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Senza parole. «Il quotidiano inglese rivela che alcuni paesi europei, tra cui Inghilterra e Italia, starebbero trattando con il regime dell'Eritrea (una delle dittature più spietate del mondo) perché impedisca la partenza dei suoi cittadini rinforzando i controlli alle frontiere».

Il manifesto, 16 giugno 2015

Non ha ancora un nome, piano C o piano D, il pre­sunto accordo segreto tra alcuni stati euro­pei e l’Eritrea rive­lato ieri dal quo­ti­diano inglese The Guar­dian. Di sicuro, se con­fer­mato, sarebbe un piano con­cor­dato con uno stato che i fun­zio­nari delle Nazioni Unite e diverse orga­niz­za­zioni per i diritti umani chia­mano “la Corea del Nord dell’Africa”, tanto per dare l’idea del rispetto dei diritti umani in un regime repres­sivo e san­gui­na­rio come quello del pre­si­dente Isa­ias Afwerki. Secondo il quo­ti­diano inglese, che spesso rivela noti­zie sco­mode per i governi euro­pei che stanno anna­spando di fronte alla cosid­detta “emer­genza” immi­gra­zione — come quando ha reso pub­blico un docu­mento in cui si par­lava di ope­ra­zioni di terra in Libia per distrug­gere le bar­che degli sca­fi­sti — alcuni paesi avreb­bero avviato delle trat­ta­tive segrete per con­vin­cere il regime eri­treo a rin­for­zare i con­trolli alle fron­tiere. L’obiettivo pre­fi­gura un disa­stro uma­ni­ta­rio: blin­dare i con­fini per impe­dire con la forza la fuga dei cit­ta­dini eri­trei verso l’Europa. Ci sarebbe anche un pre­mio: in cam­bio arri­ve­reb­bero soldi oppure un ammor­bi­di­mento delle sanzioni.

Per que­sto motivo è già finito nel mirino il segre­ta­rio di stato nor­ve­gese Joran Kell­myr che si sarebbe recato in Eri­trea per con­cor­dare l’ipotesi di poter rispe­dire indie­tro i pro­fu­ghi eri­trei, facendo carta strac­cia del diritto di asilo. La rive­la­zione per ora avrebbe coin­volto anche altri due governi euro­pei: quello inglese (il mini­stero degli Interni di sua Mae­stà non ha voluto com­men­tare) e quello pre­sie­duto dalla cop­pia Renzi-Alfano (anche a Roma tutto tace). Secondo l’articolo pub­bli­cato ieri, infatti, anche fun­zio­nari ita­liani e bri­tan­nici avreb­bero viag­giato fino ad Asmara per testare la dispo­ni­bi­lità del regime eri­treo a col­la­bo­rare per brac­care i migranti sui con­fini. Una rive­la­zione piut­to­sto vero­si­mile visto che nel 2014 il 22% delle per­sone arri­vate in Ita­lia via mare pro­ve­niva pro­prio dall’Eritrea.

Gli eri­trei, dopo i siriani, sono i migranti più nume­rosi che cer­cano for­tuna sfi­dando la morte sulle rive del Medi­ter­ra­neo per entrare in Europa (circa due­cento al giorno lasciano l’Eritrea). Pro­prio la set­ti­mana scorsa alle Nazioni Unite è stato pub­bli­cato un rap­porto molto espli­cito sulla “cul­tura del ter­rore” che domina in Eri­trea, si parla di arre­sti som­mari, stu­pri e tor­ture siste­ma­tici, un ser­vi­zio mili­tare che viene equi­pa­rato alla schia­vitù, per­se­cu­zioni poli­ti­che ed ese­cu­zioni som­ma­rie. Nono­stante que­sta situa­zione, Nor­ve­gia e Inghil­terra nel corso del 2015 hanno già rifiu­tato molte domande di asilo poli­tico di cit­ta­dini eri­trei soste­nendo che si trat­tava di migranti per motivi eco­no­mici (il tasso di rifiuto è pas­sato dal 13% del 2014 al 23% dei primi sei mesi del 2015). “E’ evi­dente — ha dichia­rato un fun­zio­na­rio dell’Onu – che in Europa c’è una volontà poli­tica di risol­vere la crisi dei migranti chie­dendo la chiu­sura dei con­fini dell’Eritrea ed è una tat­tica molto peri­co­losa”. C’è addi­rit­tura chi teme che il regime possa spa­rare ai migranti in fuga.

Secondo un fun­zio­na­rio inglese del mini­stero degli Interni non ci sareb­bero piani imme­diati per cam­biare poli­tica nei con­fronti dell’Eritrea. E, comun­que, “noi pren­de­remo in con­si­de­ra­zione con atten­zione i risul­tati del rap­porto delle Nazioni Unite”. Spe­riamo che Mat­teo Renzi e Ange­lino Alfano, nel caso, fac­ciano altrettanto.

E' tutta colpa del M5S se a Venezia ha vinto quella destra? Articoli di Norma Rangeri ed Ernesto Milanesi e intervista a Davide Scano. Il manifesto, 16 giugno 2015

NEL DESERTO DELLE URNE
di Norma Rangeri

Il manifesto, 16 giugno 2015

Se dopo le ele­zioni regio­nali erano suo­nati i cam­pa­nelli d’allarme, dopo il voto comu­nale si sono messe all’opera pro­prio tutte le cam­pane. Innan­zi­tutto per Renzi e per il suo par­tito, che adesso non prova nep­pure a mini­miz­zare e parla aper­ta­mente di «una sconfitta».

La dop­pia bato­sta di Vene­zia e Arezzo, ven­ten­nali roc­ca­forti del cen­tro­si­ni­stra, col­pi­sce il premier-segretario sia come pre­si­dente del con­si­glio che come lea­der di par­tito. Né Cas­son, un can­di­dato che avrebbe dovuto fare il pieno dei voti di sini­stra, né il ren­zia­nis­simo Brac­cialli che avrebbe dovuto sfon­dare nel campo avverso, hanno avuto il con­senso degli elet­tori. Al con­tra­rio, in Laguna come nella pro­vin­cia toscana, sono stati pre­miati un impren­di­tore e un inge­gnere, due por­ta­ban­diera delle forze di cen­tro­de­stra, espo­nenti della società utili a nascon­dere i par­titi sotto il tap­peto. Ha poco di che ral­le­grarsi il vivace Bru­netta con Forza Ita­lia che a Vene­zia non arriva nem­meno al 4%, e hanno poco da recri­mi­nare sulle divi­sioni quelli del Pd se pro­prio il par­tito è stato abbon­dan­te­mente supe­rato dalla lista di Casson.

L’altro ele­mento rile­vante del voto è l’errore di sot­to­va­lu­tare l’avversario dan­dolo per scon­fitto in par­tenza o con­si­de­ran­dolo facil­mente bat­ti­bile. Come sem­pre, come fin dall’esordio del ber­lu­sco­ni­smo, a destra non trova casa il virus del tafaz­zi­smo, tipica pato­lo­gia della sini­stra, e quando è il momento le divi­sioni si annul­lano e il car­tello si mostra compatto.

Il tafaz­zi­smo, invece, ha con­ta­giato il Movi­mento dei 5Stelle, con­qui­stato dal tanto peg­gio tanto meglio. Nella spe­ranza di rac­co­gliere i frutti che gli avver­sari (tutto il Par­la­mento) non sono in grado di ripren­dere. Ma que­sto riguarda il futuro. Qui e ora va detto che se il M5S strappa qual­che impor­tante comune segnando un’altra tappa del suo radi­ca­mento, resta che il Movi­mento soprat­tutto si distin­gue per fare da spalla al centro-destra. Come dimo­stra in pieno il caso Venezia.

Non votare Cas­son signi­fica non soste­nere un per­so­nag­gio - un magi­strato - e una poli­tica - one­stà e mani pulite - che rien­tra per­fet­ta­mente nella cul­tura pen­ta­stel­lata. Se le scelte avve­nute alle regio­nali erano oltre­modo legit­time - un’organizzazione che rac­co­glie un con­senso ampio, deve essere ambi­ziosa - quella di non par­te­ci­pare al bal­lot­tag­gio vene­ziano è distrut­tiva e autodistruttiva.

Ma chi deve pre­oc­cu­parsi più di tutti è il premier/segretario. Dopo que­sto impor­tante voto ammi­ni­stra­tivo Renzi dovrebbe pre­stare meno atten­zione alla gran­cassa media­tica che gli suona la sere­nata e avere mag­gior cura alla realtà del paese per quella che è. Se il Pd perde sia con un can­di­dato di sini­stra che con uno di destra, vuol dire che lo sfon­da­mento al cen­tro è una chi­mera e la ricon­qui­sta di un con­senso a sini­stra un’illusione. Anche per­ché l’unico dato nazio­nale incon­tro­ver­ti­bile, indi­scu­ti­bile e appa­ren­te­mente anche invin­ci­bile resta l’astensionismo. Che col­pi­sce tutti, poli­tica e anti­po­li­tica, destra e sinistra.

La fuga dalle urne e l’emorragia di voti del Pd smen­ti­scono le magni­fi­che sorti delle fur­bi­zie costi­tu­zio­nali (l’Italicum) e delle scor­cia­toie libe­ri­ste (jobs act). Del resto la tra­ge­dia delle migra­zioni, che attra­versa i nostri ter­ri­tori met­tendo in forse per­sino la fron­tiera dell’umana soli­da­rietà, è testi­mo­nianza suf­fi­ciente per con­si­gliare di tor­nare con i piedi per terra.

CASSON AFFONDA UN'ALTRA VOLTA
di Ernesto Milanesi
. Storica vittoria del centrodestra con Luigi Brugnaro. Come nel 2005 l’ex pm sconfitto al ballottaggio, nonostante 1.540 voti in più rispetto al primo turno. E nel Pd si apre la caccia ai «traditori»

La sto­ria si ripete: Felice Cas­son affonda un’altra volta nel bal­lot­tag­gio. E se nel 2005 era un «derby» con la filo­so­fia ammi­ni­stra­tiva di Mas­simo Cac­ciari tar­gato Mar­ghe­rita, dome­nica la scon­fitta dell’intero cen­tro­si­ni­stra ha spa­lan­cato le porte di Ca’ Far­setti a Luigi Bru­gnaro, alla Lega Nord, al “civi­smo” di Fran­ce­sca Zac­ca­riotto e ai rigur­giti di fasci­smo.

L’ex pm e sena­tore Pd “dis­so­nante” è stato con­dan­nato dalle urne la seconda volta senza appello. Una notte da incubo, fin dai pri­mis­simi risultati. Un ver­detto che bru­cia ogni cer­tezza e squa­derna l’abisso. Con Cas­son che va k.o. dieci anni dopo, s’inabissano la «ditta» d’altri tempi, l’eredità ros­so­verde e per­fino il popolo della sini­stra. Nel deserto di Zaia­land ci si può a mala pena arroc­care nei muni­cipi peri­fe­rici (Tre­viso, Vicenza, Bel­luno), per­ché l’«effetto Bitonci» è dila­gato da Padova a Rovigo men­tre la «cata­strofe Moretti» ha tra­volto anche Venezia.

Il risul­tato del bal­lot­tag­gio è impie­toso. Lo scarto finale è 6.567 voti, cifra che non ammette repli­che. Solo la mar­cia trion­fale di Bru­gnaro (il figlio del poeta-operaio, che ora è paròn di Umana, della Reyer, della Mise­ri­cor­dia e della città…) dal quar­tier gene­rale in Calle del Sale fino alla stanza dei bot­toni sul Canal Grande. E il silen­zio di Cas­son che via Twit­ter rin­gra­zia i soste­ni­tori e si eclissa.

È dav­vero l’ammainabandiera di Vene­zia “rossa” con Gio­vanni Bat­ti­sta Gian­quinto, poi “rifor­mi­sta” con Gianni Pel­li­cani e “demo­cra­tica” con Cac­ciari, Paolo Costa e Gior­gio Orsoni. È una svolta dav­vero sto­rica, per­ché biso­gna risa­lire al 1990–93 per ritro­vare un sin­daco diverso: Ugo Ber­gamo, nota­bile Dc, non a caso rie­merso fra i sup­por­ter di Brugnaro.

In due set­ti­mane, laguna e ter­ra­ferma hanno matu­rato il dra­stico cam­bio di sce­na­rio, non solo poli­tico. Bru­gnaro ha con­vinto per­fino sestrieri come Castello, “roc­ca­forti” come Mar­ghera e l’intero Lido. E con il 10% in meno di votanti rispetto al primo turno, la coa­li­zione di cen­tro­de­stra si è para­dos­sal­mente impo­sta senza nem­meno fare il pieno dei pro­pri con­sensi. Bru­gnaro ha chiuso con 54.405 pre­fe­renze con­tro le 47.838 di Cas­son. Ma sulla carta gli appa­ren­ta­menti avreb­bero dovuto som­mare ai 34.790 voti fuc­sia, i 14.482 della Lega e gli 8.292 della Civica Zac­ca­riotto per un totale di 57.564.

Al con­tra­rio, lo schie­ra­mento Civica Cas­son, Pd, Verdi, Sel, Socia­li­sti e Cd par­tiva dai 46.298 voti del primo turno. Ma è lam­pante che quei 1.540 elet­tori in più di dome­nica non hanno com­pen­sato gli asten­sio­ni­sti incal­liti e nem­meno i «tra­di­tori» nel segreto dell’urna. I primi incar­nano forse l’effetto Mose, ma anche la disil­lu­sione nei con­fronti del Pd nazio­nale e lagu­nare. Ma gli altri rive­lano il bizan­ti­ni­smo busi­ness orien­ted di lobby, salotti e man­da­rini che fin dalle Pri­ma­rie hanno messo sab­bia nel motore di Casson.

Non è un mistero per nes­suno che a Vene­zia (e nel Veneto) il «sistema Galan»contasse sulla con­cer­ta­zione for­mato Con­sor­zio Vene­zia Nuova. Da almeno un anno erano al lavoro, su oppo­ste sponde, i vec­chi “refe­renti” dei nuovi equi­li­bri. Hanno sba­ra­gliato il campo e si pre­pa­rano ad un lustro all’insegna della sin­to­nia fra il gover­na­tore post-leghista Luca Zaia e il sin­daco post-berlusconiano Bru­gnaro. Forse, non è un caso che i rispet­tivi “par­titi elet­to­rali” abbiano mono­po­liz­zato i con­sensi tanto alle Regio­nali come alle Comunali…

Vene­zia, poi, rias­sume la più deva­stante deriva demo­krac. Il par­tito col­las­sato ben prima e peg­gio di Ale Moretti e Cas­son. L’eredità euro­pea dis­si­pata ad ogni angolo del Nord Est (sin­to­ma­tico Por­to­gruaro, dove Maria Teresa Sena­tore umi­lia il desi­gnato Pd che aveva 17 punti di van­tag­gio). E la deriva impaz­zita dei sin­daci anti-migranti, sce­riffi e deci­sio­ni­sti che riduce a simu­la­cro iscritti, cir­coli e dirigenti.

«Il Pd a Vene­zia ha rac­colto quel che ha semi­nato» sin­te­tizza Tom­maso Cac­ciari, atti­vi­sta del labo­ra­to­rio Morion e del Comi­tato No Grandi Navi. Tant’è che in ter­ra­ferma, nel cen­tro sto­rico e nelle isole nes­suno punta l’indice su Cas­son e tutti pre­fe­ri­scono aprire la cac­cia ai «bat­ti­tori liberi» tar­gati Pd. Sus­surri e grida su ven­dette per­so­na­liz­zate, indi­ca­zioni ere­ti­che alla guar­dia impe­riale dell’ex Pci, addi­rit­tura voti di scam­bio nel bal­lot­tag­gio di pro­ject, appalti e cantieri.

Intanto, a Vene­zia si riparte dalle muni­ci­pa­lità (5 di cen­tro­si­ni­stra, solo Favaro con Bru­gnaro). E dalle 883 pre­fe­renze di Nicola Pel­li­cani, scon­fitto alle Pri­ma­rie da Cas­son e poi capo­li­sta della sua lista civica.

L’M5S SCANO: «LA SCONFITTA DI CASSON COLPA NOSTRA?
NO, DEL SISTEMA PD»
intervista di Ernesto Milanesi a Davide Scano

Equi­di­stante. Dall’inizio alla fine. Senza sconti né rim­pianti. Davide Scano, 39 anni, avvo­cato, spo­sato con due figli, non accetta impu­ta­zioni per la con­qui­sta di Vene­zia da parte del cen­tro­de­stra. Anzi, difende senza appello la stra­te­gia “gril­lina” den­tro e fuori le urne: «A chi dice che la scon­fitta è colpa nostra replico, in tutta sin­ce­rità: è una vera scioc­chezza. Cas­son, Pd e cen­tro­si­ni­stra non hanno certo perso per il Movi­mento 5 Stelle. Respingo al mit­tente que­sta “rico­stru­zione” a nome di tutto il nostro gruppo».

Allora per­ché Cas­son ha perso la sfida di domenica?
A tanti era risul­tato assai poco cre­di­bile l’impianto del cen­tro­si­ni­stra. Nep­pure al bal­lot­tag­gio il can­di­dato e ciò che gli sta die­tro hanno potuto con­vin­cere. Signi­fica, se mai, non aver colto e capito che i segnali di cam­bia­mento matu­rati a Vene­zia sono più forti del pan­tano in cui si dibatte il Par­tito democratico.

Eppure Cas­son aveva sot­to­scritto le vostre cin­que richieste-chiave…
In tutta la cam­pa­gna elet­to­rale si è mosso pre­oc­cu­pato di non scon­ten­tare nes­suno. E non ha mai dimo­strato, dav­vero e fino in fondo, un impeto di corag­gio o un’iniziativa decisa nei con­fronti del pas­sato o di alcuni “set­tori” della sua coa­li­zione. Tant’è che già al primo turno il cen­tro­si­ni­stra ha scon­tato un altis­simo tasso di astensioni.

Ha pesato lo “scan­dalo Mose” che giu­sto un anno fa aveva costretto il sin­daco Gior­gio Orsoni alle dimissioni?

Non solo. Il vero punto è che i gior­nali nazio­nali e locali non hanno rac­con­tato Vene­zia, per­fino al di là degli arre­sti e delle inda­gini della Pro­cura. Il Comune viene infatti da decenni di pes­sime ammi­ni­stra­zioni: con­cen­trate sulle con­ni­venze con le cate­go­rie e sul clien­te­li­smo. Era tutto inges­sato, men­tre si but­ta­vano soldi dalla finestra.

Per­ché, secondo il M5S, nem­meno un ex pm e un’alleanza all’insegna della della mas­sima tra­spa­renza basta­vano a “sal­vare” Venezia?
Abbiamo cal­co­lato che dal 2007 a oggi è stato sven­duto patri­mo­nio comu­nale per com­ples­sivi 500 milioni: azioni Save e delle Società auto­strade, ma anche palazzi e altri immo­bili. Attual­mente, Ca’ Far­setti è som­mersa da debiti per un miliardo e mezzo di euro, di cui 200 milioni sono i fami­ge­rati deri­vati. Poi c’è il Casinò che va a ramengo a causa delle clau­sole con­trat­tuali dei dipen­denti per cui non si può nem­meno pun­tare sui nuovi gio­chi che ora vanno per la mag­giore. Senza dimen­ti­care un altro dato elo­quente: a Vene­zia si spen­dono due milioni di euro all’anno in con­su­lenze esterne, anche se ci sono 3.300 dipen­denti comu­nali più altri 7 mila delle società partecipate.

Scusi, Scano, ora che farete?
Noi siamo post-ideologici. In aula con le due col­le­ghe elette faremo oppo­si­zione più seria, per­ché anche pro­po­si­tiva. Ci votano come “cani da guar­dia”, ma a Vene­zia non siamo neo­fiti e pos­siamo con­tare su una rete ormai con­so­li­data di cit­ta­dini attivi.

Niente sconti nem­meno a Brugnaro?
Lui ha pro­vato spesso ad ammic­care, anche prima del bal­lot­tag­gio. Pec­cato che sol­tanto la sua vec­chia idea di urba­ni­stica e la par­tita delle Grandi Navi non lasciano mar­gini né dubbi al nostro giudizio.

Ma, insomma, qual è stata la vera chiave di volta del ballottaggio?
Porto e aero­porto, soprat­tutto, direi. Da una parte, quel che ruota intorno alla Marit­tima. E dall’altra il “giro” del Marco Polo, com­presi i pro­getti nel qua­drante Tes­sera. Noi, comun­que, aspet­tiamo Bru­gnaro anche sulle nuove linee del tram ex Lohr, visto che i costi sono lie­vi­tati da 127 a 208 milioni. Il nuovo sin­daco, forse un po’ mal con­si­gliato, sostiene che occorre por­tare il tram fino all’ospedale. Pec­cato che nella vera città metro­po­li­tana basta già la fer­mata del Smfr, senza biso­gno di dirot­tare tante altre linee di tra­sporto pubblico.

Ala solidarietà è l’unica strada per arginare futuri disastri, anche se il prezzo dei sacrifici che pagheremo sarà molto alto. Non ci sono alternative, se non si vuole che la rabbia egli esclusi, cacciati dalle loro terre dagli errori del Primo mondo, esploda cancellando quello che incontrano sul loro cammino. La Repubblica

ZYGMUNT Bauman, oggi uno dei pensatori più influenti del mondo, è stato più volte esule. La prima volta, quando nel 1939, giovane ebreo, scappò dalla Polonia verso la Russia, in condizioni simili a quelle dei profughi che, scampati alle guerre e alla traversata del Mediterraneo, sono in questo momento oggetto più delle nostre paure che di nostra solidarietà. E la dialettica dell’integrazione ed espulsione dei gruppi sociali ai tempi della modernità è uno dei temi che più ha approfondito nelle sue opere. Con Bauman abbiamo parlato di quello che intorno alla questione profughi succede in questi giorni in Italia; tra una destra razzista e una sinistra che stenta ad affrontare le paure di una parte della popolazione.
Sembra che non siamo in grado di far fronte alla questione immigrati.
«Il volume e la velocità dell’attuale ondata migratoria è una novità e un fenomeno senza precedenti. Non c’è motivo di stupirsi che abbia trovato i politici e i cittadini impreparati: materialmente e spiritualmente. La vista migliaia di persone sradicate accampate alle stazioni provoca uno shock morale e una sensazione di allarme e angoscia, come sempre accade nelle situazioni in cui abbiamo l’impressione che “le cose sfuggono al nostro controllo”. Ma a guardare bene i modelli sociali e politici con cui si risponde abitualmente alle situazioni di “crisi”, nell’attuale “emergenza immigrati”, ci sono poche novità. Fin dall’inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state “estranei”, “altri”».

Quindi ne abbiamo paura. Per quale motivo?
«Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura».

La paura porta a creare capri espiatori? E per questo che si parla degli immigrati come portatori di malattie? E le malattie sono metafore del nostro disagio sociale?
«In tempi di accentuata mancanza di certezze esistenziali, della crescente precarizzazione, in un mondo in preda alla deregulation, i nuovi immigrati sono percepiti come messaggeri di cattive notizie. Ci ricordano quanto avremmo preferito rimuovere: ci rendono presente quanto forze potenti, globali, distanti di cui abbiamo sentito parlare, ma che rimangono per noi ineffabili, quanto queste forze misteriose, siano in grado di determinare le nostre vite, senza curarsi e anzi e ignorando le nostre autonome scelte. Ora, i nuovi nomadi, gli immigrati, vittime collaterali di queste forze, per una sorta di logica perversa finiscono per essere percepiti invece come le avanguardie di un esercito ostile, truppe al servizio delle forze misteriose appunto, che sta piantando le tende in mezzo a noi. Gli immigrati ci ricordano in un modo irritante, quanto sia fragile il nostro benessere, guadagnato, ci sembra, con un duro lavoro. E per rispondere alla questione del capro espiatorio: è un’abitudine, un uso umano, troppo umano, accusare e punire il messaggero per il duro e odioso messaggio di cui è il portatore. Deviamo la nostra rabbia nei confronti delle elusive e distanti forze di globalizzazione verso soggetti, per così dire “vicari”, verso gli immigrati, appunto».

Sta parlando del meccanismo grazie a cui crescono i consensi delle forze politiche razziste e xenofobe?
«Ci sono partiti abituati a trarre il loro capitale di voti opponendosi alla “redistribuzione delle difficoltà” (o dei vantaggi), e cioè rifiutandosi di condividere il benessere dei loro elettori con la parte meno fortunata della nazionale, del paese, del continente (per esempio Lega Nord). Si tratta di una tendenza intravvista o meglio, preannunciata molto tempo fa nel film Napoletani a Milano , del 1953, di Eduardo De Filippo, e manifestata negli ultimi anni con il rifiuto di condividere il benessere dei lombardi con le parti meno fortunate del paese. Alla luce di questa tradizione era del tutto prevedibile l’appello di Matteo Salvini e di Roberto Maroni ai sindaci della Lega di seguire le indicazioni del loro partito e non accettare gli immigrati nelle loro città, come era prevedibile la richiesta di Luca Zaia di espellere i nuovi arrivati dalla regione Veneto».

Una volta, in Europa, era la sinistra a integrare gli immigrati, attraverso le organizzazioni sul territorio, sindacati, lavoro politico...
«Intanto non ci sono più quartieri degli operai, mancano le istituzioni e le forme di aggregazione dei lavoratori. Ma soprattutto, la sinistra, o l’erede ufficiale di quella che era la sinistra, nel suo programma, ammicca alla destra con una promessa: faremo quello che fate voi, ma meglio. Tutte queste reazioni sono lontane dalle cause vere della tragedia cui siamo testimoni. Sto parlando infatti di una retorica che non ci aiuta a evitare di inabissarci sempre più profondamente nelle torbide acque dell’indifferenza e della mancanza dell’umanità. Tutto questo è il contrario all’imperativo kantiano di non fare ad altro ciò che non vogliamo sia fatto a noi».

E allora che fare?
«Siamo chiamati a unire e non dividere. Qualunque sia il prezzo della solidarietà con le vittime collaterali e dirette della forze della globalizzazione che regnano secondo il principio Divide et Impera, qualunque sia il prezzo dei sacrifici che dovremo pagare nell’immediato, a lungo termine, la solidarietà rimane l’unica via possibile per dare una forma realistica alla speranza di arginare futuri disastri e di non peggiorare la catastrofe in corso».

«A Venezia il partito non aveva da tempo una buona immagine e Casson non è bastato a rinnovarla, forse anche perché non ci ha provato abbastanza».

La Repubblica, 15 giugno 2015

Venezia scivola verso il centrodestra dopo oltre vent’anni di sindaci di sinistra. È il dato senza dubbio più significativo dei ballottaggi nelle città. Venezia città di frontiera sul piano politico, dentro i confini di una regione tradizionalmente amministrata dal centrodestra, prima Forza Italia e ora la Lega. Venezia laboratorio politico, se così si può dire: tant’è che con Massimo Cacciari ha vissuto l’esperimento di un centrosinistra che contendeva i voti alla marea montante leghista, nel tentativo di suggerire un cambio di passo al partito romano (prima Ds, poi Pd) e di imporre la “questione settentrionale” come problema politico cruciale che la sinistra non poteva ignorare.

Ebbene, Venezia ha smesso di fidarsi del Partito democratico dopo anni di disillusioni. E non si è fidata nemmeno di Felice Casson, l’ex magistrato, il candidato scelto attraverso il solito meccanismo delle primarie. Personaggio connotato come anti-Renzi, Casson; anzi, uno dei più tenaci e puntuali in Parlamento fra gli oppositori del presidente del Consiglio, tanto da essere etichettato come seguace di Civati. Ne deriva che Renzi non piangerà troppo per la sua sconfitta, visto che stavolta si tratta della disfatta di un avversario interno. In realtà per il premier sarebbe stato necessario vincere. Perdere nella più importante delle città in cui si è votato al secondo turno, è in ogni caso un passaggio a vuoto in un momento in cui Palazzo Chigi avrebbe bisogno di buone notizie e non della conferma di trovarsi nel mezzo di un periodo grigio.
Certo, questo risultato non influirà sul quadro nazionale. Ma sarebbe un errore sottovalutare i messaggi che gli elettori veneziani hanno mandato a Roma. Il primo è appunto che il Pd sta attraversando un periodo mediocre. A Venezia il partito non aveva da tempo una buona immagine e Casson non è bastato a rinnovarla, forse anche perché non ci ha provato abbastanza. Si conferma in ogni caso che oggi al Nord sono in difficoltà tanto i candidati vicini al presidente del Consiglio (e segretario del Pd) quanto i suoi avversari, portatori di una diversa idea del partito. Perdono sia le Moretti e le Paita, alle regionali, come i Casson alle comunali.
L’ex magistrato non è riuscito a convogliare su di sé i voti dei Cinque Stelle. Probabilmente gli elettori di Grillo sono rimasti a casa, in buona compagnia visto che circa il 52 per cento dei veneziani non si è scomodato per il secondo turno. Sta di fatto che la vittoria di Brugnaro, uomo pratico con la patina di indipendente, capace di battere sul problema del momento, la sicurezza, indica una notevole capacità di aggregazione da parte di un “uomo nuovo” o che riesce ad apparire tale. Niente Berlusconi a Venezia, niente retorica dei tempi andati. Brugnaro ha nascosto i buchi neri di Forza Italia ed è riuscito a convogliare su di sé i voti di Salvini e anche quelli di un ampio arco di forze eterogenee.
I grillini, come si è detto, probabilmente si sono astenuti. Ma non è senza significato che così facendo abbiano favorito in modo indiretto la vittoria del candidato di centrodestra. Fra un loro amico, quale Casson aveva dimostrato di essere in Parlamento, e un personaggio a loro sconosciuto come Brugnaro hanno preferito lasciar vincere quest’ultimo. È una riflessione che senza dubbio a Renzi non sfuggirà. Cosa accadrà il giorno in cui si voterà per le politiche nazionali con l’Italicum? Quel giorno Renzi andrà al ballottaggio con il Pd, ma dall’altra parte potrebbe trovarsi di fronte una coalizione eterogenea di tipo veneziano. Una coalizione, non sappiamo guidata da chi, in grado di mettere insieme leghisti e ex berlusconiani, oltre a coloro che esprimono in modo confuso un malessere e un desiderio di cambiare. È uno scenario molto pericoloso per il presidente del Consiglio. Venezia in fondo si conferma laboratorio politico. Un laboratorio per la nuova destra che cerca la sua direzione di marcia.

«Dopo trent’anni Venezia torna in mano al centrodestra. Scambio di accuse nel partito per la sconfitta di Casson. Il senatore democratico era “un candidato divisivo”, è la recriminazione. Lo ha condannato l’astensione M5S». Si apre una nuova fase, più acuta delle precedenti, di devastazione della città e della Laguna.

La Repubblica, 15 giugno 2015

Venezia. Lo psicodramma in “Largo donatori di sangue” a Mestre, al comitato di Felice Casson. Dove il sangue, figurativamente parlando, sta già scorrendo, tra shock e recriminazioni. Lo champagne a 100 metri di distanza, dove la piazza di Luigi Brugnaro festeggia con «chi non salta comunista è». Poco dopo lo stesso Brugnaro annuncia, mettendo altro sale sulla ferita: «Apriremo la nostra giunta al Pd renziano». Dopo trenta anni Venezia passa a destra, un risultato clamoroso ma non del tutto inaspettato. Il centrosinistra paga pegno un anno dopo lo scandalo del Mose che ha investito la giunta guidata dal pd Giorgio Orsoni, finito in manette e costretto a lasciare Ca’ Farsetti in mano al commissario.

La rincorsa del senatore vicino alla sinistra del Pd era cominciata sei mesi fa, con la sfida interna delle primarie vinta in scioltezza contro soprattutto il candidato appoggiato dalla maggioranza renziana, Nicola Pellicani. Anche al primo turno Casson era avanti, con il 38 per cento delle preferenze (a dispetto del 28,6 di Brugnaro). E però il centrodestra era diviso in tre liste, e aggiungendo Lega Nord più Fratelli d’Italia, la situazione era sostanzialmente capovolta.
Non è neanche mezzanotte e mezza quando a sinistra si capisce che la frittata è fatta. Le linee di pensiero sono due: tutta colpa del Pd che non ha mai sostenuto davvero Casson, proprio come avvenne nel 2005, quando mezzi Ds virarono sul ribelle Massimo Cacciari; tutta colpa dello stesso Casson, candidato sostenuto dalla sinistra radicale - “legato ai centri sociali”, l’accusa più frequente- da sempre bastian contrario dentro al Pd: insomma, troppo caratterizzato e divisivo. Tommaso Cacciari, nipote di Massimo ed esponente di primo piano della sinistra-centri sociali, si sfoga così: «Complimenti a questa sinistra di m... che regala la città alla destra, ora levatevi tutti dalle scatole».
Ma anche il più moderato Pellicani, probabilmente dal versante opposto, ribadisce lo stesso concetto: «Ora qualcuno deve assumersi le sue responsabilità. Qui serve il tabula rasa». L’ex magistrato si era presentato quasi come alternativo al suo stesso schieramento. Non è bastato questo per non venire travolto dalla slavina di chi - per dirla con Jacopo Molina, anche lui in lizza alle primarie- «ha votato contro un sistema di potere che ha governato venti anni questa città». Comunque sia, i numeri dicono che Casson ha rosso la stessa percentuale del 2005, e che i voti del primo turno sono più o meno gli stessi del secondo. Un colpo durissimo, tanto che il senatore non si fa vedere né sentire, spenge il telefono; per la seconda volta è crollato sul più bello, al ballottaggio, a un passo da quello che era diventato il sogno di una vita.
L’accusa di intelligenza con il nemico rivolta alla maggioranza del Pd e allo stesso Cacciari (zio) acquistano improvvisamente di peso grazie alle prime parole dello stesso neo sindaco. I suoi sostenitori lo accolgono con il tricolore, i cori da stadio e quelli di scherno contro Casson, lui dice che «la nostra non sarà una guida del Comune di parte, ma trasversale. I renziani sono i benvenuti, abbiamo bisogno di tutti». La sua lista civica tirata su in fretta e furia si era affermata come primo “partito” in città, e così da domani Brugnaro governerà con una maggioranza in Consiglio omogenea, legata appunto alla sua lista. Libero di stringere accordi con grande libertà, senza dover rendere conto a Forza Italia, praticamente scomparsa, ridotta al 4 per cento. Anche se il Carroccio, che al secondo turno lo ha appoggiato, avanza già pretese per il posto di direttore generale del Comune.
C’è un’altro tema, infine. Quello legato ai Cinque Stelle. Il loro 12 per cento al primo turno si è volatilizzato. Nonostante Casson fosse un candidato sindaco affine e compatibile con tutto quel mondo. Stefano Rodotá e Ferdinando Imposimatosi erano spesi per lui in più occasioni. Dalla Spagna si era fatto sentire persino il leader di Podemos Pablo Iglesias. Niente da fare. Ma i grillini non sono come gli eredi degli indignados.

Se la proposta infame dei razzisti nasce da una visione sbagliata del problema, allora è quella visione che va rovesciata: dall'espulsione all'accoglienza. A cominciare dai Rom.

Il manifesto, 14 giugno 2015

È al Roma Pride che i Radi­cali hanno comin­ciato a rac­co­gliere le firme sulle due deli­bere di ini­zia­tiva popo­lare pre­sen­tate ieri che pia­ni­fi­cano, «come finora non è mai stato fatto», il supe­ra­mento dei campi rom e la riforma dell’accoglienza ai rifu­giati. Per­ché, come dice durante la pre­sen­ta­zione in Cam­pi­do­glio il pre­si­dente di Cild Patri­zio Gon­nella, «i diritti di uno sono i diritti di tutti». «Anche que­sto ha un senso. Pro­fondo. Chi si sente escluso, mar­gi­na­liz­zato, sot­to­rap­pre­sen­tato, ha una bella occa­sione per farsi sen­tire», incita Pippo Civati.

Nella sala della Pic­cola Pro­to­mo­teca Emma Bonino cita Man­zoni: «Il buon senso ancora c’era ma se ne stava acquat­tato, com­ple­ta­mente tra­volto dal senso comune». Come al solito i Radi­cali hanno scelto il lavoro più sporco e impo­po­lare, quello più dif­fi­cile: uscire in strada per con­tra­stare il senso comune costruito e fomen­tato da anni di cam­pa­gne media­ti­che raz­zi­ste con­tro i rom e i «clan­de­stini» e che, con le rive­la­zioni sulla Mafia capi­tale, si arric­chi­sce ora di un «vele­noso sil­lo­gi­smo», come lo chiama il sena­tore Pd Luigi Man­coni, «di for­mi­da­bile sug­ge­stione»: «Se sui ser­vizi ai rom e sull’assistenza ai pro­fu­ghi si sono costruiti sistemi di cor­ru­zione e di spe­cu­la­zione, allora basta eli­mi­nare rom e rifugiati».

Così, invece di con­fi­dare ancora sull’impegno del con­si­gliere Ric­cardo Magi, pre­si­dente di Radi­cali ita­liani, o sul buon senso di (pochi) altri, un comi­tato di asso­cia­zioni — A buon diritto, 21 luglio, Cild, Arci Roma, Asgi, Un ponte per, ZaLab e Pos­si­bile (di Civati) — hanno dato vita con i Radi­cali Roma alla cam­pa­gna «Acco­glia­moci, per una capi­tale senza ghetti né ruspe». E al sin­daco Marino, Bonino e Magi «riba­di­scono la richie­sta di pre­sen­tarsi in Assem­blea capi­to­lina con una rela­zione poli­tica sul mal­fun­zio­na­mento dei con­trolli interni dell’Amministrazione e di descri­vere in modo chiaro pochi punti di riforma e di reale rot­tura che intende perseguire».

Cin­que mila firme da rac­co­gliere in tre mesi per por­tare le deli­bere in Assem­blea capi­to­lina. Che dovrà votarle, anche dopo un even­tuale rin­novo elet­to­rale, pena dif­fida presso la pre­fet­tura (azione a cui dovette ricor­rere Magi per costrin­gere l’allora pre­si­dente Mirko Coratti a calen­da­liz­zare la deli­bera sul testa­mento bio­lo­gico). La prima deli­bera pre­vede un’indagine cono­sci­tiva per ana­liz­zare le esi­genze di cia­scun nucleo fami­liare rom e sinto che vive negli otto vil­laggi di soli­da­rietà, nei quat­tro vil­laggi non attrez­zati e nei tre cen­tri di rac­colta defi­niti «discri­mi­na­tori» nella con­danna inflitta il 30 mag­gio scorso dal Tri­bu­nale di Roma al Cam­pi­do­glio, e che costano milioni di euro l’anno. Un’indagine neces­sa­ria per avviare per­corsi spe­ci­fici di vera inclusione.

È pre­vi­sta inol­tre l’elaborazione di un piano per la chiu­sura dei campi che «defi­ni­sca i tempi, i modi e gli inter­venti di accom­pa­gna­mento all’inserimento abi­ta­tivo e sociale, attin­gendo agli stan­zia­menti già pre­vi­sti e, lad­dove pos­si­bile, alle linee di finan­zia­mento euro­peo». Una serie di azioni, que­ste, che «nem­meno l’attuale asses­so­rato alle Poli­ti­che sociali sta met­tendo in atto», afferma Magi che smen­ti­sce quanto rife­rito al mani­fe­sto dall’assessora Fran­ce­sca Danese: «Un piano pronto per l’autorizzazione della giunta? A noi non risulta. Da novem­bre invece hanno in mano le nostre pro­po­ste, ma non ne abbiamo saputo più nulla».

Nem­meno i conti ripor­tati da Danese tor­nano al con­si­gliere comu­nale: «Siamo pas­sati dai 22 milioni di euro spesi effet­ti­va­mente nel 2013 nel busi­ness della “soli­da­rietà” ai campi rom (e non un euro alle fami­glie), al di là delle pre­vi­sioni ini­ziali e in nome degli inter­venti emer­gen­ziali, agli attuali 8 milioni pre­vi­sti nel bilan­cio pre­ven­tivo di cassa: come fanno a far par­tire un piano in attua­zione alla stra­te­gia nazio­nale di inclu­sione senza pre­ve­dere qual­che risorsa in più, neces­sa­ria per il lavoro di media­zione cul­tu­rale e per l’assegnazione degli alloggi?».

La seconda deli­bera pre­vede il moni­to­rag­gio e la rior­ga­niz­za­zione, attra­verso l’istituzione di una cabina di regia, del sistema di acco­glienza dei richie­denti asilo e dei tito­lari di pro­te­zione inter­na­zio­nale a Roma. «Un sistema — rife­ri­sce Clau­dio Gra­ziano di Arci Roma — che nell’ultimo anno e mezzo si è decu­plicto, pas­sando da 300 a 3 mila strut­ture di acco­glienza: resi­dence, alber­ghi, grandi cen­tri che hanno alte­rato il senso anche del sistema Sprar». E invece la solu­zione sta in un’accoglienza più dif­fusa sul ter­ri­to­rio e integrata.

Ed è urgente. Per­ché, come ammo­ni­sce Bonino, «l’Europa e l’Italia non pos­sono più sot­to­va­lu­tare il pro­blema strut­tu­rale di milioni di pro­fu­ghi che desta­bi­lizza il Sahel e tutta l’Africa. E noi non pos­siamo dimen­ti­care di quante car­rette del mare piene anche di ita­liani sono spro­fon­date tra la Prima e la Seconda guerra mondiale».

Molte verità, qualche dubbio: serve davvero spegnere le guerre con le guerre? Bisognerebbe almeno prima denunciare e punire chi, nel Primo mondo, quelle guerre ha lasciato maturare, o addirittura le ha provocate.

La Repubblica, 14 giugno 2015

IL MARE, quello vero, ha ingoiato tanti esseri umani e tanti ne ha spaventati, che la lingua rilutta alle sue meravigliose metafore. Tuttavia anche noi di terraferma, siamo in alto mare. Si incappa in un gorgo e ci si affanna a uscirne, fino a perdere le forze. Forse stiamo facendo così. Fermiamoci un momento, e facciamo il punto. Abbiamo due punti cardinali, noi.

Il primo, la nostra stella, è il comandamento: restare umani. I migranti sono il nostro prossimo. Cercano la nostra mano per mettersi in salvo sulle nostre navi, per sbarcare sulla nostra terra. Questo è quanto. Coloro cui il nostro prossimo piace annegato, sono disgustosi. Noi vogliamo restare umani.

Coloro i quali si limitano ad ammonire che bisogna accogliere tutti, sono meravigliosi, purché vedano il costo. Cambiamenti così bruschi e drammatici, non si governano col richiamo alla fredda razionalità e alla calda morale. Il terreno manca, ci si sente sradicati e derubati — del proprio paesaggio famigliare, delle proprie abitudini, di sé. Quando quella soglia emotiva è superata, ricorrere all’appello alla razionalità, anche la più splendida, è come esortare alla calma una folla presa dal panico. Non importa quanto l’allarme — l’incendio, il naufragio — sia falso o vero. Quella soglia è stata in buona parte superata. Ci dividiamo fra un egoismo che si crede sacro e un altruismo che ignora come il travaso precipitoso di popolazione esasperi uno stato d’animo e minacci uno stile di vita.

Gli italiani, “brava gente”, erano andati per il mondo, e il mondo non era venuto da loro. Il ricambio è avvenuto dentro una globalizzazione che ha destituito classi — gli operai e gli artigiani, i ceti medi — che occupavano un posto riconosciuto nella gerarchia sociale e contavano su una promozione. E anche i più poveri hanno visto soppiantato il proprio titolo di ultimi da nuovi arrivati, e sono retrocessi al desolato rango di penultimi. Quelli che, davvero o in immaginazione, si vedono “ sorpassare dagli stranieri” nelle graduatorie… Nostalgia del passato e paura del futuro, non sono l’opera di neopopulisti xenofobi. (L’avvento del fascismo non fu l’opera dei fascisti). Costoro ne abusano, tanto più lucrosamente quanto meno lucida è la parte che confida di restare umana. La sinistra — chiamiamola così, per incoraggiamento — che emula la xenofobia della destra, facendole uno sconto, è destinata probabilmente a perdere, sicuramente a perdersi. Caccia agli scafisti, pescherecci affondati, il balletto sulle quote, sono un vivacchiare di espedienti.

Non che la crassa demagogia della Lega non meriti d’essere smascherata; l’ha fatto Enrico Rossi che conosce scabbia e treni pendolari. La Lega vota contro ogni partecipazione a missioni nei luoghi da cui fuggono i migranti, e però è pronta ad aprire il fuoco sui treni. Gridava che Mare Nostrum adescava i migranti. Con Triton aumentarono sia gli arrivi che gli annegati: sconfessione tragica, e hanno fatto finta di niente. Salvini ha la linea: il suo responsabile all’immigrazione, un signore nigeriano, lo accompagnerà ad Abuja, e lui chiederà “ai ministri di quel governo di che cosa hanno bisogno”: così si risolve il problema. In Nigeria: 180 milioni di abitanti, il nordest in mano a Boko Haram, mezzo paese governato dalla Sharia, petrolio e guerre civili a sud, la più forte economia africana, eccetera, e lui gli chiederà: “Di che cosa avete bisogno?”. Vorrei esserci, a vedere che faccia fanno.

Intervenire economicamente nei paesi dai quali nasce l’immigrazione, buona idea. In genere ci “interveniamo” per aiutare i dittatori a spogliarli delle loro ricchezze. L’idea è così invecchiata che viene da piangere: intervenire in Siria (quinto anno di guerra civile, 220 mila morti, 10 milioni e mezzo fra sfollati e profughi)? In Iraq? In Somalia? In Eritrea? Tali sono i paesi da cui ci arrivano gli scabbiosi.

Matteo Renzi può essere diabolicamente tentato di restare un po’ meno umano. Amato com’è, anche il Papa ha un problema. La Chiesa cattolica è il baluardo della solidarietà verso lo straniero, e però l’incupimento del sentimento popolare l’ha isolata, in questa degnissima causa, altrettanto che sui temi della sessualità o della fine della vita. Non c’è più un fondo cattolico che sorregga a sufficienza l’italiano brava gente.

Restare umani: ogni volta che ne incontriamo uno, di questi nostri simili che si giocano la vita per un sì o per un no. Intanto distinguere, e far leva sulle innumerevoli buone volontà che si adoperano nell’accoglienza, dissipatamente. Le assurde pratiche sull’asilo. Si può immaginare un Piano, e se paia troppo per i nostri tempi corti, tanti piani minori, invece di dilapidare gente nei Centri-galera e nei giardini delle giostre.

Questo movimento cesserà di essere febbrile se si addomesticherà la Grande Guerra nel vicino oriente. È quello il contagio, altro che la scabbia. Ormai ne parliamo come di un fenomeno di costume: come si passa a fil di lama senza schizzarsi, come si coprono le donne di un sudario nero. Il Califfato ha festeggiato il primo anniversario a Mosul. Là è la questione “epocale”, quello è l’altro polo del nostro impegno a restare umani. C’è una gara col tempo: se quelle guerre non saranno spente, l’Europa andrà in pezzi, e i pezzi saranno fascisti e razzisti. Andato al governo, Renzi poteva dire questo, e prima doveva convincersene. Le sorti di quelle guerre sono affare dell’Europa, quando le arriva ancora una minima risacca: milioni aspettano, nei campi di Libano, Giordania, Turchia, nei lager della Libia. Abbiamo lesinato fucilini di riporto ai curdi, e ventilato incursori subacquei al molo di Zuwara. È ridiventato un problema di Obama: il quale fa il minimo sindacale. L’Europa avrebbe qualcosa da raccontare a quei popoli martoriati: che anche lei ebbe la sua Grande Guerra fratricida, e che perché non tornasse più immaginò di federarsi, e che nonostante tutto la vita vi è ancora libera e dolce abbastanza perché gli scampati dal vicino oriente si mettano a un nuovo repentaglio per raggiungerla. I confini là non esistono più, e restaurarli è un’illusione. Un’Europa capace di queste due cose: contribuire a fermare le guerre di bande, e proporsi come un modo di convivenza rispettosa delle diversità, dovrebbe credere in se stessa. Dopotutto, lo farebbe per salvarsi.

«A Venezia, storica roccaforte, il Pd deve evitare a tutti i costi l’"effetto Moretti". Il capoluogo veneto sarà il vero termometro del turno di ballottaggio, giocato al Nord sul voto in libertà dei "grillini"».

Il manifesto, 14 giugno 2015

È il giorno della verità non sol­tanto per Felice Cas­son. L’ex pm e sena­tore “dis­so­nante” vuole scac­ciare l’incubo della scon­fitta 2005, ma il Pd deve evi­tare ad ogni costo l’«effetto Moretti» nella sto­rica roc­ca­forte e l’intero “popolo di cen­tro­si­ni­stra” può ricac­ciare l’assalto a Ca’ Far­setti della coa­li­zione di Luigi Bru­gnaro, fuc­sia di fuori e verde-nero nell’anima.

Cas­son non si è rispar­miato nel “secondo tempo” della cam­pa­gna elet­to­rale, con­clusa in piazza Fer­retto con lo spritz e la colonna sonora di Leo­nard Cohen. C’era anche Michele Emi­liano, nuovo pre­si­dente della Puglia, come testi­mo­nial: «Come l’amico Felice anch’io ero pub­blico mini­stero: incol­lavo vasi rotti, per­ché le indu­strie ave­vano già inqui­nato. Ho comin­ciato a far poli­tica per­ché volevo cam­biare il mondo. A Bari, deci­de­vano tutto quat­tro fami­glie. Vene­zia, con Bru­gnaro, rischia lo stesso». Sin­tesi efficace.

Vene­zia sarà comun­que il vero ter­mo­me­tro del turno di bal­lot­tag­gio, gio­cato al Nord sul voto in libertà dei “gril­lini”. In laguna sono uffi­cial­mente trin­ce­rati die­tro cin­que richie­ste pro­gram­ma­ti­che (gestione dei 3.300 dipen­denti comu­nali; mora­to­ria urba­ni­stica; stop al tram già costato 208 milioni; Grandi Navi fuori dalla città sto­rica; accor­pa­mento delle società par­te­ci­pate), tut­ta­via il tam tam della vigi­lia fa rim­bal­zare il soste­gno a Cas­son già espresso dalle firme di rife­ri­mento di Andrea Scanzi e Marco Travaglio.

Il voto di oggi a Vene­zia decide gli ultimi 15 seggi che garan­ti­scono la mag­gio­ranza ammi­ni­stra­tiva in aula. Cin­que sono già stati asse­gnati ai can­di­dati sin­daco (Cas­son, Bru­gnaro, Davide Scano del M5S, i civici Bel­lati e Zac­ca­riotto) e al primo turno sono stati eletti 5 con­si­glieri della lista Bru­gnaro, 4 con Cas­son, 3 del Pd, 2 del M5S e uno a testa di Lega e Fi.

Sfida aper­tis­sima a Rovigo: Nadia Romeo, 43enne del Pd, parte dal 24% nel bal­lot­tag­gio con Mas­simo Ber­ga­min (Lega-Fi) che inse­guiva con il 18% ma che conta sull’apparentamento con Paolo Avezzù di Tosi-Area popo­lare e Anto­nio Sac­car­din della lista “Mode­rati di cen­tro”. Ago della bilan­cia di nuovo i 2.589 voti M5S, ma anche i 1.380 della Sini­stra con Sel inchio­data a 541 preferenze.

Ma dall’Alto Adige si allunga lo spet­tro della prima intesa fra Lega e M5S: a Lai­ves, 17 mila abi­tanti, alla cla­mo­rosa scon­fitta della sin­daca e segre­ta­ria pro­vin­ciale Pd Liliana Di Fede era cor­ri­spo­sta l’impasse nume­rica della legge elet­to­rale a sta­tuto spe­ciale. Il nuovo sin­daco leghi­sta Chri­stian Bian­chi (ex Fra­telli d’Italia) ha però otte­nuto l’appoggio esterno dei due con­si­glieri gril­lini, soprat­tutto in alter­na­tiva al “com­pro­messo auto­no­mi­sta” Svp-Pd imploso nell’intera pro­vin­cia di Bolzano.

È pro­prio il Car­roc­cio a movi­men­tare le urne come a Faenza (58 mila abi­tanti nel Raven­nate) con Pie­tro Nenni che rischia di rivol­tarsi nella tomba. La Lega vanta un elo­quente 15,2% al primo turno, conta sul fronte di cen­tro­de­stra com­presa Forza Nuova al 3% e si appella espli­ci­ta­mente agli elet­tori di Grillo che al primo turno erano il 14%. Così Gabriele Pado­vani acca­rezza il sogno di vestire la fascia tri­co­lore, anche se Gio­vanni Mal­pezzi riparte dal 45% del primo turno. Un test dal mar­cato signi­fi­cato poli­tico, dun­que, nella regione sim­bolo del “buon­go­verno” ex Ds e del “modello” Uni­pol & Legacoop.

Si torna ai seggi anche a Man­tova: Mat­tia Palazzi (Pd, Sel, Popo­lari e Socia­li­sti) però non teme Paola Bul­ba­relli, stac­cata di 20 punti al primo turno. Invece Voghera (Pavia) avrà un nuovo sin­daco di cen­tro­de­stra per­ché per soli tre voti Pier Ezio Ghezzi non ha rag­giunto il bal­lot­tag­gio che vede in lizza il sin­daco for­zi­sta Carlo Bar­bieri e il leghi­sta Aure­lio Tor­riani. Con l’inevitabile spada di Damo­cle del ricorso che impone la veri­fica delle schede del 31 maggio…

Peri­fe­rici, ma altret­tanto signi­fi­ca­tivi, i destini dei muni­cipi di Arezzo e Lecco. In Toscana par­tita aperta fra Mat­teo Brac­ciali (Pd, 44,2% al primo turno) e Ales­san­dro Ghi­nelli (Fi-Lega-FdI, 36%). Nella città natale del ciel­lino For­mi­goni, il sin­daco uscente di cen­tro­si­ni­stra Vir­gi­nio Bri­vio (8.251 voti due dome­ni­che fa) deve veder­sela con il coe­ta­neo Alberto Negrini (5.582) che potrebbe ricom­pat­tare le anime del cen­tro­de­stra (4.253 voti al can­di­dato soste­nuto da Ncd e civi­che). Di nuovo: i 1.801 elet­tori del M5S fanno sem­pre la differenza…

«Venezia rappresenta l’ultimo baluardo e insieme il laboratorio da cui ripartire sulle macerie dell’epocale sconfitta di Alessandra Moretti alle elezioni regionali. Ma soprattutto è il simbolo del Nord Est appaltato in concessione unica». Il manifesto 13 giugno 2015

Venezia. Già senza più rappresentanza nel nuovo consiglio regionale, la città metropolitana domenica sarà a un bivio: si torna alle urne per decidere il sindaco. Ballottaggio fra Felice Casson (alla testa della coalizione disegnata fin dalle primarie) e Luigi Brugnaro (con berluscones e leghisti che sentono l’odore del sangue). I numeri del primo turno fissavano uno scarto di 11.508 voti a favore del centrosinistra. Ma, sulla carta, gli apparentamenti con il Carroccio e la lista di Francesca Zaccariotto valgono 22 mila consensi. Di conseguenza, il vero ago della bilancia sarà l’elettorato del M5S (15.348 voti con il 12,6% che vale tre seggi): fino all’ultimo Davide Scano & C si sono arroccati nella "neutralità" politica.

Eppure, è perfino banale capire qual è la posta in gioco. #Felicittà riassume la scelta di trasparenza, tutela del bene comune e Ca’ Farsetti non più ostaggio di lobby. I fucsia, invece, promettono un futuro all’insegna di cemento, interessi privati, amministrazione cannibale. Brugnaro incarna un profilo preciso: uomo di Confindustria, imprenditore del lavoro interinale con "Umana", era pronto a gestire l’isola di Poveglia come la Misericordia. E dalla sua parte si sono già schierati partiti, liste e personalità che sognano la prosecuzione del "sistema Mose" con altri mezzi: direttamente in Comune. Di più. Rispuntano personaggi a dir poco inquietanti. È il caso di Pietro Andreatta, candidato nella lista civica "Malgara 2020-Un nuovo inizio" inserita fin da subito nella coalizione di Brugnaro. Andreatta fu arrestato nel 1996 - con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Delfo Zorzi indagato per la strage di piazza Fontana - insieme all’ex segretario di Ordine Nuovo Veneto Carlo Maria Maggi e al fondatore del gruppo La Fenice di Milano Giancarlo Rognoni.
Casson ha già messo in campo la "squadra", annunciando che gli incarichi saranno assolutamente gratuiti per i suoi "superconsulenti": si tratta di Philippe Daverio (cultura e turismo) Francesco Giavazzi (economia e bilancio), Renzo Rosso (imprese e innovazione), Benedetta Arese (digitale). Le deleghe alla legge speciale per Venezia e alla sicurezza resteranno nell’ufficio del sindaco, mentre, a urne archiviate, si conoscerà anche il nome dell’esperto in materia di ordine pubblico e anti-crimine.
Brugnaro si è legato mani e piedi alla Lega Nord, che trasformerebbe il segretario provinciale Alberto Semenzato in vicesindaco. Poltrona garantita anche a Zaccariotto, ex presidente della Provincia che aveva rotto con Salvini prima di Tosi. E intanto riappare in scena Ugo Bergamo, ex sindaco democristiano… Così dieci anni dopo il ballottaggio fratricida con la Margherita di Massimo Cacciari, tutto il centrosinistra fa quadrato intorno a Casson che non si risparmia nel faccia a faccia con l’avversario come nelle iniziative fra la gente.
Venezia rappresenta l’ultimo baluardo e insieme il laboratorio da cui ripartire sulle macerie dell’epocale sconfitta di Alessandra Moretti alle elezioni regionali. Ma soprattutto è il simbolo del Nord Est appaltato in concessione unica: manager, professionisti e imprese del Consorzio Venezia Nuova rimbalzano dalle "piccole opere" sanitarie e autostradali fino ai mega-progetti futuribili in laguna come in terraferma. E un anno dopo lo "scandalo Mose" (5,4 miliardi solo in cantieri) il bivio del ballottaggio si profila davvero come una sentenza senza appello. Per Casson fa il tifo Pablo Iglesias di Podemos, mentre Marco Travaglio dalle colonne del Fatto Quotidiano ha lanciato un ultimo appello esplicito agli elettori del M5S: «Sanno bene che Casson è il più ’grillino’ del Pd e conoscono il suo curriculum di magistrato coraggioso e di uomo specchiato: proprio quello che ci vuole a Venezia per fermare le grandi navi e l’assalto alla diligenza di un patrimonio artistico, culturale e paesaggistico unico al mondo».
In ballo domenica c’è lo stesso destino della città metropolitana. Con il commissario straordinario Vittorio Zappalorto (5.926 euro e 86 cent al mese, indennità che comprende quella di prefetto a Gorizia) la scure si è abbattuta impietosa su Ca’ Farsetti: dipendenti e precari sul piede di guerra, servizi cancellati, patrimonio in vendita, preventivata stangata sul trasporto pubblico, addio al Casinò. E la nuova giunta dovrà sciogliere nodi tutt’altro che irrilevanti, come lo scavo del canale Contorta a beneficio delle "città galleggianti" o il piano urbanistico di Tessera, la rigenerazione dell’ex ospedale Umberto I e gli interventi che minacciano il Lido. Alla vigilia del ballottaggio, un’unica certezza: sarà lo spoglio più delicato della storia elettorale di Venezia. E paradossalmente sulla scheda Brugnaro da Mirano occupa la parte sinistra e Casson da Chioggia quella destra. Rosso o fucsia, alla fine sarà proclamato un sindaco foresto. Un altro segno dei tempi nella serenissima capitale di Zaialand…
«Per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione».

Corriere della Sera, 11 giugno 2015 (m.p.r.)

La faglia s’allarga. Da politica, rischia di diventare territoriale e sociale, attestandosi lungo rancori sedimentati tra due Italie. Già così distanti per qualità di servizi e sanità, trasporti e infrastrutture, Nord e Sud s’allontanano ora sull’ultima e più cruda emergenza: i migranti. Che al Sud sbarcano (e in gran parte restano) e al Nord andranno sempre più verso ponti levatoi alzati.

La «rivolta» contro Roma e i suoi prefetti, avviata dal presidente Maroni e subito appoggiata dai presidenti Zaia e Toti — asse del nuovo centrodestra in Lombardia, Veneto e Liguria dopo il voto del 31 maggio — sta cambiando segno. Ha trovato sponda tra i sindaci (o candidati sindaci) «nordisti» del Pd. Felice Casson a Venezia, il nome più famoso. Ma anche Achille Variati a Vicenza, che stigmatizzava le manifestazioni della destra xenofoba fino a poco tempo fa. E ancora decine di primi cittadini «riluttanti» all’accoglienza, secondo l’ufficio immigrazione di quella Toscana che, nell’emergenza degli sbarchi del 2011, si distinse per generosità. Il linguaggio cambia («non siamo il Paese di Bengodi», tuona Variati), sfumando di giorno in giorno le differenze tra destra e sinistra di fronte a un’opinione pubblica inferocita.
Casson è sotto ballottaggio e dunque il suo monito, «Venezia ha già dato», può risentire dell’effetto pre-elettorale. Ma apparirebbe ormai piuttosto miope ridurre questo vento del Nord a mera tattica, ai calcoli di Matteo Salvini per mettere nell’angolo l’altro Matteo, Renzi. Come pure sembrerebbe puerile derubricarlo a un tentativo di Maroni di distogliere l’attenzione da una fastidiosa inchiesta milanese per presunti favori a una giovane collaboratrice. I toni inseguono un sentimento popolare. Perfino Debora Serracchiani, vice di Renzi nel Pd, parlando da presidente del Friuli ammonisce: «Si scordino che prendiamo nella nostra Regione gli immigrati che loro non vogliono».
Nei territori il malessere è forse più profondo di quanto percepito a lungo nei palazzi della politica (i bivacchi dei migranti alla stazione di Milano bastano a capirlo), chi deve cercare consenso non può più prescinderne. E non aiuta certo scoprire ora che l’Europa prende ancora tempo, che il famoso piano per ricollocare 24 mila profughi (con annesso principio di divisione in quote tra gli Stati europei) va slittando a settembre: che in sostanza siamo soli come sempre mentre l’estate incombe con nuovi sbarchi.
Nella solitudine i toni si alzano, accentuando fin troppo le connotazioni identitarie. In assenza di un’idea politica forte, o anche di un’idea qualsiasi che appaia risolutiva, l’identità più marcata diventa geografica. Sicché a Maroni che grida alla «ritorsione contro il Nord» s’oppone Angelino Alfano, evidentemente qui non solo nella veste di ministro degli Interni, che denuncia «l’odio contro il Sud». Un bello studio della Fondazione Moressa di Mestre sul «rischio banlieue » nelle nostre periferie ci ha offerto tempo fa una spiegazione sorprendente eppure ragionevole di questo diverso approccio tra le due Italie verso l’impatto dei migranti: il rischio massimo è a Bologna, il minimo a Reggio Calabria; per paradosso, le città più depresse ammortizzano più facilmente i nuovi venuti, assorbendoli verso il basso; dove più alti sono invece reddito e qualità dei servizi, più larga diventa la distanza con gli stranieri e più marcato il pericolo di una loro ghettizzazione.
I numeri da fronteggiare, per il momento, sono meno allarmanti di come vengono raccontati. Se il Guardian ipotizza mezzo milione di profughi pronti a imbarcarsi in Nord Africa, gli arrivi l’anno scorso furono 219 mila in tutta Europa (statisticamente, mezzo migrante ogni mille europei) e quest’anno siamo in linea, con 103 mila. Come insegna Trilussa, tuttavia, la statistica non sempre aiuta: nel 2014, 170 mila arrivi toccarono a noi. Torniamo dunque sempre al punto di partenza, la solitudine dell’Italia.
Non è difficile capire, però, che, proprio perché soli, dovremmo essere coesi, mettere fine alla gazzarra di questi giorni: il rischio che qualche testa bacata assalti un pullman che porta i migranti al Nord non è così teorico. Se poi saremo davvero, nel medio periodo, la prima linea di una biblica riallocazione dei popoli inseguiti da guerre e carestie, dovremo imparare qualcosa di nuovo: a stare assieme tra noi. Lungi dal cavalcare il disagio, la politica dovrebbe indicarcene la via. Per dare risposte — ferme o solidali che siano, ma serie — a chi viene da tanto lontano, è indispensabile cominciare a capirsi tra una valle bergamasca e una spiaggia siciliana.
Dal Presidente della Casa della Carità di Milano, un richiamo a trasparenza e solidarietà contro l'attacco all’accoglienza dei dannati della terra sferrato da destra, e un appello ad agire in modo umano e non bestiale (con tutto il rispetto per gli animali).

LaRepubblica, ed. Milano, 6 giugno 2015

Il nuovo capitolo dell’inchiesta di Mafia Capitale sta confermando che le emergenze sociali, come l'arrivo di tanti profughi e migranti, sono diventate un business ricco e appetibile per un sottobosco a cavallo tra malavita e malaffare, malaffare e corruzione politica. È un mix che purtroppo si ripropone spesso e che si ripresenta con una puntualità impressionante in ogni occasione, dal terremoto dell’Aquila al dramma dello smaltimento dei rifiuti nella Terra dei fuochi, con le sue tariffe, le sue minacce e con i suoi sberleffi sguaiati: dalle risate al telefono degli affaristi che si fregano le mani dopo il disastro abruzzese alla mucca che va munta di Mafia capitale.

Sulla pelle di migliaia di persone sfortunate, in fuga da guerre, in lotta per sopravvivere, emerge uno sfruttamento che, in barba ad appartenenze partitiche, a convinzioni ideologiche, a ragionamenti politici, unisce in un fronte unico la peggior politica e la peggior gestione del sociale in Italia. Con la conseguenza che nell’opinione pubblica si fa largo la convinzione che chi accoglie, chi lavora per dare un aiuto ai tanti profughi e migranti che arrivano nei nostri paesi e città, sotto sotto lo fa per interesse. Ovviamente non è così. La passione in cui noi della Casa della carità da dieci anni ci battiamo per offrire, spesso gratuitamente, accoglienza ai tanti che arrivano a Milano a seguito della tante emergenze, la disponibilità dei nostri operatori e dei nostri volontari è la stessa di decine e decine di tante altre organizzazioni, piccole e grandi, che si muovono, tra mille difficoltà, in ogni angolo d’Italia. Conosco onlus, fondazioni e cooperative che nulla hanno da nascondere perché il loro obbiettivo non è mai stato il guadagno, ma la solidarietà a chi ha bisogno.

Purtroppo, in molti casi non è così. In molti casi nella rete degli aiuti si sono infiltrate organizzazioni interessate solo a rastrellare i soldi della diaria riconosciuta per ogni persona accolta in una logica di disinteresse per la qualità del trattamento e per i servizi garantiti. È una delle conseguenze della gestione emergenziale della questione che ripropone la logica dell’appalto al ribasso (non a caso terreno spesso di infiltrazioni mafiose) tipico delle opere pubbliche con l’inevitabile corollario delle conoscenze partitiche nelle amministrazioni e nelle istituzioni. È una spirale che va spezzata subito. La magistratura accerterà illeciti, crimini e responsabilità. Ma sono necessarie anche una mobilitazione delle coscienze e una presa di posizione, forte e chiara, del mondo dell’associazionismo e del volontariato, laico e religioso, che rifiuta il marchio di “sono tutti uguali”. La corruzione politica va combattuta con la trasparenza: ogni numero, ogni convenzione, ogni servizio va documentato, reso noto (magari sul web) perché tutti sappiano nomi, cognomi, ragione sociale, appartenenza di chi ospita e rende un servizio sociale.

L’obbiettivo? Creare il vuoto attorno ai corrotti, far emergere i profittatori e le corruttele, denunciare i legami, quali che siano, con la politica e i suoi portaborse. Ribadire che l’assistenza non è un furto. Chiedere una nuova politica dell’immigrazione che sia rispettosa dei diritti, equa nella suddivisione dei costi sociali da affrontare tutti (in Italia come in tutta Europa), trasparente nella gestione, uniformata nella garanzia di qualità e portatrice di una cultura di responsabilità. La risposta al malaffare non può essere: fermiamo gli arrivi dei migranti. Basta demagogie, basta semplificazioni, basta strumentalizzazioni politiche. Lanciamo tutti insieme una sfida: l’accoglienza onesta, per bene, di qualità, da Lampedusa a Bolzano. Rivendichiamo insieme le nostre esperienze positive, documentiamo i risultati ottenuti, facciamoci sentire. Siamo tanti. Molti di più dei corrotti e dei corruttori.

«Lombardia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta hanno ragione di lamentare un sovraccarico di richiedenti asilo? I dati dicono che il sistema di accoglienza è semmai squilibrato verso Sud. Sommare rifugiati e migranti non è corretto, ma in ogni caso anche l’immigrazione è in calo».

Lavoce.info, 9 giugno 2015 (m.p.r.)

Chi accoglie i rifugiati

La presa di posizione sui profughi del presidente della Lombardia, seguito dai colleghi del Veneto, della Liguria e della Valle d’Aosta, apre una questione delicata: è vero che l’integrazione delle persone è sempre locale, ma diritti difesi dalla Costituzione (articolo 10), nonché dall’Onu e dalle convenzioni internazionali, possono essere messi in discussione da un presidente di regione o addirittura da uno o più sindaci? L’immagine internazionale dell’Italia può dipendere dalle deliberazioni di alcune autorità locali? Per questo, una materia già di per sé sensibile come quella dell’asilo è di pertinenza del governo centrale, ma le resistenze locali tendono a farne un terreno incerto e conteso.

Per cercare di apportare qualche elemento di chiarezza, proverò a rispondere ad alcune domande.
La prima: Lombardia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta hanno ragione di lamentare un sovraccarico di richiedenti asilo? Secondo i dati elaborati dalla redazione de lavoce.info, non parrebbe: la Lombardia ospita nei centri di accoglienza (o in altre strutture temporanee) 60 profughi ogni 100 mila abitanti, il Veneto 50, la Liguria 80, la Valle d’Aosta 50. Fanno molto di più le regioni del Sud: la Sicilia, prima in valore assoluto, ha nei centri di accoglienza 270 profughi ogni 100 mila abitanti, la Calabria 240, il Lazio 140. Il sistema di accoglienza è squilibrato verso Sud e questo non è un bene, per diverse ragioni. Ne cito una: i profughi che otterranno una qualche forma di asilo (in media, circa la metà), molto probabilmente si sposteranno verso Nord in cerca di lavoro, e l’impegno d’integrazione locale dovrà ricominciare praticamente da capo.

I costi per le comunità locali

Seconda domanda: l’accoglienza è un costo per le comunità locali? In linea di massima, no. Anzi, l’ospitalità agli immigrati porta risorse (i 35 euro al giorno pro capite per i gestori delle strutture). Questo pur modesto tesoretto si traduce in posti di lavoro per operatori locali, acquisto di derrate alimentari, abiti, generi di consumo. Per chi gestisce coscienziosamente l’accoglienza, non restano molti margini, ma intanto un po’ di circolazione di risorse si produce. È senz’altro opportuno coinvolgere i richiedenti asilo in attività socialmente utili: per incrementare le opportunità di socializzazione e integrazione sul territorio, per occupare il tempo in attesa della risposta alla domanda di asilo, per accrescere l’accettazione sociale.

Ma non è vero che i richiedenti asilo siano in debito con le comunità locali, è più vero il contrario.
Terzo: i rifugiati rimangono sul territorio, intasando le strutture e invadendo le città? A parte quanto già spiegato in altri articoli (l’86 per cento dei rifugiati è accolto nei paesi in via di sviluppo), la maggior parte di loro transita e cerca di oltrepassare le Alpi. Dei 170 mila sbarcati nel 2014 soltanto 7 mila hanno chiesto asilo in Italia. Per esempio a Milano, su circa 60 mila profughi transitati negli ultimi due anni, ne sono rimasti 200.

Immigrazione in calo

Quarto: è giusto sommare immigrati e rifugiati? L’immigrazione è aumentata per effetto degli sbarchi? Migranti in cerca di lavoro e richiedenti asilo possono in parte sovrapporsi, ma è importante tenere distinte le due categorie: i secondi hanno diritto a vedere esaminata la propria istanza e se riconosciuti come bisognosi di protezione, in un paese democratico, vanno accolti. Questo oggi è pressoché automatico nel caso di siriani, eritrei e somali, a motivo dei contesti di guerra e repressione da cui cercano scampo.

Nonostante la visibilità e i drammi degli sbarchi, va ricordato che i nuovi ingressi di immigrati sono diminuiti negli ultimi anni, a motivo della crisi economica: nel 2013 sono stati 307 mila, 43 mila in meno rispetto al 2012. Restano tuttavia più numerosi degli sbarcati, anche al lordo dei transiti verso altri paesi. I motivi del rifiuto sono dunque essenzialmente politici. Stupisce un po’ che i maggiori organi d’informazione li raccolgano con enfasi, con titoli in prima pagina come “Il Nord dice basta”.
Da questo punto di vista, l’offensiva del solstizio di Roberto Maroni ha senza dubbio già segnato un punto.

Collocheremmo nella cartella "Stupidario" l'articolo del Giavazzi se non fosse che possiamo corredarlo del gustoso commento di Marco Palombi, inserito in calce. Il primo dal

Corriere della Sera di venerdì 5 giugno, il secondo dal Fatto quotidiano del 7 giugno, Con postilla veneziana

Corriere della Sera, 5 giugno
DISCUTIAMO TROPPO DI GRECIA?
di Francesco Giavazzi


Da oltre 5 anni è la Grecia il problema che più preoccupa l’Europa: non il lavoro, non l’immigrazione e nemmeno la Russia di Putin, ma un Paese che rappresenta meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) delle nazioni che partecipano all’unione monetaria. Sarebbe interessante calcolare quante ore la signora Merkel ha dedicato ad Atene in questi 5 anni. Che penseremmo se scoprissimo che il presidente Obama dedica altrettanto tempo ai problemi del Tennessee, uno Stato che conta, nella federazione americana, un po’ più della Grecia nell’eurozona?

In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.

Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa - le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras - è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.

Certo, anche gli europei hanno sbagliato. Da quando, nel 2002, Atene è entrata nell’unione monetaria abbiamo prestato alla Grecia oltre 400 miliardi di euro (circa due volte il Pil del Paese) senza chiederci se quella cifra sarebbe mai stata ripagata. È però inutile oggi sprecar tempo, coltivando l’illusione, che ha sfiorato i finlandesi, che forse potremmo venir ripagati in natura, con la cessione di qualche isola. Le cannoniere britanniche dell’Ottocento fortunatamente non ci sono più. Il passato è passato, meglio metterci una pietra sopra.

E se i greci non vogliono modernizzarsi, inutile insistere: d’altronde hanno votato a gran maggioranza un governo che continua ad essere popolare. Hanno scelto, spero consciamente, di rimanere un Paese con un reddito pro capite modesto, metà dell’Irlanda, inferiore a Slovenia e Corea del Sud, che fra qualche anno verrà superato dal Cile. Spero che però nessuno ad Atene si illuda che fuori dall’euro, anche una volta cancellato il debito, inflazione e svalutazione possano essere un’alternativa a rendere l’economia più efficiente.
Penso sia venuto il momento di chiederci quanto sia importante per noi tenere la Grecia nell’Unione Europea, perché di questo si tratta: se Atene abbandonasse l’euro dovrebbe anche uscire dall’Ue. Il criterio non può essere la difesa dei nostri crediti, che comunque non potranno essere recuperati. A guidarci non può essere nemmeno quanto rischi l’unione monetaria che ormai, grazie alla Banca centrale europea, è sufficientemente robusta per poter affrontare l’uscita di un Paese come la Grecia.

La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera geopolitica fra Europa e Paesi islamici, in primis la Turchia. Il che non significa cedere al ricatto di Tsipras, ma accettare il rischio che comporta la condivisione della moneta con un Paese che ha liberamente deciso di non volersi modernizzare. Ma il salto politico necessario per porci questa domanda non siamo in grado di farlo. L’unione monetaria ha avuto il grande merito di accelerare l’integrazione economica - si pensi al trasferimento a Francoforte della vigilanza sulle banche - ma non può essere un sostituto dell’integrazione politica. Se la crisi greca ci aiuterà a comprenderlo, non saranno stati 5 anni spesi invano.
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno
GIAVAZZI 
AL BAR
 E CERTE COSE DI BALZAC

di Marco Palombi

Dice che la Grecia ha rotto. Dice: cinque anni a parlare di Grecia, che poi è una nazione di pecorari fancazzisti, e intanto la Cina e l’India fanno cose e i cosacchi di Putin, come d’abitudine, vogliono far abbeverare i cavalli a piazza San Pietro. Dice: ma se i greci 
non si vogliono modernizzare, mettiamoci una 
croce sopra e via dall’Ue. Dice: hanno votato Tsipras vuol dire che vogliono restare poveri.

Questo non è, come sembra, il riassunto di una conversazione ascoltata in un bar, interrotta dal tintinnare delle tazzine e dal grido dell’ultimo arrivato (“un caffé”), ma il senso dell’editoriale che Francesco Giavazzi venerdì ha affidato alla prima del Corriere della Sera. Uno potrebbe spiegargli che se cinque anni fa la Ue avesse salvato la Grecia invece che le banche tedesche e francesi non staremmo qui a discutere; che le sue idee sui greci sono un po’ razziste; che 5 anni di “riforme” della Troika hanno creato ad Atene una catastrofe umanitaria e che la sua “austerità espansiva” è una boiata. Sarebbe inutile, nel bar c’è casino, Giavazzi non sente e poi sta già spiegando al barista che, per un lavoro così poco qualificato, guadagna troppo.

Solo che non siamo al bar e nemmeno nel salotto Verdurin di Proust, in cui sedevano i borghesi non abbastanza interessanti per i Guermantes. No, la prima del Corsera ormai è la Pensione Vauquer di Balzac. Lì, per dire, abitava tra gli altri tal Poiret, uno di quegli individui di cui, non potendo far altro, si dice: “Ci vuole pure gente così”. E poi si aggiunge: insegna alla Bocconi.


postilla


In questi giorni a Venezia, nell'area sociale e culturale che vorrebbe un rinnovamento radicale della pessima gestione del comune negli ultimi decenni, è
aperta un'animata discussione tra chi, al prossimo ballottaggio, si propone di votare Casson pur di non rischiare che vinca il suo antagonista (che sarebbe il peggio del peggio) e chi invece del peggio non ha paura (o addirittura se lo augura) e non se la sente di votare Casson, che si è molto legato all'establisment precedente. In questo quadro Casson ha reso pubblici i nomi di alcuni dei consulenti di cui si avvarrebbe. Terrificanti: uno è il sunnominato Giavazzi, il secondo il divulgatore televisivo d'arte Philippe D'Averio, il terzo il signor Rosso, il mecenate che con la sua elemosina pelosa ha pagato il restauro del Ponte di Rialto, con un tornaconto che la nostra Paola Somma ha puntigliosamente elencato in un suo articolo su questo sito. Temiamo che la scelta di Casson gli farà perdere consensi, e accrescerà le chances del suo antagonista. Tremano i veneziani, e gli amici di Venezia.
Replicando agli infantili cinguettii del Primo ministro, Stefano Rodotà lo accusa di comprendere poco e travisare molto, a proposito del tentativo di Landini e di altre cose importanti.

La Repubblica, 10 giugno 2015

Coalizione sociale, creatura di Landini, è diventata, nelle parole di Matteo Renzi, «Coalizione asociale» e Stefano Rodotà, colpevole di aver accusato il premier di applicare, per le faccende di giustizia, (in ultimo Mafia Capitale), lo stesso metodo «peloso e ipocrita» della Prima Repubblica, si è visto recapitare la risposta al vetriolo del giovane premier: «Rodotà? Lui sì che se ne intende di Prima Repubblica!». Comprensibile che il professore non abbia gradito. Da Madrid, dove si trova in queste ore, chiede «più rispetto» per il Movimento appena nato, respinge al mittente presunti feeling con i “compagni” Scalzone e Piperno, presenti alla due giorni di Landini, («Io non li ho nemmeno visti, c’erano 1087 persone») e attacca le ironie di Renzi: «Prima di parlare doveva informarsi. Siamo in presenza di un travisamento gravissimo ».

Professore, lei se ne intende di prima Repubblica?
«Certo. Per tutta la prima Repubblica mi sono battuto contro coloro che applicavano il meraviglioso meccanismo che adesso usa Renzi. Conosco bene la frase: “Io sono garantista. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso”. Con questo sistema, e potendo contare sulla lentezza dei processi, persone che ne avevano combinate di tutti i colori, sono riuscite tranquillamente a rimanere sulla scena politica».

Renzi le ricorda la presunzione di innocenza.
«Figuriamoci, tutti noi dobbiamo essere garantisti. Lo rimando però alla seconda parte dell’articolo 54 della Costituzione. Chi ricopre funzioni pubbliche ha un dovere in più. Deve comportarsi con disciplina e onore. La presunzione di innocenza riguarda i reati, poi c’è la responsabilità politica, l’etica pubblica, del tutto ignorate dalla prima Repubblica. In Renzi ritrovo quel tipo di approccio. Quando ero presidente del Pds, chiesi, inascoltato, una assise sulla corruzione. Manderò i miei libri al presidente».

Arrabbiato?
Un presidente del consiglio non può fermarsi alla superficie delle cose. La due giorni di “Coalizione Sociale” merita rispetto, meritano rispetto le 1087 persone che vi hanno partecipato e le 200 che hanno preso la parola. Evidentemente a Renzi la società non interessa se non è atomizzata. “Parlerò ai professori, parlerò agli alunni...”. Lui va a segmenti. Ma il rifiuto pregiudiziale della conoscenza è politicamente grave e culturalmente inquietante ».

Che ci facevano Scalzone e Piperno da Landini?
«Di due giorni di dibattiti rimane questo? Commentare questa iniziativa a partire da un caso che non esiste è un travisamento gravissimo. Scalzone e Piperno io non li ho visti, non sapevo nemmeno che ci fossero. Mi spiace che anche Cuperlo sia caduto in questa trappola. Anche lui doveva informarsi prima di commentare ».

C’è una sinistra che si agita dentro il Pd, ci sono i cosiddetti laboratori di Vendola e Civati. “Coalizione sociale” cosa vuol essere?
«È una scommessa difficile che parte dall’analisi della situazione italiana: partiti deboli, distinzione attenuata tra governo e Parlamento, a favore del primo, un drammatico difetto di rappresentanza, i cittadini che stanno scomparendo dalla vita pubblica, non vanno a votare, il potere affidato alla minoranza, la politica che si svuota con il rischio di estremismi e populismi...».

Da dove si riparte?
«Dalla società, dal territorio, si diceva una volta. Renzi ha cambiato idea sulla scuola, aprendo a modifiche, solo dopo che la società si è mobilitata. C’è tanta energia, tanta voglia di fare. È necessario creare una rete, non un altro partito. Ripartire dal basso nel nome del ripristino dei diritti e della dignità per tutti, dico tutti. Così hanno fatto Syriza in Grecia e “Podemos” in Spagna. Senza sponda sociale non si va da nessuna parte, senza buona cultura non c’è buona politica. Ma non si tratta di cominciare da zero. Penso alle esperienze tutte italiane di Don Ciotti sulla legalità, ad Emergency di Gino Strada...».

Professore, secondo i suoi parametri, Renzi è di sinistra?
«Non lo so. Lui dice di esserlo. Io non sono tra quelli che pensano che non ci sia più distinzione fra destra e sinistra. La distinzione c’è. Io metto al centro della politica la dignità, l’eguaglianza, i diritti, la redistribuzione delle risorse. Io penso ad un orizzonte espansivo di cambiamento della Costituzione. Renzi mi pare insegua un percorso opposto, di riduzione della democrazia costituzionale ».

«Per una Unione euro-mediterranea. Che significa quel "teneteveli", rivolto non solo a Italia e Grecia, Sicilia e Puglia, ma a Libano, Giordania, Turchia, Egitto, che di profughi ne "ospitano" milioni?»,

Il manifesto, 9 giugno 2015

Il capi­tolo «seces­sione», che le Regioni leghi­ste (la “Pada­nia” senza più il Pie­monte, ma con in più la Ligu­ria) non erano riu­scite ad aprire e legit­ti­mare in campo fiscale, viene oggi ripro­po­sto sulla que­stione delle «quote» di pro­fu­ghi e migranti da tra­sfe­rire al Nord dai porti di sbarco; nono­stante che a gui­dare la rivolta sia pro­prio Maroni, l’ex-ministro che quelle quote le aveva intro­dotte. Ma que­sta volta la fronda leghi­sta avrà un impatto mag­giore, per­ché è in per­fetta sin­to­nia con le posi­zioni che i paesi dell’Unione Euro­pea stanno adot­tando nell’affrontare lo stesso pro­blema: «Teneteveli».

Cioè: anche se, con­tro gli intenti ori­gi­nari, la mis­sione Tri­ton è costretta a sal­varli, i pro­fu­ghi restino là dove sbar­cano. E con loro se la vedano i paesi e le regioni a cui li lasciano in carico. Il default greco non è dun­que più l’unica minac­cia per la coe­sione dell’Unione Europea.

Una gover­nance che si com­porta così verso i suoi mem­bri non è più la legit­tima guida dell’Ue, come non sarebbe più uno Stato uni­ta­rio quello che accet­tasse una divi­sione simile tra le sue Regioni.

Le destre ita­liane ed euro­pee lo sanno, anche se ancora pos­sono — e torna loro comodo — nascon­dere a se stesse e agli altri le con­se­guenze di que­sta linea di con­dotta: che è desti­nare allo ster­mi­nio milioni di esseri umani. Cioè, pro­prio la ripro­po­si­zione di ciò che la Comu­nità, poi Unione Euro­pea, ha come sua ragion d’essere ori­gi­na­ria: che le tra­ge­die pro­dotte da due guerre mon­diali e dai campi di ster­mi­nio «non abbiano a ripe­tersi mai più». Invece sono di nuovo davanti a noi, e tra noi. Non lo si può igno­rare. Le deboli forze che in Ita­lia e in Europa si bat­tono per un mondo diverso ne devono pren­dere atto; anche se que­sta è in asso­luto la più dif­fi­cile delle bat­ta­glie che finora non siamo stati capaci di com­bat­tere, e soprat­tutto di vincere.

Che cosa signi­fica infatti quel «tene­te­veli», rivolto non solo a Ita­lia e Gre­cia, Sici­lia e Puglia, ma anche a Libano, Gior­da­nia, Tur­chia, Egitto, che di pro­fu­ghi ne «ospi­tano» già non decine di migliaia, ma milioni? O rivolto a Libia, Tuni­sia, Sudan, Mali, Niger, ecc.? Paesi, que­sti, dove non si rie­sce nep­pure a fare una conta som­ma­ria degli sban­dati (displa­ced per­sons) e dove è ormai impos­si­bile distin­guere tra pro­fu­ghi di guerra, di per­se­cu­zioni poli­ti­che, reli­giose o etni­che, di crisi ambien­tali o di fame e mise­ria (i cosid­detti migranti eco­no­mici); anche se l’esito di que­ste tante con­cause è quasi sem­pre una guerra ali­men­tata dal com­mer­cio di armi a bene­fi­cio di nazioni che le producono.

L’Italia affronta il pro­blema affi­dan­dolo a mala­vita, mafia e mal­go­verno, gli stru­menti tra­di­zio­nali di gestione di tutte le emer­genze vere o inven­tate: Expò, Mose, rifiuti, ter­re­moti, allu­vioni, ele­zioni, sanità, lavoro nero. Con i pro­fu­ghi, gli affari di mafia e mal­go­verno si asso­ciano a sfrut­ta­mento, umi­lia­zione e degrado di coloro che ven­gono affi­dati alle loro «cure». Ma anche a cre­scenti motivi di timore, mal­con­tento, rivolta aperta; a invo­ca­zione di poteri forti e solu­zioni defi­ni­tive (o «finali»?); a pro­fes­sioni di raz­zi­smo osten­tate delle popo­la­zioni locali.

Ma in che modo pen­siamo che ven­gano gestiti in Medio Oriente i campi pro­fu­ghi di milioni di esseri umani senza alcuna pro­spet­tiva di ritorno alle loro terre per molti anni? E in Libia, in Sudan, o in tutti gli altri paesi verso cui li vor­remmo riso­spin­gere? E che cosa ci aspet­tiamo che fac­ciano i Buzzi o gli Alfano di quei paesi? Il loro lavoro sarà «farli spa­rire», dopo averli tor­tu­rati, rapi­nati e vio­lati in tutti i modi: unica alter­na­tiva alla man­cata pos­si­bi­lità tra­ghet­tarli in Europa.

Ma lo Stato ita­liano, lasciato solo a veder­sela con flussi cre­scenti e incon­trol­la­bili, diven­terà anch’esso desti­na­ta­rio dei respingi-menti: ridotto a tra­sfor­mare la poli­zia, come già sta facendo, in «sca­fi­sti di Stato», per cer­care di far pas­sare la fron­tiera, in vio­la­zione della con­ven­zione di Dublino, al mag­gior numero pos­si­bile di migranti; o a «ester­na­liz­zarne» la gestione a orga­niz­za­zioni alla Buzzi (ma in campo c’è già anche di peg­gio); o ad abban­do­narli per strada, insce­nando fughe di massa dai luo­ghi di deten­zione, e creando così situa­zioni di degrado e di effet­tivo peri­colo con cui ali­men­tare rivolte sem­pre più dif­fuse di comu­nità locali.

Che l’Italia possa rima­nere «aggan­ciata» all’Europa in una situa­zione del genere è dif­fi­cile. Ma che l’Europa possa con­ti­nuare a occu­parsi di sfo­ra­menti dei defi­cit dello «0 vir­gola», senza darsi uno strac­cio di poli­tica per affron­tare, in una pro­spet­tiva di paci­fi­ca­zione, la bel­li­ge­ranza ende­mica ai suoi con­fini, o le derive auto­ri­ta­rie, nazio­na­li­sti­che e raz­zi­ste al suo interno, è altret­tanto surreale.

D’ora in poi tutti i pro­getti per cam­biare la società, o la distri­bu­zione del red­dito, o per difen­dere lavoro, ter­ri­to­rio, scuola, sanità, cul­tura, diritti, dovranno con­fron­tarsi con il pro­blema dei pro­fu­ghi e dei migranti: per cer­care una via di uscita paci­fica e nego­ziata alla crisi geo­po­li­tica del Medi­ter­ra­neo; e per tro­vare un posto e un ruolo alle cen­ti­naia di migliaia che cer­cano sal­vezza in Europa.

Una via di uscita soste­ni­bile, accet­ta­bile per tutti, che riduca anzi­ché esa­cer­bare le molte ragioni di con­tra­sto tra locali e migranti; che per­metta di vivere l’arrivo di tanti pro­fu­ghi non come una minac­cia e un peso inso­ste­ni­bili, bensì – lo hanno dimo­strato vicende locali esem­plari, come quella di Lam­pe­dusa — come un’opportunità di nuove forme di con­vi­venza, di cre­scita cul­tu­rale, di aper­tura poli­tica, di un approc­cio di respiro euro-mediterraneo ai pro­blemi quo­ti­diani: un approc­cio, cioè, che riguardi al tempo stesso il nostro con­ti­nente e i paesi dell’Africa, del Magh­reb e del Medio Oriente.

Con un piano che deve, sì, essere euro­peo, ma che va messo a punto qui, comin­ciando a dimo­strarne la fat­ti­bi­lità per pic­coli epi­sodi: a par­tire da una vigi­lanza e una con­te­sta­zione dif­fuse e di massa su tutti gli affidi in mate­ria di acco­glienza e gestione dei profughi.

Innan­zi­tutto i cit­ta­dini ita­liani non devono essere messi nella con­di­zione di temere che a loro siano riser­vate meno risorse e meno oppor­tu­nità di quelle desti­nate a pro­fu­ghi e migranti: dun­que, red­dito garan­tito e piani gene­rali per creare lavoro e dare occu­pa­zioni e solu­zioni abi­ta­tive decenti a tutti (e fine, quindi, dei patti di stabilità).

Poi, auto­ge­stione: è cri­mi­nale costrin­gere i pro­fu­ghi «accolti» a un ozio for­zato di anni e affi­dare a imprese cosid­dette sociali la gestione di ogni aspetto della loro vita quo­ti­diana. Assi­stiti e con­trol­lati, pro­fu­ghi e migranti pos­sono gestire da soli risorse ed edi­fici riser­vati alla loro permanenza.

Poi devono essere distri­buiti sul ter­ri­to­rio, con misure per faci­li­tare con­tatti e scambi con i locali: accesso a scuole, sanità, atti­vità ricrea­tive, media­zione cul­tu­rale. Infine devono potersi orga­niz­zare anche sul piano poli­tico, valo­riz­zando i con­tatti tra comu­nità nazio­nali già inse­diate in Europa, e con chi è restato nei paesi da cui sono fuggiti.

La costru­zione di una iden­tità regio­nale – di una comu­nità euro-mediterranea, da fon­dare sulle mace­rie dell’Unione attuale, che ha dimen­ti­cato le ragioni che l’hanno fatta nascere — ha biso­gno di que­ste cit­ta­dine e cit­ta­dini, che qui pos­sono met­tere a punto un pro­getto, un embrione di governo in esi­lio, e una road map per il riscatto poli­tico e sociale dei loro paesi di origine.

È una strada lunga e tor­tuosa (come lo è stata quella che ha por­tato alla fon­da­zione dell’Unione Euro­pea), ma ine­lu­di­bile per non venir sopraf­fatti da una guerra per­ma­nente ai con­fini dell’Unione e dal trionfo del raz­zi­smo al suo interno.

P.S. Que­sto è un tema ine­lu­di­bile per la coa­li­zione sociale, un pro­getto che poteva nascere un anno fa con L’Altra Europa con Tsi­pras, ma che è stato disat­teso a favore di un enne­simo assem­blag­gio di inu­tili par­ti­tini; ma che per for­tuna è stato ripreso dalla Fiom e da tutti coloro che vi si stanno impegnando.

«Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, perché nulla è cambiato? Come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate».

Corriere Della Sera, 9 Giugno, 2015 (m.p.r.)

«Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale.

L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.
Dopo vent’anni di inchieste giudiziarie sulle malefatte dei politici e di denunce della corruzione formulate anche in sedi autorevolissime (dai più alti scranni della Repubblica al soglio di Pietro), ancora a questo punto siamo? Questo è ciò che mestamente devono essersi domandati tanti italiani, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa quanto meno ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile ma che andrebbe superato, per cominciare a chiedersi se non ci sia stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui per tanti anni abbiamo evocato la «questione morale». Una parte del mondo politico e dell’informazione, prevalentemente orientata a sinistra, lo ha fatto, ad esempio, accreditando l’idea che ad essere disonesti fossero gli «altri», i politici — e dietro di loro, si lasciava intendere, gli elettori — di centrodestra. Era l’idea di una frattura antropologica tra destra e sinistra che, prima ancora di Mafia Capitale, altri scandali bipartisan si sono incaricati di dimostrare infondata; ma è tuttavia un’idea cui una parte del Paese ha creduto a lungo, evitando anche per questo di riflettere seriamente sulle ragioni per cui in Italia guardiamo spesso con indulgenza e comprensione a certi comportamenti illegali.

Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi - appunto - politici. Invece - ecco un altro errore di questi decenni - il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva.
Le notizie che si vanno pubblicando sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là di quelle che saranno poi le risultanze finali dei processi e al di là della congruità (per molti dubbia) del riferimento alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivamente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica, che avrà avuto molti difetti ma non questo.
Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmente. Tranne evidentemente nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei «capibastone» (il termine era usato tre mesi fa da Fabrizio Barca in quella sua diagnosi sul Pd romano «pericoloso e dannoso» di cui forse i vertici del Nazareno avevano sottovalutato la drammaticità). Se le cose stanno così, i partiti — e in primo luogo, il principale partito di governo — non possono limitarsi alla (ovvia) esortazione affinché la giustizia faccia il suo corso, ma dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolare, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalmente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria.
Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.

Se c’è un aspetto che caratterizza l’elezione di Ada Colau a sindaca di Barcellona (alcaldesa, non è una corruzione del maschile alcalde) ed è l’aver fatto del diritto alla casa ed alla città la base della sua piattaforma politica. La lista civica che l’ha sostenuta, Barcelona en Comú, scaturita dalla fusione della rete di comitati e associazioni Guanyem Barcelona con una serie di partiti, ha vinto proponendo un’idea di nuovo municipalismo che chiede ai cittadini di partecipare alla gestione della città e che contrasta le politiche nazionali soprattutto riguardo alle conseguenze dell’esplosione della bolla immobiliare.

Colau è fondatrice del movimento Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH) che dal 2009 si batte per una diversa legislazione sull’insolvenza dei mutui ipotecari in Spagna, dove chi non riesce più pagare il mutuo viene buttato fuori casa dalla banca che poi la lascia vuota ma continua a chiedere il pagamento delle rate. Numerosissimi sono stati i cittadini che dopo aver perso la casa hanno in fine deciso di rinunciare alla vita. Nel 2012 insieme ad Adrià Alemany ha pubblicato Vidas hipotecadas, uno studio sull’origine e sulle conseguenze della bolla immobiliare in Spagna che passa al setaccio il primato iberico nel tasso di possesso dell’abitazione. Prima della crisi economica la Spagna era una nazione di proprietari immobiliari, dove nove cittadini su dieci possedevano la casa in cui vivevano. Questo dato è il principale indicatore della profonda crisi che ha sconvolto il paese negli ultimi sette anni e che ha le sue radici nella politica edilizia del franchismo. La cultura proprietaria della Spagna contemporanea è la pesante eredità di un regime politico che ha fatto del settore delle costruzioni l’industria nazionale per eccellenza. L’indebitamento generalizzato che si è prodotto a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, facilitato dai vantaggi fiscali e dall’ingresso della economia spagnola in quella europea, ha fatto il resto.

All’interno di questa eredità – e del progredire del settore edilizio come una delle principali componenti del prodotto interno lordo nazionale - trova spiegazione la legge che dal 1998 disciplina l’uso del suolo, non a caso definita dell’urbanizzazione totale, il cui impressionate risultato sono 6,6 milioni di abitazioni realizzate dalla sua promulgazione fino al 2007. L’impiego in edilizia, attraverso modalità precarie che sono poi state spazzate via dalla crisi, ha riguardato il 13% della popolazione attiva: un dato doppio rispetto, ad esempio, a quello della Germania. In tutto ciò l’intervento della Stato da diretto è diventato indiretto e finalizzato in modo crescente a sostenere la domanda e l’intervento privato nell’edilizia residenziale con strumenti come la detrazione fiscale degli interessi passivi del mutuo. Il grande investimento economico del settore edilizio non ha solo fatto della Spagna una nazione di proprietari immobiliari ma ha anche disseminato il paese di seconde case per il turismo nord-europeo. Il risultato è ciò che qualche tempo fa un servizio fotografico pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian ha definito La costa del concrete, ovvero la quasi totale edificazione del litorale spagnolo che si affaccia sul Mediterraneo.

Il connubio edilizia-turismo a Barcellona significa che la città è stata progressivamente sottratta ai suoi abitanti, facendone una sorta di grande albergo diffuso. Attualmente le presenze turistiche sono tre volte e mezzo i residenti della capitale catalana e l’amministrazione uscente non trovava nulla di male nel pensare che il dato: potesse essere aumentato fino a dieci milioni l’anno. Gli effetti del turismo di massa sulla vita delle persone, il triste declino di Barcellona da metropoli trainante l’economia di un’intera regione a parco tematico - qui si dirige la maggiore quantità di navi da crociera del Mediterraneo e d’Europa - è raccontata nel documentario di Eduardo Chibàs Bye Bye Barcelona, una dettagliata denuncia della progressiva perdita dei diritti di cittadinanza da parte degli abitanti tramite l’inarrestabile privatizzazione dello spazio pubblico incessantemente messo a profitto. Da tempo le manifestazioni e le iniziative di cittadini che protestano contro l’affitto illegale di appartamenti per vacanze, fenomeno favorito dalla deregolamentazione di fatto del cambio di destinazione d’uso degli edifici residenziali in alberghi, denunciano tutto ciò. Alla Barceloneta, lo storico quartiere sul mare, ci sono state assemblee, proteste, e in un caso anche tensioni con i turisti evidentemente ignari di trovarsi in una città, scambiata invece per un villaggio vacanze o un parco a tema.

Nella piattaforma politica di Colau un’abitazione dignitosa per chi l’ha persa – nella sola Barcellona sono 3000 persone che vivono negli alberghi messi a disposizione dalla municipalità e sono 900 coloro che dormono per strada – significa innanzi tutto togliere il settore immobiliare dal dominio della finanza: nel paese con il più alto numero di abitazioni vuote il sistema bancario è diventato il principale proprietario di case. La lotta contro gli sfratti, della quale la nuova alcaldesa è stata protagonista, dopo molti anni di oblio e di retorica sulla competitività e sui costi da pagare allo sviluppo economico ha rimesso al centro dell’agenda politica i fondamentali diritti di cittadinanza. Ora il cambiamento nella governo di una delle più importanti città europee sarà interpretato da una amministrazione guidata da una donna. Lo stesso molto probabilmente succederà a Madrid con Manuela Carmena, l’altro volto femminile della svolta municipalista che ha segnato le elezioni in Spagna.

Riferimenti
A. Colau, A. Alemany, Vidas hipotecadas, Cuadrilatero de libros, 2012.

La terza guerra mondiale, nella quale siamo immersi dalla fine del Primo millennio, nella visione di un papa venuto dal Sud del mondo e dal cuore di una raffinata civiltà.

La Repubblica, 8 giugno 2015

“UNA terza guerra mondiale combattuta a pezzi” l’ha definita Bergoglio nell’omelia tenuta sabato mattina allo stadio olimpico Koševo di Sarajevo durante l’oceanica messa gremita di reduci della guerra che ha insanguinato i Balcani negli anni ’90 del Novecento. Così, con l’usuale raffinatezza di un linguaggio solo apparentemente semplice, di una comunicazione intellettuale a più livelli, in contrapposizione a quello che ha definito “il clima di guerra della comunicazione globale”, papa Francesco ha fotografato lo scenario bellico su cui si è aperto il terzo millennio e rinominato il conflitto cui è stata applicata da molti, non ultimo il precedente papa, la contestabile nozione di scontro di civiltà.

“Scontro fra culture” al plurale, ha concesso Bergoglio, può se mai definirsi la guerra in corso. Non ci si aspetta di meno da un papa colto che ha fatto dell’understatement la propria cifra e del sottotesto il proprio mezzo; che ha adottato il motto di Ignazio di Loyola e di Hölderlin: Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est , “Scavalco il grande confinandomi nel piccolo”; che battendosi contro il “tomismo decadente” ha rivendicato il manifestarsi di dio nella rivelazione storica; il cui programma affonda nei millenni e guarda all’eredità dell’ellenismo e di Bisanzio, dunque all’ecumenismo come priorità; che sul dialogo interconfessionale, prima e oltre che interreligioso, gioca la sua partita a scacchi col secolo.

Il pontificato di Bergoglio è in questo senso erede diretto di quello del “papa geopolitico” Wojtyla. Dopo il definitivo esaurirsi nel secolo breve del fantasma imperiale postbizantino il blocco ottomano caduto al suo inizio, nel conflitto innescato proprio a Sarajevo, quello russo-sovietico dissolto alla sua fine, con la caduta del muro e il golpe di Eltsin — il millennio si è aperto su un nuovo scenario di conflitto. La Terza Guerra Mondiale a Pezzi di Bergoglio è molteplice, scava più solchi, dischiude più fronti; faglie di attrito antichissime ricominciano a entrare in moto complesso; un unico macroscopico sussulto tellurico scuote i Balcani, il Caucaso, la Mesopotamia, dilaga nel Medio Oriente, destabilizza e arroventa pezzo a pezzo le aree geografiche in cui i due imperi avevano imposto identità unitarie trasversali sia alla divisione stereotipa tra oriente e occidente, sia a quella tra religioni. È allora che si insinua nella fantasia collettiva l’idea di uno scontro frontale di civiltà tra oriente islamico e occidente cristiano.

Un’idea che Bergoglio rifiuta. Lo indica già in sé la mossa del cavallo con cui ha fatto slittare il discorso sull’islam allo scacchiere balcanico e partire il messaggio da Sarajevo, covo di antichi demoni e città martire dall’uno all’altro capo del Novecento, menzionando le sue diversità etniche e religiose, sottolineando la sua sofferenza storica, definendola “la Gerusalemme dell’occidente” con l’antico linguaggio che i papi rinascimentali applicarono a Costantinopoli nel primo frangente geopolitico che cinque secoli fa, a metà del quindicesimo, fece riflettere l’élite della curia romana sulla sorte degli equilibri mondiali alla prima islamizzazione ottomana dei Balcani.

Non è un caso che Bergoglio lanci il suo messaggio alla vigilia del G7, dove sia sulla questione ucraina, sia sui dossier Libia, Iraq e Siria il principale invitato è quello assente: il convitato di pietra Putin. Nella Terza Guerra Mondiale a Pezzi l’area slavo-balcanica interseca alla memoria islamica il più decisivo interlocutore di Bergoglio: la chiesa ortodossa, assuefatta a una perdurante fedeltà politica alla sfera russa, che già nel ’99 Julia Kristeva analizzava su Le monde partendo dalla millenaria alterità teologica tra chiesa d’oriente e d’occidente sintetizzabile nella contesa trinitaria sulla processione dello Spirito Santo. Il problema di Francesco, più ancora che quello della jihad, è quello del Filioque. È il risanamento dello scisma tra le chiese cristiane, prima ancora del patteggiamento tra cristianesimo e islam, a pesare nell’agenda del papa che per primo dopo Wojtyla, con raffinatezza gesuitica, ha ripreso il filo della geopolitica.

Altro che "sfida del Nord» al governo" : qui c’è solo miserabile squallore, giustamente stigmatizzato e liquidato. Certi figuri non fanno geografia.

La Repubblica Milano, 8 giugno 2015

C’è una sola parola per definire l‘ultima uscita del governatore leghista della Lombardia Roberto Maroni: miseria. Umana e politica. Minacciare il taglio dei fondi regionali ai sindaci disposti ad accogliere gli immigrati che stanno sbarcando in Italia dopo essere stati salvati dal naufragio è ben più di una “cattiveria”. È abuso ricattatorio della propria carica istituzionale. È appropriazione indebita di una funzione, quella di decidere delle politiche dell’immigrazione, che spetta allo Stato. Ed è una gravissima sottrazione di democrazia nei confronti dei cittadini che con il loro voto hanno eletto i sindaci, quelli favorevoli all’accoglienza e alla solidarietà verso l’immigrazione e anche quelli poco disponibili, che di queste scelte devono essere sempre pienamente responsabili. E su questo venire giudicati dai loro cittadini.

Maroni insegue il suo pupillo e delfino Salvini in una ignobile corsa a chi la spara più grossa. Qualche settimana fa l’escalation si sarebbe spiegata con la campagna elettorale per le Regionali. Ora, è vero, sono imminenti i ballottaggi in qualche decina di Comuni. Tuttavia la sensazione è che questo vociare sguaiato sia entrato stabilmente nel repertorio leghista. Anzi, sia diventato il “sale” anche del leghismo cosiddetto di governo. Non ha alcuna importanza, infatti, se i profughi non hanno per destinazione ultima l’Italia. Non importa se scappano da guerre e persecuzioni. Sono ridiventati, tutti, clandestini. E perciò non solo indesiderabili ma pericolosi per il solo fatto di esistere e pretendere di salvarsi la vita sbarcando in Europa.

Le minacce ritorsive di un presidente di Regione nei confronti dei sindaci hanno un sapore insieme medievale e postmoderno. Si proclama un regime di vassallaggio per una invasione inesistente al fine di accumulare paura: il capitale politico su cui la nuova Lega degli orchi vuole raccogliere consenso. Ma c’è anche il caso che la squallida pagina scritta ieri dal governatore sia molto meno e tutt’altro rispetto a una feroce levata di scudi sull’immigrazione. Com’è noto, infatti, Maroni negli ultimi giorni ha avuto un problema dal quale non riesce a venire fuori. È il cosiddetto “Paturzogate”, ovvero lo strano caso di una consulente assunta da Expo Spa che la Procura ritiene coinvolta in una relazione affettiva con il governatore e che, secondo l’accusa, Maroni voleva assolutamente portare con sé in missione in Giappone, come rappresentante di Expo. Una compagnia che al commissario Giuseppe Sala pareva costosa e fuori luogo.

Quel viaggio, poi, Maroni non lo fece, per via di un imprevisto. Per queste ragioni – e per altre vicende che coinvolgono la posizione di un’altra collaboratrice - il governatore è indagato per “induzione indebita e concorso in turbata libertà della scelta del contraente”. Forse non si sbaglia a sospettare che un’uscita come quella di ieri sugli immigrati, fra l’altro palesemente illegale e incostituzionale (nessun organo di governo può adottare una politica ritorsiva contro un’altra istituzione) sia una sparata costruita per gettar polvere sull’inchiesta in corso. Meglio fare la parte dell’orco antimmigrati che del politico che cerca di portarsi la consulente in viaggio premio. Una House of cards miserabile, degna di uno sceneggiatore di infimo livello.
Il leader Fiom all’assemblea di Coalizione sociale “Raccoglieremo chi è contro questo premier”. La Repubblica, 7 giugno 2015

“Coalizione sociale” di Maurizio Landini ha cominciato ieri il suo cammino al centro Frentani di Roma. E come ha voluto il segretario Fiom, la partenza è stata «dal basso». Dai lavoratori, dalle associazioni, dai sindacati. C’erano tanti ex militanti degli anni Settanta. E poi i militanti di Arci (che hanno aperto i lavori), dei centri sociali, dei movimenti studenteschi come Onda, del forum per “l’acqua bene comune”, di Legambiente, di Action “sfratti zero”, di “sciopero sociale”. Accanto a loro, sono spuntati a sorpresa (e per la prima volta), associazioni e gruppi di professionisti, avvocati, notai, lavoratori autonomi a partita Iva, categorie di questo pianeta di lavoratori spinte dalla crisi a cercare un rapporto con i sindacati. Insomma, un centinaio di associazioni per centinaia di simpatizzanti, molti studenti, molti esponenti della scuola, molti sindacalisti, fra questi il predecessore di Landini, Gianni Rinaldini, oggi coordinatore nazionale dell’area programmatica della Cgil.

Coalizione Sociale diventerà dunque un partito e Landini ne sarà il leader? «La prossima volta ve lo dirò in cinese — ha risposto quasi stizzito il segretario Fiom — Coalizione sociale è nata fuori dai partiti, per ricostruire la politica. Non mi faccio ingabbiare dal partito. Inizia un percorso che vuole essere democratico al massimo. Le presenze di questi giorni dimostrano che il bene del Paese si fa cercando di unire ciò che Renzi e il suo governo divide».

Obiettivo della due giorni, ha poi spiegato, è quello di selezionare, attraverso numerosi gruppi di lavoro, tre o quattro temi fondamentali sui quale scatenare delle campagne nazionali che potranno sfociare anche (ma non necessariamente) in referendum. Due temi sono già stati individuati, e sono quelli del jobs act e della riforma della scuola. Gli altri potranno essere legati all’ambiente. C’è grande attesa, intanto, per l’intervento di Stefano Rodotà previsto per oggi.

Nonostante non sia stato consentito loro di parlare, qualche politico s’è affacciato, ieri, al centro Frentani, come i deputati di Sel Nicola Fratoianni e Giorgio Airaudo. E l’europarlamentare Eleonora Forenza della lista Tsipras-L’Altra Europa. «Pur non essendo stati invitati i partiti - ha detto Forenza - l’assemblea di Coalizione sociale ha un valore politico: quello di ricomporre i pezzi di società che il neoliberismo ha diviso». «Siamo qui per ascoltare - ha aggiunto Airaudo - perché non si ricostruisce la politica attraverso i ceti, ma è con il radicamento sociale che si risponde ai problemi dei cittadini che il governo non risolve più».

«L’arrivo in Ger­ma­nia dei «grandi della terra» è stato pre­pa­rato da un’efficace cam­pa­gna di mobi­li­ta­zione che ha visto impe­gnate molte orga­niz­za­zioni che si bat­tono “per un altro mondo pos­si­bile”. Una rete plu­rale che ha tro­vato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: “fer­mare il Ttip, sal­vare il clima, com­bat­tere la povertà”».

Il manifesto, 7 giugno 2015

Di norma, la ricca e pla­cida Baviera non è tea­tro abi­tuale di pro­te­ste e impo­nenti mani­fe­sta­zioni. Salvo ecce­zioni: come quelle, molto posi­tive, di que­sti giorni. Il motivo? Il ver­tice del G7 che comin­cia oggi allo Schloss Elmau, lus­suoso hotel nei pressi della loca­lità scii­stica di Gar­mi­sch, al con­fine con l’Austria: una loca­tion esclu­siva nella quale la pre­si­dente di turno Angela Mer­kel e i suoi ospiti discu­te­ranno fino a domani dei temi caldi della poli­tica inter­na­zio­nale. In agenda: il Ttip (trat­tato di «libero scam­bio» Usa-Ue), il cam­bia­mento cli­ma­tico (in vista della con­fe­renza di Parigi a fine anno) e le crisi politico-economiche in giro per il pia­neta, dall’Ucraina al Medio oriente. Il con­vi­tato di pie­tra è il pre­si­dente russo Vla­di­mir Putin, cac­ciato dall’esclusivo club in seguito all’annessione della Crimea.

L’arrivo in Ger­ma­nia dei «grandi della terra» è stato pre­pa­rato da un’efficace cam­pa­gna di mobi­li­ta­zione che ha visto impe­gnate molte orga­niz­za­zioni che si bat­tono «per un altro mondo pos­si­bile»: asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste, Attac, ong come Oxfam, i par­titi di oppo­si­zione Verdi e Linke, ma anche i gio­vani della Spd, in con­tra­sto con la linea del lea­der del par­tito, il vice­can­cel­liere Sig­mar Gabriel. Una rete plu­rale che ha tro­vato l’unità d’azione attorno a tre punti-chiave: «fer­mare il Ttip, sal­vare il clima, com­bat­tere la povertà».

Oltre ogni aspet­ta­tiva l’esito del cor­teo sfi­lato per le vie di Monaco gio­vedì scorso: 40 mila per­sone di fronte alle quali la can­cel­liera Mer­kel si è sen­tita in dovere di dire che le mani­fe­sta­zioni sono «un segno di vita­lità della demo­cra­zia». Chissà se la lea­der demo­cri­stiana e il suo vice social­de­mo­cra­tico avranno riflet­tuto anche sulla «vita­lità» dell’opposizione al Ttip pro­prio nel loro Paese.

La pro­te­sta anti-G7 è pro­se­guita ieri (Garmish, nella foto Lapresse), sdop­pian­dosi. Un appun­ta­mento era diret­ta­mente nei pressi del ver­tice con un’iniziativa sul modello bloc­kupy (l’assedio alla sede Bce a Fran­co­forte), soste­nuta da un arco di forze ancora più ampio di quello di gio­vedì, com­pren­dente anche gli Auto­no­men dei cen­tri sociali occu­pati: a sfi­lare per le strade di Gar­mi­sch si sono ritro­vati in quasi 10mila (3500 per le forze dell’ordine).

Qual­che momento di ten­sione con la poli­zia, mas­sic­cia­mente pre­sente, che ha attac­cato il cor­teo con lo spray urti­cante: per gli orga­niz­za­tori si è trat­tato di «un’aggressione senza giu­sti­fi­ca­zioni». L’altro mee­ting di nuovo a Monaco, nella König­splatz, per un con­certo orga­niz­zato da Save the Chil­dren e altre orga­niz­za­zioni non governative.

La tenace battaglia per mantenere la speranza di un'Europa utile alle persone e non ai mangiatori di soldi, Articoli di Pavlos Nerantzis e di Dimitri Deliolanes. Il manifesto, 6 giugno 2015

ATENE VS. TROIKA
di

Gioco a carte sco­perte ieri al Par­la­mento greco da parte di Tsi­pras. I docu­menti dello scon­tro con i cre­di­tori sono ormai pub­blici. Per prima Atene ha messo in rete la sua pro­po­sta di 47 pagine e in rispo­sta Dijs­sel­bloem ha reso pub­blico anche il suo, di sole 5 pagine ma cro­no­lo­gi­ca­mente rima­sto al 2014 e al pre­ce­dente governo Sama­ras (il pdf qui). Docu­menti noti, ampia­mente com­men­tati anche dalla stampa internazionale. Il pre­mier greco ha difeso con pas­sione la sua pro­po­sta verso i cre­di­tori e ha riba­dito con forza che non è dispo­sto a fare un solo passo indie­tro. La sua pro­po­sta, ha spie­gato, «non è il pro­gramma di Syriza» ma è basata sulle «con­ver­genze acqui­site in que­sti quat­tro mesi di dura trat­ta­tiva» ed è quindi «l’unica base rea­li­stica» per uscire dall’impasse.

Mal­grado lo «spia­ce­vole passo indie­tro» rap­pre­sen­tato dall’«inaccettabile» docu­mento pre­sen­tato gio­vedì da Dijs­sel­bloem e Junc­ker, il pre­mier greco con­ti­nua a rite­nere che un accordo sia ora «più vicino che mai». La sua con­vin­zione nasce dall’assoluta cer­tezza che «nell’eurozona pre­val­gono le forze ragio­ne­voli che vogliono pre­ser­vare e raf­for­zare la moneta comune» con­tro una «mino­ranza» che cerca di «umi­liare» e «sot­to­met­tere» un popolo «orgo­glioso» come quello greco.

Tsi­pras ha anche espresso la sua per­so­nale cer­tezza che pro­po­ste, come quelle avan­zate, di tagliare ulte­rior­mente le pen­sioni e aumen­tare del 10% il costo della cor­rente elet­trica «non saranno votate da nes­sun depu­tato del Par­la­mento greco». Il lea­der di Syriza con­si­dera la pro­po­sta di gio­vedì quindi come facente parte di una «brutta tat­tica nego­ziale» che «non ha otte­nuto alcun effetto e molto pre­sto finirà nel dimenticatoio».

Tsi­pras ha rivolto un appello all’opposizione di sce­gliere tra le due pro­po­ste e di schie­rarsi a fianco del governo. Appello caduto nel vuoto: l’opposizione di destra e di cen­tro è fran­tu­mata, con­fusa e senza stra­te­gia, asso­lu­ta­mente non in grado di inci­dere mini­ma­mente sugli svi­luppi. Ma al lea­der di Syriza il dibat­tito par­la­men­tare è ser­vito per disar­mare le con­ti­nue grida di que­sti mesi di Sama­ras e del lea­der di To Potami verso il governo di fir­mare qual­siasi accordo pur di evi­tare disa­stri e catastrofi.

«Il popolo ci chiede di resi­stere e di non cedere alle richie­ste assurde dei cre­di­tori», ha riba­dito: «In que­sti quat­tro mesi abbiamo pagato per il debito 7,5 miliardi, da un anno il paese non incassa nes­sun finan­zia­mento, eppure siamo in piedi e abbiamo garan­tito con­di­zioni di sicu­rezza per il popolo greco e per quelli di tutta Europa».

Tsi­pras ha fatto un signi­fi­ca­tivo rife­ri­mento allo spo­sta­mento del paga­mento del debito al Fmi alla fine di giu­gno, facendo capire che la sospen­sione dei paga­menti da parte di Atene non è ora­mai un’eventualità remota ma molto rea­li­stica: in quel caso non ci sarà Gre­xit ma «una trau­ma­tica divi­sione dell’Europa che segnerà il suo fallimento».

Ma la «rot­tura» non ci sarà, ha assi­cu­rato. Per­ché non la vogliono i mer­cati, non la vogliono «i popoli euro­pei», non la vogliono le forze euro­pei­ste, al primo posto Syriza. Egual­mente il pre­mier ha evi­tato di con­fer­mare gli sce­nari che erano cir­co­lati in que­sti giorni di un nuovo ricorso alle urne oppure di un refe­ren­dum popo­lare sulla pro­po­sta Dijsselbloem.

TSIPRAS:"NON VOGLIAMO UN ACCORDO
VOGLIAMO LA SOLUZIONE
di Pavlos Nerantzis

Grecia. Il premier: «No ai ricatti e alle umiliazioni. Dalle istituzioni proposte assurde. Vogliamo risolvere in modo definitivo la questione del debito e mettere fine ai timori di Grexit»

Le forze poli­ti­che gre­che sono tutte d’accordo sulla posi­zione netta del governo greco di non accet­tare ulte­riori misure restrit­tive, ovvero il piano pro­po­sto dai cre­di­tori, per­ché «le con­se­guenze saranno cata­stro­fi­che per il paese». È quanto emerso ieri dal dibat­tito par­la­men­tare, dopo che un allarme all’esecutivo era par­tito anche dalla società, dai com­mer­cianti, dal mondo impren­di­to­riale, ai consumatori.

Senza mezze parole viene spe­ci­fi­cato da tutti che se — come richie­sto dalla tro­jaka — «l’Iva sarà aumen­tata di dieci punti» la reces­sione diven­terà ancora più profonda.

Secondo un nuovo stu­dio sulla situa­zione finan­zia­ria delle fami­glie gre­che pre­sen­tato da eco­no­mi­sti dell’Università di Atene «nei primi cin­que anni della grave crisi eco­no­mica, la fami­glia media ha perso quasi quat­tro decimi del pro­prio red­dito». La mag­gior parte delle per­dite regi­strate (il 23,1%) sono state in red­dito diretto. Un ulte­riore 8,8% è stato perso a causa di una mag­giore impo­si­zione fiscale e un altro 7% per l’inflazione non com­pen­sata da un aumento del red­dito nel periodo 2008–2012. La ricerca — che si basa sulle dichia­ra­zioni dei red­diti di 5,2 milioni di con­tri­buenti — sostiene inol­tre che nello stesso periodo preso in esame, la per­cen­tuale dei greci che vive al di sotto della soglia di povertà è pas­sata dal 27,9% al 31,1%.

Poche ore dopo l’incontro a Bru­xel­les tra Tsi­pras e Junc­ker , le rea­zioni ad Atene hanno preso la forma di una valanga. Certo la riu­nione è stata «buona» e «costrut­tiva» e ne segui­ranno altre, ma a sen­tire il pre­mier greco, cosa che ha fatto notare durante una tele­con­fe­renza a Mer­kel e Hol­lande, le pro­po­ste pre­sen­tate dai cre­di­tori aumen­te­reb­bero la povertà e la dis­so­cu­pa­zione, oltre a non essere state discusse al Brus­sels Group.

L’accordo sarebbe die­tro l’angolo, ma nes­suna delle due parti è dispo­sta a fare mar­cia indie­tro. Oltre a Tsi­pras non è da esclu­dere che pure i cre­di­tori pos­sano chie­dere un pro­lun­ga­mento dei nego­ziati per far pas­sare le loro pro­po­ste, ovvero un nuovo pesante memo­ran­dum invece di una «solu­zione» come chie­sto in modo ener­gico da Tsi­pras in par­la­mento. Di fatto, dopo la dichia­ra­zione del pre­mier greco, le voci più cri­ti­che sono quelle dei strati medi e dei par­la­men­tari di Syriza i quali que­sta volta pro­ven­gono non sol­tanto dalla potente oppo­si­zione interna, la «Piat­ta­forma della Sini­stra», bensì da tutte le com­po­nenti della sini­stra radi­cale greca.

In que­sto ambito Tsi­pras ha fatto due mosse: ha deciso di accor­pare i quat­tro paga­menti di giu­gno al Fmi in un unico esborso il 30 giu­gno e ha chie­sto la riu­nione straor­di­na­ria del par­la­mento. Il suo obiet­tivo era dop­pio: otte­nere il con­senso più largo pos­si­bile sia al seno del suo par­tito, sia dall’opposizione; gua­da­gnare tempo nei con­fronti dei suoi inter­lo­cu­tori internazionali.

La neces­sità è di arri­vare ad un accordo al più pre­sto pos­si­bile per­ché l’economia reale sof­fre, come ha sot­to­li­neato l’ ex pre­mier Anto­nis Sama­ras, lea­der dei con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia. Sama­ras deve fare i conti con tanti diri­genti «neo­de­mo­cra­tici» e una parte del suo par­tito che si schie­rano a favore di un even­tuale accordo tra il governo e i cre­di­tori internazionali.

Il prin­ci­pale par­tito dell’opposizione greca è con­tra­rio all’eventualitá di ele­zioni anti­ci­pate, ipo­tesi che viene avan­zata da alcuni diri­genti di Syriza in caso non ci sarà un accordo con i cre­di­tori, men­tre pro­muove l’idea di un governo di unità nazio­nale (pro­spet­tiva già rifiu­tata dal governo).

Più o meno simile è stata la posi­zione del Pasok, che si trova in un momento dif­fi­cile della sua sto­ria. Dopo la seconda scon­fitta elet­to­rale, ieri il Par­tito socia­li­sta greco ha aperto i lavori del suo con­gresso in vista delle ele­zioni, il 14 giu­gno, di un nuovo lea­der al posto di Evan­ghe­los Veni­ze­los il quale ha già reso noto che non si ricandiderà.

Il con­gresso è comin­ciato tra le pole­mi­che dei can­di­dati in carica con Fofi Gen­ni­mata, già sosti­tuto mini­stro della difesa durante il governo di coa­li­zione tra con­ser­va­tori e socia­li­sti, a lan­ciare accuse con­tro il segre­ta­rio del par­tito, Nikos Androu­la­kis, can­di­dato pure lui, per­ché «avrebbe inter­fe­rito con la sele­zione dei mem­bri del congresso».

Sta­vros Teo­do­ra­kis, il lea­der del «Potami» (Il fiume), la nuova for­ma­zione nell’area del centro-sinistra, si è schie­rato con Tsi­pras, pur cri­ti­can­dolo di aver perso troppo tempo senza in realtà trat­tare con i cre­di­tori. A favore di «una rot­tura con l’ Europa impe­ria­li­sta» sono i comu­ni­sti del Kke, il Par­tito comu­ni­sta di Gre­cia. «Se si ottiene un accordo sarà comun­que simile a quelli che hanno fir­mato i governi pre­ce­denti» ha detto il segre­ta­rio del par­tito, Dimi­tris Koutsoumbas.

Gli errori criminali dei governi che hanno preceduto la vittoria di Tsipras, la complicità della UE, la volontà tenace delle istituzioni europee di voler cancellare ogni tentativo di contrastare latenaglia dell'austerity neoliberista. Ecco, in sintesi, il dramma della Grecia di oggi - e dell'intera Europa.

Il manifesto, 5 giugno 2015

Il 25 gen­naio scorso, il popolo greco ha preso una deci­sione corag­giosa. Ha osato sfi­dare la strada a senso unico dell’austerità del Memo­ran­dum d’intesa per cer­care un nuovo accordo. Un nuovo accordo che con­sen­tisse la per­ma­nenza del Paese nell’euro, con un pro­gramma eco­no­mico effi­ciente, senza gli errori del passato.

Per que­sti errori il popolo greco ha pagato un prezzo alto: negli ultimi cin­que anni il tasso di disoc­cu­pa­zione è salito al 28% (per i gio­vani 60%), il red­dito medio è dimi­nuito del 40%, men­tre secondo i dati Euro­stat la Gre­cia è diven­tata il paese euro­peo con il più alto indice di disu­gua­glianza sociale. (…) Molti, tut­ta­via, sosten­gono che il governo greco non sta coo­pe­rando per rag­giun­gere un accordo, per­ché si pre­senta ai nego­ziati intran­si­gente e senza proposte.

È dav­vero così?

Poi­ché que­sti sono tempi cri­tici, forse sto­rici – non solo per il futuro della Gre­cia, ma anche per il futuro dell’Europa – vor­rei cogliere que­sta occa­sione per pre­sen­tare la verità e infor­mare respon­sa­bil­mente l’opinione pub­blica mon­diale sulle reali inten­zioni e posi­zioni della Grecia.

Il governo greco, sulla base della deci­sione dell’Eurogruppo del 20 feb­braio, ha pre­sen­tato un ampio pac­chetto di pro­po­ste di riforma, al fine di rag­giun­gere un accordo che coniu­gasse il rispetto del man­dato rice­vuto dal popolo greco con il rispetto delle regole e delle deci­sioni che gover­nano l’Eurozona.

Un punto chiave delle nostre pro­po­ste è l’impegno a ridurre – e quindi a ren­dere rea­liz­za­bili – gli avanzi pri­mari per il 2015 e il 2016, accon­sen­tendo ad avanzi pri­mari più ele­vati per gli anni suc­ces­sivi, poi­ché ci aspet­tiamo un aumento pro­por­zio­nale dei tassi di cre­scita dell’economia greca.

Un aspetto altret­tanto fon­da­men­tale delle nostre pro­po­ste è l’impegno ad aumen­tare le entrate pub­bli­che attra­verso una redi­stri­bu­zione dell’onere fiscale dalle classi medio-basse a quelle più alte che finora non hanno fatto la loro parte per con­tri­buire a far fronte alla crisi, pro­tette in que­sto sia dall’élite poli­tica che dalla troika che hanno chiuso un occhio.

Fin dall’inizio, il nostro governo ha chia­ra­mente dimo­strato la pro­pria inten­zione e deter­mi­na­zione ad affron­tare que­sti pro­blemi appro­vando una legge spe­ci­fica sulle frodi cau­sate dalle trian­go­la­zioni e inten­si­fi­cando i con­trolli doga­nali e fiscali per ridurre il con­trab­bando e l’evasione fiscale.

Men­tre, per la prima volta da anni, abbiamo fatto pagare ai pro­prie­tari dei media i loro debiti nei con­fronti del set­tore pub­blico greco. (…)

Abbiamo pre­sen­tato pro­po­ste con­crete con­cer­nenti misure che si tra­dur­ranno in un ulte­riore incre­mento delle entrate. Que­ste inclu­dono una tassa spe­ciale sui pro­fitti molto alti, una tassa sulle scom­messe online, l’intensificazione dei con­trolli sui tito­lari di conti ban­cari con somme ingenti – eva­sori fiscali, misure per la rac­colta degli arre­trati del set­tore pub­blico, una spe­ciale tassa sul lusso e una gara di appalto per la radio­dif­fu­sione e altre licenze, che la troika aveva stra­na­mente dimen­ti­cato negli ultimi cin­que anni. (…)

Infine – e nono­stante il nostro impe­gno verso i lavo­ra­tori di ripri­sti­nare imme­dia­ta­mente la lega­lità euro­pea del mer­cato del lavoro, com­ple­ta­mente sman­tel­lata nel corso degli ultimi cin­que anni con il pre­te­sto della com­pe­ti­ti­vità – abbiamo accet­tato di attuare le riforme del lavoro dopo una con­sul­ta­zione con l’Ilo, che ha già espresso un parere posi­tivo sulle pro­po­ste del governo greco.

Ciò detto, è ragio­ne­vole chie­dersi per­ché i fun­zio­nari delle isti­tu­zioni insi­stano a dire che la Gre­cia non pre­senta pro­po­ste. (…)

Quindi, cer­chiamo di essere chiari:

La man­canza di un accordo finora non è dovuta ad una pre­sunta posi­zione greca intran­si­gente, non incline ai com­pro­messi e incomprensibile.

È invece dovuta all’insistenza di alcuni attori isti­tu­zio­nali nel pre­sen­tare pro­po­ste assurde e mostrare una totale indif­fe­renza verso la recente scelta demo­cra­tica del popolo greco, nono­stante la pub­blica assi­cu­ra­zione delle tre Isti­tu­zioni sulla con­ces­sione della neces­sa­ria fles­si­bi­lità al fine di rispet­tare il ver­detto popolare.

Cosa deter­mina que­sta insistenza?

Si potrebbe innan­zi­tutto pen­sare che que­sta insi­stenza è dovuta al desi­de­rio di alcuni di non ammet­tere i pro­pri errori e, invece, di riba­dire le loro scelte igno­ran­done fal­li­menti.

Inol­tre, non dob­biamo dimen­ti­care che alcuni anni fa il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale ha ammesso pub­bli­ca­mente di aver sba­gliato i cal­coli della pro­fon­dità della reces­sione che sarebbe deri­vata dal memorandum. (…)

La mia con­clu­sione, quindi, è che la que­stione greca non riguardi solo la Gre­cia; piut­to­sto, è l’epicentro di un con­flitto tra due stra­te­gie dia­me­tral­mente oppo­ste riguar­danti il futuro dell’unificazione europea.

La prima stra­te­gia si pro­pone di appro­fon­dire l’unificazione euro­pea nel con­te­sto di ugua­glianza e soli­da­rietà tra i popoli e i cittadini. (…)

La seconda stra­te­gia si pro­pone pro­prio que­sto: la spac­ca­tura e la divi­sione della zona euro, e quindi della UE.

Il primo passo per la rea­liz­za­zione di que­sto obiet­tivo con­si­ste nel creare una zona euro a due velo­cità, dove il cuore fis­serà regole severe in tema di auste­rità e di adat­ta­mento e nomi­nerà un super mini­stro delle Finanze dell’Eurozona con potere illi­mi­tato e per­sino la facoltà di rifiu­tare bilanci di Stati sovrani che non siano alli­neati con il neo­li­be­ri­smo estremo.

Per quei paesi che rifiu­tano di pie­garsi alla nuova auto­rità, la solu­zione sarà sem­plice: una puni­zione severa. Auste­rità obbli­ga­to­ria. E, peg­gio ancora, più restri­zioni ai movi­menti di capi­tali, san­zioni disci­pli­nari, multe e per­sino una moneta parallela.

A giu­di­care da quanto sta acca­dendo, sem­bra che que­sto nuovo potere euro­peo sia in costru­zione, con la Gre­cia come prima vittima. (…)

L’Europa è, dun­que, a un bivio. A seguito delle serie con­ces­sioni fatte dal governo greco, la deci­sione non è ora nelle mani delle isti­tu­zioni, che in ogni caso – con l’eccezione della Com­mis­sione euro­pea – non sono elette e non sono respon­sa­bili verso il popolo, ma piut­to­sto nelle mani dei lea­der europei.

Quale stra­te­gia pre­varrà? Quella che vuole un’Europa della soli­da­rietà, dell’uguaglianza e della demo­cra­zia, o quella che vuole rot­tura e divisione?

Tut­ta­via, se alcuni pen­sano o vogliono cre­dere che tale deci­sione riguardi solo la Gre­cia, com­met­tono un grave errore. Vor­rei sug­ge­rire loro di rileg­gere il capo­la­voro di Heming­way “Per chi suona la campana”.

(testo pub­bli­cato su Le Monde del 31 mag­gio 2015)

Molti elettori di sinistra si sono accorti che il PD di sinistra non è, ma non sono andati nelle liste antagoniste. Il manifesto, 4 giugno 2015
I prin­ci­pali dati di que­ste ele­zioni sono due: l’aumento dell’astensionismo e la fles­sione dei voti al Pd. I votanti si sono ridotti ad un elet­tore su due, il Pd con le sue liste ha perso due milioni di voti ed il 15% in meno rispetto alle euro­pee. Ma l’astensionismo non si è mani­fe­stato in modo uni­forme e la fles­sione del Pd pre­senta aspetti diversi nelle diverse regioni. Con­viene, quindi, ana­liz­zare i due feno­meni sepa­ra­ta­mente per trarne con­si­de­ra­zioni poli­ti­che utili anche per il futuro della sini­stra nel nostro paese.

Asten­sio­ni­smo

La par­te­ci­pa­zione al voto, del 63% alle pre­ce­denti regio­nali e del 59% alle euro­pee, è scesa al 52%. Sull’aumento dell’astensionismo pos­sono aver inciso un solo giorno di vita­zioni e il ponte. Ma sicu­ra­mente ha pesato il discre­dito che delle isti­tu­zioni regio­nali a seguito degli scan­dali degli ultimi anni, cir­co­stanza che richie­de­rebbe un ripen­sa­mento su decen­tra­mento e fede­ra­li­smo ben oltre la dema­go­gica mossa della finta abo­li­zione delle pro­vince. Ma c’è qual­cosa in più: in Puglia e Cam­pa­nia, due regioni in cui si con­cen­tra quasi la metà dei voti, l’astensionismo non è aumen­tato. E’ invece aumen­tato molto nelle regioni rosse (dai 10 punti della Ligu­ria ai 15 di Mar­che ed Umbria, ai 20 della Toscana). Se prima era più alto al sud e più basso al cen­tro nord, e soprat­tutto nelle regioni rosse, adesso si atte­sta dap­per­tutto intorno al 50%. E’ chiara la rela­zione tra aumento dell’astensionismo e fles­sione di voti al Pd.

Il voto al Pd

In ter­mini di voti di lista il Pd è tor­nato ai livelli delle regio­nali del 2010 e delle poli­ti­che del 2013. Ma nella let­tura del voto di lista regio­nale non si può tra­scu­rare che in que­ste ele­zioni si vota sepa­ra­ta­mente per pre­si­dente e liste di par­tito e che per rac­co­gliere voti si creano liste per­so­nali o civi­che che tol­gono voti ai par­titi. Si veri­fica così uno scarto tra voto di lista al Pd e voto al can­di­dato pre­si­dente del Pd. Anche in que­sto caso torna utile la distin­zione prima fatta tra regioni per­ché se in Puglia e Cam­pa­nia i voti al can­di­dato pre­si­dente sono stati più del dop­pio di quelli al Pd, nelle altre regioni la dif­fe­renza è minima. In sostanza in Puglia Cam­pa­nia sono state otte­nute due vit­to­rie con due per­so­naggi pro­rom­penti che hanno vinto per la loro forza e per le alleanze (in Puglia 8 liste, in Cam­pa­nia 9 liste) spesso discu­ti­bili che hanno messo in piedi. Qui, quindi, i voti per­duti dal Pd non sono signi­fi­ca­tivi per­ché se si dovesse votare per le poli­ti­che i voti presi dai pre­si­denti rien­tre­reb­bero in buona parte nel Pd. Ma nelle altre regioni, dove voti al Pd e voti al Pre­si­dente sono vicini, que­sto ragio­na­mento non vale ed i voti persi sono voti persi. Ed il fatto che essi siano con­cen­trati nelle regioni rosse e nelle regioni in cui si è regi­strata la mag­giore asten­sione fa pen­sare che il mag­giore asten­sio­ni­smo sia in buona parte dovuto a delu­sione dell’elettorato di sinistra.

La sini­stra e il voto

Se si esclude il caso Ligu­ria, le sini­stre sia dove si sono pre­sen­tate sepa­ra­ta­mente sia dove si sono pre­sen­tate insieme ed anche con i movi­menti non escono affatto bene da que­ste ele­zioni. E’ inu­tile girarci intorno: pur in una fase come que­sta con alle spalle lotte, grandi mani­fe­sta­zioni, prov­ve­di­menti del governo che con la sini­stra non hanno niente a che fare, le sini­stre esi­stenti non rie­scono a fre­nare la fuga dei delusi dal Pd verso l’astensione, non rie­scono a richia­mare al voto i vec­chi aste­nuti, non rie­scono a far tor­nare ad un voto a sini­stra i delusi che si erano spo­stati verso il M5S, non rie­scono ad attrarre gio­vani. Se così è, mi scuso per la cru­dezza, è bene deci­dere di met­terci una pie­tra sopra e pen­sare un per­corso radi­cal­mente nuovo.

L’unico caso in cui la sini­stra si afferma con una per­cen­tuale che può far spe­rare in un futuro è quello della Ligu­ria dove si è rea­liz­zata una con­di­zione nuova, l’unità tra coloro che hanno rotto col Pd e la sini­stra che si era aggre­gata alle euro­pee. Può, que­sta espe­rienza, costi­tuire una base di par­tenza, un labo­ra­to­rio? Molto dipen­derà da come evol­verà il con­fronto den­tro il Pd, e que­sto, a sua volta, dipen­derà dalla tem­pe­sti­vità e dalla capa­cità, a sini­stra, di qua­li­fi­carsi come novità, attraente nella forma orga­niz­za­tiva, nella costru­zione delle scelte poli­ti­che, della demo­cra­zia, delle forme di par­te­ci­pa­zione. E’ la scom­messa che si apre oggi per una nuova sini­stra. I tempi sono stret­tis­simi sia per­ché si sta con­so­li­dando un tri­po­la­ri­smo che lascia pochi spazi, sia per­ché potremmo essere chia­mati ad un appun­ta­mento elet­to­rale prima del pre­vi­sto. Quindi, dalla Ligu­ria, non un modello, ma uno spunto, uno sti­molo per provarci.

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