Senza parole. «Il quotidiano inglese rivela che alcuni paesi europei, tra cui Inghilterra e Italia, starebbero trattando con il regime dell'Eritrea (una delle dittature più spietate del mondo) perché impedisca la partenza dei suoi cittadini rinforzando i controlli alle frontiere».
Il manifesto, 16 giugno 2015
Non ha ancora un nome, piano C o piano D, il presunto accordo segreto tra alcuni stati europei e l’Eritrea rivelato ieri dal quotidiano inglese The Guardian. Di sicuro, se confermato, sarebbe un piano concordato con uno stato che i funzionari delle Nazioni Unite e diverse organizzazioni per i diritti umani chiamano “la Corea del Nord dell’Africa”, tanto per dare l’idea del rispetto dei diritti umani in un regime repressivo e sanguinario come quello del presidente Isaias Afwerki. Secondo il quotidiano inglese, che spesso rivela notizie scomode per i governi europei che stanno annaspando di fronte alla cosiddetta “emergenza” immigrazione — come quando ha reso pubblico un documento in cui si parlava di operazioni di terra in Libia per distruggere le barche degli scafisti — alcuni paesi avrebbero avviato delle trattative segrete per convincere il regime eritreo a rinforzare i controlli alle frontiere. L’obiettivo prefigura un disastro umanitario: blindare i confini per impedire con la forza la fuga dei cittadini eritrei verso l’Europa. Ci sarebbe anche un premio: in cambio arriverebbero soldi oppure un ammorbidimento delle sanzioni.
Per questo motivo è già finito nel mirino il segretario di stato norvegese Joran Kellmyr che si sarebbe recato in Eritrea per concordare l’ipotesi di poter rispedire indietro i profughi eritrei, facendo carta straccia del diritto di asilo. La rivelazione per ora avrebbe coinvolto anche altri due governi europei: quello inglese (il ministero degli Interni di sua Maestà non ha voluto commentare) e quello presieduto dalla coppia Renzi-Alfano (anche a Roma tutto tace). Secondo l’articolo pubblicato ieri, infatti, anche funzionari italiani e britannici avrebbero viaggiato fino ad Asmara per testare la disponibilità del regime eritreo a collaborare per braccare i migranti sui confini. Una rivelazione piuttosto verosimile visto che nel 2014 il 22% delle persone arrivate in Italia via mare proveniva proprio dall’Eritrea.
Gli eritrei, dopo i siriani, sono i migranti più numerosi che cercano fortuna sfidando la morte sulle rive del Mediterraneo per entrare in Europa (circa duecento al giorno lasciano l’Eritrea). Proprio la settimana scorsa alle Nazioni Unite è stato pubblicato un rapporto molto esplicito sulla “cultura del terrore” che domina in Eritrea, si parla di arresti sommari, stupri e torture sistematici, un servizio militare che viene equiparato alla schiavitù, persecuzioni politiche ed esecuzioni sommarie. Nonostante questa situazione, Norvegia e Inghilterra nel corso del 2015 hanno già rifiutato molte domande di asilo politico di cittadini eritrei sostenendo che si trattava di migranti per motivi economici (il tasso di rifiuto è passato dal 13% del 2014 al 23% dei primi sei mesi del 2015). “E’ evidente — ha dichiarato un funzionario dell’Onu – che in Europa c’è una volontà politica di risolvere la crisi dei migranti chiedendo la chiusura dei confini dell’Eritrea ed è una tattica molto pericolosa”. C’è addirittura chi teme che il regime possa sparare ai migranti in fuga.
Secondo un funzionario inglese del ministero degli Interni non ci sarebbero piani immediati per cambiare politica nei confronti dell’Eritrea. E, comunque, “noi prenderemo in considerazione con attenzione i risultati del rapporto delle Nazioni Unite”. Speriamo che Matteo Renzi e Angelino Alfano, nel caso, facciano altrettanto.
Se dopo le elezioni regionali erano suonati i campanelli d’allarme, dopo il voto comunale si sono messe all’opera proprio tutte le campane. Innanzitutto per Renzi e per il suo partito, che adesso non prova neppure a minimizzare e parla apertamente di «una sconfitta».
L’altro elemento rilevante del voto è l’errore di sottovalutare l’avversario dandolo per sconfitto in partenza o considerandolo facilmente battibile. Come sempre, come fin dall’esordio del berlusconismo, a destra non trova casa il virus del tafazzismo, tipica patologia della sinistra, e quando è il momento le divisioni si annullano e il cartello si mostra compatto.
Il tafazzismo, invece, ha contagiato il Movimento dei 5Stelle, conquistato dal tanto peggio tanto meglio. Nella speranza di raccogliere i frutti che gli avversari (tutto il Parlamento) non sono in grado di riprendere. Ma questo riguarda il futuro. Qui e ora va detto che se il M5S strappa qualche importante comune segnando un’altra tappa del suo radicamento, resta che il Movimento soprattutto si distingue per fare da spalla al centro-destra. Come dimostra in pieno il caso Venezia.
Non votare Casson significa non sostenere un personaggio - un magistrato - e una politica - onestà e mani pulite - che rientra perfettamente nella cultura pentastellata. Se le scelte avvenute alle regionali erano oltremodo legittime - un’organizzazione che raccoglie un consenso ampio, deve essere ambiziosa - quella di non partecipare al ballottaggio veneziano è distruttiva e autodistruttiva.
Ma chi deve preoccuparsi più di tutti è il premier/segretario. Dopo questo importante voto amministrativo Renzi dovrebbe prestare meno attenzione alla grancassa mediatica che gli suona la serenata e avere maggior cura alla realtà del paese per quella che è. Se il Pd perde sia con un candidato di sinistra che con uno di destra, vuol dire che lo sfondamento al centro è una chimera e la riconquista di un consenso a sinistra un’illusione. Anche perché l’unico dato nazionale incontrovertibile, indiscutibile e apparentemente anche invincibile resta l’astensionismo. Che colpisce tutti, politica e antipolitica, destra e sinistra.
La fuga dalle urne e l’emorragia di voti del Pd smentiscono le magnifiche sorti delle furbizie costituzionali (l’Italicum) e delle scorciatoie liberiste (jobs act). Del resto la tragedia delle migrazioni, che attraversa i nostri territori mettendo in forse persino la frontiera dell’umana solidarietà, è testimonianza sufficiente per consigliare di tornare con i piedi per terra.
La storia si ripete: Felice Casson affonda un’altra volta nel ballottaggio. E se nel 2005 era un «derby» con la filosofia amministrativa di Massimo Cacciari targato Margherita, domenica la sconfitta dell’intero centrosinistra ha spalancato le porte di Ca’ Farsetti a Luigi Brugnaro, alla Lega Nord, al “civismo” di Francesca Zaccariotto e ai rigurgiti di fascismo.
L’ex pm e senatore Pd “dissonante” è stato condannato dalle urne la seconda volta senza appello. Una notte da incubo, fin dai primissimi risultati. Un verdetto che brucia ogni certezza e squaderna l’abisso. Con Casson che va k.o. dieci anni dopo, s’inabissano la «ditta» d’altri tempi, l’eredità rossoverde e perfino il popolo della sinistra. Nel deserto di Zaialand ci si può a mala pena arroccare nei municipi periferici (Treviso, Vicenza, Belluno), perché l’«effetto Bitonci» è dilagato da Padova a Rovigo mentre la «catastrofe Moretti» ha travolto anche Venezia.
Il risultato del ballottaggio è impietoso. Lo scarto finale è 6.567 voti, cifra che non ammette repliche. Solo la marcia trionfale di Brugnaro (il figlio del poeta-operaio, che ora è paròn di Umana, della Reyer, della Misericordia e della città…) dal quartier generale in Calle del Sale fino alla stanza dei bottoni sul Canal Grande. E il silenzio di Casson che via Twitter ringrazia i sostenitori e si eclissa.
È davvero l’ammainabandiera di Venezia “rossa” con Giovanni Battista Gianquinto, poi “riformista” con Gianni Pellicani e “democratica” con Cacciari, Paolo Costa e Giorgio Orsoni. È una svolta davvero storica, perché bisogna risalire al 1990–93 per ritrovare un sindaco diverso: Ugo Bergamo, notabile Dc, non a caso riemerso fra i supporter di Brugnaro.
In due settimane, laguna e terraferma hanno maturato il drastico cambio di scenario, non solo politico. Brugnaro ha convinto perfino sestrieri come Castello, “roccaforti” come Marghera e l’intero Lido. E con il 10% in meno di votanti rispetto al primo turno, la coalizione di centrodestra si è paradossalmente imposta senza nemmeno fare il pieno dei propri consensi. Brugnaro ha chiuso con 54.405 preferenze contro le 47.838 di Casson. Ma sulla carta gli apparentamenti avrebbero dovuto sommare ai 34.790 voti fucsia, i 14.482 della Lega e gli 8.292 della Civica Zaccariotto per un totale di 57.564.
Al contrario, lo schieramento Civica Casson, Pd, Verdi, Sel, Socialisti e Cd partiva dai 46.298 voti del primo turno. Ma è lampante che quei 1.540 elettori in più di domenica non hanno compensato gli astensionisti incalliti e nemmeno i «traditori» nel segreto dell’urna. I primi incarnano forse l’effetto Mose, ma anche la disillusione nei confronti del Pd nazionale e lagunare. Ma gli altri rivelano il bizantinismo business oriented di lobby, salotti e mandarini che fin dalle Primarie hanno messo sabbia nel motore di Casson.
Non è un mistero per nessuno che a Venezia (e nel Veneto) il «sistema Galan»contasse sulla concertazione formato Consorzio Venezia Nuova. Da almeno un anno erano al lavoro, su opposte sponde, i vecchi “referenti” dei nuovi equilibri. Hanno sbaragliato il campo e si preparano ad un lustro all’insegna della sintonia fra il governatore post-leghista Luca Zaia e il sindaco post-berlusconiano Brugnaro. Forse, non è un caso che i rispettivi “partiti elettorali” abbiano monopolizzato i consensi tanto alle Regionali come alle Comunali…
Venezia, poi, riassume la più devastante deriva demokrac. Il partito collassato ben prima e peggio di Ale Moretti e Casson. L’eredità europea dissipata ad ogni angolo del Nord Est (sintomatico Portogruaro, dove Maria Teresa Senatore umilia il designato Pd che aveva 17 punti di vantaggio). E la deriva impazzita dei sindaci anti-migranti, sceriffi e decisionisti che riduce a simulacro iscritti, circoli e dirigenti.
«Il Pd a Venezia ha raccolto quel che ha seminato» sintetizza Tommaso Cacciari, attivista del laboratorio Morion e del Comitato No Grandi Navi. Tant’è che in terraferma, nel centro storico e nelle isole nessuno punta l’indice su Casson e tutti preferiscono aprire la caccia ai «battitori liberi» targati Pd. Sussurri e grida su vendette personalizzate, indicazioni eretiche alla guardia imperiale dell’ex Pci, addirittura voti di scambio nel ballottaggio di project, appalti e cantieri.
Intanto, a Venezia si riparte dalle municipalità (5 di centrosinistra, solo Favaro con Brugnaro). E dalle 883 preferenze di Nicola Pellicani, sconfitto alle Primarie da Casson e poi capolista della sua lista civica.
Equidistante. Dall’inizio alla fine. Senza sconti né rimpianti. Davide Scano, 39 anni, avvocato, sposato con due figli, non accetta imputazioni per la conquista di Venezia da parte del centrodestra. Anzi, difende senza appello la strategia “grillina” dentro e fuori le urne: «A chi dice che la sconfitta è colpa nostra replico, in tutta sincerità: è una vera sciocchezza. Casson, Pd e centrosinistra non hanno certo perso per il Movimento 5 Stelle. Respingo al mittente questa “ricostruzione” a nome di tutto il nostro gruppo».
Allora perché Casson ha perso la sfida di domenica?
A tanti era risultato assai poco credibile l’impianto del centrosinistra. Neppure al ballottaggio il candidato e ciò che gli sta dietro hanno potuto convincere. Significa, se mai, non aver colto e capito che i segnali di cambiamento maturati a Venezia sono più forti del pantano in cui si dibatte il Partito democratico.
Eppure Casson aveva sottoscritto le vostre cinque richieste-chiave…
In tutta la campagna elettorale si è mosso preoccupato di non scontentare nessuno. E non ha mai dimostrato, davvero e fino in fondo, un impeto di coraggio o un’iniziativa decisa nei confronti del passato o di alcuni “settori” della sua coalizione. Tant’è che già al primo turno il centrosinistra ha scontato un altissimo tasso di astensioni.
Ha pesato lo “scandalo Mose” che giusto un anno fa aveva costretto il sindaco Giorgio Orsoni alle dimissioni?
Non solo. Il vero punto è che i giornali nazionali e locali non hanno raccontato Venezia, perfino al di là degli arresti e delle indagini della Procura. Il Comune viene infatti da decenni di pessime amministrazioni: concentrate sulle connivenze con le categorie e sul clientelismo. Era tutto ingessato, mentre si buttavano soldi dalla finestra.
Perché, secondo il M5S, nemmeno un ex pm e un’alleanza all’insegna della della massima trasparenza bastavano a “salvare” Venezia?
Abbiamo calcolato che dal 2007 a oggi è stato svenduto patrimonio comunale per complessivi 500 milioni: azioni Save e delle Società autostrade, ma anche palazzi e altri immobili. Attualmente, Ca’ Farsetti è sommersa da debiti per un miliardo e mezzo di euro, di cui 200 milioni sono i famigerati derivati. Poi c’è il Casinò che va a ramengo a causa delle clausole contrattuali dei dipendenti per cui non si può nemmeno puntare sui nuovi giochi che ora vanno per la maggiore. Senza dimenticare un altro dato eloquente: a Venezia si spendono due milioni di euro all’anno in consulenze esterne, anche se ci sono 3.300 dipendenti comunali più altri 7 mila delle società partecipate.
Scusi, Scano, ora che farete?
Noi siamo post-ideologici. In aula con le due colleghe elette faremo opposizione più seria, perché anche propositiva. Ci votano come “cani da guardia”, ma a Venezia non siamo neofiti e possiamo contare su una rete ormai consolidata di cittadini attivi.
Niente sconti nemmeno a Brugnaro?
Lui ha provato spesso ad ammiccare, anche prima del ballottaggio. Peccato che soltanto la sua vecchia idea di urbanistica e la partita delle Grandi Navi non lasciano margini né dubbi al nostro giudizio.
Ma, insomma, qual è stata la vera chiave di volta del ballottaggio?
Porto e aeroporto, soprattutto, direi. Da una parte, quel che ruota intorno alla Marittima. E dall’altra il “giro” del Marco Polo, compresi i progetti nel quadrante Tessera. Noi, comunque, aspettiamo Brugnaro anche sulle nuove linee del tram ex Lohr, visto che i costi sono lievitati da 127 a 208 milioni. Il nuovo sindaco, forse un po’ mal consigliato, sostiene che occorre portare il tram fino all’ospedale. Peccato che nella vera città metropolitana basta già la fermata del Smfr, senza bisogno di dirottare tante altre linee di trasporto pubblico.
Ala solidarietà è l’unica strada per arginare futuri disastri, anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto. Non ci sono alternative, se non si vuole che la rabbia egli esclusi, cacciati dalle loro terre dagli errori del Primo mondo, esploda cancellando quello che incontrano sul loro cammino. La Repubblica
«A Venezia il partito non aveva da tempo una buona immagine e Casson non è bastato a rinnovarla, forse anche perché non ci ha provato abbastanza».
La Repubblica, 15 giugno 2015
Venezia scivola verso il centrodestra dopo oltre vent’anni di sindaci di sinistra. È il dato senza dubbio più significativo dei ballottaggi nelle città. Venezia città di frontiera sul piano politico, dentro i confini di una regione tradizionalmente amministrata dal centrodestra, prima Forza Italia e ora la Lega. Venezia laboratorio politico, se così si può dire: tant’è che con Massimo Cacciari ha vissuto l’esperimento di un centrosinistra che contendeva i voti alla marea montante leghista, nel tentativo di suggerire un cambio di passo al partito romano (prima Ds, poi Pd) e di imporre la “questione settentrionale” come problema politico cruciale che la sinistra non poteva ignorare.
«Dopo trent’anni Venezia torna in mano al centrodestra. Scambio di accuse nel partito per la sconfitta di Casson. Il senatore democratico era “un candidato divisivo”, è la recriminazione. Lo ha condannato l’astensione M5S». Si apre una nuova fase, più acuta delle precedenti, di devastazione della città e della Laguna.
La Repubblica, 15 giugno 2015
Venezia. Lo psicodramma in “Largo donatori di sangue” a Mestre, al comitato di Felice Casson. Dove il sangue, figurativamente parlando, sta già scorrendo, tra shock e recriminazioni. Lo champagne a 100 metri di distanza, dove la piazza di Luigi Brugnaro festeggia con «chi non salta comunista è». Poco dopo lo stesso Brugnaro annuncia, mettendo altro sale sulla ferita: «Apriremo la nostra giunta al Pd renziano». Dopo trenta anni Venezia passa a destra, un risultato clamoroso ma non del tutto inaspettato. Il centrosinistra paga pegno un anno dopo lo scandalo del Mose che ha investito la giunta guidata dal pd Giorgio Orsoni, finito in manette e costretto a lasciare Ca’ Farsetti in mano al commissario.
Se la proposta infame dei razzisti nasce da una visione sbagliata del problema, allora è quella visione che va rovesciata: dall'espulsione all'accoglienza. A cominciare dai Rom.
Il manifesto, 14 giugno 2015
Nella sala della Piccola Protomoteca Emma Bonino cita Manzoni: «Il buon senso ancora c’era ma se ne stava acquattato, completamente travolto dal senso comune». Come al solito i Radicali hanno scelto il lavoro più sporco e impopolare, quello più difficile: uscire in strada per contrastare il senso comune costruito e fomentato da anni di campagne mediatiche razziste contro i rom e i «clandestini» e che, con le rivelazioni sulla Mafia capitale, si arricchisce ora di un «velenoso sillogismo», come lo chiama il senatore Pd Luigi Manconi, «di formidabile suggestione»: «Se sui servizi ai rom e sull’assistenza ai profughi si sono costruiti sistemi di corruzione e di speculazione, allora basta eliminare rom e rifugiati».
Così, invece di confidare ancora sull’impegno del consigliere Riccardo Magi, presidente di Radicali italiani, o sul buon senso di (pochi) altri, un comitato di associazioni — A buon diritto, 21 luglio, Cild, Arci Roma, Asgi, Un ponte per, ZaLab e Possibile (di Civati) — hanno dato vita con i Radicali Roma alla campagna «Accogliamoci, per una capitale senza ghetti né ruspe». E al sindaco Marino, Bonino e Magi «ribadiscono la richiesta di presentarsi in Assemblea capitolina con una relazione politica sul malfunzionamento dei controlli interni dell’Amministrazione e di descrivere in modo chiaro pochi punti di riforma e di reale rottura che intende perseguire».
Cinque mila firme da raccogliere in tre mesi per portare le delibere in Assemblea capitolina. Che dovrà votarle, anche dopo un eventuale rinnovo elettorale, pena diffida presso la prefettura (azione a cui dovette ricorrere Magi per costringere l’allora presidente Mirko Coratti a calendalizzare la delibera sul testamento biologico). La prima delibera prevede un’indagine conoscitiva per analizzare le esigenze di ciascun nucleo familiare rom e sinto che vive negli otto villaggi di solidarietà, nei quattro villaggi non attrezzati e nei tre centri di raccolta definiti «discriminatori» nella condanna inflitta il 30 maggio scorso dal Tribunale di Roma al Campidoglio, e che costano milioni di euro l’anno. Un’indagine necessaria per avviare percorsi specifici di vera inclusione.
È prevista inoltre l’elaborazione di un piano per la chiusura dei campi che «definisca i tempi, i modi e gli interventi di accompagnamento all’inserimento abitativo e sociale, attingendo agli stanziamenti già previsti e, laddove possibile, alle linee di finanziamento europeo». Una serie di azioni, queste, che «nemmeno l’attuale assessorato alle Politiche sociali sta mettendo in atto», afferma Magi che smentisce quanto riferito al manifesto dall’assessora Francesca Danese: «Un piano pronto per l’autorizzazione della giunta? A noi non risulta. Da novembre invece hanno in mano le nostre proposte, ma non ne abbiamo saputo più nulla».
Nemmeno i conti riportati da Danese tornano al consigliere comunale: «Siamo passati dai 22 milioni di euro spesi effettivamente nel 2013 nel business della “solidarietà” ai campi rom (e non un euro alle famiglie), al di là delle previsioni iniziali e in nome degli interventi emergenziali, agli attuali 8 milioni previsti nel bilancio preventivo di cassa: come fanno a far partire un piano in attuazione alla strategia nazionale di inclusione senza prevedere qualche risorsa in più, necessaria per il lavoro di mediazione culturale e per l’assegnazione degli alloggi?».
La seconda delibera prevede il monitoraggio e la riorganizzazione, attraverso l’istituzione di una cabina di regia, del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale a Roma. «Un sistema — riferisce Claudio Graziano di Arci Roma — che nell’ultimo anno e mezzo si è decuplicto, passando da 300 a 3 mila strutture di accoglienza: residence, alberghi, grandi centri che hanno alterato il senso anche del sistema Sprar». E invece la soluzione sta in un’accoglienza più diffusa sul territorio e integrata.
Ed è urgente. Perché, come ammonisce Bonino, «l’Europa e l’Italia non possono più sottovalutare il problema strutturale di milioni di profughi che destabilizza il Sahel e tutta l’Africa. E noi non possiamo dimenticare di quante carrette del mare piene anche di italiani sono sprofondate tra la Prima e la Seconda guerra mondiale».
Molte verità, qualche dubbio: serve davvero spegnere le guerre con le guerre? Bisognerebbe almeno prima denunciare e punire chi, nel Primo mondo, quelle guerre ha lasciato maturare, o addirittura le ha provocate.
La Repubblica, 14 giugno 2015
Il primo, la nostra stella, è il comandamento: restare umani. I migranti sono il nostro prossimo. Cercano la nostra mano per mettersi in salvo sulle nostre navi, per sbarcare sulla nostra terra. Questo è quanto. Coloro cui il nostro prossimo piace annegato, sono disgustosi. Noi vogliamo restare umani.
Coloro i quali si limitano ad ammonire che bisogna accogliere tutti, sono meravigliosi, purché vedano il costo. Cambiamenti così bruschi e drammatici, non si governano col richiamo alla fredda razionalità e alla calda morale. Il terreno manca, ci si sente sradicati e derubati — del proprio paesaggio famigliare, delle proprie abitudini, di sé. Quando quella soglia emotiva è superata, ricorrere all’appello alla razionalità, anche la più splendida, è come esortare alla calma una folla presa dal panico. Non importa quanto l’allarme — l’incendio, il naufragio — sia falso o vero. Quella soglia è stata in buona parte superata. Ci dividiamo fra un egoismo che si crede sacro e un altruismo che ignora come il travaso precipitoso di popolazione esasperi uno stato d’animo e minacci uno stile di vita.
Non che la crassa demagogia della Lega non meriti d’essere smascherata; l’ha fatto Enrico Rossi che conosce scabbia e treni pendolari. La Lega vota contro ogni partecipazione a missioni nei luoghi da cui fuggono i migranti, e però è pronta ad aprire il fuoco sui treni. Gridava che Mare Nostrum adescava i migranti. Con Triton aumentarono sia gli arrivi che gli annegati: sconfessione tragica, e hanno fatto finta di niente. Salvini ha la linea: il suo responsabile all’immigrazione, un signore nigeriano, lo accompagnerà ad Abuja, e lui chiederà “ai ministri di quel governo di che cosa hanno bisogno”: così si risolve il problema. In Nigeria: 180 milioni di abitanti, il nordest in mano a Boko Haram, mezzo paese governato dalla Sharia, petrolio e guerre civili a sud, la più forte economia africana, eccetera, e lui gli chiederà: “Di che cosa avete bisogno?”. Vorrei esserci, a vedere che faccia fanno.
Matteo Renzi può essere diabolicamente tentato di restare un po’ meno umano. Amato com’è, anche il Papa ha un problema. La Chiesa cattolica è il baluardo della solidarietà verso lo straniero, e però l’incupimento del sentimento popolare l’ha isolata, in questa degnissima causa, altrettanto che sui temi della sessualità o della fine della vita. Non c’è più un fondo cattolico che sorregga a sufficienza l’italiano brava gente.
Restare umani: ogni volta che ne incontriamo uno, di questi nostri simili che si giocano la vita per un sì o per un no. Intanto distinguere, e far leva sulle innumerevoli buone volontà che si adoperano nell’accoglienza, dissipatamente. Le assurde pratiche sull’asilo. Si può immaginare un Piano, e se paia troppo per i nostri tempi corti, tanti piani minori, invece di dilapidare gente nei Centri-galera e nei giardini delle giostre.
Questo movimento cesserà di essere febbrile se si addomesticherà la Grande Guerra nel vicino oriente. È quello il contagio, altro che la scabbia. Ormai ne parliamo come di un fenomeno di costume: come si passa a fil di lama senza schizzarsi, come si coprono le donne di un sudario nero. Il Califfato ha festeggiato il primo anniversario a Mosul. Là è la questione “epocale”, quello è l’altro polo del nostro impegno a restare umani. C’è una gara col tempo: se quelle guerre non saranno spente, l’Europa andrà in pezzi, e i pezzi saranno fascisti e razzisti. Andato al governo, Renzi poteva dire questo, e prima doveva convincersene. Le sorti di quelle guerre sono affare dell’Europa, quando le arriva ancora una minima risacca: milioni aspettano, nei campi di Libano, Giordania, Turchia, nei lager della Libia. Abbiamo lesinato fucilini di riporto ai curdi, e ventilato incursori subacquei al molo di Zuwara. È ridiventato un problema di Obama: il quale fa il minimo sindacale. L’Europa avrebbe qualcosa da raccontare a quei popoli martoriati: che anche lei ebbe la sua Grande Guerra fratricida, e che perché non tornasse più immaginò di federarsi, e che nonostante tutto la vita vi è ancora libera e dolce abbastanza perché gli scampati dal vicino oriente si mettano a un nuovo repentaglio per raggiungerla. I confini là non esistono più, e restaurarli è un’illusione. Un’Europa capace di queste due cose: contribuire a fermare le guerre di bande, e proporsi come un modo di convivenza rispettosa delle diversità, dovrebbe credere in se stessa. Dopotutto, lo farebbe per salvarsi.
«A Venezia, storica roccaforte, il Pd deve evitare a tutti i costi l’"effetto Moretti". Il capoluogo veneto sarà il vero termometro del turno di ballottaggio, giocato al Nord sul voto in libertà dei "grillini"».
Il manifesto, 14 giugno 2015
È il giorno della verità non soltanto per Felice Casson. L’ex pm e senatore “dissonante” vuole scacciare l’incubo della sconfitta 2005, ma il Pd deve evitare ad ogni costo l’«effetto Moretti» nella storica roccaforte e l’intero “popolo di centrosinistra” può ricacciare l’assalto a Ca’ Farsetti della coalizione di Luigi Brugnaro, fucsia di fuori e verde-nero nell’anima.
Casson non si è risparmiato nel “secondo tempo” della campagna elettorale, conclusa in piazza Ferretto con lo spritz e la colonna sonora di Leonard Cohen. C’era anche Michele Emiliano, nuovo presidente della Puglia, come testimonial: «Come l’amico Felice anch’io ero pubblico ministero: incollavo vasi rotti, perché le industrie avevano già inquinato. Ho cominciato a far politica perché volevo cambiare il mondo. A Bari, decidevano tutto quattro famiglie. Venezia, con Brugnaro, rischia lo stesso». Sintesi efficace.
Venezia sarà comunque il vero termometro del turno di ballottaggio, giocato al Nord sul voto in libertà dei “grillini”. In laguna sono ufficialmente trincerati dietro cinque richieste programmatiche (gestione dei 3.300 dipendenti comunali; moratoria urbanistica; stop al tram già costato 208 milioni; Grandi Navi fuori dalla città storica; accorpamento delle società partecipate), tuttavia il tam tam della vigilia fa rimbalzare il sostegno a Casson già espresso dalle firme di riferimento di Andrea Scanzi e Marco Travaglio.
Il voto di oggi a Venezia decide gli ultimi 15 seggi che garantiscono la maggioranza amministrativa in aula. Cinque sono già stati assegnati ai candidati sindaco (Casson, Brugnaro, Davide Scano del M5S, i civici Bellati e Zaccariotto) e al primo turno sono stati eletti 5 consiglieri della lista Brugnaro, 4 con Casson, 3 del Pd, 2 del M5S e uno a testa di Lega e Fi.
Sfida apertissima a Rovigo: Nadia Romeo, 43enne del Pd, parte dal 24% nel ballottaggio con Massimo Bergamin (Lega-Fi) che inseguiva con il 18% ma che conta sull’apparentamento con Paolo Avezzù di Tosi-Area popolare e Antonio Saccardin della lista “Moderati di centro”. Ago della bilancia di nuovo i 2.589 voti M5S, ma anche i 1.380 della Sinistra con Sel inchiodata a 541 preferenze.
Ma dall’Alto Adige si allunga lo spettro della prima intesa fra Lega e M5S: a Laives, 17 mila abitanti, alla clamorosa sconfitta della sindaca e segretaria provinciale Pd Liliana Di Fede era corrisposta l’impasse numerica della legge elettorale a statuto speciale. Il nuovo sindaco leghista Christian Bianchi (ex Fratelli d’Italia) ha però ottenuto l’appoggio esterno dei due consiglieri grillini, soprattutto in alternativa al “compromesso autonomista” Svp-Pd imploso nell’intera provincia di Bolzano.
È proprio il Carroccio a movimentare le urne come a Faenza (58 mila abitanti nel Ravennate) con Pietro Nenni che rischia di rivoltarsi nella tomba. La Lega vanta un eloquente 15,2% al primo turno, conta sul fronte di centrodestra compresa Forza Nuova al 3% e si appella esplicitamente agli elettori di Grillo che al primo turno erano il 14%. Così Gabriele Padovani accarezza il sogno di vestire la fascia tricolore, anche se Giovanni Malpezzi riparte dal 45% del primo turno. Un test dal marcato significato politico, dunque, nella regione simbolo del “buongoverno” ex Ds e del “modello” Unipol & Legacoop.
Si torna ai seggi anche a Mantova: Mattia Palazzi (Pd, Sel, Popolari e Socialisti) però non teme Paola Bulbarelli, staccata di 20 punti al primo turno. Invece Voghera (Pavia) avrà un nuovo sindaco di centrodestra perché per soli tre voti Pier Ezio Ghezzi non ha raggiunto il ballottaggio che vede in lizza il sindaco forzista Carlo Barbieri e il leghista Aurelio Torriani. Con l’inevitabile spada di Damocle del ricorso che impone la verifica delle schede del 31 maggio…
Periferici, ma altrettanto significativi, i destini dei municipi di Arezzo e Lecco. In Toscana partita aperta fra Matteo Bracciali (Pd, 44,2% al primo turno) e Alessandro Ghinelli (Fi-Lega-FdI, 36%). Nella città natale del ciellino Formigoni, il sindaco uscente di centrosinistra Virginio Brivio (8.251 voti due domeniche fa) deve vedersela con il coetaneo Alberto Negrini (5.582) che potrebbe ricompattare le anime del centrodestra (4.253 voti al candidato sostenuto da Ncd e civiche). Di nuovo: i 1.801 elettori del M5S fanno sempre la differenza…
Venezia. Già senza più rappresentanza nel nuovo consiglio regionale, la città metropolitana domenica sarà a un bivio: si torna alle urne per decidere il sindaco. Ballottaggio fra Felice Casson (alla testa della coalizione disegnata fin dalle primarie) e Luigi Brugnaro (con berluscones e leghisti che sentono l’odore del sangue). I numeri del primo turno fissavano uno scarto di 11.508 voti a favore del centrosinistra. Ma, sulla carta, gli apparentamenti con il Carroccio e la lista di Francesca Zaccariotto valgono 22 mila consensi. Di conseguenza, il vero ago della bilancia sarà l’elettorato del M5S (15.348 voti con il 12,6% che vale tre seggi): fino all’ultimo Davide Scano & C si sono arroccati nella "neutralità" politica.
«Per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione».
Corriere della Sera, 11 giugno 2015 (m.p.r.)
La faglia s’allarga. Da politica, rischia di diventare territoriale e sociale, attestandosi lungo rancori sedimentati tra due Italie. Già così distanti per qualità di servizi e sanità, trasporti e infrastrutture, Nord e Sud s’allontanano ora sull’ultima e più cruda emergenza: i migranti. Che al Sud sbarcano (e in gran parte restano) e al Nord andranno sempre più verso ponti levatoi alzati.
Dal Presidente della Casa della Carità di Milano, un richiamo a trasparenza e solidarietà contro l'attacco all’accoglienza dei dannati della terra sferrato da destra, e un appello ad agire in modo umano e non bestiale (con tutto il rispetto per gli animali).
LaRepubblica, ed. Milano, 6 giugno 2015
Il nuovo capitolo dell’inchiesta di Mafia Capitale sta confermando che le emergenze sociali, come l'arrivo di tanti profughi e migranti, sono diventate un business ricco e appetibile per un sottobosco a cavallo tra malavita e malaffare, malaffare e corruzione politica. È un mix che purtroppo si ripropone spesso e che si ripresenta con una puntualità impressionante in ogni occasione, dal terremoto dell’Aquila al dramma dello smaltimento dei rifiuti nella Terra dei fuochi, con le sue tariffe, le sue minacce e con i suoi sberleffi sguaiati: dalle risate al telefono degli affaristi che si fregano le mani dopo il disastro abruzzese alla mucca che va munta di Mafia capitale.
Sulla pelle di migliaia di persone sfortunate, in fuga da guerre, in lotta per sopravvivere, emerge uno sfruttamento che, in barba ad appartenenze partitiche, a convinzioni ideologiche, a ragionamenti politici, unisce in un fronte unico la peggior politica e la peggior gestione del sociale in Italia. Con la conseguenza che nell’opinione pubblica si fa largo la convinzione che chi accoglie, chi lavora per dare un aiuto ai tanti profughi e migranti che arrivano nei nostri paesi e città, sotto sotto lo fa per interesse. Ovviamente non è così. La passione in cui noi della Casa della carità da dieci anni ci battiamo per offrire, spesso gratuitamente, accoglienza ai tanti che arrivano a Milano a seguito della tante emergenze, la disponibilità dei nostri operatori e dei nostri volontari è la stessa di decine e decine di tante altre organizzazioni, piccole e grandi, che si muovono, tra mille difficoltà, in ogni angolo d’Italia. Conosco onlus, fondazioni e cooperative che nulla hanno da nascondere perché il loro obbiettivo non è mai stato il guadagno, ma la solidarietà a chi ha bisogno.
Purtroppo, in molti casi non è così. In molti casi nella rete degli aiuti si sono infiltrate organizzazioni interessate solo a rastrellare i soldi della diaria riconosciuta per ogni persona accolta in una logica di disinteresse per la qualità del trattamento e per i servizi garantiti. È una delle conseguenze della gestione emergenziale della questione che ripropone la logica dell’appalto al ribasso (non a caso terreno spesso di infiltrazioni mafiose) tipico delle opere pubbliche con l’inevitabile corollario delle conoscenze partitiche nelle amministrazioni e nelle istituzioni. È una spirale che va spezzata subito. La magistratura accerterà illeciti, crimini e responsabilità. Ma sono necessarie anche una mobilitazione delle coscienze e una presa di posizione, forte e chiara, del mondo dell’associazionismo e del volontariato, laico e religioso, che rifiuta il marchio di “sono tutti uguali”. La corruzione politica va combattuta con la trasparenza: ogni numero, ogni convenzione, ogni servizio va documentato, reso noto (magari sul web) perché tutti sappiano nomi, cognomi, ragione sociale, appartenenza di chi ospita e rende un servizio sociale.
L’obbiettivo? Creare il vuoto attorno ai corrotti, far emergere i profittatori e le corruttele, denunciare i legami, quali che siano, con la politica e i suoi portaborse. Ribadire che l’assistenza non è un furto. Chiedere una nuova politica dell’immigrazione che sia rispettosa dei diritti, equa nella suddivisione dei costi sociali da affrontare tutti (in Italia come in tutta Europa), trasparente nella gestione, uniformata nella garanzia di qualità e portatrice di una cultura di responsabilità. La risposta al malaffare non può essere: fermiamo gli arrivi dei migranti. Basta demagogie, basta semplificazioni, basta strumentalizzazioni politiche. Lanciamo tutti insieme una sfida: l’accoglienza onesta, per bene, di qualità, da Lampedusa a Bolzano. Rivendichiamo insieme le nostre esperienze positive, documentiamo i risultati ottenuti, facciamoci sentire. Siamo tanti. Molti di più dei corrotti e dei corruttori.
«Lombardia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta hanno ragione di lamentare un sovraccarico di richiedenti asilo? I dati dicono che il sistema di accoglienza è semmai squilibrato verso Sud. Sommare rifugiati e migranti non è corretto, ma in ogni caso anche l’immigrazione è in calo».
Lavoce.info, 9 giugno 2015 (m.p.r.)
Chi accoglie i rifugiati
La presa di posizione sui profughi del presidente della Lombardia, seguito dai colleghi del Veneto, della Liguria e della Valle d’Aosta, apre una questione delicata: è vero che l’integrazione delle persone è sempre locale, ma diritti difesi dalla Costituzione (articolo 10), nonché dall’Onu e dalle convenzioni internazionali, possono essere messi in discussione da un presidente di regione o addirittura da uno o più sindaci? L’immagine internazionale dell’Italia può dipendere dalle deliberazioni di alcune autorità locali? Per questo, una materia già di per sé sensibile come quella dell’asilo è di pertinenza del governo centrale, ma le resistenze locali tendono a farne un terreno incerto e conteso.
I costi per le comunità locali
Seconda domanda: l’accoglienza è un costo per le comunità locali? In linea di massima, no. Anzi, l’ospitalità agli immigrati porta risorse (i 35 euro al giorno pro capite per i gestori delle strutture). Questo pur modesto tesoretto si traduce in posti di lavoro per operatori locali, acquisto di derrate alimentari, abiti, generi di consumo. Per chi gestisce coscienziosamente l’accoglienza, non restano molti margini, ma intanto un po’ di circolazione di risorse si produce. È senz’altro opportuno coinvolgere i richiedenti asilo in attività socialmente utili: per incrementare le opportunità di socializzazione e integrazione sul territorio, per occupare il tempo in attesa della risposta alla domanda di asilo, per accrescere l’accettazione sociale.
Ma non è vero che i richiedenti asilo siano in debito con le comunità locali, è più vero il contrario.
Terzo: i rifugiati rimangono sul territorio, intasando le strutture e invadendo le città? A parte quanto già spiegato in altri articoli (l’86 per cento dei rifugiati è accolto nei paesi in via di sviluppo), la maggior parte di loro transita e cerca di oltrepassare le Alpi. Dei 170 mila sbarcati nel 2014 soltanto 7 mila hanno chiesto asilo in Italia. Per esempio a Milano, su circa 60 mila profughi transitati negli ultimi due anni, ne sono rimasti 200.
Immigrazione in calo
Quarto: è giusto sommare immigrati e rifugiati? L’immigrazione è aumentata per effetto degli sbarchi? Migranti in cerca di lavoro e richiedenti asilo possono in parte sovrapporsi, ma è importante tenere distinte le due categorie: i secondi hanno diritto a vedere esaminata la propria istanza e se riconosciuti come bisognosi di protezione, in un paese democratico, vanno accolti. Questo oggi è pressoché automatico nel caso di siriani, eritrei e somali, a motivo dei contesti di guerra e repressione da cui cercano scampo.
Nonostante la visibilità e i drammi degli sbarchi, va ricordato che i nuovi ingressi di immigrati sono diminuiti negli ultimi anni, a motivo della crisi economica: nel 2013 sono stati 307 mila, 43 mila in meno rispetto al 2012. Restano tuttavia più numerosi degli sbarcati, anche al lordo dei transiti verso altri paesi. I motivi del rifiuto sono dunque essenzialmente politici. Stupisce un po’ che i maggiori organi d’informazione li raccolgano con enfasi, con titoli in prima pagina come “Il Nord dice basta”.
Da questo punto di vista, l’offensiva del solstizio di Roberto Maroni ha senza dubbio già segnato un punto.
Collocheremmo nella cartella "Stupidario" l'articolo del Giavazzi se non fosse che possiamo corredarlo del gustoso commento di Marco Palombi, inserito in calce. Il primo dal
Corriere della Sera di venerdì 5 giugno, il secondo dal Fatto quotidiano del 7 giugno, Con postilla veneziana
In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.
Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa - le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras - è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.
Dice che la Grecia ha rotto. Dice: cinque anni a parlare di Grecia, che poi è una nazione di pecorari fancazzisti, e intanto la Cina e l’India fanno cose e i cosacchi di Putin, come d’abitudine, vogliono far abbeverare i cavalli a piazza San Pietro. Dice: ma se i greci non si vogliono modernizzare, mettiamoci una croce sopra e via dall’Ue. Dice: hanno votato Tsipras vuol dire che vogliono restare poveri.
Questo non è, come sembra, il riassunto di una conversazione ascoltata in un bar, interrotta dal tintinnare delle tazzine e dal grido dell’ultimo arrivato (“un caffé”), ma il senso dell’editoriale che Francesco Giavazzi venerdì ha affidato alla prima del Corriere della Sera. Uno potrebbe spiegargli che se cinque anni fa la Ue avesse salvato la Grecia invece che le banche tedesche e francesi non staremmo qui a discutere; che le sue idee sui greci sono un po’ razziste; che 5 anni di “riforme” della Troika hanno creato ad Atene una catastrofe umanitaria e che la sua “austerità espansiva” è una boiata. Sarebbe inutile, nel bar c’è casino, Giavazzi non sente e poi sta già spiegando al barista che, per un lavoro così poco qualificato, guadagna troppo.
Replicando agli infantili cinguettii del Primo ministro, Stefano Rodotà lo accusa di comprendere poco e travisare molto, a proposito del tentativo di Landini e di altre cose importanti.
La Repubblica, 10 giugno 2015
Coalizione sociale, creatura di Landini, è diventata, nelle parole di Matteo Renzi, «Coalizione asociale» e Stefano Rodotà, colpevole di aver accusato il premier di applicare, per le faccende di giustizia, (in ultimo Mafia Capitale), lo stesso metodo «peloso e ipocrita» della Prima Repubblica, si è visto recapitare la risposta al vetriolo del giovane premier: «Rodotà? Lui sì che se ne intende di Prima Repubblica!». Comprensibile che il professore non abbia gradito. Da Madrid, dove si trova in queste ore, chiede «più rispetto» per il Movimento appena nato, respinge al mittente presunti feeling con i “compagni” Scalzone e Piperno, presenti alla due giorni di Landini, («Io non li ho nemmeno visti, c’erano 1087 persone») e attacca le ironie di Renzi: «Prima di parlare doveva informarsi. Siamo in presenza di un travisamento gravissimo ».
Professore, lei se ne intende di prima Repubblica?
«Certo. Per tutta la prima Repubblica mi sono battuto contro coloro che applicavano il meraviglioso meccanismo che adesso usa Renzi. Conosco bene la frase: “Io sono garantista. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso”. Con questo sistema, e potendo contare sulla lentezza dei processi, persone che ne avevano combinate di tutti i colori, sono riuscite tranquillamente a rimanere sulla scena politica».
Renzi le ricorda la presunzione di innocenza.
«Figuriamoci, tutti noi dobbiamo essere garantisti. Lo rimando però alla seconda parte dell’articolo 54 della Costituzione. Chi ricopre funzioni pubbliche ha un dovere in più. Deve comportarsi con disciplina e onore. La presunzione di innocenza riguarda i reati, poi c’è la responsabilità politica, l’etica pubblica, del tutto ignorate dalla prima Repubblica. In Renzi ritrovo quel tipo di approccio. Quando ero presidente del Pds, chiesi, inascoltato, una assise sulla corruzione. Manderò i miei libri al presidente».
Arrabbiato?
Un presidente del consiglio non può fermarsi alla superficie delle cose. La due giorni di “Coalizione Sociale” merita rispetto, meritano rispetto le 1087 persone che vi hanno partecipato e le 200 che hanno preso la parola. Evidentemente a Renzi la società non interessa se non è atomizzata. “Parlerò ai professori, parlerò agli alunni...”. Lui va a segmenti. Ma il rifiuto pregiudiziale della conoscenza è politicamente grave e culturalmente inquietante ».
Che ci facevano Scalzone e Piperno da Landini?
«Di due giorni di dibattiti rimane questo? Commentare questa iniziativa a partire da un caso che non esiste è un travisamento gravissimo. Scalzone e Piperno io non li ho visti, non sapevo nemmeno che ci fossero. Mi spiace che anche Cuperlo sia caduto in questa trappola. Anche lui doveva informarsi prima di commentare ».
C’è una sinistra che si agita dentro il Pd, ci sono i cosiddetti laboratori di Vendola e Civati. “Coalizione sociale” cosa vuol essere?
«È una scommessa difficile che parte dall’analisi della situazione italiana: partiti deboli, distinzione attenuata tra governo e Parlamento, a favore del primo, un drammatico difetto di rappresentanza, i cittadini che stanno scomparendo dalla vita pubblica, non vanno a votare, il potere affidato alla minoranza, la politica che si svuota con il rischio di estremismi e populismi...».
Da dove si riparte?
«Dalla società, dal territorio, si diceva una volta. Renzi ha cambiato idea sulla scuola, aprendo a modifiche, solo dopo che la società si è mobilitata. C’è tanta energia, tanta voglia di fare. È necessario creare una rete, non un altro partito. Ripartire dal basso nel nome del ripristino dei diritti e della dignità per tutti, dico tutti. Così hanno fatto Syriza in Grecia e “Podemos” in Spagna. Senza sponda sociale non si va da nessuna parte, senza buona cultura non c’è buona politica. Ma non si tratta di cominciare da zero. Penso alle esperienze tutte italiane di Don Ciotti sulla legalità, ad Emergency di Gino Strada...».
Professore, secondo i suoi parametri, Renzi è di sinistra?
«Non lo so. Lui dice di esserlo. Io non sono tra quelli che pensano che non ci sia più distinzione fra destra e sinistra. La distinzione c’è. Io metto al centro della politica la dignità, l’eguaglianza, i diritti, la redistribuzione delle risorse. Io penso ad un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione. Renzi mi pare insegua un percorso opposto, di riduzione della democrazia costituzionale ».
«Per una Unione euro-mediterranea. Che significa quel "teneteveli", rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne "ospitano" milioni?»,
Il manifesto, 9 giugno 2015
Il capitolo «secessione», che le Regioni leghiste (la “Padania” senza più il Piemonte, ma con in più la Liguria) non erano riuscite ad aprire e legittimare in campo fiscale, viene oggi riproposto sulla questione delle «quote» di profughi e migranti da trasferire al Nord dai porti di sbarco; nonostante che a guidare la rivolta sia proprio Maroni, l’ex-ministro che quelle quote le aveva introdotte. Ma questa volta la fronda leghista avrà un impatto maggiore, perché è in perfetta sintonia con le posizioni che i paesi dell’Unione Europea stanno adottando nell’affrontare lo stesso problema: «Teneteveli».
Cioè: anche se, contro gli intenti originari, la missione Triton è costretta a salvarli, i profughi restino là dove sbarcano. E con loro se la vedano i paesi e le regioni a cui li lasciano in carico. Il default greco non è dunque più l’unica minaccia per la coesione dell’Unione Europea.
Una governance che si comporta così verso i suoi membri non è più la legittima guida dell’Ue, come non sarebbe più uno Stato unitario quello che accettasse una divisione simile tra le sue Regioni.
Le destre italiane ed europee lo sanno, anche se ancora possono — e torna loro comodo — nascondere a se stesse e agli altri le conseguenze di questa linea di condotta: che è destinare allo sterminio milioni di esseri umani. Cioè, proprio la riproposizione di ciò che la Comunità, poi Unione Europea, ha come sua ragion d’essere originaria: che le tragedie prodotte da due guerre mondiali e dai campi di sterminio «non abbiano a ripetersi mai più». Invece sono di nuovo davanti a noi, e tra noi. Non lo si può ignorare. Le deboli forze che in Italia e in Europa si battono per un mondo diverso ne devono prendere atto; anche se questa è in assoluto la più difficile delle battaglie che finora non siamo stati capaci di combattere, e soprattutto di vincere.
Che cosa significa infatti quel «teneteveli», rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma anche a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne «ospitano» già non decine di migliaia, ma milioni? O rivolto a Libia, Tunisia, Sudan, Mali, Niger, ecc.? Paesi, questi, dove non si riesce neppure a fare una conta sommaria degli sbandati (displaced persons) e dove è ormai impossibile distinguere tra profughi di guerra, di persecuzioni politiche, religiose o etniche, di crisi ambientali o di fame e miseria (i cosiddetti migranti economici); anche se l’esito di queste tante concause è quasi sempre una guerra alimentata dal commercio di armi a beneficio di nazioni che le producono.
L’Italia affronta il problema affidandolo a malavita, mafia e malgoverno, gli strumenti tradizionali di gestione di tutte le emergenze vere o inventate: Expò, Mose, rifiuti, terremoti, alluvioni, elezioni, sanità, lavoro nero. Con i profughi, gli affari di mafia e malgoverno si associano a sfruttamento, umiliazione e degrado di coloro che vengono affidati alle loro «cure». Ma anche a crescenti motivi di timore, malcontento, rivolta aperta; a invocazione di poteri forti e soluzioni definitive (o «finali»?); a professioni di razzismo ostentate delle popolazioni locali.
Ma in che modo pensiamo che vengano gestiti in Medio Oriente i campi profughi di milioni di esseri umani senza alcuna prospettiva di ritorno alle loro terre per molti anni? E in Libia, in Sudan, o in tutti gli altri paesi verso cui li vorremmo risospingere? E che cosa ci aspettiamo che facciano i Buzzi o gli Alfano di quei paesi? Il loro lavoro sarà «farli sparire», dopo averli torturati, rapinati e violati in tutti i modi: unica alternativa alla mancata possibilità traghettarli in Europa.
Ma lo Stato italiano, lasciato solo a vedersela con flussi crescenti e incontrollabili, diventerà anch’esso destinatario dei respingi-menti: ridotto a trasformare la polizia, come già sta facendo, in «scafisti di Stato», per cercare di far passare la frontiera, in violazione della convenzione di Dublino, al maggior numero possibile di migranti; o a «esternalizzarne» la gestione a organizzazioni alla Buzzi (ma in campo c’è già anche di peggio); o ad abbandonarli per strada, inscenando fughe di massa dai luoghi di detenzione, e creando così situazioni di degrado e di effettivo pericolo con cui alimentare rivolte sempre più diffuse di comunità locali.
Che l’Italia possa rimanere «agganciata» all’Europa in una situazione del genere è difficile. Ma che l’Europa possa continuare a occuparsi di sforamenti dei deficit dello «0 virgola», senza darsi uno straccio di politica per affrontare, in una prospettiva di pacificazione, la belligeranza endemica ai suoi confini, o le derive autoritarie, nazionalistiche e razziste al suo interno, è altrettanto surreale.
D’ora in poi tutti i progetti per cambiare la società, o la distribuzione del reddito, o per difendere lavoro, territorio, scuola, sanità, cultura, diritti, dovranno confrontarsi con il problema dei profughi e dei migranti: per cercare una via di uscita pacifica e negoziata alla crisi geopolitica del Mediterraneo; e per trovare un posto e un ruolo alle centinaia di migliaia che cercano salvezza in Europa.
Una via di uscita sostenibile, accettabile per tutti, che riduca anziché esacerbare le molte ragioni di contrasto tra locali e migranti; che permetta di vivere l’arrivo di tanti profughi non come una minaccia e un peso insostenibili, bensì – lo hanno dimostrato vicende locali esemplari, come quella di Lampedusa — come un’opportunità di nuove forme di convivenza, di crescita culturale, di apertura politica, di un approccio di respiro euro-mediterraneo ai problemi quotidiani: un approccio, cioè, che riguardi al tempo stesso il nostro continente e i paesi dell’Africa, del Maghreb e del Medio Oriente.
Con un piano che deve, sì, essere europeo, ma che va messo a punto qui, cominciando a dimostrarne la fattibilità per piccoli episodi: a partire da una vigilanza e una contestazione diffuse e di massa su tutti gli affidi in materia di accoglienza e gestione dei profughi.
Innanzitutto i cittadini italiani non devono essere messi nella condizione di temere che a loro siano riservate meno risorse e meno opportunità di quelle destinate a profughi e migranti: dunque, reddito garantito e piani generali per creare lavoro e dare occupazioni e soluzioni abitative decenti a tutti (e fine, quindi, dei patti di stabilità).
Poi, autogestione: è criminale costringere i profughi «accolti» a un ozio forzato di anni e affidare a imprese cosiddette sociali la gestione di ogni aspetto della loro vita quotidiana. Assistiti e controllati, profughi e migranti possono gestire da soli risorse ed edifici riservati alla loro permanenza.
Poi devono essere distribuiti sul territorio, con misure per facilitare contatti e scambi con i locali: accesso a scuole, sanità, attività ricreative, mediazione culturale. Infine devono potersi organizzare anche sul piano politico, valorizzando i contatti tra comunità nazionali già insediate in Europa, e con chi è restato nei paesi da cui sono fuggiti.
La costruzione di una identità regionale – di una comunità euro-mediterranea, da fondare sulle macerie dell’Unione attuale, che ha dimenticato le ragioni che l’hanno fatta nascere — ha bisogno di queste cittadine e cittadini, che qui possono mettere a punto un progetto, un embrione di governo in esilio, e una road map per il riscatto politico e sociale dei loro paesi di origine.
È una strada lunga e tortuosa (come lo è stata quella che ha portato alla fondazione dell’Unione Europea), ma ineludibile per non venir sopraffatti da una guerra permanente ai confini dell’Unione e dal trionfo del razzismo al suo interno.
P.S. Questo è un tema ineludibile per la coalizione sociale, un progetto che poteva nascere un anno fa con L’Altra Europa con Tsipras, ma che è stato disatteso a favore di un ennesimo assemblaggio di inutili partitini; ma che per fortuna è stato ripreso dalla Fiom e da tutti coloro che vi si stanno impegnando.
«Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, perché nulla è cambiato? Come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate».
Corriere Della Sera, 9 Giugno, 2015 (m.p.r.)
«Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale.
Se c’è un aspetto che caratterizza l’elezione di Ada Colau a sindaca di Barcellona (alcaldesa, non è una corruzione del maschile alcalde) ed è l’aver fatto del diritto alla casa ed alla città la base della sua piattaforma politica. La lista civica che l’ha sostenuta, Barcelona en Comú, scaturita dalla fusione della rete di comitati e associazioni Guanyem Barcelona con una serie di partiti, ha vinto proponendo un’idea di nuovo municipalismo che chiede ai cittadini di partecipare alla gestione della città e che contrasta le politiche nazionali soprattutto riguardo alle conseguenze dell’esplosione della bolla immobiliare.
Colau è fondatrice del movimento Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) che dal 2009 si batte per una diversa legislazione sull’insolvenza dei mutui ipotecari in Spagna, dove chi non riesce più pagare il mutuo viene buttato fuori casa dalla banca che poi la lascia vuota ma continua a chiedere il pagamento delle rate. Numerosissimi sono stati i cittadini che dopo aver perso la casa hanno in fine deciso di rinunciare alla vita. Nel 2012 insieme ad Adrià Alemany ha pubblicato Vidas hipotecadas, uno studio sull’origine e sulle conseguenze della bolla immobiliare in Spagna che passa al setaccio il primato iberico nel tasso di possesso dell’abitazione. Prima della crisi economica la Spagna era una nazione di proprietari immobiliari, dove nove cittadini su dieci possedevano la casa in cui vivevano. Questo dato è il principale indicatore della profonda crisi che ha sconvolto il paese negli ultimi sette anni e che ha le sue radici nella politica edilizia del franchismo. La cultura proprietaria della Spagna contemporanea è la pesante eredità di un regime politico che ha fatto del settore delle costruzioni l’industria nazionale per eccellenza. L’indebitamento generalizzato che si è prodotto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, facilitato dai vantaggi fiscali e dall’ingresso della economia spagnola in quella europea, ha fatto il resto.
All’interno di questa eredità – e del progredire del settore edilizio come una delle principali componenti del prodotto interno lordo nazionale - trova spiegazione la legge che dal 1998 disciplina l’uso del suolo, non a caso definita dell’urbanizzazione totale, il cui impressionate risultato sono 6,6 milioni di abitazioni realizzate dalla sua promulgazione fino al 2007. L’impiego in edilizia, attraverso modalità precarie che sono poi state spazzate via dalla crisi, ha riguardato il 13% della popolazione attiva: un dato doppio rispetto, ad esempio, a quello della Germania. In tutto ciò l’intervento della Stato da diretto è diventato indiretto e finalizzato in modo crescente a sostenere la domanda e l’intervento privato nell’edilizia residenziale con strumenti come la detrazione fiscale degli interessi passivi del mutuo. Il grande investimento economico del settore edilizio non ha solo fatto della Spagna una nazione di proprietari immobiliari ma ha anche disseminato il paese di seconde case per il turismo nord-europeo. Il risultato è ciò che qualche tempo fa un servizio fotografico pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian ha definito La costa del concrete, ovvero la quasi totale edificazione del litorale spagnolo che si affaccia sul Mediterraneo.
Il connubio edilizia-turismo a Barcellona significa che la città è stata progressivamente sottratta ai suoi abitanti, facendone una sorta di grande albergo diffuso. Attualmente le presenze turistiche sono tre volte e mezzo i residenti della capitale catalana e l’amministrazione uscente non trovava nulla di male nel pensare che il dato: potesse essere aumentato fino a dieci milioni l’anno. Gli effetti del turismo di massa sulla vita delle persone, il triste declino di Barcellona da metropoli trainante l’economia di un’intera regione a parco tematico - qui si dirige la maggiore quantità di navi da crociera del Mediterraneo e d’Europa - è raccontata nel documentario di Eduardo Chibàs Bye Bye Barcelona, una dettagliata denuncia della progressiva perdita dei diritti di cittadinanza da parte degli abitanti tramite l’inarrestabile privatizzazione dello spazio pubblico incessantemente messo a profitto. Da tempo le manifestazioni e le iniziative di cittadini che protestano contro l’affitto illegale di appartamenti per vacanze, fenomeno favorito dalla deregolamentazione di fatto del cambio di destinazione d’uso degli edifici residenziali in alberghi, denunciano tutto ciò. Alla Barceloneta, lo storico quartiere sul mare, ci sono state assemblee, proteste, e in un caso anche tensioni con i turisti evidentemente ignari di trovarsi in una città, scambiata invece per un villaggio vacanze o un parco a tema.
Nella piattaforma politica di Colau un’abitazione dignitosa per chi l’ha persa – nella sola Barcellona sono 3000 persone che vivono negli alberghi messi a disposizione dalla municipalità e sono 900 coloro che dormono per strada – significa innanzi tutto togliere il settore immobiliare dal dominio della finanza: nel paese con il più alto numero di abitazioni vuote il sistema bancario è diventato il principale proprietario di case. La lotta contro gli sfratti, della quale la nuova alcaldesa è stata protagonista, dopo molti anni di oblio e di retorica sulla competitività e sui costi da pagare allo sviluppo economico ha rimesso al centro dell’agenda politica i fondamentali diritti di cittadinanza. Ora il cambiamento nella governo di una delle più importanti città europee sarà interpretato da una amministrazione guidata da una donna. Lo stesso molto probabilmente succederà a Madrid con Manuela Carmena, l’altro volto femminile della svolta municipalista che ha segnato le elezioni in Spagna.
Riferimenti
A. Colau, A. Alemany, Vidas hipotecadas, Cuadrilatero de libros, 2012.
La terza guerra mondiale, nella quale siamo immersi dalla fine del Primo millennio, nella visione di un papa venuto dal Sud del mondo e dal cuore di una raffinata civiltà.
La Repubblica, 8 giugno 2015
“Scontro fra culture” al plurale, ha concesso Bergoglio, può se mai definirsi la guerra in corso. Non ci si aspetta di meno da un papa colto che ha fatto dell’understatement la propria cifra e del sottotesto il proprio mezzo; che ha adottato il motto di Ignazio di Loyola e di Hölderlin: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est , “Scavalco il grande confinandomi nel piccolo”; che battendosi contro il “tomismo decadente” ha rivendicato il manifestarsi di dio nella rivelazione storica; il cui programma affonda nei millenni e guarda all’eredità dell’ellenismo e di Bisanzio, dunque all’ecumenismo come priorità; che sul dialogo interconfessionale, prima e oltre che interreligioso, gioca la sua partita a scacchi col secolo.
Il pontificato di Bergoglio è in questo senso erede diretto di quello del “papa geopolitico” Wojtyla. Dopo il definitivo esaurirsi nel secolo breve del fantasma imperiale postbizantino il blocco ottomano caduto al suo inizio, nel conflitto innescato proprio a Sarajevo, quello russo-sovietico dissolto alla sua fine, con la caduta del muro e il golpe di Eltsin — il millennio si è aperto su un nuovo scenario di conflitto. La Terza Guerra Mondiale a Pezzi di Bergoglio è molteplice, scava più solchi, dischiude più fronti; faglie di attrito antichissime ricominciano a entrare in moto complesso; un unico macroscopico sussulto tellurico scuote i Balcani, il Caucaso, la Mesopotamia, dilaga nel Medio Oriente, destabilizza e arroventa pezzo a pezzo le aree geografiche in cui i due imperi avevano imposto identità unitarie trasversali sia alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, sia a quella tra religioni. È allora che si insinua nella fantasia collettiva l’idea di uno scontro frontale di civiltà tra oriente islamico e occidente cristiano.
Un’idea che Bergoglio rifiuta. Lo indica già in sé la mossa del cavallo con cui ha fatto slittare il discorso sull’islam allo scacchiere balcanico e partire il messaggio da Sarajevo, covo di antichi demoni e città martire dall’uno all’altro capo del Novecento, menzionando le sue diversità etniche e religiose, sottolineando la sua sofferenza storica, definendola “la Gerusalemme dell’occidente” con l’antico linguaggio che i papi rinascimentali applicarono a Costantinopoli nel primo frangente geopolitico che cinque secoli fa, a metà del quindicesimo, fece riflettere l’élite della curia romana sulla sorte degli equilibri mondiali alla prima islamizzazione ottomana dei Balcani.
Non è un caso che Bergoglio lanci il suo messaggio alla vigilia del G7, dove sia sulla questione ucraina, sia sui dossier Libia, Iraq e Siria il principale invitato è quello assente: il convitato di pietra Putin. Nella Terza Guerra Mondiale a Pezzi l’area slavo-balcanica interseca alla memoria islamica il più decisivo interlocutore di Bergoglio: la chiesa ortodossa, assuefatta a una perdurante fedeltà politica alla sfera russa, che già nel ’99 Julia Kristeva analizzava su Le monde partendo dalla millenaria alterità teologica tra chiesa d’oriente e d’occidente sintetizzabile nella contesa trinitaria sulla processione dello Spirito Santo. Il problema di Francesco, più ancora che quello della jihad, è quello del Filioque. È il risanamento dello scisma tra le chiese cristiane, prima ancora del patteggiamento tra cristianesimo e islam, a pesare nell’agenda del papa che per primo dopo Wojtyla, con raffinatezza gesuitica, ha ripreso il filo della geopolitica.
Altro che "sfida del Nord» al governo" : qui c’è solo miserabile squallore, giustamente stigmatizzato e liquidato. Certi figuri non fanno geografia.
La Repubblica Milano, 8 giugno 2015
C’è una sola parola per definire l‘ultima uscita del governatore leghista della Lombardia Roberto Maroni: miseria. Umana e politica. Minacciare il taglio dei fondi regionali ai sindaci disposti ad accogliere gli immigrati che stanno sbarcando in Italia dopo essere stati salvati dal naufragio è ben più di una “cattiveria”. È abuso ricattatorio della propria carica istituzionale. È appropriazione indebita di una funzione, quella di decidere delle politiche dell’immigrazione, che spetta allo Stato. Ed è una gravissima sottrazione di democrazia nei confronti dei cittadini che con il loro voto hanno eletto i sindaci, quelli favorevoli all’accoglienza e alla solidarietà verso l’immigrazione e anche quelli poco disponibili, che di queste scelte devono essere sempre pienamente responsabili. E su questo venire giudicati dai loro cittadini.
Maroni insegue il suo pupillo e delfino Salvini in una ignobile corsa a chi la spara più grossa. Qualche settimana fa l’escalation si sarebbe spiegata con la campagna elettorale per le Regionali. Ora, è vero, sono imminenti i ballottaggi in qualche decina di Comuni. Tuttavia la sensazione è che questo vociare sguaiato sia entrato stabilmente nel repertorio leghista. Anzi, sia diventato il “sale” anche del leghismo cosiddetto di governo. Non ha alcuna importanza, infatti, se i profughi non hanno per destinazione ultima l’Italia. Non importa se scappano da guerre e persecuzioni. Sono ridiventati, tutti, clandestini. E perciò non solo indesiderabili ma pericolosi per il solo fatto di esistere e pretendere di salvarsi la vita sbarcando in Europa.
Le minacce ritorsive di un presidente di Regione nei confronti dei sindaci hanno un sapore insieme medievale e postmoderno. Si proclama un regime di vassallaggio per una invasione inesistente al fine di accumulare paura: il capitale politico su cui la nuova Lega degli orchi vuole raccogliere consenso. Ma c’è anche il caso che la squallida pagina scritta ieri dal governatore sia molto meno e tutt’altro rispetto a una feroce levata di scudi sull’immigrazione. Com’è noto, infatti, Maroni negli ultimi giorni ha avuto un problema dal quale non riesce a venire fuori. È il cosiddetto “Paturzogate”, ovvero lo strano caso di una consulente assunta da Expo Spa che la Procura ritiene coinvolta in una relazione affettiva con il governatore e che, secondo l’accusa, Maroni voleva assolutamente portare con sé in missione in Giappone, come rappresentante di Expo. Una compagnia che al commissario Giuseppe Sala pareva costosa e fuori luogo.
Coalizione Sociale diventerà dunque un partito e Landini ne sarà il leader? «La prossima volta ve lo dirò in cinese — ha risposto quasi stizzito il segretario Fiom — Coalizione sociale è nata fuori dai partiti, per ricostruire la politica. Non mi faccio ingabbiare dal partito. Inizia un percorso che vuole essere democratico al massimo. Le presenze di questi giorni dimostrano che il bene del Paese si fa cercando di unire ciò che Renzi e il suo governo divide».
Obiettivo della due giorni, ha poi spiegato, è quello di selezionare, attraverso numerosi gruppi di lavoro, tre o quattro temi fondamentali sui quale scatenare delle campagne nazionali che potranno sfociare anche (ma non necessariamente) in referendum. Due temi sono già stati individuati, e sono quelli del jobs act e della riforma della scuola. Gli altri potranno essere legati all’ambiente. C’è grande attesa, intanto, per l’intervento di Stefano Rodotà previsto per oggi.
Nonostante non sia stato consentito loro di parlare, qualche politico s’è affacciato, ieri, al centro Frentani, come i deputati di Sel Nicola Fratoianni e Giorgio Airaudo. E l’europarlamentare Eleonora Forenza della lista Tsipras-L’Altra Europa. «Pur non essendo stati invitati i partiti - ha detto Forenza - l’assemblea di Coalizione sociale ha un valore politico: quello di ricomporre i pezzi di società che il neoliberismo ha diviso». «Siamo qui per ascoltare - ha aggiunto Airaudo - perché non si ricostruisce la politica attraverso i ceti, ma è con il radicamento sociale che si risponde ai problemi dei cittadini che il governo non risolve più».
«L’arrivo in Germania dei «grandi della terra» è stato preparato da un’efficace campagna di mobilitazione che ha visto impegnate molte organizzazioni che si battono “per un altro mondo possibile”. Una rete plurale che ha trovato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: “fermare il Ttip, salvare il clima, combattere la povertà”».
Il manifesto, 7 giugno 2015
Di norma, la ricca e placida Baviera non è teatro abituale di proteste e imponenti manifestazioni. Salvo eccezioni: come quelle, molto positive, di questi giorni. Il motivo? Il vertice del G7 che comincia oggi allo Schloss Elmau, lussuoso hotel nei pressi della località sciistica di Garmisch, al confine con l’Austria: una location esclusiva nella quale la presidente di turno Angela Merkel e i suoi ospiti discuteranno fino a domani dei temi caldi della politica internazionale. In agenda: il Ttip (trattato di «libero scambio» Usa-Ue), il cambiamento climatico (in vista della conferenza di Parigi a fine anno) e le crisi politico-economiche in giro per il pianeta, dall’Ucraina al Medio oriente. Il convitato di pietra è il presidente russo Vladimir Putin, cacciato dall’esclusivo club in seguito all’annessione della Crimea.
L’arrivo in Germania dei «grandi della terra» è stato preparato da un’efficace campagna di mobilitazione che ha visto impegnate molte organizzazioni che si battono «per un altro mondo possibile»: associazioni ambientaliste, Attac, ong come Oxfam, i partiti di opposizione Verdi e Linke, ma anche i giovani della Spd, in contrasto con la linea del leader del partito, il vicecancelliere Sigmar Gabriel. Una rete plurale che ha trovato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: «fermare il Ttip, salvare il clima, combattere la povertà».
Oltre ogni aspettativa l’esito del corteo sfilato per le vie di Monaco giovedì scorso: 40 mila persone di fronte alle quali la cancelliera Merkel si è sentita in dovere di dire che le manifestazioni sono «un segno di vitalità della democrazia». Chissà se la leader democristiana e il suo vice socialdemocratico avranno riflettuto anche sulla «vitalità» dell’opposizione al Ttip proprio nel loro Paese.
La protesta anti-G7 è proseguita ieri (Garmish, nella foto Lapresse), sdoppiandosi. Un appuntamento era direttamente nei pressi del vertice con un’iniziativa sul modello blockupy (l’assedio alla sede Bce a Francoforte), sostenuta da un arco di forze ancora più ampio di quello di giovedì, comprendente anche gli Autonomen dei centri sociali occupati: a sfilare per le strade di Garmisch si sono ritrovati in quasi 10mila (3500 per le forze dell’ordine).
Qualche momento di tensione con la polizia, massicciamente presente, che ha attaccato il corteo con lo spray urticante: per gli organizzatori si è trattato di «un’aggressione senza giustificazioni». L’altro meeting di nuovo a Monaco, nella Königsplatz, per un concerto organizzato da Save the Children e altre organizzazioni non governative.
Malgrado lo «spiacevole passo indietro» rappresentato dall’«inaccettabile» documento presentato giovedì da Dijsselbloem e Juncker, il premier greco continua a ritenere che un accordo sia ora «più vicino che mai». La sua convinzione nasce dall’assoluta certezza che «nell’eurozona prevalgono le forze ragionevoli che vogliono preservare e rafforzare la moneta comune» contro una «minoranza» che cerca di «umiliare» e «sottomettere» un popolo «orgoglioso» come quello greco.
Tsipras ha anche espresso la sua personale certezza che proposte, come quelle avanzate, di tagliare ulteriormente le pensioni e aumentare del 10% il costo della corrente elettrica «non saranno votate da nessun deputato del Parlamento greco». Il leader di Syriza considera la proposta di giovedì quindi come facente parte di una «brutta tattica negoziale» che «non ha ottenuto alcun effetto e molto presto finirà nel dimenticatoio».
Tsipras ha rivolto un appello all’opposizione di scegliere tra le due proposte e di schierarsi a fianco del governo. Appello caduto nel vuoto: l’opposizione di destra e di centro è frantumata, confusa e senza strategia, assolutamente non in grado di incidere minimamente sugli sviluppi. Ma al leader di Syriza il dibattito parlamentare è servito per disarmare le continue grida di questi mesi di Samaras e del leader di To Potami verso il governo di firmare qualsiasi accordo pur di evitare disastri e catastrofi.
«Il popolo ci chiede di resistere e di non cedere alle richieste assurde dei creditori», ha ribadito: «In questi quattro mesi abbiamo pagato per il debito 7,5 miliardi, da un anno il paese non incassa nessun finanziamento, eppure siamo in piedi e abbiamo garantito condizioni di sicurezza per il popolo greco e per quelli di tutta Europa».
Tsipras ha fatto un significativo riferimento allo spostamento del pagamento del debito al Fmi alla fine di giugno, facendo capire che la sospensione dei pagamenti da parte di Atene non è oramai un’eventualità remota ma molto realistica: in quel caso non ci sarà Grexit ma «una traumatica divisione dell’Europa che segnerà il suo fallimento».
TSIPRAS:"NON VOGLIAMO UN ACCORDO
VOGLIAMO LA SOLUZIONE
di Pavlos Nerantzis
Grecia. Il premier: «No ai ricatti e alle umiliazioni. Dalle istituzioni proposte assurde. Vogliamo risolvere in modo definitivo la questione del debito e mettere fine ai timori di Grexit»
Le forze politiche greche sono tutte d’accordo sulla posizione netta del governo greco di non accettare ulteriori misure restrittive, ovvero il piano proposto dai creditori, perché «le conseguenze saranno catastrofiche per il paese». È quanto emerso ieri dal dibattito parlamentare, dopo che un allarme all’esecutivo era partito anche dalla società, dai commercianti, dal mondo imprenditoriale, ai consumatori.
Senza mezze parole viene specificato da tutti che se — come richiesto dalla trojaka — «l’Iva sarà aumentata di dieci punti» la recessione diventerà ancora più profonda.
Secondo un nuovo studio sulla situazione finanziaria delle famiglie greche presentato da economisti dell’Università di Atene «nei primi cinque anni della grave crisi economica, la famiglia media ha perso quasi quattro decimi del proprio reddito». La maggior parte delle perdite registrate (il 23,1%) sono state in reddito diretto. Un ulteriore 8,8% è stato perso a causa di una maggiore imposizione fiscale e un altro 7% per l’inflazione non compensata da un aumento del reddito nel periodo 2008–2012. La ricerca — che si basa sulle dichiarazioni dei redditi di 5,2 milioni di contribuenti — sostiene inoltre che nello stesso periodo preso in esame, la percentuale dei greci che vive al di sotto della soglia di povertà è passata dal 27,9% al 31,1%.
Poche ore dopo l’incontro a Bruxelles tra Tsipras e Juncker , le reazioni ad Atene hanno preso la forma di una valanga. Certo la riunione è stata «buona» e «costruttiva» e ne seguiranno altre, ma a sentire il premier greco, cosa che ha fatto notare durante una teleconferenza a Merkel e Hollande, le proposte presentate dai creditori aumenterebbero la povertà e la dissocupazione, oltre a non essere state discusse al Brussels Group.
L’accordo sarebbe dietro l’angolo, ma nessuna delle due parti è disposta a fare marcia indietro. Oltre a Tsipras non è da escludere che pure i creditori possano chiedere un prolungamento dei negoziati per far passare le loro proposte, ovvero un nuovo pesante memorandum invece di una «soluzione» come chiesto in modo energico da Tsipras in parlamento. Di fatto, dopo la dichiarazione del premier greco, le voci più critiche sono quelle dei strati medi e dei parlamentari di Syriza i quali questa volta provengono non soltanto dalla potente opposizione interna, la «Piattaforma della Sinistra», bensì da tutte le componenti della sinistra radicale greca.
In questo ambito Tsipras ha fatto due mosse: ha deciso di accorpare i quattro pagamenti di giugno al Fmi in un unico esborso il 30 giugno e ha chiesto la riunione straordinaria del parlamento. Il suo obiettivo era doppio: ottenere il consenso più largo possibile sia al seno del suo partito, sia dall’opposizione; guadagnare tempo nei confronti dei suoi interlocutori internazionali.
La necessità è di arrivare ad un accordo al più presto possibile perché l’economia reale soffre, come ha sottolineato l’ ex premier Antonis Samaras, leader dei conservatori della Nea Dimokratia. Samaras deve fare i conti con tanti dirigenti «neodemocratici» e una parte del suo partito che si schierano a favore di un eventuale accordo tra il governo e i creditori internazionali.
Il principale partito dell’opposizione greca è contrario all’eventualitá di elezioni anticipate, ipotesi che viene avanzata da alcuni dirigenti di Syriza in caso non ci sarà un accordo con i creditori, mentre promuove l’idea di un governo di unità nazionale (prospettiva già rifiutata dal governo).
Più o meno simile è stata la posizione del Pasok, che si trova in un momento difficile della sua storia. Dopo la seconda sconfitta elettorale, ieri il Partito socialista greco ha aperto i lavori del suo congresso in vista delle elezioni, il 14 giugno, di un nuovo leader al posto di Evanghelos Venizelos il quale ha già reso noto che non si ricandiderà.
Il congresso è cominciato tra le polemiche dei candidati in carica con Fofi Gennimata, già sostituto ministro della difesa durante il governo di coalizione tra conservatori e socialisti, a lanciare accuse contro il segretario del partito, Nikos Androulakis, candidato pure lui, perché «avrebbe interferito con la selezione dei membri del congresso».
Stavros Teodorakis, il leader del «Potami» (Il fiume), la nuova formazione nell’area del centro-sinistra, si è schierato con Tsipras, pur criticandolo di aver perso troppo tempo senza in realtà trattare con i creditori. A favore di «una rottura con l’ Europa imperialista» sono i comunisti del Kke, il Partito comunista di Grecia. «Se si ottiene un accordo sarà comunque simile a quelli che hanno firmato i governi precedenti» ha detto il segretario del partito, Dimitris Koutsoumbas.
Gli errori criminali dei governi che hanno preceduto la vittoria di Tsipras, la complicità della UE, la volontà tenace delle istituzioni europee di voler cancellare ogni tentativo di contrastare latenaglia dell'austerity neoliberista. Ecco, in sintesi, il dramma della Grecia di oggi - e dell'intera Europa.
Il manifesto, 5 giugno 2015
Il 25 gennaio scorso, il popolo greco ha preso una decisione coraggiosa. Ha osato sfidare la strada a senso unico dell’austerità del Memorandum d’intesa per cercare un nuovo accordo. Un nuovo accordo che consentisse la permanenza del Paese nell’euro, con un programma economico efficiente, senza gli errori del passato.
Per questi errori il popolo greco ha pagato un prezzo alto: negli ultimi cinque anni il tasso di disoccupazione è salito al 28% (per i giovani 60%), il reddito medio è diminuito del 40%, mentre secondo i dati Eurostat la Grecia è diventata il paese europeo con il più alto indice di disuguaglianza sociale. (…) Molti, tuttavia, sostengono che il governo greco non sta cooperando per raggiungere un accordo, perché si presenta ai negoziati intransigente e senza proposte.
È davvero così?
Poiché questi sono tempi critici, forse storici – non solo per il futuro della Grecia, ma anche per il futuro dell’Europa – vorrei cogliere questa occasione per presentare la verità e informare responsabilmente l’opinione pubblica mondiale sulle reali intenzioni e posizioni della Grecia.
Il governo greco, sulla base della decisione dell’Eurogruppo del 20 febbraio, ha presentato un ampio pacchetto di proposte di riforma, al fine di raggiungere un accordo che coniugasse il rispetto del mandato ricevuto dal popolo greco con il rispetto delle regole e delle decisioni che governano l’Eurozona.
Un punto chiave delle nostre proposte è l’impegno a ridurre – e quindi a rendere realizzabili – gli avanzi primari per il 2015 e il 2016, acconsentendo ad avanzi primari più elevati per gli anni successivi, poiché ci aspettiamo un aumento proporzionale dei tassi di crescita dell’economia greca.
Un aspetto altrettanto fondamentale delle nostre proposte è l’impegno ad aumentare le entrate pubbliche attraverso una redistribuzione dell’onere fiscale dalle classi medio-basse a quelle più alte che finora non hanno fatto la loro parte per contribuire a far fronte alla crisi, protette in questo sia dall’élite politica che dalla troika che hanno chiuso un occhio.
Fin dall’inizio, il nostro governo ha chiaramente dimostrato la propria intenzione e determinazione ad affrontare questi problemi approvando una legge specifica sulle frodi causate dalle triangolazioni e intensificando i controlli doganali e fiscali per ridurre il contrabbando e l’evasione fiscale.
Mentre, per la prima volta da anni, abbiamo fatto pagare ai proprietari dei media i loro debiti nei confronti del settore pubblico greco. (…)
Abbiamo presentato proposte concrete concernenti misure che si tradurranno in un ulteriore incremento delle entrate. Queste includono una tassa speciale sui profitti molto alti, una tassa sulle scommesse online, l’intensificazione dei controlli sui titolari di conti bancari con somme ingenti – evasori fiscali, misure per la raccolta degli arretrati del settore pubblico, una speciale tassa sul lusso e una gara di appalto per la radiodiffusione e altre licenze, che la troika aveva stranamente dimenticato negli ultimi cinque anni. (…)
Infine – e nonostante il nostro impegno verso i lavoratori di ripristinare immediatamente la legalità europea del mercato del lavoro, completamente smantellata nel corso degli ultimi cinque anni con il pretesto della competitività – abbiamo accettato di attuare le riforme del lavoro dopo una consultazione con l’Ilo, che ha già espresso un parere positivo sulle proposte del governo greco.
Ciò detto, è ragionevole chiedersi perché i funzionari delle istituzioni insistano a dire che la Grecia non presenta proposte. (…)
Quindi, cerchiamo di essere chiari:
La mancanza di un accordo finora non è dovuta ad una presunta posizione greca intransigente, non incline ai compromessi e incomprensibile.
È invece dovuta all’insistenza di alcuni attori istituzionali nel presentare proposte assurde e mostrare una totale indifferenza verso la recente scelta democratica del popolo greco, nonostante la pubblica assicurazione delle tre Istituzioni sulla concessione della necessaria flessibilità al fine di rispettare il verdetto popolare.
Cosa determina questa insistenza?
Si potrebbe innanzitutto pensare che questa insistenza è dovuta al desiderio di alcuni di non ammettere i propri errori e, invece, di ribadire le loro scelte ignorandone fallimenti.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che alcuni anni fa il Fondo monetario internazionale ha ammesso pubblicamente di aver sbagliato i calcoli della profondità della recessione che sarebbe derivata dal memorandum. (…)
La mia conclusione, quindi, è che la questione greca non riguardi solo la Grecia; piuttosto, è l’epicentro di un conflitto tra due strategie diametralmente opposte riguardanti il futuro dell’unificazione europea.
La prima strategia si propone di approfondire l’unificazione europea nel contesto di uguaglianza e solidarietà tra i popoli e i cittadini. (…)
La seconda strategia si propone proprio questo: la spaccatura e la divisione della zona euro, e quindi della UE.
Il primo passo per la realizzazione di questo obiettivo consiste nel creare una zona euro a due velocità, dove il cuore fisserà regole severe in tema di austerità e di adattamento e nominerà un super ministro delle Finanze dell’Eurozona con potere illimitato e persino la facoltà di rifiutare bilanci di Stati sovrani che non siano allineati con il neoliberismo estremo.
Per quei paesi che rifiutano di piegarsi alla nuova autorità, la soluzione sarà semplice: una punizione severa. Austerità obbligatoria. E, peggio ancora, più restrizioni ai movimenti di capitali, sanzioni disciplinari, multe e persino una moneta parallela.
A giudicare da quanto sta accadendo, sembra che questo nuovo potere europeo sia in costruzione, con la Grecia come prima vittima. (…)
L’Europa è, dunque, a un bivio. A seguito delle serie concessioni fatte dal governo greco, la decisione non è ora nelle mani delle istituzioni, che in ogni caso – con l’eccezione della Commissione europea – non sono elette e non sono responsabili verso il popolo, ma piuttosto nelle mani dei leader europei.
Quale strategia prevarrà? Quella che vuole un’Europa della solidarietà, dell’uguaglianza e della democrazia, o quella che vuole rottura e divisione?
Tuttavia, se alcuni pensano o vogliono credere che tale decisione riguardi solo la Grecia, commettono un grave errore. Vorrei suggerire loro di rileggere il capolavoro di Hemingway “Per chi suona la campana”.
(testo pubblicato su Le Monde del 31 maggio 2015)
Astensionismo
La partecipazione al voto, del 63% alle precedenti regionali e del 59% alle europee, è scesa al 52%. Sull’aumento dell’astensionismo possono aver inciso un solo giorno di vitazioni e il ponte. Ma sicuramente ha pesato il discredito che delle istituzioni regionali a seguito degli scandali degli ultimi anni, circostanza che richiederebbe un ripensamento su decentramento e federalismo ben oltre la demagogica mossa della finta abolizione delle province. Ma c’è qualcosa in più: in Puglia e Campania, due regioni in cui si concentra quasi la metà dei voti, l’astensionismo non è aumentato. E’ invece aumentato molto nelle regioni rosse (dai 10 punti della Liguria ai 15 di Marche ed Umbria, ai 20 della Toscana). Se prima era più alto al sud e più basso al centro nord, e soprattutto nelle regioni rosse, adesso si attesta dappertutto intorno al 50%. E’ chiara la relazione tra aumento dell’astensionismo e flessione di voti al Pd.
Il voto al Pd
In termini di voti di lista il Pd è tornato ai livelli delle regionali del 2010 e delle politiche del 2013. Ma nella lettura del voto di lista regionale non si può trascurare che in queste elezioni si vota separatamente per presidente e liste di partito e che per raccogliere voti si creano liste personali o civiche che tolgono voti ai partiti. Si verifica così uno scarto tra voto di lista al Pd e voto al candidato presidente del Pd. Anche in questo caso torna utile la distinzione prima fatta tra regioni perché se in Puglia e Campania i voti al candidato presidente sono stati più del doppio di quelli al Pd, nelle altre regioni la differenza è minima. In sostanza in Puglia Campania sono state ottenute due vittorie con due personaggi prorompenti che hanno vinto per la loro forza e per le alleanze (in Puglia 8 liste, in Campania 9 liste) spesso discutibili che hanno messo in piedi. Qui, quindi, i voti perduti dal Pd non sono significativi perché se si dovesse votare per le politiche i voti presi dai presidenti rientrerebbero in buona parte nel Pd. Ma nelle altre regioni, dove voti al Pd e voti al Presidente sono vicini, questo ragionamento non vale ed i voti persi sono voti persi. Ed il fatto che essi siano concentrati nelle regioni rosse e nelle regioni in cui si è registrata la maggiore astensione fa pensare che il maggiore astensionismo sia in buona parte dovuto a delusione dell’elettorato di sinistra.
La sinistra e il voto
Se si esclude il caso Liguria, le sinistre sia dove si sono presentate separatamente sia dove si sono presentate insieme ed anche con i movimenti non escono affatto bene da queste elezioni. E’ inutile girarci intorno: pur in una fase come questa con alle spalle lotte, grandi manifestazioni, provvedimenti del governo che con la sinistra non hanno niente a che fare, le sinistre esistenti non riescono a frenare la fuga dei delusi dal Pd verso l’astensione, non riescono a richiamare al voto i vecchi astenuti, non riescono a far tornare ad un voto a sinistra i delusi che si erano spostati verso il M5S, non riescono ad attrarre giovani. Se così è, mi scuso per la crudezza, è bene decidere di metterci una pietra sopra e pensare un percorso radicalmente nuovo.
L’unico caso in cui la sinistra si afferma con una percentuale che può far sperare in un futuro è quello della Liguria dove si è realizzata una condizione nuova, l’unità tra coloro che hanno rotto col Pd e la sinistra che si era aggregata alle europee. Può, questa esperienza, costituire una base di partenza, un laboratorio? Molto dipenderà da come evolverà il confronto dentro il Pd, e questo, a sua volta, dipenderà dalla tempestività e dalla capacità, a sinistra, di qualificarsi come novità, attraente nella forma organizzativa, nella costruzione delle scelte politiche, della democrazia, delle forme di partecipazione. E’ la scommessa che si apre oggi per una nuova sinistra. I tempi sono strettissimi sia perché si sta consolidando un tripolarismo che lascia pochi spazi, sia perché potremmo essere chiamati ad un appuntamento elettorale prima del previsto. Quindi, dalla Liguria, non un modello, ma uno spunto, uno stimolo per provarci.