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Un rapido commento, scritto per eddyburg, di un tenace costruttore di una prospettiva per una nuova sinistra, all'altezza dei tempi e di ciò che la nuova forma del proteiforme sistema capitalistico ha prodotto.

Umori mefitici escono dal ventre di mezza Europa. Il Venetooggi, la Lombardia ieri sono parte di questa Europa in disfacimento. Laxenofobia razzista è un ottimo arnese con cui indirizzare le frustrazioni dellepopolazioni verso nemici di comodo immaginari. La Lega è fin dalle sue originimaestra nell’arte della deviazione. Del resto, è proprio per questa suafunzione che l’establishment l’ha foraggiata, coccolata, tenuta al governo pervent’anni. Con altalenanti successi. Ma ora, con l’indebolimento deidispositivi di comando del capitalismo europeo, c’è il rischio che negli statia democrazia più debole i rianimati mostri barbarici sfuggano di mano. InPolonia come in Ungheria, nelle repubbliche dell’ex Jugoslavia come in Italia.
Impressionanti i flussi di voti (Swg e Istituto Cattaneo) afavore del “monocolore leghista” di Zaia (le tre liste leghiste sommate assiemeraggiungono il 65%) che si mangia Forza Italia, ma prende oltre quattro puntipercentuali dal Pd e altrettanti dal M5S che pure aveva ammiccato ai temi della“sicurezza”. La Lega è l’unica che attinge (oltre 7 punti) anche dall’astensionismo.Non c’è barriera che tenga. Il discredito raggiunto dal Pd con le vicende dellacorruzione non è stato compensato dal Renzi “gran comunicatore”. Il populismodi Grillo è già diventato “troppo politico”. Persino il piccolo patrimoniodell’Altra Europa con Tsipras si è dissolto. Per usare le parole del geografoFrancesco Vallerani, il Veneto è “il labirinto oscuro delle geografiedell’angoscia”.
Venezia era e deve tornare ad essere l’eccezione di questoVeneto. Questa diversità, esplicitamente rivendicata e argomentata, può essereil vero punto di forza di Felice Casson. Non serve andare a vedere cosa è successoa Barcellona con Ada Colau per capire cosa bisogna fare. Bastano le esperienzedi tutti quei (pochi) sindaci “arancione” (da De Magistris ad Accorinti) chenel recente passato sono riusciti ad aprire dei canali di comunicazione direttacon la cittadinanza attiva e a liberarsi dalle paralizzanti pratiche di potereimposte dai “corpi intermedi”, dalle lobby, dalle clientele.
Per farcela Cassonha bisogno di un di più. Ha bisogno dei voti di chi non è andato a votare. Eper smuoverli deve saper dimostrare di prendere sul serio le ragioni della lorodisaffezione. Il difficile è che molte di queste ragioni sono interneall’impostazione e al modo di fare tradizionale della sua coalizione. Se ce lafarà lui potremmo poi provare a risollevarci anche noi.

Un intervento a gamba tesa del magistrato anticorruzione e l'intervento critico di un intellettuale che difende la divisione dei poteri. Come dargli torto?

La Repubblica e Huffington Post, 3 giugno 2013


La Repubblica
Cantone: “Rosy ha sbagliato
ora il governatore entra in carica
e solo dopo verrà sospeso

di Conchita Sannino


«Ora che le elezioni regionali sono alle spalle, si può dire: con il caso Campania siamo finiti in un’impasse giuridica inedita, che sarà anche molto stimolante e interessante sciogliere, a patto di non lasciarsi tirare per la giacca da nessun timore di strumentalizzazioni. Il mio parere? Non do per scontata l’interpretazione secondo cui De Luca debba essere sospeso subito dopo la proclamazione».

Raffaele Cantone spezza il silenzio “politico” che, da magistrato e da presidente dell’Anticorruzione aveva opposto durante la lunga, avvelenata campagna delle regionali che ha infiammato i rapporti politici sull’asse Napoli-Roma. Parla anche dei trasformisti, della querela del governatore campano contro la Bindi e di quel “grave passo falso” commesso dalla presidente della commissione Antimafia.

Presidente Cantone, autorevoli giuristi sostengono che De Luca non dovrebbe avere il tempo di nominare la sua giunta, ma essere sospeso un minuto dopo la proclamazione.«Penso che la questione sia controversa. Esiste secondo me, anche un’altra interpretazione. Gli articoli 7 e 8 del decreto che chiamiamo legge Severino prevedono infatti la decadenza o la sospensione. E quest’ultima interviene nei casi in cui l’amministratore abbia subito una condanna che però non è passata in giudicato, proprio come per De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. In altri termini: se si sospendesse subito, senza consentire ai consiglieri eletti di insediarsi e al consiglio di funzionare anche in rapporto alla giunta, bisognerebbe dichiarare lo scioglimento del consiglio per impossibilità di funzionamento. E la sospensione prevista dalla Severino, che ha una funzione di natura cautelare e un carattere provvisorio, diventerebbe di fatto, una decadenza».

Eppure, la recente sentenza della Cassazione ha stabilito che la sospensione è un “atto vincolato” e che, in presenza di presupposti, non esiste valutazione di discrezionalità.
«Certo, è così. Ma la domanda è: quando si verificano i presupposti? Si radicano nel momento in cui c’è la sola nomina, oppure quando l’amministratore, in questo caso il governatore della Regione, ha assunto regolarmente quelle funzioni dalle quali deve essere momentaneamente allontanato?» Cantone, diranno che lei ha una tesi pro Renzi e De Luca?

«So bene che il dramma di questa storia è che una vicenda squisitamente tecnico-giuridica sarà letta con una chiave di politica o di strumentalizzazione. Ma sono letture che non mi toccano. Credo invece che il presidente del Consiglio debba fare appello a tutto il meglio dell’avvocatura dello Stato e dei giuristi italiani. Senza pressioni o timore alcuno, perché la soluzione che si trova oggi farà giurisprudenza».

Ma il Pd poteva evitare di cacciarsi in questo vicolo cieco?

«È un rompicapo senza precedenti. Ribadisco: anche affascinante, per chi ama le potenzialità del diritto. È ovvio che sarebbe stato meglio evitarsi una tale complicazione, ma questa valutazione non spetta a me».

De Luca dice: dovrà risolvere il Parlamento. In realtà pensa al governo.
«Un decreto legge non avrebbe senso. E per le eventuali modifiche in Parlamento c’è bisogno di tempi e di soluzioni certo meditate. Come Autorità anticorruzione, proprio il 10 giugno, vareremo una proposta ampia sulla Severino da affidare al Parlamento, per alcuni danni e problemi che la Severino crea su altri versanti, su cui non c’entra De Luca. Perché quella normativa è sacrosanta, è indispensabile e deve rimanere. Ma un miglioramento certo va pensato».

Intanto, l’era De Luca comincia con la querela alla Bindi. Cosa pensa della black list dell’Antimafia?
«Mi faccia fare una premessa. Credo che l’onorevole Bindi, nonostante non avesse una specifica esperienza, stesse facendo benissimo il suo lavoro, con quella capacità di impadronirsi degli argomenti e della complessità dei nodi che è propria dei politici di alto livello: una volta gliel’ho anche riconosciuto alla presenza del premier. Ma questa vicenda degli impresentabili è stato, per me, un grave passo falso, un errore istituzionale».

Perché snatura la funzione dell’Antimafia?
«Per vari motivi. Primo: è rischiosa e fuorviante la logica di “istituzionalizzare” gli impresentabili, i quali per loro stessa natura possono essere candidabili, eleggibili, non indagati eppure non idonei a entrare nella pubblica amministrazione, ad esempio per spregiudicato trasformismo; oppure perché è più grave che un politico si accompagni costantemente a persone dell’area grigia o a pregiudicati, rispetto al fatto di essere rinviato a giudizio per un abuso qualunque. Secondo: in questo modo, si rischia di produrre un’eterogenesi dei fini; cioè, di dare il bollino blu a tantissimi che, non vedendosi inseriti in quella lista, si sentono pienamente legittimati. E infine, perché questo porta la commissione antimafia e la sua fondamentale, indiscutibile direi sacra funzione, a fare e a parlare di altro. La commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni».

Se l’aspettava che De Luca l’avrebbe querelata?
«Sì, lo aveva detto. Anzi, da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse così come lo è stato nel depositare la denuncia».

La Repubblica, “Huffington post"

Dopo quella intervista su De Luca
le dimissioni di Cantonesarebbero dovute

di Alfonso Gianni

Mentre Vincenzo De Luca, trionfatore delle regionali campane con i voti determinanti del Centro democratico di Vassella Pisacane e dell’ Udc dell’intramontabile e in rottamabile Ciriaco De Mita, querela la Bindi per il semplice esercizio delle proprie istituzionali funzioni, Raffaele Cantone, Presidente nazionale anticorruzione (!?!), non trova di meglio che rilasciare un’ampia intervista a repubblica in cui se la prende con la Bindi e con la Corte Costituzionale. Eppure si tratta di una persona di cui si era fatto il nome persino per la carica di Presidente della Repubblica. E tutto ciò almeno ci consola dal punto di vista dello scampato pericolo.

Che si possa criticare la legge Severino è non solo lecito, ma per ciò che riguarda alcuni aspetti anche comprensibile, come quelli che concernono differenze di trattamento fra vari livelli istituzionali a fronte di processi giudiziari in corso. Ma bisognerebbe averlo fatto prima. Ora, fin tanto che quella è legge, non può non essere applicata. De Luca l’ha voluta sfidare. Il suo partito si è messo al suo servizio, infilandosi in cul de sac da cui è difficile uscire. D’altro canto questa è stata una scelta cosciente di Renzi. Una regione in più val bene l’aggiramento di una legge e la tacitazione di ogni sensibilità etica. Il giovane è spregiudicato.

Ma che il Presidente nazionale anticorruzione corresse in aiuto all’uomo forte della Campania, questa, almeno, speravamo di potercela risparmiare. E ci va giù duro.

La Bindi, secondo Cantone, avrebbe “istituzionalizzato” gli impresentabili. Cosa voglia dire non si capisce neppure, ma tant’è: si tratta di un’accusa destinata a fare effetto. In secondo luogo avrebbe dato il “bollino blu” a tutti quelli che non rientrano nella lista degli impresentabili. Qui siamo di fronte al capovolgimento radicale di ogni logica. Secondo Cantone qualunque iniziativa tesa ad avvertire l’elettorato che sono stati inseriti nelle liste persone che non hanno requisiti a termine di legge per poterci stare o per potere svolgere le funzioni che deriverebbero dalla loro eventuale elezione, sarebbe campagna elettorale per tutti gli altri. Ma allora, caro Cantone, se le cose stessero davvero così, aboliamola questa commissione antimafia. Sarebbe più dignitoso per tutti. Oppure releghiamola per norma a un ruolo marginale, come lei stesso dice nella intervista: “la commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni” , ma evidentemente non interferire mai con la politica attiva. In quest’ultima , come è noto, non ci sono nessi o fenomeni da indagare.

Per Cantone non conta neppure la sentenza della Corte Costituzionale che ha recentemente stabilito che la sospensione dalla carica è “un atto vincolato” non sottoponibile a valutazioni di discrezionalità. Cantone la butta sui tempi. Quando il governatore dovrebbe essere allontanato? Al momento della nomina o dopo l’insediamento della Giunta?

Che siamo di fronte a cavilli utilizzati all’unico scopo di sostenere la continuità dell’esercizio del potere da parte di De Luca, risulta poi chiaro in chiusura di intervista, quando Cantone si lancia in un intemerato augurio: “da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse come lo è stato nel depositare la denuncia”. Il riferimento alla querela di De Luca nei confronti della Bindi è esplicito.

Se lei la pensa così, caro Cantone, sarebbe assai meglio che tornasse ad essere un semplice cittadino e che abbandonasse nel più breve tempo possibile quella carica di Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Non mi pare materia per lei.


L'estremo tentativo dello statista greco di salvare la prospettiva di un'altra Europa. Incrociamo le dita.

La Stampa, 3 giugno 2015

Arriva Alexis Tsipras e la sua missione somiglia parecchio ad un “o la va, o la spacca”. Con una mossa a sorpresa, nuovamente fuori dai protocolli europei, il primo ministro greco ha deciso di volare a Bruxelles, dove nel pomeriggio incontrerà il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, per discutere la proposta di accordo fra Atene e i creditori internazionali. Il testo è stato compilato sul tavolo dal «gruppo di Bruxelles», ovvero i creditori di Atene, Ue, Bce e Fmi, come estremo tentativo di mediazione. Sul tavolo, e nella borsa del leader di Syriza, anche un contro documento ellenico da 47 pagine. Partita aperta. Ma, in questa fase, l’ottimismo appare in leggera prevalenza.

Il punto.

Tutti dicono che siamo in dirittura d’arrivo, che «entro fine settimana» si può chiudere un’intesa per ri-salvare la Grecia, scambiando miliardi per riforme. Fonti concordanti riferiscono che i tre creditori - Ue, Bce e Fmi - hanno completato una proposta di mediazione e chiesto ad Atene di esprimersi a stretto giro. Sarebbe il frutto diretto del vertice a cinque di lunedì a Berlino, del pressing orchestrato da Frau Merkel. Tsipras sostiene che la decisione tocca ai leader politici europei». Si parla di un accordo quadro per venerdì, termine entro il quale il governo ellenico deve pagare 301 milioni al Fondo. È possibile. Ma, visti i precedenti, è più facile concedersi alla speranza che non alla fiducia.

La politica prova a muoversi.

La Bce lo già fatto, di nuovo: secondo l’agenzia Bloomberg, la banca centrale europea ha aumentato di 500 milioni a 80,7 miliardi la linea di liquidità d’emergenza (Ela) alle banche greche, mossa utile per un sistema che «ha liquidità per circa 3 miliardi». E’ una mossa che cerca di facilitare il clima per un accordo. Possibile, sottolineano le fonti, perché «due cose sono cambiate e su queste si può costruire». La prima è che qualcuno, cioè la Merkel, si è messa d’impegno per uscire da uno stallo pericoloso. La seconda è che il contatto con Christine Lagarde avrebbe avvicinato le posizioni del Fmi a quelle di Commissione e Bce, portando Washington - che chiede più garanzie dall’Eurogruppo - su una linea di giudizio più flessibile. I tedeschi vorrebbero evitare che il caso greco inquini il G7 bavarese di fine settimana. Puntano a chiudere. Ma non basta. I margini di Tsipras sono ridotti dai limiti di consenso politico interno, e i conflitti interni all’Ue sono tutti meno che sopiti.

Tensioni a Bruxelles.
È sufficiente osservare le dichiarazioni di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, in teoria titolare della cattedra greca, invece fuori dal quintetto berlinese. «Si sono registrati dei progressi - sottolinea - ma sono insufficienti: siamo ancora lontani dall’accordo». Quest’ultima, precisa, «non è possibile dal punto di vista tecnico in settimana». Traduzione: si può fare solo nel «suo» conclave, cioè nel club dei ministri economici dell’Eurozona, che si riunisce il 18 giugno. Però i creditori vorrebbero poter rimpinguare le casse elleniche prima, a meno che Atene non chieda di unificare a fine mese i pagamenti dovuti al Fmi.

Anticipo greco.

Tsipras ha giocato di sorpresa. Arriva a Bruxelles, d’accordo con Juncker. Secondo l’agenzia di stampa greca Aman la sua proposta suggerisce un avanzo primario dello 0,8% per l’anno in corso, una riforma dell’Iva, privatizzazioni, riorganizzazione spesa. Non ci sono conferme che si parli di pensioni e mercato del lavoro, tasto che invece i creditori vorrebbero fosse toccato. Una fonte Ue suggerisce che l’ex Troika potrebbe accettare di avanzare anche soltanto col 70% del programma greco in tasca. Una seconda, assicura che «già si parla del terzo programma», da avviare una volta finito a giugno il secondo, quello di cui restano 7,2 miliardi che si cerca di sbloccare dal 20 febbraio. Segno dei tempi il fatto che ieri il Brussels Group dei creditori non si è riunito. Oggi è attesa una teleconferenza del Gruppo di lavoro dell’eurozona, i tecnici dei tesori nazionali. E oggi parla Mario Draghi, mentre si naviga a vista. Però le acque sono meno agitate, almeno in superficie.
«È passato sotto silenzio il record negativo della Toscana». Una riflessone sui risultati elettorali in una regione storica della sinistra. "Loro" hanno perso, ma "noi" non abbiamo vinto. Domandiamoci perché.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 3 giugno 2015

È proprio la regione del Presidente del Consiglio quella in cui si è votato di meno: con l'affluenza inchiodata a un clamoroso 48,24 per cento, in una specie di crollo verticale (aveva votato il 60,92 alle Regionali del 2010; e il 66,7 alle Europee dell'anno scorso: il che vuol dire che in dodici mesi ben 530.896 toscani hanno deciso che non val la pena di andare al seggio). Solo qualche mese fa chi avesse pronosticato questo drammatico disincanto per la rossa, civilissima, politicissima Toscana sarebbe stato considerato un eccentrico menagramo. E invece ora la maggioranza assoluta dei toscani urla di averne le tasche piene dei toscani Matteo Renzi ed Enrico Rossi: il Pd perde in un anno 454.773 voti (passando da 1.972.406 delle Europee al 1.441.510 di oggi), e Rossi è ora il presidente meno legittimato della storia della Toscana, essendo stato eletto da un miserrimo 23 per cento degli aventi diritto. Di questo passo, il prossimo governatore toscano lo eleggeranno direttamente i dipendenti della Regione.

Ancora più della disfatta ligure della imbarazzante Paita, dell'evaporazione dell'ultralight Moretti in Veneto o dell'imperdonabile follia di aver consegnato la Campania all'impresentabile De Luca, mi pare questa fuga toscana dalle urne la prima vera Caporetto del renzismo. Ricordate quando l'ex presidente Napolitano tuonava contro la (presunta) antipolitica dei 5 stelle? Ebbene, cosa si dovrebbe dire oggi del trionfante Pd, che riesce nel capolavoro di allontanare dalla politica il 51.76 % dei toscani?

Il presidente Mattarella ha sostenuto che le urne vuote siano una risposta alle «liti esasperate». Il che certamente può essere vero, ma non per la Toscana. Qui, invece, si paga l'incapacità della politica di sollevarsi dal piano della mera gestione del potere. L'assenza di una qualsivoglia visione del futuro che non sia la permanenza al comando – ed è questo il limite congenito del renzismo, che paradossalmente ricalca e cristallizza lo stato di fatto che dice di voler rottamare –: è questa la vera antipolitica. È la perfetta coincidenza tra 'Politica' e 'manovra politica' ad espellere dal gioco tutti tranne gli addetti ai lavori.

Lo si è visto plasticamente quando il Pd toscano ha attaccato a testa bassa l'assessore Anna Marson, accusandola di «stupidità politica» per aver difeso fino all'ultimo il Piano del Paesaggio: e cioè per aver scelto il governo del futuro e l'interesse pubblico, e non la gestione del presente e gli interessi privati. In quell'occasione (era l'ultimo consiglio regionale della legislatura) la Marson difese il suo «agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici». La Marson, ovviamente, non è stata ricandidata: anzi è stata definitivamente espulsa dalla politica dei politici: e il Pd ha di nuovo saldamente in mano il governo della Toscana. Ma a che prezzo? Davvero pensiamo che le elezioni siano vinte anche quando la maggioranza assoluta non vota più?

Ma se i toscani hanno punito un Rossi mimetizzato tra i cacicchi del Caudillo Maleducato, non hanno certo premiato gli avanzi della sinistra radicale, vanamente rimessi insieme dal generoso Tommaso Fattori: il 6,28 per cento è un risultato deprimente, e l'astensione pesa come un macigno anche sopra chi non è riuscito a convincere i concittadini che esiste un'alternativa al mitico Partito della Nazione della Boschi & c. Non per caso, la Marson non è stata ricandidata nemmeno da questa residuale sinistra: così dimostrando che il vasto e agguerrito popolo dei comitati e delle associazioni che difendono paesaggio, ambiente, beni comuni non riesce a trovare una rappresentanza politica.

Il 31 maggio la regione di sinistra per eccellenza si è addormentata, facendo proprio il motto della Notte del suo Michelangelo: «Grato m'è il sonno e più l'esser di sasso / fino a che il danno e la vergogna dura». Chiunque voglia riprovare a declinare al futuro la politica italiana deve partire da questa domanda: come si risveglia la Toscana, Bella Addormentata della Sinistra?

«Al ballottaggio del 16 giugno la città lagunare rischia di passare alla destra. Occorre unire il meglio della società civile». Una lettura tra le tante che considerano far parte della "sinistra" anche i renziani doc.

Il manifesto, 3 giugno 2015

La spie­ga­zione dell’esito elet­to­rale veneto è abba­stanza sem­plice: la Lega vince, con Zaia, sapendo rap­pre­sen­tare sia il governo (locale e regio­nale) sia la pro­te­sta con­tro le poli­ti­che di Roma (e di Bruxelles).
La sini­stra non rie­sce a fare né una cosa né l’altra, con Ales­san­dra Moretti e la sua coa­li­zione ma anche con le pro­po­ste alter­na­tive in campo. Sulla carta, il pro­gramma del cen­tro­si­ni­stra veneto era il più avan­zato da almeno vent’anni, men­tre la can­di­data pre­si­dente, al di là di qual­che gaffe e bat­tuta discu­ti­bile, era accre­di­tata di una certa effi­ca­cia comu­ni­ca­tiva e di una certa con­cre­tezza poli­tica (con­fer­mata dalle espe­rienze ammi­ni­stra­tive e dal cur­ri­cu­lum elet­to­rale vin­cente), men­tre le forze aggre­gate copri­vano un arco vasto (a fronte di una divi­sione del fronte avverso, con la scis­sione di Tosi).

Eppure non ha fun­zio­nato. Fuori coa­li­zione, l’acuirsi del pro­filo con­tro­ri­for­mi­sta del governo Renzi (tra Jobs Act, Ita­li­cum e scuola), apri­vano uno spa­zio largo d’iniziativa. Nean­che que­sto, però, ha fun­zio­nato. Le per­cen­tuali della sini­stra den­tro e fuori la coa­li­zione sono le minime da sem­pre. La gran­dis­sima parte dello spa­zio poli­tico tra governo e oppo­si­zione è stata satu­rata da Zaia (e, dal lato della pro­te­sta, anche dal M5S, mal­grado il suo risul­tato sia fra i peg­giori d’Italia).

Chi ha con­vinto Zaia? Un Veneto scosso dalla crisi, che vede segnali di ripresa ma che teme siano illu­sori, ango­sciato da cassa inte­gra­zione, licen­zia­menti, fal­li­menti, mutui, tassi d’interesse, cre­diti usu­rai, mer­cato del lavoro spie­tato, con­cor­renza d’impresa feroce, infra­strut­ture cao­ti­che, stra­vol­gi­mento del qua­dro ambien­tale e sociale nella non gestita «meta­mor­fosi» in atto (per citare il titolo di un utile e recente libro di Daniele Marini, edito da Mar­si­lio). Ma anche stanco da una richie­sta ine­vasa di auto­no­mia, di fede­ra­li­smo, un’istanza qui poten­te­mente pre­sente e che la sini­stra assume solo quando la Lega cre­sce ma che viene poi dimen­ti­cata non appena la Lega declina (com’era acca­duto negli anni scorsi, prima del truce ma for­mi­da­bile rilan­cio salviniano).

Tutto ciò, nel tra­va­glio del mel­ting pot ribol­lente che signi­fica soprat­tutto igna­via e ini­quità delle poli­ti­che sull’immigrazione, che aprono spazi alla pre­di­ca­zione xeno­foba e agli impren­di­tori poli­tici della paura, un tempo i Gen­ti­lini e i Bossi oggi i Bitonci e i Salvini.

Zaia è la figura sin­tesi. La sini­stra non ha saputo pro­porre un’alternativa per­ché non ha for­nito rispo­ste ori­gi­nali e con­crete ma, al più, nell’azione di governo a Roma e spesso local­mente, sug­ge­stioni o rivi­si­ta­zioni «mode­rate» delle stesse ricette leghi­ste e libe­ri­ste. Certo, poi ci vuole anche la fac­cia tosta di Zaia, l’abilità a dipin­gersi come estra­neo non solo giu­di­zia­ria­mente ma anche poli­ti­ca­mente alla cor­ru­zione che ha segnato l’amministrazione da lui gui­data (o di cui era il vice, con Galan) di cui lo scan­dalo Mose è solo il più ecla­tante esem­pio, così da porsi come l’uomo giu­sto per gover­nare anche un Veneto giunto, dopo scan­dali e crisi, al suo «anno zero» (per citare un altro fre­sco libro impor­tante, di Renzo Maz­zaro, edito da Laterza).

All’anno zero del Veneto, e all’ora x di Vene­zia, l’ora in cui, il pros­simo 14 giu­gno, al bal­lot­tag­gio, per la prima volta da vent’anni la città rischia di pas­sare in mano alla destra peg­giore, la sini­stra si pre­senta inquieta, insi­cura e divisa.

Si è detto della Regione. Nel capo­luogo, lo scan­dalo Mose, con l’arresto del sin­daco, il com­mis­sa­ria­mento del Comune e l’esplodere della sua crisi finan­zia­ria (anche per gli effetti per­versi del patto di sta­bi­lità), ha disar­ti­co­lato il modello poli­tico e ammi­ni­stra­tivo svi­lup­pa­tosi dagli anni Novanta e ha rime­sco­lato le forze, con il pre­va­lere, a sini­stra (ma anche a destra), di for­ma­zioni civi­che che ripo­si­zio­nano l’offerta elet­to­rale in ter­mini più aperti e tra­sver­sali, a volte personalistici.

Anche a Vene­zia la sini­stra ha cer­cato strade diverse sia den­tro una coa­li­zione che la lea­der­ship di Cas­son ren­deva più natu­rale sia all’esterno. In entrambi i casi si è rac­colto poco. Le pro­po­ste sono sem­brate più resi­duali che inno­va­tive. Il bal­lot­tag­gio tra Cas­son e Bru­gnaro è anche segnato da que­sta debo­lezza della sini­stra, oltre che dalle ambi­guità e dif­fi­coltà del Pd, come in Regione.

Se la forza aperta di Cas­son, oltre che il suo pro­filo inte­ger­rimo, riu­sci­ranno a unire il meglio dell’esperienza di governo della città e le forze che si sono sem­pre oppo­ste al sistema cor­rotto con i movi­menti e i per­corsi «civici» che pun­tano a una vir­tuosa inno­va­zione poli­tica e ammi­ni­stra­tiva (e a un’idea di città all’altezza di que­sto ini­ziale terzo mil­len­nio di Vene­zia), oltre ad assi­cu­rarsi la vit­to­ria cree­ranno le con­di­zioni per un nuovo spa­zio poli­tico, in cui la stessa sini­stra, in forme ine­dite, potrà ritro­varsi e ria­vere forza e respiro.

L’anno zero del Veneto e l’ora x di Vene­zia coin­ci­dono e s’intrecciano, infine, con il com­plesso, agi­tato momento poli­tico nazio­nale, di esso risen­tono ma ad esso, dalla città e dai ter­ri­tori, pos­sono comin­ciare a rispon­dere in modo originale.

Articoli di Norma Rangeri e Daniela Preziosi sulle elezioni di oggi: Un voto contro l'arroganza del Presidente chiacchierone.

Il manifesto, 31 maggio 2015


UN VOTO CONTRO L’ARROGANZA
di Norma Rangeri
Altro che Regio­nali. Oggi è in gioco una par­tita nazio­nale. Non solo poli­tica, ma anche per­so­nale. Quasi una resa dei conti, sia a sini­stra che a destra.

Dopo un anno di governo ren­ziano, ven­gono messe alla prova le scelte isti­tu­zio­nali, le riforme del lavoro e della scuola, le bat­ta­glie interne al Pd. Per il segretario-presidente è il primo vero banco di prova per con­fer­mare la sua dop­pia lea­der­ship. Nel Paese e nel par­tito. Lui lo sa bene, anche se negli ultimi giorni ha gio­cato al ribasso, prima indi­cando come obiet­tivo la vit­to­ria di sei regioni su sette, poi scen­dendo all’Italia-Germania 4 a 3, infine smi­nuendo il peso nazio­nale del voto amministrativo.

Per la destra la par­tita non è solo interna a Forza Ita­lia (gli attac­chi di Fitto a Ber­lu­sconi, la per­dita di con­senso, il crollo d’immagine segnano la caduta del vec­chio impero di casa Arcore), ma soprat­tutto nello scon­tro che si deli­nea tra le diverse forze in campo, dove al momento pre­vale media­ti­ca­mente la vio­lenza fascio-leghista di Salvini.

Accanto a que­sta tri­pla resa dei conti, gioca una par­tita a sé il Movi­mento 5 Stelle, che dopo i “fel­pati” passi indie­tro di Grillo sem­bra avviato su un per­corso poli­tico meno iso­la­zio­ni­sta, più orien­tato a cogliere le occa­sioni di con­fronto e di bat­ta­glia par­la­men­tare con le altre oppo­si­zioni. Negli ultimi mesi hanno segnato dei punti a loro van­tag­gio con una pre­senza par­la­men­tare anche pro­po­si­tiva, come è suc­cesso nella legge sugli eco-reati.

C’è una par­tita poi altret­tanto impor­tante che coin­volge le forze, i movi­menti, le per­sone della sini­stra che cer­cano di rico­struire un con­senso, di ali­men­tare la par­te­ci­pa­zione nelle realtà locali anche con­for­tati dai recenti risul­tati elet­to­rali spa­gnoli. E in que­sta pro­spet­tiva si muove quella parte della mino­ranza del Pd che al momento cam­mina in ordine sparso. Tut­ta­via sia in Ligu­ria (con Pasto­rino), che in Toscana (con Fat­tori), che nelle Mar­che e in Cam­pa­nia (con Men­tra­sti e Vozza), [sia nel Veneto, con Di Lucia Coletti- n.d.r.]che altrove con le liste della sini­stra, c’è una occa­sione impor­tante per lasciare il segno.

Oltre gli aspetti poli­tici gene­rali, è in primo piano la que­stione squi­si­ta­mente ammi­ni­stra­tiva per­ché le regioni rap­pre­sen­tano il luogo più espo­sto al mal­go­verno e al malaf­fare. Non a caso ha assunto rile­vanza, per­fino ecces­siva, la pre­sen­ta­zione dei 16 can­di­dati «impre­sen­ta­bili». Pro­prio nei ter­ri­tori si regi­stra con forza il mal­con­tento dei cit­ta­dini (come è acca­duto in Emi­lia Roma­gna) che usano l’arma più dirom­pente per i par­titi: aste­nersi dal voto. La forza delle demo­cra­zie si regi­stra pro­prio su que­sto aspetto. Che Renzi snobba e non tiene in alcun conto. Ma qui si misura la pro­ter­via di chi ci governa e pro­prio per que­sto biso­gne­rebbe andare a votare: per punire la sua arroganza.

IL PRESIDENTE CHIACCHIERONE
di Daniela Preziosi

Democrack. «Il voto non è un test su di me». Renzi se ne frega del silenzio elettorale e straparla da Trento. Dal voto dipende la stabilità dell'esecutivo e la deflagrazione del Pd. Lui si dichiara «ottimista». E invece teme di brutto Liguria e Campania. Il Pd colabrodo nei territori. E dopo il risultato scatterà la resa dei conti. Per il premier l’unico vero avversario è l’astensionismo

«Otti­mi­sta». Figu­rarsi se alla vigi­lia del voto con cui si gioca la dua duplice fac­cia di pre­si­dente del con­si­glio e segre­ta­rio del Pd, Mat­teo Renzi si fac­cia sfug­gire l’occasione di dichia­rarsi otti­mi­sta. In realtà i segnali che arri­vano dalle regioni non sono sma­glianti. L’aria è cam­biata, dopo la prima fase della corsa elet­to­rale. E c’è da capire l’effetto che farà nelle urne la guerra civile esplosa nel Pd con la pub­bli­ca­zione della lista dei 16 «impre­sen­ta­bili» da parte della com­mis­sione anti­ma­fia. Fra loro lo stesso can­di­dato pre­si­dente del Pd in Cam­pa­nia Enzo De Luca. Un assist inspe­rato per i 5 stelle che, dopo aver accu­sato Rosy Bindi di fare accordi con la destra per pro­teg­gere il suo par­tito adesso le espri­mono soli­da­rietà. Ma è un abbrac­cio mor­tale, agli occhi dei ren­ziani.

Ieri don Luigi Ciotti, fon­da­tore di Libera, ha speso parole di elo­gio per lei: «Da anni auspi­chiamo un rin­no­va­mento della poli­tica, una sua puli­zia dal malaf­fare, dalla cor­ru­zione, e dai fian­cheg­gia­menti con il cri­mine orga­niz­zato, e ora che la Com­mis­sione Anti­ma­fia eser­cita fino in fondo le sue fun­zioni si riduce tutto ad una lotta di potere tra cor­renti di par­tito». Così Susanna Camusso: «Il tema è avere un com­por­ta­mento rigo­roso, che è quello che si deci­dono delle regole e poi si appli­cano. Non è che le regole deb­bano variare in ragione di altre con­ve­nienze». Per­sino il car­di­nal Bagna­sco, pre­si­dente Cei, le ha teso la mano: «Chi si pre­senta per fare un ser­vi­zio al paese, recita la nostra Costi­tu­zione, deve farlo in modo ono­ra­bile».
Ma la verità è che Bindi è rima­sta sola e le accuse che ha rice­vuto la invi­tano all’uscita dal Pd. Ieri da lei ha preso le distanze anche l’ex capo­gruppo Spe­ranza: «Cono­sco bene De Luca e vedere il suo nome acco­stato all’Antimafia è in totale con­trad­di­zione con il suo impe­gno e con la sua sto­ria». Appena ci saranno i risul­tati delle regio­nali e in par­ti­co­lare quello di Ligu­ria e Cam­pa­nia, le due regioni in bilico, nel Pd scat­terà la resa dei conti. Alcuni usci­ranno, come Ste­fano Fas­sina. Ma al di là degli addii, il par­tito è un cola­brodo, non c’è fede­ra­zione che vada al voto — tranne la Toscana — che non abbia dovuto affron­tare un qual­che ter­re­moto interno. Inu­til­mente Lorenzo Gue­rini, vice di Renzi e suo ple­ni­po­ten­zia­rio , ha cer­cato di porre rime­dio a situa­zioni vec­chie e ine­men­da­bili — come quella cam­pana — spesso sfug­gite al con­trollo cen­trale sin dai tempi di Ber­sani. Il caso De Luca, gli abban­doni in Ligu­ria, per­sino il pas­sag­gio del gover­na­tore delle Mar­che uscente a Forza Ita­lia ne sono gli esempi solo più eclatanti.

Così Renzi prova a ridi­men­sio­nare la por­tata del voto e, dopo tanta bal­danza, ora nega che sia un test su di lui: «Fran­ca­mente no. Que­sta può essere stata una let­tura che si è data sulle ele­zioni euro­pee, let­tura che anche in quel caso non con­di­vi­devo. Ma le ele­zioni locali ser­vono per le ele­zioni locali. Non c’è nes­suna con­se­guenza». Ma è solo un ten­ta­tivo di met­tere le mani avanti. Il voto di oggi porta alle urne 23 milioni di ita­liani. Sarà un vero test sul governo nazio­nale, più cre­di­bile di molti sondaggi.

Per que­sto ieri ha fatto pro­pa­ganda fino all’ultimo. Dal Festi­val dell’economia di Trento, dov’era ospite con il col­lega fran­cese Manuel Valls, ha cer­cato di acco­darsi agli euro­cri­tici vin­centi di Spa­gna e Polo­nia: «Il futuro dell’economia par­lerà ita­liano e fran­cese, ma non tede­sco», ha assi­cu­rato, e via con la pro­messa di fare «casino» a Bru­xel­les, e «con una deter­mi­na­zione che non imma­gi­nate». E se «in Polo­nia hanno vinto i nazio­na­li­sti, in Spa­gna non è chiaro cosa potrà acca­dere, la Gre­cia sta nelle con­di­zioni che sap­piamo, il Regno Unito riflette sull’Europa», noi ita­liani dob­biamo stare sereni che in Ita­lia si apre una sta­gione «fan­ta­stica». Segue pro­pa­ganda su jobs act, tasse, pre­sunti miglio­ra­menti delle con­di­zioni dei lavoratori.

Il pre­si­dente cerca di moti­vare i suoi elet­tori, e se ne infi­schia del silen­zio elet­to­rale. Anche per­ché l’astensionismo rischia di essere l’unico vero sfi­dante in campo. Quello che ottiene per ora è la furia degli avver­sari: il for­zi­sta Bru­netta chiede alla pro­cura di Trento di inter­ve­nire per­ché «la rot­tura del silen­zio elet­to­rale con mani­fe­sta­zioni dirette o indi­rette di pro­pa­ganda è punito fino a un anno di car­cere». Il depu­tato M5S Frac­caro annun­cia un espo­sto. Da sini­stra anche Civati e Fra­to­ianni attac­cano: «Prima di lui solo Ber­lu­sconi, alla vigi­lia delle ele­zioni poli­ti­che del 2013, violò il silen­zio. Ma almeno per un giorno può evi­tare di par­lare?». È l’accusa di ber­lu­sco­ni­smo, forse anche un auspi­cio: per­ché quella volta il giorno dopo Ber­lu­sconi perse.

SINISTRA UNITA QUASI SEMPRE.
MA OCCHIOAL DOPO
di red.int.

Ven­ti­tré milioni di elet­tori, più donne che uomini, oggi vanno al voto per rin­no­vare 7 con­si­gli regio­nali — Veneto, Ligu­ria, Toscana, Mar­che, Umbria, Cam­pa­nia e Puglia — e 742 comuni, fra i quali la sfida prin­ci­pale è senz’altro quella di Felice Cas­son (Pd) a Vene­zia. Dopo il disa­stro Orsoni e il com­mis­sa­ria­mento della città, tutta la sini­stra si è riu­nita a soste­gno dell’ex pm (tranne, per la cro­naca, Ales­san­dro Busetto per il Pcl; Davide Scano è il can­di­dato dei 5 stelle).
Quanto alle regio­nali, occhi pun­tati su Ligu­ria e Cam­pa­nia, dove il Pd ren­ziano si gioco la fac­cia e l’osso del collo. Par­tiamo dalla Ligu­ria da dove, secondo l’auspicio di molti , subito dopo il voto potrebbe nascere una nuova ‘cosa’ a sini­stra. Molto dipende dal risul­tato in que­sta regione dove con­tro la dem Raf­faella Paita – e con­tro il suo finto sfi­dante Gio­vanni Toti — per la prima volta si tenta un pro­getto uni­ta­rio fra sini­stre e sini­stra Pd: il depu­tato ‘civa­tiano’ Luca Pasto­rino ha infatti lasciato il suo par­tito e si è messo a capo della lista Rete a sini­stra. La sua corsa è soste­nuta da Sel, Prc, L’Altra Europa, è ’bene­detta’ da Ser­gio Cof­fe­rati (anche lui ha lasciato il Pd) e da uno schie­ra­mento di forze e asso­cia­zioni, fra cui ’Pos­si­bile’ di Civati. Anche 200 elet­tori pd hanno annun­ciato il voto disgiunto. Fuori dalla corsa uni­ta­ria si misu­rano anche Anto­nio Bruno per ’Pro­getto Altra Ligu­ria’, lista nata da una sepa­ra­zione di Altra Europa con Tsi­pras, e Mat­teo Pic­cardi del Pcl. Per i 5 stelle corre la tren­tenne Alice Salvatore.
È invece tutta salita per la sini­stra la sfida veneta. Luca Zaia, pre­si­dente uscente della Legae appog­giato da Forza Ita­lia, ha il vento in poppa nono­stante la can­di­da­tura dell’ex leghi­sta Tosi. Par­tita dispe­rata dun­que per Ales­san­dra Moretti, ex por­ta­voce di Ber­sani alle pri­ma­rie 2012 e oggi ultrà ren­ziana, soste­nuta dal car­tello Ven(e)to Nuovo (Sel, Verdi Green Ita­lia e Sini­stra Veneta). Con­tro il cen­tro­si­ni­stra corre Laura Di Lucia Coletti soste­nuta da L’Altro Veneto, lista di diretta deri­va­zione dall’Altra Europa per Tsi­pras, con il Prc, Pcdi e asso­cia­zioni. Per i 5 stelle corre Jacopo Bert
Un'analisi dalla Catalogna. «Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali».

Comune.info, 28 maggio 2015.

Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali. Nato un anno fa come una macchina mediatico-elettorale gigantesca con una struttura di partito tradizionale, Podemos soltanto dopo ha cominciato a cercare il superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali. Ci riuscirà? Saprà gestire il potere per disperderlo in basso? I movimenti sapranno tutelare la loro autonomia e creatività? Di certo in Spagna è in corso un terremoto politico non solo elettorale, cominciato da alcuni anni. Ha ragione Caterina Amicucci, che scrive per noi di Comune da Siviglia, “vale la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà”

SIVIGLIA – La stampa italiana ha proclamato in maniera unanime ed errata la vittoria di Podemos alle elezioni amministrative spagnole. Basta dare uno sguardo ai dati elettorali per capire che la notizia è semplificata al punto da essere falsa. Il Partito Popolare pur avendo perso due milioni e mezzo di voti si conferma il partito più votato, seguito a brevissima distanza dal partito socialista. Podemos si attesta, salvo poche eccezioni, come terzo o quarto partito a seconda delle regioni e delle città.

Lo stesso Pablo Iglesias ha commentato domenica a urne chiuse che “la dissoluzione dei partiti tradizionali e la fine del bipartitismo si sta dimostrando un processo più lento di quello che speravamo”.

Potrebbe sembrare una cattiva notizia, ma con uno sguardo più attento si scopre che il terremoto e il segnale politico che arrivano dalle urne di Barcellona e Madrid sono molto più profondi e dirompenti di quello che sembrano. Per capirne un pò di più è necessario ripercorrere il frenetico anno appena trascorso, che inizia quando Podemos irrompe sulla scena raccogliendo l’otto per cento delle preferenze alle elezioni europee del maggio 2014. Da quel momento il gruppo di professori dell’Università Complutense di Madrid guidato da Pablo Iglesias, scatena una macchina mediatico-elettorale gigantesca per prepararsi all’election year.Obiettivo dichiarato: l’assalto al potere alle elezioni politiche dell’autunno 2015.

In pochi mesi i sondaggi posizionano Podemos come primo partito nelle intenzioni voto, nonostante ancora formalmente neanche esista, non abbia un programma nè un meccanismo chiaro di partecipazione e articolazione territoriale. Podemos celebra il suo primo congresso a novembre del 2014, optando per una struttura di partito tradizionale da un punto di vista di leadership e di partecipazione interna. Nella stessa occasione decide anche di non presentarsi con la sigla Podemos alle elezioni municipali, per diverse ragioni tattiche fra le quali evitare di dare un’indicazione a livello nazionale sulle iniziative Ganemos. E qui, occorre fare un passo indietro.

Poco prima del successo elettorale di Podemos, a Barcellona si forma l’iniziativa Guanyem Barcelona (ganemos in castigliano), una lista cittadina per concorrere alle elezioni municipali. La figura di Ada Colau è determinante a creare una coalizione ampia, sostenuta soprattutto dalla società civile e a far sfumare l’identità dei singoli partiti (Izquierda Unida, Equo, Podemos) dentro un progetto assimilabile a un fronte popolare. La sua potenza sta nel radicamento territoriale e nella penetrazione sociale dei movimenti che sono emersi con il 15M, primo fra tutti quello di cui Ada Colau è stata portavoce per diversi anni, la Plataforma de los afectados por hipoteca (Pah) – ovvero le vittime della bolla immobiliare e del sistema bancario spagnolo – che è riuscita nel blocco di centinaia di sfratti e la rinegoziazione di moltissimi mutui. Ma anche le diverse “maree”, ovvero i movimenti contro la privatizzazione e i tagli ai servizi pubblici dalla sanitá allascuola.

Sulla spinta di Barcellona, l’iniziativa Ganemos ha cercato di propagarsi a livello nazionale con alterna fortuna a seconda del contesto politico locale. In Andalusiaper esempio la presenza di Izquierda Unida, che ha appoggiato per anni il feudo clientelare del partito socialista, ha pregiudicato il tentativo unitario in molte cittá. Fa eccezione solo Malaga dove La Casa Invisibile, un importante luogo di riflessione sul tema dei beni comuni, ha favorito un processo di convergenza piu`ampio.

A Madrid il percorso è stato più lungo e complicato, ma comunque è approdato alla sigla comune di Ahora Madrid, progetto sostenuto da cinque liste, tra cui ovviamente Podemos e Madrid in Movimiento che ha ottenuto l’appoggio di numerose realtà associative e di base fra le quali per esempio Ecologistas en acciòn, la più grande rete nazionale di associazioni ambientaliste spagnole. Le elezioni primarie hanno indicato Manuela Carmena come candidata a sindaco, una ex giudice di settantuno anni fondatrice di Jueces por la Democracia (giudici per la democrazia) e da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani.

Ed ora che succede?

Da domenica c’è grande cautela perché la situazione consegnata dalle urne è nuova e complicata, rompe le maggioranze assolute e costringe la politica a tornare alle alleanze e le geometrie variabili. Il Partito Popolare vincitore per pochi voti quasi ovunque non può governare solo e nella maggior parte dei casi neanche con l’eventuale appoggio di Ciudadanos. Nell’altro metà del campo le alleanze potrebbero essere difficili anche se a Madrid ormai l’accordo con i socialisti è quasi concluso e potrebbe dettare la línea a livello nazionale.

Sempre che, il fantasma della grande coalizione che si aggira per l’Europa, non irrompa anche in Spagna. Magari non subito ma a seguito di un periodo di incentivata instabilità.

Speculazioni a parte, a Barcellona e Madrid (e non solo) ciò che esce vittorioso dalle urne è una nuova forma di coalizione di soggetti fortemente radicati nella società, con forme organizzative e strutture diversificate, che pretende di riappropriarsi di spazi decisionali e quote di potere sfidando le oligarchie politico-economiche. Non è un caso che e nelle due cittá sia aumentata la partcipazione al voto nei quartieri più popolari.

Non si tratta dunque della fine del bipartitismo tanto auspicata da Pablo Iglesias, bensì del superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali, meno gerarchiche e maggiormente inclusive.Varrà la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà.

Anche

il manifesto (30 maggio 2015) vede a Venezia solo Felice Casson e le destre. Ignora la sinistra e non si accorge che dietro il bravo magistrato c'è Matteo Renzi, più che un'ombra. Nonchè l'establishment che ha «let­te­ral­mente mas­sa­crata negli ultimi vent’anni» la città. In calce un riferimento utile a chi vuol comprendere meglio

Lo spet­tro dello scan­dalo Mose incombe sem­pre su Ca’ Far­setti. Can­ni­bali del patri­mo­nio, lobby degli appalti e squali della sus­si­dia­rietà non hanno mai mol­lato la presa su Vene­zia che con­si­de­rano cosa loro. Il padi­glione Acquae a Mar­ghera, deso­la­ta­mente deserto dopo l’inaugurazione di Renzi, sin­te­tizza il flop dell’«economia mista» in laguna: per­fino la vetrina col­le­gata a Expo Milano non ripaga gli inve­sti­menti. Ma è già pronto il pro­getto di scavo del rio Con­torta a bene­fi­cio delle Grandi Navi, con l’inossidabile Paolo Costa (ex ret­tore, ex sin­daco, ex euro­par­la­men­tare Pd) che resta fedele agli inte­ressi degli “impren­di­tori” in con­ces­sione unica gra­zie al Con­sor­zio Vene­zia Nuova. E a Tes­sera si rigioca la par­tita del busi­ness nel qua­drante dell’aeroporto Marco Polo: Enrico Mar­chi, pre­si­dente di Save, cal­deg­gia il master­plan che fino al 2021 farebbe decol­lare anche l’urbanistica a senso unico.

Il nuovo sin­daco avrà già l’agenda infar­cita per l’intera estate, tanto più che l’eredità del com­mis­sa­rio Vit­to­rio Zap­pa­lorto è dav­vero un incubo: conti in rosso per 56 milioni nella spesa cor­rente 2015, scure ad alzo zero sui ser­vizi sociali e tra­sfe­ri­menti dello Stato a rischio “sta­bi­lità”. Dome­nica nei 256 seggi fra laguna, isole e ter­ra­ferma i 211.132 elet­tori della città metro­po­li­tana sono chia­mati a sce­gliere fra nove can­di­dati soste­nuti da 24 liste. È il giorno della verità per Felice Cas­son, 61 anni, ex pm e sena­tore “dis­si­dente”: ha trion­fato alle pri­ma­rie, aggre­gato il “cen­tro­si­ni­stra clas­sico” e perso tre chili nella mara­tona della cam­pa­gna elet­to­rale di pros­si­mità. Può vin­cere, forse, già al primo turno e can­cel­lare il ricordo della scon­fitta nel bal­lot­tag­gio 2005 con Mas­simo Cac­ciari. Sarebbe un segnale ine­qui­vo­ca­bile per la “vec­chia ditta” della Quer­cia vene­ziana, ma ancor di più per Renzi che avrebbe pre­fe­rito un can­di­dato più allineato.

Cas­son sulla scheda occupa la posi­zione cen­trale con i sim­boli della lista civica (con Nicola Pel­li­cani in cima), Pd, Vene­zia 2020, Vene­zia bene comune, Socia­li­sti e Vene­zia popo­lare. Il cen­tro­de­stra si è spac­cato in tre, per­ché alla fine Luigi Bru­gnaro (paròn di Umana e della Reyer Basket, ma anche sus­si­dia­rio non solo a Con­fin­du­stria) ha deciso di scen­dere in campo con la bene­di­zione del mini­stro Alfano. Dovrà veder­sela con Fran­ce­sca Zac­ca­riotto, ex pre­si­dente della pro­vin­cia ed ex leghi­sta, che sven­tola la ban­diera di “Vene­zia Domani” insieme al tri­co­lore di FdI. E con Gian Angelo Bel­lati, can­di­dato della Lega che rispol­vera il sepa­ra­ti­smo di Mestre da Venezia.

Il M5S si affida a Davide Scano, avvo­cato 39enne, spo­sato con due figli, che è già stato con­si­gliere dei Verdi nella muni­ci­pa­lità di Mestre. Com­ple­tano il qua­dro dei can­di­dati sin­daco Fran­ce­sco Mario d’Elia del Movi­mento auto­no­mia Vene­zia, Camilla Sei­bezzi di “Noi la città”, Giam­pie­tro Pizzo di “Vene­zia cam­bia 2015” e Ales­san­dro Busetto del Par­tito comu­ni­sta dei lavoratori.

La vigi­lia del voto si con­suma nel tra­di­zio­nale porta a porta della coa­li­zione di Cas­son, men­tre sull’altro fronte si urla al mas­simo nel mega­fono della “sicu­rezza”. Dome­nica scorsa gli atti­vi­sti dei cen­tri sociali Morion e Rivolta hanno con­te­stato il comi­zio di Mat­teo Sal­vini con i gom­moni a sim­bo­leg­giare i diritti dei migranti e con un paio di cari­che delle forze dell’ordine, che ora annun­ciano una raf­fica di denunce dopo le iden­ti­fi­ca­zioni della Digos. In attesa del ver­detto delle urne, Fili­berto Zovico (edi­tore del quo­ti­diano on line Vene­zie Post e pro­mo­tore dei festi­val tema­tici) non nasconde lo scet­ti­ci­smo ser­peg­giante: «Già il recente voto in Tren­tino è stato un segnale espli­cito del males­sere siste­mico a Nord Est. Vene­zia rischia di cer­ti­fi­carne la para­lisi, per­ché la città è stata let­te­ral­mente mas­sa­crata negli ultimi vent’anni. Il cen­tro­si­ni­stra, al di là dei pro­clami, non ha mai saputo costruire un vero pro­getto per la capi­tale del Veneto.

Unica ecce­zione la Bien­nale di Baratta che almeno ha resti­tuito un tocco di inter­na­zio­na­lità». Ora con Cas­son, che Zovico para­gona a De Magi­stris a Napoli, si rischia per­fino di repli­care in un even­tuale bal­lot­tag­gio la scon­fitta di Padova. «Per di più a bene­fi­cio di can­di­dati del cen­tro­de­stra non all’altezza di una città come Vene­zia, unica e deli­cata. Insomma, esau­riti i pri­vi­legi e ven­duti i gioielli di fami­glia l’offerta poli­tica si rivela fal­li­men­tare: la lunga crisi di Vene­zia sarà esplo­siva in assenza di un dise­gno, di un’amministrazione inno­va­tiva e di un effet­tivo governo della rigenerazione»

Riferimenti

Vedi qui la nostra risposta a un articolo di Paolo Floris d'Arcais.

La Repubblica, 30 maggio 2015

SIAMO un popolo di spreconi. Smemorati, distratti, incapaci di Programmare La Spesa e gli acquisti. Compriamo troppo cibo, cuciniamo Piu di Quello che mangiamo. E il resto finisce Nella pattumiera: 49 chili all'anno per famiglia. Pari a otto miliardi di euro bruciati caso Nelle Nostre, colomba buttiamo Piu di un Milione di Tonnellate di Alimenti. Una montagna Che diventa cinque Volte Più grande se si aggiungono i prodotti Lasciati nel campo (1,4 Milioni di Tonnellate), ecco Spreco Nella Trasformazione Industriale (2 Milioni di Tonnellate) e Quello Nella Distribuzione commerciale (300mila Tonnellate).
Le cose però Stanno Cambiando, e non solo per colpa della Crisi Che ha MODIFICATO i comportamenti, Visto Che ora un italiano su quattro Assaggia i prodotti scaduti prima di buttarli.

DOPO la Presentazione in Francia Di Una legge Che Prevede il reato di Spreco e multe per i Grandi Magazzini Che Non Donano Gli Avanzi, si muove l'Italia. Se in rete su change.org in 30mila Hanno Firmato la richiesta Di Una Normativa similitudine, l'onda lunga di Parigi arriva a Roma. E il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti ha le idee Chiare.

«E INDISPENSABILE Una legge Contro lo Spreco Alimentare. Voglio presentarla Entro fine anno. Una legge Diversa da Quella francese Perché Sono convinto Che E meglio Risolvere senza sanzioni ma con educazione e Incentivi ». Il ministro Vuole un Provvedimento Che Non punisca MA insegni a sprecare e Soprattutto dia Strumenti alle Aziende Che non Spesso ora Non Posso regalare prodotti in Scadenza senza perderci per Problemi Fiscali, di magazzino. «In Italia esiste ha Una grande e piccola Distribuzione sensibile, C'è la cultura, C'è ATTENZIONE, bisogna assolo osa Gli strumenti Fiscali e Soprattutto Insegnare alle Famiglie, venire Previsto dal piano nazionale con lezioni in classe sin da piccoli, Perché lo Spreco domestico E Ancora alto also se in Diminuzione: Dai 10 miliardi nel 2013 Si e Passati Agli 8 odierni ».

In Italia, la voragine del cibo gettato E grande Nelle Nostre caso, il 25%, Più che Nella Grande Distribuzione Che Tra l'altro dona al Banco Alimentare o Agli Oltre 50 progetti Last Minute Market e alle mille piccole Realtà locali, MENTRE a decine di città il cibo avanzato Dalle mense Pubbliche comunali va Direttamente annuncio Enti Benefici.

A fotografare l'Italia dello sperpero casalingo, Sono da anni le Inchieste di Last minute market, spin off dell'Università di Bologna ideato da Andrea Segré, il professore di agronomia ora presidente del Comitato Tecnico scientifico per il grande piano nazionale Contro lo Spreco voluto dal Ministero dell'Ambiente. Gli italiani, Dicono le Ricerche dell'Osservatorio Rifiuti osservatori buttano via 49 chili di cibo commestibile OGNI anno, con decisa costanza. Il 55 per cento getta avanzi giorno quasi OGNI, il 30 per cento tre volte a settimana, il 10 per cento a 1,2 Volte e solista l'1 per cento quasi mai.

Perché gettiamo via Gli Alimenti? In linea di Massima, raccontano le Indagini, Perché Compriamo troppo, senza Programmazione e Così Frutta e verdura Vanno un maschio prima di finire in pentola oppure cuciniamo troppo.

«Per Questo e Importanti L'educazione dall'asilo all'università, non le multe alla francese, demagogiche, Così solista si Cambiano veramente i comportamenti e si evitano sprechi. I corsi have been annunciati da un anno ma Ancora non si vedono e invece Sono necessari. Con urgenza. Bisogna Imparare Il Valore del cibo, venire non perdere Una Risorsa. E non DEVE diventare Una giustificazione il Sapere Che ci Sono Organizzazioni venire la nostra o il Banco Alimentare Che in maniera Diversa indirizzano le eccedenze a chi ha bisogno ». Andre Segré da anni Lavora in Prima Linea all'insegna del "nessuno spreco", puntando a diventare di gran lunga sprechi Risorse, concretamente, mettendo in contatto chat con i "Mercati dell'ultimo minuto" chi ha eccedenze e chi ha bisogno. E dal punto di vista della Programmazione, dell'ideazione, un Lavora Proposte e progetti Che, tramezzi per un Livello locale, sottoscritti da centinaia di comuni italiani, Hanno influenzato la risoluzione Europea sullo Spreco nel 2012 Che ragionava Sulle strategie per EVITARE Tonnellate di cibo buttato .

Cultura, Informazione per non distruggere il pianeta, colomba OGNI anno si gettano via mille miliardi di cibo. Perché PRODURRE tutto Quello buttiamo costa, Stati Uniti d'America, Consuma la terra, Cambiamenti Climatici provocazione. Lo Spreco Alimentare, se Fosse un paese, sarebbe infatti il ​​terzo inquinatore DOPO Cina e Usa. Perché la quantita di anidride carbonica Necessaria una Portare il cibo sui nostri piatti E pari a 3,3 miliardi di Tonnellate e per produrlo si usa il 30 per cento del terreno coltivabile del mondo e Una quantita di acqua OGNI anno che basterebbe alle esigenze di Tutti i Cittadini di New York per Piu di un Secolo. Senza Contare Che il Costo calcolato del cibo sprecato E pari a 750 miliardi di Dollari, il prodotto interno Praticamente lordo della Svizzera.

E a furia di campagne, Qualcosa però si muove also Nelle Nostre caso. E L'Ultima ricerca osservatori Rifiuti - Swg, che verrà Presentata Nei Prossimi giorni all'Expo, racconta il Che sempre Più Spesso i genitori italiani insegnano Ai figli un non sprecare il cibo (77%) e bis SCEGLIERE solista prodotti di stagione (56%) . Sempre più consci dei propri Limiti, che sì acquista troppo (49%) e si cucina in eccesso. Un primo passo verso il "senza sprechi".

«A Bindi non si per­dona la grave colpa di non essersi allineata al nuovo gruppo dirigente. Ma è innan­zi­tutto con se stessi e spe­cial­mente con Renzi che dovreb­bero pren­der­sela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha can­di­dato».

Il manifesto, 30 maggio 2015

Affi­dare alla vigi­lia delle ele­zioni l’appalto milio­na­rio di un nuovo ospe­dale in Ligu­ria a uno dei nuovi padroni dell’Unità è un’operazione bene­me­rita. Lodare l’ottimo lavoro per Expo di Diana Bracco, oggi alle cro­na­che per pre­sunte fat­ture false della sua società far­ma­ceu­tica, è per­fet­ta­mente nor­male. Que­sto è il Pd e per que­sto l’attacco for­sen­nato sca­te­nato con­tro la pre­si­dente della Com­mis­sione anti­ma­fia, per aver adem­piuto al suo dovere, non stupisce.

Anche se par­ti­co­lar­mente vol­gare e arro­gante, l’assalto a Rosy Bindi mette in evi­denza l’impasto di que­sto nuovo par­tito ren­ziano, capace di tenere insieme le peg­giori abi­tu­dini del vec­chio (la dop­pia morale) mesco­late con i pes­simi vizietti del nuovo (la per­dita di memo­ria e di iden­tità). Un par­tito che pensa, tratta e pra­tica la poli­tica come stru­mento di un potere senza media­zioni né con­trap­pesi. Prima il vec­chio gruppo diri­gente, poi i sin­da­cati, i costi­tu­zio­na­li­sti, gli insegnanti… .

Trat­tare Bindi quasi fosse una gril­lina d’assalto, oltre che il migliore spot alla cam­pa­gna elet­to­rale dei 5Stelle, è nello stesso tempo indice di arro­ganza e sin­tomo di grande debo­lezza. Per aver ottem­pe­rato ai suoi obbli­ghi isti­tu­zio­nali (esa­mi­nare le liste elet­to­rali rispetto ai pro­fili giu­di­ziari rela­tivi al rap­porto tra mafia e poli­tica, secondo un codice di auto­re­go­la­men­ta­zione sot­to­scritto da tutti i par­titi), e per averlo fatto anche con cele­rità (dall’inizio della pre­sen­ta­zione delle liste, un mese fa, come da rego­la­mento), Bindi viene addi­tata dal pre­si­dente del par­tito, Orfini, come il nemico da distrug­gere («siamo tor­nati indie­tro di secoli quando i pro­cessi si face­vano in piazza aiz­zando le folle»).

Come se fosse della pre­si­dente della Com­mis­sione la respon­sa­bi­lità di aver messo in lista per­sone che hanno pro­blemi con il casel­la­rio giu­di­zia­rio. Qui il garan­ti­smo non c’entra, la Com­mis­sione anti­ma­fia a 48 ore dal voto (dun­que quando la cam­pa­gna è pres­so­ché con­clusa, quando i cit­ta­dini hanno visto all’opera i can­di­dati) tra­smette al cit­ta­dino infor­ma­zioni pub­bli­che ma cono­sciute solo da una ristretta cer­chia di addetti ai lavori. Tra l’altro si tratta di dicias­sette nomi su quat­tro­mila can­di­da­ture esa­mi­nate. Ma il tappo è sal­tato per la pre­senza dell’asso piglia­tutto della Cam­pa­nia, De Luca, e per i timori di qual­che brutta sor­presa nell’urna. Solo Ber­sani e Fas­sina hanno soli­da­riz­zato con Bindi rimet­tendo al cen­tro la que­stione politica.

Sarebbe da rive­dere cosa scri­ve­vano que­sti pate­tici per­so­naggi quando Ber­lu­sconi stril­lava sulla «per­se­cu­zione», sulla «giu­sti­zia a oro­lo­ge­ria». Ora sosten­gono le stesse cose che diceva la destra quando la magi­stra­tura faceva il pro­prio lavoro. Tra l’altro invo­care la legge per legit­ti­mare alcune discu­ti­bili can­di­da­ture è una pezza peg­giore del buco per­ché dice di una poli­tica che se fosse sicura e fiera delle liste le riven­di­che­rebbe, allon­ta­nando la sgra­de­vole sen­sa­zione di rac­cat­tare da ogni sponda e clientela.

Tanta viru­lenza in realtà sco­pre la lunga coda di paglia di chi mal sop­porta che le isti­tu­zioni fac­ciano il loro lavoro anche con­tro il potente di turno. A Bindi non si per­dona la grave colpa di non essersi alli­neata al nuovo gruppo diri­gente. Ma è innan­zi­tutto con se stessi e spe­cial­mente con Renzi che dovreb­bero pren­der­sela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha can­di­dato. È stato pro­prio il presidente-segretario, che ora accusa Bindi di usare l’Antimafia per fini di bat­ta­glia interna, a sbi­lan­ciarsi fino a «scom­met­tere che nes­suno degli impre­sen­ta­bili sarà eletto, per­ché sono tutti espres­sione di pic­cole liste civi­che». Quando si dice che il dia­volo fa le pen­tole ma a volte dimen­tica i coperchi.

Nobiltà dell'ispirazione e dell'avvio, miseria della conclusione temuta: se la ragione non vince contro la finanza.

Alternative per il Socialismo n. 36

Nella prima decade di maggio, il nostro vecchio continente ha celebrato la vittoria contro il nazismo e i 65 anni della dichiarazione di Robert Schumann che pose la prima pietra per la costruzione della unità europea, pur nella forma squisitamente economica della Comunità del carbone e dell’acciaio, la Ceca. Ma non si può dire che siano stati anniversari lieti per l’Europa. La crisi economica e soprattutto le politiche dei suoi gruppi dirigenti la schiacciano e i rischi di implosione si moltiplicano.

Naturalmente non manca chi cerca di fare almeno un po’ di training autogeno, non fosse altro che per sollevare il morale. The European Economic Forecast, le previsioni economiche di primavera 2015, rese note dalla Commissione europea agli inizi di maggio, sembrano appartenere a questo tipo di pratiche e infatti recano un incipit davvero ottimistico, che in inglese suona ancora più enfatico: “The outlook for economic growth in the EU has brightened”. Ma davvero le prospettive economiche nel nostro continente sono diventate addirittura luminose? Scorrendo il resto del rapporto, e in particolare la prima tabella, si ha ragione di dubitarne. La crescita del Pil nell’Eurozona è stimata per il 2015 fino all’1,5%, per il 2016 all’1,9%. Tra i fanalini di coda troviamo l’Italia con un +0,6% nel 2015 e un +1,4% per l’anno successivo. Alla pari con Cipro e migliore solo rispetto alla Finlandia. Se ci si allarga all’area di tutta la Ue la crescita nel 2015 è prevista in un +1,8% nel 2015 e in un 2,1% nel 2016. Cifre lontane dal 3% degli Usa e ovviamente dal 6,8% della Cina, nel 2016, quest’ultima in rallentamento rispetto agli anni precedenti. Poco consolante il dato della disoccupazione che si prevede a fine 2015 posizionarsi sull’11% nell’eurozona e sul 9,6% nell’intera EU, con previsioni di diminuzione di solo qualche decimale nel 2016.

Se l’economia reale resta al palo o retrocede, la finanza ha ripreso, superati i primi terribili shock dell’inizio della crisi, a filare a gonfie vele. Nello scorso decennio le attività finanziarie europee – secondo il Banking Structures Report della Bce – si sono quasi raddoppiate, giungendo al livello, nel 2013, di quasi sei volte il Pil dell’intera Eurozona. La bolla finanziaria continua imperterrita a gonfiarsi lasciando il mondo intero con il fiato sospeso di fronte ad una sua possibile e improvvisa esplosione, dal momento che le misure cautelative nel frattempo adottate sono del tutto insufficienti.

La contingenza favorevole non scuote l’economia europea

D’accordo, i dati economici complessivi del 2014 e soprattutto del 2013 erano ancora peggiori e recavano un segno negativo per la crescita nell’Eurozona. Ma da allora ad oggi sono intervenuti fatti rilevanti nell’economia europea e soprattutto extraeuropea, dai quali in molti si attendevano di più. Quali il crollo del prezzo del greggio, la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, i tassi di interessi bassissimi in Europa, i concreti segnali di ripresa dell’economia americana, ma soprattutto la pioggia di denaro elargita alle banche europee con il famoso Quantitative Easing voluto fortemente da Mario Draghi. A questi elementi straordinariamente positivi in sé – anche se non privi di effetti collaterali negativi in termini di incremento delle diseguaglianze sociali, come vedremo poi – hanno fatto da contraltare altri negativi, come le tensioni geopolitiche con la Russia. Ma nel complesso questi ultimi non spiegano interamente il “nervosismo” dei mercati finanziari – come si suole dire con un linguaggio ormai stereotipato – né l’apparire di nuove nubi dietro quell’orizzonte luminoso, come lo stesso rapporto della Commissione europea riconosce poche righe dopo quell’incipit così trionfale.

Né è sufficiente affermare, pur restando nel giusto, quanto più volte abbiamo scritto in questa rivista: che l’Unione europea più che vittima della crisi lo è delle proprie sciagurate politiche di austerità. Questo non solo è vero, ma più si vede la differenza dell’andamento economico europeo con quello di altre zone a capitalismo sviluppato, più diventa evidente. Al punto che anche nel pensiero mainstream e persino nei documenti ufficiali del Fondo Monetario Internazionale la critica al rigore all’europea non viene certo sottaciuta.

Il guaio è che quelle politiche e l’andamento geopolitico ed economico mondiale hanno creato nel nostro continente guasti profondissimi, che non possono essere rimossi da un semplice mutamento, anche se molto favorevole, della congiuntura economica. Se anche supponessimo che le elite europee si convincessero come d’incanto che l’assoluta prevalenza della finanza sull’economia reale costituisce un errore strategico e decidessero di ridare slancio alla produzione, questa non potrebbe avvenire negli stessi modi, secondo gli stessi schemi e con gli stessi obiettivi produttivi del periodo anticrisi, anche perché molte di quelle forme e strutture produttive sono andate perdute, o completamente trasformate nelle loro finalità o de localizzate durante questi anni di stagnazione e di recessione. L’Italia, che ha perduto il 25% del proprio potenziale produttivo lungo questo periodo, è un caso di scuola in negativo.

Si aggrovigliano quindi nodi complessi di breve e lungo periodo, che riguardano gli aspetti più contingenti come quelli di più lunga durata. Difficilmente, anche se fosse animata dalla migliore classe dirigente – il che non è – l’Unione europea potrebbe scioglierli tutti contemporaneamente. Ma potrebbe, questo sì, cominciare ad aggredirne qualcuno in modo positivo. Il più urgente dei quali, senza la cui soluzione la Ue è destinata a implodere, è la questione del debito greco.

Avere aggravato la condizione della Grecia minaccia l’unità europea

Purtroppo sta avvenendo il contrario. Come non è difficile prevedere, anche l’appuntamento dell’Eurogruppo dell’11 maggio non è stato risolutivo. Anzi, ogni volta che ci si avvicina a queste riunioni, le distanze sembrano aumentare e le polemiche farsi sempre più aspre. Contemporaneamente cresce anche la consapevolezza in ambienti mainstream di andare a sbattere senza alcuna ragione contro il muro di una stupida rigidità. Qualche settimana fa una editorialista del Sole24Ore, Adriana Cerretelli, scriveva parole pesanti e inequivocabili sull’argomento: ““La Grecia, 2% del Pil dell’Eurozona e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino affonderà dunque nel marasma più nero. Ma … quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro e Europa. Non sarebbe meglio una sana Realpolitik. Meno costosa per tutti?”

Erano i giorni immediatamente antecedenti al vertice di Riga del 24 Aprile. Un vertice rivelatosi non solo infruttuoso – come era largamente prevedibile e previsto – ma addirittura negativo, perché in quell’occasione è partito un violento tentativo di delegittimazione di Yanis Varoufakis come capo della delegazione greca trattante. Un tentativo abilmente aggirato da Alexis Tsipras con un allargamento della delegazione e una fluidificazione di ruoli che non ha affatto tolto la fiducia al suo Ministro delle Finanze.

Le richieste della Grecia restano contenute. In sostanza puntano a guadagnare tempo per potere innescare un processo alternativo di crescita sociale ed economica. Nello stesso tempo i greci non sono mai venuti meno nel rispettare le loro scadenze con i debitori, anche a costo di promulgare decreti sul concentramento dei fondi degli enti pubblici presso la cassa centrale dello Stato. Il principio rimane quello detto da Varoufakis: “arrivare a compromessi senza essere compromessi”. Il che comporta che si può discutere anche di privatizzazioni, entro una certa misura, ma non si può retrocedere sui temi del lavoro e delle pensioni, che costituiscono il cuore sociale del programma su cui Syriza ha vinto le elezioni.

A fronte di questo i greci chiedono ciò che sarebbe loro, come quel 1,9 mld di euro che rappresentano i guadagni della Bce sui titoli greci; un’anticipazione sui 7,2 mld di euro che costituiscono l’ultima tranche del famoso programma di aiuti e l’innalzamento a 15 mld della possibilità di emettere titoli di stato a tre mesi, che potrebbero fornire un poco di fiato finanziario allo stato e al sistema economico ellenico. Su questo ultimo punto si è particolarmente irrigidito Mario Draghi, cosa apparentemente paradossale rispetto alla disponibilità di mettere sul piatto qualcosa come 1140 mld di euro fino al settembre del 2016 – con la possibilità di continuare ancora, se non basterà – per le banche europee, escluse quelle greche e cipriote (il quantitative easing appunto).

Ma come è noto attorno alla vicenda greca si gioca essenzialmente una partita politica più che economica. Se la Grecia se la cava è dimostrato in modo evidente che la strada alternativa alla austerità esiste ed è praticabile. Il che genera, per quei paesi che l’hanno praticata con fervore, evidenti problemi di credibilità verso i loro popoli. Per questo la Grecia nella trattativa in corso è sola contro gli altri 18 paesi, e quelli più scatenati sono quelli iberici che temono una vittoria delle sinistre nei loro paesi e quelli dell’est, come si conviene a dei veri e propri parvenu.

Il pericolo di un contagio economico-finanziario in caso di Grexit

Questa partita tutta politica, guidata con sapienza tattica, ma insipienza strategica da Angela Merkel, non esclude di correre rischi che potrebbero rivelarsi fatali. Non c’è solo il pericolo di un contagio politico derivante da una soluzione che veda la Grecia non sconfitta nel confronto, vi è anche quello di un contagio economico-finanziario in caso di una Grexit, cioè di un’uscita della Grecia dall’Euro e quindi dalla Ue. Per questo si affaccia una nuova tattica, in cui si alternano scientemente docce calde e docce gelate, per la quale è già nato un nuovo neologismo: “Grimbo”, ovvero tenere la Grecia in una sorta di limbo, nel quale la corda attorno al collo non viene mai mollata né stretta fino in fondo, in attesa che il governo di Tsipras sia costretto a cedere e conseguentemente a perdere il grande consenso di cui gode, magari con la prospettiva finale di un rovesciamento politico etero diretto, di un colpo di stato bianco per dirlo in termini più esatti.

Anche alla prima donna d’Europa converrebbe guardare bene le previsioni che gli analisti economici fanno in caso di una possibile Grexit. E’ vero che il sistema bancario europeo è molto meno esposto nei confronti del paese ellenico di qualche anno fa, ma lo sono gli Stati, sia in modo diretto, sia attraverso il Fondo salva stati. A loro non conviene un fallimento della Grecia e una Grexit, perché diventerebbe del tutto improbabile il recupero dei loro crediti. Vale il detto popolare: se hai un debito di mille euro con la tua banca il problema è tuo, se il debito è di milione il problema è della banca.

Tanto è vero che nei giorni immediatamente precedenti alla riunione dell’Eurogruppo dell’11 maggio, che sono gli stessi nei quali la Commissione europea ha reso noto il suo ottimistico rapporto con cui abbiamo aperto questo articolo, i mercati finanziari hanno ripreso a ballare. Le Borse tendono al ribasso, gli spread salgono. I rendimenti dei Btp e dei Bonos spagnoli puntano nuovamente verso l’alto come non accadeva dal gennaio scorso. Ma la novità più rilevante è che qualche sofferenza la evidenziano persino i potentissimi Bund tedeschi, che erano scesi a rendimenti negativi. Ora hanno cominciato a risalire. Quindi nemmeno la Germania è più vista come un porto assolutamente sicuro, dove posteggiare i capitali anche perdendoci un poco.

In sostanza l’economia finanziaria non crede alle parole della politica che ha cercato in una certa fase di sostenere la tesi della irrilevanza di un’uscita della Grecia dalla Ue e dall’Euro, come se il fatale default greco potesse essere derubricato a semplice tragedia nazionale e non coinvolgesse la credibilità dello stesso progetto di unità europea oltre al suo stato di salute economico-finanziario.

D’altro canto se si allenta anche solo per un attimo la tensione sul fronte greco, si accende subito un focolaio di un possibile grande incendio da un’altra parte. E’ quanto sta accadendo dopo la netta vittoria elettorale dei conservatori inglesi. Nessuno dimentica, soprattutto coloro che lo hanno eletto, che David Cameron aveva promesso urbi et orbi in campagna elettorale un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue da tenersi entro il 2017. Quindi vi è anche una possibile Brexit alle porte. I neologismi non mancano

Il termine quanto mai usato di “apprendista stregone” si spreca sui giornali di tutta Europa e viene riferito naturalmente ad Alexis Tsipras, il quale avrebbe irresponsabilmente suscitato speranze e bisogni che ora non riuscirebbe né a soddisfare né a dominare. D’altro canto le cancellerie di tutt’Europa vorrebbero decidere loro la politica economica interna della Grecia indipendentemente dall’esito elettorale. Invece la vera domanda che dovrebbero cominciare seriamente a porsi è se l’apprendista stregone non è invece quella politica di rigore che sta facendo implodere l’Europa dal punto di vista economico e che dal punto di vista politico sta dando la stura a populismi di ogni tipo, dall’alto e dal basso, che operano in senso apertamente disgregatore rispetto all’unità europea.

Gli sgradevoli effetti collaterali del Quantitative Easing

Il Quantitative Easing è stato certamente un intervento invocato e necessario, almeno per mettere una toppa ad una situazione che diveniva ogni giorno più drammatica. Ha rappresentato la continuazione logica e naturale di quel famoso “Whatever it takes” già pronunciato da Draghi tre anni orsono, nel momento di maggiore panico per la gravità della crisi. Una pioggia di miliardi sta inondando il sistema bancario europeo. Ma a parte il fatto che questo di per sé non garantisce che quella liquidità si trasformi in investimenti dell’economia reale, vi sono altri aspetti collaterali della iniziativa della Bce che andrebbero presi in considerazione.

Come per ogni cosa, cominciare è più facile che smettere. Il pompaggio di liquidità è previsto fino all’autunno del 2016, ma potrebbe continuare se l’inflazione non raggiungesse il 2%. Che è il target della Bce. Ma questo potrebbe creare, come già si vede, nuove bolle speculative, che andrebbero trattate con cura, per evitare che scoppino nelle mani di chi le ha create e per di più all’improvviso. Ci vorrebbe una strategia di sgonfiamento graduale. Ma se l’inflazione ripartisse e l’economia reale no, per quei motivi di fondo e strutturali cui si è fatto prima cenno, cosa potrebbe succedere? In base al suo mandato vincolato solo al tasso di inflazione la Bce dovrebbe bruscamente arrestare il proprio intervento, provocando in questo caso un shock negativo sui mercati. A differenza della Fed, che infatti ha iniziato il tapering, ovvero una graduale riduzione del pompaggio di liquidità prima ancora del probabile innalzamento dei tassi, la Bce non ha nella sua mission l’elasticità e cassetta degli attrezzi necessari per farlo. La possibilità che il celebrato QE si tramuti poi in una bolla incontrollabile è un effetto collaterale indesiderato ma tutt’altro che improbabile.

Ma vi è un altro effetto da tenere ancora di più in considerazione. L’abbassamento dei tassi di interesse trascina con sé la rivalutazione delle obbligazioni a lungo termine, delle azioni e del valore degli immobili. Soprattutto in assenza di una tassazione patrimoniale onnicomprensiva, come nel caso italiano. Il che incrementerebbe la ricchezza di quella piccola percentuale di popolazione (l’un per cento direbbero quelli di blockupy) con l’esito di una ulteriore divaricazione della forbice delle diseguaglianze reddituali e sociali.

Gli effetti si vedono già, come notano gli analisti economici, sia nel contesto generale europeo che nel caso italiano. La massa di liquidità rovesciata sul mercato induce gli operatori a liberarsi dei titoli in loro possesso fino a quel momento e a utilizzare il nuovo denaro per altri acquisti finanziari, piuttosto che prendere la strada degli investimenti nell’economia produttiva. Così l’azione della Bce gonfia il valore, come abbiamo visto, del mercato finanziario allontanandolo sempre più da quello dell’economia reale sottostante che conosce , se lo conosce, un progresso molto più lento.

Nel caso italiano questo è cominciato ad accadere ancora prima che il QE entrasse in azione: è bastato l’effetto annuncio. Il mercato azionario si è subito vivacizzato. A fine febbraio il principale indice milanese era salito del 20% dall’inizio dell’anno. L’indice Ftse-Mib aveva una valutazione assai elevata rispetto al rapporto fra i prezzi delle azioni e gli utili delle imprese. La Borsa di Milano ha battuto in questa direzione quella di Francoforte, di Parigi, di Londra e di Wall Street. In sostanza i prezzi degli attivi finanziari aumentano la loro distanza dalla realtà. Se l’economia reale sottostante non riparte, un nuovo tonfo verso il basso della crisi sarà inevitabile e di proporzioni ancora più terribili.

Le polemiche sull’incremento delle diseguaglianze

Quasi a esorcizzare questo pericolo e a contenere il successo e l’impatto sull’immaginario collettivo del famoso libro di Thomas Piketty, che più che una analisi del capitalismo del XXI secolo, è un’ottima fotografia della dilatazione delle diseguaglianze nel mondo contemporaneo, alcuni giornali economici, fra cui il Sole24Ore si sono gettati su un Dossier curato dalla Fondazione Hume, che vorrebbe dimostrare il carattere puramente immaginario, “leggendario” dice addirittura il curatore dell’articolo Luca Ricolfi, dell’aumento delle diseguaglianze su scala globale. Non siamo tornati evidentemente alla vecchia teoria dell’inizio della globalizzazione, secondo cui l’alta marea avrebbe alzato tutte le barche, ma non ne siamo molto distanti.

Ovviamente va riconosciuto che anche l’aumento delle diseguaglianze è avvenuto e avviene in modo diseguale, ovvero non dappertutto, non nella stessa misura o con la medesima velocità. Ma che siamo comunque di fronte ad una crescita complessiva della diseguaglianza a lungo termine nella Ue, non sembrano esserci dubbi, almeno stando ai dati forniti da altri autorevoli centri studi, quali il Luxemburg Income Survey (LIS). Lo osserva il Rapporto Euromemorandum 2015, secondo cui il fenomeno delle differenze di reddito all’interno dei singoli paesi e tra paesi diversi è in crescita in tutto il mondo: “in particolare in Europa si rischia di ritornare sugli elevatissimi livelli di diseguaglianza di due secoli fa”! La Banca dati del LIS contiene dati di lungo periodo sulla diseguaglianza di reddito in 21 Ue negli ultimi venti/trenta anni. Se si eccettuano tre paesi di piccole dimensioni, dove i valori della diseguaglianza erano già molto alti e quindi è comprensibile una certa diminuzione, e la Danimarca e la Svezia, dove al contrario tali valori erano già bassi, la diseguaglianza è cresciuta sotto diversi aspetti in tutti gli altri, i più popolosi. Qui è diminuita grandemente, e da lungo tempo, la quota nazionale del reddito destinata al lavoro e contemporaneamente la distribuzione dei salari è diventata molto più differenziata. In questo campo, come in altri, si è ulteriormente divaricata la condizione di genere, al punto da meritare un puntuale intervento di papa Francesco, ovviamente riverito ma inascoltato.

Come mai allora i dati riportati dal Sole 24 Ore dipingono un quadro diverso? Come osservano tre studiosi come Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano (Eticaeconomia Menabò online) malgrado l’eterogeneità dei dati non si può disconoscere una “tendenza generalizzata alla crescita delle diseguaglianze”. Nel ragionamento di Ricolfi, oltre alla evidente ansia di tranquillizzare rispetto alle sorti non più né magnifiche né progressive della globalizzazione capitalistica, vi sono errori metodologici non infrequenti anche tra i migliori analisti. Il pensiero corre immediatamente all’ormai infaustamente celebre errore sull’uso del programma excel di Microsoft compiuto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff.

Per la verità qui non siamo in un caso così banale. Il problema è che la misura principalmente utilizzata da Ricolfi per dimostrare la tendenza alla diminuzione delle diseguaglianze è l’indice di Gini, che però è una misura sintetica non sufficiente per comprendere proprio quello che accade nei segmenti estremi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Semplificando un poco, sarebbe dunque la stessa polarizzazione delle diseguaglianze a renderne difficile la lettura corretta utilizzando quella classica strumentazione inventata dal grande statistico italiano.

Inoltre l’editorialista del Sole24Ore sottovaluta l’importanza che nella misurazione delle diseguaglianze hanno assunto le diversità nei redditi da lavoro. Come sappiamo anche empiricamente, se venti/trenta anni fa la differenza tra un manager e un suo dipendente poteva arrivare a 40/50 volte la misura dei rispettivi stipendi, oggi si colloca tranquillamente sulle 400/500. Il peso dei super redditi da lavoro è enormemente aumentato. Si è formata, per usare un termine caro a David Rothkopf, una superclass, una elite mondiale di manager responsabili quanto e più dei proprietari dei mezzi di produzione dell’andamento del capitalismo mondiale. Branco Milanovic della Banca mondiale, famoso studioso della diseguaglianza, ha riconosciuto che nel 2008 l’indice di Gini della diseguaglianza globale sembrava essere diminuito di due punti rispetto al precedente ventennio. Ma se invece si stima correttamente anche il peso dei super ricchi tale indice non mostra alcuna diminuzione.

Infine gli autori dell’articolo su Eticaeconomia si soffermano sui periodi storici presi in considerazione. Ricolfi accusa addirittura Atkinson (nel suo recentissimo Inequality: What Can be Done, Harvard University Press, 2015) di scegliersi un periodo di comodo con cui confrontare la diseguaglianza attuale. Cioè gli anni ’80, quando la diseguaglianza era a un punto minimo. Ricolfi contrappone a quegli anni il periodo 1960-1972, dove invece questa era a un punto massimo. Si potrebbe perciò dire che entrambi sono accusabili di cherrypicking, come dicono gli anglosassoni, ovvero di scegliersi come le ciliegie il periodo più comodo per dimostrare i propri assunti. In realtà il procedimento di Atkinson appare più che corretto poiché sceglie proprio un periodo di faglia, nel quale il ciclo economico si inverte.

Reazioni e debolezze degli USA di fronte alla loro perdita di egemonia mondiale

Insomma gli imbellettatori del processo di globalizzazione devono rivolgere i loro sforzi altrove. Questa, aggravata dalla crisi, ci consegna un mondo più diseguale e la nostra Europa non fa eccezione, anzi ne è la conferma. Ma non è solo crisi. Sullo sfondo avviene un cambiamento epocale nell’organizzazione del capitalismo mondiale. Come in altre epoche storiche chiave, di cui ci hanno ampiamente parlato gli studi di un Braudel, di un Wallerstein, di un Arrighi, siamo di fronte ad un nuovo processo di transizione egemonica mondiale. Da Ovest ad Est. Il secolo americano è finito o è agli sgoccioli, solo che la leadership americana non si rassegna a questo cambiamento storicamente inevitabile. Il centro economico e produttivo si sta rapidamente spostando a Est. Verso la Cina, principalmente, anche se la crescita dell’India non scherza. Lo si vede anche nei rapporti di forza tra le monete. Scende quella del dollaro su scala internazionale, a riprova che la forza di una moneta non deriva solo e tanto dall’intrinseco valore economico che essa rappresenta, quanto dalla forza complessiva del paese che la emana e la sostiene.

Moises Naim, giornalista di fama mondiale ex caporedattore della autorevole Foreign Policy, si interroga se gli Stati Uniti continueranno a essere, malgrado tutto, il paese più potente del mondo. In fondo la Cina ha sì tassi di crescita invidiabili, ammodernamento industriale molto veloce ed efficace, riserve di valuta straniera incommensurabili, ma il reddito procapite, tenuto conto della sua sterminata popolazione, in gran parte abitante le zone interne arretrate, è equivalente a quello del Perù.

Sicuramente la preminenza della forza militare degli Stati Uniti d’America non può essere messa in discussione da nessuno. Per ora. La stessa Cina, però, non si limita ad acquistare solo industrie – come si vede anche in Europa e nel nostro paese – terra, soprattutto in Africa, infrastrutture e debiti stranieri, non a caso la Cina è assai interessata al porto del Pireo. Ma ha sviluppato enormemente gli investimenti in armamenti per cercare di colmare nel più breve tempo possibile l’handicap che la separa dalle grandi potenze in questo campo.

Non è affatto un buon segnale per la causa della pace, che avrebbe bisogno di trovare nuovo vigore dopo le grandi lotte negli anni Zero del nuovo secolo. Ma soprattutto ingenera preoccupazione sia sul versante orientale che su quello occidentale del pianeta, spingendo verso l’alto la corsa al riarmo da parte di tutti i paesi che se lo possono permettere. La conseguenza è che il mercato oggi globalmente più in espansione è quello degli armamenti. La Cina ne è protagonista. Qualche cosa si è visto nella sfilata del 9 maggio a Mosca per celebrare la fine della Seconda Guerra Mondiale (“La grande guerra patriottica”, come l’hanno sempre chiamata i russi), quando per la prima volta soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato sulla piazza Rossa a Mosca, per ribadire che vi fu anche un rilevante contributo asiatico nella sconfitta del nazifascismo. Vedremo cosa il governo cinese deciderà di mostrare al mondo il prossimo 3 settembre, quando la sfilata militare si terrà a Pechino per ricordare la vittoria sul Giappone.

Il Fmi e la Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii)

Tuttavia Naim pare più preoccupato dalle divisioni politiche interne agli Usa che indebolirebbero l’eventuale possibilità della ripresa di un loro ruolo egemonico su scala mondiale. E’ il caso dell’impasse nel quale si troverebbe il Fondo monetario internazionale. I tentativi di migliorarlo – dopo le pesanti critiche fiondate da più parti al suo operato - non hanno avuto successo. Obama aveva anche proposto di accrescere il ruolo della Cina al suo interno. Per quanto la misura prevista fosse già del tutto insufficiente per tenere nel dovuto conto l’accresciuta forza economica del grande paese asiatico, il Congresso Usa non è riuscito in cinque anni ad approvare quella proposta. La Cina si è dunque mossa per conto suo, dando vita alla Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii), cui hanno aderito, malgrado la dissuasione messa in atto dagli Usa, paesi come l’Australia e diversi paesi europei, fra cui il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’ Italia. La Cina ha ammesso tra i 57 paesi componenti la Baii, ove compaiono anche molti paesi poveri, anche la Norvegia, un po’ a sorpresa vista l’ostilità verso questo paese dopo l’assegnazione nel 2010 del premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo. Ma evidentemente anche in Oriente pecunia non olet.

Molti commentatori politici ed economici hanno considerato addirittura una follia il rifiuto degli Usa a farne parte, poiché secondo questi critici la battaglia per l’egemonia andrebbe combattuta all’interno delle varie istituzioni che si formano a livello internazionale, specialmente quando queste mostrano comunque una considerevole capacità di attrattiva.

Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip)

Ma la leadership statunitense è tutta concentrata su altre imprese. Tra queste spicca il Ttip. La sigla è un acronimo inglese che tradotto significa Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti. Se ne parla da molto e le trattative fra Usa e Ue restano segrete. Perfino la consultazione del materiale di supporto può avvenire solo a certe condizioni che risultano essere complicate o addirittura ostative anche per gli stessi parlamentari europei. Naturalmente ogni tanto la coltre di segretezza viene bucata da abili hackers. Ma la privazione di trasparenza rimane.

Eppure si tratta di una questione di grande rilevanza – di cui la nostra rivista si è già occupata (Monica Di Sisto, in Alternative per il Socialismo n.33) - tale da condizionare l’economia e la società non solo del nostro paese ma di tutta Europa. La propaganda lo presenta come un passo in avanti nel libero commercio tra le due sponde dell’Atlantico, grazie all’abbattimento di dazi e dogane. La realtà è assai diversa. Ma per comprenderla appieno bisogna partire da qualche premessa basata su alcuni dati, scelti a scopo esemplificativo. Concentriamoci sull’Italia. Il nostro paese è da tempo pienamente inserito nei flussi della globalizzazione mondiale. E’ un punto di incontro delle filiere della produzione del valore globali. L’Istat ci dice che nel 2011 in Italia agivano 13.527 affiliate di multinazionali controllate dall’estero. Queste imprese realizzano un fatturato pari a oltre il 16% di quello complessivo del territorio nazionale. La loro attività è prevalente nel campo dei servizi, ma anche l’industria ne è interessata. Tra i paesi controllanti al primo posto ci sono gli Stati Uniti, cui seguono la Francia e la Germania. Viceversa la stessa Istat riferisce che sono 21.682 le affiliate di multinazionali italiane insediate all’estero, anche qui prevalentemente nei settori dei servizi.

L’integrazione produttiva e commerciale del nostro paese e quindi già un dato di fatto ed è avvenuta senza bisogno del Ttip, su cui tuttora si sta trattando. Da dove deriva allora e perché l’insistenza su questo Trattato? Il motivo sta altrove rispetto al libero scambio, con buona pace dei liberisti, ed anche rispetto all’impatto economico che potrà avere sulle due sponde dell’Atlantico. Come ha osservato Marcello de Cecco (Affari e Finanza, 24 nov. 2014) : “La prospettata unione euroamericana, infatti, farebbe aumentare assai poco sia il commercio totale che specialmente il Pil delle parti contraenti, e quel poco solo nel lungo periodo. Questo a detta persino degli studi di parte condotti per promuovere l’iniziativa.”

Il cuore del trattato non sta dunque nel fatto che una volta approvato, ad esempio, si potranno vendere sul mercato europeo i polli americani disinfettati con il cloro, ma nel nuovo sistema di governance che attraverso questo si vorrebbe imporre a livello globale, in particolare da parte degli Stati Uniti e nell’interesse delle grandi multinazionali. Ha sempre ragione De Cecco quando annota che “a spingere per la realizzazione del nuovo partner iato sono le associazioni industriali europee che vedono in esso un cavallo di Troia contro gli eccessi di regolamentazione degli stati nazionali”. Bisognerebbe dire, in verità, di ciò che resta degli stati nazionali.

La logica delle imprese vuole prevalere sui diritti degli Stati e dei cittadini

Infatti il Trattato prevede l’introduzione di organismi tecnici tali da svuotare di democrazia ogni processo decisionale e ogni residuo di sovranità sulle politiche economiche. Il primo consiste in un meccanismo di protezione degli investimenti (Isds secondo l’acronimo inglese), in base al quale le imprese possono citare in giudizio gli Stati qualora questi decidessero, secondo procedure democratiche, di adottare misure considerate nocive agli interessi delle multinazionali stesse. Ma non sarebbero i tribunali ordinari la sede del giudizio, bensì consessi riservati di avvocati commercialisti super specializzati, che giudicherebbero sulla base delle norme del Trattato se uno Stato ha creato un danno ad un’impresa, magari allo scopo di difendere la salute e l’ambiente (pensiamo ad esempio al caso Ilva). In questo caso quel consesso potrebbe pretendere che quello Stato o quell’Ente Locale ritiri il provvedimento e sia costretto a indennizzare l’impresa del presunto svantaggio economico arrecato. Il principio del profitto e del commercio la avrebbero vinta su quello di una giustizia basata sulla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini tutelati costituzionalmente.

Inoltre la bozza di Trattato prevede anche la creazione di un altro organismo (Regulatory Cooperation Council) composto da esperti nominati dalla Commissione Ue e dal ministero Usa competente, con il compito di valutare l’impatto commerciale di ogni etichetta, di ogni marchio ma anche di ogni contratto di lavoro a livello nazionale o europeo, al fine di stabilirne la congruità con un rapporto fra costi/benefici che sia vantaggioso per l’impresa. Anche qui il diritto del lavoro avrebbe la peggio rispetto al diritto commerciale, malgrado i nostri principi costituzionali assai espliciti su questo aspetto. In questo modo, sempre citando Marcello De Cecco, si realizzerebbe una modifica tanto radicale quanto regressiva del diritto internazionale, tale da cancellare “quasi due millenni di tradizione giuridica europea”.

Il Parlamento europeo, come al solito, può poco al riguardo. Dopo avere votato nel 2013 il mandato esclusivo di negoziare alla Commissione europea (che non è un organo elettivo ma scelto dai vari governi), può porre solamente dei quesiti circostanziati, cui la Commissione risponde nel rispetto della cosiddetta riservatezza obbligatoria tipica delle trattative bilaterali. Poi ci sarà un voto finale, ma senza possibilità di emendare nessuna parte del Trattato che dovrà essere accettato integralmente, senza modifica alcuna, o respinto in toto.

Per tutte queste ragioni, ha preso corpo da tempo una mobilitazione a livello europeo che coinvolge cittadini e organizzazioni. In Italia la Campagna Stop Ttip (www.stop-ttip-italia.net) raccoglie oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, comunità di cittadini. L’obiettivo è quello di fermare il Trattato prima che giunga alla fase finale non più modificabile, imponendo a livello italiano e europeo una nuova riflessione sulle politiche economiche e commerciali utili a uscire dalla crisi senza affossare le condizioni di vita delle persone e la democrazia. Il “diritto ad avere diritti”, per usare la celebre espressione di Hannah Arendt non deve e non può essere cancellato da nessuna logica di impresa o lex mercatoria.

Il manifesto, 27 maggio 2015

Il nodo è arri­vato al pet­tine. Entro la set­ti­mana pros­sima deve essere fir­mato l’accordo tra Atene e i cre­di­tori, altri­menti la Gre­cia non sarà in grado di pagare le rate del pre­stito del Fmi per­ché le sue casse sono vuote. Ieri sera il vice-ministro delle finanze Dimi­tris Mar­das ha dato un ordine ben pre­ciso: il tra­sfe­ri­mento d’urgenza di tutti i fondi del set­tore pub­blico che non pre­sen­tano un movi­mento negli ultimi 5 anni o che non hanno un saldo sotto ai 100 euro alla Banca cen­trale di Gre­cia. La scelta del pre­mier Tsi­pras è chiara: «prima gli uomini e poi il debito».

«Le pro­po­ste gre­che ai part­ner euro­pei e soprat­tutto al Fmi sono basate sul diritto inter­na­zio­nale» ha sot­to­li­neato il pre­si­dente della repub­blica elle­nica Pavlo­pou­los, pro­fes­sore di diritto all’Università di Atene.

Che ci fos­sero dei pro­blemi di liqui­dità il governo Syriza-Anel non l’ha mai nasco­sto, ben­ché abbia rispet­tato sem­pre gli impe­gni, pur senza chie­dere un euro ai cre­di­tori. Ma ora, come ha spie­gato lunedì il mini­stro degli interni Vou­tsis, manca il denaro per le quat­tro rate per il Fmi (1,6 miliardi). Stesso mes­sag­gio ma con un tono otti­mi­sta, è arri­vato da Varou­fa­kis: «La Gre­cia pagherà la rata da 312 milioni dovuta al Fmi, per­ché per allora sarà rag­giunto l’accordo con i creditori».

«Paghe­remo i nostri impe­gni come meglio potremo» aveva detto il giorno prima Sakel­la­ri­dis. Il pro­blema però è pro­prio l’accordo: ci sarà entro la set­ti­mana pros­sima? Varou­fa­kis, e insieme a lui il pre­mier Tsi­pras cre­dono di sì. E la domanda che si pone è sem­plice: nel caso Atene non abbia la pos­si­bi­lità di pagare que­ste poche cen­ti­naia di milioni di euro, alla fine della set­ti­mana pros­sima ci sarà un default con la chiu­sura delle ban­che e il governo costretto ad appli­care con­trolli sui capi­tali come era avve­nuto a Cipro nel marzo del 2013?

Ci sarà un «Gre­xit» come sostiene la mag­gio­ranza della stampa inter­na­zio­nale con effetti domino in tutta l’ euro­zona? Oppure come affer­mano alcuni ana­li­sti, il Fondo «chiu­derà un occhio» dando una pro­roga di un mese ad Atene per ver­sare i suoi debiti, dopo­di­ché –nel caso che Atene non dovesse pagare — ci sarà un fal­li­mento totale? In que­sto ambito, secondo alcuni media locali, non è da esclu­dere un inter­vento da parte di Washing­ton al Fmi per «aiu­tare la Gre­cia a pagare i suoi debiti».

A sen­tire Varou­fa­kis, «l’uscita della Gre­cia dalla moneta unica sarebbe l’inizio della fine per il pro­getto dell’euro». Varou­fa­kis, inol­tre, ha chia­rito che dopo le sue rea­zioni è stata riti­rata in parte la pro­po­sta per una tassa sui pre­lievi ai ban­co­mat, i tra­sfe­ri­menti di denaro via e-banking e uno scudo fiscale per far rien­trare i capi­tali depo­si­tati ille­gal­mente all’estero con un’imposta del 15%. L’imposta sull’e-banking è con­tra­ria alla poli­tica del mini­stero greco che vor­rebbe sfa­vo­rire l’utilizzo del con­tante per com­bat­tere l’evasione fiscale. In Gre­cia tutti i dipen­denti pub­blici e pri­vati, oltre ai pen­sio­nati, vale a dire più di due terzi della popo­la­zione, pagano le tasse nor­mal­mente, per­ché c’è la trat­te­nuta alla fonte.

Le altre cate­go­rie, invece, ovvero liberi pro­fes­sio­ni­sti (innan­zi­tutto medici, avvo­cati, idrau­lici, elet­tri­ci­sti, tec­nici, ecc.) e impren­di­tori di solito eva­dono, lasciando un buco nero dai 5 ai 20 mili­radi di euro l’anno.

A pre­scin­dere se Atene e cre­di­tori si pos­sano con­si­de­rare vicini alle bat­tute finali per un’intesa, sul tavolo restano ancora l’Iva, le pen­sioni e il mer­cato di lavoro, men­tre la spina della ristrut­tu­ra­zione del debito non è stata nem­meno toc­cata– non man­cano le voci secondo le quali la dichia­rata impos­si­bi­lità di rim­bor­sare il debito al Fmi non cor­ri­sponde alla realtà, ed è «una tec­nica nego­ziale da parte di Tsi­pras per ricat­tare i suoi cre­di­tori» da una parte, per cal­mare quelle voci all’interno di Syriza che vor­reb­bero una rot­tura dei rap­porti con i part­ner euro­pei dall’altra. «Stiamo lavo­rando giorno e notte per un’intesa, c’è il rischio di insol­venza e tanti rischi ad esso col­le­gati» ha detto al quo­ti­diano tede­sco Bild il diret­tore del fondo salva-Stati euro­peo (Esm), Klaus Regling.

Intanto ieri ha comin­ciato i suoi lavori la com­mis­sione d’inchiesta par­la­men­tare for­mata per esa­mi­nare sotto quali con­di­zioni eco­no­mi­che e per quali motivi i governo pre­ce­denti hanno fir­mato i due memo­ran­dum che hanno pro­vo­cato que­sta crisi uma­ni­ta­ria nel paese. Tra i testi­moni che sono stati pro­po­sti dai par­titi dell’opposizione sono l’ex diret­tore del Fmi, Domi­ni­que Strauss-Kahn, l’attuale Chri­stine Lagarde, il già pre­si­dente della Bce, Jean-Claude Tri­chet, Mario Dra­ghi, il pre­si­dente della Com­mis­sione euro­pea, Jean Claude Junc­ker, i rap­pre­sen­tanti dell’ ex troika ad Atene.

La Repubblica, 27 maggio 2015

SICERCAd i capire meglio che cosa è Podemos, il “post-partito” (non so se sia la definizione giusta) che ha ribaltato il panorama politico spagnolo. Se ne colgono la fortissima spinta anti-establishment (in Italia si usa dire: anti-casta) e il culto della democrazia diretta, che chiama i cittadini a una sorta di autogestione, sulla falsariga dei nostri Cinque Stelle. Si prende atto che Podemos si definisce post-ideologico e rifiuta in toto il vecchio bipolarismo destra/sinistra; tentazione molto diffusa non solamente in Spagna.

Ma la situazione si complica, e non di poco, quando si legge chi sono i pensatori di riferimento di Podemos: Antonio Gramsci, Pier Paolo Pasolini, Altiero Spinelli, Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Ce ne fosse mezzo che è di destra. Ce ne fosse mezzo che non è di sinistra.

Quasi tutti i nuovi movimenti “di cittadini” sono antiliberisti, spesso con venature decisamente anticapitaliste, hanno una certa impronta neo-socialista, sono per un Welfare più esteso, per il salario di cittadinanza, per un drastico allargamento del potere decisionale. Ma con pochissime eccezioni (una è Tsipras) hanno una vera e propria fobia per la parola “sinistra”. Che deve suonargli decrepita, compromessa, consunta. Sta di fatto che la loro politica, sia pure in forme inedite, profuma (o puzza, a seconda dei punti di vista) di sinistra in modo inconfondibile. Ci si chiede quando e come accadrà che la parola “sinistra” sia nuovamente utilizzabile per indicare la sinistra.

La Repubblica, 27 maggio 2015

IL GIARDINO chiuso dei partiti verrà aperto dal progetto di legge per una loro regolamentazione giuridica presentato ieri dal Partito democratico? La settantennale autoreferenzialità dei partiti e il roccioso rifiuto di rispondere del loro operato, in quanto corpo collettivo, di fronte alla legge, forse volgono al termine. Una norma sui partiti è quanto mai necessaria per molti motivi. Innanzitutto in rapporto con il nuovo sistema elettorale che offre agli organi dirigenti ampia discrezionalità nel collocare candidati direttamente sulla rampa di lancio dell’elezione sicura. Visto che gli elettori hanno una limitata possibilità di scelta di fronte a liste in gran parte bloccate, è opportuno che, per mantenere in vita almeno un filo di fiducia tra rappresentanti e cittadini, questi ultimi possano intervenire nella stesura delle liste elettorali. Se la legge annunciata offre garanzie su questo punto, e cioè obbliga i partiti a precisare le modalità con le quali vengono individuati i candidati, allora un passo in avanti è stato fatto. Riportare all’aperto, nell’ agorà pubblica, la selezione dei futuri rappresentanti consente di contrastare quella immagine di oligarchie chiuse sulla quale ha prosperato la polemica antipartitica e populista.

Ma, per rendere i partiti degli organismi in linea con le migliori pratiche di un sistema liberaldemocratico, altre regole sono necessarie e auspicabili. Ad esempio, è indispensabile rivedere l’infelice legge sul finanziamento pubblico — pura concessione alla demagogia antipolitica — per rendere più contenute e trasparenti le donazioni private. En passant, possibile che si sia invocata la privacy per i partecipanti alle sconvenienti cene di finanziamento del Pd anche dopo lo scoppio dello scandalo di “mafia capitale”. E come regolare i conflitti interni? Lasciarli alla piena discrezionalità dei partiti (i litigi si consumano tra le quattro mura…), oppure aprire uno spiraglio per un intervento arbitrale esterno? Nella maggior parte dei Paesi europei, soprattutto in quelli dell’Europa centroorientale, è in atto una crescente giuridicizzazione: ovvero, viene affidato alla magistratura il potere di intervenire a dirimere dispute interne laddove vengano violate le norme statutarie o le leggi sui partiti.

Questa tendenza non è necessariamente la strada migliore in un Paese come il nostro, ridondante di avvocati e di cause inutili. Però, sulla scia dell’esempio tedesco — e americano — una normativa che garantisca la “democraticità” interna dei partiti può persino favorire il depotenziamento delle tensioni interne. Le minoranze si sentirebbero in qualche modo più garantite rispetto alle tentazioni egemonizzanti di una maggioranza. Quasi tutte le leadership (o singoli leader, in casi particolari), anche al di là dei buoni propositi, tendono ad esercitare un dominio incontrastato senza alcun riguardo per le voci dissidenti. Il centralismo democratico di antica marca comunista, per quanto aborrito a parole da tutti i partiti democratici, è sempre stato allegramente praticato. Gli statuti sono stati calpestati innumerevoli volte, con la mozione degli affetti o con ricatti espliciti, invocando situazioni di emergenza o evocando un nemico alle porte, e, sopra di tutto, richiamando il valore dell’unità. Il tratto monistico e monolitico dei partiti non può essere modificato da una norma perché dipende dalla cultura politica degli aderenti e del contesto più generale.

Laddove, come in Italia, il valore del dissenso è svalutato a favore dell’unità (forzosa e inevitabilmente falsa), le minoranze finiscono emarginate. Questa sensazione di minorità, e quasi di illegittimità, che le minoranze interne percepiscono produce tensioni e favorisce la sviluppo di correnti e fazioni. Una norma che offra con forza di legge una rete di protezione alle minoranze può favorire un rapporto più disteso con la maggioranza. Mentre oggi assistiamo a scomuniche, fuoriuscite ed espulsioni, frutto di scarsa democraticità interna e di bulimia di potere delle leadership, lo scudo di una legge renderebbe la vita interna dei partiti meno aspra e rissosa. I conflitti e le divisioni non scompaiono, è evidente; ma con una buona norma sarebbero più regolati. E questo “pulirebbe” l’immagine dei partiti, spesso visti come campi di battaglia dove ambiziosi e arrivisti vogliono mantenere a tutti i costi il loro piccolo o grande potere.

Il vento antipolitico soffia in ogni parte d’Europa: non solo in Spagna, in Grecia e in Polonia, ma anche nella ricca e placida Germania crescono movimenti di protesta come gli antieuropei dell’Afd e i populisti di Pegida. E si mantiene forte anche sul nostro Paese. Norme che rendano i partiti più trasparenti e democratici nelle loro dinamiche interne e più rispondenti ai cittadini (e alla legge) offrono una buona opportunità per rivendicare la nobiltà del fare politica e contrastare l’antipolitica. Impresa ardua, ovviamente. Ma indispensabile per non cedere a demagoghi e arruffapopoli.

Singolare articolo quello di Paolo Flores D’Arcais sull’ultimo numero di Micromega: per le affermazioni, per le omissioni, per le disinformazioni. La prima disinformazione riguarda la Liguria. Preferisce, forse a ragione, la candidatura di Anna Salvatore, del movimento cinque stelle, a quella di Luca Pastorino, sostenuto dalla lista Rete a sinistra e da un pezzo del PD. Ma coglie l’occasione per disinformare e tacere di un’altra candidatura e un’altra lista, affermando che la candidatura di Pastorino sarebbe sostenuta da Giorgio Pagano, il quale invece ha promosso e tuttora sostiene la candidatura di Antonio Bruno, per la lista l’Altra Liguria, che raccoglie l’eredità della lista europea con Tsipras.

La scelta che Floris d’Arcais propone per Venezia è singolare per un altro verso. Egli afferma, perentoriamente, che Felice Casson deve vincere al primo turno, perchè la vittoria del senatore «vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità». Floris pone Casson in alternativa al PD, ma trascura due elementi che a mio parere impediscono di votare per lui anche a chi, come io stesso, ha la massima stima personale per l’antico magistrato e il nuovo senatore: eccellente in entrambi i suoi ruoli. Voglio ribadire le due ragioni che già al tempo delle primarie del PD mi convinsero a non sostenere la sua candidatura.

La prima ragione attiene al panorama nazionale. Sono fermamente convinto che Matteo Renzi e il suo partito, nonostante le minuscole sacche di resistenza passiva che sopravvivono al suo interno, costituisce oggi il peggior rischio per la democrazia italiana. La vittoria di Casson, candidato del PD di Renzi, sarebbe salutato dai media nazionali come una vittoria del Re Matteo, e rafforzerebbe ancora la sua infausta presenza al vertice del partito, del governo, del parlamento e, per interposta e vassalla persona, in ogni istituzione privata.

La seconda ragione sta nel fatto che, come si poteva supporre, per esser certo d’essere eletto Casson ha dovuto accettare il sostegno proprio di quell’apparato del PD, e dei sui succubi alleati, che ha provocato i peggiori danni alla città. Non è certo per caso che Casson abbia scelto come suo capolista Nicola Pellicani, l’uomo sostenuta alle primarie da Matteo Renzi, Massimo Cacciari, Giorgio Napolitano – e perfino da Luigi Brugnaro, esponente di una destra legata all’uso dei patrimoni e dei servizi pubblici, non priva di venature razziste e xenofobe. E non è per caso che non abbia ancora reso noti i nomi che comporranno la squadra con la quale governerebbe, se vincesse, la città e il suo territorio. Data la composizione dell’ampio gruppo di liste che lo sorreggono è lecito attendersi la presenza, nella sala di regia del comune, di numerosi personaggi che hanno contribuito al degrado di Venezia nei passati decenni, e l’applicazione delle antiche regole della spartizione dei posti di rilievo.

La passione del direttore di Micromega per Casson lo induce poi a un’altra omissione, che nel contesto elettorale assume il valore di una disinformazione. Egli tace sulla presenza di altre liste che pur si collocano all’interno dell’area politica e culturale cui la rivista, e il suo direttore, si rivolgono. Mi riferisco alla lista Veneziacambia 2015, costituita da un gruppo di cittadini che hanno nei mesi scorsi svolto un lungo percorso di analisi e proposta per definire un programma di governo finalizzato al maggior benessere delle persone, e non alla crescita degli affari che da alcuni decenni si fanno sulla città. E’ la lista che presenta come suo candidato Giampietro Pizzo, fiancheggiato da una lista in cui non c’è nessuno che abbia assunto responsabilità istituzionali nelle precedenti sindacature: questi ultimi sono tutti considerati da un’ampia porzione della cittadinanza - e non a torto - complici delle scelte sbagliate che le giunte comunali hanno compiuto, dalla giunta Cacciari fino alla giunta Orsoni.

La lista comunale Veneziacambia 2015 è politicamente e culturalmente legata a una lista regionale (Vanezia non si può governare senza una forte presenza della Regione), denominata “Altro Veneto – Ora possiamo” anch’essa composta da persone che non hanno avuto nessuna responsabilità istituzionale nei decenni trascorsi. Anch’essa si oppone recisamente all’ideologia e alla prassi del renzismo, del quale è invece piena espressione la candidata per la presidenza regionale del PD. Candidata alla carica di presidente della regione nella lista “Altro Veneto” è Laura di Lucia Coletti, una insegnante di discipline umanistiche alle scuole superiori, impegnata da anni nei comitati che si battono per la difesa dei diritti, del territorio e dell’ambiente, del lavoro e per la salute.

La lista di Giampietro Pizzo e quella di Laura di Lucia sono entrambe il risultato di una vasta mobilitazione di donne e uomini oggi distanti (e nauseati) dai comportamenti dei partiti tradizionali. Esprimono tutti la volontà di impegnarsi in una politica nuova, che “restituisca al popolo lo scettro del potere” e sono tutti impegnati nei numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva che combattono gli effetti delle scelte sbagliate da 15 anni di malapolitica. La lotta alla corruzione, il ripristino della legalità, il restauro del primato del potere pubblico sul potere privato, e quello degli interessi delle persone su quello dei “mercati”, del salario e del profitto sulla rendita, il netto contrasto alle Grandi opere e alla liquidazione del patrimonio immobiliare pubblico: questi sono alcuni dei punti comuni alle due liste di cui Flores d’Arcais ignora l’esistenza

Le scelte del direttore di Micromega sono ovviamente legittime, come l’aver limitato il suo invito agli elettori di due sole regioni. E comprendo che, non essendo egli esperto di cose veneziane, abbia informazioni diverse dalle mie, che vivo a Venezia da quasi mezzo secolo. Ho voluto fornire ai lettori di questo sito alcune informazioni che Flores non aveva dato, o aveva dato in modo inesatto, anche per tentar di riparare almeno un po’ all’orrendo silenzio stampa che avvolge le formazioni politica piccole, nuove, povere e non bizzarre (bella lezione di democrazia applicata quella che viene dai grandi media!).

Mi resta una curiosità personale. Come mai le formazioni politiche che Flores trascura o su cui fornisce informazioni sbadate sono proprio quelle che nascono dall’esperienza della lista “L’Altra Europa con Tsipras”, di cui è stato uno dei promotori?

Micromega, 26 maggio 2015

Domenica prossima si vota. In sette regioni e in numerosi comuni. Dall’esito delle urne dipenderanno anche molte questioni nazionali. Per il comune di Venezia e per la regione Liguria la posta in gioco è molto più grande: un’occasione straordinaria per la democrazia di mettere un argine e lanciare un segnale per invertire la rotta rispetto alla deriva di berlusconismo senza Berlusconi rappresentata dal governo Renzi.

Vittoria della democrazia significa, a Venezia, elezione di Felice Casson al primo turno. Casson vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità. Tanto più necessaria a Venezia, dove il ceto politico quasi nella sua interezza, duce Galan, si è reso promotore mallevadore o tre scimmiette (non vedo, non sento, non parlo) della melma di corruzione chiamata Mose.

Casson ha vinto le primarie contro le nomenklature vecchie e nuove del Pd, l’appoggio del partito in questa campagna elettorale è spesso tiepido. Se dovesse andare al ballottaggio tutte le forze della Venezia degli affari e malaffari e privilegi si salderebbero in una santa alleanza contro il “giustizialismo”, con tanto di santificazione delle megalopoli da crociera che ogni giorno mettono a rischio l’incolumità di Venezia. Riuscire a far vincere, e magari stravincere, la candidatura di Felice Casson al primo turno vorrebbe dire che la società civile, di nome e di fatto, non ha rinunciato alla presenza politica, non si è rassegnata al sonno della ragione e ai suoi mostri.

Vittoria della democrazia significa, in Liguria, elezione a governatore di Alice Salvatore, candidata del Movimento 5 stelle. Miracolo possibile, miraggio che può diventare realtà. La grancassa mediatica cerca di accreditare uno scontro tra la candidata del burlandismo-scajolismo ligure di decenni, Raffaella Paita, e il “dissidente” Pd Luca Pastorino, ma si tratta di una bufala in perfetta disinformacjia brezneviana, anzi di una duplice bufala. Intanto dell’eretico Luca Pastorino non ha un bel nulla, è un perfetto esemplare di uomo di apparato appoggiato da pezzi di apparato (ad esempio l’ex sindaco di La Spezia Pagano, di cui la Paita fu capo di gabinetto). Insomma, una faida dentro la nomenklatura Pd, niente di più. In secondo luogo tutti i sondaggisti, nelle anticamere delle trasmissioni televisive, sciorinano con preghiera di massima discrezione e riserbo, la verità dei sondaggi più aggiornati: Pastorino è totalmente fuori gioco, come Toti del resto, il fotofinish è tutto tra Paita e Alice Salvatore.

In Liguria dipenderà insomma da ogni singolo voto fino all’ultimo singolo istante di urne aperte. Alice Salvatore ha scoperto l’impegno civile coi girotondi e costituisce l’unica possibilità per la Liguria di sottrarsi al gorgo di immondizia morale, inefficienza tecnica, saccheggio e distruzione di risorse (materiali, ecologiche, culturali), insomma abiezionein cui l’ha precipitata l’intero ceto politico.

Sarebbe doveroso che quanto ancora resta di società civile nel tessuto ligure, nelle professioni, nella cultura, nel sindacalismo, nell’ecologismo, in una classe operaia ancora non interamente cancellata, pronunciasse ad alta voce il suo outing per la candidatura di Alice Salvatore, mettendo tra parentesi le tante ragioni di diffidenza verso il movimento di Grillo e Casaleggio, perché ora e qui conta solo mettere fine al ventennio di burlandismo-scajolismo, e al renzismo che se ne fa evidentemente erede. Come sarebbe doveroso e soprattutto intelligente, da parte del M5S ligure, uscire da una logica troppo frequente di autoreferenzialità, fare esplicito appello a tutta la società civile, capire che si può vincere solo conquistando i voti del partito oggi maggioritario, quello del non voto, dei cittadini oberati dalle delusioni e conseguente apatia.

La mia speranza è che ogni cittadino che abbia ancora a cuore la democrazia e non sia totalmente rassegnato, faccia quanto può, direttamente o indirettamente, perché a Venezia e in Liguria una bandierina di democrazia segni l’altolà alla deriva di liberismo autocratico che da un quarto di secolo ci sta immelmando. Direttamente, per chi in quelle zone vota, indirettamente, perché nell’epoca dei social network ciascuno ha l’opportunità di influire, di sollecitare amici e conoscenti, di esercitare opinion-leadership a distanza, di portare voti autentici, che bilancino e travolgano i voti comprati, i voti di scambio, i voti del clientelismo, i voti della rassegnazione, che ingrassano chi ha spolpato questo paese.


Volavano gli elicotteri, ieri, sulla notte madrilena. Ma non per controllare dall’alto calle Génova, via della storica sede del Partito popolare: per la prima volta qui il tradizionale balcone della vittoria è rimasto vuoto, nonostante la candidata sindaco Esperanza Aguirre abbia guadagnato un seggio in più. La polizia sorvolava la Cuesta de Moyano, dove migliaia di cittadini ascoltavano la diretta avversaria Manuela Carmena, giudice impegnata nella tutela dei diritti umani: “Ha vinto il cambiamento. Ha vinto la cittadinanza. Avete vinto voi”. I simpatizzanti di Ahora Madrid, lista di Podemos, si erano dati appuntamento vicino al museo Reina Sofía fin dal primo pomeriggio. Poi, in serata, al suono della banda ufficiale e del noto slogan “Sì, se puede” con l’arrivo del leader Pablo Iglesias, cominciava la festa. Il terremoto annunciato per la politica spagnola alla fine si è verificato alle amministrative e regionali di ieri (gli spagnoli sono andati alle urne per rinnovare 8.122 municipalità oltre che per assegnare i seggi nei parlamenti di 13 delle 17 regioni del Paese), che hanno visto i post-indignados di Podemos prendere Barcellona, avvicinarsi anche alla conquista della capitale e imporre ai due grandi partiti tradizionali Pp e Psoe un drastico ridimensionamento: 4 anni fa i popolari aveva ottenuto la maggioranza assoluta in 8 regioni, oggi devono scendere a patti con altre forze politiche.

Madrid vince il Pp, ma Podemos verso alleanza con il Psoe. Esperanza Aguirre ha vinto ma sa già che non potrà governare facilmente: sommando i 21 seggi agli ipotetici 7 di Ciudadanos non riuscirebbe comunque ad ottenere la maggioranza assoluta. La candidata di Ahora Madrid invece, con 20 seggi, insieme al Psoe di Antonio Miguel Carmona, potrebbe ottenere 29 scranni e le chiavi del palazzo della capitale spagnola. Per Iglesias è l’inizio della fine del bipartitismo: “Pp e Psoe hanno registrato uno dei peggiori risultati della loro storia” e “il cambiamento ora è irreversibile”, ha detto chiaro e tondo. Popolari e socialisti sono in realtà ancora i primi due partiti, ma insieme sommano il 53% e per governare dovranno scendere a patti.

Cresce anche Ciudadanos: è il terzo partito Il Partito popolare resta in generale infatti il più votato (27%), ma perde l’egemonia degli ultimi vent’anni e quasi tre milioni di preferenze: da oggi la possibilità che gli azzurri tornino a sedersi sulle stesse poltrone non dipenderà più da loro, ma dalla capacità di alleanza delle forze opposte. Il Pp perde quasi tutte le maggioranze assolute nelle regioni come nella principali città del Paese e, probabilmente, il potere in Cantabria, in Castilla-La Mancha e nelle comunità autonome di Valencia e Madrid. Inoltre, una coalizione di sinistra avrebbe la possibilità di sottrarre al partito gli esecutivi di Aragón, Extremadura e Baleari. Dietro al Psoe, che si ferma al secondo posto con il 25% delle preferenze e la conquista della città di Siviglia, sorprende l’ascesa inarrestabile di Ciudadanos, che da oggi diventa terza forza politica, anche se Podemos – che non ha lista propria – non entra a far parte dei dati pubblicati dal ministero degli Interni. È lo stesso leader Albert Rivera a commentare a caldo che il suo partito ha triplicato l’appoggio ottenuto alle elezioni europee del 2014, gettando le basi per vincere le prossime politiche. “Siamo qui e stiamo facendo la Storia”.

A Barcellona vince Ada Colau, paladina degli sfrattati Ma è da Barcellona che arriva il primo vero cambiamento: una “okkupa” si aggiudica la poltrona di sindaco. Ada Colau, 41 anni, attivista e fondatrice della Pah, la piattaforma per le vittime degli sfratti, ottiene il 25,20% e 11 consiglieri con la formazione civica Barcelona en Comú, appoggiata da Podemos, contro il 22,7% e 10 seggi del sindaco nazionalista uscente, Xavier Trias. Segue la formazione indipendentista di Convergencia i Unió dell’attuale presidente della Generalitat Artur Mas con 10 seggi, Ciudadanos con 5 e i socialisti con 4. “È la vittoria di Davide contro Golia” ha detto commossa davanti alla platea e ha ricordato, anche senza aver ottenuto la maggioranza assoluta, che si tratta di un successo “collettivo” dei cittadini contro “il voto della rassegnazione”. A Valencia invece migliaia di cittadini si sono riuniti nella centrale plaza del Ayuntamento per celebrare la sconfitta della popolare Rita Barberá, dopo 24 anni di governo. Il Pp perde la maggioranza assoluta e cede il passo al Psoe che ottiene il 20,4% e 23 scranni, seguito dalla lista civica di Compromís, con 20 seggi.

Tutto da rivedere insomma: adesso si apre la stagione di alleanze, di governi privi di maggioranza assoluta e di opinioni da tenere in conto. L’unica cosa certa è che le due nuove formazioni di Podemos e Ciudadanos da oggi non sono più solo uno stato d’animo, ma entrano a pieno titolo nelle istituzioni locali. E il sistema del bipartitismo, che ha governato la Spagna dalla fine del franchismo, sembra cedere il posto ad un quadro molto più frammentato.

Il manifesto, 24 maggio 2015

LA CGIL A RENZI:
«DERIVA TOTALITARIA»

di Roberto Ciccarelli


Lavoro. Il premier: «Sogno un sindacato unico». Camusso: «Si dice unitario». Furlan: «Basta con l'uomo solo al comando». Critico anche Sacconi (Ncd). Ma il premier su La7 bersaglia anche la Fiom: «Marchionne batte Landini 3-0»

Il sin­da­cato unico sognato da Renzi «esi­ste solo nei regimi tota­li­tari». Per la segre­ta­ria gene­rale della Cgil Susanna Camusso l’uscita del pre­si­dente del con­si­glio a"Bersaglio mobile" su La7 è «con­cet­tual­mente sba­gliata per­ché pre­sup­pone che la tota­lità di orien­ta­menti e la rap­pre­sen­tanza di tutti i sog­getti, anche diversi, che vi sono nel mondo del lavoro, ven­gano inclusi in un pen­siero unico che non fa parte della moder­nità. Penso invece che il tema del sin­da­cato sia quello del sin­da­cato unitario».
In realtà la «moder­nità» sognata da Renzi è quella legata alla pro­dut­ti­vità dell’impresa, dun­que alla con­trat­ta­zione azien­dale e non a quella nazio­nale e di cate­go­ria. Que­sta pra­tica, che costi­tui­sce l’obiettivo della destra neo­li­be­ri­sta e della Bce di Mario Dra­ghi – secondo il quale «la disoc­cu­pa­zione viene com­bat­tuta meglio dalla nego­zia­zione azien­dale che da quella nazio­nale» — è stata richia­mata da Renzi nella mede­sima inter­vi­sta quando ha citato lo smacco della Fiat Chry­sler Auto­mo­bi­les (Fca) alla Fiom: «Mar­chionne – ha detto Renzi – è la dimo­stra­zione che la scom­messa sin­da­cale di Lan­dini è una scon­fitta. Ha ria­perto le fab­bri­che e da un punto di vista sin­da­cale Mar­chionne batte Lan­dini 3 a 0».
Ai lavo­ra­tori Fca, e pros­si­ma­mente anche a quelli Cnh Indu­striai, Marelli, Tek­sid e Comau, sono stati desti­nati a mag­gio bonus da 77, 82 o 101 euro a seconda dell’area pro­fes­sio­nale, per un totale medio di 330 euro in 12 mesi, per quat­tro anni, legati alla red­di­ti­vità azien­dale e desti­nati anche a chi è in cassa inte­gra­zione. In virtù di un accordo che esclude la Fiom, e sot­to­scritto dagli altri sin­da­cati, la Fca mira alla «pro­gres­siva messa in sof­fitta del vec­chio inqua­dra­mento anni ’70».

L’intesa, defi­nita da Camusso e Lan­dini come un «vul­nus nell’unità sin­da­cale» è stata dun­que usata da Renzi per attac­care l’idea stessa del sin­da­cato e, in gene­rale, di «corpo inter­me­dio» nella con­trat­ta­zione sul sala­rio tra l’imprenditore e il lavo­ra­tore. Un attacco poli­tico non nuovo che usa le con­trad­di­zioni tra i sin­da­cati, e la loro debo­lezza poli­tica, con­tro la stessa idea di sin­da­cato novecentesco.
L’attacco avviene nell’ambito della stra­te­gia indi­cata da Dra­ghi, e già nota dalla famosa let­tera della Bce al governo Ber­lu­sconi nel 2011. Renzi, però, è andato oltre e trat­teg­gia un oriz­zonte dove viene meno il plu­ra­li­smo e la rap­pre­sen­ta­ti­vità dei sin­da­cati pre­vi­sta dall’arti. 39 della Costituzione.
Con il sistema delle rela­zioni sin­da­cali della società for­di­sta, il pre­si­dente del Con­si­glio vuole eli­mi­nare un pila­stro delle società liberal-democratiche.

Lo ha ammesso per­sino uno dei pala­dini della con­trat­ta­zione azien­dale come Mau­ri­zio Sac­coni. L’alleato di governo ha cri­ti­cato Renzi: «Anche la sola spe­ranza di un sin­da­cato unico — ha detto — è incom­pa­ti­bile non solo con la sto­ria plu­rale della nazione ma anche con l’idea di una società libera in cui i lavo­ra­tori, come gli impren­di­tori, si asso­ciano in forme varie che tra loro si rela­zio­nano liberamente».

L’ipotesi pro­spet­tata da Renzi sarebbe uno sce­na­rio ine­dito nei paesi a capi­ta­li­smo avan­zato, a comin­ciare dalla Ger­ma­nia dove, anzi, vige la coge­stione nelle grandi fab­bri­che. Un prin­ci­pio, la coge­stione appunto, che rien­trava in una delle bozze far­loc­che del Jobs Act messe in giro prima che il prov­ve­di­mento diven­tasse realtà.

Tutti i sin­da­cati sono inter­ve­nuti, con le sfu­ma­ture ideo­lo­gi­che del caso.«L’Italia non ha biso­gno di un sin­da­cato unico — ha detto Anna­ma­ria Fur­lan, della Cisl — ma di sin­da­cati respon­sa­bili e rifor­ma­tori, capaci, come ha fatto sem­pre la Cisl nella sua sto­ria, di gui­dare le tra­sfor­ma­zioni del paese con una linea par­te­ci­pa­tiva e non anta­go­ni­stica». Car­melo Bar­ba­gallo della Uil va al cuore del popu­li­smo ren­ziano: «Sem­bra che Renzi voglia espor­tare il modello dell’uomo solo al comando anche nel mondo del lavoro e del sociale». «Final­mente Renzi ha ammesso di volere un paese a sua imma­gine e somi­glianza – sostiene Fran­ce­sco Paolo Capone (Ugl) — par­tito della nazione, terzo pre­si­dente del con­si­glio non eletto, abo­li­zione del voto nelle pro­vin­cie e in senato». È lo stesso pro­getto appli­cato alla scuola con il pre­side mana­ger, anche se Renzi e il Pd sem­brano volerlo annac­quare al senato.

SINDACATO,
UN DESTINO DA ARTICOLO 18

di Umberto Romagnoli

Alzi la mano chi si è mera­vi­gliato della bat­tuta di Mat­teo Renzi. In realtà, c’era da mera­vi­gliarsi che con­ti­nuasse a man­care dal suo reper­to­rio. Ma non si creda che gli sia stata sug­ge­rita da uno dei suoi spin doc­tor. È farina del suo sacco. È spon­ta­nea. Anche se, sotto sotto, c’è la curio­sità di vedere l’effetto che avrebbe pro­dotto nel mondo sin­da­cale un pre­mier che fa sua l’opinione in cir­co­la­zione da chissà quanto tempo tra i clienti di un bar, men­tre sor­seg­giano l’aperitivo, o di un bar­biere, men­tre aspet­tano il turno. Dun­que, non si può liqui­dare la bat­tuta come se fosse una improvvisazione.

C’è invece più di un motivo per dare ragione ad Altan che pro­prio in que­sti giorni si sta chie­dendo se sia «meglio una poli­tica che non fa un tubo o una che ne com­bina una ogni giorno». L’ultima, infatti, è quella di avviare un discorso pub­blico sulla riforma del sistema sin­da­cale nella maniera più dirom­pente pos­si­bile, valo­riz­zando cioè la bana­lità e spe­cu­lando sulla disin­for­ma­zione e sui pre­giu­dizi.

Non a torto, per­ciò (per ripor­tare un po’ di razio­na­lità e al tempo stesso dimo­strare come i sin­da­cati sap­piano bene ciò che devono fare) l’attuale Segre­ta­rio gene­rale della Cisl Anna­ma­ria Fur­lan ha rite­nuto di doversi richia­mare al trit­tico con­fe­de­rale assem­blato con la Con­fin­du­stria nel cosid­detto Testo Unico del 2014, anch’esso ani­mato dalla tra­spa­rente inten­zione di pre­fab­bri­care l’impianto di un futu­ri­bile inter­vento legi­sla­tivo che lo stesso Renzi par­rebbe dispo­sto a con­get­tu­rare. Io tut­ta­via sono del parere che, anche qua­lora tale evento si pro­du­cesse, il pro­blema della rap­pre­sen­tanza sin­da­cale si por­rebbe egual­mente. Infatti, la rap­pre­sen­tanza sin­da­cale è in crisi non solo a causa del vuoto di diritto in cui la con­trat­ta­zione col­let­tiva vive da una set­tan­tina di anni, ma anche (e ormai soprat­tutto) per­ché si è affie­vo­lita la capa­cità del sin­da­cato di rispec­chiare la realtà.

È da qui che biso­gna par­tire ed è per que­sto che biso­gna veri­fi­care la qua­lità della rap­pre­sen­tanza che il sin­da­cato è capace di offrire di fronte alla domanda pro­ve­niente da una base mutata sia nella sua com­po­si­zione socio-professionale che sul piano antropologico-culturale, a comin­ciare dall’universo femminil-giovanil sco­la­riz­zato.

Vice­versa, pur essendo ricco di solu­zioni giuridico-formali nel ten­ta­tivo, in sé enco­mia­bile, di far uscire il con­tratto col­let­tivo da una crisi dipen­dente dall’eccesso d’informalità, il Testo Unico non con­tiene se non un prin­ci­pio di rispo­sta: la sola fes­sura da cui tra­pela la con­sa­pe­vo­lezza della sua esi­stenza è costi­tuita dalla pre­vi­sione che i con­tratti nazio­nali saranno sot­to­scritti «pre­via con­sul­ta­zione cer­ti­fi­cata delle lavo­ra­trici e dei lavo­ra­tori a mag­gio­ranza semplice».

Si met­tano pure da parte le per­ples­sità cau­sate dall’indeterminatezza delle pro­ce­dure e dalla vaghezza della loro obbli­ga­to­rietà. Accan­to­nare invece non si può la cir­co­stanza che nell’insieme il Testo Unico, dando il mas­simo risalto alla «esi­gi­bi­lità» del con­tratto col­let­tivo, cele­bra l’elogio dell’efficacia cogente degli impe­gni con­trat­tuali e spon­so­rizza il deci­sio­ni­smo dei ver­tici nien­te­meno che al livello che sem­bra desti­nato a diven­tare il ful­cro dell’intero sistema con­trat­tuale. Pre­vede infatti che i con­tratti azien­dali sono effi­caci per tutto il per­so­nale «se appro­vati dalla mag­gio­ranza dei com­po­nenti delle rsu» e, se fir­mati da rsa, sono sot­to­po­ni­bili a veri­fica entro certi limiti ed a certe con­di­zioni.

Non può certo sor­pren­dere che il Testo Unico affronti il pro­blema della rap­pre­sen­tanza sin­da­cale nell’ottica della con­trat­ta­zione col­let­tiva pri­vi­le­giando il ruolo d’ordine che i fir­ma­tari sareb­bero tenuti a garan­tire. Anzi, è one­sto rico­no­scere come sia poco meno che sen­sa­zio­nale che in quella sede le parti abbiano tenuto in qual­che modo conto che, dopo­tutto, la rap­pre­sen­tanza è uno stru­mento di eser­ci­zio del potere del rap­pre­sen­tante sui rap­pre­sen­tati. Que­sto infatti è un pro­blema che appar­tiene ad una dimen­sione schiet­ta­mente endo-associativa e la Con­fin­du­stria non c’entra per nulla né ha qual­cosa da insegnare.

Quindi, l’auto-riforma del sin­da­cato è senz’altro la via migliore. In astratto. In con­creto, però, non si col­gono segni signi­fi­ca­tivi dell’interesse del sin­da­cato ad ispe­zio­nare il lato nasco­sto della rap­pre­sen­tanza che è suo com­pito eser­ci­tare. Lo stesso Testo Unico è rima­sto let­tera morta. Per que­sto, può suc­ce­dere che sia il par­la­mento — lo stesso par­la­mento che non senza inge­nuità un’opinione pub­blica stufa di par­titi inca­paci di gestirsi in maniera decente sol­le­cita ad occu­par­sene mediante una legge ad hoc — che fini­sce per appa­rire la sede più adatta. In astratto. In con­creto, il governo Renzi, che non con­si­dera il sin­da­cato come l’interlocutore col quale con­fron­tarsi nem­meno in vista dell’adozione di misure in mate­ria di lavoro, dimo­stra di volere che fac­cia la fine dell’articolo 18: scom­pa­rire senza la neces­sità di abrogarlo.

Il manifesto, 24 maggio 2015

La com­me­dia delle bugie e delle prese in giro del governo sugli F35 è finita. A pagina 144 del Docu­mento pro­gram­ma­tico plu­rien­nale per la Difesa appena «pre­sen­tato al par­la­mento dalla mini­stra Roberta Pinotti» si legge a pro­po­sito del pro­gramma F35: «Oneri com­ples­sivi sti­mati per circa 10 miliardi: com­ple­ta­mento pre­vi­sto 2027».

Nel set­tem­bre del 2014 la camera aveva appro­vato una mozione (a prima firma Scanu del Pd) che impe­gnava il il governo «a rie­sa­mi­nare l’intero pro­gramma F35 per chia­rirne cri­ti­cità e costi con l’obiettivo finale di dimez­zare il bud­get finan­zia­rio ori­gi­na­ria­mente pre­vi­sto». Quella mozione non vale più niente, è carta strac­cia. Il governo ha preso in giro il par­la­mento e l’Italia per mesi. E ha preso in giro chi in que­sti anni (dalla cam­pa­gna Taglia le ali alle armi al mani­fe­sto) è stato in prima fila nella richie­sta di can­cel­la­zione del pro­gramma F35. Il governo prima ha detto che avremmo avuto la rispo­sta alla mozione della Camera nelle «risul­tanze» (espres­sione cara alla Pinotti) del Libro bianco sulla Difesa. Poi — non avendo tro­vato nulla nel Libro bianco — ci ha detto che avremmo avuto sod­di­sfa­zione nel Docu­mento pro­gram­ma­tico: sì, l’amara sod­di­sfa­zione di sapere di essere stati imbro­gliati da un governo infido.

Le avvi­sa­glie c’erano state qual­che giorno fa alla pre­sen­ta­zione in par­la­mento del Libro bianco. Un libro vuoto, invi­si­bile, inu­tile. Un docu­mento mode­sto, fatto in gran parte di bana­lità, a tratti imba­raz­zante. Un docu­mento in cui si parla ancora di bipo­la­ri­smo, muro di Ber­lino, inte­ressi nazio­nali, vil­lag­gio glo­bale (una novità), dove si auspica una poli­tica della difesa ed estera per un mondo migliore (ma va!).

Un docu­mento in cui si parla della neces­sità di una nuova «postura» (sic) dello stru­mento mili­tare e di valo­riz­zare la dimen­sione «capa­ci­tiva» (ri-sic) della nostra difesa: a volte il tra­dut­tore di Goo­gle tra­di­sce. Un docu­mento in cui si afferma la neces­sità di ricon­durre al mini­stro della difesa una mag­giore cen­tra­lità della dire­zione poli­tica: per fare que­sto ser­vono mag­giori con­su­lenti (in deroga alla spen­ding review), che vanno sotto il nome di «uffici di diretta col­la­bo­ra­zione». Una richie­sta roboante per un po’ di staff esterno in più.

Un docu­mento in cui natu­ral­mente non si parla degli F35.

E poi è arri­vato que­sto Docu­mento pro­gram­ma­tico che non cam­bia nulla rispetto al pas­sato. Avanti tutta con i cac­cia­bom­bar­dieri: i finan­zia­menti non si toc­cano. Con rara ipo­cri­sia, il docu­mento parla di «rispetto delle mozioni» e di «note­vole dimi­nu­zione» della spesa per gli F35: ma è quella che aveva già fatto 3 anni fa l’ex mini­stro della difesa Giam­paolo Di Paola. Per mesi la mini­stra ed ex paci­fi­sta Pinotti non ha rispet­tato le deci­sioni del par­la­mento. Adesso la cla­mo­rosa con­ferma. Roberta Pinotti è poli­ti­ca­mente ed isti­tu­zio­nal­mente ina­de­guata alla sua deli­cata fun­zione di governo. Sel ne ha chie­sto uffi­cial­mente le dimis­sioni. Nei pros­simi giorni rac­co­glierà le firme per for­ma­liz­zare e depo­si­tare la richie­sta alla camera.

Tre anni fa l’ex ammi­ra­glio Di Paola — cui pure non abbiamo rispar­miato dure cri­ti­che — decise in quat­tro e quattr’otto di tagliare 41 cac­cia F35 (da 131 a 90) facendo rispar­miare più di 5 miliardi di euro al paese. Nella pic­cola sto­ria ita­liana degli F35, la Pinotti sarà ricor­data per essersi sot­tratta alle deci­sioni par­la­men­tari e non avere ridotto la spesa per gli F35 e Di Paola per avere deciso senza tanti indugi di rin­viare alla Loc­kheed 41 cac­cia­bom­bar­dieri. È una bella lotta ed è para­dos­sale dirlo, ma — sugli F35 — meglio l’ex ammi­ra­glio che l’ex paci­fi­sta. Rida­teci Di Paola.

Il manifesto, 23 maggio 2015
In Libano ci sono 1,6 milioni di pro­fu­ghi siriani (oltre a 500mila pale­sti­nesi, lì da decenni): il 36 per cento (il 48, con i pale­sti­nesi) della popo­la­zione; in Gior­da­nia ce ne sono 600mila (su 6 milioni di abi­tanti, oltre a 1,7 milioni di pale­sti­nesi). In Tur­chia 650mila; in Iraq 250mila; in Iran 2 milioni (più tutti gli afgani). All’interno della Siria gli sfol­lati sono 6,5 milioni. In Egitto i pro­fu­ghi di diversa pro­ve­nienza sono oltre 500mila; in Libia non si sa: secondo il pro­cu­ra­tore di Palermo Sca­lia circa un milione. In Nige­ria Boko Haram, ma anche Eni e Shell, hanno creato 3,2 milioni di pro­fu­ghi: metà è già in Ciad, Came­run e Niger; metà sta cer­cando di fuggire.

Dif­fi­cile, in que­sti disa­stri, distin­guere pro­fu­ghi di guerra, pro­fu­ghi ambien­tali e “sem­plici” migranti. Poi c’è un milione di pro­fu­ghi del Don­bass: metà in Rus­sia, metà in Ucraina. Unhcr (l’agenzia dell’Onu che si occupa dei pro­fu­ghi), Croce rossa e Mez­za­luna rossa stanno finendo i fondi per assi­sterli, peral­tro, in con­di­zioni inso­ste­ni­bili: 41 per cento dei gio­vani “ospi­tati” in quei campi pro­fu­ghi, dice un’inchiesta, pensa al sui­ci­dio come unica via di uscita. Per­ché die­tro quei numeri ci sono delle per­sone: donne, vec­chi, bam­bini, uomini sfiancati.

E’ una situa­zione desti­nata a porre fine per sem­pre, in Europa, all’idea di una “nor­ma­lità” delle nostre vite. Per­ché i “flussi” visti finora sono desti­nati a mol­ti­pli­carsi. Ma quei pro­fu­ghi non sono migranti: tutti o quasi vor­reb­bero tor­nare a casa loro quando tor­nerà la pace. Ma sanno che non tor­nerà per molti anni. Nel frat­tempo cer­che­ranno in tutti i modi di rag­giun­gere l’Europa, anche a rischio della vita. Non hanno alter­na­tive. Inol­tre, molti di loro vedono nell’Europa un retro­terra, la zona forte di un’area che abbrac­cia Medi­ter­ra­neo, Medio Oriente e Africa cen­tro­set­ten­trio­nale, men­tre noi euro­pei non sap­piamo ancora vedere in quei ter­ri­tori mar­to­riati, in gran parte dalle nostre guerre, una pro­pag­gine delle nostre società.

Ma che cosa fa l’Europa e chi governa? Dichiara guerra ai pro­fu­ghi. Ai pro­fu­ghi, non agli sca­fi­sti. Bloc­care gli sca­fi­sti (oggi in Libia, domani chissà dove), posto che sia fat­ti­bile, signi­fica con­dan­nare cen­ti­naia di migliaia di fug­gia­schi a rima­nere dove sono: alla fame, al freddo e al caldo sof­fo­cante; spesso in preda a regimi o bande che li tor­tu­rano, li rapi­nano, le stu­prano, li ucci­dono. Fer­marli prima che rag­giun­gano la Libia, o altri porti, è ancora peg­gio: vuol dire allar­gare il fronte di guerra agli “sca­fi­sti del deserto”. Se tante per­sone fug­gono, sapendo che cosa li aspetta, è per­ché non hanno altra scelta. Voi che cosa fare­ste al loro posto? Respin­gerli signi­fica con­dan­narli a morte.

Il popolo tede­sco e chi viveva accanto ai campi di ster­mi­nio sape­vano. Sape­vano anche i governi alleati che non bom­bar­da­vano le fer­ro­vie ger­ma­ni­che per non dover acco­gliere, a guerra finita, gli ebrei soprav­vis­suti. Ma nean­che Hitler, all’inizio, voleva ster­mi­nare gli ebrei; voleva spe­dirli in Mada­ga­scar. Poi…Oggi chi invoca i respin­gi­menti sa benis­simo di pro­porre uno ster­mi­nio. Se i pro­fu­ghi noi non li vogliamo, come è pos­si­bile costrin­gere a “tener­seli” tanti Stati più fra­gili dei nostri, senza che ciò signi­fi­chi auto­riz­zarli a sba­raz­zar­sene in qual­siasi modo?

C’è un’alternativa a tutto ciò? C’è se si ammette che per noi, in Europa, è finita per sem­pre la nor­ma­lità. Sette anni di crisi, d’altronde, un po’ ce lo hanno inse­gnato. Non basta pro­porre cor­ri­doi uma­ni­tari per­ché pro­fu­ghi e fug­gia­schi rag­giun­gano in sicu­rezza le loro mete. Que­sto affronta (e non risolve) il prima. Ma che ne è del poi? Si pos­sono gestire cen­ti­naia di migliaia di pro­fu­ghi, e poi forse milioni, con i Cie, i Cara, gli Sprar? E affi­dare a ladri di Stato come Buzzi o le asso­cia­zioni di Alfano la gestione di un sistema che tiene lì a far niente, per anni, per­sone in gran parte gio­vani e sane, esi­ben­dole in que­sto ozio for­zato a una popo­la­zione aiz­zata a con­si­de­rarle nient’altro che un peso? E tra­sfor­mando la poli­zia in “sca­fi­sti di Stato” per aiu­tarle a pas­sare i con­fini, o farle scap­pare in massa dai cen­tri, o lasciarle ad arran­giarsi in mezzo alla strada, per­ché la con­ven­zione di Dublino pre­scri­ve­rebbe all’Italia di trat­te­nerle per sem­pre sul pro­prio suolo?

Solo ora i governi dell’Unione comin­ciano a rea­liz­zare che quei flussi non si pos­sono fer­mare nel modo faci­lone e cri­mi­nale su cui hanno tro­vato l’accordo: sor­ve­glianza armata alle fron­tiere e guerra agli sca­fi­sti. E allora si sfi­lano, uno dopo l’altro, dagli obbli­ghi di soli­da­rietà inter­sta­tuale (e se mai accet­te­ranno delle quote, sarà solo per con­trol­lare che tutto il resto non possa più scon­fi­nare: per l’Italia sarebbe ancor peg­gio). I pro­fu­ghi? se la veda il paese dove sbar­cano! Ma que­sta ripulsa della soli­da­rietà inter­sta­tuale suona a morto per l’Unione. E se Renzi non ha sol­le­vato la que­stione quando ne era alla Pre­si­denza, è per­ché rap­pre­senta più di tutti quella cul­tura da ragio­nieri che la sta distrug­gendo con l’austerity, e che ora pre­tende di risol­vere un pro­blema geo­po­li­tico di dimen­sioni pla­ne­ta­rie affon­dando dei bar­coni di legno con appa­rati da guerre stellari.

L’alternativa, allora, è un grande e lun­gi­mi­rante piano di coo­pe­ra­zione allo svi­luppo. Quei pro­fu­ghi vogliono tor­nare a casa loro; molti hanno dei legami con fami­glie o comu­nità già inse­diate in Europa, ma quasi tutti man­ter­ranno anche, come e quando potranno, solidi legami con le comu­nità da cui sono fug­giti. Ade­gua­ta­mente assi­stiti e con­trol­lati, pos­sono gestire auto­no­ma­mente strut­ture e fondi desti­nati alla loro per­ma­nenza in Europa. Se ben distri­buiti sul ter­ri­to­rio e pro­tetti con un con­tra­sto effi­cace alle cam­pa­gne raz­zi­ste, pos­sono inte­grarsi nel tes­suto sociale, tes­sere rela­zioni, impa­rare lin­gua e mestieri, man­dare i bam­bini e i ragazzi a scuola (stru­mento fon­da­men­tale di inclu­sione). Se coin­volti in piani per dare lavoro a milioni di disoc­cu­pati, ita­liani ed euro­pei – indi­spen­sa­bili per argi­nare gli effetti della crisi — pos­sono con­cor­rere a creare ric­chezza. Se auto­riz­zati e aiu­tati a orga­niz­zarsi, per comu­nità nazio­nali, pos­sono costi­tuire con le loro rela­zioni la base sociale e poli­tica indi­spen­sa­bile per un ritorno alla pace e alla nor­ma­lità dei loro paesi (altro che ter­ro­ri­sti! Chi attra­versa vicende del genere è il più grande amico della pace che si possa incon­trare). Con loro diven­te­rebbe pos­si­bile costruire una rete di rela­zioni per dare final­mente corpo a una grande comu­nità euromediterranea.

«Andiamo ad aiu­tarli nei loro paesi, così non emi­grano più» è l’ultimo alibi di chi non vuole pro­prio vederli. Ma per noi andare in quei paesi è sem­pre più rischioso, se non impos­si­bile; e i pro­getti di coo­pe­ra­zione sono da sem­pre, nel migliore dei casi, ini­zia­tive di nic­chia, di nes­suna effi­ca­cia sull’insieme della popo­la­zione (quando non sono vere e pro­prie rube­rie a spese delle comu­nità assi­stite). Quale occa­sione migliore, allora, per un grande pro­gramma di coo­pe­ra­zione medi­ter­ra­nea, lavo­rando e pro­get­tando insieme, con le per­sone che sono già qui per sopravvivere?

Il manifesto, 22 maggio 2018

Gli hac­ker ita­liani sono tre­mendi: sem­bra che nei giorni scorsi abbiano preso il con­trollo non solo del sito dell’Expo ma per­fino di quello del Mini­stero dell’Istruzione, Uni­ver­sità e ricerca. Su entrambi i siti, infatti, com­pare un testo uguale, desti­nato alle scuole, dove si legge che all’interno del sito espo­si­tivo mila­nese «non è con­sen­tito intro­durre qual­siasi tipo di mate­riale stam­pato o scritto, con­te­nente pro­pa­ganda a dot­trine poli­ti­che, ideo­lo­gi­che o reli­giose, asser­zioni o con­cetti diversi da quelli espli­ci­ta­mente auto­riz­zati dalle Auto­rità di Pub­blica Sicurezza».

Dice pro­prio così: «asser­zioni o con­cetti diversi da quelli espli­ci­ta­mente auto­riz­zati dalle Auto­rità di Pub­blica Sicu­rezza», il che impli­che­rebbe che miste­riose Auto­rità di Pub­blica Sicu­rezza pos­sie­dano una lista di «asser­zioni e con­cetti auto­riz­zati» e pas­sino il loro tempo a con­fron­tarla con tutte le innu­me­re­voli asser­zioni che pro­li­fe­rano su Face­book o Twit­ter, per veri­fi­carne la con­gruenza. Baste­rebbe Sal­vini a riem­pire le loro gior­nate lavo­ra­tive, figu­ria­moci se poi si volesse con­trol­lare ciò che viene detto o scritto nelle scuole ita­liane che, com’è noto, con­ten­gono circa un milione di inse­gnanti e parec­chi milioni di studenti.

Que­sta impro­ba­bile paro­dia di uno stato tota­li­ta­rio, dove occorre imba­va­gliare ogni stu­dente che mani­fe­sti un «mor­boso inte­resse per le que­stioni poli­ti­che e sociali» (come reci­tava la moti­va­zione dell’espulsione di Gian­carlo Pajetta da tutte le scuole del Regno, anno 1927) sem­bra però che esi­sta dav­vero e che non sia opera di hac­ker per­ché è stata fatta pro­pria niente meno che da Maria Elena Boschi. Il Mini­stro per le riforme isti­tu­zio­nali, pale­se­mente non ren­den­dosi conto di ciò che diceva, ha soste­nuto alla Camera che «Expo Spa è una società pri­vata» e quindi «ai sensi dell’articolo 1341 del codice civile, chiun­que voglia acce­dere ad Expo deve sot­to­stare al rego­la­mento», com­preso il divieto dei con­cetti non pre­ven­ti­va­mente autorizzati.

Pec­cato che Expo non sia una società pri­vata poi­ché i soci sono tutti pub­blici, come ha rico­no­sciuto espli­ci­ta­mente il Con­si­glio di Stato in una sen­tenza del 4 feb­braio scorso. E pec­cato che in Ita­lia esi­sta ancora un liber­colo (che il ducetto male­du­cato e Maria Elena vor­reb­bero abro­gare ma che per il momento resta ancora in vigore) dove all’art. 21 si spe­ci­fica: «Tutti hanno diritto di mani­fe­stare libe­ra­mente il pro­prio pen­siero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di dif­fu­sione». Si chiama Costi­tu­zione della Repub­blica Italiana.

Il che signi­fica che se i deliri dell’Expo e del Miur, pale­se­mente ispi­rati ai testi di gol­pi­sti cileni o argen­tini sono reali, ci sareb­bero parec­chie per­sone che dovreb­bero pren­dersi una lunga vacanza alle Antille: da Giu­seppe Sala (com­mis­sa­rio del governo e ammi­ni­stra­tore dele­gato di Expo) a Ste­fa­nia Gian­nini (mini­stro dell’Istruzione) fino alla già citata Boschi che ignora non solo la natura giu­ri­dica dell’Expo ma per­fino l’abc del libretto su cui ha giu­rato entrando in carica il 22 feb­braio 2014.

Sbilanciamoci.info, 21 maggio 2015
Tsi­pras ostenta otti­mi­smo e punta su un «accordo di reci­proco van­tag­gio» da defi­nire nel col­lo­quio con la Mer­kel e Hol­lande al Con­si­glio Euro­peo di Riga. Varou­fa­kis è ancora più det­ta­gliato: «La rot­tura delle trat­ta­tive è fuori dal nostro oriz­zonte», ha dichia­rato lunedì, spe­ci­fi­cando anche che il nodo più dif­fi­cile sono le pen­sioni. «Ci chie­dono casse in pareg­gio con 27% di disoc­cu­pa­zione», si è lamen­tato il mini­stro delle Finanze.

Se a Riga sarà fumata nera, allora Atene si avvierà spe­di­ta­mente verso una sospen­sione dei paga­menti del debito. Dal 5 giu­gno ini­zia infatti una sequenza infer­nale di ver­sa­menti che alla fine del mese ammon­te­ranno a 1,2 miliardi. Poi, a luglio e inizi ago­sto altri 6 miliardi, tra Fmi, Bce e titoli in sca­denza. Sono soldi che la Gre­cia sem­pli­ce­mente non ha.

Anche Varou­fa­kis è con­vinto che alla fine vin­cerà la «ragio­ne­vo­lezza». Secondo lui, il domi­nio di Schau­ble den­tro l’eurogruppo non è asso­luto: «Certo, ci sono i fana­tici dell’austerità, ma ci sono anche quelli che hanno dovuto subire l’austerità e che ora, per ragioni poli­ti­che, non pos­sono dire che hanno sba­gliato. E poi ci sono coloro che temono di alzare troppo la voce per non subire a loro volta misure di auste­rità». Ovvia­mente, nel secondo gruppo c’è la destra spa­gnola e por­to­ghese e nel terzo i socia­li­sti fran­cesi e i demo­cra­tici italiani.

Tsi­pras è con­vinto di avere alleati in Europa, sep­pure occa­sio­nali. Non per­ché piace loro la sini­stra radi­cale greca, ma per­ché vedono con grande pre­oc­cu­pa­zione i rischi che com­porta l’estremismo libe­ri­sta tede­sco. In sostanza, hanno il fon­da­tis­simo sospetto che sul caso greco Schau­ble stia gio­cando fino in fondo la sua carta più poli­tica: che la que­stione del debito esca anche uffi­cial­mente dagli schemi della poli­tica mone­ta­ria comune e diventi il para­digma della nuova geo­me­tria della poli­tica europea.

L’eventuale espul­sione della Gre­cia dall’eurozona segnerà nel modo più for­male l’incompatibilità tra la moneta comune e qual­siasi poli­tica eco­no­mica espan­siva. Ber­lino smet­te­rebbe di nascon­dersi die­tro ai trat­tati e mostre­rebbe la sua fac­cia di vero e unico prin­cipe euro­peo. Per otte­nere que­sto, la destra oltran­zi­sta tede­sca sem­bra anche dispo­sta a pro­ce­dere in mezzo alle rovine dell’eurozona. Le ripe­tute assi­cu­ra­zioni di Schau­ble sulla pre­sunta «corazza» che la difen­de­rebbe dal fal­li­mento greco espri­mono esat­ta­mente que­sto spi­rito avven­tu­riero: il «ricatto» di Tsi­pras non deve pas­sare, costi quel che costi.

In queste condizioni il progetto di unificazione europea sta arrivando in un punto critico.

La vit­to­ria di Came­ron ha aperto la strada verso il refe­ren­dum bri­tan­nico sulla per­ma­nenza nell’Ue e non è per niente scon­tato che vin­cano gli euro­pei­sti. Gli umori dei popoli euro­pei li abbiamo potuti tastare in maniera esau­riente nelle ele­zioni euro­pee dell’anno scorso. Infatti, non a caso, i risul­tati di quelle urne sono stati imme­dia­ta­mente rimossi, cen­su­rati e messi tra paren­tesi. Ora il loro spet­tro ritorna e batte forte sul tavolo: gli euro­pei sono furiosi con l’Europa, una fetta cre­scente della popo­la­zione non ne vuole più sapere: o si astiene visto­sa­mente oppure indi­rizza pole­mi­ca­mente il suo voto verso movi­menti anti­eu­ro­pei, spesso di destra.

Lasciando da parte la que­stione immi­gra­zione, sulla quale (pur­troppo) l’Europa incide pochis­simo, la pro­te­sta popo­lare si rivolge con­tro un avver­sa­rio che si chiama euro e le sue regole.

Negli ultimi 6 anni gli euro­pei hanno assi­stito a una gestione della crisi aper­ta­mente e spie­ta­ta­mente di classe, a una tem­pe­sta di tagli, all’abbattimento del costo del lavoro, alla disgre­ga­zione dello stato sociale e all’impoverimento della società. Tutto que­sto in nome di regole appli­cate da orga­ni­smi privi di legit­ti­ma­zione democratica.

La «destra» e la «sini­stra» non solo hanno «abban­do­nato» la società ma sono stati «com­plici» nel far nascere que­sto mostro, si sente dire, e non è facile smen­tire que­sta accusa. Que­sta nostra tra­ge­dia, ovvia­mente, si svolge di fronte al mondo intero e sarebbe strano che anche i bri­tan­nici non trag­gano le loro conseguenze.

Anche Tsi­pras viene accu­sato den­tro il suo par­tito di aver tirato le trat­ta­tive per le lun­ghe, con il rischio di «annac­quare troppo» il pro­gramma del governo di sinistra.

La vera accusa però è un’altra e nes­suno osa dirla a voce alta: è quella di non aver voluto rom­pere con l’eurozona, non aver voluto ricor­rere da subito alla «bomba ato­mica» in mano alla Gre­cia, cioè la sospen­sione imme­diata del paga­mento del debito. È un’accusa fon­data: né Tsi­pras né Varou­fa­kis hanno voluto spa­rare per primi e hanno sem­pre rispo­sto in maniera ferma ma con­ci­liante alle pro­vo­ca­zioni di Schau­ble e dei suoi amici. Il pre­mier greco si è giu­sti­fi­cato dicendo che il man­dato elet­to­rale diceva: niente auste­rità ma all’interno dell’eurozona. Una posi­zione estre­ma­mente più com­plessa e più dif­fi­cile di quella di Beppe Grillo, di Farage o di Marine Le Pen che vogliono farla finita con l’Ue una volta per tutte.

«una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia». Il manifesto, 221 maggio 2015

Riforma Scuola. Intervista. Stefano Rodotà a tutto campo su Matteo Renzi: «Con il preside manager trasferisce la sua visione del potere all’intera società». «La scuola dovrebbe impedire diseguaglianze, il Ddl spinge invece verso la segmentazione sociale». «Chi si oppone al renzismo dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere istituzionale»

Fino ad oggi ci siamo con­cen­trati sul modello di orga­niz­za­zione isti­tu­zio­nale emerso dal com­bi­narsi dell’Italicum e della riforma del Senato – afferma Ste­fano Rodotà – La riforma della scuola appro­vata ieri alla Camera mostra un ele­mento radi­cale: l’idea che Renzi ha della società».

Pos­siamo farne un pro­filo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elet­to­rale e di quella costi­tu­zio­nale?
La scuola è la parte più impor­tante del Wel­fare tra­di­zio­nale. In un momento in cui aumen­tano disoc­cu­pa­zione e povertà si dovrebbe inve­stire sul suo ruolo di inclu­sione per impe­dire il ripro­dursi delle disu­gua­glianze. Invece la riforma disco­no­sce che la scuola sia un corpo sociale com­po­sto da sog­getti dif­fe­ren­ziati e riba­di­sce una for­tis­sima spinta verso la seg­men­ta­zione sociale. Attacca il con­tratto nazio­nale, esclude i corpi inter­medi, e in par­ti­co­lare i sin­da­cati, non rico­no­sce la par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica espressa dagli inse­gnanti e dagli stu­denti che si stanno oppo­nendo. Sono gli ele­menti già emersi nel Jobs Act che ha por­tato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In que­sto modello di società non c’è spa­zio per la coe­sione sociale.

Nel Ddl scuola appro­vato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un cre­dito d’imposta al 65% per il bien­nio 2015 — 2016 e del 50% per 2017, rico­no­sciuto a chi farà dona­zioni in denaro per le scuole pub­bli­che o pri­vate. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Que­sta norma è un incen­tivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pub­blico per affi­darla ai pri­vati che la gesti­ranno come meglio cre­dono. È come incen­ti­vare a farsi una pre­vi­denza pri­vata oppure una sanità privata.

Con­tra­sta con l’articolo 33 della Costi­tu­zione che pre­vede l’esistenza di scuole pri­vate «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole pari­ta­rie appro­vata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggi­rare pro­prio que­sto arti­colo. Quando l’hanno scritto, i costi­tuenti non ave­vano pre­clu­sioni ideo­lo­gi­che ma inten­de­vano rico­no­scere la prio­rità degli inve­sti­menti nella scuola pub­blica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo per­met­tere che la scuola pub­blica fun­zioni al meglio. Solo quando que­sta con­di­zione sarà sod­di­sfatta, si potrà pen­sare di dare un euro anche ai pri­vati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiun­tiva ai pri­vati. I fondi a loro desti­nati sono sot­tratti alla scuola pubblica.

È stato detto che que­sta norma rispec­chia il plu­ra­li­smo e, in più, rap­pre­senti la fine di un tabù ideo­lo­gico della sini­stra.
Altro che abbat­tere un tabù. Ne costrui­sce un altro: la distin­zione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene que­ste posi­zioni crede che il ruolo della scuola pub­blica sia in con­trap­po­si­zione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragaz­zino. Il pro­blema è un altro: la scuola pub­blica, come spa­zio pub­blico di rico­no­sci­mento e con­fronto, è irri­nun­cia­bile per­ché qui posso costi­tuirmi come cit­ta­dino. Se invece dico che ognuno può farsi la pro­pria scuola reli­giosa, etnica, ter­ri­to­riale o cul­tu­rale inne­sco un con­flitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a rico­no­scere l’altro in base alle sue diver­sità, ma un luogo dove si adem­pie una fun­zione pub­blica per un numero ten­den­zial­mente ridu­ci­bile di per­sone. Tutto que­sto è in con­flitto con l’idea di una società aperta e plu­rale dove l’uguaglianza esi­ste nella misura in cui viene rico­no­sciuta la diver­sità delle opinioni.

Crede che Renzi abbia attri­buito al «pre­side mana­ger» un’importanza para­go­na­bile alla lea­der­ship poli­tica che lui intende svol­gere in poli­tica e nello Stato?Cer­ta­mente. È rive­la­tore di que­sto atteg­gia­mento il fatto che abbia scelto di usare la lava­gna e il ges­setto: voi siete gli sco­lari e io il mae­stro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cam­biato la sua comu­ni­ca­zione e si è messo nella posi­zione di chi parla dall’alto. È la rap­pre­sen­ta­zione tan­gi­bile della con­cen­tra­zione dei poteri nella figura del pre­si­dente del con­si­glio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole rea­liz­zare con le riforme isti­tu­zio­nali. Con que­sto dise­gno di legge Renzi tende a tra­sfe­rire que­sta visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure api­cali dei pre­sidi affida la mis­sione della scuola, quella di pro­durre buona cul­tura, ugua­glianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha defi­nito que­sta poli­tica come una «peda­go­gia del Capo».

Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di deci­dere e di ren­dere più effi­ciente la scuola.
Ma il pro­blema della respon­sa­bi­lità diri­gen­ziale non può tra­dursi nell’accentramento del potere e soprat­tutto nella pos­si­bi­lità di sele­zio­nare i docenti. È lo stesso mec­ca­ni­smo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati con­cessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per faci­li­tare le assun­zioni. In que­sto modo i diritti dei lavo­ra­tori sono stati subor­di­nati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un cen­tro di potere per gestire un isti­tuto con una logica tutta impren­di­to­riale e ad esso si subor­dina la par­te­ci­pa­zione nella scuola.

Chi si oppone a que­sta poli­tica è accu­sato di essere cor­po­ra­tivo o un relitto della sto­ria. Come si smonta que­sta reto­rica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sbu­ro­cra­tiz­za­zione della società, ma di con­cen­tra­zione del potere in una sola per­sona. Nei set­tori dove que­sto è acca­duto, ad esem­pio nelle opere pub­bli­che, sono venuti meno i mec­ca­ni­smi di con­trollo, di par­te­ci­pa­zione e tra­spa­renza. Il potere è stato usato in maniera discre­zio­nale e la cor­ru­zione si è moltiplicata.

In Ita­lia è inne­ga­bile il pro­blema della buro­cra­zia, non crede?
Ma non lo si risolve aumen­tando dise­gua­glianze e ingiu­sti­zie. Man mano che si intro­duce la logica pri­va­ti­stica e l’accentramento della gestione si inde­bo­li­scono le pos­si­bi­lità di con­trollo e di par­te­ci­pa­zione. Que­ste fun­zioni sono essen­ziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garan­tire l’inclusione sociale, non la com­pe­ti­zione tra le persone.

Per­ché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costi­tu­zione non ha pro­dotto una poli­tica capace di affron­tare la sfida di Renzi?
Si è pen­sato che, tutto som­mato, ci sarebbe stato il tempo neces­sa­rio per aggiu­stare le cose. Quando poi si sono com­presi gli effetti isti­tu­zio­nali e sociali della sua poli­tica è stato troppo tardi. La poli­tica uffi­ciale non è stata in grado di con­trap­porsi a Renzi. Que­sto vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi cri­tica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Que­sti ele­menti erano pre­senti sin dall’inizio e adesso le resi­stenze sono tar­dive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chia­ma­vano «pro­fes­so­roni», né voglio fare la parte della Cas­san­dra ]Ma Cassandra ha sempre avuto ragione. ndr]. Per me è un ele­mento di autocritica.

Cosa è man­cato a que­sta oppo­si­zione?
La visione alter­na­tiva di una società dove la poli­tica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire poli­tico per rie­qui­li­brare la forte con­cen­tra­zione di potere che si sta rea­liz­zando a livello isti­tu­zio­nale. La società deve ricon­qui­stare il suo ruolo nel momento in cui lo spa­zio nelle isti­tu­zioni si restringe. Rimet­tere in movi­mento que­sti mec­ca­ni­smi oggi è un pro­blema poli­tico che si devono porre anche chi sta nelle isti­tu­zioni. Non si può fare poli­tica solo attra­verso gli emen­da­menti. Quella può per­met­tere di sal­varsi l’anima solo quando si discute una legge.

Il manifesto, 22 maggio 2015

Il rapporto. L’organizzazione dei paesi più industrializzati ha registrato un aumento delle differenze tra ricchi e poveri: un fenomeno che con la crisi si è accentuato, e che non si arresta. Dal 2007 al 2011 il 40% della fascia più bassa ha perso il 40% del reddito, mentre i più facoltosi hanno guadagnato il 51%. Le cause: dal dilagare del lavoro precario alla detassazione dei milionari

Siamo arri­vati a «un punto cri­tico, le ine­gua­glianze non sono mai state così forti nei paesi Ocse», afferma Angel Gur­ria, segre­ta­rio gene­rale dell’organizzazione che riu­ni­sce i 34 paesi più indu­stria­liz­zati. «Stiamo cam­biando di dimen­sione», spiega un eco­no­mi­sta. Nel terzo rap­porto Ocse sulle ine­gua­glianze, pre­sen­tato ieri al Châ­teau de la Muette, la situa­zione appare peg­gio­rata rispetto ai pre­ce­denti studi (2008 e 2011): dall’inizio della crisi, il 40% della popo­la­zione più povera ha regi­strato un calo di red­dito; tra il 2007 e il 2011 il red­dito reale (cor­retto dagli effetti infla­zio­ni­stici) della fascia più debole è dimi­nuito di circa il 40%, men­tre il 10% più ricco, dal 1995 ha accu­mu­lato un aumento del 51%.

All’origine dell’aumento delle ine­gua­glianze c’è l’esplosione del part time impo­sto, dei con­tratti a ter­mine, del pre­ca­riato, dei tagli al sala­rio per spin­gere le per­sone al lavoro auto­nomo, accol­lan­dosi tutti i rischi, forme di occu­pa­zione che hanno rap­pre­sen­tato più della metà dei nuovi posti creati nei paesi Ocse dal 1995 al 2013. In più, sot­to­li­nea l’Ocse, nei prin­ci­pali paesi indu­stria­liz­zati più della metà del lavoro pre­ca­rio riguarda i gio­vani sotto i trent’anni. Le donne restano indie­tro, con salari in media del 15% più bassi degli uomini e il 16% in meno di pos­si­bi­lità di occu­pare un impiego.

Oggi, nei 34 paesi più ric­chi del mondo il 10% della popo­la­zione più agiata ha un red­dito 9,6 volte supe­riore a quello del 10% più povero. Nel 1980 que­sto scarto era di 7,1 volte supe­riore, nel 2000 era già salito a 9,1, cioè siamo di fronte a una pro­gres­sione costante delle dise­gua­glianze. Que­sti scarti aumen­tano in modo espo­nen­ziale se si cal­co­lano i patri­moni delle fami­glie. La crisi ha aggra­vato la situa­zione e acce­le­rato que­sto fenomeno.

L’Ocse sot­to­li­nea le con­se­guenze nega­tive della cre­scente ine­gua­glianza: nei 19 paesi esa­mi­nati, avrebbe ampu­tato la cre­scita di 4,7 punti tra il 1990 e il 2010. E per il futuro il per­pe­tuarsi di que­sta ten­denza è desti­nato a distrug­gere il capi­tale umano e a decur­tare le pos­si­bi­lità di cre­scita dell’economia. C’è stato l’aumento del pre­ca­riato che è andato di pari passo con la dimi­nu­zione dell’efficacia dei mec­ca­ni­smi di redi­stri­bu­zione, le tasse sono dimi­nuite per i ric­chi e ad esse sfug­gono lar­ga­mente le mul­ti­na­zio­nali gra­zie al ben oliato mec­ca­ni­smo dell’«ottimizzazione fiscale», oggi sotto accusa anche nella Ue. I tagli alle impo­ste per i più ric­chi, in un mondo dove ormai si è dif­fusa l’intolleranza fiscale (prima dell’era Rea­gan, negli Usa il decile più alto era tas­sato a più dell’80%, per­cen­tuale che oggi sarebbe con­si­de­rata insop­por­ta­bile), hanno con­tri­buito all’esplosione delle ineguaglianze.

Nel mondo indu­stria­liz­zato ci sono paesi più ine­guali di altri. Cile, Tur­chia, Mes­sico, ma anche Usa e Israele sono tra i più ine­guali, men­tre Dani­marca, Nor­ve­gia, Slo­ve­nia e Slo­vac­chia sono quelli dove le dif­fe­renze sono minori, come mette in evi­denza la tabella del rap­porto Ocse che pre­senta il coef­fi­ciente Gini. La Fran­cia è in una posi­zione cri­tica, ormai al 21esimo posto per ine­gua­glianza su 34 paesi: la situa­zione si sta aggra­vando con la crisi, il 10% delle per­sone più ric­che ha regi­strato una cre­scita del red­dito del 2% l’anno (cioè più della media Ocse), men­tre il 10% più povero ha subito un calo dell’1% (un po’ meno della media), gra­zie agli ammor­tiz­za­tori sociali, non ancora del tutto distrutti. Ma, dal punto di vista della con­cen­tra­zione patri­mo­niale, il 10% più ricco con­trolla più della metà del patri­mo­nio delle fami­glie. La pre­si­denza del socia­li­sta Hol­lande non sem­bra aver avuto alcuna influenza su que­sto trend di diseguaglianza.

Quest’ultimo rap­porto Ocse sug­ge­ri­sce agli stati mem­bri di inter­ve­nire, per rein­tro­durre più effi­caci poli­ti­che redi­stri­bu­tive. Siamo di fronte a un caso di schi­zo­fre­nia dell’organizzazione, che in nume­rosi altri rap­porti non fa che sug­ge­rire da anni la libe­ra­liz­za­zione del mer­cato del lavoro e il taglio ai diritti come solu­zione per uscire dalla crisi e com­bat­tere la disoc­cu­pa­zione. È que­sta la ricetta che viene pre­sen­tata come Tina (there is no alter­na­tive) a tutti gli stati della Ue, dall’Italia fino alla Grecia.

La pro­gres­siva distru­zione della classe media, che in gran parte si impo­ve­ri­sce, ha già con­se­guenze poli­ti­che, con l’irruzione della destra popu­li­sta, la cre­scita della paura e l’illusione di una solu­zione nel rifiuto dell’altro. La classe media, che si assot­ti­glia e perde ter­reno, si sente vit­tima della mon­dia­liz­za­zione e que­sto comin­cia ad avere effetti anche geo­po­li­tici. In Europa, cre­sce l’euroscetticismo e la chiu­sura nazio­na­li­sta.

Per­fino negli Usa si dif­fonde lo scet­ti­ci­smo verso le pro­po­ste di Obama su accordi inter­na­zio­nali di libe­ra­liz­za­zione com­mer­ciale, come il Ttip con la Ue o il Tpp con il Giap­pone e l’area del Pacifico.

Ocse: in Italia si amplia la forbice tra ricchi e poveri
di red.eco.
Il rapporto. Con la crisi la situazione si è aggravata. L'1% dei più facoltosi detiene il 15% della ricchezza nazionale, mentre il 40% della fascia più bassa si deve spartire il 5%. Penalizzati bambini, "atipici" e lavoratrici. Cgil: "Serve una patrimoniale". Uil: "Rinnovare i contratti e restituire il maltolto ai pensionati"
L’1% più ricco della popo­la­zione ita­liana detiene il 14,3% della ric­chezza nazio­nale netta (defi­nita come la somma degli asset finan­ziari e non finan­ziari, meno le pas­si­vità), pra­ti­ca­mente il tri­plo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. Que­sta è la foto­gra­fia della distri­bu­zione della ric­chezza nel Bel­paese secondo lo stu­dio dif­fuso ieri dall’Ocse.

In poche parole, se vogliamo tra­durla in numeri asso­luti, circa 600 mila fami­glie ita­liane (la crème dei ric­chi) deten­gono un patri­mo­nio pari a tre volte quello dete­nuto da 24 milioni di per­sone (la fascia più povera).

La crisi ha con­tri­buito ad aumen­tare le dif­fe­renze, ad aprire la for­bice tra ric­chi e poveri: la per­dita di red­dito dispo­ni­bile tra il 2007 e il 2011 è stata ben più elevata(-4%) per il 10% più povero della popo­la­zione rispetto al 10% più ricco (-1%).

La ric­chezza nazio­nale netta, dice ancora l’organizzazione pari­gina, in Ita­lia è distri­buita in modo molto diso­mo­ge­neo, con una con­cen­tra­zione par­ti­co­lar­mente mar­cata verso l’alto. Il 20% più ricco (primo quin­tile) detiene infatti il 61,6% della ric­chezza, e il 20% appena al di sotto (secondo quin­tile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accon­ten­tare del 17,4% della ric­chezza nazio­nale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero.

Anche nella fascia più ricca, inol­tre, la distri­bu­zione è net­ta­mente squi­li­brata a favore del ver­tice. Il 5% più ricco della popo­la­zione detiene infatti il 32,1% della ric­chezza nazio­nale netta, ovvero oltre la metà di quanto dete­nuto del primo quin­tile, e di que­sta quasi la metà è in mano all’1% più ricco.

In Ita­lia «la povertà è aumen­tata in modo mar­cato durante la crisi», in par­ti­co­lare per gio­vani e gio­va­nis­simi, dice l’Ocse. L’aumento del cosid­detto “tasso di povertà anco­rata” (soglia fis­sata all’anno pre­ce­dente) è stato di 3 punti tra il 2007 e il 2011, il quinto più ele­vato. La fascia con il mag­gior tasso di povertà sono gli under 18, con il 17% 4 punti in più della media Ocse, seguita dalla fascia 18–25, con il 14,7%, 0,9 punti sopra la media.

Il feno­meno è evi­dente fra i bam­bini (inci­denza di povertà del 17% rispetto al 13% della media Ocse) men­tre fra gli over 65 il livello è del 9,3% (con­tro una media del 12,6%). Il 40% della popo­la­zione opera in con­di­zioni «non stan­dard», cioè senza rego­lari con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato. E le dise­gua­glianze restano forti fra uomini e donne: solo il 38% delle lavo­ra­trici ha un impiego a tempo pieno con­tro la media Ocse del 52%.

Par­ti­co­lar­mente pena­liz­zati, come è pre­ve­di­bile, sono i lavo­ra­tori ati­pici. Il tasso di povertà i «non-standard» (auto­nomi, pre­cari, part time) è al 26,6%, con­tro il 5,4% per quelle di lavo­ra­tori sta­bili, e il 38,6% per quelle di disoc­cu­pati. In par­ti­co­lare, se si fissa a 100 il gua­da­gno medio dei lavo­ra­tori con posto fisso, quello degli ati­pici si ferma a 57, con grosse dispa­rità tra le varie cate­go­rie (72 per un auto­nomo, 55 per un con­tratto a ter­mine full time, 33 per un con­tratto a ter­mine part time).

E si resta pre­cari a lungo: tra le per­sone che nel 2008 ave­vano un lavoro a tempo deter­mi­nato, 5 anni dopo solo il 26% era riu­scito a otte­nere un tempo indeterminato.

L’Italia è il però Paese Ocse con la minor per­cen­tuale di fami­glie inde­bi­tate, il 25,2%, davanti a Slo­vac­chia (26,8%), Austria (35,6%) e Gre­cia (36,6%), e ben lon­tana dai livelli delle altre due grandi eco­no­mie dell’eurozona, Fran­cia (46,8%) e Ger­ma­nia (47,4%), della Gran Bre­ta­gna (50,3%) e degli Usa (75,2%).

Le pos­si­bili solu­zioni? La Cgil chiede una patri­mo­niale sui red­diti e i patri­moni più alti, la Uil chiede il rin­novo dei con­tratti, anche quelli pub­blici, e la resti­tu­zione del “mal­tolto” ai pensionati.

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