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Sbilanciamoci.info, 19 maggio 2015

Il Governo ha deciso di applicare la sentenza della Corte Costituzionale al 12%. Questa infatti è, all’incirca, la percentuale del rimborso (2,180 miliardi di euro) che verrà effettuato ai pensionati rispetto a quello che sarebbe loro dovuto in base alla piena applicazione delle indicazioni della Corte (16,6 miliardi più gli interessi). Tra le righe della sentenza si possono anche individuare elementi per contenere la restituzione del mancato adeguamento all’inflazione, ma è fortemente dubbio che le sue indicazioni possano essere eluse per quasi il 90%. La restituzione parziale avverrà in misura progressiva: 750 euro per le pensioni superiori a tre volte il minimo (circa 1406 euro lordi mensili al dicembre 2011) fino a 1700 euro lordi; 450 euro per le pensioni fino a 2200 euro lordi; 278 euro per quelli fino a 3200 euro lordi. Anche per chi prenderà di più, si tratterà di un assegno una tantum (perché la questione dovrebbe essere rivista nella prossima legge di stabilità dove le pensioni saranno oggetto di altri interventi) e nettamente inferiore a quanto previsto dalla sentenza. Infatti, anche per la prima fascia d’importo, il rimborso avrebbe dovuto essere di circa 1700 euro, mentre per la fascia più alta dovrebbe essere di circa 3800.

Il Presidente Renzi ha specificato che i 2,180 miliardi necessari saranno presi da quanto era previsto per gli interventi contro la povertà il che conferma che sarà una redistribuzione ai margini della povertà. A differenza di altri paesi, dove i redditi da pensione hanno trattamenti fiscali ridotti, in Italia sono tassati con le normali aliquote, e una pensione lorda di 1406 euro diventa di circa 1200 netti. Rimane poi il fatto – da non dimenticare - che il sistema pensionistico pubblico presenta un saldo tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali nette che è attivo dal 1998 e che nell’ultimo anno per il quale si hanno dati, il 2013, è stato pari a circa 21 miliardi di euro (cioè dieci volte quello che gli si vuole restituire per il mancato adeguamento all’inflazione). Si aggiunga che il valore medio delle pensioni è attualmente pari a circa il 45% della retribuzione media degli occupati, che tale quota è in ulteriore discesa e che nell’assetto attuale, in base alle previsioni, raggiungerà il 33% nel 2036. Dunque quando il governo stabilisce di rispettare la sentenza della Corte al 12%, e il Presidente Renzi dice che non è contento di doverlo fare, sta perseverando nella politica redistributiva decisa da tempo che esclude la possibilità di colpire altri redditi e ricchezze più elevate per fronteggiare le esigenze di bilancio.

Ma è proprio la politica di bilancio del governo l’epicentro del problema che andrebbe messo in discussione. A questo riguardo, l’aspetto significativo da considerare è che, nonostante l’emergenza finanziaria determinata dalla sentenza della Corte, il Governo non vuole superare l’obiettivo fissato al 2,6% per il deficit di bilancio, quando avrebbe margini di manovra fino al 3%. Raggiungere quel limite gli consentirebbe altri 3 miliardi di aumento di spesa senza superare il vincolo di Maastricht. Il Governo, pur trovandosi di fronte alla necessità di fronteggiare una scelta del precedente governo Monti-Fornero così iniqua da essere definita “irragionevole” dalla Corte, ci tiene ad apparire ligio ai programmi delle politiche di consolidamento fiscale che oramai lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha dovuto ammettere essere controproducenti non solo rispetto agli obiettivi della crescita, ma anche per migliorare i conti pubblici.

Da questo punto di vista, l’Agenda Monti, nonostante i suoi effetti provatamente perversi, continua ad essere il sestante della nostra politica economica e sociale che si conferma essere iniqua e controproducente allo stesso tempo. Oramai non si tratta più nemmeno di essere o meno di sinistra o progressisti, ma semplicemente di uscire da una visione di politica economica e sociale conformista i cui effetti fallimentari sono generalmente riconosciuti. Se le politiche comunitarie stanno insistendo nel portarle avanti, e i nostri governanti le accettano supini, è perché è in corso il braccio di ferro sulla “questione greca”. Si tratta di un confronto dimostrativo che non risponde a nessun criterio di razionalità economica e che – oltre pregiudicare le condizioni sociali ed economiche della Grecia - sta mettendo a rischio la costruzione europea. Quella in atto è una politica pericolosamente miope che risponde ad idiosincrasie nazionali e alla necessità di dare soddisfazione agli interessi rappresentati da tutti i governi di centro-destra europei, in particolare da quelli dei paesi della “periferia” dell’Unione che quelle regole sbagliate le hanno accettate e adesso non tollererebbero – per questioni elettorali - di dover ammettere che è stato un errore.

La Repubblica, 20 maggio 2015

CHE sorpresa! A quanto sembra, avere il fratello di un presidente fallimentare che prova a sua volta la scalata alla Casa Bianca qualche risvolto positivo ce l’ha. Grazie a Jeb Bush, finalmente ha preso corpo quel dibattito franco e aperto sull’invasione dell’Iraq che un decennio fa non c’è stato. Ma molte persone influenti (non solo Bush), quel dibattito preferirebbero che non ci fosse. C’è la sensazione palpabile che l’élite politica e mediatica abbia voglia di tirare una riga sull’argomento. La loro versione suona più o meno così: adesso lo sappiamo che invadere l’Iraq è stato un terribile errore, ed è tempo che tutti lo riconoscano. Però ora andiamo avanti. Eh no, proprio per niente: perché è falso e tutti quelli che hanno preso parte al dibattito sulla guerra sanno che è falso. La guerra in Iraq non è stato un errore innocente, un’avventura intrapresa sulla base di informazioni di intelligence che si sono rivelate sbagliate. L’America ha invaso l’Iraq perché l’amministrazione Bush voleva una guerra. Le giustificazioni ufficiali per l’invasione non erano altro che pretesti, e pretesti contraffatti per giunta. In un certo senso, ci hanno condotti in guerra con l’inganno.

Il dolo fraudolento dei sostenitori della guerra era evidente anche all’epoca: le giustificazioni che cambiavano sempre per uno scopo sempre uguale lo dimostravano. E arrivati a questo punto abbiamo prove in abbondanza a conferma di ciò che dicevano gli oppositori della guerra. Ora sappiamo, per esempio, che proprio l’11 settembre, prima che la polvere si fosse posata (e lo dico letteralmente), Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa, stava già pianificando la guerra contro un regime che non aveva nulla a che fare con l’attacco terroristico. Insomma, questa era una guerra che la Casa Bianca voleva, e i presunti errori, come dice Jeb, che «sono stati commessi» da un soggetto innominato derivano da questo desiderio di fondo. I servizi segreti sono giunti alla conclusione sbagliata che l’Iraq avesse armi chimiche? Perché erano sottoposti a forti pressioni. Le valutazioni hanno sottostimato difficoltà e costi dell’occupazione? Perché il partito della guerra non voleva sentire dubbi.

Perché volevano una guerra? A questo è più difficile rispondere. Alcuni guerrafondai erano convinti che il potere degli Stati Uniti nel mondo ne sarebbe uscito rafforzato. Altri vedevano l’Iraq come un progetto pilota, la preparazione per una serie di cambi di regime. Ed è difficile non avere il sospetto che abbia pesato la volontà di usare il trionfo militare per rafforzare il brand repubblicano in patria. A prescindere dai motivi esatti, il risultato è stato un capitolo oscuro della storia dell’America. Lo ripeto: ci hanno condotti in guerra con l’inganno. Si può capire perché tanti personaggi della politica e dei media preferiscano non parlarne. Alcuni forse si sono fatti abbindolare, hanno abboccato alle bugie. Altri, sospetto più numerosi, sono stati complici: avevano capito che la giustificazione ufficiale per la guerra era un pretesto, ma avevano le loro ragioni per volere una guerra o hanno accondisceso per paura. Perché c’era un clima di paura nel 2002-2003: criticare il crescente entusiasmo per la guerra significava correre il rischio di dire addio alla propria carriera. Oltre alle motivazioni personali, i mezzi di informazione si trovano in imbarazzo di fronte all’insincerità dei politici. I giornalisti sono sempre riluttanti a mettere i politici di fronte alle loro bugie. Più è grossa la bugia, più è evidente che stanno mettendo in atto una truffa, più i giornalisti esitano a dirlo. Ed è difficile immaginare una cosa più grossa che condurre l’America in guerra con l’inganno.

Ma la verità è importante, e non solo perché chi si rifiuta di imparare le lezioni della storia è condannato a ripeterla. La campagna di menzogne che ci ha portati in Iraq è ancora sufficientemente recente da consentire di chiamare i singoli responsabili a renderne conto. Lasciamo perdere gli inciampi verbali di Jeb Bush: pensiamo invece al suo team di politica estera, guidato da persone che hanno contribuito direttamente a costruire una giustificazione falsa per la guerra. E allora sull’Iraq diciamo le cose come stanno. Sì, dal punto di vista dell’interesse della nazione, l’invasione è stato un errore. Ma (chiedendo scusa a Talleyrand) è stato peggio che un errore, è stato un crimine.

© 2-015 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)

19 maggio 2015

Sulle orme di Berlusconi anche il grande comunicatore Matteo Renzi ha deciso di lanciare il suo messaggio elettorale dagli studi televisivi di un popolare contenitore domenicale dal titolo inutilmente gladiatorio, L’Arena. Renzi spera di volgere a suo completo vantaggio la sentenza 70 della Corte Costituzionale sulle pensioni. Cerca di farlo risparmiando ben 16 miliardi. Stabilisce quindi, del tutto arbitrariamente, che il governo sanerà il vulnus con soli 500 euro in media per circa quattro milioni di pensionati, il cui trattamento sia inferiore ai 3mila euro mensili lordi.

Il metodo non è nuovo. Risale ad Achille Lauro. La scarpa sinistra prima del voto, quella destra dopo. Solo che qui la seconda scarpa non si vede. L’erogazione è una tantum. Cosicchè le perdite per molti pensionati sono consistenti. La solerte Cgia di Mestre calcola che per la classe di importo da 1.500 (cioè poco più delle tre volte il minimo) lordi a 1.750, ove si collocano un milione e 260 mila pensionati, la perdita sarebbe di ben 2mila euro, destinata a crescere per le classi superiori.

A questo gioco di prestigio il Presidente del Consiglio accompagna qualche lacrima di coccodrillo sui giovani, utilizzando la vecchia tattica della guerra tra i poveri. I 2 miliardi di spesa così prevista assorbirebbero abbondantemente il cosiddetto tesoretto di 1,6 miliardi, ovvero la differenza tra deficit tendenziale e deficit programmato. Ma ahimè, la crudele Corte Costituzionale toglierebbe ai giovani per restituire ai vecchi, mettendo oltretutto le casse dello stato in difficoltà!

Straordinaria montatura, che ogni volta viene riproposta, malgrado che le cifre dimostrino il contrario. Come ci spiega in ogni annuale rapporto sullo stato sociale il professor Pizzuti, secondo gli ultimi dati disponibili del 2013, il saldo tra entrate contributive del sistema pubblico e prestazioni previdenziali è di 21 miliardi, con i quali quindi il primo “aiuta” il bilancio pubblico. La realtà è che la riforma Fornero, non meno delle precedenti, non è solo un disastro ma un buco senza fondo. Nessuno dimentichi infatti l’irrisolto dramma degli esodati. Ma tutto questo ha una causa di fondo: il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, che ha spezzato il patto generazionale tra giovani e anziani, tra occupati e pensionati, operato per giunta in una fase strutturalmente calante dell’occupazione aggravata dalla crisi economica.

Naturalmente Renzi si giustifica dicendo che la sentenza della Corte non esplicita tempi e modalità del risarcimento. Ovviamente, si potrebbe dire, visto che non è compito di quest’ultima. Se lo avesse fatto si sarebbero alzati alti lai contro l’invasività del massimo organo costituzionale nell’ambito delle scelte di politica economica proprie dell’Esecutivo. Ma tra il fatto che la Corte non prenda per mano il governo imponendogli il quando e il come del risarcimento e la conclusione che ce la si possa cavare con un’autosanatoria da 500 euro, ci sta un triplo salto mortale che solo l’arroganza del potere consente a Renzi di compiere in diretta televisiva, anticipando lo stesso Consiglio di Ministri ridotto a puro ratificatore di scelte già pubbliche.

La sentenza 70 della Corte è assai bene calibrata e meriterebbe un’analisi più puntuale. In primo luogo essa non contesta in assoluto la possibilità per un governo di intervenire per motivi di eccezionalità finanziaria solidamente dimostrabili sulle prestazioni a favore dei cittadini. Dipende dalle motivazioni, che in questo caso non sono esplicitate, dalle finalità, dalla misura e dalla durata dell’intervento stesso. Per questo la sentenza 70 ha ribadito che l’azzeramento del meccanismo perequativo operato nel 2008 per i trattamenti superiori otto volte il minimo per la durata di un solo anno, per compensare gli effetti del famoso “scalone”, rispondendo a criteri solidaristici, non violava alcuna norma costituzionale.

In secondo luogo, ed è questo un aspetto rimasto finora in ombra nel dibattito, tutto lo spirito e la lettera della sentenza 70 escludono che dal principio del pareggio di bilancio, infilato in Costituzione con la manipolazione dell’articolo 81, possa derivare meccanicamente una riduzione delle prestazioni che rispondono ai diritti dei cittadini. Per chi sta raccogliendo le firme per la legge popolare che vuole modificare l’attuale articolo 81, nel senso del primato dei diritti sulla contabilità, questa è una buona notizia.

Huffington Post on-line, 19 maggio 2015

La crisi economica ha cambiato il carattere e lo stile delle democrazie europee. Ha messo in discussione il rapporto tra deliberare e decidere, facendo pendere il piatto della bilancia dalla parte degli esecutivi, come ha ricordato Marc Lazar su questo giornale pochi giorni fa. L'amichevole inimicizia tra deliberazione e decisione è proverbiale nella democrazia, che i suoi detrattori hanno per secoli identificato con la perdita di tempo in chiacchiere, il troppo deliberare e poco decidere. Queste sono le opinioni ingenerose e non provate dei suoi detrattori. La decisione nelle democrazie è un momento finale, mai ultimo, di un processo deliberativo al quale partecipa, direttamente e indirettamente, un numero ampio di soggetti, singoli e collettivi. Nei governi rappresentativi la deliberazione è un gioco complesso che si avvale sia della selezione dei rappresentanti sia di un rapporto permanente del parlamento con la molteplicità delle opinioni che animano la società. Se le elezioni concludono temporaneamente il flusso deliberativo, la discussione non è tuttavia mai interrotta né lo è la riflessione ragionata del pubblico e l'influenza che i cittadini cercano di esercitare sulle istituzioni. La deliberazione non ostacola o ritarda la decisione, quindi, ma la incalza, la prepara e la cambia.

I pensatori democratici si trovano in disaccordo sull'intensità di questa tensione e sull'ampiezza dell'apporto deliberativo a elezioni concluse. Quant'anni fa, nel 1975, laTrilateral Commission (ispirata da Samuel Huntington) pubblicava il suo primo Rapporto sulla "governabilità" nei paesi occidentali dal titolo molto eloquente, La crisi della democrazia. Il Rapporto diceva in sostanza che la governabilità è messa a rischio dalla troppo ampia deliberazione, dai movimenti per i diritti civili e sociali e dalle richieste che questi rivolgono ai governi, i quali per mantenere il consenso dei cittadini sono indotti ad ampliare il loro intervento sociale così da generare una spirale di nuove richieste.

Secondo Huntington, gli stati democratici stavano perdendo autorità a causa del peso troppo forte rivendicato dal pluralismo sociale: era questa la crisi di governabilità decretata dalla Trilaterale, che suggeriva agli stati occidentali (soprattutto quelli a democrazia parlamentare) di rafforzare gli esecutivi, deprimere lo stato sociale, contenere la contestazione e i movimenti. "Eccesso di democrazia" era il problema: come nel mercato così anche nella politica, un'alta partecipazione era indice di un forte bisogno; ma contrariamente al mercato, in politica questo attivismo era segno di instabilità. All'opposto stava l'apatia, indice di soddisfazione.

La concezione deliberativa della democrazia, associata a Jürgen Habermas e alla teoria critica francofortese, prese corpo proprio in quegli anni, discutendo sul significato della "crisi" e della governabilità, e contestando la visione minimalista del processo decisionale. Deliberare era più che votare; aveva un significato ampio, proprio come i suoi critici della Trilaterale avevano temuto: la decisione per Habermas è una conclusione temporanea di un processo al quale in modo diretto e indiretto partecipa una pluralità di attori sociali e politici. Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione, ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito divisivo di una parte contro l'altra.

In Europa, la visione deliberativa ha caratterizzato la natura della democrazia nei decenni a partire dagli anni Settanta, mettendo a segno importanti risultati in termini di politiche sociali nazionali e di impulso a livello continentale alla costruzione dei trattati costituzionali dell'Unione Europea. Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde in questi anni recenti a un'impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che comunitari, e un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione, parlamentare e sociale, e di alleggerire l'impegno dei governi nelle politiche sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli stati.

La netta sterzata verso un federalismo di e tra esecutivi, con credenziali democratiche deboli, ha avuto un effetto a valanga negli stati membri. La crisi sembra rilanciare il progetto della Trilaterale dunque. Mette al tappeto la democrazia deliberativa decretando la centralità del potere di decisione dei governi centrali. Si tratta di vedere se la democrazia decisionista ci darà più efficienza nel rispetto dei fondamenti democratici, meno sprechi e meno corruzione, come promette di fare.

Il manifesto, 19 maggio 2015
Quello di lesa mae­stà è stato, fin dalla notte dei tempi, un delitto assai grave. Lo si pagava gene­ral­mente con la vita. Ma par­liamo di epo­che in cui il corpo del sovrano rien­trava nella sfera del sacro.

Sor­prende, dun­que, la sua rie­di­zione, certo assai meno cruenta e non inscritta in alcun codice, in una società lai­ciz­zata e demo­cra­tica come la nostra. Fatto sta che ad ogni pub­blica mani­fe­sta­zione di un espo­nente del governo chiun­que osi con­te­starlo facendo troppo rumore, si espone a rea­zioni spro­po­si­ta­ta­mente vio­lente da parte delle forze dell’ordine e a pesan­tis­simi prov­ve­di­menti giu­di­ziari: fogli di via e arre­sti domiciliari.

È acca­duto due volte a Bolo­gna: l’arresto di sei per­sone in rife­ri­mento alla con­te­sta­zione della mini­stra Madia nel dicem­bre dello scorso anno e le teste spac­cate (a soli due giorni dalla solenne pro­cla­ma­zione di una «nuova etica» di poli­zia) il 3 mag­gio scorso per difen­dere da una minac­cia ine­si­stente Mat­teo Renzi inter­ve­nuto per con­clu­dere la festa dell’Unità. Stiamo par­lando di slo­gan, di stri­scioni e di qual­che spin­tone. Ben di peg­gio si è visto, con una certa fre­quenza, nelle aule parlamentari.

Forse gli uomini e le donne dell’esecutivo, non­ché buona parte del ceto poli­tico, non arri­vano a con­si­de­rarsi pro­prio ema­na­zioni del sacro, ma cer­ta­mente pre­ten­dono di «incar­nare la nazione» nella quale i gover­nati devono stare al loro posto, dopo aver votato (i pochi che lo fanno ancora) e tal­volta dopo aver rice­vuto in gen­tile con­ces­sione un ascolto inu­tile e formale.

Può darsi anche che si tratti più sem­pli­ce­mente del volto aggres­sivo di un nar­ci­si­smo deci­sio­ni­sta e per­ma­loso. L’arroganza e le coreo­gra­fie nor­d­co­reane in for­mato stra­pae­sano stanno diven­tando tratti con­sueti dello stile di governo. Chi si per­mette di gua­stare que­ste «feste della nazione» paga salato.

Gli ortaggi e i fischi che pio­vono dal log­gione non hanno mai signi­fi­cato la fine del tea­tro, sem­mai testi­mo­niato della sua natura aperta e demo­cra­tica. Ogni attore che si rispetti, abi­tuato a cal­care la scena, è ben con­sa­pe­vole di esporsi a que­ste rea­zioni. Fa parte del suo mestiere. Diver­sa­mente, i mat­ta­tori della poli­tica, nono­stante anni di chiac­chiere sulla politica-spettacolo sem­brano rite­nere che le con­te­sta­zioni rumo­rose minac­cino, nella loro per­sona, la demo­cra­zia stessa (che per­fino Sal­vini & Casa Pound pre­ten­dono di incarnare).

Così, pur avendo bea­ti­fi­cato l’austero notaio mila­nese che, a pre­si­dio del tri­co­lore espo­sto alla sua fine­stra, si lasciava stoi­ca­mente ber­sa­gliare dalle uova lan­ciate dai mani­fe­stanti, i nostri poli­tici si guar­dano bene dal seguirne l’esempio.

Se vi fosse una magi­stra­tura con un senso non super­fi­ciale della demo­cra­zia si affret­te­rebbe a revo­care dei prov­ve­di­menti fuori misura e fuori luogo, e a ricon­durre l’azione giu­di­zia­ria al livello di una civiltà giu­ri­dica che dovrebbe essersi lasciata alle spalle il delitto di lesa maestà. Tanto più che que­sti prov­ve­di­menti costi­tui­scono un peri­co­loso pre­ce­dente, suscet­ti­bile di cri­mi­na­liz­zare ogni inter­fe­renza con­flit­tuale con la recita di chi ci governa.

conomist (Atene, 14-15 maggio 2015). Un ampio resoconto della grande fatica in corso da parte di Alexis Tsipras e Syriza per portare la Grecia fuori dalla crisi e aprire una breccia nell'Europa dell'austerity. Dal gruppo Facebook Sosteniamo Syriza, 19 maggio 2015

DISCORSO DI ALEXIS TSIPRAS
AL FORUM DELL' ECONOMIST AD ATENE

Signore e signori, Vorrei ringraziare gli organizzatori della conferenza per il loro gentile invito. Ho il piacere di partecipare alla manifestazione finanziaria annuale dell’Economist, in questo forum economico che ogni anno offre l'opportunità di ascoltare e di discutere le diverse percezioni politiche ed economiche che definiscono le linee di un dibattito pubblico sia a livello mondiale ed europeo.

Stiamo parlando di percezioni politiche ed economiche che non derivano da esperimenti condotti in un laboratorio di economisti, ma sono definiti dalle contraddizioni sociali di legge inerenti a tutte le moderne società occidentali.

In realtà, queste percezioni politiche ed economiche dipendono asserzioni ideologiche che sono, per definizione, incompatibili. È, quindi, l'obbligo di politici e dello stato organizzato risolvere ogni volta questo paradosso nel modo più efficiente. Perché in ultima analisi, la politica determina ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è possibile e ciò che è impossibile.

Per cinque anni la politica dei partiti precedenti, che detenevano il potere in Grecia, è fallita miseramente. Non sono riusciti a unire e sintetizzare le diverse aspettative sociali di tutti gli strati della società greca, per creare un concetto elastico di giustizia sociale e impostare le coordinate sostenibili per il futuro orientamento del paese. Questi partiti hanno scelto invece di schierarsi con le idee e le forze più estreme e di parte a livello mondiale ed europeo e attuare una politica di austerità contro la maggioranza sociale.

L'idea che la crisi in Grecia è stata causata dai benefici sociali dei lavoratori e dei pensionati, il settore pubblico sovradimensionato, l'attaccamento alle politiche protezionistiche, era dominante all'interno di questa classe politica, con il sostegno del potente a livello economico. E su questa base, un intero meccanismo è stato organizzato per ristrutturare l'economia greca e la società: è stato chiamato memorandum.

Il memorandum non era solo un errore economico, un programma cattivo, una svista. E' stata una scelta consapevole per posizionare il peso della crisi economica causata dagli squilibri nel sistema finanziario e aggravata da patologie intrinseche allo Stato greco e all'economia greca, sulle spalle dei lavoratori, dei pensionati, della classe media autonomi e dei piccoli imprenditori.

In realtà, il memorandum non era altro che un tentativo di superare la crisi, consentendo una liquidazione senza precedenti dei diritti e delle imprese e che potrebbe creare le basi per una nuova accumulazione di capitale a condizioni significativamente peggiori per la maggioranza sociale. E 'stato, ovviamente, un dato di fatto che questa politica avrebbe portato ad una recessione prolungata, ritenuta opportuna all’inizio dai creatori del Memorandum.

Essi erano ben consapevoli di ciò che stavano facendo e nonostante questo, sono andati avanti. Questa è espressione del loro cinismo assoluto.

Durante gli anni del Memorandum, le disuguaglianze sociali in Grecia sono salite (la Grecia occupa il primo posto in Europa della scala delle disuguaglianze sociali) la disoccupazione è triplicata, i salari abbassati, le pensioni hanno subito tagli drammatici e il welfare state è letteralmente crollato.Gli unici che non hanno subito danni durante questo periodo di cinque anni sono stati i ricchi greci.Secondo uno studio del Credit Suisse, attualmente il 10% dei greci più ricchi gestisce almeno il 56% della ricchezza nazionale.

Questa tempesta politica ed economica ha lasciato solo una cosa in piedi: lo stato clientelare e corrotto che ha sostenuto l'élite politica ed economica di questo Paese. O, per essere precisi, non solo è rimasto in piedi, ma ha permesso anche alle pratiche peggiori di mettere radici.

Nessuna delle riforme ha migliorato il meccanismo di riscossione delle imposte, che sta crollando, nonostante il desiderio di alcuni dipendenti illuminati e giustamente nervosi. Nessuna presunta riforma ha combattuto il triangolo della corruzione tra l'élite politica, proprietari dei media e le banche. Nessuna riforma ha migliorato il funzionamento e l'efficacia di uno Stato che ha imparato a operare per servire interessi particolari piuttosto che il bene comune. È stata proprio questa situazione, vale a dire l'incapacità di giustificare questa politica estrema, l'incapacità di proporre un discorso convincente che avrebbe trasformato gli interessi egoistici delle élite negli interessi della società nel suo complesso, ad aver portato SYRIZA e l'anti- blocco memorandum al potere. Perché si possono ingannare molte persone per poco tempo e poche persone per molto tempo, Ma non si può ingannare tutto il popolo per tutto il tempo.

Signore e signori, Le elezioni del 25 gennaio hanno dato un chiaro mandato a questo governo di salvezza sociale e di ricostruzione economica: cambiare le politiche dei memoranda che hanno distrutto la società greca e l’hanno portata sull'orlo della disperazione.

Il nuovo governo ha un punto di vista completamente diverso su come dovrebbero essere organizzate l'economia greca e la società. Una comprensione completamente diversa dei presupposti necessari per conseguire una crescita sostenibile in grado di ridurre le disuguaglianze, piuttosto che aumentarle. Perché se la crescita è semplicemente una continuazione dello stato delle cose esistenti, consentendo al divario sociale di rimanere intatto o addirittura esacerbare le divisioni sociali, allora c'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato con il “regno di Europa".

Pertanto, è questo il mandato che abbiamo implementato durante i primi 100 giorni in carica, ed è questo il nuovo punto di vista che si evidenzia nel dibattito pubblico in un'Europa che invecchia. Stiamo legiferando e negoziando in nome della grande maggioranza sociale che ci sostiene, e in nome della giustizia sociale, della crescita e della promozione della parità. Perché l'uguaglianza è uno dei capisaldi della Europa unita che non dovrebbe essere sminuito da coloro che insistono a parlare solo in nome della libertà, dimenticando la condizione che rende per tutti possibile la libertà: quale potrebbe essere questo presupposto se non l’uguaglianza?

Quindi legiferiamo e negoziamo, guidati dalla bussola degli interessi e delle aspirazioni di questa maggioranza sociale: i lavoratori e la classe media che sono state socialmente ed eticamente schiacciati nei quattro anni di violenza del memorandum. E il nostro obiettivo è quello di costruire ancora una volta una versione di giustizia sociale che trasformerà la società greca ed europea da una somma di individui a vera comunità. Il nostro obiettivo è quello di ristabilire il vero significato della politica, al fine di raggiungere il nostro obiettivo finale, che tutti condividiamo: una versione sostenibile di interesse sociale che non creerà tensioni e ma incoraggerà il potenziale delle persone, fornendo l'opportunità di benessere. Tuttavia, stiamo legiferando e negoziando in un contesto economico difficile e senza precedenti.

Stiamo camminando attraverso un territorio minato preparato dai sostenitori del Memorandum da parte del governo precedente. È pratica comune per quelli votati al potere dire che hanno ereditato "terra bruciata". Ma nel nostro caso, questo non si qualificherebbe come un'esagerazione, ma piuttosto, come un commento moderato. Non abbiamo ereditato semplicemente terra bruciata.

Abbiamo ereditato un paese incapace di funzionare. Abbiamo ereditato un paese incapace di pagare gli stipendi e le pensioni appena un mese dopo le elezioni, vale a dire nel mese di febbraio 2015 e derivante dal precedente governo. E tuttavia, siamo riusciti a mantenere il paese a galla. Siamo riusciti a garantire pienamente il corretto funzionamento delle responsabilità dello Stato, impegnati allo stesso tempo in una trattativa difficile. E nonostante le pressioni finanziarie, la fiducia dei nostri cittadini è aumentata, e per questo è stata registrata un crescita dei ricavi e significativa dei fondi pubblici.

Nei quattro mesi che il nostro governo è stato in carica, l'avanzo primario ha raggiunto € 2.164.000 a fronte di un avanzo primario di € 1.046.000 dello stesso periodo del 2014, in contrasto con una previsione di deficit primario di 287.000.000 €. Nel solo mese di aprile abbiamo aumentato i ricavi netti del bilancio ordinario del 15,3% contro il bersaglio mensile. In tal modo, non solo abbiamo evitato il "crash" istituito deliberatamente dal precedente governo in programma per il mese di febbraio, ma abbiamo anche adempiuto al rimborso di tutte le passività interne ed esterne del paese, senza rischi, nonostante il fatto che nessuna rata di prestito è stata erogata da agosto 2014. E voglio assicurarvi che non vi è alcuna minaccia per gli stipendi e le pensioni.

Vi è, tuttavia, un grosso problema qui, che mi piacerebbe caratterizzare come una questione morale. L'accordo deve essere concluso, e dovrebbe essere onesto e reciprocamente vantaggioso. E 'inaccettabile che alcuni pensino che col passare del tempo la resistenza della parte greca sarà testata e le sue linee rosse svaniranno. Se hanno questo in mente dovranno dimenticare questo proposito, in quanto si verificherà l'esatto contrario. Dall’ agosto 2014 non abbiamo ricevuto la rata di 7,2 miliardi da parte dei nostri istituti di credito, in conformità con il programma di prestito in corso. Questo include anche i 1,9 miliardi di euro di profitti da parte delle banche centrali come risultato di obbligazioni greche. E i 1,2 miliardi di euro in obbligazioni pagate con i fondi del nostro bilancio e che sono state trasferite dal FSF al MES. Tuttavia, in questo periodo, mentre non riceviamo i finanziamenti che dovremmo ricevere, abbiamo pagato rate di 17,5 miliardi per le stesse istituzioni. Se alcuni credono che questo è legale, posso ascoltare il loro punto di vista. Essi sostengono che la legge è dalla parte del prestatore. Ma chiunque considera morale ciò, non è certamente imparziale. Signore e signori, Ci sono diversi membri dell'opposizione che sono profondamente frustrati perché non possono esprimere abbastanza critica politica, ci rimproverano di aver presumibilmente dimenticato i nostri impegni presi prima delle elezioni e che abbiamo fatto marcia indietro dal programma di Salonicco. Invece di rispondere, vorrei riassumere ciò che il governo ha fatto nei primi cento giorni, e lasciare che i fatti parlino da soli:

Più specificamente, nei suoi primi 100 giorni il governo ha:

1) mosso i primi passi per alleviare la crisi umanitaria attraverso il primo disegno di legge approvato dal nuovo Parlamento: Il programma è attuato su base quotidiana, mentre è in fase di espansione per coprire vitto, l'alloggio, l'elettricità.

2) preso misure immediate per riavviare l'economia e ristabilire la giustizia fiscale: le cento rate per il rimborso di debiti fiscali e previdenziali dei cittadini sono già in corso, consentendo a centinaia di migliaia di imprese di riaggiustare i loro debiti e di ottenere liquidazione fiscali e previdenziali per migliaia di famiglie e per sfuggire lo starter-hold di sovraindebitamento.

Questa misura fornisce anche i fondi pubblici con un'iniezione necessaria di liquidità. Entro l’11 maggio, vale a dire entro 24 giorni di attuazione del disegno di legge, circa 380.000 mutuatari hanno chiesto un adeguamento da parte delle autorità fiscali del paese. Il totale dei debiti rettificato è pari a € 2,8 miliardi. Durante questo stesso periodo, cioè, entro dal 12 maggio, circa 144.000 sofferenze rettificate assicurato che sono stati dovuti a fondi di previdenza sociale, con l'importo totale del debito rettificato pari a circa € 3,4 miliardi. Vale la pena di confrontare gli importi che sono state regolati sotto la nostra proposta di legge, vale a dire la partecipazione dei contribuenti e assicurazione dei rispettivi importi, e la limitata partecipazione dei cittadini alle rettifiche di valore sotto il governo precedente, per evidenziare veramente la retorica dalla realtà. • Inoltre, abbiamo votato una norma, ed è stata emessa una decisione ministeriale nella lotta contro i traffici triangolari, che mette fine a una delle tecniche più diffuse di evasione fiscale.

3) Inoltre, è stato votata la prima legge per la democratizzazione della pubblica amministrazione, che ripristina alcune delle ingiustizie palesi che hanno avuto luogo durante il periodo di Memorandum, come il licenziamento degli addetti alle pulizie del Ministero delle Finanze, le guardie della scuola e altri servitori di servizi pubblici.

4) Gli aspetti del programma in materia di ripresa dell'occupazione sono stati avviati, e continuano anche attraverso l'iniziativa annunciata dal Presidente Juncker per l'erogazione dei fondi a programmi già esistenti, per un totale di 2 miliardi di Euro. Siamo certamente di fronte a difficoltà, soprattutto a causa dei programmi inefficaci progettati dal precedente governo che siamo anche obbligati a seguire. Tuttavia, saremo in grado di modificare e correggere questi programmi in linea con il nostro ordine del giorno, come previsto per la seconda metà del 2015.

6) è stato anche votato il disegno di legge di riapertura di ERT (l'emittente-pubblico Hellenic Broadcasting Corporation), che è una pietra miliare simbolica. Abbiamo creato le condizioni per una nuova emittente pubblica libera da partigianerie, favori politici e da pratiche dispendiose del passato. Un corpo di informazione pubblica che rifletterà il nuovo ethos pubblico e la cultura politica democratica del nostro governo.

7) Si è proceduto, come previsto,al sovvenzionamento delle stazioni televisive con spese di funzionamento dovute, in particolare, per la questione di debiti non pagati che sono rimaste in attesa per anni, mentre il progetto di legge per quanto riguarda le licenze delle stazioni "è nella fase finale.

8) Ci stiamo consultando con l'Organizzazione internazionale del lavoro su un progetto di legge da votare nei prossimi mesi, per quanto riguarda il ripristino della normativa europea sui rapporti di lavoro, il ripristino della contrattazione collettiva, gli effetti di fine termine e il graduale ripristino del salario minimo di 751 euro.

Ed è uno sviluppo molto positivo che oggi, a seguito della riunione del Ministro per l'occupazione e il Direttore Generale dell'ILO, l'OIL ha rilasciato una dichiarazione accogliendo gli sforzi del governo greco e delle parti sociali per la promozione della contrattazione collettiva e il miglioramento del mercato del lavoro in Grecia.

9) è avviato il Comitato per la revisione del memorandum con le sue responsabilità.

10) Per la prima volta, la domanda nazionale di riparazioni tedesche è stata espressa ufficialmente al più alto livello possibile.

11) i sospettati di evasione fiscale previsti sulla lista Lagarde sono stati convocati a pagare e risolvere le loro tasse in sospeso -un primo passo, mentre un controllo dettagliato proseguono su altri casi.

12) gruppi di lavoro speciali stanno esaminando appalti pubblici inquinati del passato, come ad esempio l’accordo palesemente ingiusto extragiudiziale tra lo Stato greco e Siemens.

Signore e signori, questi sono esempi dei nostri sforzi iniziali per creare una rottura definitiva con le pratiche negative del passato, e ridistribuire le risorse e il potere dal corrotto e dall’ evasore fiscale e dall’oligarchia finanziaria alla grande maggioranza sociale, che ha investito la sua fiducia in noi e coltiva grandi aspettative.

Tuttavia, siamo ancora solo all'inizio. Non possiamo semplicemente dimenticare e andare avanti, eliminando in un colpo solo le forze negative del passato: la corruzione, la povertà e la dipendenza. Allo stesso tempo però, stiamo rigorosamente negoziando con gli istituti di credito a favore del nostro popolo, del nostro paese, e come pure per l'Europa. Nei primi giorni della trattativa abbiamo affrontato l'eredità del memorandum. Eravamo di fronte alla necessità di completare la quinta valutazione e di attuare gli impegni che il precedente governo aveva preso, come indicato nell'e-mail di Hardouvelis spesso citata.

Abbiamo chiesto il rispetto da parte dei nostri partner; il rispetto delle regole dell’Europa e del principio della sovranità popolare che è la pietra angolare della organizzazione democratica dell'Unione europea. Abbiamo combattuto, e con la decisione 20 febbraio dell'Eurogruppo, abbiamo realizzato un cambiamento negli atteggiamenti dei nostri istituti di credito – che sostenevano il Memorandum alla lettera - alla ricerca di un terreno comune in base alle nostre priorità. Questa è una decisione che noi rispettiamo. Ma per una soluzione reciprocamente vantaggiosa, un accordo deve essere raggiunto - e non uno che porta alle stesse vicoli ciechi – e che tutte le parti coinvolte dovrebbero tenere a mente. L'insistenza sulle misure, in conformità con il Protocollo, oltre alle accuse costanti che stiamo ricevendo di rinnegare ciò che è stato concordato con il precedente governo non aiutano il processo di negoziazione in corso. Il governo greco continua a negoziare per raggiungere un accordo economico giusto e socialmente valido con i suoi partner. Un accordo che concluderà l'austerità, ripristinerà la liquidità per l'economia reale e fornirà le prospettive di crescita per il paese.

Ciò richiede:
- Bassi avanzi primari, in particolare per quest'anno e per il 2016, al fine di fermare il meccanismo che promuove l'austerità e riguadagnare lo spazio fiscale necessario.
- Non ci siano nuovi tagli salariali e alle pensioni, vale a dire le misure che intensificheranno la disuguaglianza sociale.
- Ristrutturazione del debito pubblico, al fine di porre fine al circolo vizioso degli ultimi cinque anni in cui il paese ha dovuto prendere nuovi prestiti per rimborsare i prestiti esistenti.
- Un forte programma di investimenti, finanziamento coordinato per gli investimenti, in particolare quelli riguardanti le infrastrutture e le nuove tecnologie.

A questo punto sembra che il terreno comune è stato trovato con le istituzioni su una serie di questioni e, quindi, siamo molto vicini a un accordo. Terreno comune è stato trovata anche su temi quali gli obiettivi di bilancio, le variazioni marginali dell’ IVA, che dovrebbe funzionare in maniera redistributiva a favore delle classi subalterne, e le modifiche istituzionali per rafforzare l'amministrazione nella riscossione delle imposte.

Ci sono ovviamente delle questioni che restano aperte: Alcuni insistono sulla proposta di modifiche al quadro istituzionale che definisce il funzionamento del mercato del lavoro già liberalizzato. Questi cambiamenti non possono essere accettati. Il paradosso è che, mentre le stesse forze mettono dubbio la fattibilità del sistema pensionistico, insistono sulle politiche del Memorandum che chiedono tagli continui. Tuttavia, nei prossimi giorni dobbiamo lavorare duramente per costruire la necessaria intesa in termini di importi effettivi del sistema di sicurezza sociale e di garantire che tutte le proposte e le stime non si baseranno su una falsa immagine della situazione finanziaria e dei fondi della previdenza sociale. Per essere chiari, io voglio assicurare al popolo greco che non vi è alcuna probabilità o possibilità che il governo greco faccia marcia indietro sulla questione dei salari e delle pensioni. Dipendenti e pensionati hanno sofferto abbastanza. È giunto il momento della ridistribuzione, e dell'equa ripartizione degli oneri.

Signore e signori, Stiamo negoziando con tenacia e determinazione per un accordo unico, con requisiti uniformi, che garantirà la crescita e l'accesso della Grecia ai mercati entro un breve periodo di tempo. Questo è il piano di cui stiamo discutendo. Tutto il resto sarà una ripetizione di tentativi falliti ed errori intenzionali che alcune delle istituzioni hanno pubblicamente ammesso in passato, nel tentativo di ridurre la tensione sociale.

Ma queste ammissioni pubbliche per essere credibili, devono trovare riscontro anche nella pratica. Il piano negoziale del nostro governo non è né radicale né coraggioso, né aggressivo. Il piano negoziale del nostro governo è realistico e praticabile. Chiediamo all’altra parte , dopo cinque anni consecutivi di obiettivi irrealistici e di fallimenti continui, di aderire al realismo. Infine, chiediamo alla stragrande maggioranza sociale che ha riposto la sua fiducia in noi, e i cui interessi e aspettative difendiamo ogni giorno, di lavorare con noi. Insieme, siamo in grado di sostenere gli sforzi di negoziazione del nostro paese. Insieme, possiamo pianificare per il domani, un domani che comprenda una società giusta e un'economia in crescita. Grazie

Traduzione di Daniela Sansone, per il gruppo Facebook Sosteniamo Syriza

La Repubblica, 18 maggio 2015

Per la Buona Scuola sono arrivati gli esami finali. Si entra nel vivo già questa mattina, per gli ultimi tre giorni di battaglia nell’aula della Camera. Al voto gli articoli più contestati della riforma, il numero 9 sui poteri del preside, il 10 sui precari e l’articolo 17 che riguarda il 5x1000. Mentre le opposizioni affilano le armi (ma con i numeri della maggioranza a Montecitorio non potranno far molto), Renzi prosegue nel suo contrattacco mediatico iniziato la scorsa settimana con il video alla lavagna. «Non si può minacciare il blocco degli scrutini — ha dichiarato a l’Arena di Giletti — non si può giocare sulla pelle dei ragazzi. Anche chi boicotta il test Invalsi non dà un bell’esempio di educazione civica». E ancora, sui no piovuti contro la valutazione dei docenti: «Penso anche che in qualche professore ci sia ancora l’idea di mantenere la filosofia del 6 politico. Ma quella stagione è finita».

Intanto la minoranza dem sembra aver scelto una politica diversa rispetto alla totale contrapposizione sull’Italicum che portò 38 deputati a non votare la fiducia al governo. Non una tregua vera e propria, ma un’apertura speculare a quella mostrata dal governo. «Vediamo — afferma Nico Stumpo, uno dei leader dell’area bersaniana — se è possibile fare accordi nel Pd. Sull’Italicum fu la decisione di Renzi di mettere la fiducia a far saltare il tappo, ma sulla scuola non c’è alcuna logica di bandiera. Abbiamo presentato emendamenti di buon senso».

Quali siano i punti su cui insisteranno di più lo spiega Andrea Giorgis: «Il 5 per 1000 non ha più senso, visto che non si tratta di risorse aggiuntive ma di soldi dello Stato. Bisogna poi dare almeno una prospettiva futura di stabilizzazione a tutti i precari che hanno fatto corsi abilitanti. Infine c’è la questione centrale, la collocazione dei docenti sul territorio: non si può immaginare di creare scuole di serie A con più risorse e con i docenti migliori e scuole di serie B con gli altri ». Ma, di nuovo, niente barricate: «C’è un clima diverso — ammette Giorgis — perché il governo non ha blindato la riforma. In commissione il testo è stato migliorato e ora speriamo di migliorarlo anche in aula. Comunque a tutti noi sta a cuore una vittoria del Pd alle regionali e lavoriamo per riconnettere il partito con il mondo della scuola».
Chi invece ancora non ha scelto se votare o meno il ddl è Alfredo D’Attorre, l’anima più ribelle — insieme a Stefano Fassina — del Pd: «La mia valutazione finale dipenderà dalle modifiche sostanziali che devono essere fatte al progetto. Allo stato purtroppo non credo ci siano le condizioni per un voto favorevole ». Fassina fa della riforma della Scuola addirittura un test, «un passaggio decisivo per scegliere se restare» o meno nel partito. Anche Sel e Cinque Stelle, ovviamente, non faranno sconti. Carla Ruocco, l’unica donna del direttorio pentastellato, annuncia che domani il M5S sarà in piazza Montecitorio «per una grande mobilitazione insieme agli insegnanti e ai nostri attivisti». Ma già da oggi, benché molti deputati grillini (Ruocco compresa) non possano partecipare ai lavori perché sanzionati, «ci saranno scintille».

Il governo comunque ritiene di aver aperto a sufficienza già in commissione, in aula il testo sarà difeso così com’è. «Ulteriori modifiche — rivela un renziano — ce le riserviamo semmai per il passaggio al Senato». Intanto, sottotraccia, si apre un primo braccio di ferro tra governo e Ragioneria dello Stato. Oggetto: i bacini territoriali dai quali il preside potrà pescare gli insegnanti. Per la Ragioneria sarebbero troppo stretti.

Appuntamento a Roma, il 6 e 7 giugno. Un’assemblea pubblica per «associazioni, movimenti, sindacati, donne e uomini che in questi anni si sono battuti contro le molteplici forme di ingiustizia, discriminazione e progressivo deterioramento dei diritti. E che oggi decidono di promuovere un cammino comune ». La “coalizione sociale” di Maurizio Landini prende forma così, con un appello che verrà reso pubblico domani. Ma non sarà un soggetto politico. O almeno, non nell’immediato. «Come ha compreso il movimento delle donne — si spiega — vogliamo dimostrare che si può far politica attraverso un agire condiviso tra soggetti diversi, che si può rimotivare le persone a occuparsi dell’interesse generale nello spazio pubblico, al di fuori e non in competizione rispetto a partiti, organizzazioni politiche o cartelli elettorali».

L’incontro di messa a punto del progetto è avvenuto alla sede nazionale dell’Arci lo scorso fine settimana. Non c’era solo la Fiom, ma anche esponenti del variegato mondo dei centri sociali (come Action), Libertà e Giustizia, la Rete della Conoscenza, Act e associazioni ambientaliste. Ma stavolta si sono defilate sia Libera che Emergency, che sì collaboreranno ma indirettamente, più attraverso i singoli che altro. Una curiosità: si è rivista Simona Panzino, la candidata “senza volto” alle primarie dell’Unione del 2006 vinte da Romano Prodi. Non c’era nessuno (o quasi) dei partiti della sinistra come Sel, Rifondazione e L’Altra Europa con Tsipras. Ma la questione partitica è stata toccata più volte, ricordando che la “coalizione sociale” si struttura all’infuori delle vecchie organizzazioni.

Le parole d’ordine? Mutualismo, lotte sociali, mobilitazione e opposizione al governo. «Non lasciare nessuno indietro o da solo è la prima ragione che ci porta a intraprendere questo percorso per cambiare il Paese e l’Europa, formulando proposte che siano un’alternativa concreta alle divisioni e alle solitudini in cui ogni persona rischia di essere abbandonata», recita il documento. Alla due giorni verranno istituiti quattro gruppi di lavoro: “Unions”, dove si parlerà di reddito, migranti e democrazia; “Saperi e conoscenze”, e si affronterà anche la riforma della scuola; “Rigenerare le città”; “Economia, politica industriale e ambiente”. Tempi di intervento uguali per tutti e nessun esponente politico invitato sul palco.

La seconda fase invece sarà quella della mappatura e del radicamento territoriale: «Realizzare un modello d’impegno che si manifesti e qualifichi a partire dai territori, dai luoghi di lavoro e si caratterizzi per il fatto che ciascuno di noi offrirà il contributo delle proprie migliori pratiche e dei propri saperi; sulla base di tali principi in reciproca autonomia aderirà alle campagne per obiettivi comuni che insieme decideremo di avviare».

Nel corso della riunione il leader dei metalmeccanici della Cgil ha parlato di come — ad esempio — occorra reinterpretare il concetto di legalità: «Per una vita l’abbiamo difesa in fabbrica. Ma adesso le leggi le fa direttamente Confindustria attraverso questo governo, in un clima di piena restaurazione». Alla domanda (solita) di cosa sia davvero la “coalizione sociale”, Landini risponde così: «Un cantiere in evoluzione, senza ambizioni elettorali. Fate una cosa rivoluzionaria: prendetela per quel che è, senza retropensieri ».

Il Fatto quotidiano, 18 maggio 2015

Ormai inizia a rendersene conto perfino il sempre allineato Stefano Folli, già portaborse di Giovanni Spadolini e attualmente notaio del pensiero pensabile di Repubblica, il quale – nel suo Punto di mercoledì scorso (“La spina cruciale della Liguria”) – prendeva atto che nelle prossime regionali
Matteo Renzi rischia molto più di quanto non apparisse nelle scorse settimane. Anche perché l’ineffabile cinismo con cui sono state messe in pista le candidature Pd, il cui unico obiettivo sembra quello di fare fuori a livello locale “gufi e rematori contro” invisi al premier, si sta rivelando un boomerang. Il caso campano, con le alleanze “imbarazzanti” di Vincenzo De Luca, ormai scivola nella (pur amarissima) barzelletta. Difatti certe marce indietro governative dell’ultima ora, magari per non collidere con bacini elettorali importanti come quello del pubblico impiego nella scuola, rivelano il crescente nervosismo.

Secondo Folli il vero epicentro del possibile day after renziano è il pur piccolo scenario ligure; dove si è scelto senza tentennamenti e molta arroganza di puntare su Raffaela Paita; per benemerenze conseguite nell’aver fatto fuori nelle primarie locali, condotte senza esclusione di colpi (bassi), il disturbatore Sergio Cofferati. L’astio nei confronti del quale emerge dal voler svilirne il risentimento riducendolo all’infantilismo del “ha perso e scappa con il pallone”. Quando quella vicenda è stata altamente inquinata neppure troppo sottobanco, nella logica più che collaudata dell’asse Burlando-Scajola.

Dunque, Paita governatore. Nonostante l’aspetto vagamente grifagno della signora, che ne impedisce la collocazione nella squadra delle “soavi viperette” del premier (le Boschi, Serracchiani, Picierna, con la new entry Anna Ascani), a cui – comunque – si accomuna per l’incrollabile quanto ingiustificata determinazione (i marxiani “animal spirits”) nel perseguire obiettivi di carriera.

Eppure, nonostante i sondaggi taroccati e la grancassa di parte della stampa locale (tradizionalmente molto sensibile alle gerarchie politico-affaristiche regionali), la candidatura non decolla. Anche perché conferma la caratteristica decisiva della proposta Pd per queste regionali: aver messo in campo l’imbarazzante. E la candidata Paita ne è la migliore riprova: dalle performance al tempo della recente alluvione allo stile interlocutorio/argomentativi (tracotante); per arrivare al mistero del suo percorso culturale, visto che i suoi stessi siti ufficiali tacciono sui titoli di studio conseguiti e fanno riferimento a vaghe esperienze giornalistico/pubblicistiche di non facile individuazione nella natia La Spezia, non propriamente piazza sede di testate e imprese editoriali che superino la soglia del giornalino parrocchiale.

Che fare per rimediare? Ancora una volta la soluzione del presunto nuovo che avanza – da Rignano sull’Arno come dalla Val di Magra – fa ricorso ad armamentari propagandistici di antichissimo conio: lo slogan creato da Indro Montanelli per l’allora partito democristiano in difficoltà “turiamoci il naso ma votiamo Dc”. Non il massimo dell’apprezzamento per il destinatario del voto e certamente molto ricattatorio. Comunque efficace perché fa ricorso al sempre valido “fattore paura”.

Al solito Renzi ricicla (Montanelli) con toni da gag: “Se non votate Paita riesumate Berlusconi”. Una gag mistificatoria che vorrebbe ridurre lo scontro elettorale, in atto tra gli ulivi terremotati e le città disastrate di Liguria, a una sorta di derby Paita-Toti. Con la trasformazione del mite (rivestito grottescamente da mannaro) Giovanni Toti nell’armata di un berlusconismo in rotta; che giorni fa in Trentino ha già perso i ¾ dei propri consensi. Ma questa è la linea per sostenere l’imbarazzante Paita: ricatto e paura. Soprattutto la tecnica collaudata dell’illusionismo. Per nascondere il fatto che sanno crescendo alternative quanto meno di pari peso rispetto a quella dei burlandian-renziani in perdita costante di pezzi: in particolare i ragazzi di Cinquestelle (nonostante le mattane di Grillo su Veronesi e la campagna terroristica su fantomatici inquinamenti malavitosi accreditati da faide di paese).

Sbilanciamoci.info, 15 maggio 2015

Le scelte di Renzi seguono il corso delle politiche europee all'insegna di austerità e neoliberismo. Quattro sono i pilastri (ben evidenti nel DEF e nella legge di stabilità) di queste politiche italiane ed europee: le privatizzazioni, la precarizzazione del mercato di lavoro, il sostegno agli investimenti privati (con l'assenza degli interventi pubblici) e la riduzione della spesa pubblica. I quattro contro-pilastri di una politica di sinistra dovrebbero essere, all'opposto: la difesa e la valorizzazione dei beni comuni e del patrimonio pubblico; un piano del lavoro fondato sulla dignità ed i diritti delle persone; il ruolo dell'intervento e degli investimenti pubblici; la difesa del welfare e dei diritti. E insieme a questi, una politica di redistribuzione del reddito fondata su una politica di giustizia e progressività fiscale.

Le politiche europee – oltre ad essere profondamente sbagliate – non hanno funzionato e non stanno funzionando: dall'inizio della crisi la disoccupazione è aumentata mediamente di 5 punti ed il debito pubblico nell'eurozona è passato dal 65% al 95% sul PIL. Crescita non ce n'è, stiamo sempre ai confini della deflazione, l'occupazione resta al palo. L'austerità non è la soluzione, è il problema.

Le politiche italiane hanno seguito l'onda europea e anche queste non hanno funzionato: la disoccupazione è arrivata ad oltre il 12%, la capacità produttiva del paese è calata del 25% dall'inizio della crisi i poveri sono diventati oltre 6 milioni di poveri. Nel frattempo Renzi ha dato tutto quello che poteva dare alla Confindustria (abrogazione dell'articolo 18, riduzione dell'Irap, sgravi fiscali, ecc.), ha cancellato i diritti dei lavoratori e ridotto selvaggiamente la spesa sociale.

Altre sono le strade che andrebbero seguite.

Non abbiamo bisogno del Jobs Act (a favore delle imprese e della possibilità di licenziare), ma – come propone Sbilanciamoci – di un Workers Act, fondato sui diritti dei lavoratori e della buona occupazione. Non abbiamo bisogno dello Sblocca Italia (a favore dei petrolieri e dei concessionari di autostrade), ma di un vero Green Act, come sostengono le associazioni ambientaliste. Non abbiamo bisogno della Cattiva Scuola (che dà soldi alle scuole private e trasforma i presidi in datori di lavoro) ma della rigenerazione della scuola pubblica, come chiedono le centinaia di migliaia di studenti ed insegnanti scesi in piazza lo scorso 5 maggio.

Sono tre le mosse immediate- nei prossimi sei mesi- per un “programma minimo” per uscire dalla crisi.

Primo. Bisogna rimettere in discussione i vincoli dei trattati europei, liberando risorse pubbliche per gli investimenti (pubblici). Portando il rapporto deficit-pil al 4% -come in Francia- si possono recuperare almeno 20-25 miliardi da destinare ad un piano del lavoro fondato sugli investimenti pubblici, le “piccole opere” (lotta al dissesto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole) e un Green New Deal capace di alimentare nuove produzioni e consumi. Si tratta di una scelta anche di carattere strategico: bisogna uscire dalla crisi in un modo diverso da quello con cui ci si è entrati, cambiando il modello di sviluppo.

Secondo. Bisogna investire nella scuola, nella ricerca e nell'innovazione e nel welfare – portando gli stanziamenti alla media dei paesi dell'Unione Europea – rispettando gli impegni presi con la strategia “Europa 2020”. Senza investimenti corposi in questa direzione, non solo vengono meno i diritti sociali, ma anche la capacità di darsi una economia di qualità. Vanno stanziati almeno 5 miliardi di euro che si potrebbero recuperare tagliando del 20% la spesa militare, cancellando gli F35 e fermando la folle impresa delle grandi opere, TAV innanzitutto.

Terzo. Serve un grande piano di lotta all'evasione e di misure per la giustizia fiscale finalizzato alla lotta alla povertà. Una piccola patrimoniale del 5 per 1000 sulle ricchezze finanziarie sopra il milione di euro e una autentica Tobin Tax (che colpisca tutti i prodotti e le transazioni finanziarie) potrebbero produrre 10 miliardi di gettito che andrebbero destinati a sostenere i redditi e le pensioni più basse. In questo contesto andrebbero costruite le fondamenta per l'introduzione di un reddito di cittadinanza universale

I soldi per queste tre alternative ci sono. Quella che manca è una visione politica orientata al superamento del paradigma dell'austerità, del modello neoliberista e – nello stesso tempo – la capacità (o la volontà) di liberarsi da un groviglio di interessi subalterno ai mercati finanziari, alle grandi imprese, alle rendite di posizione e monopoliste delle corporazioni di varia provenienza.

Si tratta di costruire allora le gambe di queste proposte alternative nella mobilitazione sociale di tutti i giorni, attraverso un'alleanza tra movimenti, buona politica, protesta sociale per “cambiare rotta” ad un paese che -con le politiche di Renzi- rischia di essere condannato alle diseguaglianze, alla precarietà e alla vittoria degli interessi di pochi. L'esito non è scontato, ma cambiare si può.

La Repubblica, 17 maggio 2015

Accade in tutte le trasmissione televisive che, oltre a diffondere informazioni sui fatti avvenuti in quel giorno, cercano anche di capire e di far capire al pubblico che le ascolta qual è il giudizio che gli italiani danno sui vari protagonisti della vita pubblica del nostro paese. E poiché ormai da molti mesi il protagonista è uno soltanto, la domanda ricorrente è: «Che cosa pensa di Renzi?». Le risposte sono varie ma la domanda è sempre questa, a tal punto ripetuta da essere ormai diventata noiosa anche perché è almeno in parte sbagliata.

Il problema e quindi le domande che debbono esser poste sono: «Che cosa è il popolo italiano? Che cos’è la destra e cos’è la sinistra?».

Questo tema me lo sono posto da tempo e da tempo lo studio; sono infatti domande che hanno radici lontane, storiche, perché un popolo, la sua mentalità, i suoi comportamenti, la sua sensibilità e infine il suo amor di patria (se c’è) non si formano da un giorno all’altro e neppure da un anno all’altro; ci vogliono secoli per farne un popolo che merita d’esser chiamato sovrano; c’è una storia che l’ha scolpito di virtù e di vizi. È un percorso molto complesso.

L’Inghilterra moderna inizia a formarsi con la guida della grande Elisabetta, all’inizio del Seicento; la Francia più o meno nello stesso periodo con Enrico di Borbone e poi con il Re Sole, Luigi XIV; idem la Spagna con Filippo II e la Germania con Carlo d’Asburgo; la Russia con Pietro il Grande e poi con Caterina. Insomma l’Europa moderna nacque sotto il potere assoluto dei monarchi, ma insieme a loro nacque una nobiltà di spada, una magistratura, una borghesia mercantile e culturalizzata.

Tre secoli dopo quella borghesia rovesciò i poteri assoluti e diventò la classe dominante. Ma un secolo dopo anche i lavoratori presero coscienza e nacque il socialismo.

Questa, ridotta in pillole, è stata la storia d’Europa con i suoi pregi e i suoi difetti come avviene sempre e dovunque nella vita di cui la storia è il racconto. E in Italia?

Anche da noi il tema si posse in quello stesso periodo e furono molti a studiarlo e a tentare di risolverlo. In alcune regioni, specialmente in quelle centrali del Paese, tentarono di risolverlo la casata dei Medici, alcuni capitani di ventura che fondarono tiranniche Signorie, la casata dei Borgia, quella dei Farnese, quella dei Della Rovere e insomma un Papato intriso di temporalismo.

Al Sud dominavano gli spagnoli d’Aragona, a Nord i francesi e poi ancora gli spagnoli e infine gli austriaci. Il Piemonte fu per secoli un principato-cuscinetto e in questo modo, con un lavoro assai lungo e tormentato, alla fine diventò indipendente. Non è caso che proprio di lì nacque quel motore che, dopo le cosiddette guerre d’indipendenza, costruì lo Stato d’Italia, proclamato da Cavour nel 1861 pochi mesi prima della sua morte. Il nostro Stato compare sulla scena europea con un ritardo di tre secoli rispetto agli altri. Ritardo che ebbe un’influenza terribilmente negativa, soprattutto per la cultura del bene comune e della partecipazione del popolo (sovrano se lo è) all’andamento della vita pubblica. Fino ai primi del Novecento la massa degli italiani era contadina, lavorava nelle campagne di proprietà dei latifondisti. Figliava e lavorava, si nutriva di fagioli o di polenta, arava, seminava, zappava, potava, per il padrone. Non aveva diritto al voto. Non era popolo, erano plebi e servitù della gleba.

Per sottrarsi a questa situazione di servaggio e di fame, nella seconda metà dell’Ottocento e fino allo scoppio della guerra del 1915 emigrarono 29 milioni di italiani. Giovani soprattutto, in prevalenza dalle terre del Sud, ma non soltanto.

Poi si scatenò la grande guerra, 600 mila morti, un milione i feriti. E molte cose cambiarono, ma il nocciolo del problema rimase e c’è ancora: la profonda diseguaglianza tra il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo, dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di essere comandati.

Non sembri paradossale: ognuno vuole comandare da solo, al proprio livello. Se ad un livello superiore al suo qualcuno vuole il suo appoggio per comandare da solo, io glielo do incondizionatamente, purché io a mia volta sia autorizzato a comandare da solo. E così via, da livelli alti fino ai più bassi. Alla base c’è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di comando perché è plebe. Ne hai bisogno però in un’epoca di diritti generali. Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo. Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più.

Questa, a guardarla e studiarla senza occhiali scuri che ti falsino la vista, è la situazione. Se fosse diversa non saremmo in testa nelle classifiche della corruzione e in coda in quelle dell’efficienza e della produttività.

* * *

Queste cose del resto le avevano già viste e studiate Machiavelli e Guicciardini cinquecento anni fa. Se vi andate a rileggere Il Principe di ser Niccolò e le Storie del Guicciardini, la descrizione del popolo italiano sembra scritta oggi nella sua essenza etico-politica. Machiavelli sperava che, mettendocela tutta, quel popolo sarebbe cresciuto. Guicciardini invece pensava di no. Purtroppo aveva ragione.

Anche Mazzini sperava. Cavour no. Ma lo Stato unitario lo fece Cavour. Mazzini avrebbe voluto uno Stato repubblicano creato dal basso, dalle rivoluzioni popolari. Cavour quello Stato lo conquistò; si avvalse anche di Garibaldi che la pensava come Mazzini ma non fu il popolo contadino a farlo trionfare nel Sud, furono i suoi volontari, quasi tutti del Nord, a farlo vincere a Calatafimi, a Marsala e sul Volturno. Con Mazzini nella rivoluzione di Roma del 1849 aveva perso contro i francesi a porta San Pancrazio sul Gianicolo. A Calatafimi vinse con l’appoggio indiretto di Cavour, ma quando tentò da solo di conquistare Roma partendo dalla Calabria, il governo italiano lo fermò (e lo ferì) sull’Aspromonte. Andate a rileggervi il Gattopardo o a rivederne il film di Visconti. Il nucleo essenziale della storia d’Italia (democratica?) è tutto lì.

* * *

Due articoli pubblicati sull’ultimo numero de l’Espresso mi hanno molto colpito. Uno è la Bustina di Minerva di Umberto Eco e racconta l’aneddoto di una signora che, parlando della sinistra italiana, si rallegra per una vittoria elettorale del Pd e dice al suo interlocutore: «Che bellezza, abbiamo vinto ed ora possiamo fare un’opposizione coi fiocchi!». Dal che Eco deduce che la sinistra ha nel sangue il suo compito di opposizione per non mescolarsi con il potere corruttore. La sinistra ha una sua vocazione morale prima ancora che politica e se il suo partito vince e cede alla tentazione del potere, allora molti dei suoi militanti l’abbandonano e ne fanno un altro più radicale (come sta accadendo oggi nel Pd).

L’altro articolo è del direttore de l’Espresso, Luigi Vicinanza, che considera le vicende della destra di Berlusconi che per vent’anni l’ha guidata ed oggi che è allo sfascio pretende ancora di guidarla.

Secondo Vicinanza quella destra italiana, quand’anche si presenti come moderata e liberale, ha sempre voluto governare a qualunque costo e con qualunque tipo di alleanza con lobby di varia natura, allo scopo di tutelare e rafforzare gli interessi aziendali del Capo nonché delle lobby e delle varie clientele alleate. Questa essendo la natura della destra berlusconiana, la visione del bene comune è sempre finita sotto i piedi e gli interessi particolari hanno avuto la netta prevalenza.

Riassumendo: una sinistra che dà la prevalenza alla questione morale ed ha la vocazione dell’opposizione; una destra che si mette il bene comune sotto i piedi e tutela gli interessi privati. Con la conseguenza che un sistema bipolare diventa inesistente e il partito che spregiudicamente ottiene la maggioranza si colloca al centro e riduce le ali a una poltiglia.

È appunto quanto sta accadendo. Queste cose noi le scriviamo da un pezzo e direi che siamo il solo giornale a dirle in modo compiuto e argomentato. Anche sul Corriere della Sera talvolta affiorano diagnosi analoghe. Ricordo un de Bortoli, già dimissionario, che ha chiarito la natura del partito renziano con parole poco riguardose e cito un articolo di venerdì scorso di Gian Antonio Stella che scrive così: «Come è possibile che dopo tante denunce, inchieste e condanne, tante promesse e assicurazioni di rottamatori più o meno improvvisati, tutti i partiti sono alle prese con cacicchi locali, arroccati nei loro feudi e ben decisi a far pesare le loro rendite di posizione? Accade dappertutto, dalla Campania alla Liguria, alle Marche e soprattutto nel Pd dove la Bindi ha aperto un’inchiesta dell’antimafia sui candidati “discutibili” delle liste sulle quali si voterà il prossimo 31 giugno».

Dopo questo ampio quadro di storia passata e contemporanea, posso rispondere alla domanda su Renzi: è uno dei pochi che sa convincere e sa tradurre in fatto politico il consenso ottenuto. Guida un partito di centrosinistra che cerca di prendere voti al centro, al punto tale che ormai è diventato un partito di centro dove lui decide e lui comanda. E fin qui nulla da dire, salvo due osservazioni. La prima: la sua legge elettorale ha organizzato benissimo il potere decisionale della maggioranza, cioè di lui che è il capo del partito ed anche del governo, ma ha completamente dimenticato l’elemento della rappresentanza che non è presente in un partito di “nominati”, i quali non sono soltanto i 100 capolista, ma 200 perché si presentano in tre circoscrizioni e se risultano eletti in più di una optano lasciando il posto a chi viene dopo nella lista, che è stato anche lui scelto centralmente. La seconda: l’abolizione del Senato, come già scritto infinite volte, indebolisce ulteriormente il potere legislativo a vantaggio di un esecutivo che si concentra nelle mani di un capo che comanda da solo. In questo modo si passa da una democrazia parlamentare ad una democrazia esecutiva, che è cosa del tutto diversa e sommamente pericolosa in un paese come il nostro. Mazzini avrebbe deprecato. Garibaldi si sarebbe ribellato. Machiavelli ne avrebbe avuto il cuore infranto. Guicciardini avrebbe avuto ragione.

Il paese è fatto così. Un governo autoritario gli piace. Renzi dovrà dunque combattere contro questo paese che lo vuole al potere da solo purché si ricordi di chi gliel’ha regalato. Ce la farà a tenersi alla larga da questa po’ po’ di tentazione? Dovrebbe avere come esempio papa Francesco, ma personalmente ne dubito molto. È uno scout e Crozza lo descrive meglio di tutti.

Il manifesto, 17 maggio 2015

Al Largo del Naza­reno sulla Toscana sono tran­quilli. Anche gra­zie alla con­te­stata legge elet­to­rale che asse­gna un’ampia mag­gio­ranza di con­si­glieri regio­nali (da 23 a 26 su 40 com­ples­sivi) alla lista/coalizione che supera il 40%, i ver­tici locali del Pd si pre­pa­rano a vin­cere. La loro unica inco­gnita è quella legata alle rein­tro­dotte pre­fe­renze, che in alcuni casi potreb­bero pre­miare alcuni can­di­dati dem non ancora con­ver­titi del tutto al verbo ren­ziano. O addi­rit­tura, gra­zie al voto disgiunto presidente/lista, auten­tici avver­sari. Soprat­tutto in quelle zone – l’area livor­nese e in gene­rale la fascia costiera set­ten­trio­nale – dove più forte batte la crisi. O dove, come nella Piana fio­ren­tina e pra­tese, le scelte poli­ti­che del tan­dem Renzi-Rossi, dal nuovo aero­porto inter­con­ti­nen­tale di Pere­tola al maxi ince­ne­ri­tore di Case Pas­se­rini, non ces­sano di ali­men­tare una oppo­si­zione popo­lare tenace. Sem­pre più radi­cata, e per nulla inten­zio­nata a smo­bi­li­tare all’indomani del voto.

L’ennesima riprova della con­cla­mata frat­tura fra il Pd e uno suo sto­rico bacino elet­to­rale è arri­vata nei giorni scorsi, quando il movi­mento delle “mamme no ince­ne­ri­tore” della Piana ha orga­niz­zato a Firenze una affol­lata assem­blea infor­ma­tiva con i can­di­dati. Diser­tata da Enrico Rossi e dai sin­daci Pd della zona, la serata ha pre­miato la sini­stra toscana del Sì, gra­zie alla ricon­fer­mata com­pe­tenza di un can­di­dato ade­guato come Tom­maso Fat­tori. In misura minore anche il M5S, che però è stato inve­stito da espul­sioni e divi­sioni interne, oltre che dalla man­canza di un effet­tivo radi­ca­mento sociale.

Radi­cata in Toscana è invece la Cgil, che con il suo mezzo milione di iscritti potrebbe rap­pre­sen­tare un fat­tore di forte rischio per le spe­ranze del Pd di chiu­dere la par­tita senza discus­sioni. Non sono sol­tanto le cate­go­rie più cri­ti­che verso le poli­ti­che gover­na­tive – dalla Fiom alla Fun­zione pub­blica, fino alla Flc di scuola e uni­ver­sità – a dare segnali di aperta con­tra­rietà alla poli­ti­che del governo. C’è anche un lavo­rìo nem­meno troppo sot­ter­ra­neo della sini­stra sin­da­cale, che trova con­ferma nella mobi­li­ta­zione dei dele­gati di base in mol­tis­simi luo­ghi di lavoro.

La situa­zione eco­no­mica del resto è tutto fuori che rosea. Anche in Toscana la crisi ha col­pito duris­simo. E per una ver­tenza in via di lenta riso­lu­zione come alle Accia­ie­rie di Piom­bino, ce ne sono due o tre che si aprono. Ultime di una lun­ghis­sima lista quella della Smith di Saline di Vol­terra (scal­pelli tri-conici per la per­fo­ra­zione legata agli idro­car­buri), con la mul­ti­na­zio­nale Schlum­ber­ger che chiude lo sto­rico sito indu­striale e licen­zia 200 addetti diretti (più l’indotto). Poi il call cen­ter Peo­ple Care di Gua­sticce alle porte di Livorno, che chiude a fine mese, e con almeno 300 addetti appesi a un filo.

Il tema del lavoro che non c’è, o è pre­ca­rio e mal­pa­gato, tiene banco. Del resto una recen­tis­sima ricerca del con­fin­du­striale Sole 24Ore segnala come il lavoro, la disoc­cu­pa­zione e il pre­ca­riato siano l’unica vera pre­oc­cu­pa­zione degli ita­liani con quasi il 63%. Segue l’immigrazione, con un mise­re­vole 6%. Ebbene, l’ultima ana­lisi con­giun­tu­rale di Cgil e Ires per la Toscana rileva una pic­cola cre­scita del lavoro sta­bile, gra­zie agli incen­tivi. Ma a marzo c’è stato un calo degli avvia­menti sul 2014, nono­stante il jobs act. Inol­tre cre­scono i licen­zia­menti, e la pro­du­zione indu­striale batte ancora in testa (nel com­plesso 25 punti sotto il 2007). Soprat­tutto aumen­tano gli iscritti ai cen­tri per l’impiego di per­sone in cerca di lavoro. In que­sti primi mesi del 2015 sono ben 595.048 (563.201 nello stesso periodo del 2014), in una regione dove i mag­gio­renni (e votanti) sono 3 milioni scarsi. A riprova, il tasso di atti­vità, dato più signi­fi­ca­tivo di quello di disoc­cu­pa­zione, è sta­bile intorno al 63,4% dei toscani in età da lavoro. Sono meno di due su tre.

Sette sono i can­di­dati pre­si­denti (Enrico Rossi per Pd e i cen­tri­sti di Popolo toscano, Tom­maso Fat­tori per Sì Toscana a Sini­stra, Clau­dio Bor­ghi di Lega e FdI, Gia­como Gian­na­relli del M5S, Gianni Lamioni per Ncd e Udc di Pas­sione toscana, Ste­fano Mugnai di Forza Ita­lia, e Gabriele Chiurli di Demo­cra­zia diretta). Fin d’ora appare certo che l’affluenza sarà bassa. Anche per­ché per il Pd ren­ziano, almeno in Toscana, appare dif­fi­cile ere­di­tare il con­senso dei ber­lu­sco­niani, e di quella mino­ranza silen­ziosa che si mobi­lita solo nei casi di estrema pola­riz­za­zione. All’inverso, nota ad esem­pio Tom­maso Fat­tori, “il governo Renzi è riu­scito in un mira­colo. È riu­scito a riu­nire tutti i sin­da­cati degli inse­gnanti, tutte le asso­cia­zioni degli stu­denti, il per­so­nale tecnico-amministrativo, i geni­tori. Uniti nel con­te­stare la con­tro­ri­forma di Renzi e Gian­nini”. E quello della scuola non è certo un tema isolato.

La Repubblica, 16 maggio 2015

AMO Trouble in Paradise , la vecchia commedia di Lubitsch. Per questo prendo in prestito il suo titolo. Il “paradiso”, nel mio caso, si riferisce alla Fine della Storia di Francis Fukuyama (il capitalismo liberal-democratico come il migliore degli ordini sociali possibili) e il “guaio” è, naturalmente, l’attuale crisi, che ha costretto perfino lo stesso Fukuyama a rivedere le sue posizioni. La Corea divisa non è forse l’espressione più chiara, quasi clinica, della crisi in cui siamo precipitati dopo la fine della Guerra fredda? Da una parte, la Corea del Nord incarna il vicolo cieco del progetto comunista del ventesimo secolo; dall’altra, la Corea del Sud è al centro di uno sviluppo capitalistico impetuoso che l’ha portata a livelli strepitosi di prosperità e modernizzazione tecnologica (Samsung sta minacciando perfino il primato di Apple).

In Europa, la modernizzazione è avvenuta in un arco temporale di secoli, e dunque è stato possibile adattarsi alla stessa, ammorbidire il suo impatto dirompente, attraverso il Kulturarbeit, vale a dire la formazione di nuove narrazioni e miti sociali; in altri contesti invece – in modo esemplare nelle società musulmane – l’impatto della modernizzazione è stato diretto, senza schermi o differimenti, determinando il collasso del loro universo simbolico: queste società hanno perso il loro fondamento (simbolico) senza avere il tempo di stabilire un nuovo equilibrio (simbolico). Non stupisce allora che, in alcuni casi, sia stato necessario levare lo scudo del “fondamentalismo”, la riaffermazione psicotico-delirante- incestuosa della religione quale accesso diretto al Reale divino; il che ha prodotto effetti disastrosi, in particolare la rivincita dell’oscena divinità superegotica che esige tributi di sangue. Il dominio del Super-io è uno degli aspetti che accomuna la permissività postmoderna e il nuovo fondamentalismo. Ciò che li distingue è il luogo del godimento: nel primo caso, a dover godere siamo noi; nel fondamentalismo, a godere è Dio.

Forse il simbolo supremo della devastata Corea post-storica è l’evento musicale dell’estate 2012: Gangnam Style di Psy. Il video di questo brano è il più visto di tutti i tempi, dopo aver superato, su YouTube, il numero di visualizzazioni di Beauty and a Beat di Justin Bieber. Il 21 dicembre 2012, giorno in cui chi dava credito alle predizioni del calendario maya si attendeva la fine del mondo, Gangnam Style ha raggiunto il numero magico di un miliardo di visualizzazioni. È probabile allora che gli antichi Maya avessero ragione: ciò èeffettivamente il segno del collasso di una civiltà. Il testo della canzone e l’allestimento scenico del video si prendono gioco dell’insensatezza e della vacuità dello Gangnam Style (secondo alcuni, con intento sottilmente rivoluzionario); malgrado questo, è difficile non farsi catturare dal demenziale ritmo da marcetta, riprodurlo in modo puramente mimetico. Il Gangnam Style è un prodotto ideologico in virtù della distanza ironica che stabilisce con il suo contenuto. Molti spettatori trovano la canzone disgustosamente seducente, e cioè «amano odiarla», o, piuttosto, amano trovarla ripugnante, e così la ascoltano ripetutamente per prolungare il disgusto – questa natura compulsiva dell’oscena jouissance è ciò da cui la vera arte dovrebbe liberarci. Ma non dovremmo allora osare un parallelo tra un concerto di Psy in un grande stadio di Seul e gli spettacoli allestiti non molto lontano, oltre la frontiera, a Pyongyang, per celebrare gli amati leader nordcoreani? In entrambi i casi, non siamo forse di fronte a rituali neosacri indirizzati a una jouissance oscena?

Si potrebbe ritenere che in Corea, come altrove, sopravvivano numerose forme di saggezza tradizionale in grado di mitigare l’impatto traumatico della modernizzazione. Tuttavia, è facile riconoscere come queste vestigia della tradizione siano già state trans-funzionalizzate, tradotte in strumenti ideologici volti ad accelerare la modernizzazione stessa. Questa impressione trova conferma nella cosiddetta spiritualità orientale (il buddhismo), che invita a stabilire un rapporto più “gentile”, equilibrato, olistico ed ecologico con il mondo. Non basta affermare che il buddhismo occidentale – questo fenomeno pop che predica l’indifferenza verso le frenetiche e competitive dinamiche del mercato – è verosimilmente la via più efficace per prendere parte alla società capitalistica preservando l’apparenza della salute mentale (in breve, che è l’ideologia paradigmatica del tardo capitalismo); occorre anche aggiungere che non è più possibile contrapporre questo buddhismo occidentale alla sua “autentica” versione orientale.

La mia analisi sembra essere confermata da Propaganda, un documentario del 2012 (facilmente reperibile in rete) sul capitalismo, l’imperialismo e la mercificazione della cultura di massa in Occidente, in particolare sugli effetti pervasivi di questi fattori in ogni aspetto della vita delle moltitudini beatamente istupidite e zombificate. Si tratta di un mockumentary, una parodia che finge di essere nordcoreana, mentre in realtà è stata girata da un gruppo di neozelandesi. Vengono illustrati l’uso della paura e della religione per manipolare le masse e il ruolo dei media nel distogliere l’attenzione dai problemi cruciali attraverso una varietà di diversivi. Uno dei pregi del film è il modo in cui demolisce il culto della celebrità: affermando che Madonna o Brad e Angelina «vanno a fare shopping di bambini nei paesi del Terzo mondo »; analizzando l’ossessione occidentale per la vita “glamour” dei vip e l’individualismo, unitamente all’indifferenza per le condizioni di vita dei senzatetto e in generale di chi soffre; raffigurando i vip come strumenti di mercificazione, anche inconsapevoli, ruolo che spesso li conduce sull’orlo della follia – tutto questo è trattato in modo talmente puntuale da risultare spaventoso: è il mondo attorno a noi. Il documentario, in particolare la parte dedicata a Michael Jackson – uno sguardo su «cosa ha fatto l’America a quest’uomo» –, sa raccontare verità difficili da digerire.

Se cancellassimo quegli spezzoni in cui si esalta la saggezza del grande e amato leader ecc., Propaganda verrebbe a coincidere con una classica critica del consumismo, della mercificazione e della Kulturindustrie – specificamente nello stile del marxismo occidentale della Scuola di Francoforte. Ma si deve prestare attenzione a un’avvertenza all’inizio del film: la voce narrante rivela agli spettatori che, per quanto ciò che vedranno potrebbe imbarazzarli e scioccarli, il grande e amato Leader confida sul fatto che siano abbastanza maturi da sopportare l’orribile verità sul mondo esterno – parole che un’autorità benevola, protettrice e materna userebbe per comunicare a un bambino un evento spiacevole.

Per comprendere lo speciale status ideologico della Corea del Nord non possiamo evitare di chiamare in causa la mitica Shangri-la del romanzo di James Hilton Orizzonte perduto: una valle tibetana in cui la gente conduce una vita modesta ma felice, totalmente isolata dalla corrotta civiltà globale e sotto il comando benevolo di una élite erudita. La Corea del Nord è quanto di più simile a Shangri-la ci sia nel mondo reale. Nonostante la loro distanza abissale, la Corea del Nord e del Sud condividono una caratteristica di fondo: sono entrambe società post-patriarcali. Se il film Propaganda riesce a mostrare verità indigeribili, non è semplicemente a causa del fatto che un ingenuo sguardo straniero è in grado di cogliere aspetti nella nostra cultura che noi stessi, dato che vi siamo immersi, ignoriamo, ma piuttosto perché la radicale opposizione tra Corea del Nord e del Sud è sostenuta da un’identità di fondo segnalata dal titolo del film: si tratta di due forme estreme di atemporalità, di sospensione della storicità vera e propria.

La Repubblica, 16 maggio 2015

«Vuole la verità? Il nuovo cda sarà eletto quasi certamente con la legge Gasparri». Così sostiene Corradino Mineo, senatore critico del Pd.

Perché prevede che finirà così, Mineo?
«Mi sembra che si vada in questa direzione. E d’altra parte la riforma pensata dal governo è una legge Gasparri con poteri ancora maggiori attribuiti all’amministratore delegato di nomina governativa. E continuerà lo spoil system ».

Cosa c’è che non va nella riforma?
«Oggi dovresti dare alla Rai più autonomia dal governo. Dovresti garantire all’azienda il tempo di costruire una vera politica culturale. La riforma della Rai pensata da Renzi, invece, attribuisce ancora più potere all’esecutivo. Sotto questo aspetto, peggiora persino la legge Gasparri».

Lei pensa che il ritardo della riforma sia dovuto alla volontà del premier di mantenere la lottizzazione?
«Guardi, per Renzi forse è meglio nominare il cda con la Gasparri. Ma in ogni caso, con la riforma o senza, il governo manterrà il controllo assoluto della Rai. E poi…».

Dica.
«Matteo ha un progetto rivoluzionario, sul quale non sono d’accordo. Lui pensa che tutte le riforme – quella della Rai, della pubblica amministrazione, della scuola, del fisco, del lavoro – debbano essere delle deleghe totali al governo. Il quale governo si riassume in una persona, il premier eletto con un ballottaggio che esercita il controllo militarizzato sull’unica Camera rimasta. Lui ritiene che solo così, con un uomo solo, si salvi l’Italia. Io penso di no».

Lei come salverebbe la tv pubblica?
«Negli ultimi venticinque anni c’era il duopolio Rai-Mediaset. Ecco, devi innanzitutto pensare a una riforma complessiva di tutto il sistema, non solo di viale Mazzini. E poi scusi, oggi ci sono tre Rai: una di servizio, quella commerciale di Rai1, e quella delle Regioni. Tutte e tre non si reggono, almeno separiamo le funzioni in modo che si sappia cosa si spende, per che cosa e che prodotto si offre ai cittadini ».

E invece Renzi?
«Temo che voglia usarla come uno strumento di potere. Per esempio sarebbe molto popolare abolire o ridurre drasticamente il canone, ma così le tre Rai fallirebbero. Oppure può essere utile togliere il tetto pubblicitario alla Rai, danneggiando le tv di Berlusconi per indurlo così a tornare al tavolo del Nazareno...»

Ricorderete sicuramente le lezioni televisive Rai del maestro Alberto Manzi nell’Italia del dopo guerra per insegnare a milioni d’italiani, ancora analfabeti, a leggere e scrivere. Una grande lezione di pedagogia popolare: Manzi aveva un approccio pedagogico del rispetto nel modo di comunicare con i suoi interlocutori che erano operai, contadini, casalinghe… ; sempre preoccupato di non ferire la dignità dell’altro. La sua era una pedagogia della valorizzazione e dell’emancipazione umana. Su questa scia l’Italia vivrà anche una stagione pedagogico-culturale intensa con le figure di Gianni Rodari, Bruno Ciari, Mario Lodi, Ernesto Codignola e Raffaele Laporta: la stagione dell’educazione concepita come processo di formazione dell’uomo e del cittadino, di garanzia delle eguali opportunità per tutti di fronte all’istruzione.

Mercoledì il primo ministro si è presentato con un video messaggio agli insegnanti (già qualcuno prima di lui usava molto i video-messaggi…) nella postura dell’insegnante che fa la lezione, ma un insegnante molto diverso da quello che proponeva a suo tempo Alberto Manzi: l’atteggiamento era quello del one man show, delle dichiarazioni perentorie che bisogna credere per forza, del trasmettitore di verità non discutibili e dove l’insegnante che ascolta la lezione viene trattato come l’alunno deposito del sapere del maestro.

L’idea di scuola che ha questo governo e il suo capo è stata bene illustrata dall’impostazione comunicativa e dallo stile pedagogico del venditore dove c’è chi vende un prodotto (pure se raccontando menzogne e dicendo cose vuote e contraddittorie), chi decide qual è il buon apprendimento e chi deve essere sedotto, invogliato, ascolta passivamente sentendosi spesso trattato da imbecille, e si trova nella posizione del soggetto passivo che deve restare in estasi davanti all’immenso sapere e la forza mediatica del maestro padrone.

La Scuola di Palo Alto, i lavori di Paul Watzlawick sulla pragmatica della comunicazione, gli studi di Pierre Bourdieu sulla violenza simbolica nello spazio mediatico che funziona come spazio simbolico manipolativo, i lavori della psicologia delle rappresentazioni nonché tutte le elaborazioni delle pedagogie attive sulle forme dei processi formativi ci hanno dimostrato che la forma della comunicazione è contenuto e sostanza. Allora quale è il contenuto pedagogico della forma comunicativa del maestro Renzi? Quella di una pedagogia del disprezzo, del televenditore e della svalutazione della figura docente considerata come analfabeta e problematica, esattamente come i cosiddetti alunni con Bisogni educativi speciali (Bes) che devono essere rieducati e adattati al contesto a causa dei loro comportamenti problema. Per loro ci vuole un trattamento personalizzato: quello dell’addestramento continuo alle sante parole e all’ideologia neoliberista del nuovo corso politico-culturale.

Il manifesto, 16 maggio 2015
Per ora l’unica cosa certa è che biso­gna aspet­tare che dall’Onu arrivi la riso­lu­zione che darà il via libera alla mis­sione euro­pea con­tro gli sca­fi­sti ma soprat­tutto che met­terà final­mente fine al dilu­vio di dichia­ra­zioni con­tra­stanti tra loro dei vari mini­stri ita­liani. Dopo il tito­lare degli Interni Alfano, che due giorni fa ha par­lato di «azioni mirate in Libia», ieri i suoi col­le­ghi Gen­ti­loni (Esteri) e Pinotti (Difesa) hanno negato che un solo sol­dato met­terà piede sul suolo libico (ma entrambi in pas­sato si sono detti pronti all’intervento). Intanto da New York arri­vano le prime indi­scre­zioni su quella che potrebbe essere la bozza defi­ni­tiva della riso­lu­zione e che,s e con­fer­mata, smen­ti­rebbe a sua volta i respon­sa­bili della Difesa e della Farnesina.

Il testo anti­ci­pato ieri parla della pos­si­bi­lità per le navi che pren­de­ranno parte alla mis­sione di ope­rare con­tro gli sca­fi­sti sia in acque inter­na­zio­nali, che in acque ter­ri­to­riali libi­che, ma anche nei porti di par­tenza dei bar­coni. Una via libera, quindi, alla pos­si­bi­lità di col­pire le imbarcazioni.

E’ chiaro che gli ultimi due punti, oltre a richie­dere un espli­cito man­dato da parte della Nazioni unite, impli­cano uno scon­tro con le varie fazioni che oggi si divi­dono la Libia. A par­tire del governo di Tri­poli, quello più diret­ta­mente inte­res­sati visto che la stra­grande mag­gio­ranza degli sca­fi­sti pren­dono il via dalle sue coste.

Il testo non avrebbe incon­trato par­ti­co­lari resi­stenze da parte della Rus­sia che però, al pari degli ame­ri­can, pre­fe­ri­reb­bero met­tere in chiaro che la mis­sione è limi­tata al solo con­tra­sto dei traf­fi­canti di uomini, Una pre­oc­cu­pa­zione volta a impe­dire che una volta ini­ziato, si vada oltre il solo con­tra­sto delle orga­niz­za­zioni cri­mi­nali che gesti­scono il traf­fico di esseri umani. «Non c’è nes­suna inten­zione di andare in Libia a inter­ve­nire», ha detto ieri la Pinotti. «C’è il pro­blema di evi­tare che gli sca­fi­sti pos­sano lucrare, in modo amplis­simo sulla tra­ge­dia di que­ste per­sone. C’è biso­gno di fare que­sto, le solu­zioni ver­ranno poi trovate».

Dall’Onu però intanto arri­vano le con­si­de­ra­zioni per le deci­sioni prese dalla Com­mis­sione euro­pea riguardo al rein­se­dia­mento dei pro­fu­ghi,. Il rela­tore per i diritti umani dei migranti, Fran­cois Crè­peau, pur apprez­zando la linea scelta l’ha però giu­di­cata «ina­de­guata». «Il numero di 20 mila posti di rein­se­dia­mento appare asso­lu­ta­mente insuf­fi­ciente», si legge in una nota.

Per l’esperto non si tratta di una rispo­sta ade­guata alla crisi attuale, che nel 2014 ha visto oltre 200.000 migranti –la mag­gior parte dei quali richie­denti asilo –giun­gere in Europa via mare. «Per gli oltre 500 milioni di abi­tanti dell’Ue — ha con­cluso — 20 mila per­sone rap­pre­sen­tano lo 0,00004% della popolazione».

che: mura sempre più alte, e cannoni capaci di sparare sempre meglio. Il manifesto, 14 maggio

Se non fosse tra­gica l’immagine che Renzi e Mister Pesc Moghe­rini danno di sé sul dramma dei migranti e sull’ enne­simo inter­vento mili­tare in Libia, diremmo che ricor­dano «Oltre il giardino».

La dif­fe­renza è che nel film il pro­ta­go­ni­sta era sim­pa­tico, per l’interpretazione di Peter Sel­lers e la trama di frain­ten­di­menti che fanno di uno sprov­ve­duto un pro­feta della finanza e un modello di vita.

Renzi e Moghe­rini sfio­rano invece il ridi­colo, per un governo ita­liano che si vende — per i son­daggi, le ele­zioni o un twit­ter? — l’incredibile «non deci­sione» dell’Ue di ripar­tire le quote dei migranti fra i 28 Paesi mem­bri: in tutto 20 mila e già pre­senti nei campi, per un costo di 50milioni di euro. Sarebbe que­sta la svolta di una Unione euro­pea chiusa den­tro la for­tezza del Pil più bello d’Occidente? Eppure il pre­si­dente Junc­ker aveva rico­no­sciuto «l’errore di can­cel­lare l’operazione Mare Nostrum». Ma a guar­dar bene il «gran­dioso» annun­cio altro non è che pura chiacchiera.

Per­ché i 28 paesi dell’Ue nono­stante la meschi­nità della pro­po­sta, sono divisi: mezza Europa con in testa la Gran Bre­ta­gna dice no alle quote, come tutti i paesi dell’Est.

Ma il piatto forte è che, a fronte di que­sto vuoto dopo migliaia di morti nel Medi­ter­ra­neo, avanza la pro­po­sta di una nuova guerra come solu­zione defi­ni­tiva. E gra­zie a The Guar­dian che ha rac­con­tato le 19 pagine del piano «stra­te­gico» pre­sen­tato da Moghe­rini all’Onu, ecco la con­ferma: l’obiettivo sono gli «scafisti».

Se milioni di esseri umani fug­gono dalle guerre e dalla mise­ria delle quali siamo par­te­cipi inte­res­sati, il nodo di fondo pos­sono mai essere gli sca­fi­sti, che certo gestendo un traf­fico mala­vi­toso, pur­troppo sono i soli a cor­ri­spon­dere a que­sto dispe­rato biso­gno di fuga?

Nero su bianco, sta scritto che faremo la guerra con una «vasta gamma di capa­cità aeree, marit­time e ter­re­stri» con «intel­li­gence, sor­ve­glianza e rico­gni­zione bom­bar­da­menti, squa­dre d’imbarco, unità di pat­tu­glia, forze spe­ciali». Pre­vi­ste anche «vit­time innocenti».

Una guerra da mare, cielo e terra con effetti collaterali. Che sarà «da terra» Moghe­rini lo smen­ti­sce, ma pare con­fer­mato visto che Cina e Rus­sia agi­tano il veto in sede Onu sui raid aerei, man­cando, finora, l’accordo con il Paese inte­res­sato; stessa que­stione per l’intervento via mare che entrerà nelle acque ter­ri­to­riali libiche

«Riforme. Ottenuto l’Italicum, il segretario del Pd ritira la sua offerta alle minoranze. E Civati presenta i referendum che potrebbero smontare la nuova legge elettorale. Contro i pluricandidati che "turbano" Prodi». Il manifesto, 13 maggio 2015


«A me sem­bra molto com­pli­cato tor­nare all’eleggibilità del senato, sia da un punto di vista tec­nico che poli­tico. L’articolo due della riforma sostan­zial­mente è chiuso». Così diceva ieri mat­tina Mat­teo Renzi. Ed era lo stesso che un mese fa assi­cu­rava: «Cam­biare la riforma costi­tu­zio­nale? Tor­nare al senato elet­tivo? Per me si può fare». Anche il suo inter­vi­sta­tore era lo stesso, il gior­na­li­sta di Repub­blica Clau­dio Tito — allora su carta, ieri in video. Cos’è cam­biato nel frat­tempo? Il primo Renzi, quello di un mese fa, parla alla vigi­lia del voto finale sull’Italicum. «Il lea­der del Pd gioca la carta della trat­ta­tiva sulla riforma costi­tu­zio­nale», è la sin­tesi del gior­nale amico. Nel frat­tempo il voto c’è stato, qual­cuno ha cre­duto alla pro­messa e i dis­sensi non sono bastati a fer­mare la nuova legge elettorale.
Il para­dosso è che ha più ragione il Renzi di oggi che quello di metà aprile. Come sanno bene i depu­tati della mino­ranza Pd che ave­vano pro­vato a cam­biare l’articolo 2 della riforma costi­tu­zio­nale, ma erano stati bat­tuti (da un contro-emendamento del futuro capo­gruppo Rosato) pro­prio per­ché al governo inte­res­sava appro­vare la legge in un testo «blin­dato», non più modi­fi­ca­bile al senato. A que­sto punto un ripen­sa­mento sull’eleggibilità dei sena­tori, per quanto auspi­ca­bile, dovrebbe poter con­tare su un’interpretazione disin­volta del rego­la­mento da parte del pre­si­dente Grasso. Che non è impos­si­bile, come dimo­strano i pre­ce­denti dei «can­guri», tutti però con­so­nanti ai desi­deri del governo. La con­tra­rietà del pre­si­dente del Con­si­glio fa pen­sare che quella strada debba con­si­de­rarsi chiusa.

Anche il piano B che Renzi e i ren­ziani stanno offrendo ai soste­ni­tori del senato elet­tivo può risol­versi in una falsa pro­messa. Dicono che, blin­data la riforma, si potrà agire sulla legge attua­tiva, quella che a regime det­terà le regole per la sele­zione dei nuovi sena­tori da parte dei con­si­gli regio­nali. La pro­po­sta è quella di ren­dere rico­no­sci­bili i consiglieri-senatori già nel corso delle ele­zioni regio­nali, o in alter­na­tiva di pre­miare i più votati. Ma c’è un pro­blema: il nuovo senato sarà organo per­pe­tuo, che si rin­nova senza pas­sare per lo scio­gli­mento. L’eventuale nuova legge si appli­che­rebbe dalle ele­zioni regio­nali del 2020 e prima di allora (e anche dopo) dovreb­bero coe­si­stere sena­tori con due diverse legit­ti­ma­zioni.

La con­fu­sione è pro­ba­bil­mente un indice delle dif­fi­coltà che Renzi vede davanti a sé, dal momento che al senato la mag­gio­ranza può con­tare su un van­tag­gio assai ristretto. È vero che Forza Ita­lia è ormai ter­reno di con­qui­sta, ma dall’altra parte si pre­senta deter­mi­nata la pat­tu­glia di venti sena­tori dis­si­denti del Pd. Renzi mette già in conto qual­che modi­fica alla riforma costi­tu­zio­nale (magari le stesse che alla camera è stato impos­si­bile discu­tere), pur­ché il per­corso della revi­sione sia com­ple­tato entro quest’anno. Eppure ieri ha voluto pre­ci­sare che «l’Italicum è effi­cace anche senza riforma costi­tu­zio­nale» — quindi anche se il senato rimarrà elet­tivo — mal­grado si tratti di una legge elet­to­rale riser­vata alla sola camera.

Ita­li­cum che è stato pub­bli­cato in Gaz­zetta uffi­ciale, ma che sarà valido, –per la «clau­sola di sal­va­guar­dia» — solo dal luglio 2016. I suoi avver­sari nel frat­tempo si orga­niz­zano e Pippo Civati pre­sen­terà oggi due que­siti refe­ren­dari con i quali si pos­sono smon­tare alcuni degli aspetti più cri­tici della legge: i capi­li­sta bloc­cati e le plu­ri­can­di­da­ture; «aspetti che tur­bano», ha detto ieri Romano Prodi, per­ché «in que­sto modo si gesti­scono dall’alto un numero rile­van­tis­simo di par­la­men­tari». Con il refe­ren­dum si potrebbe anche pen­sare di far cadere il turno di bal­lot­tag­gio, tra­sfor­mando così l’Italicum in una legge pro­por­zio­nale nel caso nes­suna lista rag­giun­gesse il 40%, soglia pre­vi­sta per il pre­mio di mag­gio­ranza. Ma sono aspetti che andranno appro­fon­diti, dal momento che la giu­ri­spru­denza della Corte costi­tu­zio­nale in mate­ria di refe­ren­dum elet­to­rali è assai rigo­rosa. Non si può rischiare di rac­co­gliere le firme invano.Riforme. Ottenuto l’Italicum, il segretario del Pd ritira la sua offerta alle minoranze. E Civati presenta i referendum che potrebbero smontare la nuova legge elettorale. Contro i pluri candidati che †turbano» Prodi

«A me sem­bra molto com­pli­cato tor­nare all’eleggibilità del senato, sia da un punto di vista tec­nico che poli­tico. L’articolo due della riforma sostan­zial­mente è chiuso». Così diceva ieri mat­tina Mat­teo Renzi. Ed era lo stesso che un mese fa assi­cu­rava: «Cam­biare la riforma costi­tu­zio­nale? Tor­nare al senato elet­tivo? Per me si può fare». Anche il suo inter­vi­sta­tore era lo stesso, il gior­na­li­sta di Repub­blica Clau­dio Tito — allora su carta, ieri in video. Cos’è cam­biato nel frat­tempo? Il primo Renzi, quello di un mese fa, parla alla vigi­lia del voto finale sull’Italicum. «Il lea­der del Pd gioca la carta della trat­ta­tiva sulla riforma costi­tu­zio­nale», è la sin­tesi del gior­nale amico. Nel frat­tempo il voto c’è stato, qual­cuno ha cre­duto alla pro­messa e i dis­sensi non sono bastati a fer­mare la nuova legge elettorale.

Il para­dosso è che ha più ragione il Renzi di oggi che quello di metà aprile. Come sanno bene i depu­tati della mino­ranza Pd che ave­vano pro­vato a cam­biare l’articolo 2 della riforma costi­tu­zio­nale, ma erano stati bat­tuti (da un contro-emendamento del futuro capo­gruppo Rosato) pro­prio per­ché al governo inte­res­sava appro­vare la legge in un testo «blin­dato», non più modi­fi­ca­bile al senato. A que­sto punto un ripen­sa­mento sull’eleggibilità dei sena­tori, per quanto auspi­ca­bile, dovrebbe poter con­tare su un’interpretazione disin­volta del rego­la­mento da parte del pre­si­dente Grasso. Che non è impos­si­bile, come dimo­strano i pre­ce­denti dei «can­guri», tutti però con­so­nanti ai desi­deri del governo. La con­tra­rietà del pre­si­dente del Con­si­glio fa pen­sare che quella strada debba con­si­de­rarsi chiusa.

Anche il piano B che Renzi e i ren­ziani stanno offrendo ai soste­ni­tori del senato elet­tivo può risol­versi in una falsa pro­messa. Dicono che, blin­data la riforma, si potrà agire sulla legge attua­tiva, quella che a regime det­terà le regole per la sele­zione dei nuovi sena­tori da parte dei con­si­gli regio­nali. La pro­po­sta è quella di ren­dere rico­no­sci­bili i consiglieri-senatori già nel corso delle ele­zioni regio­nali, o in alter­na­tiva di pre­miare i più votati. Ma c’è un pro­blema: il nuovo senato sarà organo per­pe­tuo, che si rin­nova senza pas­sare per lo scio­gli­mento. L’eventuale nuova legge si appli­che­rebbe dalle ele­zioni regio­nali del 2020 e prima di allora (e anche dopo) dovreb­bero coe­si­stere sena­tori con due diverse legit­ti­ma­zioni.

La con­fu­sione è pro­ba­bil­mente un indice delle dif­fi­coltà che Renzi vede davanti a sé, dal momento che al senato la mag­gio­ranza può con­tare su un van­tag­gio assai ristretto. È vero che Forza Ita­lia è ormai ter­reno di con­qui­sta, ma dall’altra parte si pre­senta deter­mi­nata la pat­tu­glia di venti sena­tori dis­si­denti del Pd. Renzi mette già in conto qual­che modi­fica alla riforma costi­tu­zio­nale (magari le stesse che alla camera è stato impos­si­bile discu­tere), pur­ché il per­corso della revi­sione sia com­ple­tato entro quest’anno. Eppure ieri ha voluto pre­ci­sare che «l’Italicum è effi­cace anche senza riforma costi­tu­zio­nale» — quindi anche se il senato rimarrà elet­tivo — mal­grado si tratti di una legge elet­to­rale riser­vata alla sola camera.

Ita­li­cum che è stato pub­bli­cato in Gaz­zetta uffi­ciale, ma che sarà valido, –per la «clau­sola di sal­va­guar­dia» — solo dal luglio 2016. I suoi avver­sari nel frat­tempo si orga­niz­zano e Pippo Civati pre­sen­terà oggi due que­siti refe­ren­dari con i quali si pos­sono smon­tare alcuni degli aspetti più cri­tici della legge: i capi­li­sta bloc­cati e le plu­ri­can­di­da­ture; «aspetti che tur­bano», ha detto ieri Romano Prodi, per­ché «in que­sto modo si gesti­scono dall’alto un numero rile­van­tis­simo di par­la­men­tari». Con il refe­ren­dum si potrebbe anche pen­sare di far cadere il turno di bal­lot­tag­gio, tra­sfor­mando così l’Italicum in una legge pro­por­zio­nale nel caso nes­suna lista rag­giun­gesse il 40%, soglia pre­vi­sta per il pre­mio di mag­gio­ranza. Ma sono aspetti che andranno appro­fon­diti, dal momento che la giu­ri­spru­denza della Corte costi­tu­zio­nale in mate­ria di refe­ren­dum elet­to­rali è assai rigo­rosa. Non si può rischiare di rac­co­gliere le firme invano.

La Repubblica, 13 maggio 2015 (m.p.r.)

Due milioni di disperati fuggono dalla guerra e dalle persecuzioni, molti tentano la traversata marittima, con naufragi, assalti di pirati, ecatombi. Ben 750.000 trovano accoglienza in una sola nazione. E lì diventano una comunità dinamica, imprenditoriale, perfettamente integrata.
È una storia che potrebbe parlare del Mediterraneo nel 2015. Ma con un lieto fine che forse nessuno oggi osa sognare. Invece è una storia vera. Comincia 40 anni fa con la fuga dei “boat people” dal Vietnam (cacciati dai comunisti, poi dalla guerra con la Cina), e la loro accoglienza qui negli Stati Uniti. La ricostruisce per me una guida d’eccezione, Stephen Briganti, chief executive della Statue of Liberty-Ellis Island Foundation.

In anteprima mi fa visitare il nuovo museo dell’immigrazione che aprirà al pubblico il 20 maggio. Un luogo di eccezionale interesse, non solo storico: una “piattaforma educativa” per capire l’emergenza migrazioni guardandola dal paese che più di ogni altro ha saputo governarla. Briganti parte da un aneddoto personale: «Mio nonno emigrò qui dalla Basilicata nel 1899. Ne abbiamo prove sicure, dalle corrispondenze incrociate tra lui e i familiari. Eppure mi è stato impossibile trovare una traccia del suo passaggio alla dogana. Perché? Con ogni probabilità ha cambiato nome, forse anche nave: un vero clandestino, un immigrato illegale e senza documenti, come moltissimi italiani di quel tempo».
Erano i nostri nonni i “boat people”, i disperati in fuga dalla miseria alla fine dell’Ottocento e ancora fino agli anni Cinquanta. Ellis Island li accoglieva con maniere a dir poco rudi. Quest’isolotto sta a fianco di quello dove c’è la Statua della Libertà, dirimpetto alla punta sud di Manhattan. A partire dal 1892, e fino alla sua chiusura nel 1954, Ellis Island fu trasformato in una “maxi-Lampedusa”, un centro di smistamento degli immigrati. Qui la polizia di frontiera applicava le normative sull’accesso al Sogno Americano. Compresa la quarantena sanitaria nei casi di sospette malattie. O il respingimento con deportazione nei paesi d’origine, se gli immigrati non rientravano nelle categorie autorizzate.
Ellis Island aveva già un museo dell’immigrazione, un’attrazione nota ai turisti italiani, molti dei quali cercano qui le tracce e testimonianze su nonni e bisnonni immigrati viaggiando in terza classe sui transatlantici. Ma il nuovo museo è un’operazione straordinariamente più ambiziosa, e non solo per il salto tecnologico negli strumenti espositivi. «Abbiamo allargato la prospettiva storica - spiega il chief executive Briganti - aggiungendo un prima e un dopo. C’è tutta la storia dell’immigrazione prima del 1892, che include il popolamento originario attraverso il traffico di schiavi o le conquiste coloniali di territori appartenuti al Messico. E c’è il dopo-1954, cioè la storia delle politiche d’immigrazione più recenti. Quelle che costruiscono la fisionomia della nazione americana di oggi».
È difficile trovare un museo che ci interpelli in modo così diretto, parlandoci delle sfide di oggi. Un altro esperto curatore, Michael Schneider, spiega l’operazione che è stata voluta: «Capire l’immigrazione a partire dalle sue cause. Ricostruirla passo per passo, dalle tragedie che scatenano nei paesi d’origine la necessità di partire; l’odissea dei viaggi spesso precari e pericolosi; infine l’ingresso in una nazione straniera attraversandone le frontiere sovrane; e poi il contributo a costruire l’identità nazionale di questa società multietnica ».
È banale e sbagliata l’obiezione con cui spesso gli europei respingono il modello-America. Si suol dire, per zittire ogni confronto, che questa è sempre stata una “nazione d’immigrati” (ergo: l’Europa non può ispirarsi né imparare nulla). Una visita al nuovo Ellis Island rivela una verità ben diversa. Questo è un museo che ha il coraggio di raccontare anche la xenofobia made in Usa, nelle sue versioni più feroci: dal movimento “nativista” al Ku Klux Klan (che non linciava solo i neri ma anche ispanici e asiatici). Qui si vede come la politica dell’immigrazione abbia conosciuto chiusure e arroccamenti razzisti, come il famigerato anti-Chinese Act che nel 1882 innalzò un divieto totale all’immigrazione cinese; poi parzialmente rinnovato con l’Immigration Act del 1924. Si scopre che solo dal 1965 parte una politica di forte innalzamento delle quote nazionali (quell’anno a 290.000) e la strategia che punta al reclutamento di competenze professionali, talenti, specializzazioni che rafforzino l’economia americana.
Il nuovo Ellis Island osa parlare anche di fallimenti. Il più macroscopico, pure questo ricco di lezioni per noi, è la tentata militarizzazione del confine col Messico. Ha inizio nel 1993 sotto un presidente di sinistra, Bill Clinton, con la costruzione del Muro fra San Diego (California) e Tijuana, riciclando materiali bellici della prima guerra del Golfo. Prosegue fino a mobilitare 12.000 agenti delle Border Patrol al confine Sud degli Stati Uniti. Il bilancio che ne tracciano i curatori è impietoso: «È servito solo a dirottare i migranti verso le zone desertiche del confine, abbandonandoli nelle mani dei trafficanti. Peggio ancora, molti sono morti tentando quella traversata nelle zone più impervie. Tra gli effetti collaterali indesiderati: un aumento dei clandestini, perché chi è riuscito a passare il confine non osa più tornare indietro. Abbiamo 11 milioni di clandestini, e la maggioranza vengono dal Messico». Nel frattempo la politica migratoria si è evoluta, con l’aumento della concessione di Green Card (residenza permanente): negli ultimi dieci anni ne sono state rilasciate più di un milione all’anno. E si è semplicifcato il passaggio successivo, alla cittadinanza piena: bastano cinque anni di Green Card, una conoscenza elementare dell’inglese, e un esame sulla Costituzione degli Stati Uniti.

Il manifesto, 11 maggio 2015

«Per­ché i potenti non vogliono la pace? Per­ché vivono sulle guerre» e «gua­da­gnano con le armi». Davanti a 7mila alunni delle scuole pri­ma­rie, che ieri mat­tina hanno par­te­ci­pato ad un’udienza nell’aula Nervi in Vati­cano nell’ambito di un’iniziativa pro­mossa dalla fon­da­zione «La fab­brica della pace» (ani­mata dalla psi­co­te­ra­peuta Maria Rita Parsi), papa Fran­ce­sco mette da parte il discorso uffi­ciale e risponde a brac­cio a 13 domande dei bam­bini, affron­tando con ine­vi­ta­bile imme­dia­tezza e sem­pli­cità di lin­guag­gio temi come la guerra, gli arma­menti, la pace, ma anche il car­cere e la disa­bi­lità («A me non piace dire che un bam­bino è disa­bile, que­sto bam­bino ha un’abilità dif­fe­rente, non è disabile»).

La sem­pli­cità della comu­ni­ca­zione per­mette a Ber­go­glio di andare al noc­ciolo delle que­stioni, peral­tro già affron­tate in altre occa­sioni. «I potenti, alcuni potenti, gua­da­gnano con la fab­brica delle armi, e ven­dono le armi a que­sto Paese che è con­tro quello, e poi le ven­dono a quello che va con­tro que­sto. È l’industria della morte», dice Ber­go­glio rispon­dendo ad un bam­bino egi­ziano di Tor­pi­gnat­tara, popo­lare quar­tiere delle peri­fe­ria romana. «Si gua­da­gna di più con la guerra. Si gua­da­gnano i soldi, ma si per­dono le vite, si perde la cul­tura, si perde l’educazione, si per­dono tante cose». E per sin­go­lare coin­ci­denza le parole del papa arri­vano subito dopo la dif­fu­sione dei dati del 2014 sull’export ita­liano di arma­menti, anti­ci­pata dal men­sile dei mis­sio­nari com­bo­niani Nigri­zia: 1 miliardo e 879 milioni di euro di espor­ta­zioni auto­riz­zate dal governo (+34% rispetto al 2013), con quasi un terzo delle armi ita­liane (il 28%) finite nei Paesi del nord Africa e del Medio Oriente. «Tutto gira intorno al denaro – aggiunge Fran­ce­sco –, il sistema eco­no­mico gira intorno al denaro e non intorno alla per­sona, all’uomo, alla donna» e «si fa la guerra per difen­dere il denaro».

«La pace è prima di tutto che non ci siano le guerre», ma la pace è anche «giu­sti­zia», dice il papa, che fa ripe­tere in coro ai bam­bini – una costante delle cate­chesi «popo­lari» di Ber­go­glio, non limi­tata ai bam­bini – «dove non c’è giu­sti­zia, non c’è pace». «Tutti siamo uguali – pro­se­gue –, ma non ci rico­no­scono que­sta verità, non ci rico­no­scono que­sta ugua­glianza, e per que­sto alcuni sono più «felici» degli altri. Ma que­sto non è un diritto! Tutti abbiamo gli stessi diritti! Quando non si vede que­sto, quella società è ingiu­sta. E dove non c’è la giu­sti­zia, non può esserci la pace».

Nel car­cere non c’è giu­sti­zia e non c’è per­dono, dice anche papa Fran­ce­sco (che, nella tele­fo­nata di qual­che giorno fa per infor­marsi sulla sua malat­tia, ha invi­tato all’udienza anche Emma Bonino, pala­dina, insieme ai Radi­cali, dei diritti dei dete­nuti). «È più facile riem­pire le car­ceri che aiu­tare ad andare avanti chi ha sba­gliato nella vita», che «aiu­tare a rein­se­rire nella società chi ha sba­gliato», aggiunge Ber­go­glio. «Tutti cadiamo. Ma la nostra vit­to­ria è non rima­nere «caduti» e aiu­tare gli altri a non rima­nere «caduti». E que­sto è un lavoro molto dif­fi­cile, per­ché è più facile scar­tare dalla società una per­sona che ha fatto uno sba­glio brutto e con­dan­narlo a morte, chiu­den­dolo all’ergastolo», «la solu­zione del car­cere è la cosa più comoda per dimen­ti­care quelli che soffrono».

Discorso social­mente avan­zato quello di Fran­ce­sco, all’interno di una gior­nata che tut­ta­via pre­senta un ele­mento di con­fu­sione: la par­te­ci­pa­zione ad un’udienza papale, in ora­rio sco­la­stico, di 7mila alunni delle scuole pri­ma­rie – metà fre­quen­tanti isti­tuti sta­tali, metà isti­tuti cat­to­lici –, con la bene­di­zione del mini­stero dell’Istruzione, come ha ricor­dato lo stesso Fran­ce­sco al ter­mine del suo discorso. Non si tratta di un’attività di culto – la nor­ma­tiva non per­mette di orga­niz­zarle durante le lezioni –, ma comun­que di un’iniziativa a forte con­no­ta­zione confessionale.

E’ veramente singolare quanto sta avvenendo a proposito del Ddl sugli ecoreati, che dopo 20 anni sembrava giunto al vaglio finale della Camera per introdurre i delitti contro l’ambiente nel codice penale.

Infatti, l’ultimo voto del Senato aveva licenziato il DDL con una larga maggioranza parlamentare ed il sostegno di molte associazioni ambientaliste, le quali chiedevano che il DDL venisse al più presto approvato definitivamente dalla Camera “senza modificare neanche una virgola”. Appello cui aderivano numerosi deputati e senatori del Pd, di Sel e del Movimento 5 stelle.

Tuttavia, subito dopo, da un lato i Verdi chiedevano la modifica della disposizione che punisce “chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale” nel senso della eliminazione dell’avverbio “abusivamente” (per non legittimare l’opinione che possa esistere un disastro ambientale autorizzato e lecito); e dall’altro il Ministro dell’Ambiente ed il Presidente del Consiglio chiedevano, su pressione dei petrolieri, che venisse eliminato dal Ddl il divieto di airgun (uso di esplosivi per prospezioni petrolifere) introdotto al Senato.

Il seguito è veramente singolare. Perché, a quel punto, in nome del “neanche una virgola”, la proposta dei Verdi sul disastro ambientale “abusivo” non veniva presa neppure in considerazione, mentre quella di sopprimere il divieto di air gun veniva approvata dalla Camera, con l’opposizione di Sel e Movimento 5 stelle ed il silenzio assordante dei tanti parlamentari Pd che avevano giurato “neanche una virgola”.

E così, visto che è stata modificata ben più di una virgola, adessoil Ddl è tornato al Senato che, con ogni probabilità, lo approverà anche se mutilato della disposizione più significativa a difesa dei nostri mari, proposta ed approvata proprio dal Senato appena due mesi fa.

Insomma, “neanche una virgola” valeva solo per gli emendamenti migliorativi. Per i diktat di petrolieri e governo si può sempre fare un’eccezione anche se bisogna rimangiarsi quello che si è approvato appena due mesi prima.

Avremo presto, così, con ogni probabilità, i sospirati delitti contro l’ambiente anche se senza divieto di airgun e con il disastro ambientale abusivo.

Ma è meglio non farsi troppe illusioni. Questi delitti, frutto di troppi compromessi maturati in 20 anni, presentano numerose criticità e danno adito a diversi dubbi. Sarà necessario, quindi, iniziare subito ad analizzarli per valorizzarne gli aspetti immediatamente operativi e risolvere questi dubbi interpretativi.

Anche perché, nel frattempo, sia per effetto della nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto sia a causa di alcune disposizioni “depenalizzanti” contenute nel nuovo testo, molti reati, oggi esistenti, del testo unico ambientale non saranno più punibili.

Ed anche perché la nuova legge sui delitti ambientali dimostra grande benevolenza verso gli inquinatori. Si pensi che, in caso di ipotesi colposa di disastro ambientale (praticamente, quella prevalente, visto che, per fortuna, salvo la problematica sul dolo eventuale, è difficile si verifichi un disastro ambientale doloso), la pena massima prevista non supera i 5 anni di reclusione. Praticamente, meno di uno scippo o di un borseggio, la cui pena massima arriva a 6 anni! E, come se non fosse sufficiente, la nuova legge prevede un “ravvedimento operoso” talmente benevolo (la diminuzione di pena dalla metà a due terzi, che comprende anche l’associazione a delinquere) da costituire, oggettivamente, un incentivo a distruggere l’ambiente. Tanto, il responsabile è sempre in tempo a pentirsi e ad uscirne praticamente senza danni.

Con buona pace delle “sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive” richieste dalla Ue a tutela dell’ambiente.

Oggi la Mogherini«illustrerà al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la drammatica situazione dei migranti nel Mediterraneo e la decisione del Consiglio europeo di condurre una missione per la distruzione delle barche usate dai trafficanti di esseri umani». La Repubblica, 11 maggio 2015

Oggi l’Alto rappresentante per la politica estera della Ue, Federica Mogherini, illustrerà al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la drammatica situazione dei migranti nel Mediterraneo e la decisione del Consiglio europeo di condurre una missione per la distruzione delle barche usate dai trafficanti di esseri umani. L’obiettivo è quello di ottenere al più presto il via libera ad una risoluzione dell’Onu che autorizzi l’intervento delle forze europee nelle acque territoriali libiche e possibilmente anche nei porti che vengono utilizzati come base di partenza delle carrette del mare. Non sarà facile. Ci sono resistenze soprattutto all’ipotesi di missioni aeree per la distruzione delle imbarcazioni. Ma sembra certo che gli europei riusciranno comunque ad avere la benedizione del Palazzo di vetro, che darebbe alla loro azione la richiesta legittimità internazionale. In questo caso, il piano di azione preparato da Bruxelles dovrebbe finire sul tavolo dei capi di governo al prossimo Consiglio europeo di giugno. Quindi toccherà ad una coalizione di Paesi europei su base volontaria mettere insieme le forze di intervento necessarie, che saranno con ogni probabilità coordinate dall’Italia

Mercoledì, invece, il collegio dei commissari dovrebbe approvare l’Agenda europea per le migrazioni, un documento che stabilirà una serie di principi per far fronte in modo strutturale alla questione degli immigrati, sia di quelli che cercano asilo, sia di quelli irregolari, sia dei migranti che richiedono un permesso di lavoro. Il documento prevede, tra l’altro, l’obbligo di ridistribuire i profughi tra i vari Stati membri tenendo conto della popolazione, del Pil e del numero di rifugiati già ospitati. Un obiettivo ambizioso, che infatti suscita forti resistenze da parte di molti Paesi, a partire dalla Gran Bretagna, dall’Irlanda, dall’Ungheria e da numerosi governi del Nord e dell’Est europeo. Il dibattito sarà lungo. E difficilmente i primi atti legislativi concreti potranno vedere la luce prima dell’autunno prossimo. Per sbloccare la situazione, la Commissione ha deciso di ricorrere all’articolo 78.3 del Trattato, che dà all’esecutivo comunitario la possibilità di proporre «misure di urgenza» sulle quali il Consiglio deve decidere a maggioranza «sentito il Parlamento europeo», il cui via libera non è dunque vincolante. Queste misure di urgenza riguarderebbero l’accoglienza di un numero limitato di rifugiati da distribuire tra gli stati membri sempre in base alla stessa chiave di ripartizione. Quale sarà questo numero non è ancora deciso in via definitiva. In un primo momento si era parlato di cinquemila, cifra scartata perché considerata irrisoria. Alla fine è comunque probabile che la cifra proposta dalla Commissione si situerà tra dieci e ventimila rifugiati attualmente ammassati nei centri di accoglienza in Italia, a Malta e in Grecia.

La procedura di urgenza dovrebbe anche consentire di evitare che si crei una minoranza in grado di impedire l’approvazione della proposta della Commissione. Infatti, poiché si riferisce alle procedure di richiesta di asilo, la norma di fatto consente un «opt-out» di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Se decidessero, come è probabile, di esercitare il loro diritto a chiamarsi fuori dal provvedimento, i tre Paesi sarebbero anche esclusi dalla votazione e tra i rimanenti non dovrebbe essere difficile raccogliere la maggioranza qualificata necessaria.

Ho deciso di prendere le distanze da "L'Altra Europa con Tsipras", nata in occasione delle ultime elezioni europee, e di conseguenza il mio statuto di europarlamentare cambia: sarà quello di Indipendente nel gruppo Sinistra Unitaria Europea-Ngl.

In Italia non entrerò in nessun gruppo, se eccettuo la mia militanza nell’associazione Libertà e Giustizia. Non intendo contribuire in alcun modo a un’ennesima atomizzazione della sinistra, promuovendo o fondando un’ulteriore frazione politica. La mia attività sarà dunque interamente concentrata sulle attività parlamentari europee, con un’attenzione particolare a quello che succede in Italia e in Grecia.

L'Altra Europa nacque come progetto di superamento dei piccoli partiti di sinistra; come conquista di un elettorato deluso sia dal Pd e dal M5S sia dal voto stesso (astensionisti) – dunque un elettorato non esclusivamente “di sinistra” – e come elaborazione di nuove idee su un’Unione ecologicamente vigile, solidale, capace di metter fine alle politiche di austerità e ai nazionalismi xenofobi che esse hanno scatenato.

Ritengo che L’Altra Europa non sia oggi all’altezza di quel progetto: è quanto ho sostenuto assieme a molti ex garanti e militanti della Lista, in una lettera aperta di dissenso indirizzata il 18 aprile a chi la dirige.

In Europa, continuo a essere convinta che l’Unione e l’eurozona vinceranno o si perderanno politicamente – e democraticamente - a seconda di come sarà affrontata e regolata la “questione greca”. Proseguirò le battaglie fatte in questo primo anno di legislatura in difesa dei diritti fondamentali, a cominciare dalla questione migranti.

In Italia, continuerò a combattere le grandi intese, l’idea di un “Partito della Nazione”, l'ortodossia delle riforme strutturali, la decostituzionalizzazione della nostra democrazia. Nelle prossime regionali appoggerò tutti coloro che sono davvero e sino in fondo impegnati in questa battaglia.

Barbara Spinelli

La Repubblica, 11 maggio 2015

ESATTAMENTE cinque anni fa, la Grecia di George Papandreou dichiarava bancarotta e chiedeva un piano di salvataggio all’Europa e al Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Dopo cinque anni di austerità, il 25% del Pil in meno, due piani di salvataggio da 240 miliardi, una ristrutturazione del debito pubblico in mano ai privati che ne ha falcidiato il 75% del valore, siamo ancora alle prese con il rischio di default. Prossima data critica: domani, quando scade una rata da 750 milioni al Fmi. Pochi sanno quanti soldi abbia veramente in cassa la Grecia. Se anche bastassero a superare indenni domani, non si arriverebbe comunque alla fine di luglio, quando dovrà aver rimborsato 2,6 miliardi al Fmi, 3,4 alla Bce, e rifinanziato 12 miliardi di titoli di Stato.

Il negoziato con la troika verte a sbloccare l’ultima tranche di 7 miliardi del piano di salvataggio del 2012. Basterebbero a superare l’estate, ma non risolverebbero niente.

SAREBBERO prevalentemente soldi della Troika per rimborsare crediti alla Troika, ma insufficienti a sostenere la Grecia fino al giorno in cui sarà in grado di tornare a finanziarsi autonomamente e stabilmente sul mercato. Un nuovo piano di salvataggio è inevitabile. Ma ancora non si è cominciato a parlarne.

Lo spettro di un default greco, e la probabile uscita dall’euro che ne deriverebbe, non sembrano però preoccupare i mercati: gli spread sul debito degli altri Paesi europei e delle loro banche sono ai minimi degli ultimi anni; i cali di Borsa dei giorni scorsi sono più dovuti ai timori di un rallentamento della ripresa americana e all’aumento dei tassi a lunga negli Usa e in Germania che potrebbe segnare l’inversione di un trend; e l’euro si è addirittura rafforzato. Prevale la convinzione che un accordo fra Grecia e creditori sia probabile, perché nell’interesse di entrambi, al di là delle bellicose dichiarazioni di facciata; e che se anche si arrivasse al default, non ci sarebbe contagio.

Vero: il default è la peggiore alternativa per tutti. In Grecia provocherebbe la corsa agli sportelli e la fuga dei capitali. Dall’inizio della crisi politica che ha portato Tsipras al governo, le banche hanno già perso 28 miliardi di depositi e stanno in piedi grazie alla Bce: a fronte di 220 miliardi di prestiti, hanno un’esposizione di 100 miliardi nei confronti della Banca centrale, a sua volta esposta per un’identica cifra verso la Bce. In caso di default, la Bce difficilmente potrebbe finanziare il sistema bancario greco, che sarebbe costretto a contrarre il credito innescando dissesti a catena. Sarebbe inevitabile imporre limiti ai prelievi dai conti per evitare la bancarotta delle banche; controlli sui movimenti di capitale; e il razionamento delle disponibilità di euro da destinare alle importazioni essenziali. Per pagare stipendi e fornitori, non avendo più fonti di finanziamento, lo Stato dovrebbe emettere cambiali proprie, creando di fatto una moneta parallela, che si deprezzerebbe rapidamente, gettando le basi per il ritorno alla dracma. La svalutazione e i dissesti farebbero crollare ulteriormente il reddito; e non avendo finanziatori, lo Stato non potrebbe neanche metter fine all’austerità. Prima di poter beneficiare dalla svalutazione della moneta, la Grecia subirebbe un’altra dura e prolungata recessione.

Ma la Grexit imporrebbe costi elevati anche ai creditori. In primis alla Germania. Tsipras ha trasformato una trattativa multilaterale coi Paesi europei creditori in uno scontro con la Germania, sulla quale ricadrebbe la responsabilità del default, facendone emergere il ruolo di potenza dominante in Europa. In questo modo la Germania azzererebbe il capitale politico tenacemente accumulato nel dopoguerra attraverso l’adesione a un’integrazione europea tesa proprio a limitare ogni tendenza egemonica tedesca. Dubito pertanto che nel momento cruciale, la Merkel si prenderà la responsabilità di rinnegare il principio che ha guidato tutti i suoi predecessori. Inoltre, per un’Europa già alle prese con l’Ucraina, una Grecia “ortodossa” che scivola verso l’area di influenza russa avrebbe un costo ingente.

Un default greco sarebbe un macigno anche per i conti pubblici europei: oggi tre quarti dei circa 300 miliardi di debito greco gravano, direttamente o indirettamente, sugli Stati europei. Mentre avrebbe un effetto economico risibile per gli investitori stranieri che ne detengono appena il 10%: per questo i mercati sono convinti che il rischio contagio sia limitato. Il pericolo è un altro: la ricomparsa del “rischio euro”. L’uscita della Grecia dall’euro, creando un pericoloso precedente, dimostrerebbe che la moneta unica non è irreversibile. Per quanto improbabile, l’eventualità che altri Paesi prima o poi ne escano, diventerebbe reale. Ed è dimostrato che i mercati tendono ad attribuire agli eventi rari una probabilità molto più elevata di quanto razionalmente giustificabile. Nessun può sapere quanto elevato sarebbe il premio per il “rischio euro” richiesto dai mercati in questo scenario. Meglio non rischiare. Un accordo è facile da immaginare. I creditori concedono alla Grecia di consolidare debito e interessi, rinviandone il rimborso di 50 anni. Non costerebbe nulla perché equivale ad ammettere la realtà dei fatti: il debito esistente non verrà mai rimborsato. In cambio la Grecia si impegna a contenere la crescita della spesa pubblica entro il gettito tributario. Contrariamente alla percezione comune, infatti, ha già attuato una massiccia ristrutturazione, riportando in avanzo sia il saldo con l’estero delle partite correnti, sia quello pubblico primario (prima degli interessi), per ben 12 punti percentuali del Pil. Con i due saldi in avanzo, non avrebbe bisogno di nuova austerità; e per completare l’aggiustamento basterebbero pochi aiuti aggiuntivi da Europa e Fmi.

Il nodo è politico: trovare anche un accordo su riforme del mercato del lavoro, delle pensioni e della pubblica amministrazione, che permettano a Tsipras di salvare la faccia; alla Germania e alla Bce di continuare a premere per riforme analoghe nell’Eurozona, in primis Francia e Italia; senza irritare Irlanda, Spagna e Portogallo che hanno già implementato queste riforme con successo, ma a caro prezzo.

Ma, se una soluzione è dietro l’angolo, perché la trattativa è così difficile? Perché per la prima volta le controparti della rinegoziazione del debito di uno Stato sovrano sono altri Stati sovrani. Di solito è il mercato, che applica la logica della convenienza economica: la più semplice per trovare un punto di equilibrio. Nel caso della trattativa con la Grecia, invece, l’accordo va trovato con la logica delle convenienze politiche, poco efficienti per le questioni economiche. In fondo, nessuno si sorprende se i tempi necessari per stipulare un Trattato internazionale sono biblici rispetto a quelli per accordarsi in una transazione tra privati.

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