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L'incredibile faccia di bronzo di chi utilizza le parole di Jorge Borgoglio per sostenere la tesi opposta Ecco Luciano Violante nell'intervista di Dino Martirano.

Corriere della Sera, 28 giugno 2015, con postilla

«Noi europei siamo abituati a un terrorismo senza guerra. Il terrorismo europeo era inserito in uno scenario di pace: conseguentemente la reazione è stata giudiziaria e di polizia. Se non cambiamo i parametri, e non entriamo nella dimensione di una guerra che ci è stata dichiarata, rischiamo di soccombere. Tutti i cittadini europei, compresi gli italiani sono in grave pericolo».

L’ex presidente della Camera Luciano Violante - che da magistrato, negli anni 70, ha combattuto in prima linea a Torino il terrorismo delle Brigate Rosse - non mostra esitazione nel pronunciare la parola guerra: «Dobbiamo attrezzarci innanzitutto culturalmente per capire che una guerra tendenzialmente globale e che produce anche atti di terrorismo è cosa diversa dal terrorismo senza guerra. La risposta di polizia è utile ma insufficiente. Occorre soprattutto un nuovo esame della situazione che parta dalla idea che ci hanno dichiarato una guerra. Non si tratta di mandare i carri armati, ma di capire la situazione senza ipocrisie».

Presidente Violante, un tempo le guerre si dichiaravano. Qui non ci sono cancellerie, ultimatum, ritorsioni...
«Il Papa ha detto che è una guerra mondiale a rate. Tutti d’accordo, ma non se ne sono tratte le conseguenze. È una guerra senza Stati. C’è un’armata che si muove dal Caucaso alla Libia, un semicerchio attorno all’Europa, tanto per azione diretta quanto “per induzione”. Sulla spiaggia tunisina infatti avrebbe agito un gruppo non direttamente inquadrato nell’Isis».

Dopo gli attacchi dell’11 settembre negli Stati Uniti il mondo occidentale ha risposto con operazioni di «polizia internazionale».
«Abbiamo scardinato i regimi di Saddam Hussein e di Gheddafi, senza un piano per il futuro; e siamo diventati artefici del caos. In politica uno degli errori più gravi è non capire chi è il nemico, e poi come si muove, come si finanzia, quali sono gli obbiettivi vicini e lontani. È un errore che possiamo ancora correggere riconoscendo che é in atto una guerra contro di noi, che noi non abbiamo dichiarato e che agisce anche con atti di terrorismo. Gli atti di terrorismo sono l’effetto di questa guerra; non sono la guerra».

Qual è l’arma che distingue e rende pericoloso l’«esercito senza stato»?
«È composto da persone che non hanno paura di perdere la vita. Si è dotato di una missione ideale, per quanto inaccettabile, conquistare tutto il mondo alla loro idea di Islam, che coinvolge migliaia di persone in tutto il mondo. Ha enormi e ignoti finanziamenti. E poi durante il Ramadan sciiti e sunniti predicano da sempre l’interruzione di ogni atto di violenza. Qui invece assistiamo a un sovvertimento delle regole, quasi a cercare l’elevazione dello spirito attraverso l’eliminazione del nemico ».

Accettare l’idea di convivere con una guerra implica un conseguente contenimento delle libertà democratiche?
«No. Ma l’Europa deve reagire con un impegno nuovo. Più è grave il pericolo, più il rimedio deve essere serio. È una situazione che l’Europa deve prendere terribilmente sul serio e con assoluta priorità. Certo nei Paesi del Nord Europa si può far strada l’idea che a certe latitudini non arrivano questi venti di guerra. Ma non è così».

Lo «stato di guerra», seppure non dichiarato, comporta misure eccezionali?
«No. Bisogna innanzitutto mobilitare tutte le alleanze e tutte le risorse delle tecnologie più sofisticate, soprattutto per individuare e colpire i finanziatori. E la politica dell’immigrazione, fermo il diritto d’asilo, e ferme le libertà costituzionali, non può prescindere da questa situazione oggettiva».

Alcuni Paesi a prevalente presenza islamica giocano un ruolo chiave nella nuova mappa geo politica. Dove ha sbagliato fin qui l’Europa?
«Il mancato ingresso della Turchia nella Unione europea ha fatto sì che quel Paese sia diventato la frontiera dell’Est e non più dell’Ovest».

L’Iran, che aspira a diventare un punto di forza e di stabilità in Medio oriente come è stato trattato?
«L’Iran è sciita; perciò è pesantemente messo sotto attacco dall’Isis. Il presidente della Air Products, azienda colpita in Francia è un iraniano sciita che vive negli Stati Uniti. Aver colpito in quel modo orribile quell’azienda francese probabilmente non è un caso. Questo attacco ci dice che il terrorismo agisce per procura di chi dirige la guerra».

postilla

Il giorno stesso papa Francesco ha detto: «In questi casi dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati». Nell'enciclica aveva individuato con chiarezza il sistema responsabile della "terza guerra mondiale"

Tre sono i vizi degli atti con cui la Troika ha strangolato la Grecia: l'illegalità, l'illeggittimità e l'odiosità. Ma questi vizi sono identici a quelli con i quali la Troika (in gergo: "lo chiede l'Europa") ha sollecitato i governi italiani a incamminarsi sulla strada verso il baratro.

La Repubblica, 25 giugno 2015

POCHI giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo. Il rapporto greco è fitto di riferimenti alle leggi e al diritto internazionali. E contiene, in modo abbastanza evidente, una lezione per l’Italia.

Il rapporto distingue con cura tra illegalità, illegittimità e odiosità di un debito pubblico. Un debito è illegale se il prestito contravviene alle appropriate procedure previste dalle leggi esistenti. È illegittimo quando le condizioni sotto le quali viene concesso il prestito includono prescrizioni nei confronti del debitore che violano le leggi nazionali o i diritti umani tutelati da leggi internazionali. Infine è odioso quando il prestatore sapeva o avrebbe dovuto sapere che il prestito era stato concesso senza scrupoli, da cui sarebbe seguita la negazione alla popolazione interessata di fondamentali diritti civili, politici, sociali e culturali. Il Fmi è responsabile di tutt’e tre le infrazioni perché le condizioni imposte alla Grecia in relazione ai suoi prestiti hanno gravemente peggiorato le sue condizioni economiche e il suo sistema di protezione sociale. Da vari documenti interni del Fondo stesso, risalenti al periodo 2010-2012, appare evidente che perfino il suo staff, una parte consistente del consiglio direttivo formato da rappresentanti di vari paesi, e non pochi dirigenti sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze negative a danno della popolazione greca.

La Bce non è stata da meno, contribuendo ai programmi di aggiustamento macroeconomici della Troika e insistendo in special modo sulla de-regolazione del mercato del lavoro - violando in tal modo anche gli articoli del Trattato Ue che stabiliscono la sua indipendenza dagli stati membri. Con le sue manovre relative al commercio dei titoli sul mercato secondario ha reso possibile alle banche private greche di scaricare dal bilancio gran parte dei titoli di stato, peggiorando le condizioni del bilancio pubblico. Quanto al fondo Efsf, sebbene gestisca fondi pubblici europei, è stato costituito come società privata cui non si applicano le leggi Ue, persegue unicamente obbiettivi finanziari, e sapeva bene di imporre con i suoi prestiti costi abusivi alla Grecia, senza che essi recassero alcun beneficio al paese. Pertanto molte azioni svolte da Bce e Efsf nei confronti della Grecia nel periodo 2010-2015 sono classificabili come illegali, illegittime e odiose. Il testo abbonda di rimandi ad altre violazioni operate dalla troika. Esse vanno dalla falsificazione delle statistiche economiche e sociali della Grecia alla violazione della sovranità fiscale dello stato greco.

Si dirà: ma che c’entra l’Italia con le vicende del debito greco? C’entra eccome, poiché vi sono perentori memoranda e lettere di istruzione inviate al governo italiano dalle medesime istituzioni Ue, e nello stesso periodo, che nello spirito e nei contenuti sembrano delle fotocopie di quelle inviate al governo ellenico. Si veda ad esempio la lettera indirizzata al governo italiano dalla Bce nell’agosto 2011. Essa raccomandava varie misure pressanti, quali «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali»; «privatizzazioni su larga scala»; una ulteriore riforma del «sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di impresa»; l’adozione di «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti»; un ulteriore intervento nel sistema pensionistico; «una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego»; infine chiedeva che «tutte le azioni elencate… siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare ». Questi e vari altri interventi peggiorativi delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini italiani sono stati prontamente adottati dai governi italiani, fino all’attuale con il suo scandaloso Jobs Act, non mancando di ripetere ad ogni momento la trita giustificazione «ce lo chiede l’Europa». In realtà non è l’Europa a chiederlo, ma singole istituzioni europee, molto spesso in violazione, come documenta il rapporto greco,degli stessi trattati Ue e di numerosi trattati internazionali. Al punto da far sorgere il dubbio che siano da considerare anch’essi, i dettati inviati all’Italia, illegali, illegittimi e odiosi. In attesa che qualcuno se ne accorga, avvii le procedure necessarie, e si impegni a chiedere alla Ue che rispetti almeno i medesimi trattati da essa sottoscritti. Tutto ciò non soltanto per il rispetto dovuto alle leggi ma perché il prossimo caso greco potremmo essere noi.

Cronaca del colpo mortale con cui il renzismo, asservendo la scuola al Monarca e ai suoi vassalli, ha pesantemente compromesso il diritto degli italiani a una formazione libera. Articoli di Carmelo Lopapa e Francesco Bei, e un'intervista di Corrado Zunino a Giovanni Cocchi.

La Repubblica, 26 giugno 2015


SCUOLA OK, RENZI INCASSA LAFIDUCIA
TRA URLA, INSULTI E FINTI FUNERALI
di Carmelo Lopapa
InSenato 159 sì e 112 no.Protestano le opposizioni, M5S contro Napolitano. Romani:“Governo senza maggioranza” La piazza con Fassina,fischi a Mineo

Il governo ce l’ha fatta sì, il ministro Stefania Giannini («Non sono commissariata») e il sottosegretario Davide Faraone si abbracciano. Ma con voti e assenze che pesano. Con i sì, ad esempio, degli ex Fi Sandro Bondi e Manuela Repetti, con l’assenza fin troppo evidente di Denis Verdini, ormai in rotta col suo partito. Se è per questo non si fanno vedere nel giorno decisivo, ma per marcare la distanza, nemmeno il senatore a vita Carlo Rubbia, e Elena Cattaneo e Mario Monti, uomini di scienza e di università. Tra le file della maggioranza spicca anche l’assenza di Carlo Giovanardi, ma l’Ncd di cui fa parte è compatto e determinante.

Dagli ultrà grillini e Sel non sarà risparmiato nessuno dei votanti a favore. Nemmeno, per la prima volta, l’ex presidente Giorgio Napolitano. Ha appena pronunciato il suo “sì” alla prima chiama e finisce sopraffatto da cori di “buu”, “bravo, bravo”, “vergogna” e fischi dai banchi dei Cinque stelle. Lui si allontana lentamente sostenendosi sul bastone, senza voltarsi. Sono da poco passate le 18, è il momento più basso di una giornata che è andata degradando come su piano inclinato verso il caos finale. Una corrida, protagonisti anche prof e studenti dalle tribune in alto, che si scatenerà contro tutti gli ex grillini che oseranno pronunciare il “sì” alla chiama, ma anche contro chi, come Miguel Gotor sta alla sinistra del PD, ma non al punto da negare la fiducia. «Voto sì per disciplina, ma gli elettori non ci perdoneranno», è il suo presagio. A mezzogiorno i parlamentari di Sel compaiono con t-shirt bianche con la scritta “Libertà di insegnamento” e “Diritto allo studio”, il clou sarà l’uso imperterrito dei fischietti in aula, stile Vuvuzelas ai mondiali del Sudafrica. La maglietta la indossa anche Maria Mussini del Misto e il presidente Grasso le chiede di toglierla. «Che faccio presidente, mi spoglio? Volete uno striptease?» La capogruppo Sel De Petris nel frattempo ha adagiato una di quelle magliette sul banco del ministro Giannini. «Fuori i bulli dalla scuola», campeggia sui cartelli mostrati dai leghisti con tanto di fotomontaggio del premier Renzi nei panni del Fonzie di “Happy days”. Nulla rispetto allo striscione che a un certo punto srotolano sempre i leghisti: «Difendiamo i nostri bambini dalla scuola di Satana», c’è scritto. Il loro Gian Marco Centinaio si distinguerà per aver paragonato il ddl alla “vaselina”. I grillini portano in aula i lumini mortuari, dopo averli ostentati in sala stampa a beneficio delle telecamere per il “funerale” della scuola. «Quei lumini che avete là non portano bene», li ammonisce con l’ultimo briciolo di ironia l’ormai esausto presidente Grasso. Perderà le staffe solo quando i banchi M5S si trasformeranno in curva sud pronta a colpire chiunque voti a favore o quasi: «Questi sono gesti di intolleranza. Il voto deve essere libero, non voglio commenti né prima, né dopo». Ma sarà inutile. Bondi e Repetti, con Casini e tutti gli ex grillini, i più tartassati. Beppe Grillo via Twitter sentenzia: «Hanno ucciso la scuola pubblica». I centomila da assumere tirano un sospiro di sollievo.


“ORA IL PEGGIO È ALLE SPALLE”
IL PREMIER TRATTA CON LA SINISTRA
I RITOCCHI AL BICAMERALISMO
di Francesco Bei

Soddisfazione per la tenuta del patto interno al Pd. Contatti con i dissidenti sulla nomina dei nuovi senatori: rispunta l’elettività in un listino a parte
Per Matteo Renzi, nonostante i tre dissidenti del Pd sulla fiducia, la giornata di ieri rappresenta il primo raggio di sole dopo giorni bui. Settimane difficili, a partire dal cattivo risultato delle elezioni fino alla decapitazione del pd romano. Il sospiro di sollievo, a cui si lascia andare in privato, riguarda l’oggi e il futuro. «Il peggio è alle nostre spalle – confida ai suoi – gli insegnanti capiranno. Da qui alla fine dell’anno spenderemo oltre un miliardo di euro sulla scuola, i soldi ci sono».
Ma anche la situazione interna ai gruppi parlamentari, dopo l’uscita di Civati e Fassina, appare più tranquilla. Certo, la mobilitazione del mondo scolastico ha toccato nervi sensibili e i musi lunghi di molti senatori della minoranza ieri testimoniavano quanto sia stato amaro il boccone ingoiato con la fiducia. «L’accordo interno ha tenuto – osserva tuttavia il premier – e adesso possiamo rimettere i pista la riforma costituzionale per approvarla prima dell’estate». Un atteggiamento quasi spavaldo, ben diverso da quella sera di dieci giorni fa quando il capo del governo, tra il depresso e l’arrabbiato, meditava di rimettere in un cassetto la riforma della scuola. «Se ci fossimo fermati – confida con il senno di poi il numero due renziano a palazzo Madama, Giorgio Tonini – sarebbe stato un tragico errore, l’inizio della fine. Ci avrebbero fatti a pezzi su tutto. Il nostro destino è andare avanti».
I numeri incoraggianti sull’aumento degli ordinativi dell’industria, sulle assunzioni, sulla ripresa dei consumi interni, fanno ben sperare il premier per i mesi a venire. E rafforzano l’idea di proseguire con l’orizzonte puntato sulla fine naturale della legislatura. Portando a casa il prima possibile la riforma costituzionale e tutto il resto che attende in coda, dalla Rai alle unioni civili.
Con l’occhio puntato sulle amministrative della prossima primavera, quando andranno al voto Milano, Napoli, Torino, Genova. La testa è già lì. Il ministro della Difesa Roberta Pinotti, reduce dalla sconfitta della “sua” Paita alle regionali in Liguria, ammette che il governo e il Pd si giocheranno il tutto per tutto. «Tra il risultato elettorale e il mondo della scuola mobilitato contro di noi - spiega uscendo da palazzo Madama da una stradina laterale - abbiamo toccato il più più basso. Adesso ci dobbiamo mettere sotto per dare risposte al paese e, soprattutto, preparare bene le amministrative. Arrivarci impreparati, all’ultimo mese, è pericoloso». Perdere nelle grandi città, tutte amministrate dal centrosinistra, sarebbe per il governo Renzi il segnale del fine corsa. Per questo, a costo di smentire uno dei dogmi del Pd, al Nazareno si sta pensando di privilegiare i candidati politicamente giusti senza ricorrere alle primarie. Pinotti prende un respiro e annuisce: «Le primarie si fanno se c’è un percorso politico, non alla “spera-in-dio” e chi vuole si candida. Specie in realtà molto...complicate come Napoli».
Dunque ci saranno candidati scelti dalla segreteria, dopo una consultazione con le componenti interne. Anche perché, dopo la rottura con Sel, è ormai impossibile la riproposizione di quella stagione di centrosinistra che portò alla vittoria dei sindaci arancioni a Cagliari, Genova, Milano e Napoli.
L’altra partita fondamentale, che s’intreccia con il rapporto che Renzi sta provando a ricucire con la sinistra interna, è quella che ha come posta la riforma della Costituzione. Su questo fronte è già ricominciato, in via riservata, un dialogo che ha come protagonisti il ministro Boschi e alcuni esponenti della minoranza dem come i senatori Vannino Chiti e Claudio Martini. Il punto su cui il governo è pronto a cedere è quello dell’elettività dei futuri membri del Senato. Che saranno sempre consiglieri regionali, scelti però su un listino a parte che gli elettori si troveranno sulla scheda elettorale. A differenza della buona scuola, sulla riforma costituzionale Renzi non può forzare la mano alla sinistra interna con la fiducia. E quei 23 senatori se li può conquistare solo con la politica e il dialogo.
“RACCOGLIEREMO LE FIRME PER ABROGARE QUESTE REGOLE”
intervista di Corrado Zunino a Giovanni Cocchi
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Giovanni Cocchi, maestro per vent’anni, prof di medie per i successivi quindici (al Guercino di Bologna). E’ diventato il simbolo della protesta contro la riforma della scuola. «Ho discusso del disegno di legge con Renzi per un quarto d’ora, ognuno è rimasto delle sue idee, poi, quando è andato alla lavagna, gli ho rifatto il verso in video».
Perché Bologna e perché lei al centro della rivolta?
«Bologna ha la stessa tradizione forte della scuola italiana: affonda le radici nella Resistenza e nella Costituzione. Io sono riconosciuto perché sono solo un insegnante. Non sono iscritto a un sindacato e da sempre sono un elettore di sinistra deluso. Quando il Pd va al governo diventa irriconoscibile».
Per ora ha vinto Renzi con la sua Buona scuola. Come reagirete?«Non è finita qui. D’istinto dico che da settembre la scuola italiana farà di tutto per non far passare la riforma. Non ci sarà collaborazione con i presidi e i loro staff, sulle scartoffie da firmare creeremo problemi. Ci dedicheremo a insegnare ai nostri ragazzi, quello è sacro ».

E fuori?«Raccoglieremo le firme per abrogare una legge che divide territorio da territorio, quartiere da quartiere e che nelle scuole ricche formerà la nuova classe dirigente e in quelle povere manodopera disponibile impossibilitata ad affrancarsi nella vi
Ineccepibile invettiva contro il ducetto Renzi e chi, con la sua ignavia, gli permette di rottamare democrazia, istituzioni, scuola - e il futuro di noi tutti. L'elenco dei complici è presto fatto.

Ilmanifesto, 26 giugno 2015

Scor­rendo le cro­na­che di quest’ultimo enne­simo stu­pro del par­la­mento e della demo­cra­zia da parte del ren­zi­go­verno ver­rebbe voglia di chiu­dere lì il discorso prima ancora di aprirlo. Col più clas­sico e liqui­da­to­rio gesto di stizza che i bam­bini com­piono quando la rab­bia sacro­san­ta­mente li scuote. L’avete voluto, tene­te­velo. Quanto peg­gio, tanto meglio. Ma a chi poi si rivol­ge­rebbe que­sta stizza cieca, dato che i con­trac­colpi cadono tutti sulle nostre teste? Nostre, di noi che que­sto schifo non l’abbiamo mai voluto né mai abbiamo fatto alcun­ché per meri­tar­celo, se non l’essere stati inca­paci in tutti que­sti non brevi anni di raf­for­zare la parte sana o meno malata del paese e di rico­struire quella sini­stra comu­ni­sta o anche sol­tanto seria­mente socia­li­sta che era stata sui­ci­data nei secondi anni Ottanta?

Così ci sfor­ziamo di ritor­nare freddi nella misura del pos­si­bile di fronte a que­sta por­che­ria di un’ennesima fidu­cia richie­sta e pun­tual­mente votata anche da quanti non si stan­cano al tempo stesso di pro­te­stare e mugu­gnare e lamen­tarsi del destino cinico e baro che li costringe a rive­lare la pro­pria incon­si­stenza e viltà al cospetto dell’intero popolo sovrano.

Siamo arri­vati a que­sto voto in capo alla più tra­di­zio­nale delle pan­to­mime. Prima il ren­zi­go­verno annun­cia le linee fon­da­men­tali della «riforma» della scuola – quella scuola che il gio­vane bel­lim­bu­sto manin­ta­sca aveva cele­brato come epi­cen­tro della sua società ideale quando si era pre­sen­tato per la prima volta alle Camere l’anno scorso, liqui­dato e impa­lato il letta.

Linee che susci­tano la pronta corale rea­zione indi­gnata di tutte indi­stin­ta­mente le com­po­nenti del mondo della scuola, salvo la mogliera del renzi mede­simo e qual­che diri­gente sco­la­stico ram­pante bra­moso di impet­tarsi la stella dorata dello sceriffato.

Stu­denti, geni­tori, pro­fes­sori in ruolo e pre­cari, tecnico-amministrativi e sin­da­cati – per quel nulla che val­gono agli occhi del ducetto demo­cra­tico – scen­dono in piazza e pro­te­stano per lo scippo di quel po’ di garan­zie che ancora restano a tutela del posto di lavoro, del sala­rio e della libertà d’insegnamento, per la volontà di iper­per­so­na­liz­zare la dire­zione di plessi e isti­tuti, per la deci­sione di get­tare a mare senza pro­spet­tive metà del pre­ca­riato, per l’ennesima rega­lia alle scuole pri­vate pre­te­sche, insulto alla Costi­tu­zione. A chi pro­te­sta e scio­pera il ren­zi­go­verno e i suoi sche­rani in par­la­mento repli­cano uni­soni a muso duro: le sue ragioni val­gono zero, si «tira dritto», chi ci ama ci segua, non si è demo­cra­tici per niente.

Poi viene la bato­sta elet­to­rale, il renzi per qual­che ora sem­bra in con­fu­sione, teme di avere urtato uno sco­glio impre­vi­sto. Vacilla. E finge di aprire a qual­che con­ces­sione. Qual­cuno, incre­di­bile a dirsi, gli crede. In realtà stringe i tempi e la stra­te­gia è pronta in men che non si dica, con­tro ogni regola di con­si­de­ra­zione delle ragioni altrui ma non senza buone ragioni sul lato dei poteri. La com­mis­sione in Senato rischia di intral­ciare? Si salta. Il dibat­tito e il voto di merito in aula impen­sie­ri­scono? Si imbri­gliano. Il ren­zi­go­verno ha l’arma letale della fidu­cia ed è subito pronto a imbrac­ciarla, con buona pace del pre­si­dente della Repub­blica che forse s’immagina dav­vero di essere quel che la Costi­tu­zione afferma, per­ché non ha capito che qui è cam­biato tutto e che la Repub­blica ormai è solo una quinta di car­ta­pe­sta stesa a dis­si­mu­lare il regi­metto di un imbron­ciato reuccio.

La fidu­cia, l’arma letale. Già. Qui casca l’asino. Per­ché in teo­ria il governo non dovrebbe affatto con­si­de­rarsi al riparo dai rischi gra­zie a que­sto ricatto, stando alle forze in campo e pren­dendo una volta tanto sul serio le parole dette e financo scritte dai par­la­men­tari. Il governo in Senato non avrebbe i numeri. Li ha solo se può con­tare anche sul voto di chi, pur mili­tando nel par­ti­to­di­renzi, pro­te­sta e minac­cia e giura sul pro­prio onore di dis­sen­tire dalle deci­sioni del governo. Il quale può pun­tare sulla fidu­cia per restare in sella sol­tanto se sa (per­ché sa) che al dun­que (alla fidu­cia) le pro­te­ste rien­trano, le minacce dile­guano, i giu­ra­menti si sciol­gono come neve al sole. Il governo sce­glie la farsa dello scon­tro e poi mette la fidu­cia dram­ma­tiz­zando lo scon­tro per­ché sa che alla fine, con la fidu­cia, tutto rien­tra nell’ordine natu­rale delle cose. In aula si litiga, si urla, si invei­sce, si insulta per­sino. Ma poi a capo chino si stri­scia e si vota, e amici come prima.

Fino alla pros­sima sce­neg­giata a bene­fi­cio nostro, ché al mas­simo sta­remo a casa anche la pros­sima volta quando si trat­terà di votare.

Da dove viene al governo e al suo ducetto tanta sicu­rezza? Que­sto è il punto, non altre frot­tole amman­nite ai ben­pen­santi che ancora si bevono la fola della demo­cra­zia. La rispo­sta non è dif­fi­cile, è solo poco decente e per nulla edi­fi­cante. Viene dalla con­sa­pe­vo­lezza – si badi, gene­rale: poi si stende un velo pie­toso sull’indecenza: viene dalla con­sa­pe­vo­lezza che, pur di rima­nere fino alla morte natu­rale della legi­sla­tura (pur di tagliare il tra­guardo che vale un vita­li­zio), i par­la­men­tari si lasce­reb­bero anche tagliare una gamba, figu­ria­moci se si con­fon­dono a fidu­ciare un governo con­tro il quale lan­ciano gra­tis a giorni alterni male­di­zioni e ana­temi. E que­sto il renzi lo sa, cono­sce a mena­dito i suoi polli. Que­sto lo sanno anche i signori della «grande stampa». Ma per carità non si dice, non sta bene: è così una fac­cenda vol­gare, inde­co­rosa, spoetizzante.

Meglio rac­con­tare che il punto è la sta­bi­lità, l’Europa, lo spread. O la lealtà alla ditta. La tor­men­tosa con­trad­di­zione in foro inte­riore tra la con­vin­zione e la respon­sa­bi­lità. Meglio. Almeno fin­ché non suc­cede che il gio­cat­tolo si rompe, magari per­ché arriva sul più bello quello delle ruspe. Dopo­di­ché non resterà che rin­gra­ziare la pre­miata ditta, que­sta vera scia­gura ita­liana che non ha solo disperso tutta un’eredità di buona sto­ria. Ha anche lavo­rato e traf­fi­cato ogni giorno sotto men­tite spo­glie per ingan­nare, infe­stare, inghiot­tirsi il paese.

Articoli di Dimitri Deliolanes, Anna Maria Merlo, Sergio Cesaratto sulle manovre di chi vuole strozzare un popolo per impedire che la speranza di un'altra Europa, nella quale le persone valgano più dei soldi, resti viva. Il manifesto, 25 giugno 2015

C’È CHI VUOLE IL«GREXIT», E NON È AD ATENE
di Dimitri Deliolanes
Quando l’accordo sem­brava defi­nito nella sua impo­sta­zione di mas­sima e si trat­tava solo di defi­nire i det­ta­gli, ecco il Fmi lan­ciare il suo siluro, riman­dando il nego­ziato agli inizi di giu­gno, alle famose cin­que pagine di Junc­ker che ave­vano fatto infu­riare Atene. A sor­presa, l’organismo della Lagarde ha rimesso sul tavolo i tagli alle pen­sioni e per­fino l’avanzo pri­ma­rio delle casse pen­sio­ni­sti­che da otte­nere in con­di­zioni di disoc­cu­pa­zione del 26% della forza lavoro. Un capo­la­voro di realismo.

Ale­xis Tsi­pras ha saputo la cat­tiva noti­zia in aereo e ha spie­gato il suo rifiuto in que­sti ter­mini: o non vogliono un accordo oppure vogliono ser­vire gli inte­ressi degli oli­gar­chi greci.

Nelle pro­po­ste del Fmi, infatti, la tassa pro­po­sta da Atene sulle imprese con più di mezzo milione di utile annuo è stata depen­nata. Come è stata depen­nata la tas­sa­zione sulle società che gesti­scono il gioco d’azzardo via Inter­net. In gene­rale, gli oli­gar­chi greci non com­pa­iono nei bril­lanti piani del Fmi, né sotto la forma di pro­prie­tari di ban­che, né sotto quella di edi­tori televisivi.

Il motivo? Far­gli pagare le tasse avrebbe degli effetti reces­sivi. Infatti, in que­sti quat­tro anni che l’uomo del Fmi nella troika, Thom­sen, gover­nava con fare colo­niale la Gre­cia lasciando del tutto indi­stur­bati gli oli­gar­chi, il Pil greco ha rag­giunto risul­tati di cre­scita impressionanti:un bel — 26%.

La verità è che con la pro­po­sta greca che era stata accolta all’eurogruppo di lunedì il governo greco aveva esau­rito– forse anche supe­rato– i limiti che si era posto. Il piano greco di misure fiscali per otto miliardi in due anni per­met­teva al governo di van­tarsi di aver difeso le pen­sioni ed evi­tato i nuovi licen­zia­menti al set­tore pubblico.

Aveva accet­tato un nuovo aumento delle impo­ste (nel paese più tas­sato d’Europa: sono aumen­tate del 338% dal 2010) cer­cando di sal­vare il sal­va­bile: cibo mate­riale e spi­ri­tuale (libri) al 6%, altri con­sumi dif­fusi, come la cor­rente elet­trica, al 13% e il resto al 23%. Atene aveva inol­tre accet­tato la per­ma­nenza di leggi odiose, come il fami­ge­rato Enfia sugli immo­bili, aumen­tando le impo­ste ai red­diti supe­riori ai 30 mila euro annui. In sostanza, in un con­te­sto nega­tivo, il governo aveva cer­cato di dif­fe­ren­ziare il peso fiscale, aggra­van­dolo per i red­diti più alti.

Sic­come in Gre­cia più che nuove tasse serve un mec­ca­ni­smo più effi­ciente per le entrate pub­bli­che , Varou­fa­kis aveva anche avan­zato delle pro­po­ste per ren­dere più dif­fi­cile l’evasione dell’Iva. Pro­po­ste magi­ca­mente spa­rite dalle scan­da­lose richie­ste del Fmi. Non è un segreto che la pro­po­sta di Tsi­pras era stata accolta posi­ti­va­mente a Bru­xel­les ma non era suc­ceso lo stesso in Gre­cia. Il «com­pro­messo one­sto» richie­sto da Tsi­pras era diven­tato un «com­pro­messo doloroso.

Mal­grado i repor­tage fan­ta­siosi com­parsi sulla stampa euro­pea, l’ipotesi di accordo pro­po­sta da Atene non avrebbe avuto seri pro­blemi al Par­la­mento greco. I voti con­trari sareb­bero stati al mas­simo una decina. Il per­ché è stato chia­rito nella riu­nione di ieri della Segre­te­ria Poli­tica di Syriza. Prima Tsi­pras e poi il suo stretto col­la­bo­ra­tore Fla­bou­ria­ris hanno spie­gato che con­di­zione irri­nun­cia­bile della pro­po­sta greca è che i cre­di­tori assi­cu­rino uffi­cial­mente di «ren­dere soste­ni­bile il debito». In pra­tica, Atene esige che i cre­di­tori con­fer­mino l’impegno preso per iscritto con il secondo Memo­ran­dum del 2012: una volta finito il pro­gramma, i cre­di­tori dove­vano pren­dere prov­ve­di­menti per alleg­ge­rire il peso del debito sull’economia del paese.

Come è noto, tra i tre cre­di­tori, il Fmi è l’unico favo­re­vole al taglio del debito greco. In un col­lo­quio di qual­che giorno fa, il pre­mier greco aveva anche chie­sto a Lagarde di non limi­tarsi a chie­dere tagli e che ponesse anche la que­stione del debito.

Sem­bra quindi che nella con­fu­sione domi­nante in campo euro­peo, ancora una volta si rie­sce a rag­giun­gere una sin­tesi solo ai danni della Gre­cia. Vista però la ferma resi­stenza oppo­sta da Tsi­pras in tutti que­sti mesi a ogni pro­getto di abbat­ti­mento di pen­sioni e di sti­pendi pub­blici, è evi­dente che ora il Fmi pone un pro­blema poli­tico: desta­bi­liz­zare il governo di sini­stra greco, costrin­gerlo o alla resa verso l’austerità o a un rovi­noso (per tutti) scon­tro con l’eurozona, che il popolo greco non vuole. In ambe­due i casi, si pensa, Syriza è spac­ciata e si spera in un cam­bia­mento dello sce­na­rio politico.

È un pro­getto estre­mi­sta, non a caso in Europa con­di­viso solo da Schauble.

Tsi­pras ha di nuovo riba­dito che, in assenza di un «accordo com­ples­sivo», la tran­che dovuta al FMI a fine mese non sarà versata.

Ovvia­mente, il man­cato ver­sa­mento non sarà con­si­de­rato auto­ma­ti­ca­ti­ca­mente una ban­ca­rotta di Atene. Sarà invece un nuovo colpo di avver­ti­mento: o i cre­di­tori pren­de­ranno sul serio la volontà di Atene a non arri­vare allo scon­tro, oppure l’ipotesi di un’implosione dell’eurozona diventa sem­pre più rea­li­stica. Pro­ba­bil­mente, era que­sto il senso delle dichia­ra­zioni di ieri di Mat­teo Renzi: c’è chi vuole il Gre­xit, ha ammo­nito. Ma non si rivol­geva solo ad Atene.

ILSILURO DEL FMI: NO A TSIPRAS

di Anna Maria Merlo

Eurogruppo. L’Europa cestina le proposte di Atene. Il Fondo monetario cancella le tasse agli oligarchi e pretende il taglio delle pensioni. Moscovici incontra tutti i partiti di opposizione. A Bruxelles Tsipras incontra Draghi, Lagarde e Juncker: «Alla Grecia richieste senza precedenti, c’è chi dice no a tutto e vuole la rottura». Dopo sei ore di riunione è muro contro muro. L’eurogruppo si aggiorna a oggi, si tratta nella notte

Un’altra gior­nata este­nuante sulla que­stione greca, con­clu­sasi con l’ennesimo - il nono - Euro­gruppo dell’«ultima spe­ranza», ieri sera, a ridosso del Con­si­glio euro­peo di oggi e domani. Due pro­grammi a con­fronto, contro-progetto greco e contro-contro pro­getto dei cre­di­tori, respinti da entrambi i con­ten­denti, anche se le cifre ormai non sono così distanti.

Il governo Tsi­pras è messo al muro per accet­tare la logica del pro­se­gui­mento dell’austerità, «riforme con­tro soldi fre­schi», che ha dif­fi­coltà a pas­sare in patria. La pro­po­sta arriva a pochi giorni dalla dop­pia sca­denza del 30 giu­gno, rim­borso di 1,6 miliardi al Fmi e fine del secondo piano di «aiuti», già riman­dato due volte, che, in man­canza di intesa, vedrà l’evaporazione dei resi­dui 7,2 miliardi da ver­sare ad Atene, indi­spen­sa­bili non per una solu­zione dura­tura, ma per soprav­vi­vere qual­che set­ti­mana ed evi­tare il Gre­xit. I cre­di­tori hanno usato tutte le armi: fomen­tando il rischio di un bank run (5 miliardi riti­rati in pochi giorni) e la carta del degrado, reale, dell’economia greca, este­nuata, per far pie­gare Atene. E gio­cano anche sull’ipotesi di un cam­bio di mag­gio­ranza: ieri il com­mis­sa­rio Pierre Mosco­vici ha incon­trato Theo­do­ra­kis, lea­der di To Potami, par­tito di cen­tro greco, ruota di scorta pos­si­bile per una nuova maggioranza.

Tsi­pras ha fatto pro­po­ste dolo­rose, ma chiede sem­pli­ce­mente che l’accordo con­tenga un punto di buon senso: vista l’insostenibilità del debito greco, ci vuole un impe­gno sulla ristrut­tu­ra­zione. Del resto, que­sta ristrut­tu­ra­zione era stata pro­messa nel 2012, legata al rag­giun­gi­mento di un avanzo pri­ma­rio (prima del ser­vi­zio del debito) del bilan­cio greco. Que­sta clau­sola è stata rispet­tata da Atene nel 2013, con 1,5 miliardi di avanzo. Ma i cre­di­tori non hanno rispet­tato allora la parola data. E non lo fanno nep­pure adesso. Anche se Michel Sapin, mini­stro dell’economia fran­cese, ammette: «la que­stione del peso del debito dovrà essere affron­tata». Tsi­pras ha pas­sato la gior­nata a Bru­xel­les. Ha incon­trato Jean-Claude Junc­ker (Com­mis­sione), Mario Dra­ghi (Bce), Chri­stine Lagarde (Fmi), Dijs­sel­blome (Euro­gruppo), Regling (Mes).

Il primo mini­stro greco ha denun­ciato «l’insistenza di certe isti­tu­zioni che non accet­tano le misure com­pen­sa­to­rie» pre­sen­tate da Atene per ottem­pe­rare ai dik­tat dei cre­di­tori, «come non era mai acca­duto prima né per l’Irlanda né per il Por­to­gallo». Una carica in par­ti­co­lare con­tro il Fmi, che ha pre­stato 32 miliardi (a sca­denza breve, 10 anni) e che vuole assi­cu­rarsi i rim­borsi. Per Tsi­pras, «que­sto atteg­gia­mento può voler dire due cose: o non vogliono un accordo o sono al ser­vi­zio di inte­ressi spe­ci­fici in Gre­cia». Ma il Fmi è il solo cre­di­tore a non essere con­tra­rio a una ristrut­tu­ra­zione del debito (che nei fatti non lo toc­che­rebbe). Sono gli euro­pei, che hanno cre­diti, tra isti­tu­zioni e bila­te­rali, intorno ai 300 miliardi, ad essere reti­centi sulla ristrut­tu­ra­zione, a que­sto stadio.

La Gre­cia ha pre­sen­tato il suo ultimo sforzo: 8 miliardi di tagli in due anni, pari al 4,4% del Pil, con un rialzo dell’Iva, dei con­tri­buti e delle tasse alle imprese. Uno stu­dio della Deu­tsche Bank pre­vede un effetto nega­tivo fino a 3 punti del pil. Ma Tsi­pras spera che que­sta offerta, sbloc­cando il nego­ziato, per­metta una ripresa e che arri­vino gli inve­sti­menti euro­pei pro­messi dal piano Junc­ker (35 miliardi), oltre all’accesso al Quan­ti­ta­tive easing della Bce. Per il momento, la Gre­cia vive gra­zie al tubo di ossi­geno con­cesso dalla Bce, che ancora ieri, per il quinto giorno negli ultimi otto, ha alzato l’Ela, la liqui­dità di emer­genza, ultimo rubi­netto rima­sto aperto dopo la chiu­sura di tutti gli altri. Ma i cre­di­tori chie­dono di più, una cor­re­zione dei conti pub­blici dell’1,5% quest’anno e del 2,9% il pros­simo: il «contro-contro-piano» pre­tende ridu­zioni di esen­zioni Iva, che dovrebbe venire uni­fi­cata al 23% (con il 13% solo per cibo, ener­gia, acqua e hotel, ma senza sconto per le isole, e al 6% per pro­dotti far­ma­ceu­tici, libri e tea­tri), l’abolizione dei sus­sidi, l’aumento delle tasse di pro­prietà e sul lusso, ancora tagli alla spesa sani­ta­ria e al resi­duo wel­fare, una riforma delle pen­sioni più dra­stica, una gri­glia dei salari della pub­blica ammi­ni­stra­zione fiscal­mente neu­tra, oltre a una nuova legge con­tro l’evasione e una sem­pli­fi­ca­zione buro­cra­tica. I cre­di­tori chie­dono un avanzo pri­ma­rio in cre­scita: 1% quest’anno, ma 2% il pros­simo e via a seguire, fino al 3,5% nel 2018. «Esi­genze assurde e inac­cet­ta­bili» per Tsi­pras, visto che la Gre­cia è in defla­zione. Tsi­pras chiede inve­sti­menti per il rilan­cio economico.

La solu­zione, se ci sarà, sarà poli­tica. Ma Renzi ha messo in guar­dia Atene: «i greci devono sapere che esi­stono forti pres­sioni da parte di opi­nioni pub­bli­che di alcuni paesi a usare que­sta fine­stra per chiu­dere i conti con la Gre­cia». E «non si tratta sol­tanto dei paesi di più antica fre­quen­ta­zione dei tavoli euro­pei», la Ger­ma­nia, «ma anche di quelli entrati dopo». Per Renzi «lo sforzo deve essere reciproco».


STIAMOASSISTENDO
A UNA INDEGNA E INUTILE TORTURA
di Sergio Cesaratto

Con tutte le scelte sulla Grecia l'Europa esce priva di ogni residua credibilità. Le misure richieste prolungano l'agonia di Atene, centellinando la tortura
Con le pro­po­ste di lunedì scorso il governo Tsi­pras si è spinto molto in là nelle con­ces­sioni alla Troika. All’inasprimento della pres­sione fiscale sulle imprese si è aggiunto un ina­spri­mento non banale dei con­tri­buti sociali che col­pi­sce imprese, salari e pen­sioni. Que­ste in Gre­cia sono piut­to­sto basse con il 60% dei pen­sio­nati con un red­dito netto sotto i 700 euro men­sili, mal­grado le scioc­chezze che si sen­tono - mar­tedì sera dal prof. Qua­drio Cur­zio su Radio 1 - di pen­sioni a livello tede­sco. E spesso la pen­sione è l’unico red­dito della fami­glia estesa.

Nono­stante ciò la Troika non è sod­di­sfatta, soprat­tutto nei riguardi delle misure sulle imprese (che non neces­sa­ria­mente sono un bene). Si tratta di misure reces­sive che non inter­rom­pono l’austerità. Non ci deve con­so­lare l’alleggerimento del tar­get di sur­plus pri­ma­rio del bilan­cio pub­blico dai 3 o 4,5% chie­sti dalla Troika al’1% nel 2015 (e 2% nel 2016).

La dif­fe­renza è nell’uccidere subito il con­dan­nato o tor­tu­rarlo ancora più a lungo. Per­ché di una inde­gna e inu­tile tor­tura stiamo parlando. La solu­zione ragio­ne­vole c’è, e Varou­fa­kis l’ha ripro­po­sta all’Eurogruppo la scorsa set­ti­mana: il fondo salva-Stati euro­peo emetta titoli per acqui­stare i titoli greci in mano alla Bce (26 miliardi) con il duplice effetto di dila­zio­nare la resti­tu­zione di que­sto debito fra dieci o vent’anni dando respiro al bilan­cio greco e con­sen­tire alla Gre­cia di entrare nel pro­gramma di quan­ti­ta­tive easing della Bce (ora quest’ultima non può acqui­stare titoli greci per­ché già ne ha troppi in pancia).

Su que­sto tema l’Europa ha già detto no, che se ne ripar­lerà più avanti. Che se ne dovrà ripar­lare è sicuro visto che la con­fer­mata auste­rità impe­dirà alle finanze gre­che la resti­tu­zione di que­sti fondi alla Bce e anche di quelli al Fmi (32,5m).

L’unica con­ces­sione alla Gre­cia sono i famosi ultimi 7,2m del piano di sal­va­tag­gio in sca­denza con cui essa potrà ripa­gare la tran­che al Fmi in sca­denza que­sto mese e le rate di luglio e ago­sto alla Bce. Que­sto è per­verso. Si sa che un nuovo piano di sal­va­tag­gio sarà neces­sa­rio quando le pros­sime rate ver­ranno a sca­denza. Ma il sal­va­tag­gio deve avve­nire, nel dise­gno dei tor­tu­ra­tori, cen­tel­li­nando le ero­ga­zioni in cor­ri­spon­denza alle rate in sca­denza, tenendo il governo greco col cap­pio al collo.[/do]

Logica vor­rebbe che l’Europa si assu­messe subito e ora tutto il debito greco con Bce e anche Fmi — come molti eco­no­mi­sti hanno invo­cato, anche con­ser­va­tori quale Jacob Kir­ke­gaard del Peter­son Insti­tute — nei fatti dila­zio­nan­dolo per qual­che decen­nio sì da libe­rare per un po’ la Gre­cia dal fardello. A quel punto pur vin­co­lata da obiet­tivi strin­genti di bilan­cio, la Gre­cia dispor­rebbe di uno o due miliardi al mese in più (lo dico ad occhio) da spen­dere per soste­nere la domanda interna ed effet­tuare poli­ti­che di sviluppo. La pro­spet­tiva cam­bie­rebbe radicalmente.

La ragione dell’apparentemente illo­gico rifiuto euro­peo va pro­ba­bil­mente tro­vata nelle ele­zioni spa­gnole: far capire a Pode­mos che non v’è pos­si­bi­lità di euro­peiz­za­zione dei debiti sovrani e all’elettorato che le forze alter­na­tive tro­ve­ranno un muro.

E non si dica che il cat­tivo è il Fmi. Nel 2013 que­sto ha fatto auto­cri­tica affer­mando di essere stato tirato den­tro al primo «sal­va­tag­gio» della Gre­cia nel 2010 — quello che salvò le ban­che fran­cesi e tede­sche coi soldi anche del con­tri­buente ita­liano — con­sa­pe­vole già allora che il debito greco andava ristrutturato. Una volta tirato den­tro il Fmi, che gesti­sce quat­trini dei con­tri­buenti di tutto il mondo, fa il suo mestiere di pre­ten­derli indie­tro. Se vuole, l’Europa lo può liquidare.

È que­sta che ne esce priva di ogni resi­dua cre­di­bi­lità, spe­ra­bil­mente anche agli occhi di coloro che per­vi­ca­ce­mente ancora spe­rano in un suo mutamento.

Il manifesto, 23 giugno 2015

La costru­zione della grande mura­glia cinese fu ini­ziata nel 700 a. C. per con­clu­dersi nel 206 a.C. per volere dello zar Qin Shi Huang. Ser­viva a difen­dersi dalle incur­sioni dei popoli con­fi­nanti, soprat­tutto dai mon­goli. Ma non risultò molto effi­cace — anche se misu­rava 6.350 metri, si tro­vava sem­pre un punto vali­ca­bile e non coperto. In pic­colo fu nei secoli imi­tata da molte for­tezze e castelli sem­pre per impe­dire l’entrata ai non desi­de­rati o ai nemici. Dopo la seconda guerra mon­diale un muro venne eretto a Ber­lino per sepa­rare le due Ger­ma­nie. Fu abbat­tuto con grande giu­bilo il 9 novem­bre del 1989 e la Ger­ma­nia tornò ad essere di nuovo una sola.

Oggi l’Europa sta eri­gendo nuovi muri. L’Europa comu­ni­ta­ria, l’unica che si ritiene degna di por­tare que­sto nome. Altri paesi — per lo più quelli for­ma­tisi dopo la dis­so­lu­zione della Jugo­sla­via, ecce­zion fatta per la Slo­ve­nia e la Croa­zia, — non sono più «Europa», sono un con­ti­nente nuovo ancora senza nome.

Tra poco anche la Gre­cia, la culla demo­cra­tica di tutti gli altri, il paese dove la demo­cra­zia è nata men­tre nei paesi oggi «svi­lup­pati» gli uomini vive­vano ancora sugli alberi, non sara più «Europa», con buona pace del Fondo mone­ta­rio internazionale.

Anche la grande Rus­sia sem­bra non essere più Europa – il muro verso di lei sono le san­zioni – che dan­neg­giano più noi che i russi – e la Nato che la cir­conda da tutte le parti appro­fit­tando dell’ospitalità dei paesi «ven­di­ca­tori». (Ricor­dia­moci il ter­rore quando la marina sovie­tica si era avvi­ci­nata alle coste di Cuba!).

L’Ungheria, un paese di estrema destra, chiede che si costrui­sca un muro tra il suo con­fine e quello della Ser­bia. L’esempio sono i muri in Texas verso il Mes­sico, quelli a Bel­fast ovest che divi­dono i cat­to­lici dai pro­te­stanti, di Nico­sia, i tur­chi dai greci e soprat­tutto il muro che Israele ha eretto a Ramal­lah per sepa­rare i ter­ri­tori pale­sti­nesi dai «pro­pri». Muri che ser­vono a difen­derci dagli «infetti» che noi abbiamo con­ta­mi­nato. Sono di Bel­grado, ma vivo da ita­liana in Ita­lia da quasi cinquant’anni. Ho mili­tato in un par­tito che oggi non esi­ste più (il Pci), sono stata l’interprete anche di Enrico Berln­guer. Ho cer­cato di dif­fon­dere la cul­tura del mio paese (allora la Jugo­sla­via) tra­du­cendo le opere degli scrit­tori più impor­tanti. Avendo parenti in tutte le regioni delle ex repub­bli­che, sono etni­ca­mente «sporca» come si direbbe oggi. Ma sono con­tenta, il mio mondo è il Mondo anche se le radici contano.

I grandi paesi come la Fran­cia e l’Inghilterra (per non par­lare degli Stati Uniti e del disa­stro pro­vo­cato negli anni recenti in Iraq, Libia ecc.) non vogliono la nuova ondata degli immi­grati dopo aver sfrut­tato fino all’osso le colo­nie. Al con­fine di Ven­ti­mi­glia arri­vano cen­ti­naia di stra­nieri al giorno: sono sbar­cati con le loro misere cose in Ita­lia (pur­troppo la sua geo­gra­fia lo per­mette) ma vogliono andare oltre; spesso hanno già i parenti in altri paesi euro­pei con i quali si vor­reb­bero congiungere.

Nel periodo dei bom­bar­da­menti «uma­ni­tari» della Ser­bia per rag­giun­gere la fami­glia che viveva a Bel­grado, si andava a Buda­pest e poi con un pull­man sgan­ghe­rato si pro­se­guiva per la capi­tale. Al con­fine i finan­zieri non erano pro­prio gen­tili, spesso si doveva dar loro qual­cosa per essere lasciati in pace. Dice­vano: «Avete vis­suto bene sotto Tito, ora siete voi ad avere bisogno!».

Asot­tha­lom è una cit­ta­dina unghe­rese al con­fine con la Ser­bia. È qui soprat­tutto che si assie­pano immi­grati da diversi paesi afri­cani e asia­tici in fuga dalle guerre e dalla mise­ria. Qual­che con­ta­dino unghe­rese porge loro un bic­chier d’acqua e un po’ di pane. Sono esau­sti sotto il sole di giu­gno dopo aver fatto migliaia di chi­lo­me­tri a piedi e negli scafi stra­pa­gati dove hanno visto morire i pro­pri com­pa­gni. Cimi­tero azzurro è il poema del serbo Milu­tin Bojic dedi­cato ai caduti serbi nel Medi­ter­ra­neo nella prima guerra mon­diale. Il sin­daco dice che la cit­ta­dina ha 4.000 abi­tanti e che da qui hanno tran­si­tato 40 mila ille­gali. Arri­vano in Ser­bia dall’Albania e dal Kosovo e poi capi­scono che non c’è molto da aspet­tarsi da un paese già povero. E ora sono qui a cer­care di andare oltre, oltre e ancora oltre. Spesso non sapendo nem­meno dove, per ripren­dere anche un bri­ciolo della vita che hanno perduto.

Sono stati abbat­tuti i muri dei campi di con­cen­tra­mento e inter­na­mento, ci siamo tutti sen­titi più uomini. Ma i nuovi muri ci ripor­tano indie­tro. Capi­sco anche la gente che ha paura dell’«altro»: rubano, puz­zano, sono vio­lenti. Ma dopo giorni e set­ti­mane senza man­giare, noi saremmo diversi? Ora che l’unico di sini­stra sem­bra essere papa Fran­ce­sco, che ci richiama a sco­prire un po’ di uma­nità in noi, come con­vin­cere i grandi ad aiu­tare i «pic­coli» che spesso non con­si­de­rano nem­meno umani? Una scrit­trice croata molto pole­mica (Vedrana Rudan) pro­fe­tizza che un giorno guar­da­remo i bam­bini ame­ri­cani star male e non ci dispia­cerà dopo aver visto i volti dei bam­bini pale­sti­nesi, siriani, ivo­riani, nige­riani… Certo, un mondo così ingiu­sto dovrà esplo­dere. E allora si dovrà rico­min­ciare. Putroppo non sarò in grado di dare il mio contributo.

* scrit­trice e tra­dut­trice, ha tra­dotto in ita­liano tutte le opere di Ivo Andric

«Il filosofo tedesco: i politici non possono nascondersi dietro le lacune dovute a chiare incapacità istituzionali». Ancora una voce dal mondo della saggezza a favore delle ragioni di Alexis Tsipras.

LaRepubblica, 23 giugno 2015
La recente sentenza della Corte di Giustizia europea getta una luce impietosa su un errore di fondo della costruzione europea: quello di aver costituito un’unione monetaria senza un’unione politica. Tutti i cittadini dovrebbero essere grati a Mario Draghi, che nell’estate 2012 scongiurò con un’unica frase le conseguenze disastrose dell’incombente collasso della valuta europea. Aveva tolto la patata bollente dalle mani dell’Eurogruppo annunciando la disponibilità all’acquisto di titoli di stato senza limiti quantitativi in caso di necessità: un salto in avanti cui l’aveva costretto l’inerzia dei capi di governo, paralizzati dallo shock e incapaci di agire nell’interesse comune dell’Europa, aggrappati com’erano ai loro interessi nazionali. I mercati finanziari reagirono positivamente a quell’unica frase, benché il capo della Bce avesse simulato una sovranità fiscale che non possedeva, dato che oggi come ieri, sono le banche centrali degli Stati membri a dover garantire i crediti in ultima istanza.

GLI SPAZI DELLA BCE
Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare questa competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla sua decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di disporre – tranne poche limitazioni - dei margini di manovra di un erogatore di crediti di ultima istanza. La Corte di Giustizia ha dunque ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto conforme alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo dev’essere in qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai suoi stessi custodi, per appianare di volta in volta le conseguenze negative del difetto strutturale dell’unione monetaria. L’unione monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione politica.

Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi degli investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che siamo di nuovo nel mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua nuda realtà, un altro deficit istituzionale. L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta maggioranza insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico.

Il velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento cieco ostinato a una politica di austerità giudicata negativamente dalla maggior parte degli studiosi a livello internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle parti chiede un cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta ostinatamente persino l’apertura di una trattativa a livello politico: ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.

SCELTE SCANDALOSE
Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale rifiuto: se il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma unicamente per via della richiesta greca di dare la possibilità di un nuovo inizio all’economia della Grecia, e alla sua popolazione sfruttata dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una misura analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I creditori insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti che l’economia greca non riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o tardi un taglio del debito sarà inevitabile. Eppure, contro ogni buon senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento formale di un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa ribadivano anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario superiore al 4%, ridotto poi a un 1% comunque non realistico. Così è fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da cui dipende il futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di mantenere in piedi una finzione.

Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche misura determinati da condizionamenti politici, incompetenza o inesperienza dei suoi esponenti. Ma le carenze del governo greco non tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei politici di Bruxelles e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in quanto politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in considerazione esclusivamente sul piano economico, nel loro ruolo di creditori. Questa trasformazione in zombie ha il significato di conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una questione di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo risulta anche più facile negare qualsiasi responsabilità politica.

L’ADDIO DELLA TROIKA
La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche espressione del desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro la maschera dei finanziatori, il volto dei politici. Perché è solo in quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a rispondere di un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di vita, alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla disperazione.

Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto fin dall’inizio l’Fmi. Questa dissoluzione della politica nel conformismo di mercato spiega tra l’altro l’arroganza con cui i rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente ineccepibili, senza eccezione alcuna - rifiutano di ammettere la propria corresponsabilità politica per le devastanti conseguenze sociali che pure hanno messo in conto nell’attuazione del programma neoliberista. Lo scandalo nello scandalo è l’ingenerosità con cui il governo tedesco interpreta il proprio ruolo di guida.

IL RUOLO TEDESCO
La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che nell’accordo di Londra del 1954 le condonarono la metà circa dei suoi debiti.Ma non si tratta qui di scrupoli moralistici, bensì di un punto politico essenziale: le élite della politica europea non possono più nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte dei problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono essere i cittadini, e non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle questioni essenziali per il destino dell’Europa. E davanti all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare la sua parte. I giornalisti non possono continuare a inseguire come un gregge quegli arieti della classe politici che li già li avevano ridotti a fare da giardinieri.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)
La follia, accettata da (quasi) tutti è che si accetti come un fatto normale che in questa Europa le decisioni che ammazzano i popoli e le loro volontà democraticamente espresse siano affidate a una Triade nessuno dei quali membri siano stati eletti (e due non siano neppure europei).

La Repubblica, 22 giugno 2015

Il meeting di giovedì scorso dell’Eurogruppo è scivolato via e passerà alla storia come un’occasione perduta di dar vita a un accordo tra la Grecia e i suoi creditori, per altro già tardivo. Forse, l’osservazione più significativa proferita da un ministro delle Finanze tra i partecipanti è stata quella dell’irlandese Micheal Noonan, che ha protestato perché i ministri delle Finanze non erano stati messi al corrente della proposta avanzata dalle istituzioni al mio governo. La zona euro si muove in modo misterioso. Decisioni di importanza preminente sono approvate senza riflettere da ministri delle Finanze che restano all’oscuro dei dettagli, mentre i funzionari non eletti di istituzioni potentissime sono bloccati in negoziati con una parte sola, un governo isolato e in difficoltà.

È come se l’Europa avesse deciso che i ministri eletti delle Finanze non sono all’altezza del compito di conoscere a fondo i dettagli tecnici, compito che è meglio lasciare a “esperti” che non rappresentano l’elettorato ma le istituzioni. È impossibile in tali circostanze non chiedersi fino a che punto tale metodo sia proficuo, e tanto meno se sia anche solo lontanamente democratico.
Sensazione di superiorità
I greci per anni hanno protestato a gran voce, hanno opposto una fiera resistenza alla troika, nel gennaio scorso hanno eletto il mio partito radicale di sinistra e restano fermi nella totale assenza di vento della recessione. Se tale sentimento è comprensibile, permettetemi, cari lettori, di sostenere che in ogni caso esso non è di alcun aiuto, per almeno tre motivi. Primo, non agevola la comprensione dell’attuale tragica situazione greca. Secondo, tralascia di informare adeguatamente il dibattito su come la zona euro, e più in generale l’Ue, dovrebbe progredire. Terzo, semina senza necessità alcuna discordia tra popoli che hanno in comune più di ciò di cui si rendono conto.
Il deficit greco
Dal 2009 il deficit pubblico greco è stato ridotto, in termini corretti per il ciclo, di uno strabiliante 20 per cento, tanto da trasformare un ingente deficit in una grande eccedenza primaria strutturale. I salari si sono contratti del 37%, le pensioni anche del 48%. Il numero dei dipendenti statali è sceso del 30%, la spesa per i consumi del 33% e perfino il disavanzo delle partite correnti si è contratto del 16%. Ahimè, la correzione è stata a tal punto drastica che l’attività economica è stata strangolata, il reddito complessivo è diminuito del 27%, la disoccupazione è balzata alle stelle del 27%, il lavoro sommerso è progressivamente aumentato arrivando al 34%, il debito pubblico è salito al 180% del Pil in rapido calo della nazione.
Ciò di cui la Grecia ha assolutamente bisogno ora non sono altri tagli, tali da spingere una popolazione già molto depauperata in una condizione di ulteriore avvilimento; né più alte percentuali di prelievo fiscale o oneri che finiscano con lo strangolare del tutto ciò che resta dell’attività economica. Queste misure “parametriche”, come le chiamano le istituzioni, sono state eccessive, e ad esse si deve il fatto che oggi la nazione è in ginocchio. Ciò di cui la Grecia ha disperatamente bisogno sono riforme serie ed equilibrate. Ci serve un nuovo apparato fiscale che contribuisca a debellare l’evasione fiscale e al contempo ad arginare le interferenze della politica e delle imprese. Ci servono un sistema di approvvigionamento esente da corruzione, procedure di concessione di licenze che siano business friendly, riforme giudiziarie, soppressione di scandalose prassi di pensionamento anticipato, adeguata regolamentazione dei media e del finanziamento dei partiti politici e così via.
Durante il meeting dell’Eurogruppo di giovedì scorso ho presentato l’agenda di tutte le riforme messe a punto dal nostro governo, studiate appositamente per raggiungere gli obbiettivi enumerati, e ho annunciato la nostra decisione di collaborare ufficialmente con l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OC-SE) per vararle. Ho anche presentato una tassativa proposta per far entrare in vigore un meccanismo di freno all’indebitamento instaurato per legge che, fatto scattare da una commissione fiscale indipendente, possa automaticamente ridurre tutte le spese pubbliche della percentuale necessaria a rimettere sulla giusta strada la spesa pubblica per il raggiungimento di obiettivi pre-concordati di primaria importanza. Ho presentato all’Eurogruppo una serie di proposte ben ponderate per procedere a swap del debito che consentirebbero alla Grecia di rientrare nei capital market e di prendere parte al programma della Bce (meglio noto come quantitative easing o alleggerimento quantitativo).
Un silenzio assordante
È increscioso, ma purtroppo la mia presentazione è stata accolta da un silenzio assordante. A eccezione dell’acuta osservazione di Michael Noonan, tutti gli altri interventi hanno ignorato completamente le nostre proposte e rafforzato la frustrazione dei ministri per il fatto che la Grecia…non aveva proposte! Chi avesse assistito in maniera imparziale alle delibere dell’Eurogruppo giungerebbe inesorabilmente alla conclusione che si tratta di un forum assai bizzarro, mal attrezzato per prendere buone e solide decisioni quando l’Europa ne ha davvero bisogno. Grecia e Irlanda all’inizio della crisi sono state fortemente colpite perché l’Eurogruppo non era stato concepito per gestire efficacemente le crisi. Ed è tuttora incapace di farlo.
La domanda pressante è la seguente: quanto è probabile che la zona euro diventi un’unione migliore alla quale appartenere, qualora la Grecia sia data in pasto ai lupi malgrado il tipo di proposte presentate al meeting dell’Eurogruppo di giovedì scorso? O è più probabile che un’intesa su queste proposte potrebbe effettivamente portare a maggiore apertura, maggiore efficienza e maggiore democrazia?
Traduzione di Anna Bissanti
Yanis Varoufakis è il ministro greco delle Finanze
Come si sta distruggendo la democrazia in Italia. in Francia e in Europa, senza che la "libera stampa" taccia quando si dovrebbe svelare e denunciare (e protesti solo a cose fatte).

Sbilanciamoci.info, 21 giugno 2015

Perdere in un anno due milioni di voti, come è successo al Pd, non è un incidente da poco. Si poteva pensare che il suo segretario, nonché premier, ne prendesse atto per correggere il tiro, mentre Renzi ha cercato soltanto di scrollarselo di dosso: “Non è una sconfitta mia, ma dell’opposizione”.

Non è neppure sfiorato dal sospetto che le minoranze non sono una disgrazia ma una condizione della democrazia; forse non ha mai saputo che della loro possibilità di muoversi in parlamento il garante è lui in quanto leader della maggioranza, convinto com’è che governare sia decidere da solo e per tutti. Due giorni dopo ha messo in atto le sue vendette rinviando una riforma della scuola e le attesissime centomila assunzioni di insegnanti che essa comportava dopo anni e anni di immobilità.

In verità gli attuali governi si prendono più di una libertà con i principi di quella democrazia rappresentativa che per loro sarebbe il santo dei santi, metro della misura della maturità e convenienza del sistema politico. Francia e Italia li stanno violando tutte e due sulla scuola, dove le politiche governative hanno incontrato resistenze inattese. In Italia, Renzi non è riuscito a far digerire agli insegnanti la sua “buona scuola”; quasi nelle stesse settimane in Francia la giovane ministra dell'istruzione Najat Vallaud-Belkacem (che ha sostituito il precedente ministro Benoît Hamon, messo da Hollande nella condizione di doversi dimettere perché troppo di sinistra) ha rapidamente deciso assieme al premier di ricorrere al fatale articolo 39-4, marchingegno infilato da De Gaulle nella costituzione del 1958, grazie al quale il governo ha diritto una volta per sessione parlamentare di bypassare il parlamento sulla misura che più gli preme; stavolta era la riforma del Collège, simile alla nostra media. Sembra che a suo tempo Michel Rocard vi sia ricorso una trentina di volte. Per chiudere il becco ai deputati il nostro governo ha finora usato il voto di fiducia, ma qualcuno deve aver suggerito a Renzi, Padoan, Poletti e compagnia di imitare i francesi introducendo il via libera anche da noi. Così ce lo troveremo nella prossima legge costituzionale nella distrazione (o accettazione) di tutto il Pd. Lo aveva già adocchiato nel 1935 Benito Mussolini. Ma soltanto i vecchi rottamandi e qualche gufo come me ne sono rimasti strabiliati, sia per l'Italia sia per la Francia, madre – a sentirla – di tutte le repubbliche.

Così non ci si deve più meravigliare se un centinaio di migranti abbia dormito alcune notti sugli scogli adiacenti al posto di frontiera vicino a Ventimiglia perché tirato giù a forza dalla polizia dai vagoni della linea che, percorsa la Costa azzurra, raggiunge Parigi e il sospirato nord e di là l'Olanda, magari l'Inghilterra, invece che la più ospitale ma linguisticamente incomprensibile Svezia. Quel gruppetto di disgraziati, avvolti dal freddo e dall'umidità oltre che indolenziti dalla dura roccia, è l'immagine parlante di un'Europa spietata, anzi della Commissione spietata che la governa perché gli abitanti francesi e italiani, al di qua e al di là del confine, lo varcano per dare loro una coperta calda.

La gente è meglio dei governi del nostro continente senza vergogna che, se potesse, metterebbe sugli scogli, e non gli mancano, l'intera Grecia, colpevole di avere speso senza pagare le tasse, peraltro non sotto l'egida dei detestati Tsipras e Varoufakis, ma dei precedenti Papandreu e Samaras. Nessuno quanto la Commissione era in grado di conoscere per filo e per segno l'allegra finanzia ellenica, ma a quei governi non aveva rimproverato né segnalato niente.

Della Commissione europea la perla è la libera stampa che si sveglia ogni tanto dal suo sonno scoprendo, a cose fatte, qualche orrore del Jobs Act tranquillamente digerito a suo tempo come la libertà data all'impresa di spiare con ogni possibile mezzo i suoi dipendenti, vita privata e opinione politica. Anche i sindacati più benigni con il padronato stanno protestando indignati. E non si può neanche dire meglio tardi che mai, perché la delega imposta è passata a suo tempo senza che battessero ciglio e ora disfare il già legiferato non sarà facile. Renzi, Poletti e le loro ministre dalle chiome lunghe come l'abitudine di non aprire il becco sembrano aver approvato alcune misure del premier che sta confezionando un paese su misura della destra, tale che nemmeno Berlusconi se l’era sognato.

«L’Unione europea non ha più alibi; un diritto di asilo europeo sarebbe un passo necessario, e un segno di voler invertire questo elenfantiaco attendismo, a tutti gli effetti un invito ai singoli Paesi a fare da soli, magari alzando muri».

La Repubblica, 22 giugno 2015

QUANDO la notizia che l’Ungheria costruirà una barriera sul confine con la Serbia trapela, la conferenza su “Frontiers of Democracy” promossa dalla Central European University di Budapest é in pieno svolgimento - tra relatori stranieri ci guardiamo increduli, mentre i colleghi ungheresi non vogliono parlarne né esprimere pareri. Tutto sembra svolgersi come in una scena onirica: si parla di frontiere e di nazionalismi che ritornano, si analizzano i nuovi regimi autoritari o ibridi che si inanellano ormai numerosi nell’Europa dell’Est, eppure il problema dei migranti e delle frontiere fisiche che si alzano per fermarli non sembra dover essere affrontato.

Poco europeista, e indifferente alle critiche rivolte dai partner europei alla riforma autoritaria della Costituzione varata nel 2013, il primo ministro ungherese Viktor Orbán è diventato all’improvviso il difensore delle frontiere europee, deciso a costruire una barriera fisica che sigilli l’Europa sigillando l’Ungheria. E ha dato l’annuncio proprio mentre Papa Francesco lanciava il suo monito a quelle nazioni che “chiudono le porte” a coloro che cercano non tanto una vita migliore, ma la vita pura e semplice. Criticando la decisione ungherese, il rappresentante dell’Agenzia Onu per i Rifugiati, Kitty McKinsey, ha ricordato che «quello di chiedere asilo è un diritto inalienabile. Erigere una barriera significa mettere ulteriori ostacoli a questo diritto ». I diritti inalienabili sono però impotenti, senza Stati ed eserciti che li impongano e li difendano. E la buona volontà e lo spirito umanitario si fanno moneta rara in questi tempi di crisi economica e con un’Europa che non ha autorità ed è destituita di autorevolezza. A premere verso l’Europa ci sono in primo luogo rifugiati, persone che sono sradicate dai loro Paesi a causa di guerre e persecuzioni, e della fame e assenza totale di risorse che esse provocano. Non emigrano ma fuggono; non cercano una vita più decente ma cercano di sfuggire alla morte e alla tortura. E l’Europa si trova all’improvviso viva; anzi, la sua esistenza si intensifica mano a mano che questi disperati premono alle sue frontiere.

Strano destino quello dell’Europa: un’entità che non è politica (e non sembra volerlo essere) e che però scopre di poter avere frontiere arcigne e ben protette, proprio come se fosse uno stato fortemente nazionalista. Un paradosso stridente di cui l’Europa né carne né pesce si rende responsabile, poiché questo non-essere-politica la rende un facile espediente nelle mani di chi si trova per caso ad essere un guardiano delle sue frontiere. Il ministro ungherese degli affari esteri ha detto che il suo governo ha ordinato che comincino subito i lavori per la costruzione di una barriera lunga 175 chilometri. La decisione ha generato sorpresa e indignazione, soprattutto tra i serbi, anche se, in effetti, non sono loro i veri destinatari di questo nuovo muro, ma i migranti dall’Africa e dal Medio oriente. La Serbia si adonta ma per una ragione che non è più nobile: perché si sente resa responsabile della situazione che ha provocato queste ondate di migranti, mentre ad essere responsabili di questa crisi, si legge in alcuni commenti, sono gli Stati Uniti, o per non essere intervenuti (come in Siria) o per essere intervenuti (come in Libia). L’Europa e gli Stati europei come vittime, dunque.

E intanto, ci si dimentica che l’Europa, nata per smantellare le barriere al suo interno ed essere un territorio di libera circolazione per cittadini di varie nazionalità, oggi diventa un comodo paravento per nuovi e rinati nazionalismi. Ancora in questi giorni, i ministri degli esteri dei Paesi europei non sono riusciti a giungere alla decisione di redistribuire tra i vari Paesi membri le diverse migliaia di siriani ed eritrei arrivati sul vecchio continente.

A fronte di questi dati e dei soldi spesi a creare barriere stanno migliaia di rifugiati e richiedenti asilo che non hanno di che ripararsi e vivere. L’Unione europea non ha più alibi; un diritto di asilo europeo sarebbe un passo necessario, e un segno di voler invertire questo elenfantiaco attendismo, a tutti gli effetti un invito ai singoli Paesi a fare da soli, magari alzando muri.

Le cinque bugie dei media d'osservanza renziana a proposito del mostro "la buona scuola" partorito dal nefasto comandante ancora insediato al vertice dei Palazzi. Dal

blog di Walter Tocci, 22 giugno 2015

Non credete alle notizie tendenziose che si leggono sulla scuola nei principali giornali. A poche ore dal confronto decisivo in Senato è necessario ristabilire la verità sul disegno di legge. Le principali mistificazioni sono cinque.

1. Assunzioni – E’ l’argomento più devastato dalla disinformazione. Intanto i posti disponibili non sono 100 mila ma circa 150 mila, come d’altronde ammise lo stesso governo nel documento iniziale della buona scuola. Ci sarebbero quindi la capienza e i soldi per assorbire già quest’anno quasi tutte le graduatorie a esaurimento, gli idonei e una parte degli abilitati, completando poi l’operazione con il piano poliennale.

Si poteva dare una risposta ai precari prima della “buona scuola”, come si fece guarda caso nei confronti degli imprenditori con il decreto Poletti approvato prima del Jobs Act. I fondi stanziati nella legge di stabilità consentivano di approvare già a gennaio una legge di poche righe per chiamare i nuovi insegnanti. Anche senza la legge bisognava comunque coprire 44 mila posti, anzi sarebbe un’omissione di atti d’ufficio non assumere nessuno. Le procedure dovevano essere attivate con largo anticipo, e invece si faranno le nomine in affanno ad agosto. Il governo rischia il caos all’inizio dell’anno scolastico per utilizzare i centomila come arma di pressione nell’approvazione di una legge sbagliata.

2. Autonomia. Si continua a ripetere che per fare le chiamate occorre il nuovo modello organizzativo della buona scuola. E’ falso. Già sono in vigore tutte le norme sull’organico dell’autonomia, sul potenziamento, sulle reti di scuole. Furono ben scritte nella legge n. 35 del 2012 sotto la guida di un sottosegretario competente come Marco Rossi Doria:

“Allo scopo di consolidare e sviluppare l'autonomia delle istituzioni scolastiche, .. secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e la professionalità del personale della scuola, con decreto del Ministro.. sono adottate.. linee guida per conseguire le seguenti finalità: a) potenziamento dell'autonomia delle istituzioni scolastiche.. ; b) definizione, per ciascuna istituzione scolastica, di un organico dell'autonomia, funzionale all'ordinaria attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e ausiliaria, alle esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e sostegno ai diversamente abili e di programmazione dei fabbisogni di personale scolastico; c) costituzione di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane, strumentali e finanziarie; d) definizione di un organico di rete per le finalità di cui alla lettera c) nonché per l'integrazione degli alunni diversamente abili, la prevenzione dell'abbandono e il contrasto dell'insuccesso scolastico e formativo, specie per le aree di massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica”.

Il governo doveva quindi solo adottare le linee guida e procedere alle assunzioni. Ma era forse troppo semplice, ha preferito riscrivere le stesse norme in un confuso testo di cento pagine pur di poter dire che si faceva la riforma della scuola. Comunicare è sempre più facile che governare.

3. Alternanza scuola lavoro – Anche qui si tratta di una novità già vista. Il Parlamento aveva legiferato in materia (n. 128 del 2013), rinviando l’attuazione a un regolamento, ma il governo invece di scriverlo ricomincia da capo chiedendo una delega a scrivere il regolamento. Fa più notizia approvare una legge che attuarla. Bastava finanziare la norma esistente e occuparsi invece di come si innalza la didattica del saper fare. L’alternanza non va confusa con l’apprendistato, non è neppure un pendolo tra scuola e lavoro, ma una connessione cognitiva tra due diverse esperienze formative.

4. Più soldi agli insegnanti – I soldi promessi con la Card (spese per la formazione e la cultura) e l’incentivo individuale non compensano i tagli subiti in busta per i mancati rinnovi contrattuali e il blocco degli scatti. Bastava restituire il maltolto e gli insegnanti avrebbero speso gli adeguamenti salariali a loro piacimento. Non hanno bisogno dei consigli del governo per acquistare un libro o andare al cinema.

Sull’incentivo si sono dette tante sciocchezze. Non c’entra nulla con la valutazione, come spiegano bene gli esperti, si ridurrà a un compenso per le persone che coadiuveranno il preside nelle funzioni didattiche e gestionali, come previsto al comma 6 dell’articolo 9 del testo Camera. Anche questo strumento è già disponibile nella normativa vigente, con la retribuzione di incarichi e progetti finanziati dal Fondo MOF che però ha subito un taglio di circa il 50%. Bastava rimpinguarlo almeno con i 200 milioni previsti per l’incentivo e il governo si sarebbe risparmiato il conflitto con il mondo della scuola.

5. Cultura umanista(ica) – L’attenzione si è rivolta all’errore grammaticale dello speech presidenziale, ma è più grave il contenuto. Si complica la questione didattica invece di migliorarla. Sono ripristinate alcune discipline che erano state cancellate dalla Gelmini, dall’arte, alla musica, non la geografia chissà perché. È una meritoria intenzione ma il metodo è vecchio. Si aggiungono singole discipline che inevitabilmente vanno a restringere il tempo disponibile delle altre, senza una rielaborazione della metodologia. Si aggrava il difetto dell’attuale didattica, già troppo estensiva e poco intensiva. Il mondo nuovo richiede precisamente il contrario.

Questi cinque punti seguono le schema utilizzato dal Presidente Renzi per riassumere la “buona scuola”. Come si vede sono tutte vecchie novità, che riprendono le norme già in vigore e in molti casi le complicano inutilmente. L’unica vera novità è il potere del preside di nominare gli insegnanti. Si apre una breccia al clientelismo, all’aumento delle diseguaglianze, alle scuole di tendenza ideologica proprio mentre premono alle porte i fondamentalismi, come si è visto nella manifestazione dei cattolici integralisti. Soprattutto, la chiamata diretta conferisce al preside il potere illegittimo di derogare le graduatorie di merito certificate dallo Stato nei concorsi pubblici. L’insegnante perderebbe la titolarità della cattedra e quindi la libertà di insegnamento, come il lavoratore perde la tutele con il Jobs Act.

L’unica novità è l’applicazione ossessiva di uno solo al comando anche nel mondo della scuola. Nessuno dei veri problemi viene affrontato, né la riforma dei cicli, né l’abbandono degli studenti, né il neoanalfabetismo degli adulti. I centomila sono utilizzati come una clava per imporre scelte inutili o dannose. Uno, nessuno e centomila, è il titolo di un dramma che racconta lo smarrimento del protagonista.

«La funzione di questa esibizione è occultare la crisi e l’impasse di un’Europa a corto di sovranità, fra un contesto nazionale che si disfa e una costruzione europea che resta virtuale, fra Stati-nazione che la sovranità la stanno perdendo e un’Europa che la sovranità ancora non ce l’ha». La Repubblica, 22 giugno 2015 (m.p.r.)

Le immagini dei profughi bloccati a Ventimiglia hanno scioccato l’opinione pubblica da una parte e dall’altra delle Alpi. Ma tra quelle immagini c’è una foto che va ben oltre l’indignazione suscitata dal blocco. In essa si vedono dei migranti avvolti in coperte isotermiche che lottano contro il freddo sugli scogli in riva al mare. È stata scattata il 15 giugno. Se è assurta a icona probabilmente è perché quei rifugiati avvolti in coperte non hanno più forma umana, sono fantasmi, spettri, marziani venuti da un altro pianeta. In ogni caso non sono del tutto umani, della loro antica condizione conservano solo un’impronta sulla pellicola di poliestere che funge loro da involucro, sono dei mutanti, dei white walkers, dei morti viventi… Sono lo spettro della nostra società. L’immagine ci invita ad analizzare gli avvenimenti di questi ultimi giorni non solo in termini giuridici, politici o morali, ma come un teatro, il teatro della sovranità perduta.

Perché questo blocco, se è illegittimo rispetto al diritto d’asilo, è anche illegale rispetto agli accordi di Schengen e di Dublino. Rappresenta perciò non solo un’inadempienza morale e politica nei confronti di queste persone che hanno diritto di chiedere asilo, ma una negazione dell’Europa, perché intacca uno dei principi fondamentali che legittimano la costruzione europea, la libera circolazione delle persone all’interno di uno spazio comune. Nel momento in cui si brandisce di fronte al governo greco il rispetto delle regole instaurate dai trattati, ecco uno dei membri fondatori dell’Unione Europea che le calpesta esplicitamente sotto la pressione di un’opinione pubblica largamente influenzata dalle idee dell’estrema destra; ecco la Francia che erige in tutta fretta un muro di polizia di fronte all’Italia, che dovrebbe farsi carico da sola del diritto d’asilo!
Inadempienza morale contro i profughi, attentato al diritto d’asilo, negazione dell’Europa: il blocco di Ventimiglia è una sconfitta politica interna, una «Waterloo morale», come l’ha definita l’ex ministra delle Politiche per l’alloggio, Cécile Duflot. È l’agitazione a porte chiuse di un potere che crede, in questo modo, di gestire un’opinione pubblica in cerca di autorità e tormentata dalla paura. Perché qui non si sta neppure parlando di limitare l’afflusso di profughi sul territorio nazionale: a Ventimiglia si trattava di accogliere qualche migliaio di migranti in transito, quando in Francia abbiamo appena superato la soglia dei 300.000 lavoratori stranieri distaccati (una cifra che è raddoppiata in cinque anni!).
Qual è allora la razionalità di una politica del genere? Com’è possibile che un governo eletto per farla finita con gli accenti xenofobi di un Nicolas Sarkozy finisca per cedere a sua volta a questa hybris anti-immigrati che il filosofo Jacques Rancière ha definito «passione dall’alto »? Si tratta di ripristinare una sovranità sgretolata dalla costruzione europea e dalla globalizzazione? Si tratta di recuperare un po’ di quel potere d’agire che manca drammaticamente ai governanti? Tutto il contrario.
Al di là dell’indignazione che legittimamente suscitano, quelle immagini di rifugiati, quelle scene di gente fermata dalla polizia nei treni solo per il suo aspetto, quei naufraghi ricacciati da un capo all’altro dell’Europa, quelle violenze in piena Parigi contro lavoratori immigrati non sono segnali di sovranità, ma segnali di impotenza dell’Europa di fronte a problemi che essa stessa ha creato. Mettono a nudo delle falle di sovranità degli Stati-nazione e costituiscono, a furia di prove generali nello spazio pubblico, un’esibizione collettiva di cui i profughi sono, loro malgrado, i figuranti, e che va analizzata in quanto tale. Queste operazioni non puntano tanto a dissuadere i migranti quanto a gestire l’immagine della frontiera. I migranti non costituiscono soltanto «l’esercito di riserva del capitale» destinato a far abbassare i salari, come diceva Marx: costituiscono un «esercito di figuranti» scritturati nel teatro della sovranità perduta. Il controllo della frontiera è uno spazio rituale, scenografico, che ha come scopo immaginare il fantasma della frontiera, celebrare la frontiera: è un sacrificio rituale di cui i profughi fanno le spese.
La funzione di questa esibizione è occultare la crisi e l’impasse di un’Europa a corto di sovranità, fra un contesto nazionale che si disfa e una costruzione europea che resta virtuale, fra Stati-nazione che la sovranità la stanno perdendo e un’Europa che la sovranità ancora non ce l’ha. È qui che Ventimiglia si staglia, nella nebbia di un progetto europeo che nessuno vuole più. Non è uno Stato sovrano che fa rispettare il tracciato stabilito della frontiera; è uno Stato «insovrano» che mette in scena la frontiera, la traccia e la sposta, è uno Stato che fabbrica frontiere. È una frontiera di nuovo tipo. Una frontiera mobile, porosa, evanescente. Una frontiera che si muove. La frontiera è dappertutto, si sposta alla velocità delle camionette dei Crs, i celerini francesi, da Ventimiglia a Calais, da Parigi a Marsiglia.
«Le frontiere attraversano le nostre città», diceva il sindaco di Chicago dopo le rivolte razziali che avevano colpito la sua città negli anni 60. Ormai le frontiere dividono gli spiriti. La frontiera non è più soltanto territoriale, è morale, inquisitrice: distingue il bene dal male, noi dagli altri, il dentro dal fuori… Accredita il fantasma di un’Europa bastione da difendere a ogni costo e produce una scenografia visiva dello stato di emergenza di fronte a presunte invasioni. Produce l’iperbole mediatica di Stati che agiscono in mare e su terra, con pattuglie o «patriot act» alla francese, come il surrogato di una sovranità perduta. Il grande storico della Grande Muraglia cinese, Owen Lattimore,scriveva: «Le frontiere, contrariamente alle apparenze, sono fatte per impedire ai cittadini di uscire, più che per impedire agli stranieri di entrare».
Traduzione di Fabio Galimberti

Afferma il filosofo, intervistato da Anais Ginori:«Penso in particolare ad afgani, iracheni, siriani, etiopi, libici, maliani. Noi occidentali abbiamo, almeno in parte, la responsabilità di queste persone: se non possono restare nel loro Paese è anche per colpa nostra».

La Repubblica, 21 giugno 2015 (m.p.r.)

Parigi. «Le scene di respingimento degli stranieri al confine franco-italiano sono insopportabili, vergognose». Il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov è indignato dall’atteggiamento del governo socialista che ha blindato le frontiere, esattamente come fece quattro anni fa l’esecutivo della destra di Nicolas Sarkozy. Le maggioranze politiche cambiano ma la paura ancestrale dei “barbari”, che Todorov ha raccontato nei suoi saggi, riaffiora comunque. «Siamo responsabili in parte di questi movimenti migratori », spiega ricordando come il rigetto dello straniero non sia nuovo per i francesi. Centocinquant’anni fa, i “topi” da cacciare erano gli italiani che varcavano il confine per sfuggire alla povertà. «La Francia ha sempre avuto difficoltà ad accettare il passaggio da grande a media potenza, sperimentando nella sua Storia regolari picchi di febbre nazionalista».

Siamo in una nuova ondata di paura e incapacità di gestire il problema dell’immigrazione?
«Oggi il contesto è nuovo. Siamo davanti a un aumento dell’integrazione della popolazione mondiale, dovuto alla diffusione dell’informazione e alla facilità di spostarsi. Fino a qualche decennio fa, l’idea di partire per l’estero sfiorava pochi. Oggi, prima grazie alla tv e poi a Internet, assistiamo a un’unificazione dei popoli. È un fenomeno che ci accompagnerà ancora nei prossimi anni, e forse secoli. Rifiutarlo non è costruttivo».
I pochi sforzi di accoglienza che sono disposti a fare i governi ora si concentrano sulla distinzione tra migranti economici e politici. È d’accordo?
«Non mi pare assurdo, soprattutto quando le cause politiche sono guerre che abbiamo incoraggiato o addirittura provocato “noi”, intendo l’Unione europea e gli Stati Uniti. Penso in particolare ad afgani, iracheni, siriani, etiopi, libici, maliani. Noi occidentali abbiamo, almeno in parte, la responsabilità di queste persone: se non possono restare nel loro Paese è anche per colpa nostra. Alle guerre, bisogna aggiungere le persecuzioni politiche. La nostra responsabilità è meno diretta, ma se i valori che professiamo non sono pura ipocrisia dovremmo proteggere anche chi è perseguitato per le proprie idee».
Allora perché le procedure per l’asilo politico sono sempre più difficili, soprattutto in Francia?
«La Francia è stata in prima fila per promuovere un intervento militare in Siria. E ora è una delle nazioni in Europa che accoglie meno profughi siriani: ha accettato 500 rifugiati, mentre la Germania ne ha accolti 10mila. La Francia ha anche giocato un ruolo fondamentale nella guerra in Libia, senza che i dirigenti politici dell’epoca abbiano per un solo istante riflettuto sulle conseguenze disastrose dell’intervento militare, sia sul piano della dispersione delle armi nella regione, sia sull’anarchia creata nel paese. Tutti dobbiamo capire che un atto compiuto a migliaia di chilometri può avere oggi una conseguenza molto concreta sulle nostre vite».
E per i migranti economici, cosa si dovrebbe fare?
«Il bisogno di partire non è meno forte che nel caso di guerre e persecuzioni politiche. Quando si è convinti che non si può guadagnare onestamente da vivere nel proprio Paese, si è disposti a fuggire a qualsiasi prezzo e senza badare ai pericoli. Penso che dovremmo riuscire a dare un’informazione corretta sulle condizioni di vita in Europa: spiegare che qui non è un paradiso. E poi sarebbe opportuno fare accordi di cooperazione per permettere ai migranti di trovare lavoro nelle loro nazioni. Anche questa è una nostra responsabilità: siamo interdipendenti gli uni con gli altri ».
Intanto però l’Europa continua a litigare davanti ai migranti in bilico sugli scogli di Ventimiglia.
«Trovo inammissibile il comportamento di alcuni Paesi dell’Unione europea, tra cui la Francia. Non si può pretendere costruire la nostra Unione, rallegrandoci della pace che finalmente c’è tra paesi europei, e allo stesso tempo disinteressarci della protezione delle nostre frontiere esterne. Accettare i migranti solo perché hanno rischiato la vita e sono in pericolo di morte è una situazione assurda. Cosa sarebbe? Una sorta di “concorso d’ingresso” disumano, con un premio al più disperato?»
I governi sono ostaggio della xenofobia in aumento?
«La xenofobia è un sentimento più spontaneo dell’ospitalità. Non a caso, le religioni tradizionali elogiano l’ospitalità: è l’atteggiamento più meritorio».

Ue e Fmi agitano lo spettro del default contro la democrazia. Atene col fiato sospeso. Tutti gli scenari possibili. Il rischio più grave è nessun accordo e proposta per il Consiglio europeo di lunedì». Il manifesto, 20 giugno 2015

I rap­porti tra Gre­cia ed Europa sono arri­vati a una stretta deci­siva. Tra ora e lunedì pome­rig­gio, quando si riu­ni­sce a sor­presa il Con­si­glio euro­peo, pos­sono suc­ce­dere quat­tro cose.

La prima – quella auspi­ca­bile — è un accordo sulla base della pro­po­sta del lea­der greco Ale­xis Tsi­pras: fine dell’austerità, sblocco degli aiuti euro­pei pre­vi­sti, ristrut­tu­ra­zione radi­cale del debito. Ma per­fino il più mor­bido, Jean-Claude Junc­ker, ha detto ieri «non capi­sco Tsi­pras. Non mi è pos­si­bile evi­tare ad ogni costo il fal­li­mento dei col­lo­qui». Non si pre­para un accordo dicendo che c’è un dia­logo tra sordi.

La seconda pos­si­bi­lità è che i col­lo­qui di que­sto fine set­ti­mana por­tino a un com­pro­messo inter­me­dio: fondi ponte euro­pei per il rim­borso degli 1,6 miliardi di euro da resti­tuire al Fondo mone­ta­rio a fine giu­gno. E nel frat­tempo, ieri sono arri­vati 2 miliardi del fondo di liqui­dità di emer­genza for­nito da Mario Dra­ghi alle ban­che di Atene. Dopo che molti miliardi di capi­tali sono fug­giti dal paese.

La terza pos­si­bi­lità è la più pro­ba­bile. Una rot­tura radi­cale tra Atene e Bru­xel­les. Il primo mes­sag­gio l’ha dato Mario Dra­ghi lunedi scorso (ma l’aveva già detto il 18 aprile) «se la crisi dovesse pre­ci­pi­tare, entre­remmo in acque sco­no­sciute». Pierre Mosco­vici, com­mis­sa­rio euro­peo all’economia, l’ha con­fer­mato venerdi: «Siamo alla fine dei gio­chi. È ora di agire e deci­dersi. Non c’è molto tempo per evi­tare il peg­gio». Ancora più espli­cito Donald Tusk, pre­si­dente del Con­si­glio euro­peo: la Gre­cia deve accet­tare la nostra offerta, «o avviarsi verso il default». Ma la pro­po­sta euro­pea è quella di una ritorno al pas­sato che Syriza non potrà mai accet­tare. Così Ale­xis Tsi­pras, ieri a San Pie­tro­burgo con Putin, ha repli­cato tran­quillo: «Siamo al cen­tro di una tem­pe­sta, ma non ci spa­venta il mare aperto, siamo pronti a sol­care nuovi mari».

Quale forma potrà pren­dere la rot­tura? E con quali tempi? Ci sono tre «strappi» pos­si­bili. Il più mor­bido è una dichia­ra­zione d’insolvenza senza uscire dall’euro. Atene annun­cia che non ripa­gherà il debito pub­blico dete­nuto per l’80% da fondi euro­pei d’emergenza, paesi mem­bri, Fmi, Bce, né pagherà gli inte­ressi dovuti. Si toglie in que­sto modo la pie­tra che ha al collo, la spesa pub­blica greca non viene inta­scata dalla finanza, l’economia riparte.

Se la Bce fosse d’accordo, con­ti­nue­rebbe ad ali­men­tare la liqui­dità delle ban­che gre­che, e tro­ve­rebbe il modo di gestire senza troppi danni i 322 miliardi di euro non ripa­gati. Il grande van­tag­gio sarebbe evi­tare il con­ta­gio: nes­suna spe­cu­la­zione sulla fine dell’euro. Ma sarebbe un pre­ce­dente peri­co­loso di vit­to­ria di un paese inde­bi­tato e un trionfo poli­tico per Syriza che Ber­lino dif­fi­cil­mente potrebbe per­met­tere. L’alternativa oppo­sta – un’uscita dall’euro senza insol­venza – darebbe ad Atene solo svan­taggi: sva­lu­ta­zione e un debito sem­pre più impos­si­bile da restituire.

Resta l’uscita dall’euro accom­pa­gnata dal default sul debito pub­blico. L’Eurozona e Ber­lino si libe­rano del paese mem­bro indi­sci­pli­nato, Atene riprende la sua auto­no­mia di poli­tica eco­no­mica con una dracma che si sva­luta imme­dia­ta­mente (magari del 40%), il debito che non si paga, i mer­cati finan­ziari che dichia­rano guerra alla Gre­cia, l’economia che crolla per poi ripren­dersi. Ber­lino tira un sospiro di sol­lievo, ma a Roma, Madrid e Lisbona e nei pic­coli paesi dell’est euro­peo ini­zia l’incubo: spread alle stelle, scom­messe su chi sarà il pros­simo a uscire, assalto della speculazione.

A meno che l’Eurozona garan­ti­sca a tutti i soci «buoni» dell’euro le garan­zie che avreb­bero potuto sal­vare la Gre­cia e l’Europa fin dall’inizio: mutua­liz­za­zione del debito, azze­ra­mento dello spread con gli inter­venti della Bce, blocco della spe­cu­la­zione della finanza.

Come si rea­lizza que­sta rot­tura? Prima un periodo di attesa e le ras­si­cu­ra­zioni sulla sta­bi­lità dell’euro e dell’Europa, poi si aspetta la chiu­sura di borse e ban­che il venerdi sera, il sabato e dome­nica si bloc­cano i movi­menti di capi­tale e – se torna la dracma – si for­ni­scono le ban­che delle nuove ban­co­note fre­sche di stampa in arrivo da Mosca o Pechino.

Nel week end si annun­cia la rot­tura, a mer­cati chiusi, e il lunedi il Con­si­glio euro­peo san­ci­sce il cam­bia­mento, sper­giu­rando sull’unità dell’Europa e dell’euro. È quello che è suc­cesso nei giorni scorsi e che potrebbe suc­ce­dere pro­prio in que­ste ore. Oppure tutto que­sto si pre­para per il pros­simo fine set­ti­mana, alla sca­denza del rim­borso per il Fondo mone­ta­rio. O magari nel mezzo dell’estate, come la fine di Bret­ton Woods il 15 ago­sto 1971.

Un inter­ro­ga­tivo deci­sivo è se l’eventuale rot­tura avviene in forma con­cor­data — una sepa­ra­zione con­sen­suale — o al cul­mine di uno scon­tro poli­tico. Nel primo caso l’Europa potrebbe soprav­vi­vere e lo choc in una Gre­cia impo­ve­rita, ma non più oppressa, potrebbe essere supe­rato in qual­che mese. Nel secondo caso potrebbe suc­ce­dere qua­lun­que cosa, un avvi­ta­mento cao­tico che farebbe a pezzi l’Europa insieme alla Grecia.

Lo sce­na­rio più dram­ma­tico sarebbe pro­prio que­sto: nes­suna pro­po­sta al Con­si­glio euro­peo di lunedì, nes­sun «piano B», nes­sun accordo nem­meno su come sepa­rarsi, l’Europa che si acca­ni­sce con­tro la culla in cui è nata, una crisi ver­ti­cale dell’economia greca, una stra­te­gia della ten­sione con­tro il governo di Syriza, un con­ta­gio che da debito si estende al col­lasso poli­tico dell’Europa. C’è qual­che mar­gine per evi­tare que­sto peg­gio. E per soste­nere fino in fondo le ragioni di Ale­xis Tsi­pras e della Gre­cia, con l’euro o con la dracma. Che sono le ragioni della demo­cra­zia, ad Atene come in Europa.

«Per tenere insieme i suoi valori, uguaglianza e fraternità, la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma».

Corriere della Sera, 20 giugno 2015, con postilla

Come i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale.

È il male oscuro che divora le radici di una storia ispirata all’uguaglianza e alla fraternità. Per tenere insieme i suoi valori la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma. La spesa pubblica non può più essere la misura della giustizia sociale, e la sinistra riformista non ha ancora trovato un altro modo di finanziarla. A soffrirne di più sono proprio gli elettori del tradizionale blocco sociale progressista. Nei quartieri dove sono nati il sindacato e il movimento cooperativo ora si aggirano disoccupati, giovani maschi arrabbiati, ceti medi impoveriti ed esposti alla concorrenza dei nuovi arrivati per la casa, per il lavoro, per l’assistenza.
Nelle società senza poveri, in Svizzera o negli Emirati, i lavoratori stranieri fanno meno paura, anzi, sono accettati come i nuovi servi. Ma non è così a Rotterdam, ad Anversa, o a Dresda. La sinistra riformista ha finora trovato una sola risposta: l’appello alla tolleranza e al cosmopolitismo. Ripete l’antico mantra di Roosevelt, non dobbiamo aver paura che delle nostre paure. Ma la gente ha paura lo stesso. Anche quando non va a destra, è attratta da un nuovo populismo non meno nazionalista, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, e Grillo in Italia. La socialdemocrazia sta perdendo la battaglia delle idee. E se un movimento politico smette di saper parlare al presente può anche estinguersi, come successe ai liberali inglesi in pochi anni dopo la Grande guerra, o come profetizza Houellebecq accadrà tra breve ai socialisti francesi. Per quanto Renzi non faccia parte, né per cultura né per stile, della storia della sinistra socialdemocratica, neanche il suo Pd può ritenersi immune da questo sommovimento continentale. Neanche la ripresa economica, di per sé, mette oggi al riparo dalla rabbia e dalla paura. Alla danese Helle, di certo, non è bastata.

postilla
Il vicedirettore del Corriere della sera ha evidentemente dimenticato le sue letturegiovanili. Altrimenti ricorderebbe cosa accadde quando i “padroni delvapore” furono costretti a ridurre i loro profitti riducendo così lo sfruttamento in patria ed “esportarono lecontraddizioni” del sistema capitalistico, allargando l’area dello sfruttamentoad altri popoli e ad altri gruppi sociali. E’ certamente noto anche a lui che questomodo del sistema capitalistico di “salvarsi” ha prodotto, saccheggi, attizzato fuochi e disperazioni in ogni partedel globo, generato ribellioni e guerre. Sa certamente che guerresono utili al sistema capitalistico perché le spese militari contribuiscono acreare una domanda di merci che tiene in piedi quel sistema.
Ci rendiamo contoche via Solferino è lontana dal Vaticano, e che nelle stanze del Corsera èdifficile formulare l’idea che ridurre drasticamante le spese militari, e lagigantesca lievitazione delle rendite finanziarie, potrebbe contribuire a garantirela sopravvivenza del welfare dove c’è, e magari a estenderlo dove ancora nonc’è. Ce ne dispiace un po', perchè Poilito è un bravo giornalista e il Corriere un giornale spesso interessante.

«L’appello di Ian McEwan ai giovani americani “Solo il sapere umanistico ci rende sensibili ai diritti”».

La Repubblica, 20 giugno 2015 (m.p.r.)

Vorrei condividere con voi qualche riflessione sulla libertà di parola (e libertà di parola qui include la scrittura e la lettura, l’ascolto e il pensiero): la libertà di parola, la linfa vitale dell’esistenza, la condizione essenziale dell’educazione umanistica che avete appena ricevuto. Partiamo da una nota positiva: con ogni probabilità oggi sulla terra esiste più libertà di parola, più libertà di pensiero, più libertà di ricerca che in qualsiasi altro momento della storia conosciuta ( anche prendendo in considerazione l’età dell’oro dei cosiddetti filosofi “pagani”). Ma la libertà di parola è stata, è e sarà sempre sotto attacco: da destra, da sinistra, dal centro. L’attacco verrà da sotto i vostri piedi, dagli estremisti religiosi come da ideologie non religiose.

Non è mai comodo, specialmente per i poteri più consolidati, avere tanta libertà di parola intorno. Come diceva sempre il mio defunto amico Christopher Hitchens, incontrare uno che pensa che la Terra sia piatta o che crede nella creazione può essere utile, perché ti obbliga a ricordare l’esatta ragione per cui sei convinto che la Terra sia rotonda, o ti fa scoprire se sei in grado di sostenere efficacemente la validità della teoria della selezione naturale. Per questo motivo non è un granché, come principio, mettere in prigione coloro che negano l’Olocausto o i massacri degli armeni, come fanno alcuni paesi civili, anche se si tratta di individui spregevoli. C’è una cosa che bisogna tenere a mente: la libertà di espressione è alla base di tutte le altre libertà di cui godiamo. Senza libertà di parola, la democrazia è un’impostura. Ogni libertà che possediamo o aspiriamo a possedere (l’habeas corpus, il diritto di voto, la libertà di riunione, la parità fra i sessi, la libertà di preferenza sessuale, i diritti dei bambini, i diritti degli animali… la lista potrebbe proseguire) è nata perché è stato possibile pensarla liberamente, discuterne liberamente, scriverne liberamente.
Se vi allontanerete un bel po’ da queste rive, e sono sicuro che molti di voi lo faranno, scoprirete che la situazione della libertà di espressione è drammatica. In quasi tutto il Medio Oriente chi pensa liberamente rischia di subire conseguenze o di essere ucciso, per mano di governi, folle inferocite o individui motivati. Lo stesso succede in Bangladesh, in Pakistan, in ampie parti dell’Africa. Negli ultimi anni lo spazio pubblico per il libero pensiero in Russia si è ristretto. In Cina la libertà di espressione viene monitorata dallo Stato su scala industriale: solo per censurare quotidianamente la Rete, il governo di Pechino impiega qualcosa come cinquantamila burocrati, un livello di repressione del pensiero senza precedenti nella storia umana.
Paradossalmente, è tanto più importante vigilare sulla libertà di espressione proprio là dov’è più florida. Ecco perché è stato così sconcertante, ultimamente, vedere decine di scrittori americani dissociarsi pubblicamente da un ricevimento del Pen in onore dei giornalisti della rivista satirica francese Charlie Hebdo assassinati a gennaio. Il Pen americano esiste per difendere e promuovere la libertà di parola. È molto deludente che un numero tanto alto di scrittori americani non abbia saputo schierarsi al fianco di altri scrittori e artisti coraggiosi in un momento tragico. C’è un fenomeno, nella vita intellettuale, che io chiamo pensiero bipolare. Non ci schieriamo con Charlie Hebdo perché potrebbe sembrare che approviamo la “guerra al terrore” di George Bush. È una forma di tribalismo intellettuale soffocante, e un modo di pensare insulso di per sé.
E allora è inquietante anche il caso di Ayaan Hirsi Ali, un’ex musulmana fortemente critica nei confronti dell’islam, troppo critica per alcuni. Si è battuta contro la mutilazione genitale femminile, lei che ne è stata personalmente vittima. Si è battuta per i diritti delle donne musulmane. In un libro di recente pubblicazione ha sostenuto che l’islam, se vuole convivere più agevolmente con la modernità, deve rivedere le sue posizioni verso l’omosessualità, l’interpretazione del Corano come parola letterale di Dio, la blasfemia, le severe punizioni agli apostati. Ma Ayaan Hirsi Ali ha ricevuto minacce di morte. E soprattutto in molte università americane non è la benvenuta, e la Brandeis University ha ritirato l’offerta di una laurea honoris causa. L’islam merita rispetto, come lo merita l’ateismo. Noi vogliamo che il rispetto scorra in tutte le direzioni.
L’intolleranza nei campus universitari verso oratori scomodi non è una novità. Nei lontani anni Sessanta la mia università impedì a uno psicologo di promuovere la teoria che ci fosse una componente ereditaria nell’intelligenza. Negli anni Settanta il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di parlare per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Ricordo che tutti e due venivano definiti fascisti: le loro teorie adesso sono la norma. Allargando il discorso, la Rete oggi ovviamente offre possibilità straordinarie per la libertà di parola. Ma allo stesso tempo ci ha condotti, in parte, su un terreno accidentato e inaspettato. Ha portato al lento declino dei quotidiani locali, eliminando una voce scettica e bene informata dalla scena della politica locale. La privacy è un elemento essenziale della libertà di espressione: i documenti di Snowden hanno portato alla luce un livello di sorveglianza della posta elettronica da parte delle agenzie governative smisurato quanto inutile. Un altro elemento essenziale della libertà di espressione è l’accesso all’informazione: internet ha concentrato un potere enorme nelle mani di aziende come Google, Facebook e Twitter. Dobbiamo vigilare perché non si abusi di questo potere.
Quando deciderete che posizione prendere su questi problemi, spero che vi ricorderete degli anni al Dickinson College e dei romanzi che avete letto qui. La mia speranza è che vi abbiano stimolato nella direzione della libertà mentale. Il romanzo, come forma letteraria, è nato dall’Illuminismo, dalla curiosità e dal rispetto per l’individuo. Le sue tradizioni lo spingono verso il pluralismo, l’apertura, un desiderio empatico di vivere nelle menti degli altri. I sistemi totalitari hanno ragione a mettere sotto chiave i romanzieri, perché il romanzo è, o può essere, l’espressione più profonda della libertà di parola. Io spero che userete la vostra educazione umanistica per preservare a beneficio delle generazioni future questa cultura della libertà di espressione. Portate con voi queste rinomate parole di George Washington: «Se verremo privati della libertà di parola, allora, muti e silenziosi, potremo essere condotti come pecore al macello».
Estratto del discorso tenuto alla cerimonia delle lauree al Dickinson College © 2015
(Traduzione di Fabio Galimberti)
«È caduto ogni divieto sul controllo dei dipendenti. Pc, posta elettronica, telefonate non hanno più segreti per gli imprenditori. Gli unici limiti arrivano dal Garante della privacy: non si può abusare dei dati».

La Repubblica, 19 giugno 2015 (m.p.r.)

Siamo tutti lavoratori sorvegliati. Il Grande fratello c’era già prima che il governo approvasse l’ultimo decreto sul Jobs act. I “padroni della rete” sanno tutto di noi: conoscono i nostri gusti alimentari, i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i vestiti che indossiamo, i film che vediamo, probabilmente pure il partito che votiamo o che abbiamo intenzione di votare. Anche il “nostro padrone” sa quasi tutto di noi. Lo sa, ma non lo dice. La nostra posta elettronica nel posto di lavoro può essere controllata, i nostri accessi a internet pure, le nostre telefonate altrettanto. Tutto è tracciato. La rete, si sa, non dimentica, o non vuole dimenticare, mai. I dati sono ormai facilmente acquisibili, bisogna vedere l’uso che se ne fa dopo. Questo è il punto più delicato.

E il governo ha deciso che l’imprenditore potrà controllare a distanza il proprio dipendente attraverso il cellulare aziendale, il tablet, lo smartphone, le nostre propaggini tecnologiche che utilizziamo in maniera promiscua, un po’ per il lavoro un po’ per il privato. Dentro ci sono tante informazioni sensibili. Sono le nostre connessioni permanenti, fanno parte di noi. E del nostro lavoro. Il datore di lavoro potrà controllarci (se il testo del decreto delegato presentato in Parlamento non subirà modifiche nel prossimo mese), rispettando le regole sulla privacy, indipendentemente da un accordo con i sindacati, basterà che ottenga l’autorizzazione da parte dell’ufficio territoriale del ministero del Lavoro.
Questa è la svolta rispetto alla disciplina introdotta 45 anni fa con l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Lì è vietato il controllo a distanza dei lavoratori. «Una sorta di tutela ante litteram della privacy - sostiene Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro alla Bocconi di Milano, consigliere giuridico di Palazzo Chigi - destinata però soltanto ai lavoratori». Insomma, negli anni Settanta i lavoratori erano privilegiati rispetto a tutti gli altri: erano gli anni di un aspro conflitto sociale e delle profonde divisioni ideologiche, e il “padrone” avrebbe potuto utilizzare le informazioni raccolte con le telecamere e gli audiovisivi, per scegliersi i dipendenti, discriminando, licenziando gli indesiderati dal punto di vista politico o sindacale. Alla Fiat, per fare un esempio, accadeva esattamente questo con le schedature dei comunisti. La barriera dell’articolo 4 insieme a quella dell’articolo 8 (divieto di indagini personali sul lavoratore) dello Statuto servivano a rendere più libero il lavoratore. «Oggi - aggiunge Del Conte - c’è la legge sulla privacy e si applica a tutti, nei posti di lavoro e all’esterno». Dunque negli uffici (ma non quelli pubblici) e nelle fabbriche, quando decadrà l’articolo 4 dello Statuto continuerà ad essere applicata la legge sulla tutela della privacy.
Ecco, allora, il Garante della privacy. Che ha fissato le linee guida per l’utilizzo della posta elettronica e della rete internet nel rapporto di lavoro. E a proposito dei controlli a distanza riconoscono che il datore di lavoro possa controllare la prestazione lavorativa e il corretto utilizzo degli impianti. Ma non può «ricostruire, a volte anche minuziosamente, l’attività del lavoratore». Non può leggere la posta elettronica, non può memorizzare le pagine di internet eventualmente visualizzate, non può in maniera occulta controllare ciò che il dipendente digita sulla tastiera.
Eppure i comportamenti non sono sempre così rispettosi delle regole. Proprio un’indagine dell’Authority disvelò nel 2012 il caso del Poligrafico dello Stato. Era stato introdotto un sistema di filtraggio per impedire l’accesso ai siti ritenuti «inconferenti con lo svolgimento dell’attività lavorativa ». Peccato che lo stesso sistema memorizzasse poi gli acces- si e i tentativi di accesso di ciascun dipendente (circa 1.200) ai domini selezionati. Ne derivarono report quotidiani sull’attività di ciascun lavoratore. Una vigilanza minuziosa in contrasto proprio con l’articolo 4 dello Statuto, come osservò il Garante. Un controllo altrettanto pervasivo veniva effettuato anche nelle mail.
Siamo accerchiati da potenziali strumenti di controllo. «Non per questo dobbiamo alzare la mani, accettare il predominio della tecnologia come un fatto naturale», dice Stefano Rodotà, giurista, primo Garante della privacy, «maniaco dei diritti », come si definisce. «La questione dei diritti va declinata in maniera tale da non rendere la tecnologia la padrona di tutto». E Rodotà ricorda il caso dello Stato della California dove ai datori di lavoro è vietato, pena severissime sanzioni, accedere al profilo Facebook dei candidati all’assunzione, perché il rapporto tra lavoratore e imprenditore non è mai sullo stesso piano, nemmeno prima che si stabilisca. Vietato chattare anche attraverso un’altra persona. Il mese scorso la Corte di Cassazione italiana (sentenza numero 10955 del 27 maggio 2015) ha confermato il licenziamento di un lavoratore che era stato “incastrato” proprio per via di Facebook. Il lavoratore era stato licenziato dalla Pelliconi Abruzzo dopo essersi allontanato per fare una telefonata privata e, così, non aver potuto intervenire tempestivamente su una pressa bloccata; essersi collegato con l’iPad e poi anche su Facebook. L’accertamento delle conversazioni sul social network era stato possibile perché il datore di lavoro aveva creato un falso profilo di donna la quale aveva avviato una fitta comunicazione con il lavoratore proprio durante l’orario di lavoro. Nessuna violazione dell’articolo 4 dello Statuto, secondo la Suprema Corte: «Il datore di lavoro ha posto in essere una attività di controllo che non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta ed il suo esatto compimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati ». In questo caso il lavoratore venne anche “localizzato” per colpa del suo accesso a internet. Dunque - sostiene la Corte - «nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo cellulare».
C’è chi ha chiesto al Garante esattamente la possibilità di poter localizzare, per ragioni organizzative e produttive, i suoi dipendenti. Lo hanno fatto, nell’autunno dello scorso anno, due aziende di telefonia, la Ericsson e Wind. E il Garante ha posto alcuni paletti ma non ha detto di no a una richiesta finalizzata a migliorare la capacità di intervento dei tecnici. Va bene usare lo smartphone - ha detto l’Authority - per la localizzazione del dipendente, ma le applicazioni dovranno essere solo quelle per la geolocalizzazione impedendo l’accesso ad altri dati, come sms, posta elettronica, traffico telefonico. E sempre le stesse applicazioni dovranno configurare il sistema in modo tale che sull’apparecchio sia sempre ben visibile un’icona che indichi ai dipendenti che la funzione di localizzazione è attiva. Insomma la via alla tutela dei nuovi diritti è lastricata di nuove applicazioni.

Doppio risultato per il renzismo: si rafforza il controllo su quei potenziali facinorosi che sono i lavoratori, e s'incentiva ulteriormente la produzione di prodotti digitali.

La Repubblica, 18 giugno
Il decreto che attua il Jobs Act va in Parlamento Niente permessi per vigilare. Sindacati in rivolta
ROMA. Le informazioni raccolte dalle aziende - tramite cellulari, smartphone, tablet, portatili, badge in dotazione al lavoratore, ma anche telecamere di sorveglianza - «sono utilizzabili a tutti i fini». C’è anche questo, in uno dei decreti attuativi del Jobs Act, arrivato martedì nelle commissioni Lavoro di Camera e Senato, per un parere non vincolante.

Quindi non solo d’ora in avanti il datore di lavoro non avrà più bisogno di un accordo con i sindacati né del permesso delle Direzioni territoriali del lavoro (il ministero) per controllare da remoto il proprio dipendente tramite vecchi e nuovi strumenti high-tech. Non solo per le telecamere quell’accordo non sarà più obbligatorio, come dal 1970. Ma l’utilizzo dei dati a posteriori (tutti i dati, anche quelli video) potrà essere praticamente infinito. Utilizzo «ad ogni fine, connesso al rapporto di lavoro», si legge nella relazione illustrativa al decreto. «Purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e l’effettuazione dei controlli, sempre comunque nel rispetto del Codice della privacy».

Un rispetto che ora i sindacati, uniti e furiosi, mettono in dubbio. Come anticipato da Repubblica , la norma non poteva non sollevare un polverone. «Siamo al colpo di mano», denuncia Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil, che parla di «arretramento pesante» rispetto allo Statuto dei lavoratori (il cui articolo 4 in materia di controlli a distanza viene aggiornato). «Non solo daremo battaglia in Parlamento», annuncia. Ma «verificheremo anche con il Garante della privacy se ciò si può consentire». Anche la Cisl chiede una riscrittura del testo. «Così com’è non va bene, va cambiato, perché è attraverso la contrattazione sui luoghi di lavoro che si devono gestire questi aspetti così delicati per la vita di un lavoratore, ma anche per l’azienda», commenta Annamaria Furlan, segretario generale Cisl, in linea con le posizioni della Uil. Si allarma anche Cesare Damiano, presidente pd della commissione Lavoro della Camera: «Non bisogna far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. La delega prevede un controllo sugli impianti e non sulle persone. Buon senso vorrebbe che il governo, com’è avvenuto nel passato, affidasse questa regolazione alla contrattazione delle parti sociali. E soltanto nel caso di mancata intesa, far intervenire la legge».

La norma tra l’altro non vale per gli statali, altra benzina sul fuoco delle polemiche. «Il Grande fratello è nelle cose, già oggi», commenta il giuslavorista e senatore pd Pietro Ichino a Radio24 . «I controlli a distanza sono stati inseriti nel 1970, nello Statuto dei lavoratori, ma con l’obbligo di negoziazione. Mezzo secolo dopo, passare da accordi con i sindacati vorrebbe dire non fare una rete Internet aziendale oppure le auto con il gps o rinunciare a dotare i lavoratori del cellulare». Il dibattito è aperto.

Il decreto sulle Semplificazioni, con la norma incriminata (l’articolo 23), dovrà ora essere esaminato dalla commissioni parlamentari, le cui raccomandazioni potrebbero o meno essere accolte dal governo (con altri decreti del Jobs Act, però, è successo).

«C’è un’amnesia totale. Nes­suno si ricorda più di quando a emi­grare era­vamo noi ita­liani: milioni di per­sone in cerca di futuro e anche loro a bordo di carrette».

Emma Bonino ne è sicura, non ci sarà nes­suna bar­riera in grado di fer­mare chi è dispo­sto a lasciarsi alle spalle tutto ciò che ha pur di sal­varsi la vita o pro­vare o ricrear­sela in un altro continente.

«L’Unhcr ci dice che a breve ci saranno 50 milioni di rifu­giati veri e pro­pri. Poi biso­gna con­si­de­rare le migra­zioni di altro tipo - spiega -. Quello migra­to­rio è un feno­meno strut­tu­rale e anche se ci sono delle punte emer­gen­ziali nei vari con­ti­nenti, con­vive da sem­pre con l’umanità. Noi ita­liani ne siamo stati grandi pro­ta­go­ni­sti in pas­sato, tra la prima e la seconda guerra mon­diale. Dico sem­pre che una delle cose migliori che potreb­bero fare le scuole ita­liane è por­tare i ragazzi a visi­tare i musei dell’emigrazione ita­liana. C’è un epi­so­dio che mi piace citare: una volta un museo ha fatto un espe­ri­mento met­tendo a con­fronto due foto­gra­fie. Una rap­pre­sen­tava una nave di emi­granti ita­liani, l’altra la prima nave carica di alba­nesi che arrivò in Ita­lia nel 1991. Poi hanno chie­sto ai ragazzi quali erano gli ita­liani e quali gli alba­nesi. I ragazzi non hanno quasi mai indovinato».

I demo­grafi spie­gano come l’immigrazione sia sem­pre più impor­tante per le popo­la­zioni occi­den­tali. Eppure alziamo muri, fac­ciamo bloc­chi navali, respin­giamo le per­sone. Il nostro è egoi­smo o inca­pa­cità di capire quanto que­ste per­sone pos­sono essere pre­ziose per noi?
Secondo me c’è una inca­pa­cità della classe diri­gente di gover­nare il feno­meno e di man­dare i mes­saggi giu­sti. E’ chiaro che se una per­sona vede solo Sal­vini che sbraita in tele­vi­sione finirà per cre­dere che se suo figlio non trova lavoro è per­ché c’è un keniota che glielo ha rubato. Par­lare alla pan­cia fun­ziona sem­pre, spe­cie in un periodo di crisi vera. Eppure abbiamo tutte le infor­ma­zioni per capire che l’immigrazione può essere una risorsa. Oggi gli immi­grati (lega­liz­zati) in Ita­lia sono circa 5 milioni, con­tri­bui­scono all’8.8% del Pil, con­tri­bui­scono all’Inps, pagano le nostre future pen­sioni che loro godono molto poco per­ché la stra­grande mag­gio­ranza rien­tra al suo Paese appena può. Quindi cosa siamo, egoi­sti o inca­paci di capire? Io direi che siamo vit­time del popu­li­smo della classe diri­gente, ma per quanto riguarda l’opinione pub­blica in gene­rale par­le­rei di igno­ranza. Hanno creato una guerra tra poveri che fun­ziona benis­simo. La verità è un’altra, ed è che noi non vogliamo i poveri, ita­liani o non ita­liani che siano.

Lei in pas­sato ha sem­pre sot­to­li­neato la neces­sità di avere rap­porti di par­te­na­riato con i paesi del Medi­ter­ra­neo e ha spon­so­riz­zato la costi­tu­zione di un com­mis­sa­rio euro­peo per il Medi­ter­ra­neo invece di uno per l’Immigrazione. Per quello che val­gono i ragio­na­menti fatti con i senno di poi, se tutto que­sto si fosse attuato sareb­bero diverse le cose?
Par­liamo un attimo prima di quanto accade oltre il Medi­ter­ra­neo. In Asia c’è un gran­dis­simo movi­mento di cui i Rohin­gya sono solo la punta dell’iceberg. Pensi inol­tre ai Karen che, pove­racci, stanno nei campi pro­fu­ghi della Thai­lan­dia ormai da tre gene­ra­zioni e non rie­scono a rien­trare a Myan­mar né Myan­mar - che ha un cen­ti­naio di etnie - li vuole. Poi c’è la fron­tiera tra Mes­sico e Stati uniti, che ora è diven­tato il pro­blema Gua­te­mala, Mes­sico, Stati uniti, o l’esodo dalla Colom­bia per esem­pio. C’è il Vene­zuela… Molti sono movi­menti migra­tori pre­va­len­te­mente inter­la­tini, per­ché il Bra­sile va piut­to­sto bene eco­no­mi­ca­mente. Anche le migra­zioni del Medi­ter­ra­neo le pos­siamo con­si­de­rare intra­con­ti­nen­tali, per­ché il Medi­ter­ra­neo è poco più di un grande lago che ci uni­sce all’Africa. E qui cosa abbiamo? Da una parte un con­ti­nente in rapido declino demo­gra­fico, l’Europa, ma che è ancora il più ricco per quanto riguarda wel­fare, istru­zione, siamo anche più equi­li­brati degli Stati uniti. A Sud invece c’è un giar­dino d’infanzia, un con­ti­nente con una cre­scita demo­gra­fica ovun­que per­lo­meno del 3–4%. Poi c’è la parte Sahel tor­men­tata da guerre, dit­ta­ture, Boko Haram, Sha­baab (movi­mento isla­mi­sta somalo, ndr). Dove vuoi che vada que­sta gente? In Botswana? Non è che uno sic­come è pove­rac­cio e senza pro­spet­tive di vita nel suo Paese, è anche igno­rante. Quindi va dove pensa di avere una spe­ranza, una pos­si­bi­lità, cioè in Europa. Dove magari ha già fami­glia o cono­scenti o amici.

Il pro­blema è che il numero dei con­flitti pre­senti a Sud aumenta quotidianamente.
Que­sto è un momento della sto­ria che pos­siamo defi­nire di risve­glio arabo e di con­ta­mi­na­zioni di vario tipo, per­ché c’è anche il ter­ro­ri­smo. Noi euro­pei era­vamo abi­tuati a lavo­rare solo con le élite, ne cono­sce­vamo vita, morte e mira­coli, le mogli, le amanti e con loro trat­ta­vamo. Ricordo che quando mi sono tra­sfe­rita al Cairo, nel 2001, dopo un po’ comin­ciai a fare una ras­se­gna stampa del mondo arabo per Radio Radi­cale nella quale pro­vai a dire: guar­date che qui c’è vera­mente una bomba a oro­lo­ge­ria. Par­lavo dal punto di vista sociale demo­gra­fico, non inte­re­li­gioso. In que­gli anni l’Egitto era pieno di bam­bini, ma con nes­suna cre­scita eco­no­mica, un milione di nuovi ragazzi che si affac­cia­vano al mer­cato del lavoro ogni anno, pro­spet­tive zero, tutti inter­con­nessi e la stra­grande mag­gio­ranza di loro non aveva mai visto un’altra fac­cia oltre alla foto­gra­fia di Muba­rak appeso al muro di casa sua. Mi sem­brava che ci fosse un sub­bu­glio, un popolo che in qual­che modo bron­to­lava. Avevo la stessa impres­sione anche per la Tuni­sia per dire la verità, ma quando pro­vavo a dirlo mi rispon­de­vano che no, erano popoli stabili.

Per­ché vive­vano sotto dit­ta­ture che li obbli­ga­vano a essere stabili.
Certo, ma erano come una pen­tola a pres­sione senza val­vola e quindi pronti a scop­piare. Non ave­vano nes­suna agi­bi­lità poli­tica, o sin­da­cale. Niente di niente. All’epoca si poteva fare poli­tica solo il venerdì nelle moschee, unico spa­zio che veniva dato, con tutte le com­pli­ca­zioni che ne pote­vano deri­vare. Non sapevo quando e dove tutto que­sto sarebbe sfo­ciato, ma avevo l’impressione che tutta la regione fosse così: un giar­dino d’infanzia, senza sfo­ghi poli­tici né pos­si­bi­lità di alter­na­tive poli­ti­che, nes­suna pro­spet­tiva eco­no­mica salvo ovvia­mente le monar­chie del Golfo, ma que­sto è un altro discorso. E infatti sia l’Egitto che la Tuni­sia fin­ché hanno potuto hanno fatto una grande poli­tica di sus­sidi, al pane, alla ben­zina, a qua­lun­que cosa. Però non hanno retto, nono­stante i poten­tis­simi ser­vizi segreti. Tor­niamo allora alla mia pro­po­sta di un com­mis­sa­rio per il Medi­ter­ra­neo. Quando la lan­ciai ho pen­sato che sarebbe stato impor­tante – e lo penso anche ora — fare una poli­tica di con­te­ni­mento, cer­care di aiu­tare quei Paesi che ancora non sono nel bara­tro: Tuni­sia, Marocco, Alge­ria. Vogliamo par­lare dell’Algeria, capire un attimo cosa sta suc­ce­dendo lì? Qua­ranta milioni di per­sone, tan­tis­simi gio­vani, quasi tutti nati dopo o durante la guerra civile, un bilan­cio dello Stato che si è ridotto del 50% per il crollo del petro­lio. E’ vero che hanno riserve per due o tre anni, ma anche in Alge­ria - che non esporta nulla - hanno sem­pre tenuto calma la popo­la­zione con sus­sidi che prima o poi dovranno comin­ciare a ridurre. E allora cosa accadrà?

Certo che di fronte a un simile sce­na­rio l’Europa che litiga per divi­dersi 40 mila pro­fu­ghi fa pensare.
Il piano Junc­ker è impor­tante dal punto di vista del prin­ci­pio, per­ché in defi­ni­tiva rimette in discus­sione il trat­tato di Dublino. Non è tanto quindi il risvolto pra­tico della vicenda. Nella timi­dezza com­ples­siva bru­xel­lese a cui siamo abi­tuati, in par­ti­co­lare della com­mis­sione Bar­roso, devo dire che la com­mis­sione Junc­ker è stata piut­to­sto decisa e ha posto almeno in discus­sione tre o quat­tro argo­menti con­si­de­rati finora un tabù, anche se per ora una revi­sione del rego­la­mento di Dublino non passa, per­ché non ci sono i numeri necessari.

L’Italia aveva salu­tato come un suc­cesso la pro­po­sta della com­mis­sione Junc­ker di divi­dere 40 mila pro­fu­ghi tra gli Stati mem­bri, ma l’entusiasmo è durato poco.
Il fatto è che i migranti sono una prio­rità per noi, ma non per i Paesi che si tro­vano dall’altra parte del Medi­ter­ra­neo. Non pos­siamo andare in Tuni­sia a dire: tene­tevi i migranti, anzi aprite un campo pro­fu­ghi e un uffi­cio per gestire l’emigrazione legale per­ché noi prima o poi apri­remo le quote. La rea­zione è scon­tata: oltre al milione di libici che già abbiamo, e che in un Paese di 11 milioni di abi­tanti sono un pro­blema non da poco, dovremmo ospi­tare anche tutti gli afri­cani che ver­reb­bero in attesa di avere un canale legale? E non basta pro­met­tere ulte­riori finan­zia­menti. La mia idea è che nes­suno ha solu­zioni mira­co­lose, nean­che i più decisi guer­ra­fon­dai, quelli con­vinti che biso­gna andare in Libia e bom­bar­dare non si è capito chi, come, né dove, però poi boots on the ground nes­suno li vuole mettere.

Sarà anche per que­sto che l’Onu tarda a fare la riso­lu­zione che darebbe il via alla mis­sione euro­pea con­tro gli scafisti?
L’Onu tarda per­ché sono state espresse una serie di riserve. Una è quella della Rus­sia, che non vuole essere bypas­sata come accadde nel 2011 quando con la moti­va­zione di sal­vare Ben­gasi è stato fatto fuori Ghed­dafi. Quindi fino a quando non c’è un lin­guag­gio pre­ciso che assi­curi alla Rus­sia chi, dove, come, quando vuole fare que­sta ope­ra­zione, non si muove nulla. Il piano pre­sen­tato poi è troppo ambi­guo, non si capi­sce cosa si deve fare e per quanto tempo. Tutta que­sta ope­ra­zione a mio mode­sto avviso non va da nes­suna parte, almeno non come era stata pen­sata inizialmente.

E allora come ne usciamo?
Chiun­que abbia in mente una solu­zione mira­co­losa, secondo me vende fumo. Credo che que­sta situa­zione si tra­sci­nerà ancora a lungo. In Libia, per esem­pio, oltre alle mili­zie locali è in corso la con­ti­nua­zione della guerra intra­sun­nita, per­ché Tobruck rap­pre­senta Egitto, Ara­bia Sau­dita ed Emi­rati men­tre Tri­poli Qatar e Tur­chia. Poi la poli­tica è molto fra­gile e non so se adesso la Tur­chia vuole ancora con­ti­nuare la sua pre­ce­dente poli­tica regio­nale oppure no. Ma anche quello che sta suc­ce­dendo in Ara­bia sau­dita dove la tran­si­zione dopo la morte del re non è affatto così tran­quilla come ce l’hanno dipinta. Atten­zione, per­ché le alleanze sono fra­gili. Penso che oggi stiamo assi­stendo a una guerra tra di loro, una guerra che noi abbiamo con­tri­buito a far scop­piare dal 2003 con l’Iraq senza sapere bene che fare il giorno dopo.

Quindi che fare? Secondo me il com­mis­sa­rio per l’Immigrazione andrebbe sosti­tuito da un nuovo respon­sa­bile della poli­tica che guardi a Sud e si con­cen­tri su quei tre Paesi che ancora reg­gono ed hanno inte­ressi veri ad un rap­porto più appro­fon­dito con l’Europa… Biso­gna sepa­rare Est da Sud sono due mondi diversi che invece trat­tiamo alla stessa maniera, con le stesse regole, gli stessi modelli, lo stesso com­mis­sa­rio e un unico bilan­cio di 15 miliardi di euro dal 2015 al 2020 dei quali non si capi­sce quanto va a Est e quanto va a Sud. Serve invece un com­mis­sa­rio solo per il Sud che tenga conto delle nostre prio­rità, come l’immigrazione, ma che sia capace di dia­lo­gare con que­sti Paesi che hanno tutt’altre esi­genze. A loro dell’emigrazione non inte­ressa molto, anzi sem­mai spe­rano nelle rimesse e in un alleg­ge­ri­mento interno anche sociale.
L'Ungheria traduce in fatti concreti, ferrigni e spinosi, l'ideologia dominante nell'Unione europea, che solo il velo dell'ipocrisia nasconde agli ingenui.

La Repubblica, 18 giugno 2015

Budapest. Quando l’annuncio è venuto, non voleva crederci nessuno: in Europa, con Orbàn e con la marea dei migranti, torna l’èra dei Muri, proprio quei Muri della cui caduta Orbàn allora giovane dissidente liberal fu coraggioso protagonista.

Sembra un incubo eppure è vero: il governo nazional-conservatore ed euroscettico ungherese ha annunciato che costruirà un Muro lungo tutta la frontiera con la Serbia. Un Muro per bloccare la marea umana di siriani, e africani che attraverso il ventre molle balcanico, dopo aver superato pericoli e insidie, cercano di arrivare al confine magiaro per entrare nell’Unione europea e nello spazio di Schengen. Da domani non sarà più possibile, è il messaggio. Arriva il muro di Orbàn, con cui il premier osteggiato e visto con sfiducia in tutta la Ue vuole rifarsi verginità e credibilità politica. Abile come sempre, mi dice un alto diplomatico d’un Paese chiave della Vecchia Europa, il premier magiaro sa come muoversi, «un po’ scacchista e un po’ giocatore di poker», cogliendo di sorpresa chiunque lo critichi, nel momento più giusto».
Annuncio inatteso, come un fulmine sebbene il cielo dell’Europa spaventata dai migranti non sia sereno, meno che mai qui nel torrido caldo danubiano. «Il governo», ha annunciato freddo e preciso alle 13 locali il portavoce dell’esecutivo, Péter Szìjjàrtò, «ha dato al ministro dell’Interno Sàndor Pinter l’incarico vincolante di costruire una barriera lungo il confine con la Serbia». È la prima volta in assoluto, nella vita dell’Unione europea dopo la caduta della Cortina di ferro, di una barriera che separa un pezzo d’Europa dall’altro. La Memoria rammenta amara che fu proprio in Ungheria, 26 anni fa, che incoraggiati dalla rivoluzione di Solidarnosc e dei generali in Polonia i comunisti riformatori allora al potere ma consci di stare per perderlo aprirono una prima breccia nel muro.
Quando guardie di frontiera magiare e austriache insieme tagliarono con le cesoie i primi tratti di filo spinato, tarda primavera del 1989. E quando pochi mesi dopo, il 16 settembre, l’Ungheria invasa da cittadini della Ddr in fuga decise di lasciarli passare oltre il confine austriaco, con l’accordo di Gorbaciov e Kohl e sfidando i gerarchi tedesco-orientali, cecoslovacchi e romeni, da Honecker a Bilak a Ceausescu che minacciò attacchi missilistici contro il Paese magiaro. Le mille coppie miste tra cittadini tedeschi dell’est e occidentali che nacquero allora a Budapest, nel campo profughi di Zugliget, che l’esercito magiaro difendeva dalle spie della Stasi, sono soltanto memoria. Il Muro che risorge ora non sarà un vero Muro, avvertono i portavoce del governo, confermati da osservatori e diplomatici occidentali. Ma un solido, robusto, invalicabile reticolato alto 4 metri. Lungo i 175 chilometri della frontiera tra Ungheria e Serbia.
«I lavori preparatori per la chiusura della frontiera dovranno essere ultimati entro mercoledì prossimo (24 giugno, ndr), poi il primo luglio informeremo di ogni dettaglio i nostri partner», ha precisato Szìjjàrtò. E intanto l’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, protestava contro i manifesti ufficiali magiari volti a dissuadere i migranti, condannandoli come razzisti. Il premier serbo Aleksander Vucic ha replicato all’annuncio dichiarandosi «sorpreso e shockato. La Serbia è solo un Paese di transito per i migranti». Mentre la portavoce Ue Natasha Bertaud ribadiva che «la Ue non promuove l’uso di recinzioni e incoraggia gli Stati membri ad adottare misure alternative per sorvegliare le frontiere».
Attenti però, non è tutta colpa di Orbàn, dicono qui a Budapest in molti. Il piccolo Stato balcanico, erede della Jugoslavia senza mezzi né know-how , non ha saputo dimenticare il passato delle guerre di Milosevic, suggeriscono fonti Nato, non si è mostrato capace di mostrare alcuno sforzo per avvicinarsi all’Unione europea. Neanche per il controllo della frontiera. Al contrario: Belgrado ha a lungo dato l’impressione di voler lasciar passare tutti, le sue guardie di frontiera raccontano ai poveracci in fuga dalla Siria, dalla Libia, dalla Macedonia della quasi guerra civile o da ovunque altrove, che passando quel confine verso la Magyar Koeztarsasàg troveranno libertà di movimento all’interno della Ue. Quindi pane e lavoro. Ha persino istigato i giovani del Kosovo, ex provincia ribelle adesso riconosciuta da Berlino e molti altri, ad andarsene.
Almeno una cosa bisogna riconoscere a Orbàn: a suo modo ha preannunciato la scelta. «Non riteniamo giusto che i serbi ci spediscano tutti questi profughi, ci riserviamo il diritto di prendere adeguate contromisure », aveva detto pochi giorni fa il premier ungherese. E aveva aggiunto, preciso e ammonitore: «Noi ci teniamo ogni opzione aperta, compresa quella di una totale chiusura del confine serbo». Detto, fatto. Le cifre d’altronde parlano: nel 2012 i profughi entrati nella Ue attraverso l’Ungheria erano stati appena 2mila, l’anno scorso sono invece saliti a 43mila, quanti tutti gli abitanti di una media città ungherese. Chi non ha ascoltato Orbàn allora, lo ha frainteso. Non è uomo di mezze misure. È arrivato recentemente persino a sfidare la Ue alludendo a una reintroduzione della pena di morte, poi solo le urla di Merkel e Juncker lo hanno indotto a frenare. «Ma figuriamoci », mi dice un amico dissidente ieri sotto la dittatura comunista e oggi sotto questo governo, «se esita a colpire duro contro i serbi che non vigiliano i confini: si mette semplicemente in sintonia con le numerose voci nella Ue, di destra ma non solo, che dicono basta alla marea umana».
Tranquillità che inganna, traffico caotico, belle ragazze e folla nello shopping della borghesia vicina al partito del premier: così si presentava oggi Budapest nel caldo d’un’estate precoce, quando l’annuncio è venuto. I deboli e divisi partiti d’opposizione progressista (socialisti dell’ex governo corrotto, verdi, altri minori) tacciono. E tace Jobbik, ultradestra neonazista e razzista che non fa che crescere nei consensi e ha seguito persino nelle migliori università da quando Orbàn è al potere, ma certo ai “camerati” la misura non dispiace. Anche a loro, come a tutte le destre radicali finanziate o appoggiate da Putin nella Ue, dànno gioia i Muri che risorgono.
Il 15 giugno le quattro associazioni ambientaliste Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF hanno sottoscritto unitariamente un appello per chiedere continuità nelle politiche portate avanti in questi cinque anni sul governo del territorio e del paesaggio. Nessun quotidiano l'ha ripreso.

Comunicato stampa

Le Associazioni ambientaliste - Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF - hanno condotto insieme una battaglia per affermare in Toscana i valori dell'ambiente, del territorio, del paesaggio. In modo particolare, hanno contribuito, nella passata legislatura, a far approvare provvedimenti legislativi di portata nazionale come la Legge per il governo del territorio e il Piano paesaggistico.

La battaglia però non può fermarsi qui. È necessario che nella prossima legislatura questi provvedimenti siano salvaguardati e correttamente applicati e, in proposito, le Associazioni auspicano e chiedono continuità nel lavoro svolto da Anna Marson durante la scorsa legislatura: e ritengono, inoltre, che la garanzia più efficace di una corretta gestione del Piano consista nel mettere prima possibile in funzione l’Osservatorio del paesaggio previsto dall’art. 59 della nuova Legge per il governo del territorio, articolato in una struttura regionale e in una rete di nodi locali aperti alla partecipazione delle comunità locali, come «strutture ecomuseali, associazioni ambientali e civiche, già attivi sul territorio» (da Relazione generale del Piano, p. 24). Se ciò, come vivamente è auspicabile, sarà realizzato le Associazioni ambientaliste si propongono di fornire al governo regionale il proprio contributo per mettere in atto i risultati positivi della precedente legislatura.

Firenze, 15 giugno 2015.

Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF

. Comune.info, 17 giugno 2015

In questo periodo alcuni dirigenti politici alzano la voce contro gli stranieri, quelli miserabili (non i miliardari arabi che si stanno comprando mezza Italia), quelli che scappano dalla fame, dalla guerra, dalle situazioni disumane e tragiche prodotte dalle politiche occidentali, in primis gli Usa e le multinazionali euro-statunitensi che sfruttano le risorse dell’Africa e del Medio-oriente. Quei dirigenti usano una violenza verbale, veicolata dai media, che fanno così da cassa di risonanza allacostruzione del capro espiatorio in una situazione di crisi sociale, culturale, morale, politica ed economica che sta affondando la democrazia italiana, ma anche di molti paesi europei.

La violenza verbale si accompagna purtroppo anche dalla violenza fisica di chi viene sfruttato da scafisti di tutte le nazionalità, basta vedere la vicenda di Roma (sulle vicende di Roma, Milano, Ventimiglia e, più in generale sulla situazione dei migranti in questo momento, leggi anche Migranti in trappola di Fulvio Vassallo Paleologo e la durissima denuncia di Amnesty). L’importante è fare crescere l’odio verso i poveri del mondo che chiedono aiuto, l’importante è metterli alla gogna facendo tremare i cittadini impoveriti e impauriti con le favole sulla scabbia, il terrorismo ecc. La cosa grave è che il giornalismo italiano sembra non avere senso del pudore e della responsabilità sociale nell’influenzare l’opinione pubblica, anzi più si sbatte il mostro in prima pagina nei tg, più si dà spazi ai deliri razzisti e volgari di certi personaggi, più si amplifica il fenomeno della presunta invasione del paese. E se il paese è invaso vuol dire che siamo in guerra. Contro chi? Contro i poveri che arrivano dal Corno dell’Africa (ex colonie italiane), dal Medio-oriente (Sira, Iraq distrutti dalla guerre occidentali), dall’Africa centrale sfruttate dalle multinazionali per le sue materie prime. Non guerra alle diseguaglianza e alla povertà nel mondo e anche alle sue cause, dunque, ma guerra ai poveri.

Austerity

D’altronde che la guerra contro i poveri sia una realtà i cittadini europei se ne accorgono con le politiche di austerity che hanno avuto finora l’effetto d’impoverire la popolazione e di distruggere i sistema di diritti e di tutela dei lavoratori. Allora bisogna far crescere l’odio contro i profughi, scatenare la guerra tra i poveri facendo leva sugli istinti più bassi e incivili dell’essere umano per fare dimenticare che la crisi sociale in Italia e in Europa ha dei responsabili, cioè chi governa e conduce per conto dei mercati della finanza le politiche di distruzione dello Stato sociale per favorire il trasferimento di ricchezza verso chi è ricco e per rendere schiavi i salariati.

Come ha scritto René Girard nei suoi testi La violenza e il sacro e Il capro espiatorio, l’aggressione razzista è proporzionata non alla diversità dello straniero ma al fatto che ci assomiglia tanto, insomma aggrediamo l’altro perché è molto simile a noi e non il contrario (è quello che il filosofo francese chiama “la vendetta mimetica”). Nel caso dell’Italia con la sua storia d’emigrazione (rimossa anche se molto attuale, visto che negli ultimi tre anni hanno lasciato il paese 350.000 mila italiani) la questione diventa ancora più complicata poiché i profughi ci ricordano molte cose sulla sua storia passata e anche attuale. L’aggressività razzista e xenofoba è anche sempre lo specchio di una paura irrazionale, di una insicurezza e di un tentativo di eliminare l’altro diverso da sé per non fare i conti con se stesso, quindi con l’altro che ci sta dentro.

Il dominio sull’altro secondo Fanon

Psicologicamente si può dire, con lo psichiatra afro-martinichese Franz Fanon, chel’aggressività linguistica e simbolica nonché la violenza fisica sono parte di una logica di dominazione sull’altro agita da chi si sente insicuro (agendo come un “ferito psico-affettivo” che costruisce un rapporto di doppio legame con l’oggetto del proprio odio e della propria violenza). Si tratta di un tratto patologico che, negando dignità e umanità all’altro, porta a annichilire la propria dignità e umanità, quindi la propria capacità riflessiva lasciandosi travolgere dalle pur emozioni del momento, emozioni che non diventano sentimenti poiché quest’ultimi ci portano a relazionarci con i sentimenti dell’altro e quindi a considerarlo nella propria umanità.

L’odio ha purtroppo sempre funzionato nella storia umana permettendo alle classi dominanti di trovare, tra una parte dei dominati e sfruttati autoctoni, delle truppe e dei sostegni per continuare ad essere dominanti. L’odio è anche un modo molto più semplice di non dovere fare i conti con se stessi nella relazione con l’altro e quindi con la propria coscienza. Giuseppe Mazzini l’aveva già capito nella prima metà dell’800 e sosteneva che solo la fratellanza tra i popoli, in particolare tra i popoli sfruttati e oppressi avrebbe permesso di costruire una Europa più democratica e più giusta, scrisse anche in un proclama indirizzo ai giovani italiani che bisognava “abolire la parola straniero dalla favella dell’umanità”!

«La super­fi­cia­lità, l’inconsistenza e la cri­mi­na­lità tanto delle solu­zioni della Lega e delle destre euro­pee quanto delle non-soluzioni dei governi ita­liani ed euro­pei è una dram­ma­tica spia del tarlo che rode da anni l’edificio dell’Unione Euro­pea».

Il manifesto, 16 giugno 2015
È come se l’Europa fosse piom­bata di nuovo in una guerra. Solo i suoi gover­nanti non se ne sono accorti. Pochi di noi, sem­pre meno, in tutta Europa, sono ormai sicuri di poter tor­nare domani nella fab­brica o nell’ufficio dove hanno lavo­rato fino ad oggi; e non per­ché quei luo­ghi siano stati distrutti da una bomba, ma per­ché rischiano di venir chiusi dai debiti o da una delo­ca­liz­za­zione. Lo stesso vale per la casa dove si è abi­tato fino a ora: sfratto per moro­sità o rateo del mutuo non pagato. O per la pen­sione, dis­solta, dimez­zata o allon­ta­nata da un dik­tat della Com­mis­sione Euro­pea.

Ma oggi suc­cede anche che i giar­dini o le sta­zioni siano improv­vi­sa­mente invase da pro­fu­ghi abban­do­nati a se stessi. Sono ancora casi sin­goli, ma di un tale impatto da pro­iet­tare la loro imma­gine su tutto il paese. È una gene­rale situa­zione di insi­cu­rezza che si coa­gula, gra­zie anche (ma non solo) agli impren­di­tori poli­tici della paura, in una dif­fusa per­ce­zione di per­colo (anche se spesso die­tro il peri­colo com­pare soprat­tutto il fasti­dio) e nella ricerca di un capro espia­to­rio: cer­cato non nelle alte sfere di chi ha sca­te­nato quella guerra con­tro i popoli, ma, come sem­pre, tra le fasce più reiette: rom, pro­fu­ghi, migranti.

Il brac­cio di ferro tra il governo greco e le Isti­tu­zioni (già Tro­jka) è la riprova che i governi dell’Europa chiu­dono gli occhi di fronte alla realtà. Che cosa cre­dono mai di otte­nere? Se anche vin­ces­sero pie­gando o sfa­sciando Syriza, come stanno cer­cando di fare, non recu­pe­re­ranno mai il loro denaro (pre­stato per sal­vare in realtà le loro ban­che) e non fareb­bero che pro­cra­sti­nare quell’instabilità che già oggi pena­lizza tutte le loro eco­no­mie. Per­ché il debito greco, come quello ita­liano e di molti altri paesi, è inso­ste­ni­bile. Ma apri­reb­bero così le porte alla rimonta di Alba Dorata. Se invece finis­sero per cac­ciare la Gre­cia dall’Euro le cose non andreb­bero certo meglio. La deriva del paese ne tra­sci­ne­rebbe uno dopo l’altro, o tutti insieme, molti altri.

Ma le mani­fe­sta­zioni di insi­pienza non fini­scono qui: emer­gono ora con viru­lenza nella vicenda dei pro­fu­ghi: anche in que­sto campo Gre­cia e Ita­lia sono state elette a vit­time sacri­fi­cali di una poli­tica senza futuro. Quello che Maroni vor­rebbe fare delle Regioni dell’Italia meri­dio­nale e che Sal­vini (nella sua nuova veste di eroe nazio­nale) vor­rebbe fare della Libia - trat­te­nere là i pro­fu­ghi che non vogliono acco­gliere qua - l’Europa, cioè i governi dei paesi mem­bri, incal­zati e tra­volti dai furori xeno­fobi e anti­eu­ro­pei delle destre, lo stanno già facendo nei con­fronti di Gre­cia e Ita­lia: «È un pro­blema vostro; tene­te­veli. Siamo stati così desi­gnati a campo pro­fu­ghi, nuova Libia delle guerre che inve­stono ormai i con­fini di tutta l’Unione.

E’ la prova di una totale man­canza di visione di che cosa possa, ma anche debba, essere l’Europa; e di una totale man­canza di stra­te­gia di fronte ai pro­blemi più gravi. Dal canto suo, il governo ita­liano, inve­stito diret­ta­mente dall’ondata mon­tante (ma pre­ve­di­bile) dei pro­fu­ghi, ha messo a punto (accanto alla ini­zia­tiva sal­vi­fica, ma a ter­mine, di Mare Nostrum) due solu­zioni emble­ma­ti­che del modo con cui affronta le emer­genze. La solu­zione Alfano-Buzzi: spe­cu­lare a man bassa, sia in ter­mini eco­no­mici che elet­to­rali, su quei dispe­rati. E la solu­zione Alfano-Pansa: farli scap­pare dai luo­ghi di acco­glienza (cioè di deten­zione); lasciarli per strada. Che si arran­gino a riem­pire sta­zioni, giar­dini, fab­bri­che abban­do­nate, rico­veri improv­vi­sati. Così si ali­menta allar­mi­smo tra popo­la­zioni ignare della dimen­sione geo­po­li­tica del pro­blema e indotte a guar­dare solo ciò che inter­fe­ri­sce con le loro vite quo­ti­diane. Ma soprat­tutto si offrono nuovi argo­menti alle stra­te­gie di Salvini.

Ma che cosa suc­ce­derà se o quando vin­cerà Sal­vini? O quando le sue ricette saranno fatte pro­prie da chi ci governa (il piano B)? I campi pro­fu­ghi in Libia non si faranno. Ci sono già: sono quelli da cui si imbar­cano a decine di migliaia. Chi o che cosa potreb­bero mai otte­nere che non suc­ceda più? L’occupazione di tutta la costa libica? Ci vuole quella guerra che l’Onu per ora non per­mette; ma che poi, comun­que, biso­gne­rebbe vin­cere. Ma l’ultima guerra con­tro la Libia l’Europa in realtà l’ha persa. Così, sarebbe comun­que il deserto a inghiot­tire i pro­fu­ghi e migranti tenuti lon­tani dal mare (e dal nostro sguardo: chi si è mai pre­oc­cu­pato dei morti nel deserto, che sono già ora di più di quelli anne­gati in mare?). E magari, biso­gne­rebbe anche ricac­ciare verso i ter­ri­tori occu­pati dallo Stato Isla­mico i pro­fu­ghi accam­pati in Libano, Gior­da­nia e Tur­chia prima che cer­chino anche loro di rag­giun­gere l’Europa.

Oppure, si può smet­tere di sal­varli in mare, o respin­gerli con la forza quando chie­dono aiuto. Cioè farli anne­gare. In sostanza la pro­po­sta vera è que­sta, e si chiama ster­mi­nio. Ma alcuni, anzi molti, riu­sci­reb­bero comun­que a rag­giun­gere i nostri porti. Li si affonda lì? Davanti ai turi­sti che fanno il bagno? Senza nean­che capire che un’accoglienza come quella inau­gu­rata dalla sin­daca di Lam­pe­dusa è riu­scita a sal­vare sia turi­smo che vite umane?

Oppure, ancora, si adotta la linea Maroni, Zaia e Toti e si nega l’apertura di rico­veri decenti nelle regioni a cui i pro­fu­ghi sono stati desti­nati. Spin­gen­doli così ad accam­parsi nelle sta­zioni e nei giar­di­netti e, se ven­gono cac­ciati anche di lì, a spo­starsi in altre sta­zioni e in altri giar­di­netti (in una giran­dola come quella impo­sta ai campi rom): affi­dan­doli alle cure di quei tanti cit­ta­dini e asso­cia­zioni che mostrano ancora una grande voglia di aiu­tarli (ciò che dà ancora spe­ranza di poter costruire una società soli­dale). Ma met­ten­doli anche alla mercé di squa­dracce decise a farla pagare a quei disgra­ziati, rei di essersi sal­vati da una guerra, dal mare e dalle tor­ture inflitte loro durante il loro viaggio.

La super­fi­cia­lità, l’inconsistenza e la cri­mi­na­lità tanto delle solu­zioni della Lega e delle destre euro­pee quanto delle non-soluzioni dei governi ita­liani ed euro­pei è una dram­ma­tica spia del tarlo che rode da anni l’edificio dell’Unione Euro­pea. Vent’anni fa era già stato detto che, se non si fos­sero adot­tate misure ade­guate, pro­fu­ghi e migranti dall’Africa e dal Medio Oriente ci avreb­bero rag­giunti anche a nuoto. Ora quel momento è arri­vato e si parla solo di come fer­marli o far­gli inver­tire rotta; ma nes­suno ha ancora detto come. La solu­zione finale, lo ster­mi­nio dei pro­fu­ghi in mare o in Libia o nel deserto, ciò che l’Europa si era impe­gnata a non per­met­tere mai più, è inac­cet­ta­bile.

Ma l’accoglienza non basta, se non è inse­rita in un dise­gno di paci­fi­ca­zione e risa­na­mento dei paesi da cui pro­ven­gono: un dise­gno che abbia il suo punto di forza pro­prio nelle comu­nità espa­triate. Per que­sto occorre che pro­fu­ghi e migranti non ven­gano vis­suti come un ingom­bro, o facendo finta che non esi­stano. Biso­gna aiu­tarli a inse­rirsi nel tes­suto sociale e a rico­struire i legami con le loro comu­nità nazio­nali; ad abi­tare in luo­ghi decenti, ammi­ni­strando da soli i fondi desti­nati alla loro per­ma­nenza; non con­dan­narli a un ozio for­zato, pro­muo­vendo per loro vere oppor­tu­nità di lavoro, sia volon­ta­rio che retri­buito (ma per far que­sto biso­gna pro­muo­vere oppor­tu­nità ana­lo­ghe di lavoro e di red­dito anche per tutti i cit­ta­dini ita­liani).
E occorre costruire con loro, attra­verso i loro resi­dui legami con i paesi di ori­gine, un per­corso di paci­fi­ca­zione, a par­tire dal blocco delle for­ni­ture di armi che ali­men­tano le guerre da cui sono fug­giti. Get­tando così insieme le basi di una grande comu­nità euro-mediterranea ed euro-africana, su cui rico­struire una nuova Unione, e un nuovo governo dell’Unione, quando quello attuale avrà dovuto pren­der atto del suo fallimento.
Il titolo dell'articolo su il manifesto, da cui lo abbiamo tratto, è "Costruiamo un'Unione euroafricana"
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