obiettivo del tutto diverso, tesa cioè a sorvegliare e proteggere i confini più che a salvare vite umane. Il numero dei migranti che oggi tentano di raggiungere l’Europa si discosta di poco dal dato corrispondente dello stesso periodo dell’anno scorso, ma il numero di vittime è di circa diciotto volte superiore.
Approcciare l’immigrazione come un problema di criminalità a volte porta a perseguire non solo i trafficanti, come avvenne nel 2004, quando una nave tedesca trasse in salvo 37 rifugiati africani imbarcati su un gommone. All’attracco in un porto siciliano l’imbarcazione venne sequestrata dalle autorità e il capitano e il primo ufficiale, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, furono assolti solo dopo una battaglia processuale durata cinque anni. Nel 2007 le autorità italiane tentarono di impedire a due pescherecci tunisini che avevano soccorso in mare 44 migranti di attraccare a Lampedusa. Di nuovo i capitani furono accusati di favoreggiamento e solo nel 2011 assolti in appello.
Non si tratta di casi limite. Che dei buoni samaritani siano trattati come criminali comuni è conseguenza inevitabile della politica migratoria dell’Unione Europea. La strategia di esternalizzazione dei controlli comporta il pagamento di somme di denaro agli stati africani affinché trattengano i potenziali migranti. Tristemente noto è l’accordo con la Libia. Nel 2010, un anno prima degli attacchi aerei operati da Gran Bretagna e Francia per rovesciare il regime del Colonnello Gheddafi, la Ue concluse un accordo con il leader libico impegnandosi a versare 50 milioni di euro perché nell’arco di tre anni le forze di sicurezza libiche fossero trasformate di fatto in polizia di confine. I ribelli anti Gheddafi acconsentirono a prolungare l’accordo ancor prima di andare al potere.
L’Unione Europea ha concluso un accordo simile con il Marocco e spera di estendere l’iniziativa a Egitto e Tunisia. In pratica lo scopo è spostare i confini dell’Europa al Nord Africa.
Il piano in dieci punti proposto lunedì dalle autorità europee è in linea con questo approccio fallimentare. Salta all’occhio la promessa di distruggere le imbarcazioni dei trafficanti, un proponimento non solo di dubbio valore morale — il messaggio ai migranti è “vi vogliamo in Nord Africa, fuori dalle scatole” — ma anche inefficace. Uno dei motivi dell’impennata del numero dei migranti è il crollo dell’autorità statale nella regione. L’intervento occidentale in Libia ha peggiorato il caos e l’azione militare ipotizzata non farà che intensificarlo.
Intanto i migranti sono costretti ad ammassarsi sulle carrette del mare perché le altre vie per entrare in Europa sono state bloccate. Distruggere le imbarcazioni dei trafficanti non farà altro che forzare le persone a scegliere di affrontare il viaggio con mezzi ancor più pericolosi.
Che fare quindi? Riattivare un’adeguata operazione di pattugliamento e salvataggio è importante, ma non basta. L’Unione Europea deve smettere di trattare i migranti da criminali e considerare il controllo dei confini alla stregua di un atto di guerra. Deve smantellare la Fortezza Europa, liberalizzare la politica dell’immigrazione e aprire vie legali per i migranti. Secondo alcuni questo comporterà un’invasione di migranti, ma le politiche attuali non impediscono la migrazione, semplicemente uccidono carichi di uomini stipati come sardine.
La Fortezza Europa non si è limitata a costruire una barriera fisica attorno al continente ma ha eretto una barricata emotiva attorno al senso di umanità dell’Europa. Finché non avverrà un cambiamento il Mediterraneo continuerà ad essere una tomba di migranti. Davanti alla prossima tragedia ricordiamoci che i nostri politici avrebbero potuto evitarla, ma hanno scelto di non farlo.
© 2-015 The New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi
Corriere della Sera, 23 aprile 2015
Al momento il sistema politico italiano vede un solo partito in grado di superare il 30 per cento dei voti e per il resto un insieme — in continua ridefinizione — di partiti medi (Lega, Forza Italia, M5S), piccoli e piccolissimi. Dunque nella situazione esistente oggi, e presumibilmente nel prossimo futuro, quello che si configura è un particolarissimo caso di «monopartitismo». Per quanto si tratti evidentemente di un «monopartitismo democratico», rappresenterebbe egualmente un problema per chi considera l’alternanza come un elemento indispensabile in una democrazia.
Questa situazione ha dietro di sé molte cause e responsabilità, non può dunque essere direttamente imputata all’attuale presidente del Consiglio (è forse colpa sua se Berlusconi, piuttosto che cedere il controllo di FI, preferisce condannarla all’irrilevanza e forse alla scomparsa?). Ma è anche vero che l’Italicum sembra congegnato proprio per accentuare una situazione del genere, che vede un gigante — il Pd — circondato da molti cespugli, come ha efficacemente scritto Antonio Polito su queste colonne. In particolare, l’aver abbassato al 3 per cento dei voti la soglia che consente a un partito di ottenere seggi, favorendo la frammentazione politica, va nella direzione esattamente opposta a quella del bipartitismo evocato dal presidente del Consiglio.
Del resto, se una logica si può individuare nella sua strategia politica, essa sembra tutt’altro che di tipo bipartitico. La dura e insistita polemica con la Cgil e con la sinistra del Pd lascia intendere che per Matteo Renzi la nascita di una formazione alla sinistra del suo partito non sarebbe poi un dramma. Anzi, sarebbe perfino una cosa buona, non in una logica bipartitica (che implicherebbe al contrario un Pd capace di tenere anche le correnti di sinistra al proprio interno) bensì in quella del «partito della nazione» — pure più volte evocato da Renzi — che però del bipartitismo (e del bipolarismo) rappresenta l’esatto contrario.
Lo dimostrano i casi dei due partiti della nazione che a lungo hanno governato l’Italia, prima e dopo il ventennio fascista: il partito liberale in epoca Giolittiana e la Democrazia cristiana nel dopoguerra. Fatte salve le molte differenze (tra l’altro, quello liberale aveva solo in parte la struttura di un partito come lo intendiamo noi oggi), si trattava in entrambi i casi di forze collocate al centro del sistema politico, che hanno governato ininterrottamente per decenni grazie all’emarginazione dei partiti o gruppi esistenti sulla destra e sulla sinistra. È solo dopo il 1994 che questa modalità di governo dal centro ha potuto essere sostituita da un assetto che, per quanti difetti avesse, era però di tipo, se non bipartitico, bipolare.
Con l’Italicum si tornerebbe probabilmente a una condizione molto simile a quella che il Paese ha già conosciuto per tanta parte della sua storia: più che di un cambio di verso, insomma, rischierebbe di trattarsi — se vogliamo riprendere un’altra espressione volentieri utilizzata da Renzi — di un ritorno alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca.
Il manifesto, 23 aprile 2015
Intendiamoci. Le organizzazioni di scafisti esistono, così come esiste una vasta documentazione degli atti di pirateria: natanti abbandonati alla deriva, migranti gettati in mare, violenze di ogni tipo. Ma prendere esclusivamente di mira i «mercanti di schiavi» significa sia falsificare agli occhi dell’opinione pubblica la natura delle migrazioni, sia gettare le premesse di nuove sciagure.
Infatti, gli scafisti non fanno che lucrare sulla domanda di mobilità dei migranti. Mobilità nel senso di fuga dalla guerra, di ricerca di opportunità o semplicemente di sopravvivenza. Finora l’Europa ha ignorato le migrazioni, pensando forse che un limitato numero di morti garantisse la propria tranquillità o meglio la propria abulia burocratica. Ora, di fronte alla dimensione di queste tragedie, si inventa la guerra agli “schiavisti” e il «bombardamento e/o distruzione dei barconi», criminalizzando così, insieme a loro, anche le vittime.
L’ipocrisia dilaga anche quando si vorrebbero distinguere i rifugiati dai migranti, come se, oggi, povertà e guerra non fossero realtà strettamente implicate. Si fugge da paesi devastati dalla guerra e dall’impoverimento causato dalla guerra, da paesi distrutti da stolti interventi occidentali o al centro di inestricabili grovigli geopolitici. Si fugge dall’Isis, ma anche dai droni, da Assad e dai suoi nemici, dal deserto e dalle steppe in cui scorrazzano milizie di ogni tipo. Si fugge da città invivibili e da un’indigenza resa ancora più insopportabile dal dilagare di nuove tecnologie che mostrano com’è, o finge di essere, il nostro mondo. Si fugge in Giordania, in Turchia e anche in Europa. Non c’è forse ipocrisia peggiore di quella che lamenta senza soste un’invasione dei nostri paesi, quando invece l’Europa si mostra il continente più chiuso e ottuso di fronte alla tragedia umana e sociale delle migrazioni.
Pensare di cavarsela mandando i droni a bombardare i barconi è un’idea folle, che può venire solo ai poliziotti finiti a dirigere Frontex, l’agenzia europea che ha messo in piedi Triton, con l’obiettivo di tenere lontani i migranti, infischiandosi degli annegamenti. Come distinguere i barconi vuoti da quelli pieni, i pescherecci o i piccoli mercantili dalle carrette della morte? Tutto il mondo sa che i droni di Obama polverizzano soprattutto i civili in Afghanistan. Potete immaginare un drone capace di distinguere, in un porto della Libia, tra scafisti e pescatori? A meno che, naturalmente, tutta questa enfasi guerresca, bagnata da lacrime di coccodrillo per le vittime degli schiavisti, non sia al servizio di un’ipotesi strategica molto più prosaica e molto meno umanitaria.
Un’Europa politicamente acefala, guidata da una Germania bottegaia, pensa forse di «risolvere» la questione delle migrazioni con un cordone sanitario di navi militari e magari di campi di internamento in Libia e nei paesi limitrofi? Tutto fa pensare di sì. Ma se fosse così, non si tratterebbe che di una guerra ai migranti travestita, di un umanitarismo peloso, di un neo-colonialismo mirante a tenere alla larga i poveri da un occidente in cui dilagano pulsioni xenofobe. Se fosse così, altre immani tragedie si annunciano
Nell’ambito delle misure allo studio, Renzi indica quattro punti: rafforzare le operazioni europee come Triton e Poseidon. Dichiarare guerra ai trafficanti di esseri umani con azioni mirate. Scoraggiare le partenze. Imporre la presenza delle organizzazioni internazionali nei Paesi a sud della Libia. Il governo italiano — grazie all’approvazione in Senato di una risoluzione di Fi — non esclude la possibilità di arrivare a un blocco navale in Libia. Il documento forzista dà infatti al Consiglio di sicurezza dell’Onu il compito di valutare. Ma il capogruppo del Pd nella commissioni Esteri e responsabile Esteri della segreteria nazionale del Pd, Enzo Amendola, ha fatto a questo proposito chiarezza. Al momento, ha precisato, «non c’è il blocco navale».
La Repubblica, 21 aprile 2015
I 10 “dissidenti” del Pd sulla legge elettorale sono fuori dalla commissione Affari costituzionali che oggi pomeriggio inizierà a votare gli emendamenti all’Italicum. Lo ha deciso l’ufficio di presidenza del gruppo che ha “salvato” Giuseppe Lauricella: il deputato siciliano ha assicurato che si atterrà alle indicazioni del gruppo.
Bocchescucite.org, 20 aprile 2015
Awas Ahmed è somalo, rifugiato in Italia. Racconta il senso della fuga e il perché abbiamo bisogno di guardare oltre Lampedusa cambiando prospettiva.
A chi domanda: «Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri», rispondo: «Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta».
Mio cognato scappava con me. Prima del mare c’è il deserto che ne ammazza tanti quanti il mare. Ma quei cadaveri non commuovono perché non si vedono in Tv. Perché non c’è un giornalista che chiede ripetutamente quante donne e bambini sono morti, quante erano incinte. Perché qui in Occidente a volte sembra che l’orrore non basti, c’è bisogno di pathos.
Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. Dopo 24 giorni in cui nessuno ci ha dato da mangiare. A casa c’è una moglie che non si rassegna e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai. A casa c’è quel che resta di un sogno, di un progetto, di una vita. Un biglietto per due i trafficanti se lo fanno pagare caro e, loro, i soldi non li avevano. Se fosse restato, li avrebbero ammazzati tutti e due. Il suo ultimo regalo per lei è stata la vita. Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.
Il Sole 24 ore, 21 aprile 2015
Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, indica e al tempo stesso cancella le persone. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non-respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.
A questi attori bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne richiesta: smettete l’uso di parole altisonanti; passate all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi il più grande sterminio in mare dal dopoguerra occorre mettere la parola urgenza, al posto di emergenza. Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dagli europarlamentari e anche dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.
Le azioni di urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nel secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall'Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.
Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:
Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.
Urge finanziare gli interventi di ricerca e soccorso lungo le coste europee ma anche in mare aperto come faceva l’operazione Mare nostrum, e dovrebbe fare l’operazione Triton; tutto ciò nella piena consapevolezza che la stabilizzazione del caos della Libia non è ottenibile nel breve-medio periodo.
Urge la collaborazione leale (come stabilito dall’articolo 4 del Trattato dell’Unone) smentendo cio che ha dichiarato Natasha Bertaud, portavoce della Commissione: «Attualmente la Commissione non ha né le risorse né il sostegno politicoper costituire un sistema di protezione dei confini capace di svolgere operazioni di ricerca e soccorso» . Questa frase ha lo sconvolgente significato di “mancanza di soccorso”, considerata un crimine nel nostro sistema giudiziario.
La stessa ONU dovrebbe muoversi con urgenza, e il Consiglio di sicurezza dovrebbe affrontare questa tragedia con una risoluzione. Se i delitti compiuti sul mare appaiono come il prolungamento della guerra o della carestia generate dal collasso degli stati di origine o di transitonon possiamo escludere l’intervento peacekeeping dell’ONU. L’aiuto agli sfollati e agli affamati è procedura consolidata dell’ONU: oggi deve essere applicata al Mediterraneo
Gli accordi di Dublino devono essere ripensati al più presto. Con una decisione del 21 dicembre 2011 la Corte di giustizia europea ha espresso una valutazione positiva al considerare il rischio di trattamento inumano dei profughi come una condizione essenziale peril trasferimento. Ciò costituisce un effettivo obbligo di derogare dall’elenco di criteri stabiliti dal regolamento di Dublino
Con la stessa tempestività occorre tenere in considerazione che i paesi più esposti oggi al flusso dei profughi sono quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): si tratta degli stessi paesi che sono stati colpiti, dopo la crisi del 2007-2008, da una drastica riduzione della spesa sociale. Queste voci di spesa comprendono quelle destinate alla ricerca e soccorso per i profughi. L’onere che pesa ingiustamente su questi paesi deve essere immediatamente alleviato.
Infine, c’è il problema dei tempi. Dal massacro di Lampedusa del 2013 i governi dell’Europa hanno sostenuto la cooperazione con i paesi di origine o transito dei profughi per “esternalizzare" le politiche di ricerca e soccorso e quelle di asilo. Il Commissario Dimitris Avramopoulos ha perfino auspicato la “collaborazione con le dittature” considerando respingimenti collettivi, benchè vietati dalla Convenzione per i diritti dei profughi (articolo 33) e dagli articoli 18 e 19 dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche (nell’ambito dei cosiddetti processi Rabat e Khartoum) perché i profughi sono in mare, e devono essere salvati: ovviamente dalla morte, ma anche dalle mafie che si arricchiscono dalla loro carne, aiutate dal vuoto di legalità che l’Unione europea deve ora riempire.
Gli stati europei e l’ONU sono colpevoli di delitti e continuano a vivere in una condizione delirante. Carlotta Sami, portavoce dell’ UNCHR, è stata molto chiara: «Lasciar morire la gente nel mare non scoraggerà i profughi nella loro ricerca di salvezza» dalla guerra, dalla carestia, dall’odio recentemente scatenato contro i cristiani o altre minorante e, in futuro, anche dalle catastrofi legate al clima. La velocità dei colloqui e delle trattative diplomatiche non corrisponde più all’urgenza dei fatti. Il tempo per organizzare una massiccia operazione di soccorso per l’umanità che fugge verso l’Europa è adesso, mentre parliamo.
il manifesto), Roberto Saviano e Ilvo Diamanti (la Repubblica), Claudio Magris (Corriere della sera), 19 e 20 aprile 2015
Fuggivano da guerra e miseria anche i 700 disperati dei quali non si ha notizia e ancora tanti sono i dispersi in mare, solo 49 risultano in salvo. Non c’è bisogno che lo dica il Vaticano che fuggivano da guerra e miseria per averne una conferma. Guardate la geografia dei luoghi da dove, ogni santo giorno, arrivano in fuga: Nigeria, Mali, Niger, Siria, Somalia, Libia, Egitto, Iraq…ecc. ecc. Non c’è una sola realtà che non veda la costante povertà della quale siamo responsabili – per favore qualcuno veda come abbiamo ridotto il Delta del Niger, una regione grande come l’Italia in Nigeria, “grazie” ai nostri pozzi petroliferi e a quelli delle altre multinazionali del petrolio. Una fogna di bitumi che hanno devastato l’ambiente, rimasto semplicemente senza acqua.
Ma questo è poco. Ognuno di quei paesi è in preda certo alle scellerate avanzate dell’Isis, ma grazie al terreno fertile di macerie che abbiamo provocato con le nostre guerre. E’ stata la Nato a trasformare la Libia, il paese con il reddito più alto dell’Africa, in un cumulo di rovine senza istituzioni rappresentative con tre governi che si combattono e ora sicuro santuario dello jihadismo estremo per tutto il Medio Oriente.
O vogliamo parlare delle magnifiche sorti e progressive dello scenario somalo? Senza dimenticare l’uso occidentale strumentale dei jihadisti in chiave anti-Assad per poi scoprire che così facendo hanno preso piede in due terzi dell’Iraq, paese dove l’occupazione militare statunitense — come riconosce lo stesso Obama – ha permesso alla fine l’avvento e le stragi degli ultimi radicalismi islamisti dello Stato islamico.
Fuggono da queste guerre e da questa miseria. Noi siamo perlomeno co-responsabili. E invece l’Unione europea dichiara che “non può fare nulla”, annunciano gli alti funzionari dell’immigrazione Ue. E invece, come scrivono ormai perfino i giornali tedeschi, sarebbe doveroso, urgente e riparatorio avviare subito una missione di Mare nostrum stavolta europea.
Quando c’era Mare Nostrum il numero delle vittime è calato improvvisamente. Semplicemente li soccorrevamo: è quello che dobbiamo fare anche adesso.
Ma chi paga? E’ sempre dai giornali tedeschi che arriva il suggerimento: il prossimo vertice del G7 costerà milioni ai paesi europei. Basta premiare il nefasto ceto polico continentale con alberghi a 6 stelle e con pranzi raffinati. Impegniamo quei soldi per una missione navale che soccorra e salvi i migranti, subito.
E’ tempo di fare spending review in questa Unione europea che se non trova ragioni per esistere nemmeno per questa tragedia, è meglio che chiuda i battenti. Toccherà a noi che siamo internazionalisti e per questo europeisti convinti, rifondarne un’altra solidale ed eguale.
Quanto allo squalo Salvini, propone un blocco navale militare - di 150 navi da guerra - per impedire che i disperati arrivino. Come se non fosse mai accaduto: qualcuno si ricorda del massacro della Kater I Rades con 100 albanesi, donne, bambi e vecchi, speronata da una nave militare italiana nel 1997? E aggiunge lo sciacallo-squalo che ci vogliono tanti campi di concentramento in Africa per decidere lì “chi è davvero clandestino e chi ha bisogno d’aiuto”.
Tutti loro hanno bisogno d’aiuto. Noi non abbiamo certo bisogno del razzismo e dell’odio di Salvini. Il fascio-leghista promette che andrà a Palermo e si metterà su un gommone. Così lo vediamo che se ne va…su un gommone
La RepubblicaILMEDITERRANEO FOSSA COMUNE
COSÌ QUEI MORTI DI NESSUNO
PESANO SULLE NOSTRECOSCIENZE
di Roberto Saviano
Il punto è che il primo obiettivo dovrebbe essere quello: salvare delle vite, prendersene cura. Invece si è riusciti a far diventare questa volontà come ridicola, romantica, naif. Qualunque riflessione sul dolore degli altri, di chi arriva da un “sottomondo”, deve essere contenuta. C’è un’economia nella sofferenza. Chi valuta il dolore, chi misura la tragedia umana, chi cerca di svegliare il torpore della conta degli affogati è iscritto di diritto al movimento “buonista”.
“Buonista” è l’accusa di chi non vuol spender tempo a capire e ha già la soluzione: respingimenti, arresti, blocchi. Un miscuglio di frustrazione personale che cerca il responsabile del proprio disagio, una voglia di considerare realistica e vincente solo la soluzione più autoritaria. La bontà considerata come sentimento ipocrita per definizione. E, cosa assai peggiore, una qualità morale che può avere solo l’uomo perfetto, candido, puro: quindi nessuno se non i morti, la cui vita è trasfigurata e le cui azioni sono già spese. Chiunque cerchi, nella sua umana imperfezione, di agire diversamente è marchiato con un giudizio unico: falso. La bontà diviene quindi sentimento senza cittadinanza, ridicolo, proprio perché non può essere compiuto se non nella rotonda perfezione. Questo è il cinismo miope, che liquida tutto con solerte sarcasmo.
Ovvio che razionalmente non è immaginabile una smisurata accoglienza universale, senza regole, ma la strada intrapresa delle mezze concessioni e dai mezzi respingimenti non regge più. Il peso politico che avremmo dovuto avere essendo Stato-cerniera non c’è stato riconosciuto. Dovevamo pretendere di scontrarci sul tema immigrazione con il resto dell’Europa. Dovevamo pretendere di essere ascoltati, senza che “il problema” venisse scaricato su di noi, delegato a noi.
La perenne campagna elettorale di Renzi, che sul piano internazionale sembra più voler acquistare una credibilità diplomatica piuttosto che porre e imporre temi, non ci sta aiutando ma ci sembra ingeneroso dare a questo governo ogni responsabilità. L’Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio.
Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. Parlarne in tv e sul web ma in modo diverso: come dicevamo “profugo” o “clandestino” sono termini che diluiscono la specificità umana costruendo una distanza irreale che abbassa il volume all’empatia.
Dobbiamo chiedere ai partiti di candidare donne e uomini che vengono da quest’esperienza, aprire loro le università. Tutto questo diminuirà il consenso politico con la solfa del «prima noi e poi loro»? Probabilmente sì, accadrà questo. Ma solo nella prima fase ben presto ci si accorgerà dell’enorme beneficio che avremmo. La storia degli sbarchi e dei flussi di migranti deve diventare un tema che il governo sentirà fondamentale per il suo consenso.
Renzi e il suo governo sono solleciti a rispondere quando un tema diventa mediatico e popolare: se percepiscono che il giudizio su di loro sarà determinato dal problema migrazione inizieranno a sparigliare, a trovare nuova strategia ad avere nuovi sguardi. Il semestre italiano in Europa è stato una profonda delusione, in termini di proposte sui flussi dei capitali criminali (era l’occasione per porre il tema del riciclaggio) e in termini di emigrazione. Ma in questo momento inutile rimpiangere il non fatto è necessario che l’Europa decida in maniera diversa. Dare spazio non episodico alle vicende dei migranti. La tv li accolga, cominciando a pronunciare bene i loro nomi e quelli delle loro nazioni, raccontando il loro quotidiano e la loro resistenza.
Gli unici che in queste ore rappresentano ciò che l’Europa dovrebbe essere sono gli italiani, i molti italiani che salvano vite tutti i giorni rischiando di violare leggi. La figura che sintetizza questi italiani colmi di onore è descritta dal pescatore Ernesto nel bellissimo film “Terraferma” di Crialese che viola l’ordine della Capitaneria di tenersi con il suo peschereccio lontano da un gommone rispondendo con un semplice , umano e potente: «Io gente in mare non ne ho lassata mai».
OLTRE novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione.
CHE spinge ad affrontare il mare “nemico” per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza. Oggi: alla guerra. Più che di “migrazione”, si tratta di “fuga”. Anche se noi percepiamo la “misura” della tragedia solo quando i numeri sono “smisurati”. Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L’abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di “piegarla” e di “spiegarla” in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si “mobilitano”, alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita.
È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D’altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all’estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l’Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma — il fenomeno è meno noto — è al quarto posto come Paese di “emigrazione”. Gli stranieri che vivono — e lavorano — in un Paese dell’Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili.
La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l’impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento. Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l’8% della popolazione. Con un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato.
Anche se la recente Indagine dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all’Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un “pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l’immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l’approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli “altri intorno a noi”. E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come “altri noi”.
Così, la diffidenza ha cominciato a declinare. Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l’Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull’immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano “migranti” e non più “clandestini”. E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta.
Vale la pena di aggiungere, ancora, che l’immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa. L’immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D’altronde, da noi l’immigrazione è sempre più di “passaggio”. Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l’immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli.
Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l’insicurezza — e le vittime degli scafisti — in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell’Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile — oltre che giusto — fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi.
Ma l’unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste — e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L’unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri.
Non avere pietà di noi stessi.
la Repubblica) e Fiorenza Sarzanini (Corriere della sera), 20 aprile 2015
L’ULTIMA OPZIONE DI PALAZZO CHIGI
DISTRUGGERE I BARCONI IN PORTO
di Goffredo De Marchis
Il presidente del consiglio intende “dichiarare guerra agli scafisti”. Si potrebbe trattare di una vera e propria azione militare e il modello da seguire sarebbe quello utilizzato anni fa in Albania anche se in quel caso ci fu il pieno appoggio del governo di Tirana
Nelle stesse ore Renzi sente Hollande, Merkel, Cameron e Juncker, riunisce a Palazzo Chigi mezzo governo e incontra la Mogherini. Al termine della giornata chiede un Consiglio europeo straordinario. E da qui parte la storia di quello che questa volta l’Europa vuole fare sfruttando l’onda emotiva della tragedia per coinvolgere tutti i governi nell’immediato, nel medio e nel lungo periodo.
Ieri sera il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, consultava le capitali per verificare se fosse possibile convocare il summit straordinario. Si farà, assicuravano fonti europee bene informate. Molto probabilmente giovedì. Così a Bruxelles è scattato il lavoro frenetico per preparare il summit, specialmente negli uffici della Mogherini. Che oggi presiederà la riunione dei ministri degli Esteri Ue durante la quale lancerà la prima sfida. Il capo della diplomazia europea illustrerà ai ministri il suo rapporto di 46 pagine sulla Libia (come si spiega nel pezzo sotto ndr). La maggior parte delle azioni (terrorismo e immigrazione) richiedono prima un accordo tra tribù nel negoziato dell’inviato Onu Bernardino Leòn. Ma Mogherini spingerà per far approvare subito la parte della strategia slegata all’intesa per un governo di unità nazionale.
Primo, lanciare un controllo della frontiera tra Niger e Libia, là dove passa la rotta più densa di migranti guidati dai trafficanti. Secondo, intensificare lo scambio di informazioni tra le intelligence europee: si punta a bloccare i flussi di denaro dei trafficanti con operazioni congiunte e organizzare blitz mirati nel Sahara per bloccare le rotte e neutralizzare i gruppi criminali che mandano a morire i migranti.
Spiega una fonte che lavora sul dossier di competenza di Mogherini, Timmermans e Avramopoulos: «Dobbiamo usare la tragedia per costruire un senso di urgenza politica tra capitali e rafforzare la Commissione», ovvero per permettere a Bruxelles di approvare un testo ambizioso. Che comprenda anche la cooperazione con i paesi di origine e di transito dei migranti (tra cui Sudan, Egitto, Ciad e Niger) per intercettarli prima che spariscano in Libia, salvarli in campi gestiti dall’Unhcr, rimandare a casa (con aiuti economici) chi non ha diritto all’asilo e spalmare in modo permanente su tutti i paesi Ue, e non sui soliti noti, chi invece lo ha. Con un occhio alla Libia, dove, si spera, a breve Leòn sblocchi la situazione e si possa finalmente bloccare le partenze via mare.
Il manifesto, 19 aprile 2015
Sono 734 piazze in tutto il mondo, 41 solo in Italia. Una mobilitazione che ricorda il dicembre 1999, quando il movimento globale si oppose all’allora ministeriale della Wto a Seattle, e che oggi si mobilita per il Trattato transatlantico di liberalizzazione commerciale Usa– Ue (Ttip) e il suo obiettivo di deregolamentare standard, normative e tutte quelle leggi di tutela ambientale e sociale considerati «barriere tecniche al commercio».
In decine di flashmob, sciami di fantasmi hanno vagato per le piazze italiane, come in piazza del Pantheon a Roma dove gli spettri del Ttip si sono fatti inseguire in mezzo a turisti incuriositi, così come in piazza del Duomo a Milano o in via Lagrange a Torino, giusto per citare alcune mobilitazioni italiane «Stop Ttip», a dimostrare che il trattato fantasma sta guadagnando visibilità nonostante la ritrosia della Commissione europea.
D’altro canto uno dei principali obiettivi della campagna internazionale, di cui quella italiana è parte attiva, è proprio quello di spiegare ai cittadini un negoziato non conosciuto ai più, sebbene il nostro Governo sia stato Presidente di turno dell’Unione europea. Aldilà della demagogia sulla presunta trasparenza (uno dei negoziati più trasparenti mai avuti, millanta la Commissaria al Commercio Ue Malmstrom dal suo blog proprio il giorno della grande mobilitazione) quanto si conosce del trattato, lo si deve all’azione dei movimenti sociali che pochi giorni dal nuovo Round negoziale che inizierà il 20 aprile negli Stati uniti, sono riusciti a rendere pubbliche le richieste della Commissione europea all’Amministrazione statunitense: accesso al mercato degli appalti pubblici negli Stati uniti in cambio di maggiore flessibilità in agricoltura. Ecco uno dei patti scellerati che potrebbero lastricare la strada verso la firma, un grande mercato delle pulci dove tanto si ottiene quanto più si dà e dove ci si impegna a difendere un settore nel momento in cui questo risponde a interessi consolidati.
Per questo quasi un milione e settecentomila cittadini europei hanno scelto di firmare una petizione internazionale che chiede il blocco immediato dei negoziati, una raccolta firme che nella giornata di mobilitazione ha visto una netta impennata nelle adesioni verso quota due milioni, considerata dalle reti internazionali l’obiettivo politico da raggiungere.
Le centinaia di migliaia di persone scese in piazza nelle seicento piazze europee e nel centinaio di mobilitazioni statunitensi, lottano per ridare senso al termine «democrazia».
Chiedere maggiore partecipazione non significa, come spesso banalmente semplificato dai sostenitori del Ttip, «negoziare in 800 milioni di cittadini», ma vuol dire essere considerati parte in causa e coinvolti direttamente, anche tramite i Parlamenti, ad oggi con un ruolo defilato. Ridando potere i cittadini ed evitando, ad esempio, che i Parlamentari europei abbiano le armi sputate nel dare pareri non vincolanti, ratificando solo alla fine un trattato con la formula «prendere o lasciare» senza possibilità di emendamento. O evitando le limitazioni all’accesso ai documenti negoziali imposte persino ai parlamentari europei, come l’europarlamentare di Podemos Ernest Urtasun ha recentemente denunciato ai media spagnoli.
I documenti resi pubblici dall’Unione europea grazie alle pressioni dell’opinione pubblica e dell’Ombudsman europeo, sono solo testi legali di posizionamento e non chiariscono l’effettivo livello di compromesso e lo stato dell’arte del negoziato. E forse è persino logico che sia così, considerato che gli interessi che si stanno tutelando, non sono certo quelli della maggioranza dei cittadini europei e statunitensi.
Dietro alla demagogia della difesa delle Indicazioni geografiche per Paesi come l’Italia, per esempio, o dell’aumento dell’export che porterebbe benefici diffusi, c’è una politica che parla di concessioni a pochi privilegiati, di una posizione di difesa delle tipicità che butterebbe fuori mercato la maggior parte delle nostre piccole produzioni di qualità a tutto vantaggio di pochi grandi esportatori, di un abbattimento degli standard di qualità su agricoltura e chimica che ha fatto persino preoccupare la Commissione Ambiente del Parlamento Europeo in una sua recente risoluzione.
A tutto questo si aggiunge una politica di tutela degli investimenti che svuoterebbe definitivamente il potere di controllo dei mercati da parte dei Governi, concedendo alle imprese il potere di denunciare i Governi a causa di legislazioni non gradite. Nonostante tutto questo, nonostante le promesse di Renzi a Obama, questo 18 Aprile c’è un mondo che ha detto «Stop Ttip». Una posizione che, d’ora in avanti, sarà impossibile ignorare.
*Presidente Fairwatch / Campagna Stop Ttip Italia
La Repubblica, 19 aprile 2015
L’AMERICA deve ancora conseguire una piena ripresa dagli effetti della crisi del 2008. Tuttavia, abbiamo recuperato buona parte del terreno perduto, anche se non tutto. Altrettanto non si può affermare, invece, della zona euro, nella quale il Pil reale pro capite è ancora oggi inferiore a quello del 2007, ed è inferiore del 10 per cento rispetto a dove si supponeva dovesse trovarsi. Una prestazione peggiore di quella che l’Europa ebbe negli anni Trenta. Perché l’Europa si è comportata così? Ho ascoltato discorsi e letto articoli nei quali si ipotizza che il problema stia nell’inadeguatezza dei nostri modelli economici — nel fatto che dovremmo riformulare la teoria macroeconomica che durante la crisi non è riuscita a offrire una guida politica. Ma è proprio così? No. È vero: pochi economisti avevano annunciato la crisi. Tuttavia, il piccolo segreto dell’economia è che da allora i modelli di base spiegati nei libri di testo hanno funzionato bene. Il guaio è che i dirigenti politici europei hanno deciso di respingere quei modelli di base a favore di approcci alternativi più innovativi, più entusiasmanti e del tutto errati.
Sto rianalizzando i dibattiti di politica economica e ciò che mi colpisce in modo evidente dal 2010 in poi è la divergenza di pensiero tra Stati Uniti ed Europa. In America, la Casa Bianca e la Federal Reserve sono rimaste fedeli all’economia keynesiana tradizionale. L’Amministrazione Obama ha sprecato tempo e fatica per perseguire una “grande intesa” sul bilancio, pur continuando però a credere nella tesi sostenuta nei libri di testo, ossia che in un’economia depressa la spesa in deficit di fatto è una cosa positiva. La Fed ha ignorato gli ammonimenti secondo i quali stava “svalutando il dollaro”, ed è rimasta aderente all’opinione secondo la quale le politiche di basso tasso di interesse non avrebbero provocato inflazione, almeno fino a quando la disoccupazione fosse rimasta alta.
In Europa, al contrario, la leadership politica si è dimostrata disposta, quasi con impazienza, a gettare i libri di economia dalla finestra per prediligere nuovi criteri. La Commissione Europea, a Bruxelles, ha accolto con entusiasmo le presunte prove sull’utilità della “austerità espansiva”, respingendo le argomentazioni tradizionali a favore della spesa pubblica in deficit, e ha preferito sposare la tesi secondo cui tagliare le spese in un’economica depressa porterebbe alla creazione di posti di lavoro perché alimenterebbe la fiducia. La Bce ha preso a cuore i moniti sul rischio di inflazione e nel 2011 ha alzato i tassi di interesse, anche se la disoccupazione era alta. Ma mentre i politici europei possono aver immaginato di dare prova di apertura nei confronti di nuove idee economiche, gli economisti ai quali hanno dato retta dicevano loro proprio ciò che volevano sentirsi dire. Cercavano giustificazioni per le rigide politiche che erano decisi a imporre alle nazioni debitrici; e così hanno trattato come celebrità economisti quali Alberto Alesina, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff che parevano offrire proprio quella giustificazione. Invece, come si è scoperto, quella ricerca nuova ed entusiasmante presentava grosse pecche.
E così, mentre le nuove idee si sono rivelate un fallimento, la teoria economica dei vecchi tempi si è dimostrata più forte. Furono derise le previsioni di economisti keynesiani, me incluso, secondo i quali i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi nonostante i deficit di bilancio, l’inflazione sarebbe stata frenata nonostante gli acquisti di bond da parte della Fed e i tagli alla spesa pubblica — lungi dall’innescare espansione alimentata da fiducia — avrebbero provocato un’ulteriore crollo della spesa dei privati. Queste previsioni, al contrario, si sono avverate. È un errore sostenere, come fanno molti, che quella politica è fallita perché la teoria economica non ha fornito le linee guida di cui avevano bisogno i policy maker . In realtà, la teoria ha costituito una guida eccellente, se solo i policy maker fossero stati disposti ad ascoltare. Purtroppo, non l’hanno fatto. E continuano a non farlo. Se volete deprimervi sul futuro dell’Europa, leggete l’intervento di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, mercoledì sul New York Times. Troverete un ripudio di ciò che sappiamo di macroeconomia, delle intuizioni che l’esperienza europea degli ultimi cinque anni avvalora. Nel mondo di Schäuble l’austerità conduce alla fiducia, la fiducia genera crescita e, nel caso in cui per il vostro Paese ciò non funzionasse, significa solo che lo state facendo nel modo sbagliato. Torniamo alle nuove idee e al loro ruolo in politica: è difficile argomentare a sfavore delle nuove idee. Negli ultimi anni, tuttavia, lungi dal fornire una soluzione, le idee economiche innovative spesso sono state parte del problema. Se avessimo continuato ad aderire alla macroeconomia dei vecchi tempi staremmo di gran lunga meglio.
Traduzione di Anna Bissanti
© 2-015, The New York Times
Il manifesto, 18 aprile 2015
La linea di Varoufakis è chiara: «Faremo compromessi con la Ue ma non finiremo compromessi». Alexis Tsipras dichiara alla Reuters che il governo lavora per una soluzione che «rispetti il recente mandato popolare come il quadro operativo dell’Eurozona», precisando però che restano quattro punti di disaccordo – non tecnici, ma politici – in materia di rapporti di lavoro (del resto il mercato del lavoro greco è già del tutto deregolamentato), di sicurezza sociale, di aumento dell’Iva, di privatizzazioni. Ovvero il cuore del programma sociale di Syriza.
Ma la Grecia ha bisogno di tempo e che si allenti la morsa del debito. Varoufakis ha chiesto al Fmi una tolleranza maggiore del solito mese di grazia. Christine Lagarde ha risposto che la dilazione dei pagamenti non è mai stata fatta per un paese “avanzato”, che è roba da Terzo Mondo. Si potrebbe obiettare che c’è sempre una prima volta per tutto e questo potrebbe essere un ottimo caso, nel quale la Ue e il Fmi potrebbero dimostrare quella saggezza e preveggenza di cui finora hanno dato prova di completa assenza.
La Grecia non uscirà mai dai «sette anni del nostro scontento» – il riferimento shakespeariano- steimbeckiano è farina del sacco di Varoufakis – senza una ristrutturazione del proprio debito, la cui incidenza peraltro in relazione al debito complessivo dell’Eurozona è minima. Ma come sappiamo il problema è politico.
Se la Grecia se la cava, altri possono percorrere strade alternative all’austerità e l’influenza sul quadro politico dei paesi in maggiore difficoltà, che finora hanno eseguito pedissequamente i diktat della Troika trovandosi peggio di prima, potrebbe essere letale per le destre che attualmente li governano. Il riferimento alla Spagna è d’obbligo.
Tuttavia, vale anche il ragionamento contrario. Se la Grecia finisse in default, se - malgrado le ultime dichiarazioni più prudenti della Merkel sulla permanenza greca nella Ue - ciò comportasse una fuoriuscita dall’euro e quindi dalla Ue, non è affatto detto che per la finanza sarebbe pura goduria. Sperare infatti - scrive un editorialista del Sole24Ore - che il Grexit non abbia alcun impatto sui mercati finanziari e sull’economia degli paesi della Ue è come pretendere che una bomba esplodendo non faccia danni.
Per quanto la Bce abbia inondato di liquidità i mercati finanziari europei, con esclusione come sappiamo della Grecia e di Cipro, questi restano sensibili a ogni minimo movimento. La situazione in Europa è migliore del 2011–2012, ma il pericolo di un contagio finanziario del Grexit è tutt’altro che scongiurato.
E’ vero che le banche hanno ormai un’esposizione minima con la Grecia: da 200 miliardi di dollari del 2008 agli attuali 18,6. Ma questo non elimina il pericolo del ritiro dei depositi dagli istituti finanziari dei paesi della catena debole dell’euro, fra cui anche l’Italia, come rivela Goldman Sachs. Se la Grecia se ne va, crolla il mito della irrevocabilità dell’ingresso nell’Euro e altri paesi potrebbero seguire la stessa strada. Quindi sarebbe meglio per chi ha depositi consistenti in questi paesi portarli preventivamente altrove.
Le conseguenze di un Grexit sarebbero ancora più gravi sugli Stati. Complessivamente l’esposizione di questi ultimi sul fronte greco è cresciuta, sia in modo diretto che indiretto, attraverso il cosiddetto fondo salva stati, giungendo a 194,7 miliardi di euro. Se da noi Renzi mena vanto per avere trovato un “tesoretto” di 1,6 miliardi, si può bene capire quale impatto negativo avrebbe sulla nostra economia e sull’opinione pubblica dovere dire probabilmente addio ai quasi 41 miliardi di euro prestati dall’Italia alla Grecia.
“Stop Ttip!” si chiama il nuovo movimento globale, che collega senza centralismi quattrocento organizzazioni. Una catena umana nel cuore di Berlino, da Potsdamer Platz a Unter den Linden dove ha sede la rappresentanza Ue, e spettacoli in piazza a Parigi a Place Stalingrad e a Place de la République, con i potenti delle multinazionali e della politica impersonati da vampiri, saranno il clou della giornata di mobilitazione.
«È un giorno importante, ma l’iniziativa continua, come va avanti da anni», spiega Cornelia Reetz, action manager di Stop Ttip Germania, la sede che di fatto è il “comando operativo” del movimento globale cresciuto soprattutto online, al civico numero 4 di Greifswalderstrasse qui a Berlino. «Intanto prosegue anche la raccolta di firme contro il Ttip e il Ceta, che attorno al 10 ottobre presenteremo alla Commissione europea, a tutte le istituzioni Ue, ai governi nazionali i cui parlamenti dovranno ratificare gli accordi», spiega la Reetz. Il movimento cresce, in vista dell’happening in strada domani in tutto il mondo e anche con la raccolta di firme: «Puntavamo a un milione, ne abbiamo già un milione e 700 mila”.
I soliti no global, i soliti idealisti, diranno in molti. Però le obiezioni di “Stop Ttip” suonano come rilievi da prendere sul serio. L’accordo, continua la giovane organizzatrice tedesca, è stato negoziato in segreto, senza informare le opinioni pubbliche, e svuota le nostre democrazie. «Non è finita: offre vantaggi inutili e pericolosi agli interessi dei grandi gruppi economici, tende ad abbassare gli standard di sicurezza, igiene, ecologia in vigore ad esempio in Europa ai livelli nordamericani, a cominciare dal cibo transgenico per finire ai cosmetici e ad altri prodotti di uso quotidiano». E una volta innescata, la dinamica dell’accordo – sul terreno degli Ogm ma anche con la liberalizzazione spinta delle privatizzazioni – secondo il movimento di protesta sarà difficilmente reversibile.
Catena umana a Berlino, molte iniziative in piazza in diverse città italiane, spettacoli con i “vampiri cattivi” a Parigi, azioni sparse ovunque per il mondo. Le adesioni crescono di ora in ora da una città all’altra. Non avete paura di perdere contro lobby così forti? chiedo. «Chi ha paura di lottare ha già perso», risponde Cornelia Reetz, «la Commissione europea comincia a parlare di noi nei suoi comunicati, la commissaria Cecilia Maelstroem ci appoggia col suo blog. All’inizio non ci speravamo, per questo ci sprona ancor di più a continuare».