Un rapido commento, scritto per eddyburg, di un tenace costruttore di una prospettiva per una nuova sinistra, all'altezza dei tempi e di ciò che la nuova forma del proteiforme sistema capitalistico ha prodotto.
Un intervento a gamba tesa del magistrato anticorruzione e l'intervento critico di un intellettuale che difende la divisione dei poteri. Come dargli torto?
La Repubblica e Huffington Post, 3 giugno 2013
«Ora che le elezioni regionali sono alle spalle, si può dire: con il caso Campania siamo finiti in un’impasse giuridica inedita, che sarà anche molto stimolante e interessante sciogliere, a patto di non lasciarsi tirare per la giacca da nessun timore di strumentalizzazioni. Il mio parere? Non do per scontata l’interpretazione secondo cui De Luca debba essere sospeso subito dopo la proclamazione».
Raffaele Cantone spezza il silenzio “politico” che, da magistrato e da presidente dell’Anticorruzione aveva opposto durante la lunga, avvelenata campagna delle regionali che ha infiammato i rapporti politici sull’asse Napoli-Roma. Parla anche dei trasformisti, della querela del governatore campano contro la Bindi e di quel “grave passo falso” commesso dalla presidente della commissione Antimafia.
Presidente Cantone, autorevoli giuristi sostengono che De Luca non dovrebbe avere il tempo di nominare la sua giunta, ma essere sospeso un minuto dopo la proclamazione.«Penso che la questione sia controversa. Esiste secondo me, anche un’altra interpretazione. Gli articoli 7 e 8 del decreto che chiamiamo legge Severino prevedono infatti la decadenza o la sospensione. E quest’ultima interviene nei casi in cui l’amministratore abbia subito una condanna che però non è passata in giudicato, proprio come per De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. In altri termini: se si sospendesse subito, senza consentire ai consiglieri eletti di insediarsi e al consiglio di funzionare anche in rapporto alla giunta, bisognerebbe dichiarare lo scioglimento del consiglio per impossibilità di funzionamento. E la sospensione prevista dalla Severino, che ha una funzione di natura cautelare e un carattere provvisorio, diventerebbe di fatto, una decadenza».
Eppure, la recente sentenza della Cassazione ha stabilito che la sospensione è un “atto vincolato” e che, in presenza di presupposti, non esiste valutazione di discrezionalità.
«Certo, è così. Ma la domanda è: quando si verificano i presupposti? Si radicano nel momento in cui c’è la sola nomina, oppure quando l’amministratore, in questo caso il governatore della Regione, ha assunto regolarmente quelle funzioni dalle quali deve essere momentaneamente allontanato?» Cantone, diranno che lei ha una tesi pro Renzi e De Luca?
«So bene che il dramma di questa storia è che una vicenda squisitamente tecnico-giuridica sarà letta con una chiave di politica o di strumentalizzazione. Ma sono letture che non mi toccano. Credo invece che il presidente del Consiglio debba fare appello a tutto il meglio dell’avvocatura dello Stato e dei giuristi italiani. Senza pressioni o timore alcuno, perché la soluzione che si trova oggi farà giurisprudenza».
Ma il Pd poteva evitare di cacciarsi in questo vicolo cieco?
«È un rompicapo senza precedenti. Ribadisco: anche affascinante, per chi ama le potenzialità del diritto. È ovvio che sarebbe stato meglio evitarsi una tale complicazione, ma questa valutazione non spetta a me».
De Luca dice: dovrà risolvere il Parlamento. In realtà pensa al governo.
«Un decreto legge non avrebbe senso. E per le eventuali modifiche in Parlamento c’è bisogno di tempi e di soluzioni certo meditate. Come Autorità anticorruzione, proprio il 10 giugno, vareremo una proposta ampia sulla Severino da affidare al Parlamento, per alcuni danni e problemi che la Severino crea su altri versanti, su cui non c’entra De Luca. Perché quella normativa è sacrosanta, è indispensabile e deve rimanere. Ma un miglioramento certo va pensato».
Intanto, l’era De Luca comincia con la querela alla Bindi. Cosa pensa della black list dell’Antimafia?
«Mi faccia fare una premessa. Credo che l’onorevole Bindi, nonostante non avesse una specifica esperienza, stesse facendo benissimo il suo lavoro, con quella capacità di impadronirsi degli argomenti e della complessità dei nodi che è propria dei politici di alto livello: una volta gliel’ho anche riconosciuto alla presenza del premier. Ma questa vicenda degli impresentabili è stato, per me, un grave passo falso, un errore istituzionale».
Perché snatura la funzione dell’Antimafia?
«Per vari motivi. Primo: è rischiosa e fuorviante la logica di “istituzionalizzare” gli impresentabili, i quali per loro stessa natura possono essere candidabili, eleggibili, non indagati eppure non idonei a entrare nella pubblica amministrazione, ad esempio per spregiudicato trasformismo; oppure perché è più grave che un politico si accompagni costantemente a persone dell’area grigia o a pregiudicati, rispetto al fatto di essere rinviato a giudizio per un abuso qualunque. Secondo: in questo modo, si rischia di produrre un’eterogenesi dei fini; cioè, di dare il bollino blu a tantissimi che, non vedendosi inseriti in quella lista, si sentono pienamente legittimati. E infine, perché questo porta la commissione antimafia e la sua fondamentale, indiscutibile direi sacra funzione, a fare e a parlare di altro. La commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni».
Se l’aspettava che De Luca l’avrebbe querelata?
«Sì, lo aveva detto. Anzi, da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse così come lo è stato nel depositare la denuncia».
La Repubblica, “Huffington post"
di Alfonso Gianni
Mentre Vincenzo De Luca, trionfatore delle regionali campane con i voti determinanti del Centro democratico di Vassella Pisacane e dell’ Udc dell’intramontabile e in rottamabile Ciriaco De Mita, querela la Bindi per il semplice esercizio delle proprie istituzionali funzioni, Raffaele Cantone, Presidente nazionale anticorruzione (!?!), non trova di meglio che rilasciare un’ampia intervista a repubblica in cui se la prende con la Bindi e con la Corte Costituzionale. Eppure si tratta di una persona di cui si era fatto il nome persino per la carica di Presidente della Repubblica. E tutto ciò almeno ci consola dal punto di vista dello scampato pericolo.
Che si possa criticare la legge Severino è non solo lecito, ma per ciò che riguarda alcuni aspetti anche comprensibile, come quelli che concernono differenze di trattamento fra vari livelli istituzionali a fronte di processi giudiziari in corso. Ma bisognerebbe averlo fatto prima. Ora, fin tanto che quella è legge, non può non essere applicata. De Luca l’ha voluta sfidare. Il suo partito si è messo al suo servizio, infilandosi in cul de sac da cui è difficile uscire. D’altro canto questa è stata una scelta cosciente di Renzi. Una regione in più val bene l’aggiramento di una legge e la tacitazione di ogni sensibilità etica. Il giovane è spregiudicato.
Ma che il Presidente nazionale anticorruzione corresse in aiuto all’uomo forte della Campania, questa, almeno, speravamo di potercela risparmiare. E ci va giù duro.
La Bindi, secondo Cantone, avrebbe “istituzionalizzato” gli impresentabili. Cosa voglia dire non si capisce neppure, ma tant’è: si tratta di un’accusa destinata a fare effetto. In secondo luogo avrebbe dato il “bollino blu” a tutti quelli che non rientrano nella lista degli impresentabili. Qui siamo di fronte al capovolgimento radicale di ogni logica. Secondo Cantone qualunque iniziativa tesa ad avvertire l’elettorato che sono stati inseriti nelle liste persone che non hanno requisiti a termine di legge per poterci stare o per potere svolgere le funzioni che deriverebbero dalla loro eventuale elezione, sarebbe campagna elettorale per tutti gli altri. Ma allora, caro Cantone, se le cose stessero davvero così, aboliamola questa commissione antimafia. Sarebbe più dignitoso per tutti. Oppure releghiamola per norma a un ruolo marginale, come lei stesso dice nella intervista: “la commissione deve studiare, cogliere nessi, indagare fenomeni” , ma evidentemente non interferire mai con la politica attiva. In quest’ultima , come è noto, non ci sono nessi o fenomeni da indagare.
Per Cantone non conta neppure la sentenza della Corte Costituzionale che ha recentemente stabilito che la sospensione dalla carica è “un atto vincolato” non sottoponibile a valutazioni di discrezionalità. Cantone la butta sui tempi. Quando il governatore dovrebbe essere allontanato? Al momento della nomina o dopo l’insediamento della Giunta?
Che siamo di fronte a cavilli utilizzati all’unico scopo di sostenere la continuità dell’esercizio del potere da parte di De Luca, risulta poi chiaro in chiusura di intervista, quando Cantone si lancia in un intemerato augurio: “da cittadino mi augurerei che come governatore De Luca sarà puntuale e preciso con tutte le altre promesse come lo è stato nel depositare la denuncia”. Il riferimento alla querela di De Luca nei confronti della Bindi è esplicito.
Se lei la pensa così, caro Cantone, sarebbe assai meglio che tornasse ad essere un semplice cittadino e che abbandonasse nel più breve tempo possibile quella carica di Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Non mi pare materia per lei.
L'estremo tentativo dello statista greco di salvare la prospettiva di un'altra Europa. Incrociamo le dita.
La Stampa, 3 giugno 2015
Il punto.
La politica prova a muoversi.
Tensioni a Bruxelles.
È sufficiente osservare le dichiarazioni di Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, in teoria titolare della cattedra greca, invece fuori dal quintetto berlinese. «Si sono registrati dei progressi - sottolinea - ma sono insufficienti: siamo ancora lontani dall’accordo». Quest’ultima, precisa, «non è possibile dal punto di vista tecnico in settimana». Traduzione: si può fare solo nel «suo» conclave, cioè nel club dei ministri economici dell’Eurozona, che si riunisce il 18 giugno. Però i creditori vorrebbero poter rimpinguare le casse elleniche prima, a meno che Atene non chieda di unificare a fine mese i pagamenti dovuti al Fmi.
Anticipo greco.
«È passato sotto silenzio il record negativo della Toscana». Una riflessone sui risultati elettorali in una regione storica della sinistra. "Loro" hanno perso, ma "noi" non abbiamo vinto. Domandiamoci perché.
La Repubblica online, blog "Articolo 9", 3 giugno 2015
È proprio la regione del Presidente del Consiglio quella in cui si è votato di meno: con l'affluenza inchiodata a un clamoroso 48,24 per cento, in una specie di crollo verticale (aveva votato il 60,92 alle Regionali del 2010; e il 66,7 alle Europee dell'anno scorso: il che vuol dire che in dodici mesi ben 530.896 toscani hanno deciso che non val la pena di andare al seggio). Solo qualche mese fa chi avesse pronosticato questo drammatico disincanto per la rossa, civilissima, politicissima Toscana sarebbe stato considerato un eccentrico menagramo. E invece ora la maggioranza assoluta dei toscani urla di averne le tasche piene dei toscani Matteo Renzi ed Enrico Rossi: il Pd perde in un anno 454.773 voti (passando da 1.972.406 delle Europee al 1.441.510 di oggi), e Rossi è ora il presidente meno legittimato della storia della Toscana, essendo stato eletto da un miserrimo 23 per cento degli aventi diritto. Di questo passo, il prossimo governatore toscano lo eleggeranno direttamente i dipendenti della Regione.
Ancora più della disfatta ligure della imbarazzante Paita, dell'evaporazione dell'ultralight Moretti in Veneto o dell'imperdonabile follia di aver consegnato la Campania all'impresentabile De Luca, mi pare questa fuga toscana dalle urne la prima vera Caporetto del renzismo. Ricordate quando l'ex presidente Napolitano tuonava contro la (presunta) antipolitica dei 5 stelle? Ebbene, cosa si dovrebbe dire oggi del trionfante Pd, che riesce nel capolavoro di allontanare dalla politica il 51.76 % dei toscani?
Il presidente Mattarella ha sostenuto che le urne vuote siano una risposta alle «liti esasperate». Il che certamente può essere vero, ma non per la Toscana. Qui, invece, si paga l'incapacità della politica di sollevarsi dal piano della mera gestione del potere. L'assenza di una qualsivoglia visione del futuro che non sia la permanenza al comando – ed è questo il limite congenito del renzismo, che paradossalmente ricalca e cristallizza lo stato di fatto che dice di voler rottamare –: è questa la vera antipolitica. È la perfetta coincidenza tra 'Politica' e 'manovra politica' ad espellere dal gioco tutti tranne gli addetti ai lavori.
Lo si è visto plasticamente quando il Pd toscano ha attaccato a testa bassa l'assessore Anna Marson, accusandola di «stupidità politica» per aver difeso fino all'ultimo il Piano del Paesaggio: e cioè per aver scelto il governo del futuro e l'interesse pubblico, e non la gestione del presente e gli interessi privati. In quell'occasione (era l'ultimo consiglio regionale della legislatura) la Marson difese il suo «agire “diversamente politico”, in quanto non guidato dal desiderio di mantenere un incarico di assessore, né dall’obbligo di restituire favori e accontentare interessi specifici». La Marson, ovviamente, non è stata ricandidata: anzi è stata definitivamente espulsa dalla politica dei politici: e il Pd ha di nuovo saldamente in mano il governo della Toscana. Ma a che prezzo? Davvero pensiamo che le elezioni siano vinte anche quando la maggioranza assoluta non vota più?
Ma se i toscani hanno punito un Rossi mimetizzato tra i cacicchi del Caudillo Maleducato, non hanno certo premiato gli avanzi della sinistra radicale, vanamente rimessi insieme dal generoso Tommaso Fattori: il 6,28 per cento è un risultato deprimente, e l'astensione pesa come un macigno anche sopra chi non è riuscito a convincere i concittadini che esiste un'alternativa al mitico Partito della Nazione della Boschi & c. Non per caso, la Marson non è stata ricandidata nemmeno da questa residuale sinistra: così dimostrando che il vasto e agguerrito popolo dei comitati e delle associazioni che difendono paesaggio, ambiente, beni comuni non riesce a trovare una rappresentanza politica.
Il 31 maggio la regione di sinistra per eccellenza si è addormentata, facendo proprio il motto della Notte del suo Michelangelo: «Grato m'è il sonno e più l'esser di sasso / fino a che il danno e la vergogna dura». Chiunque voglia riprovare a declinare al futuro la politica italiana deve partire da questa domanda: come si risveglia la Toscana, Bella Addormentata della Sinistra?
«Al ballottaggio del 16 giugno la città lagunare rischia di passare alla destra. Occorre unire il meglio della società civile». Una lettura tra le tante che considerano far parte della "sinistra" anche i renziani doc.
Il manifesto, 3 giugno 2015
Eppure non ha funzionato. Fuori coalizione, l’acuirsi del profilo controriformista del governo Renzi (tra Jobs Act, Italicum e scuola), aprivano uno spazio largo d’iniziativa. Neanche questo, però, ha funzionato. Le percentuali della sinistra dentro e fuori la coalizione sono le minime da sempre. La grandissima parte dello spazio politico tra governo e opposizione è stata saturata da Zaia (e, dal lato della protesta, anche dal M5S, malgrado il suo risultato sia fra i peggiori d’Italia).
Chi ha convinto Zaia? Un Veneto scosso dalla crisi, che vede segnali di ripresa ma che teme siano illusori, angosciato da cassa integrazione, licenziamenti, fallimenti, mutui, tassi d’interesse, crediti usurai, mercato del lavoro spietato, concorrenza d’impresa feroce, infrastrutture caotiche, stravolgimento del quadro ambientale e sociale nella non gestita «metamorfosi» in atto (per citare il titolo di un utile e recente libro di Daniele Marini, edito da Marsilio). Ma anche stanco da una richiesta inevasa di autonomia, di federalismo, un’istanza qui potentemente presente e che la sinistra assume solo quando la Lega cresce ma che viene poi dimenticata non appena la Lega declina (com’era accaduto negli anni scorsi, prima del truce ma formidabile rilancio salviniano).
Tutto ciò, nel travaglio del melting pot ribollente che significa soprattutto ignavia e iniquità delle politiche sull’immigrazione, che aprono spazi alla predicazione xenofoba e agli imprenditori politici della paura, un tempo i Gentilini e i Bossi oggi i Bitonci e i Salvini.
Zaia è la figura sintesi. La sinistra non ha saputo proporre un’alternativa perché non ha fornito risposte originali e concrete ma, al più, nell’azione di governo a Roma e spesso localmente, suggestioni o rivisitazioni «moderate» delle stesse ricette leghiste e liberiste. Certo, poi ci vuole anche la faccia tosta di Zaia, l’abilità a dipingersi come estraneo non solo giudiziariamente ma anche politicamente alla corruzione che ha segnato l’amministrazione da lui guidata (o di cui era il vice, con Galan) di cui lo scandalo Mose è solo il più eclatante esempio, così da porsi come l’uomo giusto per governare anche un Veneto giunto, dopo scandali e crisi, al suo «anno zero» (per citare un altro fresco libro importante, di Renzo Mazzaro, edito da Laterza).
All’anno zero del Veneto, e all’ora x di Venezia, l’ora in cui, il prossimo 14 giugno, al ballottaggio, per la prima volta da vent’anni la città rischia di passare in mano alla destra peggiore, la sinistra si presenta inquieta, insicura e divisa.
Si è detto della Regione. Nel capoluogo, lo scandalo Mose, con l’arresto del sindaco, il commissariamento del Comune e l’esplodere della sua crisi finanziaria (anche per gli effetti perversi del patto di stabilità), ha disarticolato il modello politico e amministrativo sviluppatosi dagli anni Novanta e ha rimescolato le forze, con il prevalere, a sinistra (ma anche a destra), di formazioni civiche che riposizionano l’offerta elettorale in termini più aperti e trasversali, a volte personalistici.
Anche a Venezia la sinistra ha cercato strade diverse sia dentro una coalizione che la leadership di Casson rendeva più naturale sia all’esterno. In entrambi i casi si è raccolto poco. Le proposte sono sembrate più residuali che innovative. Il ballottaggio tra Casson e Brugnaro è anche segnato da questa debolezza della sinistra, oltre che dalle ambiguità e difficoltà del Pd, come in Regione.
Se la forza aperta di Casson, oltre che il suo profilo integerrimo, riusciranno a unire il meglio dell’esperienza di governo della città e le forze che si sono sempre opposte al sistema corrotto con i movimenti e i percorsi «civici» che puntano a una virtuosa innovazione politica e amministrativa (e a un’idea di città all’altezza di questo iniziale terzo millennio di Venezia), oltre ad assicurarsi la vittoria creeranno le condizioni per un nuovo spazio politico, in cui la stessa sinistra, in forme inedite, potrà ritrovarsi e riavere forza e respiro.
L’anno zero del Veneto e l’ora x di Venezia coincidono e s’intrecciano, infine, con il complesso, agitato momento politico nazionale, di esso risentono ma ad esso, dalla città e dai territori, possono cominciare a rispondere in modo originale.
Articoli di Norma Rangeri e Daniela Preziosi sulle elezioni di oggi: Un voto contro l'arroganza del Presidente chiacchierone.
Il manifesto, 31 maggio 2015
Dopo un anno di governo renziano, vengono messe alla prova le scelte istituzionali, le riforme del lavoro e della scuola, le battaglie interne al Pd. Per il segretario-presidente è il primo vero banco di prova per confermare la sua doppia leadership. Nel Paese e nel partito. Lui lo sa bene, anche se negli ultimi giorni ha giocato al ribasso, prima indicando come obiettivo la vittoria di sei regioni su sette, poi scendendo all’Italia-Germania 4 a 3, infine sminuendo il peso nazionale del voto amministrativo.
Per la destra la partita non è solo interna a Forza Italia (gli attacchi di Fitto a Berlusconi, la perdita di consenso, il crollo d’immagine segnano la caduta del vecchio impero di casa Arcore), ma soprattutto nello scontro che si delinea tra le diverse forze in campo, dove al momento prevale mediaticamente la violenza fascio-leghista di Salvini.
Accanto a questa tripla resa dei conti, gioca una partita a sé il Movimento 5 Stelle, che dopo i “felpati” passi indietro di Grillo sembra avviato su un percorso politico meno isolazionista, più orientato a cogliere le occasioni di confronto e di battaglia parlamentare con le altre opposizioni. Negli ultimi mesi hanno segnato dei punti a loro vantaggio con una presenza parlamentare anche propositiva, come è successo nella legge sugli eco-reati.
C’è una partita poi altrettanto importante che coinvolge le forze, i movimenti, le persone della sinistra che cercano di ricostruire un consenso, di alimentare la partecipazione nelle realtà locali anche confortati dai recenti risultati elettorali spagnoli. E in questa prospettiva si muove quella parte della minoranza del Pd che al momento cammina in ordine sparso. Tuttavia sia in Liguria (con Pastorino), che in Toscana (con Fattori), che nelle Marche e in Campania (con Mentrasti e Vozza), [sia nel Veneto, con Di Lucia Coletti- n.d.r.]che altrove con le liste della sinistra, c’è una occasione importante per lasciare il segno.
Oltre gli aspetti politici generali, è in primo piano la questione squisitamente amministrativa perché le regioni rappresentano il luogo più esposto al malgoverno e al malaffare. Non a caso ha assunto rilevanza, perfino eccessiva, la presentazione dei 16 candidati «impresentabili». Proprio nei territori si registra con forza il malcontento dei cittadini (come è accaduto in Emilia Romagna) che usano l’arma più dirompente per i partiti: astenersi dal voto. La forza delle democrazie si registra proprio su questo aspetto. Che Renzi snobba e non tiene in alcun conto. Ma qui si misura la protervia di chi ci governa e proprio per questo bisognerebbe andare a votare: per punire la sua arroganza.
Democrack. «Il voto non è un test su di me». Renzi se ne frega del silenzio elettorale e straparla da Trento. Dal voto dipende la stabilità dell'esecutivo e la deflagrazione del Pd. Lui si dichiara «ottimista». E invece teme di brutto Liguria e Campania. Il Pd colabrodo nei territori. E dopo il risultato scatterà la resa dei conti. Per il premier l’unico vero avversario è l’astensionismo
«Ottimista». Figurarsi se alla vigilia del voto con cui si gioca la dua duplice faccia di presidente del consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi si faccia sfuggire l’occasione di dichiararsi ottimista. In realtà i segnali che arrivano dalle regioni non sono smaglianti. L’aria è cambiata, dopo la prima fase della corsa elettorale. E c’è da capire l’effetto che farà nelle urne la guerra civile esplosa nel Pd con la pubblicazione della lista dei 16 «impresentabili» da parte della commissione antimafia. Fra loro lo stesso candidato presidente del Pd in Campania Enzo De Luca. Un assist insperato per i 5 stelle che, dopo aver accusato Rosy Bindi di fare accordi con la destra per proteggere il suo partito adesso le esprimono solidarietà. Ma è un abbraccio mortale, agli occhi dei renziani.
Così Renzi prova a ridimensionare la portata del voto e, dopo tanta baldanza, ora nega che sia un test su di lui: «Francamente no. Questa può essere stata una lettura che si è data sulle elezioni europee, lettura che anche in quel caso non condividevo. Ma le elezioni locali servono per le elezioni locali. Non c’è nessuna conseguenza». Ma è solo un tentativo di mettere le mani avanti. Il voto di oggi porta alle urne 23 milioni di italiani. Sarà un vero test sul governo nazionale, più credibile di molti sondaggi.
Per questo ieri ha fatto propaganda fino all’ultimo. Dal Festival dell’economia di Trento, dov’era ospite con il collega francese Manuel Valls, ha cercato di accodarsi agli eurocritici vincenti di Spagna e Polonia: «Il futuro dell’economia parlerà italiano e francese, ma non tedesco», ha assicurato, e via con la promessa di fare «casino» a Bruxelles, e «con una determinazione che non immaginate». E se «in Polonia hanno vinto i nazionalisti, in Spagna non è chiaro cosa potrà accadere, la Grecia sta nelle condizioni che sappiamo, il Regno Unito riflette sull’Europa», noi italiani dobbiamo stare sereni che in Italia si apre una stagione «fantastica». Segue propaganda su jobs act, tasse, presunti miglioramenti delle condizioni dei lavoratori.
Il presidente cerca di motivare i suoi elettori, e se ne infischia del silenzio elettorale. Anche perché l’astensionismo rischia di essere l’unico vero sfidante in campo. Quello che ottiene per ora è la furia degli avversari: il forzista Brunetta chiede alla procura di Trento di intervenire perché «la rottura del silenzio elettorale con manifestazioni dirette o indirette di propaganda è punito fino a un anno di carcere». Il deputato M5S Fraccaro annuncia un esposto. Da sinistra anche Civati e Fratoianni attaccano: «Prima di lui solo Berlusconi, alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, violò il silenzio. Ma almeno per un giorno può evitare di parlare?». È l’accusa di berlusconismo, forse anche un auspicio: perché quella volta il giorno dopo Berlusconi perse.
Un'analisi dalla Catalogna. «Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali».
Comune.info, 28 maggio 2015.
Podemos non ha vinto le elezioni in Spagna, come hanno detto molti, ma ha mostrato prima di tutto l’emersione di realtà territoriali che tentano di riappropriarsi di spazi decisionali. Nato un anno fa come una macchina mediatico-elettorale gigantesca con una struttura di partito tradizionale, Podemos soltanto dopo ha cominciato a cercare il superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali. Ci riuscirà? Saprà gestire il potere per disperderlo in basso? I movimenti sapranno tutelare la loro autonomia e creatività? Di certo in Spagna è in corso un terremoto politico non solo elettorale, cominciato da alcuni anni. Ha ragione Caterina Amicucci, che scrive per noi di Comune da Siviglia, “vale la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà”
SIVIGLIA – La stampa italiana ha proclamato in maniera unanime ed errata la vittoria di Podemos alle elezioni amministrative spagnole. Basta dare uno sguardo ai dati elettorali per capire che la notizia è semplificata al punto da essere falsa. Il Partito Popolare pur avendo perso due milioni e mezzo di voti si conferma il partito più votato, seguito a brevissima distanza dal partito socialista. Podemos si attesta, salvo poche eccezioni, come terzo o quarto partito a seconda delle regioni e delle città.
Lo stesso Pablo Iglesias ha commentato domenica a urne chiuse che “la dissoluzione dei partiti tradizionali e la fine del bipartitismo si sta dimostrando un processo più lento di quello che speravamo”.
Potrebbe sembrare una cattiva notizia, ma con uno sguardo più attento si scopre che il terremoto e il segnale politico che arrivano dalle urne di Barcellona e Madrid sono molto più profondi e dirompenti di quello che sembrano. Per capirne un pò di più è necessario ripercorrere il frenetico anno appena trascorso, che inizia quando Podemos irrompe sulla scena raccogliendo l’otto per cento delle preferenze alle elezioni europee del maggio 2014. Da quel momento il gruppo di professori dell’Università Complutense di Madrid guidato da Pablo Iglesias, scatena una macchina mediatico-elettorale gigantesca per prepararsi all’election year.Obiettivo dichiarato: l’assalto al potere alle elezioni politiche dell’autunno 2015.
In pochi mesi i sondaggi posizionano Podemos come primo partito nelle intenzioni voto, nonostante ancora formalmente neanche esista, non abbia un programma nè un meccanismo chiaro di partecipazione e articolazione territoriale. Podemos celebra il suo primo congresso a novembre del 2014, optando per una struttura di partito tradizionale da un punto di vista di leadership e di partecipazione interna. Nella stessa occasione decide anche di non presentarsi con la sigla Podemos alle elezioni municipali, per diverse ragioni tattiche fra le quali evitare di dare un’indicazione a livello nazionale sulle iniziative Ganemos. E qui, occorre fare un passo indietro.
Poco prima del successo elettorale di Podemos, a Barcellona si forma l’iniziativa Guanyem Barcelona (ganemos in castigliano), una lista cittadina per concorrere alle elezioni municipali. La figura di Ada Colau è determinante a creare una coalizione ampia, sostenuta soprattutto dalla società civile e a far sfumare l’identità dei singoli partiti (Izquierda Unida, Equo, Podemos) dentro un progetto assimilabile a un fronte popolare. La sua potenza sta nel radicamento territoriale e nella penetrazione sociale dei movimenti che sono emersi con il 15M, primo fra tutti quello di cui Ada Colau è stata portavoce per diversi anni, la Plataforma de los afectados por hipoteca (Pah) – ovvero le vittime della bolla immobiliare e del sistema bancario spagnolo – che è riuscita nel blocco di centinaia di sfratti e la rinegoziazione di moltissimi mutui. Ma anche le diverse “maree”, ovvero i movimenti contro la privatizzazione e i tagli ai servizi pubblici dalla sanitá allascuola.
Sulla spinta di Barcellona, l’iniziativa Ganemos ha cercato di propagarsi a livello nazionale con alterna fortuna a seconda del contesto politico locale. In Andalusiaper esempio la presenza di Izquierda Unida, che ha appoggiato per anni il feudo clientelare del partito socialista, ha pregiudicato il tentativo unitario in molte cittá. Fa eccezione solo Malaga dove La Casa Invisibile, un importante luogo di riflessione sul tema dei beni comuni, ha favorito un processo di convergenza piu`ampio.
A Madrid il percorso è stato più lungo e complicato, ma comunque è approdato alla sigla comune di Ahora Madrid, progetto sostenuto da cinque liste, tra cui ovviamente Podemos e Madrid in Movimiento che ha ottenuto l’appoggio di numerose realtà associative e di base fra le quali per esempio Ecologistas en acciòn, la più grande rete nazionale di associazioni ambientaliste spagnole. Le elezioni primarie hanno indicato Manuela Carmena come candidata a sindaco, una ex giudice di settantuno anni fondatrice di Jueces por la Democracia (giudici per la democrazia) e da sempre impegnata nella difesa dei diritti umani.
Ed ora che succede?
Da domenica c’è grande cautela perché la situazione consegnata dalle urne è nuova e complicata, rompe le maggioranze assolute e costringe la politica a tornare alle alleanze e le geometrie variabili. Il Partito Popolare vincitore per pochi voti quasi ovunque non può governare solo e nella maggior parte dei casi neanche con l’eventuale appoggio di Ciudadanos. Nell’altro metà del campo le alleanze potrebbero essere difficili anche se a Madrid ormai l’accordo con i socialisti è quasi concluso e potrebbe dettare la línea a livello nazionale.
Sempre che, il fantasma della grande coalizione che si aggira per l’Europa, non irrompa anche in Spagna. Magari non subito ma a seguito di un periodo di incentivata instabilità.
Speculazioni a parte, a Barcellona e Madrid (e non solo) ciò che esce vittorioso dalle urne è una nuova forma di coalizione di soggetti fortemente radicati nella società, con forme organizzative e strutture diversificate, che pretende di riappropriarsi di spazi decisionali e quote di potere sfidando le oligarchie politico-economiche. Non è un caso che e nelle due cittá sia aumentata la partcipazione al voto nei quartieri più popolari.
Non si tratta dunque della fine del bipartitismo tanto auspicata da Pablo Iglesias, bensì del superamento della forma partito novecentesca a favore di reti orizzontali, meno gerarchiche e maggiormente inclusive.Varrà la pena di osservare molto da vicino se il progetto sarà all’altezza della sfida e soprattutto vedere cosa accadrà.
Anche
il manifesto (30 maggio 2015) vede a Venezia solo Felice Casson e le destre. Ignora la sinistra e non si accorge che dietro il bravo magistrato c'è Matteo Renzi, più che un'ombra. Nonchè l'establishment che ha «letteralmente massacrata negli ultimi vent’anni» la città. In calce un riferimento utile a chi vuol comprendere meglio
Lo spettro dello scandalo Mose incombe sempre su Ca’ Farsetti. Cannibali del patrimonio, lobby degli appalti e squali della sussidiarietà non hanno mai mollato la presa su Venezia che considerano cosa loro. Il padiglione Acquae a Marghera, desolatamente deserto dopo l’inaugurazione di Renzi, sintetizza il flop dell’«economia mista» in laguna: perfino la vetrina collegata a Expo Milano non ripaga gli investimenti. Ma è già pronto il progetto di scavo del rio Contorta a beneficio delle Grandi Navi, con l’inossidabile Paolo Costa (ex rettore, ex sindaco, ex europarlamentare Pd) che resta fedele agli interessi degli “imprenditori” in concessione unica grazie al Consorzio Venezia Nuova. E a Tessera si rigioca la partita del business nel quadrante dell’aeroporto Marco Polo: Enrico Marchi, presidente di Save, caldeggia il masterplan che fino al 2021 farebbe decollare anche l’urbanistica a senso unico.
Il nuovo sindaco avrà già l’agenda infarcita per l’intera estate, tanto più che l’eredità del commissario Vittorio Zappalorto è davvero un incubo: conti in rosso per 56 milioni nella spesa corrente 2015, scure ad alzo zero sui servizi sociali e trasferimenti dello Stato a rischio “stabilità”. Domenica nei 256 seggi fra laguna, isole e terraferma i 211.132 elettori della città metropolitana sono chiamati a scegliere fra nove candidati sostenuti da 24 liste. È il giorno della verità per Felice Casson, 61 anni, ex pm e senatore “dissidente”: ha trionfato alle primarie, aggregato il “centrosinistra classico” e perso tre chili nella maratona della campagna elettorale di prossimità. Può vincere, forse, già al primo turno e cancellare il ricordo della sconfitta nel ballottaggio 2005 con Massimo Cacciari. Sarebbe un segnale inequivocabile per la “vecchia ditta” della Quercia veneziana, ma ancor di più per Renzi che avrebbe preferito un candidato più allineato.
Casson sulla scheda occupa la posizione centrale con i simboli della lista civica (con Nicola Pellicani in cima), Pd, Venezia 2020, Venezia bene comune, Socialisti e Venezia popolare. Il centrodestra si è spaccato in tre, perché alla fine Luigi Brugnaro (paròn di Umana e della Reyer Basket, ma anche sussidiario non solo a Confindustria) ha deciso di scendere in campo con la benedizione del ministro Alfano. Dovrà vedersela con Francesca Zaccariotto, ex presidente della provincia ed ex leghista, che sventola la bandiera di “Venezia Domani” insieme al tricolore di FdI. E con Gian Angelo Bellati, candidato della Lega che rispolvera il separatismo di Mestre da Venezia.
Il M5S si affida a Davide Scano, avvocato 39enne, sposato con due figli, che è già stato consigliere dei Verdi nella municipalità di Mestre. Completano il quadro dei candidati sindaco Francesco Mario d’Elia del Movimento autonomia Venezia, Camilla Seibezzi di “Noi la città”, Giampietro Pizzo di “Venezia cambia 2015” e Alessandro Busetto del Partito comunista dei lavoratori.
La vigilia del voto si consuma nel tradizionale porta a porta della coalizione di Casson, mentre sull’altro fronte si urla al massimo nel megafono della “sicurezza”. Domenica scorsa gli attivisti dei centri sociali Morion e Rivolta hanno contestato il comizio di Matteo Salvini con i gommoni a simboleggiare i diritti dei migranti e con un paio di cariche delle forze dell’ordine, che ora annunciano una raffica di denunce dopo le identificazioni della Digos. In attesa del verdetto delle urne, Filiberto Zovico (editore del quotidiano on line Venezie Post e promotore dei festival tematici) non nasconde lo scetticismo serpeggiante: «Già il recente voto in Trentino è stato un segnale esplicito del malessere sistemico a Nord Est. Venezia rischia di certificarne la paralisi, perché la città è stata letteralmente massacrata negli ultimi vent’anni. Il centrosinistra, al di là dei proclami, non ha mai saputo costruire un vero progetto per la capitale del Veneto.
La Repubblica, 30 maggio 2015
DOPO la Presentazione in Francia Di Una legge Che Prevede il reato di Spreco e multe per i Grandi Magazzini Che Non Donano Gli Avanzi, si muove l'Italia. Se in rete su change.org in 30mila Hanno Firmato la richiesta Di Una Normativa similitudine, l'onda lunga di Parigi arriva a Roma. E il ministro all'Ambiente Gian Luca Galletti ha le idee Chiare.
«E INDISPENSABILE Una legge Contro lo Spreco Alimentare. Voglio presentarla Entro fine anno. Una legge Diversa da Quella francese Perché Sono convinto Che E meglio Risolvere senza sanzioni ma con educazione e Incentivi ». Il ministro Vuole un Provvedimento Che Non punisca MA insegni a sprecare e Soprattutto dia Strumenti alle Aziende Che non Spesso ora Non Posso regalare prodotti in Scadenza senza perderci per Problemi Fiscali, di magazzino. «In Italia esiste ha Una grande e piccola Distribuzione sensibile, C'è la cultura, C'è ATTENZIONE, bisogna assolo osa Gli strumenti Fiscali e Soprattutto Insegnare alle Famiglie, venire Previsto dal piano nazionale con lezioni in classe sin da piccoli, Perché lo Spreco domestico E Ancora alto also se in Diminuzione: Dai 10 miliardi nel 2013 Si e Passati Agli 8 odierni ».
In Italia, la voragine del cibo gettato E grande Nelle Nostre caso, il 25%, Più che Nella Grande Distribuzione Che Tra l'altro dona al Banco Alimentare o Agli Oltre 50 progetti Last Minute Market e alle mille piccole Realtà locali, MENTRE a decine di città il cibo avanzato Dalle mense Pubbliche comunali va Direttamente annuncio Enti Benefici.
A fotografare l'Italia dello sperpero casalingo, Sono da anni le Inchieste di Last minute market, spin off dell'Università di Bologna ideato da Andrea Segré, il professore di agronomia ora presidente del Comitato Tecnico scientifico per il grande piano nazionale Contro lo Spreco voluto dal Ministero dell'Ambiente. Gli italiani, Dicono le Ricerche dell'Osservatorio Rifiuti osservatori buttano via 49 chili di cibo commestibile OGNI anno, con decisa costanza. Il 55 per cento getta avanzi giorno quasi OGNI, il 30 per cento tre volte a settimana, il 10 per cento a 1,2 Volte e solista l'1 per cento quasi mai.
Perché gettiamo via Gli Alimenti? In linea di Massima, raccontano le Indagini, Perché Compriamo troppo, senza Programmazione e Così Frutta e verdura Vanno un maschio prima di finire in pentola oppure cuciniamo troppo.
«Per Questo e Importanti L'educazione dall'asilo all'università, non le multe alla francese, demagogiche, Così solista si Cambiano veramente i comportamenti e si evitano sprechi. I corsi have been annunciati da un anno ma Ancora non si vedono e invece Sono necessari. Con urgenza. Bisogna Imparare Il Valore del cibo, venire non perdere Una Risorsa. E non DEVE diventare Una giustificazione il Sapere Che ci Sono Organizzazioni venire la nostra o il Banco Alimentare Che in maniera Diversa indirizzano le eccedenze a chi ha bisogno ». Andre Segré da anni Lavora in Prima Linea all'insegna del "nessuno spreco", puntando a diventare di gran lunga sprechi Risorse, concretamente, mettendo in contatto chat con i "Mercati dell'ultimo minuto" chi ha eccedenze e chi ha bisogno. E dal punto di vista della Programmazione, dell'ideazione, un Lavora Proposte e progetti Che, tramezzi per un Livello locale, sottoscritti da centinaia di comuni italiani, Hanno influenzato la risoluzione Europea sullo Spreco nel 2012 Che ragionava Sulle strategie per EVITARE Tonnellate di cibo buttato .
Cultura, Informazione per non distruggere il pianeta, colomba OGNI anno si gettano via mille miliardi di cibo. Perché PRODURRE tutto Quello buttiamo costa, Stati Uniti d'America, Consuma la terra, Cambiamenti Climatici provocazione. Lo Spreco Alimentare, se Fosse un paese, sarebbe infatti il terzo inquinatore DOPO Cina e Usa. Perché la quantita di anidride carbonica Necessaria una Portare il cibo sui nostri piatti E pari a 3,3 miliardi di Tonnellate e per produrlo si usa il 30 per cento del terreno coltivabile del mondo e Una quantita di acqua OGNI anno che basterebbe alle esigenze di Tutti i Cittadini di New York per Piu di un Secolo. Senza Contare Che il Costo calcolato del cibo sprecato E pari a 750 miliardi di Dollari, il prodotto interno Praticamente lordo della Svizzera.
E a furia di campagne, Qualcosa però si muove also Nelle Nostre caso. E L'Ultima ricerca osservatori Rifiuti - Swg, che verrà Presentata Nei Prossimi giorni all'Expo, racconta il Che sempre Più Spesso i genitori italiani insegnano Ai figli un non sprecare il cibo (77%) e bis SCEGLIERE solista prodotti di stagione (56%) . Sempre più consci dei propri Limiti, che sì acquista troppo (49%) e si cucina in eccesso. Un primo passo verso il "senza sprechi".
«A Bindi non si perdona la grave colpa di non essersi allineata al nuovo gruppo dirigente. Ma è innanzitutto con se stessi e specialmente con Renzi che dovrebbero prendersela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha candidato».
Il manifesto, 30 maggio 2015
Anche se particolarmente volgare e arrogante, l’assalto a Rosy Bindi mette in evidenza l’impasto di questo nuovo partito renziano, capace di tenere insieme le peggiori abitudini del vecchio (la doppia morale) mescolate con i pessimi vizietti del nuovo (la perdita di memoria e di identità). Un partito che pensa, tratta e pratica la politica come strumento di un potere senza mediazioni né contrappesi. Prima il vecchio gruppo dirigente, poi i sindacati, i costituzionalisti, gli insegnanti… .
Trattare Bindi quasi fosse una grillina d’assalto, oltre che il migliore spot alla campagna elettorale dei 5Stelle, è nello stesso tempo indice di arroganza e sintomo di grande debolezza. Per aver ottemperato ai suoi obblighi istituzionali (esaminare le liste elettorali rispetto ai profili giudiziari relativi al rapporto tra mafia e politica, secondo un codice di autoregolamentazione sottoscritto da tutti i partiti), e per averlo fatto anche con celerità (dall’inizio della presentazione delle liste, un mese fa, come da regolamento), Bindi viene additata dal presidente del partito, Orfini, come il nemico da distruggere («siamo tornati indietro di secoli quando i processi si facevano in piazza aizzando le folle»).
Come se fosse della presidente della Commissione la responsabilità di aver messo in lista persone che hanno problemi con il casellario giudiziario. Qui il garantismo non c’entra, la Commissione antimafia a 48 ore dal voto (dunque quando la campagna è pressoché conclusa, quando i cittadini hanno visto all’opera i candidati) trasmette al cittadino informazioni pubbliche ma conosciute solo da una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Tra l’altro si tratta di diciassette nomi su quattromila candidature esaminate. Ma il tappo è saltato per la presenza dell’asso pigliatutto della Campania, De Luca, e per i timori di qualche brutta sorpresa nell’urna. Solo Bersani e Fassina hanno solidarizzato con Bindi rimettendo al centro la questione politica.
Sarebbe da rivedere cosa scrivevano questi patetici personaggi quando Berlusconi strillava sulla «persecuzione», sulla «giustizia a orologeria». Ora sostengono le stesse cose che diceva la destra quando la magistratura faceva il proprio lavoro. Tra l’altro invocare la legge per legittimare alcune discutibili candidature è una pezza peggiore del buco perché dice di una politica che se fosse sicura e fiera delle liste le rivendicherebbe, allontanando la sgradevole sensazione di raccattare da ogni sponda e clientela.
Tanta virulenza in realtà scopre la lunga coda di paglia di chi mal sopporta che le istituzioni facciano il loro lavoro anche contro il potente di turno. A Bindi non si perdona la grave colpa di non essersi allineata al nuovo gruppo dirigente. Ma è innanzitutto con se stessi e specialmente con Renzi che dovrebbero prendersela. Il caso De Luca lo ha creato chi lo ha candidato. È stato proprio il presidente-segretario, che ora accusa Bindi di usare l’Antimafia per fini di battaglia interna, a sbilanciarsi fino a «scommettere che nessuno degli impresentabili sarà eletto, perché sono tutti espressione di piccole liste civiche». Quando si dice che il diavolo fa le pentole ma a volte dimentica i coperchi.
Nobiltà dell'ispirazione e dell'avvio, miseria della conclusione temuta: se la ragione non vince contro la finanza.
Alternative per il Socialismo n. 36
Nella prima decade di maggio, il nostro vecchio continente ha celebrato la vittoria contro il nazismo e i 65 anni della dichiarazione di Robert Schumann che pose la prima pietra per la costruzione della unità europea, pur nella forma squisitamente economica della Comunità del carbone e dell’acciaio, la Ceca. Ma non si può dire che siano stati anniversari lieti per l’Europa. La crisi economica e soprattutto le politiche dei suoi gruppi dirigenti la schiacciano e i rischi di implosione si moltiplicano.
Naturalmente non manca chi cerca di fare almeno un po’ di training autogeno, non fosse altro che per sollevare il morale. The European Economic Forecast, le previsioni economiche di primavera 2015, rese note dalla Commissione europea agli inizi di maggio, sembrano appartenere a questo tipo di pratiche e infatti recano un incipit davvero ottimistico, che in inglese suona ancora più enfatico: “The outlook for economic growth in the EU has brightened”. Ma davvero le prospettive economiche nel nostro continente sono diventate addirittura luminose? Scorrendo il resto del rapporto, e in particolare la prima tabella, si ha ragione di dubitarne. La crescita del Pil nell’Eurozona è stimata per il 2015 fino all’1,5%, per il 2016 all’1,9%. Tra i fanalini di coda troviamo l’Italia con un +0,6% nel 2015 e un +1,4% per l’anno successivo. Alla pari con Cipro e migliore solo rispetto alla Finlandia. Se ci si allarga all’area di tutta la Ue la crescita nel 2015 è prevista in un +1,8% nel 2015 e in un 2,1% nel 2016. Cifre lontane dal 3% degli Usa e ovviamente dal 6,8% della Cina, nel 2016, quest’ultima in rallentamento rispetto agli anni precedenti. Poco consolante il dato della disoccupazione che si prevede a fine 2015 posizionarsi sull’11% nell’eurozona e sul 9,6% nell’intera EU, con previsioni di diminuzione di solo qualche decimale nel 2016.
Se l’economia reale resta al palo o retrocede, la finanza ha ripreso, superati i primi terribili shock dell’inizio della crisi, a filare a gonfie vele. Nello scorso decennio le attività finanziarie europee – secondo il Banking Structures Report della Bce – si sono quasi raddoppiate, giungendo al livello, nel 2013, di quasi sei volte il Pil dell’intera Eurozona. La bolla finanziaria continua imperterrita a gonfiarsi lasciando il mondo intero con il fiato sospeso di fronte ad una sua possibile e improvvisa esplosione, dal momento che le misure cautelative nel frattempo adottate sono del tutto insufficienti.
La contingenza favorevole non scuote l’economia europea
D’accordo, i dati economici complessivi del 2014 e soprattutto del 2013 erano ancora peggiori e recavano un segno negativo per la crescita nell’Eurozona. Ma da allora ad oggi sono intervenuti fatti rilevanti nell’economia europea e soprattutto extraeuropea, dai quali in molti si attendevano di più. Quali il crollo del prezzo del greggio, la svalutazione dell’euro nei confronti del dollaro, i tassi di interessi bassissimi in Europa, i concreti segnali di ripresa dell’economia americana, ma soprattutto la pioggia di denaro elargita alle banche europee con il famoso Quantitative Easing voluto fortemente da Mario Draghi. A questi elementi straordinariamente positivi in sé – anche se non privi di effetti collaterali negativi in termini di incremento delle diseguaglianze sociali, come vedremo poi – hanno fatto da contraltare altri negativi, come le tensioni geopolitiche con la Russia. Ma nel complesso questi ultimi non spiegano interamente il “nervosismo” dei mercati finanziari – come si suole dire con un linguaggio ormai stereotipato – né l’apparire di nuove nubi dietro quell’orizzonte luminoso, come lo stesso rapporto della Commissione europea riconosce poche righe dopo quell’incipit così trionfale.
Né è sufficiente affermare, pur restando nel giusto, quanto più volte abbiamo scritto in questa rivista: che l’Unione europea più che vittima della crisi lo è delle proprie sciagurate politiche di austerità. Questo non solo è vero, ma più si vede la differenza dell’andamento economico europeo con quello di altre zone a capitalismo sviluppato, più diventa evidente. Al punto che anche nel pensiero mainstream e persino nei documenti ufficiali del Fondo Monetario Internazionale la critica al rigore all’europea non viene certo sottaciuta.
Il guaio è che quelle politiche e l’andamento geopolitico ed economico mondiale hanno creato nel nostro continente guasti profondissimi, che non possono essere rimossi da un semplice mutamento, anche se molto favorevole, della congiuntura economica. Se anche supponessimo che le elite europee si convincessero come d’incanto che l’assoluta prevalenza della finanza sull’economia reale costituisce un errore strategico e decidessero di ridare slancio alla produzione, questa non potrebbe avvenire negli stessi modi, secondo gli stessi schemi e con gli stessi obiettivi produttivi del periodo anticrisi, anche perché molte di quelle forme e strutture produttive sono andate perdute, o completamente trasformate nelle loro finalità o de localizzate durante questi anni di stagnazione e di recessione. L’Italia, che ha perduto il 25% del proprio potenziale produttivo lungo questo periodo, è un caso di scuola in negativo.
Si aggrovigliano quindi nodi complessi di breve e lungo periodo, che riguardano gli aspetti più contingenti come quelli di più lunga durata. Difficilmente, anche se fosse animata dalla migliore classe dirigente – il che non è – l’Unione europea potrebbe scioglierli tutti contemporaneamente. Ma potrebbe, questo sì, cominciare ad aggredirne qualcuno in modo positivo. Il più urgente dei quali, senza la cui soluzione la Ue è destinata a implodere, è la questione del debito greco.
Purtroppo sta avvenendo il contrario. Come non è difficile prevedere, anche l’appuntamento dell’Eurogruppo dell’11 maggio non è stato risolutivo. Anzi, ogni volta che ci si avvicina a queste riunioni, le distanze sembrano aumentare e le polemiche farsi sempre più aspre. Contemporaneamente cresce anche la consapevolezza in ambienti mainstream di andare a sbattere senza alcuna ragione contro il muro di una stupida rigidità. Qualche settimana fa una editorialista del Sole24Ore, Adriana Cerretelli, scriveva parole pesanti e inequivocabili sull’argomento: ““La Grecia, 2% del Pil dell’Eurozona e 3% del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si sa da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino affonderà dunque nel marasma più nero. Ma … quell’atto di incoscienza collettiva ricadrà su euro e Europa. Non sarebbe meglio una sana Realpolitik. Meno costosa per tutti?”
Erano i giorni immediatamente antecedenti al vertice di Riga del 24 Aprile. Un vertice rivelatosi non solo infruttuoso – come era largamente prevedibile e previsto – ma addirittura negativo, perché in quell’occasione è partito un violento tentativo di delegittimazione di Yanis Varoufakis come capo della delegazione greca trattante. Un tentativo abilmente aggirato da Alexis Tsipras con un allargamento della delegazione e una fluidificazione di ruoli che non ha affatto tolto la fiducia al suo Ministro delle Finanze.
Le richieste della Grecia restano contenute. In sostanza puntano a guadagnare tempo per potere innescare un processo alternativo di crescita sociale ed economica. Nello stesso tempo i greci non sono mai venuti meno nel rispettare le loro scadenze con i debitori, anche a costo di promulgare decreti sul concentramento dei fondi degli enti pubblici presso la cassa centrale dello Stato. Il principio rimane quello detto da Varoufakis: “arrivare a compromessi senza essere compromessi”. Il che comporta che si può discutere anche di privatizzazioni, entro una certa misura, ma non si può retrocedere sui temi del lavoro e delle pensioni, che costituiscono il cuore sociale del programma su cui Syriza ha vinto le elezioni.
A fronte di questo i greci chiedono ciò che sarebbe loro, come quel 1,9 mld di euro che rappresentano i guadagni della Bce sui titoli greci; un’anticipazione sui 7,2 mld di euro che costituiscono l’ultima tranche del famoso programma di aiuti e l’innalzamento a 15 mld della possibilità di emettere titoli di stato a tre mesi, che potrebbero fornire un poco di fiato finanziario allo stato e al sistema economico ellenico. Su questo ultimo punto si è particolarmente irrigidito Mario Draghi, cosa apparentemente paradossale rispetto alla disponibilità di mettere sul piatto qualcosa come 1140 mld di euro fino al settembre del 2016 – con la possibilità di continuare ancora, se non basterà – per le banche europee, escluse quelle greche e cipriote (il quantitative easing appunto).
Ma come è noto attorno alla vicenda greca si gioca essenzialmente una partita politica più che economica. Se la Grecia se la cava è dimostrato in modo evidente che la strada alternativa alla austerità esiste ed è praticabile. Il che genera, per quei paesi che l’hanno praticata con fervore, evidenti problemi di credibilità verso i loro popoli. Per questo la Grecia nella trattativa in corso è sola contro gli altri 18 paesi, e quelli più scatenati sono quelli iberici che temono una vittoria delle sinistre nei loro paesi e quelli dell’est, come si conviene a dei veri e propri parvenu.
Il pericolo di un contagio economico-finanziario in caso di Grexit
Questa partita tutta politica, guidata con sapienza tattica, ma insipienza strategica da Angela Merkel, non esclude di correre rischi che potrebbero rivelarsi fatali. Non c’è solo il pericolo di un contagio politico derivante da una soluzione che veda la Grecia non sconfitta nel confronto, vi è anche quello di un contagio economico-finanziario in caso di una Grexit, cioè di un’uscita della Grecia dall’Euro e quindi dalla Ue. Per questo si affaccia una nuova tattica, in cui si alternano scientemente docce calde e docce gelate, per la quale è già nato un nuovo neologismo: “Grimbo”, ovvero tenere la Grecia in una sorta di limbo, nel quale la corda attorno al collo non viene mai mollata né stretta fino in fondo, in attesa che il governo di Tsipras sia costretto a cedere e conseguentemente a perdere il grande consenso di cui gode, magari con la prospettiva finale di un rovesciamento politico etero diretto, di un colpo di stato bianco per dirlo in termini più esatti.
Anche alla prima donna d’Europa converrebbe guardare bene le previsioni che gli analisti economici fanno in caso di una possibile Grexit. E’ vero che il sistema bancario europeo è molto meno esposto nei confronti del paese ellenico di qualche anno fa, ma lo sono gli Stati, sia in modo diretto, sia attraverso il Fondo salva stati. A loro non conviene un fallimento della Grecia e una Grexit, perché diventerebbe del tutto improbabile il recupero dei loro crediti. Vale il detto popolare: se hai un debito di mille euro con la tua banca il problema è tuo, se il debito è di milione il problema è della banca.
Tanto è vero che nei giorni immediatamente precedenti alla riunione dell’Eurogruppo dell’11 maggio, che sono gli stessi nei quali la Commissione europea ha reso noto il suo ottimistico rapporto con cui abbiamo aperto questo articolo, i mercati finanziari hanno ripreso a ballare. Le Borse tendono al ribasso, gli spread salgono. I rendimenti dei Btp e dei Bonos spagnoli puntano nuovamente verso l’alto come non accadeva dal gennaio scorso. Ma la novità più rilevante è che qualche sofferenza la evidenziano persino i potentissimi Bund tedeschi, che erano scesi a rendimenti negativi. Ora hanno cominciato a risalire. Quindi nemmeno la Germania è più vista come un porto assolutamente sicuro, dove posteggiare i capitali anche perdendoci un poco.
In sostanza l’economia finanziaria non crede alle parole della politica che ha cercato in una certa fase di sostenere la tesi della irrilevanza di un’uscita della Grecia dalla Ue e dall’Euro, come se il fatale default greco potesse essere derubricato a semplice tragedia nazionale e non coinvolgesse la credibilità dello stesso progetto di unità europea oltre al suo stato di salute economico-finanziario.
D’altro canto se si allenta anche solo per un attimo la tensione sul fronte greco, si accende subito un focolaio di un possibile grande incendio da un’altra parte. E’ quanto sta accadendo dopo la netta vittoria elettorale dei conservatori inglesi. Nessuno dimentica, soprattutto coloro che lo hanno eletto, che David Cameron aveva promesso urbi et orbi in campagna elettorale un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nella Ue da tenersi entro il 2017. Quindi vi è anche una possibile Brexit alle porte. I neologismi non mancano
Il termine quanto mai usato di “apprendista stregone” si spreca sui giornali di tutta Europa e viene riferito naturalmente ad Alexis Tsipras, il quale avrebbe irresponsabilmente suscitato speranze e bisogni che ora non riuscirebbe né a soddisfare né a dominare. D’altro canto le cancellerie di tutt’Europa vorrebbero decidere loro la politica economica interna della Grecia indipendentemente dall’esito elettorale. Invece la vera domanda che dovrebbero cominciare seriamente a porsi è se l’apprendista stregone non è invece quella politica di rigore che sta facendo implodere l’Europa dal punto di vista economico e che dal punto di vista politico sta dando la stura a populismi di ogni tipo, dall’alto e dal basso, che operano in senso apertamente disgregatore rispetto all’unità europea.
Gli sgradevoli effetti collaterali del Quantitative Easing
Il Quantitative Easing è stato certamente un intervento invocato e necessario, almeno per mettere una toppa ad una situazione che diveniva ogni giorno più drammatica. Ha rappresentato la continuazione logica e naturale di quel famoso “Whatever it takes” già pronunciato da Draghi tre anni orsono, nel momento di maggiore panico per la gravità della crisi. Una pioggia di miliardi sta inondando il sistema bancario europeo. Ma a parte il fatto che questo di per sé non garantisce che quella liquidità si trasformi in investimenti dell’economia reale, vi sono altri aspetti collaterali della iniziativa della Bce che andrebbero presi in considerazione.
Come per ogni cosa, cominciare è più facile che smettere. Il pompaggio di liquidità è previsto fino all’autunno del 2016, ma potrebbe continuare se l’inflazione non raggiungesse il 2%. Che è il target della Bce. Ma questo potrebbe creare, come già si vede, nuove bolle speculative, che andrebbero trattate con cura, per evitare che scoppino nelle mani di chi le ha create e per di più all’improvviso. Ci vorrebbe una strategia di sgonfiamento graduale. Ma se l’inflazione ripartisse e l’economia reale no, per quei motivi di fondo e strutturali cui si è fatto prima cenno, cosa potrebbe succedere? In base al suo mandato vincolato solo al tasso di inflazione la Bce dovrebbe bruscamente arrestare il proprio intervento, provocando in questo caso un shock negativo sui mercati. A differenza della Fed, che infatti ha iniziato il tapering, ovvero una graduale riduzione del pompaggio di liquidità prima ancora del probabile innalzamento dei tassi, la Bce non ha nella sua mission l’elasticità e cassetta degli attrezzi necessari per farlo. La possibilità che il celebrato QE si tramuti poi in una bolla incontrollabile è un effetto collaterale indesiderato ma tutt’altro che improbabile.
Ma vi è un altro effetto da tenere ancora di più in considerazione. L’abbassamento dei tassi di interesse trascina con sé la rivalutazione delle obbligazioni a lungo termine, delle azioni e del valore degli immobili. Soprattutto in assenza di una tassazione patrimoniale onnicomprensiva, come nel caso italiano. Il che incrementerebbe la ricchezza di quella piccola percentuale di popolazione (l’un per cento direbbero quelli di blockupy) con l’esito di una ulteriore divaricazione della forbice delle diseguaglianze reddituali e sociali.
Gli effetti si vedono già, come notano gli analisti economici, sia nel contesto generale europeo che nel caso italiano. La massa di liquidità rovesciata sul mercato induce gli operatori a liberarsi dei titoli in loro possesso fino a quel momento e a utilizzare il nuovo denaro per altri acquisti finanziari, piuttosto che prendere la strada degli investimenti nell’economia produttiva. Così l’azione della Bce gonfia il valore, come abbiamo visto, del mercato finanziario allontanandolo sempre più da quello dell’economia reale sottostante che conosce , se lo conosce, un progresso molto più lento.
Nel caso italiano questo è cominciato ad accadere ancora prima che il QE entrasse in azione: è bastato l’effetto annuncio. Il mercato azionario si è subito vivacizzato. A fine febbraio il principale indice milanese era salito del 20% dall’inizio dell’anno. L’indice Ftse-Mib aveva una valutazione assai elevata rispetto al rapporto fra i prezzi delle azioni e gli utili delle imprese. La Borsa di Milano ha battuto in questa direzione quella di Francoforte, di Parigi, di Londra e di Wall Street. In sostanza i prezzi degli attivi finanziari aumentano la loro distanza dalla realtà. Se l’economia reale sottostante non riparte, un nuovo tonfo verso il basso della crisi sarà inevitabile e di proporzioni ancora più terribili.
Le polemiche sull’incremento delle diseguaglianze
Quasi a esorcizzare questo pericolo e a contenere il successo e l’impatto sull’immaginario collettivo del famoso libro di Thomas Piketty, che più che una analisi del capitalismo del XXI secolo, è un’ottima fotografia della dilatazione delle diseguaglianze nel mondo contemporaneo, alcuni giornali economici, fra cui il Sole24Ore si sono gettati su un Dossier curato dalla Fondazione Hume, che vorrebbe dimostrare il carattere puramente immaginario, “leggendario” dice addirittura il curatore dell’articolo Luca Ricolfi, dell’aumento delle diseguaglianze su scala globale. Non siamo tornati evidentemente alla vecchia teoria dell’inizio della globalizzazione, secondo cui l’alta marea avrebbe alzato tutte le barche, ma non ne siamo molto distanti.
Ovviamente va riconosciuto che anche l’aumento delle diseguaglianze è avvenuto e avviene in modo diseguale, ovvero non dappertutto, non nella stessa misura o con la medesima velocità. Ma che siamo comunque di fronte ad una crescita complessiva della diseguaglianza a lungo termine nella Ue, non sembrano esserci dubbi, almeno stando ai dati forniti da altri autorevoli centri studi, quali il Luxemburg Income Survey (LIS). Lo osserva il Rapporto Euromemorandum 2015, secondo cui il fenomeno delle differenze di reddito all’interno dei singoli paesi e tra paesi diversi è in crescita in tutto il mondo: “in particolare in Europa si rischia di ritornare sugli elevatissimi livelli di diseguaglianza di due secoli fa”! La Banca dati del LIS contiene dati di lungo periodo sulla diseguaglianza di reddito in 21 Ue negli ultimi venti/trenta anni. Se si eccettuano tre paesi di piccole dimensioni, dove i valori della diseguaglianza erano già molto alti e quindi è comprensibile una certa diminuzione, e la Danimarca e la Svezia, dove al contrario tali valori erano già bassi, la diseguaglianza è cresciuta sotto diversi aspetti in tutti gli altri, i più popolosi. Qui è diminuita grandemente, e da lungo tempo, la quota nazionale del reddito destinata al lavoro e contemporaneamente la distribuzione dei salari è diventata molto più differenziata. In questo campo, come in altri, si è ulteriormente divaricata la condizione di genere, al punto da meritare un puntuale intervento di papa Francesco, ovviamente riverito ma inascoltato.
Come mai allora i dati riportati dal Sole 24 Ore dipingono un quadro diverso? Come osservano tre studiosi come Elena Granaglia, Maurizio Franzini e Michele Raitano (Eticaeconomia Menabò online) malgrado l’eterogeneità dei dati non si può disconoscere una “tendenza generalizzata alla crescita delle diseguaglianze”. Nel ragionamento di Ricolfi, oltre alla evidente ansia di tranquillizzare rispetto alle sorti non più né magnifiche né progressive della globalizzazione capitalistica, vi sono errori metodologici non infrequenti anche tra i migliori analisti. Il pensiero corre immediatamente all’ormai infaustamente celebre errore sull’uso del programma excel di Microsoft compiuto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff.
Per la verità qui non siamo in un caso così banale. Il problema è che la misura principalmente utilizzata da Ricolfi per dimostrare la tendenza alla diminuzione delle diseguaglianze è l’indice di Gini, che però è una misura sintetica non sufficiente per comprendere proprio quello che accade nei segmenti estremi della distribuzione dei redditi e della ricchezza. Semplificando un poco, sarebbe dunque la stessa polarizzazione delle diseguaglianze a renderne difficile la lettura corretta utilizzando quella classica strumentazione inventata dal grande statistico italiano.
Inoltre l’editorialista del Sole24Ore sottovaluta l’importanza che nella misurazione delle diseguaglianze hanno assunto le diversità nei redditi da lavoro. Come sappiamo anche empiricamente, se venti/trenta anni fa la differenza tra un manager e un suo dipendente poteva arrivare a 40/50 volte la misura dei rispettivi stipendi, oggi si colloca tranquillamente sulle 400/500. Il peso dei super redditi da lavoro è enormemente aumentato. Si è formata, per usare un termine caro a David Rothkopf, una superclass, una elite mondiale di manager responsabili quanto e più dei proprietari dei mezzi di produzione dell’andamento del capitalismo mondiale. Branco Milanovic della Banca mondiale, famoso studioso della diseguaglianza, ha riconosciuto che nel 2008 l’indice di Gini della diseguaglianza globale sembrava essere diminuito di due punti rispetto al precedente ventennio. Ma se invece si stima correttamente anche il peso dei super ricchi tale indice non mostra alcuna diminuzione.
Infine gli autori dell’articolo su Eticaeconomia si soffermano sui periodi storici presi in considerazione. Ricolfi accusa addirittura Atkinson (nel suo recentissimo Inequality: What Can be Done, Harvard University Press, 2015) di scegliersi un periodo di comodo con cui confrontare la diseguaglianza attuale. Cioè gli anni ’80, quando la diseguaglianza era a un punto minimo. Ricolfi contrappone a quegli anni il periodo 1960-1972, dove invece questa era a un punto massimo. Si potrebbe perciò dire che entrambi sono accusabili di cherrypicking, come dicono gli anglosassoni, ovvero di scegliersi come le ciliegie il periodo più comodo per dimostrare i propri assunti. In realtà il procedimento di Atkinson appare più che corretto poiché sceglie proprio un periodo di faglia, nel quale il ciclo economico si inverte.
Reazioni e debolezze degli USA di fronte alla loro perdita di egemonia mondiale
Insomma gli imbellettatori del processo di globalizzazione devono rivolgere i loro sforzi altrove. Questa, aggravata dalla crisi, ci consegna un mondo più diseguale e la nostra Europa non fa eccezione, anzi ne è la conferma. Ma non è solo crisi. Sullo sfondo avviene un cambiamento epocale nell’organizzazione del capitalismo mondiale. Come in altre epoche storiche chiave, di cui ci hanno ampiamente parlato gli studi di un Braudel, di un Wallerstein, di un Arrighi, siamo di fronte ad un nuovo processo di transizione egemonica mondiale. Da Ovest ad Est. Il secolo americano è finito o è agli sgoccioli, solo che la leadership americana non si rassegna a questo cambiamento storicamente inevitabile. Il centro economico e produttivo si sta rapidamente spostando a Est. Verso la Cina, principalmente, anche se la crescita dell’India non scherza. Lo si vede anche nei rapporti di forza tra le monete. Scende quella del dollaro su scala internazionale, a riprova che la forza di una moneta non deriva solo e tanto dall’intrinseco valore economico che essa rappresenta, quanto dalla forza complessiva del paese che la emana e la sostiene.
Moises Naim, giornalista di fama mondiale ex caporedattore della autorevole Foreign Policy, si interroga se gli Stati Uniti continueranno a essere, malgrado tutto, il paese più potente del mondo. In fondo la Cina ha sì tassi di crescita invidiabili, ammodernamento industriale molto veloce ed efficace, riserve di valuta straniera incommensurabili, ma il reddito procapite, tenuto conto della sua sterminata popolazione, in gran parte abitante le zone interne arretrate, è equivalente a quello del Perù.
Sicuramente la preminenza della forza militare degli Stati Uniti d’America non può essere messa in discussione da nessuno. Per ora. La stessa Cina, però, non si limita ad acquistare solo industrie – come si vede anche in Europa e nel nostro paese – terra, soprattutto in Africa, infrastrutture e debiti stranieri, non a caso la Cina è assai interessata al porto del Pireo. Ma ha sviluppato enormemente gli investimenti in armamenti per cercare di colmare nel più breve tempo possibile l’handicap che la separa dalle grandi potenze in questo campo.
Non è affatto un buon segnale per la causa della pace, che avrebbe bisogno di trovare nuovo vigore dopo le grandi lotte negli anni Zero del nuovo secolo. Ma soprattutto ingenera preoccupazione sia sul versante orientale che su quello occidentale del pianeta, spingendo verso l’alto la corsa al riarmo da parte di tutti i paesi che se lo possono permettere. La conseguenza è che il mercato oggi globalmente più in espansione è quello degli armamenti. La Cina ne è protagonista. Qualche cosa si è visto nella sfilata del 9 maggio a Mosca per celebrare la fine della Seconda Guerra Mondiale (“La grande guerra patriottica”, come l’hanno sempre chiamata i russi), quando per la prima volta soldati dell’armata popolare di Pechino hanno sfilato sulla piazza Rossa a Mosca, per ribadire che vi fu anche un rilevante contributo asiatico nella sconfitta del nazifascismo. Vedremo cosa il governo cinese deciderà di mostrare al mondo il prossimo 3 settembre, quando la sfilata militare si terrà a Pechino per ricordare la vittoria sul Giappone.
Il Fmi e la Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii)
Tuttavia Naim pare più preoccupato dalle divisioni politiche interne agli Usa che indebolirebbero l’eventuale possibilità della ripresa di un loro ruolo egemonico su scala mondiale. E’ il caso dell’impasse nel quale si troverebbe il Fondo monetario internazionale. I tentativi di migliorarlo – dopo le pesanti critiche fiondate da più parti al suo operato - non hanno avuto successo. Obama aveva anche proposto di accrescere il ruolo della Cina al suo interno. Per quanto la misura prevista fosse già del tutto insufficiente per tenere nel dovuto conto l’accresciuta forza economica del grande paese asiatico, il Congresso Usa non è riuscito in cinque anni ad approvare quella proposta. La Cina si è dunque mossa per conto suo, dando vita alla Banca asiatica degli investimenti infrastrutturali (Baii), cui hanno aderito, malgrado la dissuasione messa in atto dagli Usa, paesi come l’Australia e diversi paesi europei, fra cui il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’ Italia. La Cina ha ammesso tra i 57 paesi componenti la Baii, ove compaiono anche molti paesi poveri, anche la Norvegia, un po’ a sorpresa vista l’ostilità verso questo paese dopo l’assegnazione nel 2010 del premio Nobel per la pace al dissidente Liu Xiaobo. Ma evidentemente anche in Oriente pecunia non olet.
Molti commentatori politici ed economici hanno considerato addirittura una follia il rifiuto degli Usa a farne parte, poiché secondo questi critici la battaglia per l’egemonia andrebbe combattuta all’interno delle varie istituzioni che si formano a livello internazionale, specialmente quando queste mostrano comunque una considerevole capacità di attrattiva.
Il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip)
Ma la leadership statunitense è tutta concentrata su altre imprese. Tra queste spicca il Ttip. La sigla è un acronimo inglese che tradotto significa Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti. Se ne parla da molto e le trattative fra Usa e Ue restano segrete. Perfino la consultazione del materiale di supporto può avvenire solo a certe condizioni che risultano essere complicate o addirittura ostative anche per gli stessi parlamentari europei. Naturalmente ogni tanto la coltre di segretezza viene bucata da abili hackers. Ma la privazione di trasparenza rimane.
Eppure si tratta di una questione di grande rilevanza – di cui la nostra rivista si è già occupata (Monica Di Sisto, in Alternative per il Socialismo n.33) - tale da condizionare l’economia e la società non solo del nostro paese ma di tutta Europa. La propaganda lo presenta come un passo in avanti nel libero commercio tra le due sponde dell’Atlantico, grazie all’abbattimento di dazi e dogane. La realtà è assai diversa. Ma per comprenderla appieno bisogna partire da qualche premessa basata su alcuni dati, scelti a scopo esemplificativo. Concentriamoci sull’Italia. Il nostro paese è da tempo pienamente inserito nei flussi della globalizzazione mondiale. E’ un punto di incontro delle filiere della produzione del valore globali. L’Istat ci dice che nel 2011 in Italia agivano 13.527 affiliate di multinazionali controllate dall’estero. Queste imprese realizzano un fatturato pari a oltre il 16% di quello complessivo del territorio nazionale. La loro attività è prevalente nel campo dei servizi, ma anche l’industria ne è interessata. Tra i paesi controllanti al primo posto ci sono gli Stati Uniti, cui seguono la Francia e la Germania. Viceversa la stessa Istat riferisce che sono 21.682 le affiliate di multinazionali italiane insediate all’estero, anche qui prevalentemente nei settori dei servizi.
L’integrazione produttiva e commerciale del nostro paese e quindi già un dato di fatto ed è avvenuta senza bisogno del Ttip, su cui tuttora si sta trattando. Da dove deriva allora e perché l’insistenza su questo Trattato? Il motivo sta altrove rispetto al libero scambio, con buona pace dei liberisti, ed anche rispetto all’impatto economico che potrà avere sulle due sponde dell’Atlantico. Come ha osservato Marcello de Cecco (Affari e Finanza, 24 nov. 2014) : “La prospettata unione euroamericana, infatti, farebbe aumentare assai poco sia il commercio totale che specialmente il Pil delle parti contraenti, e quel poco solo nel lungo periodo. Questo a detta persino degli studi di parte condotti per promuovere l’iniziativa.”
Il cuore del trattato non sta dunque nel fatto che una volta approvato, ad esempio, si potranno vendere sul mercato europeo i polli americani disinfettati con il cloro, ma nel nuovo sistema di governance che attraverso questo si vorrebbe imporre a livello globale, in particolare da parte degli Stati Uniti e nell’interesse delle grandi multinazionali. Ha sempre ragione De Cecco quando annota che “a spingere per la realizzazione del nuovo partner iato sono le associazioni industriali europee che vedono in esso un cavallo di Troia contro gli eccessi di regolamentazione degli stati nazionali”. Bisognerebbe dire, in verità, di ciò che resta degli stati nazionali.
La logica delle imprese vuole prevalere sui diritti degli Stati e dei cittadini
Infatti il Trattato prevede l’introduzione di organismi tecnici tali da svuotare di democrazia ogni processo decisionale e ogni residuo di sovranità sulle politiche economiche. Il primo consiste in un meccanismo di protezione degli investimenti (Isds secondo l’acronimo inglese), in base al quale le imprese possono citare in giudizio gli Stati qualora questi decidessero, secondo procedure democratiche, di adottare misure considerate nocive agli interessi delle multinazionali stesse. Ma non sarebbero i tribunali ordinari la sede del giudizio, bensì consessi riservati di avvocati commercialisti super specializzati, che giudicherebbero sulla base delle norme del Trattato se uno Stato ha creato un danno ad un’impresa, magari allo scopo di difendere la salute e l’ambiente (pensiamo ad esempio al caso Ilva). In questo caso quel consesso potrebbe pretendere che quello Stato o quell’Ente Locale ritiri il provvedimento e sia costretto a indennizzare l’impresa del presunto svantaggio economico arrecato. Il principio del profitto e del commercio la avrebbero vinta su quello di una giustizia basata sulla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini tutelati costituzionalmente.
Inoltre la bozza di Trattato prevede anche la creazione di un altro organismo (Regulatory Cooperation Council) composto da esperti nominati dalla Commissione Ue e dal ministero Usa competente, con il compito di valutare l’impatto commerciale di ogni etichetta, di ogni marchio ma anche di ogni contratto di lavoro a livello nazionale o europeo, al fine di stabilirne la congruità con un rapporto fra costi/benefici che sia vantaggioso per l’impresa. Anche qui il diritto del lavoro avrebbe la peggio rispetto al diritto commerciale, malgrado i nostri principi costituzionali assai espliciti su questo aspetto. In questo modo, sempre citando Marcello De Cecco, si realizzerebbe una modifica tanto radicale quanto regressiva del diritto internazionale, tale da cancellare “quasi due millenni di tradizione giuridica europea”.
Il Parlamento europeo, come al solito, può poco al riguardo. Dopo avere votato nel 2013 il mandato esclusivo di negoziare alla Commissione europea (che non è un organo elettivo ma scelto dai vari governi), può porre solamente dei quesiti circostanziati, cui la Commissione risponde nel rispetto della cosiddetta riservatezza obbligatoria tipica delle trattative bilaterali. Poi ci sarà un voto finale, ma senza possibilità di emendare nessuna parte del Trattato che dovrà essere accettato integralmente, senza modifica alcuna, o respinto in toto.
Per tutte queste ragioni, ha preso corpo da tempo una mobilitazione a livello europeo che coinvolge cittadini e organizzazioni. In Italia la Campagna Stop Ttip (www.stop-ttip-italia.net) raccoglie oltre 60 tra associazioni, sindacati, enti pubblici, comunità di cittadini. L’obiettivo è quello di fermare il Trattato prima che giunga alla fase finale non più modificabile, imponendo a livello italiano e europeo una nuova riflessione sulle politiche economiche e commerciali utili a uscire dalla crisi senza affossare le condizioni di vita delle persone e la democrazia. Il “diritto ad avere diritti”, per usare la celebre espressione di Hannah Arendt non deve e non può essere cancellato da nessuna logica di impresa o lex mercatoria.
Il manifesto, 27 maggio 2015
«Le proposte greche ai partner europei e soprattutto al Fmi sono basate sul diritto internazionale» ha sottolineato il presidente della repubblica ellenica Pavlopoulos, professore di diritto all’Università di Atene.
Che ci fossero dei problemi di liquidità il governo Syriza-Anel non l’ha mai nascosto, benché abbia rispettato sempre gli impegni, pur senza chiedere un euro ai creditori. Ma ora, come ha spiegato lunedì il ministro degli interni Voutsis, manca il denaro per le quattro rate per il Fmi (1,6 miliardi). Stesso messaggio ma con un tono ottimista, è arrivato da Varoufakis: «La Grecia pagherà la rata da 312 milioni dovuta al Fmi, perché per allora sarà raggiunto l’accordo con i creditori».
«Pagheremo i nostri impegni come meglio potremo» aveva detto il giorno prima Sakellaridis. Il problema però è proprio l’accordo: ci sarà entro la settimana prossima? Varoufakis, e insieme a lui il premier Tsipras credono di sì. E la domanda che si pone è semplice: nel caso Atene non abbia la possibilità di pagare queste poche centinaia di milioni di euro, alla fine della settimana prossima ci sarà un default con la chiusura delle banche e il governo costretto ad applicare controlli sui capitali come era avvenuto a Cipro nel marzo del 2013?
Ci sarà un «Grexit» come sostiene la maggioranza della stampa internazionale con effetti domino in tutta l’ eurozona? Oppure come affermano alcuni analisti, il Fondo «chiuderà un occhio» dando una proroga di un mese ad Atene per versare i suoi debiti, dopodiché –nel caso che Atene non dovesse pagare — ci sarà un fallimento totale? In questo ambito, secondo alcuni media locali, non è da escludere un intervento da parte di Washington al Fmi per «aiutare la Grecia a pagare i suoi debiti».
A sentire Varoufakis, «l’uscita della Grecia dalla moneta unica sarebbe l’inizio della fine per il progetto dell’euro». Varoufakis, inoltre, ha chiarito che dopo le sue reazioni è stata ritirata in parte la proposta per una tassa sui prelievi ai bancomat, i trasferimenti di denaro via e-banking e uno scudo fiscale per far rientrare i capitali depositati illegalmente all’estero con un’imposta del 15%. L’imposta sull’e-banking è contraria alla politica del ministero greco che vorrebbe sfavorire l’utilizzo del contante per combattere l’evasione fiscale. In Grecia tutti i dipendenti pubblici e privati, oltre ai pensionati, vale a dire più di due terzi della popolazione, pagano le tasse normalmente, perché c’è la trattenuta alla fonte.
Le altre categorie, invece, ovvero liberi professionisti (innanzitutto medici, avvocati, idraulici, elettricisti, tecnici, ecc.) e imprenditori di solito evadono, lasciando un buco nero dai 5 ai 20 miliradi di euro l’anno.
A prescindere se Atene e creditori si possano considerare vicini alle battute finali per un’intesa, sul tavolo restano ancora l’Iva, le pensioni e il mercato di lavoro, mentre la spina della ristrutturazione del debito non è stata nemmeno toccata– non mancano le voci secondo le quali la dichiarata impossibilità di rimborsare il debito al Fmi non corrisponde alla realtà, ed è «una tecnica negoziale da parte di Tsipras per ricattare i suoi creditori» da una parte, per calmare quelle voci all’interno di Syriza che vorrebbero una rottura dei rapporti con i partner europei dall’altra. «Stiamo lavorando giorno e notte per un’intesa, c’è il rischio di insolvenza e tanti rischi ad esso collegati» ha detto al quotidiano tedesco Bild il direttore del fondo salva-Stati europeo (Esm), Klaus Regling.
Intanto ieri ha cominciato i suoi lavori la commissione d’inchiesta parlamentare formata per esaminare sotto quali condizioni economiche e per quali motivi i governo precedenti hanno firmato i due memorandum che hanno provocato questa crisi umanitaria nel paese. Tra i testimoni che sono stati proposti dai partiti dell’opposizione sono l’ex direttore del Fmi, Dominique Strauss-Kahn, l’attuale Christine Lagarde, il già presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, Mario Draghi, il presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, i rappresentanti dell’ ex troika ad Atene.
La Repubblica, 27 maggio 2015
IL GIARDINO chiuso dei partiti verrà aperto dal progetto di legge per una loro regolamentazione giuridica presentato ieri dal Partito democratico? La settantennale autoreferenzialità dei partiti e il roccioso rifiuto di rispondere del loro operato, in quanto corpo collettivo, di fronte alla legge, forse volgono al termine. Una norma sui partiti è quanto mai necessaria per molti motivi. Innanzitutto in rapporto con il nuovo sistema elettorale che offre agli organi dirigenti ampia discrezionalità nel collocare candidati direttamente sulla rampa di lancio dell’elezione sicura. Visto che gli elettori hanno una limitata possibilità di scelta di fronte a liste in gran parte bloccate, è opportuno che, per mantenere in vita almeno un filo di fiducia tra rappresentanti e cittadini, questi ultimi possano intervenire nella stesura delle liste elettorali. Se la legge annunciata offre garanzie su questo punto, e cioè obbliga i partiti a precisare le modalità con le quali vengono individuati i candidati, allora un passo in avanti è stato fatto. Riportare all’aperto, nell’ agorà pubblica, la selezione dei futuri rappresentanti consente di contrastare quella immagine di oligarchie chiuse sulla quale ha prosperato la polemica antipartitica e populista.
Ma, per rendere i partiti degli organismi in linea con le migliori pratiche di un sistema liberaldemocratico, altre regole sono necessarie e auspicabili. Ad esempio, è indispensabile rivedere l’infelice legge sul finanziamento pubblico — pura concessione alla demagogia antipolitica — per rendere più contenute e trasparenti le donazioni private. En passant, possibile che si sia invocata la privacy per i partecipanti alle sconvenienti cene di finanziamento del Pd anche dopo lo scoppio dello scandalo di “mafia capitale”. E come regolare i conflitti interni? Lasciarli alla piena discrezionalità dei partiti (i litigi si consumano tra le quattro mura…), oppure aprire uno spiraglio per un intervento arbitrale esterno? Nella maggior parte dei Paesi europei, soprattutto in quelli dell’Europa centroorientale, è in atto una crescente giuridicizzazione: ovvero, viene affidato alla magistratura il potere di intervenire a dirimere dispute interne laddove vengano violate le norme statutarie o le leggi sui partiti.
Questa tendenza non è necessariamente la strada migliore in un Paese come il nostro, ridondante di avvocati e di cause inutili. Però, sulla scia dell’esempio tedesco — e americano — una normativa che garantisca la “democraticità” interna dei partiti può persino favorire il depotenziamento delle tensioni interne. Le minoranze si sentirebbero in qualche modo più garantite rispetto alle tentazioni egemonizzanti di una maggioranza. Quasi tutte le leadership (o singoli leader, in casi particolari), anche al di là dei buoni propositi, tendono ad esercitare un dominio incontrastato senza alcun riguardo per le voci dissidenti. Il centralismo democratico di antica marca comunista, per quanto aborrito a parole da tutti i partiti democratici, è sempre stato allegramente praticato. Gli statuti sono stati calpestati innumerevoli volte, con la mozione degli affetti o con ricatti espliciti, invocando situazioni di emergenza o evocando un nemico alle porte, e, sopra di tutto, richiamando il valore dell’unità. Il tratto monistico e monolitico dei partiti non può essere modificato da una norma perché dipende dalla cultura politica degli aderenti e del contesto più generale.
Laddove, come in Italia, il valore del dissenso è svalutato a favore dell’unità (forzosa e inevitabilmente falsa), le minoranze finiscono emarginate. Questa sensazione di minorità, e quasi di illegittimità, che le minoranze interne percepiscono produce tensioni e favorisce la sviluppo di correnti e fazioni. Una norma che offra con forza di legge una rete di protezione alle minoranze può favorire un rapporto più disteso con la maggioranza. Mentre oggi assistiamo a scomuniche, fuoriuscite ed espulsioni, frutto di scarsa democraticità interna e di bulimia di potere delle leadership, lo scudo di una legge renderebbe la vita interna dei partiti meno aspra e rissosa. I conflitti e le divisioni non scompaiono, è evidente; ma con una buona norma sarebbero più regolati. E questo “pulirebbe” l’immagine dei partiti, spesso visti come campi di battaglia dove ambiziosi e arrivisti vogliono mantenere a tutti i costi il loro piccolo o grande potere.
Il vento antipolitico soffia in ogni parte d’Europa: non solo in Spagna, in Grecia e in Polonia, ma anche nella ricca e placida Germania crescono movimenti di protesta come gli antieuropei dell’Afd e i populisti di Pegida. E si mantiene forte anche sul nostro Paese. Norme che rendano i partiti più trasparenti e democratici nelle loro dinamiche interne e più rispondenti ai cittadini (e alla legge) offrono una buona opportunità per rivendicare la nobiltà del fare politica e contrastare l’antipolitica. Impresa ardua, ovviamente. Ma indispensabile per non cedere a demagoghi e arruffapopoli.
Singolare articolo quello di Paolo Flores D’Arcais sull’ultimo numero di Micromega: per le affermazioni, per le omissioni, per le disinformazioni. La prima disinformazione riguarda la Liguria. Preferisce, forse a ragione, la candidatura di Anna Salvatore, del movimento cinque stelle, a quella di Luca Pastorino, sostenuto dalla lista Rete a sinistra e da un pezzo del PD. Ma coglie l’occasione per disinformare e tacere di un’altra candidatura e un’altra lista, affermando che la candidatura di Pastorino sarebbe sostenuta da Giorgio Pagano, il quale invece ha promosso e tuttora sostiene la candidatura di Antonio Bruno, per la lista l’Altra Liguria, che raccoglie l’eredità della lista europea con Tsipras.
La scelta che Floris d’Arcais propone per Venezia è singolare per un altro verso. Egli afferma, perentoriamente, che Felice Casson deve vincere al primo turno, perchè la vittoria del senatore «vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità». Floris pone Casson in alternativa al PD, ma trascura due elementi che a mio parere impediscono di votare per lui anche a chi, come io stesso, ha la massima stima personale per l’antico magistrato e il nuovo senatore: eccellente in entrambi i suoi ruoli. Voglio ribadire le due ragioni che già al tempo delle primarie del PD mi convinsero a non sostenere la sua candidatura.
La prima ragione attiene al panorama nazionale. Sono fermamente convinto che Matteo Renzi e il suo partito, nonostante le minuscole sacche di resistenza passiva che sopravvivono al suo interno, costituisce oggi il peggior rischio per la democrazia italiana. La vittoria di Casson, candidato del PD di Renzi, sarebbe salutato dai media nazionali come una vittoria del Re Matteo, e rafforzerebbe ancora la sua infausta presenza al vertice del partito, del governo, del parlamento e, per interposta e vassalla persona, in ogni istituzione privata.
La seconda ragione sta nel fatto che, come si poteva supporre, per esser certo d’essere eletto Casson ha dovuto accettare il sostegno proprio di quell’apparato del PD, e dei sui succubi alleati, che ha provocato i peggiori danni alla città. Non è certo per caso che Casson abbia scelto come suo capolista Nicola Pellicani, l’uomo sostenuta alle primarie da Matteo Renzi, Massimo Cacciari, Giorgio Napolitano – e perfino da Luigi Brugnaro, esponente di una destra legata all’uso dei patrimoni e dei servizi pubblici, non priva di venature razziste e xenofobe. E non è per caso che non abbia ancora reso noti i nomi che comporranno la squadra con la quale governerebbe, se vincesse, la città e il suo territorio. Data la composizione dell’ampio gruppo di liste che lo sorreggono è lecito attendersi la presenza, nella sala di regia del comune, di numerosi personaggi che hanno contribuito al degrado di Venezia nei passati decenni, e l’applicazione delle antiche regole della spartizione dei posti di rilievo.
La passione del direttore di Micromega per Casson lo induce poi a un’altra omissione, che nel contesto elettorale assume il valore di una disinformazione. Egli tace sulla presenza di altre liste che pur si collocano all’interno dell’area politica e culturale cui la rivista, e il suo direttore, si rivolgono. Mi riferisco alla lista Veneziacambia 2015, costituita da un gruppo di cittadini che hanno nei mesi scorsi svolto un lungo percorso di analisi e proposta per definire un programma di governo finalizzato al maggior benessere delle persone, e non alla crescita degli affari che da alcuni decenni si fanno sulla città. E’ la lista che presenta come suo candidato Giampietro Pizzo, fiancheggiato da una lista in cui non c’è nessuno che abbia assunto responsabilità istituzionali nelle precedenti sindacature: questi ultimi sono tutti considerati da un’ampia porzione della cittadinanza - e non a torto - complici delle scelte sbagliate che le giunte comunali hanno compiuto, dalla giunta Cacciari fino alla giunta Orsoni.
La lista comunale Veneziacambia 2015 è politicamente e culturalmente legata a una lista regionale (Vanezia non si può governare senza una forte presenza della Regione), denominata “Altro Veneto – Ora possiamo” anch’essa composta da persone che non hanno avuto nessuna responsabilità istituzionale nei decenni trascorsi. Anch’essa si oppone recisamente all’ideologia e alla prassi del renzismo, del quale è invece piena espressione la candidata per la presidenza regionale del PD. Candidata alla carica di presidente della regione nella lista “Altro Veneto” è Laura di Lucia Coletti, una insegnante di discipline umanistiche alle scuole superiori, impegnata da anni nei comitati che si battono per la difesa dei diritti, del territorio e dell’ambiente, del lavoro e per la salute.
La lista di Giampietro Pizzo e quella di Laura di Lucia sono entrambe il risultato di una vasta mobilitazione di donne e uomini oggi distanti (e nauseati) dai comportamenti dei partiti tradizionali. Esprimono tutti la volontà di impegnarsi in una politica nuova, che “restituisca al popolo lo scettro del potere” e sono tutti impegnati nei numerosi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva che combattono gli effetti delle scelte sbagliate da 15 anni di malapolitica. La lotta alla corruzione, il ripristino della legalità, il restauro del primato del potere pubblico sul potere privato, e quello degli interessi delle persone su quello dei “mercati”, del salario e del profitto sulla rendita, il netto contrasto alle Grandi opere e alla liquidazione del patrimonio immobiliare pubblico: questi sono alcuni dei punti comuni alle due liste di cui Flores d’Arcais ignora l’esistenza
Le scelte del direttore di Micromega sono ovviamente legittime, come l’aver limitato il suo invito agli elettori di due sole regioni. E comprendo che, non essendo egli esperto di cose veneziane, abbia informazioni diverse dalle mie, che vivo a Venezia da quasi mezzo secolo. Ho voluto fornire ai lettori di questo sito alcune informazioni che Flores non aveva dato, o aveva dato in modo inesatto, anche per tentar di riparare almeno un po’ all’orrendo silenzio stampa che avvolge le formazioni politica piccole, nuove, povere e non bizzarre (bella lezione di democrazia applicata quella che viene dai grandi media!).
Mi resta una curiosità personale. Come mai le formazioni politiche che Flores trascura o su cui fornisce informazioni sbadate sono proprio quelle che nascono dall’esperienza della lista “L’Altra Europa con Tsipras”, di cui è stato uno dei promotori?
Micromega, 26 maggio 2015
Domenica prossima si vota. In sette regioni e in numerosi comuni. Dall’esito delle urne dipenderanno anche molte questioni nazionali. Per il comune di Venezia e per la regione Liguria la posta in gioco è molto più grande: un’occasione straordinaria per la democrazia di mettere un argine e lanciare un segnale per invertire la rotta rispetto alla deriva di berlusconismo senza Berlusconi rappresentata dal governo Renzi.
Vittoria della democrazia significa, a Venezia, elezione di Felice Casson al primo turno. Casson vuol dire una politica della legalità, che dopo un quarto di secolo di spadroneggiare bipartisan su scala nazionale dell’impunità di establishment equivale a una rivoluzione della legalità. Tanto più necessaria a Venezia, dove il ceto politico quasi nella sua interezza, duce Galan, si è reso promotore mallevadore o tre scimmiette (non vedo, non sento, non parlo) della melma di corruzione chiamata Mose.
Casson ha vinto le primarie contro le nomenklature vecchie e nuove del Pd, l’appoggio del partito in questa campagna elettorale è spesso tiepido. Se dovesse andare al ballottaggio tutte le forze della Venezia degli affari e malaffari e privilegi si salderebbero in una santa alleanza contro il “giustizialismo”, con tanto di santificazione delle megalopoli da crociera che ogni giorno mettono a rischio l’incolumità di Venezia. Riuscire a far vincere, e magari stravincere, la candidatura di Felice Casson al primo turno vorrebbe dire che la società civile, di nome e di fatto, non ha rinunciato alla presenza politica, non si è rassegnata al sonno della ragione e ai suoi mostri.
Vittoria della democrazia significa, in Liguria, elezione a governatore di Alice Salvatore, candidata del Movimento 5 stelle. Miracolo possibile, miraggio che può diventare realtà. La grancassa mediatica cerca di accreditare uno scontro tra la candidata del burlandismo-scajolismo ligure di decenni, Raffaella Paita, e il “dissidente” Pd Luca Pastorino, ma si tratta di una bufala in perfetta disinformacjia brezneviana, anzi di una duplice bufala. Intanto dell’eretico Luca Pastorino non ha un bel nulla, è un perfetto esemplare di uomo di apparato appoggiato da pezzi di apparato (ad esempio l’ex sindaco di La Spezia Pagano, di cui la Paita fu capo di gabinetto). Insomma, una faida dentro la nomenklatura Pd, niente di più. In secondo luogo tutti i sondaggisti, nelle anticamere delle trasmissioni televisive, sciorinano con preghiera di massima discrezione e riserbo, la verità dei sondaggi più aggiornati: Pastorino è totalmente fuori gioco, come Toti del resto, il fotofinish è tutto tra Paita e Alice Salvatore.
In Liguria dipenderà insomma da ogni singolo voto fino all’ultimo singolo istante di urne aperte. Alice Salvatore ha scoperto l’impegno civile coi girotondi e costituisce l’unica possibilità per la Liguria di sottrarsi al gorgo di immondizia morale, inefficienza tecnica, saccheggio e distruzione di risorse (materiali, ecologiche, culturali), insomma abiezionein cui l’ha precipitata l’intero ceto politico.
Sarebbe doveroso che quanto ancora resta di società civile nel tessuto ligure, nelle professioni, nella cultura, nel sindacalismo, nell’ecologismo, in una classe operaia ancora non interamente cancellata, pronunciasse ad alta voce il suo outing per la candidatura di Alice Salvatore, mettendo tra parentesi le tante ragioni di diffidenza verso il movimento di Grillo e Casaleggio, perché ora e qui conta solo mettere fine al ventennio di burlandismo-scajolismo, e al renzismo che se ne fa evidentemente erede. Come sarebbe doveroso e soprattutto intelligente, da parte del M5S ligure, uscire da una logica troppo frequente di autoreferenzialità, fare esplicito appello a tutta la società civile, capire che si può vincere solo conquistando i voti del partito oggi maggioritario, quello del non voto, dei cittadini oberati dalle delusioni e conseguente apatia.
La mia speranza è che ogni cittadino che abbia ancora a cuore la democrazia e non sia totalmente rassegnato, faccia quanto può, direttamente o indirettamente, perché a Venezia e in Liguria una bandierina di democrazia segni l’altolà alla deriva di liberismo autocratico che da un quarto di secolo ci sta immelmando. Direttamente, per chi in quelle zone vota, indirettamente, perché nell’epoca dei social network ciascuno ha l’opportunità di influire, di sollecitare amici e conoscenti, di esercitare opinion-leadership a distanza, di portare voti autentici, che bilancino e travolgano i voti comprati, i voti di scambio, i voti del clientelismo, i voti della rassegnazione, che ingrassano chi ha spolpato questo paese.
Volavano gli elicotteri, ieri, sulla notte madrilena. Ma non per controllare dall’alto calle Génova, via della storica sede del Partito popolare: per la prima volta qui il tradizionale balcone della vittoria è rimasto vuoto, nonostante la candidata sindaco Esperanza Aguirre abbia guadagnato un seggio in più. La polizia sorvolava la Cuesta de Moyano, dove migliaia di cittadini ascoltavano la diretta avversaria Manuela Carmena, giudice impegnata nella tutela dei diritti umani: “Ha vinto il cambiamento. Ha vinto la cittadinanza. Avete vinto voi”. I simpatizzanti di Ahora Madrid, lista di Podemos, si erano dati appuntamento vicino al museo Reina Sofía fin dal primo pomeriggio. Poi, in serata, al suono della banda ufficiale e del noto slogan “Sì, se puede” con l’arrivo del leader Pablo Iglesias, cominciava la festa. Il terremoto annunciato per la politica spagnola alla fine si è verificato alle amministrative e regionali di ieri (gli spagnoli sono andati alle urne per rinnovare 8.122 municipalità oltre che per assegnare i seggi nei parlamenti di 13 delle 17 regioni del Paese), che hanno visto i post-indignados di Podemos prendere Barcellona, avvicinarsi anche alla conquista della capitale e imporre ai due grandi partiti tradizionali Pp e Psoe un drastico ridimensionamento: 4 anni fa i popolari aveva ottenuto la maggioranza assoluta in 8 regioni, oggi devono scendere a patti con altre forze politiche.
Madrid vince il Pp, ma Podemos verso alleanza con il Psoe. Esperanza Aguirre ha vinto ma sa già che non potrà governare facilmente: sommando i 21 seggi agli ipotetici 7 di Ciudadanos non riuscirebbe comunque ad ottenere la maggioranza assoluta. La candidata di Ahora Madrid invece, con 20 seggi, insieme al Psoe di Antonio Miguel Carmona, potrebbe ottenere 29 scranni e le chiavi del palazzo della capitale spagnola. Per Iglesias è l’inizio della fine del bipartitismo: “Pp e Psoe hanno registrato uno dei peggiori risultati della loro storia” e “il cambiamento ora è irreversibile”, ha detto chiaro e tondo. Popolari e socialisti sono in realtà ancora i primi due partiti, ma insieme sommano il 53% e per governare dovranno scendere a patti.
Cresce anche Ciudadanos: è il terzo partito Il Partito popolare resta in generale infatti il più votato (27%), ma perde l’egemonia degli ultimi vent’anni e quasi tre milioni di preferenze: da oggi la possibilità che gli azzurri tornino a sedersi sulle stesse poltrone non dipenderà più da loro, ma dalla capacità di alleanza delle forze opposte. Il Pp perde quasi tutte le maggioranze assolute nelle regioni come nella principali città del Paese e, probabilmente, il potere in Cantabria, in Castilla-La Mancha e nelle comunità autonome di Valencia e Madrid. Inoltre, una coalizione di sinistra avrebbe la possibilità di sottrarre al partito gli esecutivi di Aragón, Extremadura e Baleari. Dietro al Psoe, che si ferma al secondo posto con il 25% delle preferenze e la conquista della città di Siviglia, sorprende l’ascesa inarrestabile di Ciudadanos, che da oggi diventa terza forza politica, anche se Podemos – che non ha lista propria – non entra a far parte dei dati pubblicati dal ministero degli Interni. È lo stesso leader Albert Rivera a commentare a caldo che il suo partito ha triplicato l’appoggio ottenuto alle elezioni europee del 2014, gettando le basi per vincere le prossime politiche. “Siamo qui e stiamo facendo la Storia”.
A Barcellona vince Ada Colau, paladina degli sfrattati Ma è da Barcellona che arriva il primo vero cambiamento: una “okkupa” si aggiudica la poltrona di sindaco. Ada Colau, 41 anni, attivista e fondatrice della Pah, la piattaforma per le vittime degli sfratti, ottiene il 25,20% e 11 consiglieri con la formazione civica Barcelona en Comú, appoggiata da Podemos, contro il 22,7% e 10 seggi del sindaco nazionalista uscente, Xavier Trias. Segue la formazione indipendentista di Convergencia i Unió dell’attuale presidente della Generalitat Artur Mas con 10 seggi, Ciudadanos con 5 e i socialisti con 4. “È la vittoria di Davide contro Golia” ha detto commossa davanti alla platea e ha ricordato, anche senza aver ottenuto la maggioranza assoluta, che si tratta di un successo “collettivo” dei cittadini contro “il voto della rassegnazione”. A Valencia invece migliaia di cittadini si sono riuniti nella centrale plaza del Ayuntamento per celebrare la sconfitta della popolare Rita Barberá, dopo 24 anni di governo. Il Pp perde la maggioranza assoluta e cede il passo al Psoe che ottiene il 20,4% e 23 scranni, seguito dalla lista civica di Compromís, con 20 seggi.
Tutto da rivedere insomma: adesso si apre la stagione di alleanze, di governi privi di maggioranza assoluta e di opinioni da tenere in conto. L’unica cosa certa è che le due nuove formazioni di Podemos e Ciudadanos da oggi non sono più solo uno stato d’animo, ma entrano a pieno titolo nelle istituzioni locali. E il sistema del bipartitismo, che ha governato la Spagna dalla fine del franchismo, sembra cedere il posto ad un quadro molto più frammentato.
di Roberto Ciccarelli
Alzi la mano chi si è meravigliato della battuta di Matteo Renzi. In realtà, c’era da meravigliarsi che continuasse a mancare dal suo repertorio. Ma non si creda che gli sia stata suggerita da uno dei suoi spin doctor. È farina del suo sacco. È spontanea. Anche se, sotto sotto, c’è la curiosità di vedere l’effetto che avrebbe prodotto nel mondo sindacale un premier che fa sua l’opinione in circolazione da chissà quanto tempo tra i clienti di un bar, mentre sorseggiano l’aperitivo, o di un barbiere, mentre aspettano il turno. Dunque, non si può liquidare la battuta come se fosse una improvvisazione.
C’è invece più di un motivo per dare ragione ad Altan che proprio in questi giorni si sta chiedendo se sia «meglio una politica che non fa un tubo o una che ne combina una ogni giorno». L’ultima, infatti, è quella di avviare un discorso pubblico sulla riforma del sistema sindacale nella maniera più dirompente possibile, valorizzando cioè la banalità e speculando sulla disinformazione e sui pregiudizi.
Non a torto, perciò (per riportare un po’ di razionalità e al tempo stesso dimostrare come i sindacati sappiano bene ciò che devono fare) l’attuale Segretario generale della Cisl Annamaria Furlan ha ritenuto di doversi richiamare al trittico confederale assemblato con la Confindustria nel cosiddetto Testo Unico del 2014, anch’esso animato dalla trasparente intenzione di prefabbricare l’impianto di un futuribile intervento legislativo che lo stesso Renzi parrebbe disposto a congetturare. Io tuttavia sono del parere che, anche qualora tale evento si producesse, il problema della rappresentanza sindacale si porrebbe egualmente. Infatti, la rappresentanza sindacale è in crisi non solo a causa del vuoto di diritto in cui la contrattazione collettiva vive da una settantina di anni, ma anche (e ormai soprattutto) perché si è affievolita la capacità del sindacato di rispecchiare la realtà.
È da qui che bisogna partire ed è per questo che bisogna verificare la qualità della rappresentanza che il sindacato è capace di offrire di fronte alla domanda proveniente da una base mutata sia nella sua composizione socio-professionale che sul piano antropologico-culturale, a cominciare dall’universo femminil-giovanil scolarizzato.
Viceversa, pur essendo ricco di soluzioni giuridico-formali nel tentativo, in sé encomiabile, di far uscire il contratto collettivo da una crisi dipendente dall’eccesso d’informalità, il Testo Unico non contiene se non un principio di risposta: la sola fessura da cui trapela la consapevolezza della sua esistenza è costituita dalla previsione che i contratti nazionali saranno sottoscritti «previa consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori a maggioranza semplice».
Si mettano pure da parte le perplessità causate dall’indeterminatezza delle procedure e dalla vaghezza della loro obbligatorietà. Accantonare invece non si può la circostanza che nell’insieme il Testo Unico, dando il massimo risalto alla «esigibilità» del contratto collettivo, celebra l’elogio dell’efficacia cogente degli impegni contrattuali e sponsorizza il decisionismo dei vertici nientemeno che al livello che sembra destinato a diventare il fulcro dell’intero sistema contrattuale. Prevede infatti che i contratti aziendali sono efficaci per tutto il personale «se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rsu» e, se firmati da rsa, sono sottoponibili a verifica entro certi limiti ed a certe condizioni.
Non può certo sorprendere che il Testo Unico affronti il problema della rappresentanza sindacale nell’ottica della contrattazione collettiva privilegiando il ruolo d’ordine che i firmatari sarebbero tenuti a garantire. Anzi, è onesto riconoscere come sia poco meno che sensazionale che in quella sede le parti abbiano tenuto in qualche modo conto che, dopotutto, la rappresentanza è uno strumento di esercizio del potere del rappresentante sui rappresentati. Questo infatti è un problema che appartiene ad una dimensione schiettamente endo-associativa e la Confindustria non c’entra per nulla né ha qualcosa da insegnare.
Quindi, l’auto-riforma del sindacato è senz’altro la via migliore. In astratto. In concreto, però, non si colgono segni significativi dell’interesse del sindacato ad ispezionare il lato nascosto della rappresentanza che è suo compito esercitare. Lo stesso Testo Unico è rimasto lettera morta. Per questo, può succedere che sia il parlamento — lo stesso parlamento che non senza ingenuità un’opinione pubblica stufa di partiti incapaci di gestirsi in maniera decente sollecita ad occuparsene mediante una legge ad hoc — che finisce per apparire la sede più adatta. In astratto. In concreto, il governo Renzi, che non considera il sindacato come l’interlocutore col quale confrontarsi nemmeno in vista dell’adozione di misure in materia di lavoro, dimostra di volere che faccia la fine dell’articolo 18: scomparire senza la necessità di abrogarlo.
Nel settembre del 2014 la camera aveva approvato una mozione (a prima firma Scanu del Pd) che impegnava il il governo «a riesaminare l’intero programma F35 per chiarirne criticità e costi con l’obiettivo finale di dimezzare il budget finanziario originariamente previsto». Quella mozione non vale più niente, è carta straccia. Il governo ha preso in giro il parlamento e l’Italia per mesi. E ha preso in giro chi in questi anni (dalla campagna Taglia le ali alle armi al manifesto) è stato in prima fila nella richiesta di cancellazione del programma F35. Il governo prima ha detto che avremmo avuto la risposta alla mozione della Camera nelle «risultanze» (espressione cara alla Pinotti) del Libro bianco sulla Difesa. Poi — non avendo trovato nulla nel Libro bianco — ci ha detto che avremmo avuto soddisfazione nel Documento programmatico: sì, l’amara soddisfazione di sapere di essere stati imbrogliati da un governo infido.
Le avvisaglie c’erano state qualche giorno fa alla presentazione in parlamento del Libro bianco. Un libro vuoto, invisibile, inutile. Un documento modesto, fatto in gran parte di banalità, a tratti imbarazzante. Un documento in cui si parla ancora di bipolarismo, muro di Berlino, interessi nazionali, villaggio globale (una novità), dove si auspica una politica della difesa ed estera per un mondo migliore (ma va!).
Un documento in cui si parla della necessità di una nuova «postura» (sic) dello strumento militare e di valorizzare la dimensione «capacitiva» (ri-sic) della nostra difesa: a volte il traduttore di Google tradisce. Un documento in cui si afferma la necessità di ricondurre al ministro della difesa una maggiore centralità della direzione politica: per fare questo servono maggiori consulenti (in deroga alla spending review), che vanno sotto il nome di «uffici di diretta collaborazione». Una richiesta roboante per un po’ di staff esterno in più.
Un documento in cui naturalmente non si parla degli F35.
E poi è arrivato questo Documento programmatico che non cambia nulla rispetto al passato. Avanti tutta con i cacciabombardieri: i finanziamenti non si toccano. Con rara ipocrisia, il documento parla di «rispetto delle mozioni» e di «notevole diminuzione» della spesa per gli F35: ma è quella che aveva già fatto 3 anni fa l’ex ministro della difesa Giampaolo Di Paola. Per mesi la ministra ed ex pacifista Pinotti non ha rispettato le decisioni del parlamento. Adesso la clamorosa conferma. Roberta Pinotti è politicamente ed istituzionalmente inadeguata alla sua delicata funzione di governo. Sel ne ha chiesto ufficialmente le dimissioni. Nei prossimi giorni raccoglierà le firme per formalizzare e depositare la richiesta alla camera.
Tre anni fa l’ex ammiraglio Di Paola — cui pure non abbiamo risparmiato dure critiche — decise in quattro e quattr’otto di tagliare 41 caccia F35 (da 131 a 90) facendo risparmiare più di 5 miliardi di euro al paese. Nella piccola storia italiana degli F35, la Pinotti sarà ricordata per essersi sottratta alle decisioni parlamentari e non avere ridotto la spesa per gli F35 e Di Paola per avere deciso senza tanti indugi di rinviare alla Lockheed 41 cacciabombardieri. È una bella lotta ed è paradossale dirlo, ma — sugli F35 — meglio l’ex ammiraglio che l’ex pacifista. Ridateci Di Paola.
Il manifesto, 23 maggio 2015
In Libano ci sono 1,6 milioni di profughi siriani (oltre a 500mila palestinesi, lì da decenni): il 36 per cento (il 48, con i palestinesi) della popolazione; in Giordania ce ne sono 600mila (su 6 milioni di abitanti, oltre a 1,7 milioni di palestinesi). In Turchia 650mila; in Iraq 250mila; in Iran 2 milioni (più tutti gli afgani). All’interno della Siria gli sfollati sono 6,5 milioni. In Egitto i profughi di diversa provenienza sono oltre 500mila; in Libia non si sa: secondo il procuratore di Palermo Scalia circa un milione. In Nigeria Boko Haram, ma anche Eni e Shell, hanno creato 3,2 milioni di profughi: metà è già in Ciad, Camerun e Niger; metà sta cercando di fuggire.
Difficile, in questi disastri, distinguere profughi di guerra, profughi ambientali e “semplici” migranti. Poi c’è un milione di profughi del Donbass: metà in Russia, metà in Ucraina. Unhcr (l’agenzia dell’Onu che si occupa dei profughi), Croce rossa e Mezzaluna rossa stanno finendo i fondi per assisterli, peraltro, in condizioni insostenibili: 41 per cento dei giovani “ospitati” in quei campi profughi, dice un’inchiesta, pensa al suicidio come unica via di uscita. Perché dietro quei numeri ci sono delle persone: donne, vecchi, bambini, uomini sfiancati.
E’ una situazione destinata a porre fine per sempre, in Europa, all’idea di una “normalità” delle nostre vite. Perché i “flussi” visti finora sono destinati a moltiplicarsi. Ma quei profughi non sono migranti: tutti o quasi vorrebbero tornare a casa loro quando tornerà la pace. Ma sanno che non tornerà per molti anni. Nel frattempo cercheranno in tutti i modi di raggiungere l’Europa, anche a rischio della vita. Non hanno alternative. Inoltre, molti di loro vedono nell’Europa un retroterra, la zona forte di un’area che abbraccia Mediterraneo, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, mentre noi europei non sappiamo ancora vedere in quei territori martoriati, in gran parte dalle nostre guerre, una propaggine delle nostre società.
Ma che cosa fa l’Europa e chi governa? Dichiara guerra ai profughi. Ai profughi, non agli scafisti. Bloccare gli scafisti (oggi in Libia, domani chissà dove), posto che sia fattibile, significa condannare centinaia di migliaia di fuggiaschi a rimanere dove sono: alla fame, al freddo e al caldo soffocante; spesso in preda a regimi o bande che li torturano, li rapinano, le stuprano, li uccidono. Fermarli prima che raggiungano la Libia, o altri porti, è ancora peggio: vuol dire allargare il fronte di guerra agli “scafisti del deserto”. Se tante persone fuggono, sapendo che cosa li aspetta, è perché non hanno altra scelta. Voi che cosa fareste al loro posto? Respingerli significa condannarli a morte.
Il popolo tedesco e chi viveva accanto ai campi di sterminio sapevano. Sapevano anche i governi alleati che non bombardavano le ferrovie germaniche per non dover accogliere, a guerra finita, gli ebrei sopravvissuti. Ma neanche Hitler, all’inizio, voleva sterminare gli ebrei; voleva spedirli in Madagascar. Poi…Oggi chi invoca i respingimenti sa benissimo di proporre uno sterminio. Se i profughi noi non li vogliamo, come è possibile costringere a “tenerseli” tanti Stati più fragili dei nostri, senza che ciò significhi autorizzarli a sbarazzarsene in qualsiasi modo?
C’è un’alternativa a tutto ciò? C’è se si ammette che per noi, in Europa, è finita per sempre la normalità. Sette anni di crisi, d’altronde, un po’ ce lo hanno insegnato. Non basta proporre corridoi umanitari perché profughi e fuggiaschi raggiungano in sicurezza le loro mete. Questo affronta (e non risolve) il prima. Ma che ne è del poi? Si possono gestire centinaia di migliaia di profughi, e poi forse milioni, con i Cie, i Cara, gli Sprar? E affidare a ladri di Stato come Buzzi o le associazioni di Alfano la gestione di un sistema che tiene lì a far niente, per anni, persone in gran parte giovani e sane, esibendole in questo ozio forzato a una popolazione aizzata a considerarle nient’altro che un peso? E trasformando la polizia in “scafisti di Stato” per aiutarle a passare i confini, o farle scappare in massa dai centri, o lasciarle ad arrangiarsi in mezzo alla strada, perché la convenzione di Dublino prescriverebbe all’Italia di trattenerle per sempre sul proprio suolo?
Solo ora i governi dell’Unione cominciano a realizzare che quei flussi non si possono fermare nel modo facilone e criminale su cui hanno trovato l’accordo: sorveglianza armata alle frontiere e guerra agli scafisti. E allora si sfilano, uno dopo l’altro, dagli obblighi di solidarietà interstatuale (e se mai accetteranno delle quote, sarà solo per controllare che tutto il resto non possa più sconfinare: per l’Italia sarebbe ancor peggio). I profughi? se la veda il paese dove sbarcano! Ma questa ripulsa della solidarietà interstatuale suona a morto per l’Unione. E se Renzi non ha sollevato la questione quando ne era alla Presidenza, è perché rappresenta più di tutti quella cultura da ragionieri che la sta distruggendo con l’austerity, e che ora pretende di risolvere un problema geopolitico di dimensioni planetarie affondando dei barconi di legno con apparati da guerre stellari.
L’alternativa, allora, è un grande e lungimirante piano di cooperazione allo sviluppo. Quei profughi vogliono tornare a casa loro; molti hanno dei legami con famiglie o comunità già insediate in Europa, ma quasi tutti manterranno anche, come e quando potranno, solidi legami con le comunità da cui sono fuggiti. Adeguatamente assistiti e controllati, possono gestire autonomamente strutture e fondi destinati alla loro permanenza in Europa. Se ben distribuiti sul territorio e protetti con un contrasto efficace alle campagne razziste, possono integrarsi nel tessuto sociale, tessere relazioni, imparare lingua e mestieri, mandare i bambini e i ragazzi a scuola (strumento fondamentale di inclusione). Se coinvolti in piani per dare lavoro a milioni di disoccupati, italiani ed europei – indispensabili per arginare gli effetti della crisi — possono concorrere a creare ricchezza. Se autorizzati e aiutati a organizzarsi, per comunità nazionali, possono costituire con le loro relazioni la base sociale e politica indispensabile per un ritorno alla pace e alla normalità dei loro paesi (altro che terroristi! Chi attraversa vicende del genere è il più grande amico della pace che si possa incontrare). Con loro diventerebbe possibile costruire una rete di relazioni per dare finalmente corpo a una grande comunità euromediterranea.
Il manifesto, 22 maggio 2018
Gli hacker italiani sono tremendi: sembra che nei giorni scorsi abbiano preso il controllo non solo del sito dell’Expo ma perfino di quello del Ministero dell’Istruzione, Università e ricerca. Su entrambi i siti, infatti, compare un testo uguale, destinato alle scuole, dove si legge che all’interno del sito espositivo milanese «non è consentito introdurre qualsiasi tipo di materiale stampato o scritto, contenente propaganda a dottrine politiche, ideologiche o religiose, asserzioni o concetti diversi da quelli esplicitamente autorizzati dalle Autorità di Pubblica Sicurezza».
Dice proprio così: «asserzioni o concetti diversi da quelli esplicitamente autorizzati dalle Autorità di Pubblica Sicurezza», il che implicherebbe che misteriose Autorità di Pubblica Sicurezza possiedano una lista di «asserzioni e concetti autorizzati» e passino il loro tempo a confrontarla con tutte le innumerevoli asserzioni che proliferano su Facebook o Twitter, per verificarne la congruenza. Basterebbe Salvini a riempire le loro giornate lavorative, figuriamoci se poi si volesse controllare ciò che viene detto o scritto nelle scuole italiane che, com’è noto, contengono circa un milione di insegnanti e parecchi milioni di studenti.
Questa improbabile parodia di uno stato totalitario, dove occorre imbavagliare ogni studente che manifesti un «morboso interesse per le questioni politiche e sociali» (come recitava la motivazione dell’espulsione di Giancarlo Pajetta da tutte le scuole del Regno, anno 1927) sembra però che esista davvero e che non sia opera di hacker perché è stata fatta propria niente meno che da Maria Elena Boschi. Il Ministro per le riforme istituzionali, palesemente non rendendosi conto di ciò che diceva, ha sostenuto alla Camera che «Expo Spa è una società privata» e quindi «ai sensi dell’articolo 1341 del codice civile, chiunque voglia accedere ad Expo deve sottostare al regolamento», compreso il divieto dei concetti non preventivamente autorizzati.
Peccato che Expo non sia una società privata poiché i soci sono tutti pubblici, come ha riconosciuto esplicitamente il Consiglio di Stato in una sentenza del 4 febbraio scorso. E peccato che in Italia esista ancora un libercolo (che il ducetto maleducato e Maria Elena vorrebbero abrogare ma che per il momento resta ancora in vigore) dove all’art. 21 si specifica: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Si chiama Costituzione della Repubblica Italiana.
Il che significa che se i deliri dell’Expo e del Miur, palesemente ispirati ai testi di golpisti cileni o argentini sono reali, ci sarebbero parecchie persone che dovrebbero prendersi una lunga vacanza alle Antille: da Giuseppe Sala (commissario del governo e amministratore delegato di Expo) a Stefania Giannini (ministro dell’Istruzione) fino alla già citata Boschi che ignora non solo la natura giuridica dell’Expo ma perfino l’abc del libretto su cui ha giurato entrando in carica il 22 febbraio 2014.
Sbilanciamoci.info, 21 maggio 2015
Tsipras ostenta ottimismo e punta su un «accordo di reciproco vantaggio» da definire nel colloquio con la Merkel e Hollande al Consiglio Europeo di Riga. Varoufakis è ancora più dettagliato: «La rottura delle trattative è fuori dal nostro orizzonte», ha dichiarato lunedì, specificando anche che il nodo più difficile sono le pensioni. «Ci chiedono casse in pareggio con 27% di disoccupazione», si è lamentato il ministro delle Finanze.
Se a Riga sarà fumata nera, allora Atene si avvierà speditamente verso una sospensione dei pagamenti del debito. Dal 5 giugno inizia infatti una sequenza infernale di versamenti che alla fine del mese ammonteranno a 1,2 miliardi. Poi, a luglio e inizi agosto altri 6 miliardi, tra Fmi, Bce e titoli in scadenza. Sono soldi che la Grecia semplicemente non ha.
Anche Varoufakis è convinto che alla fine vincerà la «ragionevolezza». Secondo lui, il dominio di Schauble dentro l’eurogruppo non è assoluto: «Certo, ci sono i fanatici dell’austerità, ma ci sono anche quelli che hanno dovuto subire l’austerità e che ora, per ragioni politiche, non possono dire che hanno sbagliato. E poi ci sono coloro che temono di alzare troppo la voce per non subire a loro volta misure di austerità». Ovviamente, nel secondo gruppo c’è la destra spagnola e portoghese e nel terzo i socialisti francesi e i democratici italiani.
Tsipras è convinto di avere alleati in Europa, seppure occasionali. Non perché piace loro la sinistra radicale greca, ma perché vedono con grande preoccupazione i rischi che comporta l’estremismo liberista tedesco. In sostanza, hanno il fondatissimo sospetto che sul caso greco Schauble stia giocando fino in fondo la sua carta più politica: che la questione del debito esca anche ufficialmente dagli schemi della politica monetaria comune e diventi il paradigma della nuova geometria della politica europea.
L’eventuale espulsione della Grecia dall’eurozona segnerà nel modo più formale l’incompatibilità tra la moneta comune e qualsiasi politica economica espansiva. Berlino smetterebbe di nascondersi dietro ai trattati e mostrerebbe la sua faccia di vero e unico principe europeo. Per ottenere questo, la destra oltranzista tedesca sembra anche disposta a procedere in mezzo alle rovine dell’eurozona. Le ripetute assicurazioni di Schauble sulla presunta «corazza» che la difenderebbe dal fallimento greco esprimono esattamente questo spirito avventuriero: il «ricatto» di Tsipras non deve passare, costi quel che costi.
In queste condizioni il progetto di unificazione europea sta arrivando in un punto critico.
La vittoria di Cameron ha aperto la strada verso il referendum britannico sulla permanenza nell’Ue e non è per niente scontato che vincano gli europeisti. Gli umori dei popoli europei li abbiamo potuti tastare in maniera esauriente nelle elezioni europee dell’anno scorso. Infatti, non a caso, i risultati di quelle urne sono stati immediatamente rimossi, censurati e messi tra parentesi. Ora il loro spettro ritorna e batte forte sul tavolo: gli europei sono furiosi con l’Europa, una fetta crescente della popolazione non ne vuole più sapere: o si astiene vistosamente oppure indirizza polemicamente il suo voto verso movimenti antieuropei, spesso di destra.
Lasciando da parte la questione immigrazione, sulla quale (purtroppo) l’Europa incide pochissimo, la protesta popolare si rivolge contro un avversario che si chiama euro e le sue regole.
Negli ultimi 6 anni gli europei hanno assistito a una gestione della crisi apertamente e spietatamente di classe, a una tempesta di tagli, all’abbattimento del costo del lavoro, alla disgregazione dello stato sociale e all’impoverimento della società. Tutto questo in nome di regole applicate da organismi privi di legittimazione democratica.
La «destra» e la «sinistra» non solo hanno «abbandonato» la società ma sono stati «complici» nel far nascere questo mostro, si sente dire, e non è facile smentire questa accusa. Questa nostra tragedia, ovviamente, si svolge di fronte al mondo intero e sarebbe strano che anche i britannici non traggano le loro conseguenze.
Anche Tsipras viene accusato dentro il suo partito di aver tirato le trattative per le lunghe, con il rischio di «annacquare troppo» il programma del governo di sinistra.
La vera accusa però è un’altra e nessuno osa dirla a voce alta: è quella di non aver voluto rompere con l’eurozona, non aver voluto ricorrere da subito alla «bomba atomica» in mano alla Grecia, cioè la sospensione immediata del pagamento del debito. È un’accusa fondata: né Tsipras né Varoufakis hanno voluto sparare per primi e hanno sempre risposto in maniera ferma ma conciliante alle provocazioni di Schauble e dei suoi amici. Il premier greco si è giustificato dicendo che il mandato elettorale diceva: niente austerità ma all’interno dell’eurozona. Una posizione estremamente più complessa e più difficile di quella di Beppe Grillo, di Farage o di Marine Le Pen che vogliono farla finita con l’Ue una volta per tutte.
«una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia». Il manifesto, 221 maggio 2015
Fino ad oggi ci siamo concentrati sul modello di organizzazione istituzionale emerso dal combinarsi dell’Italicum e della riforma del Senato – afferma Stefano Rodotà – La riforma della scuola approvata ieri alla Camera mostra un elemento radicale: l’idea che Renzi ha della società».
Possiamo farne un profilo alla luce delle leggi sul lavoro, della riforma elettorale e di quella costituzionale?
La scuola è la parte più importante del Welfare tradizionale. In un momento in cui aumentano disoccupazione e povertà si dovrebbe investire sul suo ruolo di inclusione per impedire il riprodursi delle disuguaglianze. Invece la riforma disconosce che la scuola sia un corpo sociale composto da soggetti differenziati e ribadisce una fortissima spinta verso la segmentazione sociale. Attacca il contratto nazionale, esclude i corpi intermedi, e in particolare i sindacati, non riconosce la partecipazione democratica espressa dagli insegnanti e dagli studenti che si stanno opponendo. Sono gli elementi già emersi nel Jobs Act che ha portato l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti. In questo modello di società non c’è spazio per la coesione sociale.
Nel Ddl scuola approvato dalla Camera c’è lo «School Bonus», un credito d’imposta al 65% per il biennio 2015 — 2016 e del 50% per 2017, riconosciuto a chi farà donazioni in denaro per le scuole pubbliche o private. Cosa ne pensa?
È una forte spinta verso l’outsourcing. Questa norma è un incentivo a far uscire la scuola dall’ipoteca del pubblico per affidarla ai privati che la gestiranno come meglio credono. È come incentivare a farsi una previdenza privata oppure una sanità privata.
Contrasta con l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esistenza di scuole private «senza oneri per lo Stato»?
Sono stato ostile alla legge sulle scuole paritarie approvata nel 2000. Ci vedevo l’escamotage per aggirare proprio questo articolo. Quando l’hanno scritto, i costituenti non avevano preclusioni ideologiche ma intendevano riconoscere la priorità degli investimenti nella scuola pubblica di ogni ordine e grado. Lo Stato deve in primo luogo permettere che la scuola pubblica funzioni al meglio. Solo quando questa condizione sarà soddisfatta, si potrà pensare di dare un euro anche ai privati. Nel Ddl di Renzi non c’è alcuna una risorsa aggiuntiva ai privati. I fondi a loro destinati sono sottratti alla scuola pubblica.
È stato detto che questa norma rispecchia il pluralismo e, in più, rappresenti la fine di un tabù ideologico della sinistra.
Altro che abbattere un tabù. Ne costruisce un altro: la distinzione tra scuole per abbienti e per non abbienti, di serie A e di serie B. Chi sostiene queste posizioni crede che il ruolo della scuola pubblica sia in contrapposizione con quella dei preti, come si diceva secoli fa quando ero un ragazzino. Il problema è un altro: la scuola pubblica, come spazio pubblico di riconoscimento e confronto, è irrinunciabile perché qui posso costituirmi come cittadino. Se invece dico che ognuno può farsi la propria scuola religiosa, etnica, territoriale o culturale innesco un conflitto. La scuola non è più un luogo dove si apprende a riconoscere l’altro in base alle sue diversità, ma un luogo dove si adempie una funzione pubblica per un numero tendenzialmente riducibile di persone. Tutto questo è in conflitto con l’idea di una società aperta e plurale dove l’uguaglianza esiste nella misura in cui viene riconosciuta la diversità delle opinioni.
Crede che Renzi abbia attribuito al «preside manager» un’importanza paragonabile alla leadership politica che lui intende svolgere in politica e nello Stato?Certamente. È rivelatore di questo atteggiamento il fatto che abbia scelto di usare la lavagna e il gessetto: voi siete gli scolari e io il maestro che vi spiega la riforma. Dopo avere usato tweet e slide ha cambiato la sua comunicazione e si è messo nella posizione di chi parla dall’alto. È la rappresentazione tangibile della concentrazione dei poteri nella figura del presidente del consiglio, prima ancora che nell’esecutivo, che si vuole realizzare con le riforme istituzionali. Con questo disegno di legge Renzi tende a trasferire questa visione del potere a tutti i livelli della società. Alle figure apicali dei presidi affida la missione della scuola, quella di produrre buona cultura, uguaglianza e rispetto dell’altro. Sono d’accordo con chi ha definito questa politica come una «pedagogia del Capo».
Renzi sostiene invece che il preside-manager sarà libero di decidere e di rendere più efficiente la scuola.
Ma il problema della responsabilità dirigenziale non può tradursi nell’accentramento del potere e soprattutto nella possibilità di selezionare i docenti. È lo stesso meccanismo visto all’opera nel Jobs Act: all’imprenditore sono stati concessi sgravi fiscali, l’abolizione dell’articolo 18, per facilitare le assunzioni. In questo modo i diritti dei lavoratori sono stati subordinati al suo potere sociale. Con la riforma della scuola si crea un centro di potere per gestire un istituto con una logica tutta imprenditoriale e ad esso si subordina la partecipazione nella scuola.
Chi si oppone a questa politica è accusato di essere corporativo o un relitto della storia. Come si smonta questa retorica?
Dicendo che quella in atto non è un’opera di sburocratizzazione della società, ma di concentrazione del potere in una sola persona. Nei settori dove questo è accaduto, ad esempio nelle opere pubbliche, sono venuti meno i meccanismi di controllo, di partecipazione e trasparenza. Il potere è stato usato in maniera discrezionale e la corruzione si è moltiplicata.
In Italia è innegabile il problema della burocrazia, non crede?
Ma non lo si risolve aumentando diseguaglianze e ingiustizie. Man mano che si introduce la logica privatistica e l’accentramento della gestione si indeboliscono le possibilità di controllo e di partecipazione. Queste funzioni sono essenziali anche nella vita della scuola il cui scopo è garantire l’inclusione sociale, non la competizione tra le persone.
Perché, fino ad oggi, chi si richiama alla Costituzione non ha prodotto una politica capace di affrontare la sfida di Renzi?
Si è pensato che, tutto sommato, ci sarebbe stato il tempo necessario per aggiustare le cose. Quando poi si sono compresi gli effetti istituzionali e sociali della sua politica è stato troppo tardi. La politica ufficiale non è stata in grado di contrapporsi a Renzi. Questo vale per chi sta nel Pd, ma anche per chi oggi critica l’accentramento dei poteri nell’esecutivo. Questi elementi erano presenti sin dall’inizio e adesso le resistenze sono tardive. Non voglio dire che avevo ragione, quando ci chiamavano «professoroni», né voglio fare la parte della Cassandra ]Ma Cassandra ha sempre avuto ragione. ndr]. Per me è un elemento di autocritica.
Cosa è mancato a questa opposizione?
La visione alternativa di una società dove la politica è stata ridotta all’amministrazione e all’economia. Oggi chi si oppone a Renzi dovrebbe creare forme di auto-organizzazione e di agire politico per riequilibrare la forte concentrazione di potere che si sta realizzando a livello istituzionale. La società deve riconquistare il suo ruolo nel momento in cui lo spazio nelle istituzioni si restringe. Rimettere in movimento questi meccanismi oggi è un problema politico che si devono porre anche chi sta nelle istituzioni. Non si può fare politica solo attraverso gli emendamenti. Quella può permettere di salvarsi l’anima solo quando si discute una legge.
Il manifesto, 22 maggio 2015
Il rapporto. L’organizzazione dei paesi più industrializzati ha registrato un aumento delle differenze tra ricchi e poveri: un fenomeno che con la crisi si è accentuato, e che non si arresta. Dal 2007 al 2011 il 40% della fascia più bassa ha perso il 40% del reddito, mentre i più facoltosi hanno guadagnato il 51%. Le cause: dal dilagare del lavoro precario alla detassazione dei milionari
Siamo arrivati a «un punto critico, le ineguaglianze non sono mai state così forti nei paesi Ocse», afferma Angel Gurria, segretario generale dell’organizzazione che riunisce i 34 paesi più industrializzati. «Stiamo cambiando di dimensione», spiega un economista. Nel terzo rapporto Ocse sulle ineguaglianze, presentato ieri al Château de la Muette, la situazione appare peggiorata rispetto ai precedenti studi (2008 e 2011): dall’inizio della crisi, il 40% della popolazione più povera ha registrato un calo di reddito; tra il 2007 e il 2011 il reddito reale (corretto dagli effetti inflazionistici) della fascia più debole è diminuito di circa il 40%, mentre il 10% più ricco, dal 1995 ha accumulato un aumento del 51%.
All’origine dell’aumento delle ineguaglianze c’è l’esplosione del part time imposto, dei contratti a termine, del precariato, dei tagli al salario per spingere le persone al lavoro autonomo, accollandosi tutti i rischi, forme di occupazione che hanno rappresentato più della metà dei nuovi posti creati nei paesi Ocse dal 1995 al 2013. In più, sottolinea l’Ocse, nei principali paesi industrializzati più della metà del lavoro precario riguarda i giovani sotto i trent’anni. Le donne restano indietro, con salari in media del 15% più bassi degli uomini e il 16% in meno di possibilità di occupare un impiego.
Oggi, nei 34 paesi più ricchi del mondo il 10% della popolazione più agiata ha un reddito 9,6 volte superiore a quello del 10% più povero. Nel 1980 questo scarto era di 7,1 volte superiore, nel 2000 era già salito a 9,1, cioè siamo di fronte a una progressione costante delle diseguaglianze. Questi scarti aumentano in modo esponenziale se si calcolano i patrimoni delle famiglie. La crisi ha aggravato la situazione e accelerato questo fenomeno.
L’Ocse sottolinea le conseguenze negative della crescente ineguaglianza: nei 19 paesi esaminati, avrebbe amputato la crescita di 4,7 punti tra il 1990 e il 2010. E per il futuro il perpetuarsi di questa tendenza è destinato a distruggere il capitale umano e a decurtare le possibilità di crescita dell’economia. C’è stato l’aumento del precariato che è andato di pari passo con la diminuzione dell’efficacia dei meccanismi di redistribuzione, le tasse sono diminuite per i ricchi e ad esse sfuggono largamente le multinazionali grazie al ben oliato meccanismo dell’«ottimizzazione fiscale», oggi sotto accusa anche nella Ue. I tagli alle imposte per i più ricchi, in un mondo dove ormai si è diffusa l’intolleranza fiscale (prima dell’era Reagan, negli Usa il decile più alto era tassato a più dell’80%, percentuale che oggi sarebbe considerata insopportabile), hanno contribuito all’esplosione delle ineguaglianze.
Nel mondo industrializzato ci sono paesi più ineguali di altri. Cile, Turchia, Messico, ma anche Usa e Israele sono tra i più ineguali, mentre Danimarca, Norvegia, Slovenia e Slovacchia sono quelli dove le differenze sono minori, come mette in evidenza la tabella del rapporto Ocse che presenta il coefficiente Gini. La Francia è in una posizione critica, ormai al 21esimo posto per ineguaglianza su 34 paesi: la situazione si sta aggravando con la crisi, il 10% delle persone più ricche ha registrato una crescita del reddito del 2% l’anno (cioè più della media Ocse), mentre il 10% più povero ha subito un calo dell’1% (un po’ meno della media), grazie agli ammortizzatori sociali, non ancora del tutto distrutti. Ma, dal punto di vista della concentrazione patrimoniale, il 10% più ricco controlla più della metà del patrimonio delle famiglie. La presidenza del socialista Hollande non sembra aver avuto alcuna influenza su questo trend di diseguaglianza.
Quest’ultimo rapporto Ocse suggerisce agli stati membri di intervenire, per reintrodurre più efficaci politiche redistributive. Siamo di fronte a un caso di schizofrenia dell’organizzazione, che in numerosi altri rapporti non fa che suggerire da anni la liberalizzazione del mercato del lavoro e il taglio ai diritti come soluzione per uscire dalla crisi e combattere la disoccupazione. È questa la ricetta che viene presentata come Tina (there is no alternative) a tutti gli stati della Ue, dall’Italia fino alla Grecia.
La progressiva distruzione della classe media, che in gran parte si impoverisce, ha già conseguenze politiche, con l’irruzione della destra populista, la crescita della paura e l’illusione di una soluzione nel rifiuto dell’altro. La classe media, che si assottiglia e perde terreno, si sente vittima della mondializzazione e questo comincia ad avere effetti anche geopolitici. In Europa, cresce l’euroscetticismo e la chiusura nazionalista.
Ocse: in Italia si amplia la forbice tra ricchi e poveri
di red.eco.
Il rapporto. Con la crisi la situazione si è aggravata. L'1% dei più facoltosi detiene il 15% della ricchezza nazionale, mentre il 40% della fascia più bassa si deve spartire il 5%. Penalizzati bambini, "atipici" e lavoratrici. Cgil: "Serve una patrimoniale". Uil: "Rinnovare i contratti e restituire il maltolto ai pensionati"
L’1% più ricco della popolazione italiana detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta (definita come la somma degli asset finanziari e non finanziari, meno le passività), praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. Questa è la fotografia della distribuzione della ricchezza nel Belpaese secondo lo studio diffuso ieri dall’Ocse.
In poche parole, se vogliamo tradurla in numeri assoluti, circa 600 mila famiglie italiane (la crème dei ricchi) detengono un patrimonio pari a tre volte quello detenuto da 24 milioni di persone (la fascia più povera).
La crisi ha contribuito ad aumentare le differenze, ad aprire la forbice tra ricchi e poveri: la perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata ben più elevata(-4%) per il 10% più povero della popolazione rispetto al 10% più ricco (-1%).
La ricchezza nazionale netta, dice ancora l’organizzazione parigina, in Italia è distribuita in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolarmente marcata verso l’alto. Il 20% più ricco (primo quintile) detiene infatti il 61,6% della ricchezza, e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero.
Anche nella fascia più ricca, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il 5% più ricco della popolazione detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all’1% più ricco.
In Italia «la povertà è aumentata in modo marcato durante la crisi», in particolare per giovani e giovanissimi, dice l’Ocse. L’aumento del cosiddetto “tasso di povertà ancorata” (soglia fissata all’anno precedente) è stato di 3 punti tra il 2007 e il 2011, il quinto più elevato. La fascia con il maggior tasso di povertà sono gli under 18, con il 17% 4 punti in più della media Ocse, seguita dalla fascia 18–25, con il 14,7%, 0,9 punti sopra la media.
Il fenomeno è evidente fra i bambini (incidenza di povertà del 17% rispetto al 13% della media Ocse) mentre fra gli over 65 il livello è del 9,3% (contro una media del 12,6%). Il 40% della popolazione opera in condizioni «non standard», cioè senza regolari contratti a tempo indeterminato. E le diseguaglianze restano forti fra uomini e donne: solo il 38% delle lavoratrici ha un impiego a tempo pieno contro la media Ocse del 52%.
Particolarmente penalizzati, come è prevedibile, sono i lavoratori atipici. Il tasso di povertà i «non-standard» (autonomi, precari, part time) è al 26,6%, contro il 5,4% per quelle di lavoratori stabili, e il 38,6% per quelle di disoccupati. In particolare, se si fissa a 100 il guadagno medio dei lavoratori con posto fisso, quello degli atipici si ferma a 57, con grosse disparità tra le varie categorie (72 per un autonomo, 55 per un contratto a termine full time, 33 per un contratto a termine part time).
E si resta precari a lungo: tra le persone che nel 2008 avevano un lavoro a tempo determinato, 5 anni dopo solo il 26% era riuscito a ottenere un tempo indeterminato.
L’Italia è il però Paese Ocse con la minor percentuale di famiglie indebitate, il 25,2%, davanti a Slovacchia (26,8%), Austria (35,6%) e Grecia (36,6%), e ben lontana dai livelli delle altre due grandi economie dell’eurozona, Francia (46,8%) e Germania (47,4%), della Gran Bretagna (50,3%) e degli Usa (75,2%).
Le possibili soluzioni? La Cgil chiede una patrimoniale sui redditi e i patrimoni più alti, la Uil chiede il rinnovo dei contratti, anche quelli pubblici, e la restituzione del “maltolto” ai pensionati.