L'incredibile faccia di bronzo di chi utilizza le parole di Jorge Borgoglio per sostenere la tesi opposta Ecco Luciano Violante nell'intervista di Dino Martirano.
Corriere della Sera, 28 giugno 2015, con postilla
L’ex presidente della Camera Luciano Violante - che da magistrato, negli anni 70, ha combattuto in prima linea a Torino il terrorismo delle Brigate Rosse - non mostra esitazione nel pronunciare la parola guerra: «Dobbiamo attrezzarci innanzitutto culturalmente per capire che una guerra tendenzialmente globale e che produce anche atti di terrorismo è cosa diversa dal terrorismo senza guerra. La risposta di polizia è utile ma insufficiente. Occorre soprattutto un nuovo esame della situazione che parta dalla idea che ci hanno dichiarato una guerra. Non si tratta di mandare i carri armati, ma di capire la situazione senza ipocrisie».
Presidente Violante, un tempo le guerre si dichiaravano. Qui non ci sono cancellerie, ultimatum, ritorsioni...
«Il Papa ha detto che è una guerra mondiale a rate. Tutti d’accordo, ma non se ne sono tratte le conseguenze. È una guerra senza Stati. C’è un’armata che si muove dal Caucaso alla Libia, un semicerchio attorno all’Europa, tanto per azione diretta quanto “per induzione”. Sulla spiaggia tunisina infatti avrebbe agito un gruppo non direttamente inquadrato nell’Isis».
Dopo gli attacchi dell’11 settembre negli Stati Uniti il mondo occidentale ha risposto con operazioni di «polizia internazionale».
«Abbiamo scardinato i regimi di Saddam Hussein e di Gheddafi, senza un piano per il futuro; e siamo diventati artefici del caos. In politica uno degli errori più gravi è non capire chi è il nemico, e poi come si muove, come si finanzia, quali sono gli obbiettivi vicini e lontani. È un errore che possiamo ancora correggere riconoscendo che é in atto una guerra contro di noi, che noi non abbiamo dichiarato e che agisce anche con atti di terrorismo. Gli atti di terrorismo sono l’effetto di questa guerra; non sono la guerra».
Qual è l’arma che distingue e rende pericoloso l’«esercito senza stato»?
«È composto da persone che non hanno paura di perdere la vita. Si è dotato di una missione ideale, per quanto inaccettabile, conquistare tutto il mondo alla loro idea di Islam, che coinvolge migliaia di persone in tutto il mondo. Ha enormi e ignoti finanziamenti. E poi durante il Ramadan sciiti e sunniti predicano da sempre l’interruzione di ogni atto di violenza. Qui invece assistiamo a un sovvertimento delle regole, quasi a cercare l’elevazione dello spirito attraverso l’eliminazione del nemico ».
Accettare l’idea di convivere con una guerra implica un conseguente contenimento delle libertà democratiche?
«No. Ma l’Europa deve reagire con un impegno nuovo. Più è grave il pericolo, più il rimedio deve essere serio. È una situazione che l’Europa deve prendere terribilmente sul serio e con assoluta priorità. Certo nei Paesi del Nord Europa si può far strada l’idea che a certe latitudini non arrivano questi venti di guerra. Ma non è così».
Lo «stato di guerra», seppure non dichiarato, comporta misure eccezionali?
«No. Bisogna innanzitutto mobilitare tutte le alleanze e tutte le risorse delle tecnologie più sofisticate, soprattutto per individuare e colpire i finanziatori. E la politica dell’immigrazione, fermo il diritto d’asilo, e ferme le libertà costituzionali, non può prescindere da questa situazione oggettiva».
Alcuni Paesi a prevalente presenza islamica giocano un ruolo chiave nella nuova mappa geo politica. Dove ha sbagliato fin qui l’Europa?
«Il mancato ingresso della Turchia nella Unione europea ha fatto sì che quel Paese sia diventato la frontiera dell’Est e non più dell’Ovest».
L’Iran, che aspira a diventare un punto di forza e di stabilità in Medio oriente come è stato trattato?
«L’Iran è sciita; perciò è pesantemente messo sotto attacco dall’Isis. Il presidente della Air Products, azienda colpita in Francia è un iraniano sciita che vive negli Stati Uniti. Aver colpito in quel modo orribile quell’azienda francese probabilmente non è un caso. Questo attacco ci dice che il terrorismo agisce per procura di chi dirige la guerra».
postilla
Il giorno stesso papa Francesco ha detto: «In questi casi dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati». Nell'enciclica aveva individuato con chiarezza il sistema responsabile della "terza guerra mondiale"
Tre sono i vizi degli atti con cui la Troika ha strangolato la Grecia: l'illegalità, l'illeggittimità e l'odiosità. Ma questi vizi sono identici a quelli con i quali la Troika (in gergo: "lo chiede l'Europa") ha sollecitato i governi italiani a incamminarsi sulla strada verso il baratro.
La Repubblica, 25 giugno 2015
POCHI giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo. Il rapporto greco è fitto di riferimenti alle leggi e al diritto internazionali. E contiene, in modo abbastanza evidente, una lezione per l’Italia.
Il rapporto distingue con cura tra illegalità, illegittimità e odiosità di un debito pubblico. Un debito è illegale se il prestito contravviene alle appropriate procedure previste dalle leggi esistenti. È illegittimo quando le condizioni sotto le quali viene concesso il prestito includono prescrizioni nei confronti del debitore che violano le leggi nazionali o i diritti umani tutelati da leggi internazionali. Infine è odioso quando il prestatore sapeva o avrebbe dovuto sapere che il prestito era stato concesso senza scrupoli, da cui sarebbe seguita la negazione alla popolazione interessata di fondamentali diritti civili, politici, sociali e culturali. Il Fmi è responsabile di tutt’e tre le infrazioni perché le condizioni imposte alla Grecia in relazione ai suoi prestiti hanno gravemente peggiorato le sue condizioni economiche e il suo sistema di protezione sociale. Da vari documenti interni del Fondo stesso, risalenti al periodo 2010-2012, appare evidente che perfino il suo staff, una parte consistente del consiglio direttivo formato da rappresentanti di vari paesi, e non pochi dirigenti sapevano benissimo quali sarebbero state le conseguenze negative a danno della popolazione greca.
La Bce non è stata da meno, contribuendo ai programmi di aggiustamento macroeconomici della Troika e insistendo in special modo sulla de-regolazione del mercato del lavoro - violando in tal modo anche gli articoli del Trattato Ue che stabiliscono la sua indipendenza dagli stati membri. Con le sue manovre relative al commercio dei titoli sul mercato secondario ha reso possibile alle banche private greche di scaricare dal bilancio gran parte dei titoli di stato, peggiorando le condizioni del bilancio pubblico. Quanto al fondo Efsf, sebbene gestisca fondi pubblici europei, è stato costituito come società privata cui non si applicano le leggi Ue, persegue unicamente obbiettivi finanziari, e sapeva bene di imporre con i suoi prestiti costi abusivi alla Grecia, senza che essi recassero alcun beneficio al paese. Pertanto molte azioni svolte da Bce e Efsf nei confronti della Grecia nel periodo 2010-2015 sono classificabili come illegali, illegittime e odiose. Il testo abbonda di rimandi ad altre violazioni operate dalla troika. Esse vanno dalla falsificazione delle statistiche economiche e sociali della Grecia alla violazione della sovranità fiscale dello stato greco.
Si dirà: ma che c’entra l’Italia con le vicende del debito greco? C’entra eccome, poiché vi sono perentori memoranda e lettere di istruzione inviate al governo italiano dalle medesime istituzioni Ue, e nello stesso periodo, che nello spirito e nei contenuti sembrano delle fotocopie di quelle inviate al governo ellenico. Si veda ad esempio la lettera indirizzata al governo italiano dalla Bce nell’agosto 2011. Essa raccomandava varie misure pressanti, quali «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali»; «privatizzazioni su larga scala»; una ulteriore riforma del «sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello di impresa»; l’adozione di «una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti»; un ulteriore intervento nel sistema pensionistico; «una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego»; infine chiedeva che «tutte le azioni elencate… siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare ». Questi e vari altri interventi peggiorativi delle condizioni di lavoro e di vita dei cittadini italiani sono stati prontamente adottati dai governi italiani, fino all’attuale con il suo scandaloso Jobs Act, non mancando di ripetere ad ogni momento la trita giustificazione «ce lo chiede l’Europa». In realtà non è l’Europa a chiederlo, ma singole istituzioni europee, molto spesso in violazione, come documenta il rapporto greco,degli stessi trattati Ue e di numerosi trattati internazionali. Al punto da far sorgere il dubbio che siano da considerare anch’essi, i dettati inviati all’Italia, illegali, illegittimi e odiosi. In attesa che qualcuno se ne accorga, avvii le procedure necessarie, e si impegni a chiedere alla Ue che rispetti almeno i medesimi trattati da essa sottoscritti. Tutto ciò non soltanto per il rispetto dovuto alle leggi ma perché il prossimo caso greco potremmo essere noi.
Cronaca del colpo mortale con cui il renzismo, asservendo la scuola al Monarca e ai suoi vassalli, ha pesantemente compromesso il diritto degli italiani a una formazione libera. Articoli di Carmelo Lopapa e Francesco Bei, e un'intervista di Corrado Zunino a Giovanni Cocchi.
La Repubblica, 26 giugno 2015
Il governo ce l’ha fatta sì, il ministro Stefania Giannini («Non sono commissariata») e il sottosegretario Davide Faraone si abbracciano. Ma con voti e assenze che pesano. Con i sì, ad esempio, degli ex Fi Sandro Bondi e Manuela Repetti, con l’assenza fin troppo evidente di Denis Verdini, ormai in rotta col suo partito. Se è per questo non si fanno vedere nel giorno decisivo, ma per marcare la distanza, nemmeno il senatore a vita Carlo Rubbia, e Elena Cattaneo e Mario Monti, uomini di scienza e di università. Tra le file della maggioranza spicca anche l’assenza di Carlo Giovanardi, ma l’Ncd di cui fa parte è compatto e determinante.
Dagli ultrà grillini e Sel non sarà risparmiato nessuno dei votanti a favore. Nemmeno, per la prima volta, l’ex presidente Giorgio Napolitano. Ha appena pronunciato il suo “sì” alla prima chiama e finisce sopraffatto da cori di “buu”, “bravo, bravo”, “vergogna” e fischi dai banchi dei Cinque stelle. Lui si allontana lentamente sostenendosi sul bastone, senza voltarsi. Sono da poco passate le 18, è il momento più basso di una giornata che è andata degradando come su piano inclinato verso il caos finale. Una corrida, protagonisti anche prof e studenti dalle tribune in alto, che si scatenerà contro tutti gli ex grillini che oseranno pronunciare il “sì” alla chiama, ma anche contro chi, come Miguel Gotor sta alla sinistra del PD, ma non al punto da negare la fiducia. «Voto sì per disciplina, ma gli elettori non ci perdoneranno», è il suo presagio. A mezzogiorno i parlamentari di Sel compaiono con t-shirt bianche con la scritta “Libertà di insegnamento” e “Diritto allo studio”, il clou sarà l’uso imperterrito dei fischietti in aula, stile Vuvuzelas ai mondiali del Sudafrica. La maglietta la indossa anche Maria Mussini del Misto e il presidente Grasso le chiede di toglierla. «Che faccio presidente, mi spoglio? Volete uno striptease?» La capogruppo Sel De Petris nel frattempo ha adagiato una di quelle magliette sul banco del ministro Giannini. «Fuori i bulli dalla scuola», campeggia sui cartelli mostrati dai leghisti con tanto di fotomontaggio del premier Renzi nei panni del Fonzie di “Happy days”. Nulla rispetto allo striscione che a un certo punto srotolano sempre i leghisti: «Difendiamo i nostri bambini dalla scuola di Satana», c’è scritto. Il loro Gian Marco Centinaio si distinguerà per aver paragonato il ddl alla “vaselina”. I grillini portano in aula i lumini mortuari, dopo averli ostentati in sala stampa a beneficio delle telecamere per il “funerale” della scuola. «Quei lumini che avete là non portano bene», li ammonisce con l’ultimo briciolo di ironia l’ormai esausto presidente Grasso. Perderà le staffe solo quando i banchi M5S si trasformeranno in curva sud pronta a colpire chiunque voti a favore o quasi: «Questi sono gesti di intolleranza. Il voto deve essere libero, non voglio commenti né prima, né dopo». Ma sarà inutile. Bondi e Repetti, con Casini e tutti gli ex grillini, i più tartassati. Beppe Grillo via Twitter sentenzia: «Hanno ucciso la scuola pubblica». I centomila da assumere tirano un sospiro di sollievo.
Ineccepibile invettiva contro il ducetto Renzi e chi, con la sua ignavia, gli permette di rottamare democrazia, istituzioni, scuola - e il futuro di noi tutti. L'elenco dei complici è presto fatto.
Ilmanifesto, 26 giugno 2015
Così ci sforziamo di ritornare freddi nella misura del possibile di fronte a questa porcheria di un’ennesima fiducia richiesta e puntualmente votata anche da quanti non si stancano al tempo stesso di protestare e mugugnare e lamentarsi del destino cinico e baro che li costringe a rivelare la propria inconsistenza e viltà al cospetto dell’intero popolo sovrano.
Siamo arrivati a questo voto in capo alla più tradizionale delle pantomime. Prima il renzigoverno annuncia le linee fondamentali della «riforma» della scuola – quella scuola che il giovane bellimbusto manintasca aveva celebrato come epicentro della sua società ideale quando si era presentato per la prima volta alle Camere l’anno scorso, liquidato e impalato il letta.
Linee che suscitano la pronta corale reazione indignata di tutte indistintamente le componenti del mondo della scuola, salvo la mogliera del renzi medesimo e qualche dirigente scolastico rampante bramoso di impettarsi la stella dorata dello sceriffato.
Studenti, genitori, professori in ruolo e precari, tecnico-amministrativi e sindacati – per quel nulla che valgono agli occhi del ducetto democratico – scendono in piazza e protestano per lo scippo di quel po’ di garanzie che ancora restano a tutela del posto di lavoro, del salario e della libertà d’insegnamento, per la volontà di iperpersonalizzare la direzione di plessi e istituti, per la decisione di gettare a mare senza prospettive metà del precariato, per l’ennesima regalia alle scuole private pretesche, insulto alla Costituzione. A chi protesta e sciopera il renzigoverno e i suoi scherani in parlamento replicano unisoni a muso duro: le sue ragioni valgono zero, si «tira dritto», chi ci ama ci segua, non si è democratici per niente.
Poi viene la batosta elettorale, il renzi per qualche ora sembra in confusione, teme di avere urtato uno scoglio imprevisto. Vacilla. E finge di aprire a qualche concessione. Qualcuno, incredibile a dirsi, gli crede. In realtà stringe i tempi e la strategia è pronta in men che non si dica, contro ogni regola di considerazione delle ragioni altrui ma non senza buone ragioni sul lato dei poteri. La commissione in Senato rischia di intralciare? Si salta. Il dibattito e il voto di merito in aula impensieriscono? Si imbrigliano. Il renzigoverno ha l’arma letale della fiducia ed è subito pronto a imbracciarla, con buona pace del presidente della Repubblica che forse s’immagina davvero di essere quel che la Costituzione afferma, perché non ha capito che qui è cambiato tutto e che la Repubblica ormai è solo una quinta di cartapesta stesa a dissimulare il regimetto di un imbronciato reuccio.
La fiducia, l’arma letale. Già. Qui casca l’asino. Perché in teoria il governo non dovrebbe affatto considerarsi al riparo dai rischi grazie a questo ricatto, stando alle forze in campo e prendendo una volta tanto sul serio le parole dette e financo scritte dai parlamentari. Il governo in Senato non avrebbe i numeri. Li ha solo se può contare anche sul voto di chi, pur militando nel partitodirenzi, protesta e minaccia e giura sul proprio onore di dissentire dalle decisioni del governo. Il quale può puntare sulla fiducia per restare in sella soltanto se sa (perché sa) che al dunque (alla fiducia) le proteste rientrano, le minacce dileguano, i giuramenti si sciolgono come neve al sole. Il governo sceglie la farsa dello scontro e poi mette la fiducia drammatizzando lo scontro perché sa che alla fine, con la fiducia, tutto rientra nell’ordine naturale delle cose. In aula si litiga, si urla, si inveisce, si insulta persino. Ma poi a capo chino si striscia e si vota, e amici come prima.
Fino alla prossima sceneggiata a beneficio nostro, ché al massimo staremo a casa anche la prossima volta quando si tratterà di votare.
Da dove viene al governo e al suo ducetto tanta sicurezza? Questo è il punto, non altre frottole ammannite ai benpensanti che ancora si bevono la fola della democrazia. La risposta non è difficile, è solo poco decente e per nulla edificante. Viene dalla consapevolezza – si badi, generale: poi si stende un velo pietoso sull’indecenza: viene dalla consapevolezza che, pur di rimanere fino alla morte naturale della legislatura (pur di tagliare il traguardo che vale un vitalizio), i parlamentari si lascerebbero anche tagliare una gamba, figuriamoci se si confondono a fiduciare un governo contro il quale lanciano gratis a giorni alterni maledizioni e anatemi. E questo il renzi lo sa, conosce a menadito i suoi polli. Questo lo sanno anche i signori della «grande stampa». Ma per carità non si dice, non sta bene: è così una faccenda volgare, indecorosa, spoetizzante.
Meglio raccontare che il punto è la stabilità, l’Europa, lo spread. O la lealtà alla ditta. La tormentosa contraddizione in foro interiore tra la convinzione e la responsabilità. Meglio. Almeno finché non succede che il giocattolo si rompe, magari perché arriva sul più bello quello delle ruspe. Dopodiché non resterà che ringraziare la premiata ditta, questa vera sciagura italiana che non ha solo disperso tutta un’eredità di buona storia. Ha anche lavorato e trafficato ogni giorno sotto mentite spoglie per ingannare, infestare, inghiottirsi il paese.
Alexis Tsipras ha saputo la cattiva notizia in aereo e ha spiegato il suo rifiuto in questi termini: o non vogliono un accordo oppure vogliono servire gli interessi degli oligarchi greci.
Nelle proposte del Fmi, infatti, la tassa proposta da Atene sulle imprese con più di mezzo milione di utile annuo è stata depennata. Come è stata depennata la tassazione sulle società che gestiscono il gioco d’azzardo via Internet. In generale, gli oligarchi greci non compaiono nei brillanti piani del Fmi, né sotto la forma di proprietari di banche, né sotto quella di editori televisivi.
Il motivo? Fargli pagare le tasse avrebbe degli effetti recessivi. Infatti, in questi quattro anni che l’uomo del Fmi nella troika, Thomsen, governava con fare coloniale la Grecia lasciando del tutto indisturbati gli oligarchi, il Pil greco ha raggiunto risultati di crescita impressionanti:un bel — 26%.
La verità è che con la proposta greca che era stata accolta all’eurogruppo di lunedì il governo greco aveva esaurito– forse anche superato– i limiti che si era posto. Il piano greco di misure fiscali per otto miliardi in due anni permetteva al governo di vantarsi di aver difeso le pensioni ed evitato i nuovi licenziamenti al settore pubblico.
Aveva accettato un nuovo aumento delle imposte (nel paese più tassato d’Europa: sono aumentate del 338% dal 2010) cercando di salvare il salvabile: cibo materiale e spirituale (libri) al 6%, altri consumi diffusi, come la corrente elettrica, al 13% e il resto al 23%. Atene aveva inoltre accettato la permanenza di leggi odiose, come il famigerato Enfia sugli immobili, aumentando le imposte ai redditi superiori ai 30 mila euro annui. In sostanza, in un contesto negativo, il governo aveva cercato di differenziare il peso fiscale, aggravandolo per i redditi più alti.
Siccome in Grecia più che nuove tasse serve un meccanismo più efficiente per le entrate pubbliche , Varoufakis aveva anche avanzato delle proposte per rendere più difficile l’evasione dell’Iva. Proposte magicamente sparite dalle scandalose richieste del Fmi. Non è un segreto che la proposta di Tsipras era stata accolta positivamente a Bruxelles ma non era succeso lo stesso in Grecia. Il «compromesso onesto» richiesto da Tsipras era diventato un «compromesso doloroso.
Malgrado i reportage fantasiosi comparsi sulla stampa europea, l’ipotesi di accordo proposta da Atene non avrebbe avuto seri problemi al Parlamento greco. I voti contrari sarebbero stati al massimo una decina. Il perché è stato chiarito nella riunione di ieri della Segreteria Politica di Syriza. Prima Tsipras e poi il suo stretto collaboratore Flabouriaris hanno spiegato che condizione irrinunciabile della proposta greca è che i creditori assicurino ufficialmente di «rendere sostenibile il debito». In pratica, Atene esige che i creditori confermino l’impegno preso per iscritto con il secondo Memorandum del 2012: una volta finito il programma, i creditori dovevano prendere provvedimenti per alleggerire il peso del debito sull’economia del paese.
Come è noto, tra i tre creditori, il Fmi è l’unico favorevole al taglio del debito greco. In un colloquio di qualche giorno fa, il premier greco aveva anche chiesto a Lagarde di non limitarsi a chiedere tagli e che ponesse anche la questione del debito.
Sembra quindi che nella confusione dominante in campo europeo, ancora una volta si riesce a raggiungere una sintesi solo ai danni della Grecia. Vista però la ferma resistenza opposta da Tsipras in tutti questi mesi a ogni progetto di abbattimento di pensioni e di stipendi pubblici, è evidente che ora il Fmi pone un problema politico: destabilizzare il governo di sinistra greco, costringerlo o alla resa verso l’austerità o a un rovinoso (per tutti) scontro con l’eurozona, che il popolo greco non vuole. In ambedue i casi, si pensa, Syriza è spacciata e si spera in un cambiamento dello scenario politico.
È un progetto estremista, non a caso in Europa condiviso solo da Schauble.
Tsipras ha di nuovo ribadito che, in assenza di un «accordo complessivo», la tranche dovuta al FMI a fine mese non sarà versata.
Ovviamente, il mancato versamento non sarà considerato automaticaticamente una bancarotta di Atene. Sarà invece un nuovo colpo di avvertimento: o i creditori prenderanno sul serio la volontà di Atene a non arrivare allo scontro, oppure l’ipotesi di un’implosione dell’eurozona diventa sempre più realistica. Probabilmente, era questo il senso delle dichiarazioni di ieri di Matteo Renzi: c’è chi vuole il Grexit, ha ammonito. Ma non si rivolgeva solo ad Atene.
di Anna Maria Merlo
Eurogruppo. L’Europa cestina le proposte di Atene. Il Fondo monetario cancella le tasse agli oligarchi e pretende il taglio delle pensioni. Moscovici incontra tutti i partiti di opposizione. A Bruxelles Tsipras incontra Draghi, Lagarde e Juncker: «Alla Grecia richieste senza precedenti, c’è chi dice no a tutto e vuole la rottura». Dopo sei ore di riunione è muro contro muro. L’eurogruppo si aggiorna a oggi, si tratta nella notte
Un’altra giornata estenuante sulla questione greca, conclusasi con l’ennesimo - il nono - Eurogruppo dell’«ultima speranza», ieri sera, a ridosso del Consiglio europeo di oggi e domani. Due programmi a confronto, contro-progetto greco e contro-contro progetto dei creditori, respinti da entrambi i contendenti, anche se le cifre ormai non sono così distanti.
Il governo Tsipras è messo al muro per accettare la logica del proseguimento dell’austerità, «riforme contro soldi freschi», che ha difficoltà a passare in patria. La proposta arriva a pochi giorni dalla doppia scadenza del 30 giugno, rimborso di 1,6 miliardi al Fmi e fine del secondo piano di «aiuti», già rimandato due volte, che, in mancanza di intesa, vedrà l’evaporazione dei residui 7,2 miliardi da versare ad Atene, indispensabili non per una soluzione duratura, ma per sopravvivere qualche settimana ed evitare il Grexit. I creditori hanno usato tutte le armi: fomentando il rischio di un bank run (5 miliardi ritirati in pochi giorni) e la carta del degrado, reale, dell’economia greca, estenuata, per far piegare Atene. E giocano anche sull’ipotesi di un cambio di maggioranza: ieri il commissario Pierre Moscovici ha incontrato Theodorakis, leader di To Potami, partito di centro greco, ruota di scorta possibile per una nuova maggioranza.
Tsipras ha fatto proposte dolorose, ma chiede semplicemente che l’accordo contenga un punto di buon senso: vista l’insostenibilità del debito greco, ci vuole un impegno sulla ristrutturazione. Del resto, questa ristrutturazione era stata promessa nel 2012, legata al raggiungimento di un avanzo primario (prima del servizio del debito) del bilancio greco. Questa clausola è stata rispettata da Atene nel 2013, con 1,5 miliardi di avanzo. Ma i creditori non hanno rispettato allora la parola data. E non lo fanno neppure adesso. Anche se Michel Sapin, ministro dell’economia francese, ammette: «la questione del peso del debito dovrà essere affrontata». Tsipras ha passato la giornata a Bruxelles. Ha incontrato Jean-Claude Juncker (Commissione), Mario Draghi (Bce), Christine Lagarde (Fmi), Dijsselblome (Eurogruppo), Regling (Mes).
Il primo ministro greco ha denunciato «l’insistenza di certe istituzioni che non accettano le misure compensatorie» presentate da Atene per ottemperare ai diktat dei creditori, «come non era mai accaduto prima né per l’Irlanda né per il Portogallo». Una carica in particolare contro il Fmi, che ha prestato 32 miliardi (a scadenza breve, 10 anni) e che vuole assicurarsi i rimborsi. Per Tsipras, «questo atteggiamento può voler dire due cose: o non vogliono un accordo o sono al servizio di interessi specifici in Grecia». Ma il Fmi è il solo creditore a non essere contrario a una ristrutturazione del debito (che nei fatti non lo toccherebbe). Sono gli europei, che hanno crediti, tra istituzioni e bilaterali, intorno ai 300 miliardi, ad essere reticenti sulla ristrutturazione, a questo stadio.
La Grecia ha presentato il suo ultimo sforzo: 8 miliardi di tagli in due anni, pari al 4,4% del Pil, con un rialzo dell’Iva, dei contributi e delle tasse alle imprese. Uno studio della Deutsche Bank prevede un effetto negativo fino a 3 punti del pil. Ma Tsipras spera che questa offerta, sbloccando il negoziato, permetta una ripresa e che arrivino gli investimenti europei promessi dal piano Juncker (35 miliardi), oltre all’accesso al Quantitative easing della Bce. Per il momento, la Grecia vive grazie al tubo di ossigeno concesso dalla Bce, che ancora ieri, per il quinto giorno negli ultimi otto, ha alzato l’Ela, la liquidità di emergenza, ultimo rubinetto rimasto aperto dopo la chiusura di tutti gli altri. Ma i creditori chiedono di più, una correzione dei conti pubblici dell’1,5% quest’anno e del 2,9% il prossimo: il «contro-contro-piano» pretende riduzioni di esenzioni Iva, che dovrebbe venire unificata al 23% (con il 13% solo per cibo, energia, acqua e hotel, ma senza sconto per le isole, e al 6% per prodotti farmaceutici, libri e teatri), l’abolizione dei sussidi, l’aumento delle tasse di proprietà e sul lusso, ancora tagli alla spesa sanitaria e al residuo welfare, una riforma delle pensioni più drastica, una griglia dei salari della pubblica amministrazione fiscalmente neutra, oltre a una nuova legge contro l’evasione e una semplificazione burocratica. I creditori chiedono un avanzo primario in crescita: 1% quest’anno, ma 2% il prossimo e via a seguire, fino al 3,5% nel 2018. «Esigenze assurde e inaccettabili» per Tsipras, visto che la Grecia è in deflazione. Tsipras chiede investimenti per il rilancio economico.
La soluzione, se ci sarà, sarà politica. Ma Renzi ha messo in guardia Atene: «i greci devono sapere che esistono forti pressioni da parte di opinioni pubbliche di alcuni paesi a usare questa finestra per chiudere i conti con la Grecia». E «non si tratta soltanto dei paesi di più antica frequentazione dei tavoli europei», la Germania, «ma anche di quelli entrati dopo». Per Renzi «lo sforzo deve essere reciproco».
Nonostante ciò la Troika non è soddisfatta, soprattutto nei riguardi delle misure sulle imprese (che non necessariamente sono un bene). Si tratta di misure recessive che non interrompono l’austerità. Non ci deve consolare l’alleggerimento del target di surplus primario del bilancio pubblico dai 3 o 4,5% chiesti dalla Troika al’1% nel 2015 (e 2% nel 2016).
La differenza è nell’uccidere subito il condannato o torturarlo ancora più a lungo. Perché di una indegna e inutile tortura stiamo parlando. La soluzione ragionevole c’è, e Varoufakis l’ha riproposta all’Eurogruppo la scorsa settimana: il fondo salva-Stati europeo emetta titoli per acquistare i titoli greci in mano alla Bce (26 miliardi) con il duplice effetto di dilazionare la restituzione di questo debito fra dieci o vent’anni dando respiro al bilancio greco e consentire alla Grecia di entrare nel programma di quantitative easing della Bce (ora quest’ultima non può acquistare titoli greci perché già ne ha troppi in pancia).
Su questo tema l’Europa ha già detto no, che se ne riparlerà più avanti. Che se ne dovrà riparlare è sicuro visto che la confermata austerità impedirà alle finanze greche la restituzione di questi fondi alla Bce e anche di quelli al Fmi (32,5m).
L’unica concessione alla Grecia sono i famosi ultimi 7,2m del piano di salvataggio in scadenza con cui essa potrà ripagare la tranche al Fmi in scadenza questo mese e le rate di luglio e agosto alla Bce. Questo è perverso. Si sa che un nuovo piano di salvataggio sarà necessario quando le prossime rate verranno a scadenza. Ma il salvataggio deve avvenire, nel disegno dei torturatori, centellinando le erogazioni in corrispondenza alle rate in scadenza, tenendo il governo greco col cappio al collo.[/do]
Logica vorrebbe che l’Europa si assumesse subito e ora tutto il debito greco con Bce e anche Fmi — come molti economisti hanno invocato, anche conservatori quale Jacob Kirkegaard del Peterson Institute — nei fatti dilazionandolo per qualche decennio sì da liberare per un po’ la Grecia dal fardello. A quel punto pur vincolata da obiettivi stringenti di bilancio, la Grecia disporrebbe di uno o due miliardi al mese in più (lo dico ad occhio) da spendere per sostenere la domanda interna ed effettuare politiche di sviluppo. La prospettiva cambierebbe radicalmente.
La ragione dell’apparentemente illogico rifiuto europeo va probabilmente trovata nelle elezioni spagnole: far capire a Podemos che non v’è possibilità di europeizzazione dei debiti sovrani e all’elettorato che le forze alternative troveranno un muro.
E non si dica che il cattivo è il Fmi. Nel 2013 questo ha fatto autocritica affermando di essere stato tirato dentro al primo «salvataggio» della Grecia nel 2010 — quello che salvò le banche francesi e tedesche coi soldi anche del contribuente italiano — consapevole già allora che il debito greco andava ristrutturato. Una volta tirato dentro il Fmi, che gestisce quattrini dei contribuenti di tutto il mondo, fa il suo mestiere di pretenderli indietro. Se vuole, l’Europa lo può liquidare.
È questa che ne esce priva di ogni residua credibilità, sperabilmente anche agli occhi di coloro che pervicacemente ancora sperano in un suo mutamento.
Il manifesto, 23 giugno 2015
La costruzione della grande muraglia cinese fu iniziata nel 700 a. C. per concludersi nel 206 a.C. per volere dello zar Qin Shi Huang. Serviva a difendersi dalle incursioni dei popoli confinanti, soprattutto dai mongoli. Ma non risultò molto efficace — anche se misurava 6.350 metri, si trovava sempre un punto valicabile e non coperto. In piccolo fu nei secoli imitata da molte fortezze e castelli sempre per impedire l’entrata ai non desiderati o ai nemici. Dopo la seconda guerra mondiale un muro venne eretto a Berlino per separare le due Germanie. Fu abbattuto con grande giubilo il 9 novembre del 1989 e la Germania tornò ad essere di nuovo una sola.
Oggi l’Europa sta erigendo nuovi muri. L’Europa comunitaria, l’unica che si ritiene degna di portare questo nome. Altri paesi — per lo più quelli formatisi dopo la dissoluzione della Jugoslavia, eccezion fatta per la Slovenia e la Croazia, — non sono più «Europa», sono un continente nuovo ancora senza nome.
Tra poco anche la Grecia, la culla democratica di tutti gli altri, il paese dove la democrazia è nata mentre nei paesi oggi «sviluppati» gli uomini vivevano ancora sugli alberi, non sara più «Europa», con buona pace del Fondo monetario internazionale.
Anche la grande Russia sembra non essere più Europa – il muro verso di lei sono le sanzioni – che danneggiano più noi che i russi – e la Nato che la circonda da tutte le parti approfittando dell’ospitalità dei paesi «vendicatori». (Ricordiamoci il terrore quando la marina sovietica si era avvicinata alle coste di Cuba!).
L’Ungheria, un paese di estrema destra, chiede che si costruisca un muro tra il suo confine e quello della Serbia. L’esempio sono i muri in Texas verso il Messico, quelli a Belfast ovest che dividono i cattolici dai protestanti, di Nicosia, i turchi dai greci e soprattutto il muro che Israele ha eretto a Ramallah per separare i territori palestinesi dai «propri». Muri che servono a difenderci dagli «infetti» che noi abbiamo contaminato. Sono di Belgrado, ma vivo da italiana in Italia da quasi cinquant’anni. Ho militato in un partito che oggi non esiste più (il Pci), sono stata l’interprete anche di Enrico Berlnguer. Ho cercato di diffondere la cultura del mio paese (allora la Jugoslavia) traducendo le opere degli scrittori più importanti. Avendo parenti in tutte le regioni delle ex repubbliche, sono etnicamente «sporca» come si direbbe oggi. Ma sono contenta, il mio mondo è il Mondo anche se le radici contano.
I grandi paesi come la Francia e l’Inghilterra (per non parlare degli Stati Uniti e del disastro provocato negli anni recenti in Iraq, Libia ecc.) non vogliono la nuova ondata degli immigrati dopo aver sfruttato fino all’osso le colonie. Al confine di Ventimiglia arrivano centinaia di stranieri al giorno: sono sbarcati con le loro misere cose in Italia (purtroppo la sua geografia lo permette) ma vogliono andare oltre; spesso hanno già i parenti in altri paesi europei con i quali si vorrebbero congiungere.
Nel periodo dei bombardamenti «umanitari» della Serbia per raggiungere la famiglia che viveva a Belgrado, si andava a Budapest e poi con un pullman sgangherato si proseguiva per la capitale. Al confine i finanzieri non erano proprio gentili, spesso si doveva dar loro qualcosa per essere lasciati in pace. Dicevano: «Avete vissuto bene sotto Tito, ora siete voi ad avere bisogno!».
Asotthalom è una cittadina ungherese al confine con la Serbia. È qui soprattutto che si assiepano immigrati da diversi paesi africani e asiatici in fuga dalle guerre e dalla miseria. Qualche contadino ungherese porge loro un bicchier d’acqua e un po’ di pane. Sono esausti sotto il sole di giugno dopo aver fatto migliaia di chilometri a piedi e negli scafi strapagati dove hanno visto morire i propri compagni. Cimitero azzurro è il poema del serbo Milutin Bojic dedicato ai caduti serbi nel Mediterraneo nella prima guerra mondiale. Il sindaco dice che la cittadina ha 4.000 abitanti e che da qui hanno transitato 40 mila illegali. Arrivano in Serbia dall’Albania e dal Kosovo e poi capiscono che non c’è molto da aspettarsi da un paese già povero. E ora sono qui a cercare di andare oltre, oltre e ancora oltre. Spesso non sapendo nemmeno dove, per riprendere anche un briciolo della vita che hanno perduto.
Sono stati abbattuti i muri dei campi di concentramento e internamento, ci siamo tutti sentiti più uomini. Ma i nuovi muri ci riportano indietro. Capisco anche la gente che ha paura dell’«altro»: rubano, puzzano, sono violenti. Ma dopo giorni e settimane senza mangiare, noi saremmo diversi? Ora che l’unico di sinistra sembra essere papa Francesco, che ci richiama a scoprire un po’ di umanità in noi, come convincere i grandi ad aiutare i «piccoli» che spesso non considerano nemmeno umani? Una scrittrice croata molto polemica (Vedrana Rudan) profetizza che un giorno guardaremo i bambini americani star male e non ci dispiacerà dopo aver visto i volti dei bambini palestinesi, siriani, ivoriani, nigeriani… Certo, un mondo così ingiusto dovrà esplodere. E allora si dovrà ricominciare. Putroppo non sarò in grado di dare il mio contributo.
* scrittrice e traduttrice, ha tradotto in italiano tutte le opere di Ivo Andric
«Il filosofo tedesco: i politici non possono nascondersi dietro le lacune dovute a chiare incapacità istituzionali». Ancora una voce dal mondo della saggezza a favore delle ragioni di Alexis Tsipras.
LaRepubblica, 23 giugno 2015
La recente sentenza della Corte di Giustizia europea getta una luce impietosa su un errore di fondo della costruzione europea: quello di aver costituito un’unione monetaria senza un’unione politica. Tutti i cittadini dovrebbero essere grati a Mario Draghi, che nell’estate 2012 scongiurò con un’unica frase le conseguenze disastrose dell’incombente collasso della valuta europea. Aveva tolto la patata bollente dalle mani dell’Eurogruppo annunciando la disponibilità all’acquisto di titoli di stato senza limiti quantitativi in caso di necessità: un salto in avanti cui l’aveva costretto l’inerzia dei capi di governo, paralizzati dallo shock e incapaci di agire nell’interesse comune dell’Europa, aggrappati com’erano ai loro interessi nazionali. I mercati finanziari reagirono positivamente a quell’unica frase, benché il capo della Bce avesse simulato una sovranità fiscale che non possedeva, dato che oggi come ieri, sono le banche centrali degli Stati membri a dover garantire i crediti in ultima istanza.
GLI SPAZI DELLA BCE
Di fatto, la Corte di Giustizia europea non poteva confermare questa competenza, in contraddizione col testo dei Trattati europei; ma dalla sua decisione consegue la possibilità per la Banca centrale europea di disporre – tranne poche limitazioni - dei margini di manovra di un erogatore di crediti di ultima istanza. La Corte di Giustizia ha dunque ratificato quell’azione di salvataggio, benché non del tutto conforme alla Costituzione. Verrebbe voglia di dire che il diritto europeo dev’essere in qualche modo piegato, anche se non proprio forzato, dai suoi stessi custodi, per appianare di volta in volta le conseguenze negative del difetto strutturale dell’unione monetaria. L’unione monetaria resterà instabile finché non sarà integrata da un’unione bancaria, economica e fiscale. In altri termini, se non vogliamo che la democrazia sia palesemente ridotta a puro elemento decorativo, dobbiamo arrivare ad un’unione politica.
Fin dal maggio 2010 la cancelliera tedesca ha anteposto gli interessi degli investitori al risanamento dell’economia greca. Il risultato è che siamo di nuovo nel mezzo di una crisi che pone in luce, in tutta la sua nuda realtà, un altro deficit istituzionale. L’esito elettorale greco è quello di una nazione la cui netta maggioranza insorge contro l’opprimente e avvilente miseria sociale imposta al paese dall’austerità. In quel voto non c’è nulla da interpretare: la popolazione rifiuta la prosecuzione di una politica di cui subisce il fallimento sulla propria pelle. Sorretto da questa legittimazione democratica, il governo greco sta tentando di ottenere un cambio di politica nell’Eurozona; ma a Bruxelles si scontra coi rappresentanti di altri 18 paesi che giustificano il loro rifiuto adducendo con freddezza il proprio mandato democratico.
Il velo su questo deficit istituzionale non è ancora del tutto strappato. Le elezioni greche hanno gettato sabbia negli ingranaggi di Bruxelles, dato che in questo caso gli stessi cittadini hanno deciso su un’alternativa di politica europea subita dolorosamente sulla propria pelle. Altrove i rappresentanti dei governi prendono le decisioni in separata sede, a livelli tecnocratici, al riparo dell’opinione pubblica, tenuta a bada con inquietanti diversivi. Le trattative per la ricerca di un compromesso a Bruxelles sono in stallo, soprattutto perché da entrambi i lati si tende a incolpare gli interlocutori del mancato esito nei negoziati, piuttosto che imputarlo ai difetti strutturali delle istituzioni e delle procedure. Certo, nel caso di specie siamo di fronte all’attaccamento cieco ostinato a una politica di austerità giudicata negativamente dalla maggior parte degli studiosi a livello internazionale. Ma il conflitto di fondo è un altro: mentre una delle parti chiede un cambiamento di rotta, quella contrapposta rifiuta ostinatamente persino l’apertura di una trattativa a livello politico: ed è qui che si rivela una più profonda asimmetria.
SCELTE SCANDALOSE
Occorre avere ben chiaro il carattere scandaloso di un tale rifiuto: se il compromesso fallisce, non è per qualche miliardo in più o in meno, e neppure per la mancata accettazione di una qualche condizione, ma unicamente per via della richiesta greca di dare la possibilità di un nuovo inizio all’economia della Grecia, e alla sua popolazione sfruttata dalle élite corrotte, attraverso un taglio del debito o una misura analoga, quale ad esempio una moratoria collegata alla crescita. I creditori insistono invece sul riconoscimento di una montagna di debiti che l’economia greca non riuscirà mai a smaltire. Si noti che presto o tardi un taglio del debito sarà inevitabile. Eppure, contro ogni buon senso, i creditori non cessano di esigere il riconoscimento formale di un onere debitorio realmente insostenibile. Fino a poco tempo fa ribadivano anzi una pretesa surreale: quella di un avanzo primario superiore al 4%, ridotto poi a un 1% comunque non realistico. Così è fallito finora ogni tentativo di arrivare un accordo da cui dipende il futuro dell’Ue, soltanto in nome della pretesa dei creditori di mantenere in piedi una finzione.
Per parte mia, non sono in grado di giudicare se i procedimenti tattici del governo greco siano fondati su una strategia ragionata, o in qualche misura determinati da condizionamenti politici, incompetenza o inesperienza dei suoi esponenti. Ma le carenze del governo greco non tolgono nulla allo scandalo dell’atteggiamento dei politici di Bruxelles e Berlino, che rifiutano di incontrare i loro colleghi di Atene in quanto politici. Anche se si presentano come tali, sono presi in considerazione esclusivamente sul piano economico, nel loro ruolo di creditori. Questa trasformazione in zombie ha il significato di conferire alle annose insolvenze di uno Stato la parvenza di una questione di diritto privato, da deferire a un tribunale. In tal modo risulta anche più facile negare qualsiasi responsabilità politica.
L’ADDIO DELLA TROIKA
La nostra stampa ironizza sul cambio di nome della troika, che effettivamente assomiglia a un’operazione di magia. Ma è anche espressione del desiderio legittimo di far uscire allo scoperto, dietro la maschera dei finanziatori, il volto dei politici. Perché è solo in quanto tali che i responsabili possono essere chiamati a rispondere di un fallimento che porta alla distruzione di massa delle opportunità di vita, alla disoccupazione, alle malattie, alla miseria sociale, alla disperazione.
Per le sue opinabili misure di salvataggio Angela Merkel ha coinvolto fin dall’inizio l’Fmi. Questa dissoluzione della politica nel conformismo di mercato spiega tra l’altro l’arroganza con cui i rappresentanti del governo federale tedesco – persone moralmente ineccepibili, senza eccezione alcuna - rifiutano di ammettere la propria corresponsabilità politica per le devastanti conseguenze sociali che pure hanno messo in conto nell’attuazione del programma neoliberista. Lo scandalo nello scandalo è l’ingenerosità con cui il governo tedesco interpreta il proprio ruolo di guida.
IL RUOLO TEDESCO
La Germania deve lo slancio della sua ascesa economica, di cui si alimenta tuttora, alla saggezza delle nazioni creditrici, che nell’accordo di Londra del 1954 le condonarono la metà circa dei suoi debiti.Ma non si tratta qui di scrupoli moralistici, bensì di un punto politico essenziale: le élite della politica europea non possono più nascondersi ai loro elettori, eludendo le decisioni da prendere a fronte dei problemi creati dalle lacune politiche dell’unità monetaria. Devono essere i cittadini, e non i banchieri, a dire l’ultima parola sulle questioni essenziali per il destino dell’Europa. E davanti all’intorpidimento post-democratico di un’opinione pubblica tenuta ove possibile lontano dai conflitti, ovviamente anche la stampa dovrà fare la sua parte. I giornalisti non possono continuare a inseguire come un gregge quegli arieti della classe politici che li già li avevano ridotti a fare da giardinieri.
La follia, accettata da (quasi) tutti è che si accetti come un fatto normale che in questa Europa le decisioni che ammazzano i popoli e le loro volontà democraticamente espresse siano affidate a una Triade nessuno dei quali membri siano stati eletti (e due non siano neppure europei).
La Repubblica, 22 giugno 2015
Il meeting di giovedì scorso dell’Eurogruppo è scivolato via e passerà alla storia come un’occasione perduta di dar vita a un accordo tra la Grecia e i suoi creditori, per altro già tardivo. Forse, l’osservazione più significativa proferita da un ministro delle Finanze tra i partecipanti è stata quella dell’irlandese Micheal Noonan, che ha protestato perché i ministri delle Finanze non erano stati messi al corrente della proposta avanzata dalle istituzioni al mio governo. La zona euro si muove in modo misterioso. Decisioni di importanza preminente sono approvate senza riflettere da ministri delle Finanze che restano all’oscuro dei dettagli, mentre i funzionari non eletti di istituzioni potentissime sono bloccati in negoziati con una parte sola, un governo isolato e in difficoltà.
Come si sta distruggendo la democrazia in Italia. in Francia e in Europa, senza che la "libera stampa" taccia quando si dovrebbe svelare e denunciare (e protesti solo a cose fatte).
Sbilanciamoci.info, 21 giugno 2015
Non è neppure sfiorato dal sospetto che le minoranze non sono una disgrazia ma una condizione della democrazia; forse non ha mai saputo che della loro possibilità di muoversi in parlamento il garante è lui in quanto leader della maggioranza, convinto com’è che governare sia decidere da solo e per tutti. Due giorni dopo ha messo in atto le sue vendette rinviando una riforma della scuola e le attesissime centomila assunzioni di insegnanti che essa comportava dopo anni e anni di immobilità.
In verità gli attuali governi si prendono più di una libertà con i principi di quella democrazia rappresentativa che per loro sarebbe il santo dei santi, metro della misura della maturità e convenienza del sistema politico. Francia e Italia li stanno violando tutte e due sulla scuola, dove le politiche governative hanno incontrato resistenze inattese. In Italia, Renzi non è riuscito a far digerire agli insegnanti la sua “buona scuola”; quasi nelle stesse settimane in Francia la giovane ministra dell'istruzione Najat Vallaud-Belkacem (che ha sostituito il precedente ministro Benoît Hamon, messo da Hollande nella condizione di doversi dimettere perché troppo di sinistra) ha rapidamente deciso assieme al premier di ricorrere al fatale articolo 39-4, marchingegno infilato da De Gaulle nella costituzione del 1958, grazie al quale il governo ha diritto una volta per sessione parlamentare di bypassare il parlamento sulla misura che più gli preme; stavolta era la riforma del Collège, simile alla nostra media. Sembra che a suo tempo Michel Rocard vi sia ricorso una trentina di volte. Per chiudere il becco ai deputati il nostro governo ha finora usato il voto di fiducia, ma qualcuno deve aver suggerito a Renzi, Padoan, Poletti e compagnia di imitare i francesi introducendo il via libera anche da noi. Così ce lo troveremo nella prossima legge costituzionale nella distrazione (o accettazione) di tutto il Pd. Lo aveva già adocchiato nel 1935 Benito Mussolini. Ma soltanto i vecchi rottamandi e qualche gufo come me ne sono rimasti strabiliati, sia per l'Italia sia per la Francia, madre – a sentirla – di tutte le repubbliche.
Così non ci si deve più meravigliare se un centinaio di migranti abbia dormito alcune notti sugli scogli adiacenti al posto di frontiera vicino a Ventimiglia perché tirato giù a forza dalla polizia dai vagoni della linea che, percorsa la Costa azzurra, raggiunge Parigi e il sospirato nord e di là l'Olanda, magari l'Inghilterra, invece che la più ospitale ma linguisticamente incomprensibile Svezia. Quel gruppetto di disgraziati, avvolti dal freddo e dall'umidità oltre che indolenziti dalla dura roccia, è l'immagine parlante di un'Europa spietata, anzi della Commissione spietata che la governa perché gli abitanti francesi e italiani, al di qua e al di là del confine, lo varcano per dare loro una coperta calda.
La gente è meglio dei governi del nostro continente senza vergogna che, se potesse, metterebbe sugli scogli, e non gli mancano, l'intera Grecia, colpevole di avere speso senza pagare le tasse, peraltro non sotto l'egida dei detestati Tsipras e Varoufakis, ma dei precedenti Papandreu e Samaras. Nessuno quanto la Commissione era in grado di conoscere per filo e per segno l'allegra finanzia ellenica, ma a quei governi non aveva rimproverato né segnalato niente.
Della Commissione europea la perla è la libera stampa che si sveglia ogni tanto dal suo sonno scoprendo, a cose fatte, qualche orrore del Jobs Act tranquillamente digerito a suo tempo come la libertà data all'impresa di spiare con ogni possibile mezzo i suoi dipendenti, vita privata e opinione politica. Anche i sindacati più benigni con il padronato stanno protestando indignati. E non si può neanche dire meglio tardi che mai, perché la delega imposta è passata a suo tempo senza che battessero ciglio e ora disfare il già legiferato non sarà facile. Renzi, Poletti e le loro ministre dalle chiome lunghe come l'abitudine di non aprire il becco sembrano aver approvato alcune misure del premier che sta confezionando un paese su misura della destra, tale che nemmeno Berlusconi se l’era sognato.
«L’Unione europea non ha più alibi; un diritto di asilo europeo sarebbe un passo necessario, e un segno di voler invertire questo elenfantiaco attendismo, a tutti gli effetti un invito ai singoli Paesi a fare da soli, magari alzando muri».
La Repubblica, 22 giugno 2015
Poco europeista, e indifferente alle critiche rivolte dai partner europei alla riforma autoritaria della Costituzione varata nel 2013, il primo ministro ungherese Viktor Orbán è diventato all’improvviso il difensore delle frontiere europee, deciso a costruire una barriera fisica che sigilli l’Europa sigillando l’Ungheria. E ha dato l’annuncio proprio mentre Papa Francesco lanciava il suo monito a quelle nazioni che “chiudono le porte” a coloro che cercano non tanto una vita migliore, ma la vita pura e semplice. Criticando la decisione ungherese, il rappresentante dell’Agenzia Onu per i Rifugiati, Kitty McKinsey, ha ricordato che «quello di chiedere asilo è un diritto inalienabile. Erigere una barriera significa mettere ulteriori ostacoli a questo diritto ». I diritti inalienabili sono però impotenti, senza Stati ed eserciti che li impongano e li difendano. E la buona volontà e lo spirito umanitario si fanno moneta rara in questi tempi di crisi economica e con un’Europa che non ha autorità ed è destituita di autorevolezza. A premere verso l’Europa ci sono in primo luogo rifugiati, persone che sono sradicate dai loro Paesi a causa di guerre e persecuzioni, e della fame e assenza totale di risorse che esse provocano. Non emigrano ma fuggono; non cercano una vita più decente ma cercano di sfuggire alla morte e alla tortura. E l’Europa si trova all’improvviso viva; anzi, la sua esistenza si intensifica mano a mano che questi disperati premono alle sue frontiere.
Strano destino quello dell’Europa: un’entità che non è politica (e non sembra volerlo essere) e che però scopre di poter avere frontiere arcigne e ben protette, proprio come se fosse uno stato fortemente nazionalista. Un paradosso stridente di cui l’Europa né carne né pesce si rende responsabile, poiché questo non-essere-politica la rende un facile espediente nelle mani di chi si trova per caso ad essere un guardiano delle sue frontiere. Il ministro ungherese degli affari esteri ha detto che il suo governo ha ordinato che comincino subito i lavori per la costruzione di una barriera lunga 175 chilometri. La decisione ha generato sorpresa e indignazione, soprattutto tra i serbi, anche se, in effetti, non sono loro i veri destinatari di questo nuovo muro, ma i migranti dall’Africa e dal Medio oriente. La Serbia si adonta ma per una ragione che non è più nobile: perché si sente resa responsabile della situazione che ha provocato queste ondate di migranti, mentre ad essere responsabili di questa crisi, si legge in alcuni commenti, sono gli Stati Uniti, o per non essere intervenuti (come in Siria) o per essere intervenuti (come in Libia). L’Europa e gli Stati europei come vittime, dunque.
E intanto, ci si dimentica che l’Europa, nata per smantellare le barriere al suo interno ed essere un territorio di libera circolazione per cittadini di varie nazionalità, oggi diventa un comodo paravento per nuovi e rinati nazionalismi. Ancora in questi giorni, i ministri degli esteri dei Paesi europei non sono riusciti a giungere alla decisione di redistribuire tra i vari Paesi membri le diverse migliaia di siriani ed eritrei arrivati sul vecchio continente.
A fronte di questi dati e dei soldi spesi a creare barriere stanno migliaia di rifugiati e richiedenti asilo che non hanno di che ripararsi e vivere. L’Unione europea non ha più alibi; un diritto di asilo europeo sarebbe un passo necessario, e un segno di voler invertire questo elenfantiaco attendismo, a tutti gli effetti un invito ai singoli Paesi a fare da soli, magari alzando muri.
Le cinque bugie dei media d'osservanza renziana a proposito del mostro "la buona scuola" partorito dal nefasto comandante ancora insediato al vertice dei Palazzi. Dal
blog di Walter Tocci, 22 giugno 2015
1. Assunzioni – E’ l’argomento più devastato dalla disinformazione. Intanto i posti disponibili non sono 100 mila ma circa 150 mila, come d’altronde ammise lo stesso governo nel documento iniziale della buona scuola. Ci sarebbero quindi la capienza e i soldi per assorbire già quest’anno quasi tutte le graduatorie a esaurimento, gli idonei e una parte degli abilitati, completando poi l’operazione con il piano poliennale.
Si poteva dare una risposta ai precari prima della “buona scuola”, come si fece guarda caso nei confronti degli imprenditori con il decreto Poletti approvato prima del Jobs Act. I fondi stanziati nella legge di stabilità consentivano di approvare già a gennaio una legge di poche righe per chiamare i nuovi insegnanti. Anche senza la legge bisognava comunque coprire 44 mila posti, anzi sarebbe un’omissione di atti d’ufficio non assumere nessuno. Le procedure dovevano essere attivate con largo anticipo, e invece si faranno le nomine in affanno ad agosto. Il governo rischia il caos all’inizio dell’anno scolastico per utilizzare i centomila come arma di pressione nell’approvazione di una legge sbagliata.
2. Autonomia. Si continua a ripetere che per fare le chiamate occorre il nuovo modello organizzativo della buona scuola. E’ falso. Già sono in vigore tutte le norme sull’organico dell’autonomia, sul potenziamento, sulle reti di scuole. Furono ben scritte nella legge n. 35 del 2012 sotto la guida di un sottosegretario competente come Marco Rossi Doria:
“Allo scopo di consolidare e sviluppare l'autonomia delle istituzioni scolastiche, .. secondo criteri di flessibilità e valorizzando la responsabilità e la professionalità del personale della scuola, con decreto del Ministro.. sono adottate.. linee guida per conseguire le seguenti finalità: a) potenziamento dell'autonomia delle istituzioni scolastiche.. ; b) definizione, per ciascuna istituzione scolastica, di un organico dell'autonomia, funzionale all'ordinaria attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e ausiliaria, alle esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e sostegno ai diversamente abili e di programmazione dei fabbisogni di personale scolastico; c) costituzione di reti territoriali tra istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane, strumentali e finanziarie; d) definizione di un organico di rete per le finalità di cui alla lettera c) nonché per l'integrazione degli alunni diversamente abili, la prevenzione dell'abbandono e il contrasto dell'insuccesso scolastico e formativo, specie per le aree di massima corrispondenza tra povertà e dispersione scolastica”.
Il governo doveva quindi solo adottare le linee guida e procedere alle assunzioni. Ma era forse troppo semplice, ha preferito riscrivere le stesse norme in un confuso testo di cento pagine pur di poter dire che si faceva la riforma della scuola. Comunicare è sempre più facile che governare.
3. Alternanza scuola lavoro – Anche qui si tratta di una novità già vista. Il Parlamento aveva legiferato in materia (n. 128 del 2013), rinviando l’attuazione a un regolamento, ma il governo invece di scriverlo ricomincia da capo chiedendo una delega a scrivere il regolamento. Fa più notizia approvare una legge che attuarla. Bastava finanziare la norma esistente e occuparsi invece di come si innalza la didattica del saper fare. L’alternanza non va confusa con l’apprendistato, non è neppure un pendolo tra scuola e lavoro, ma una connessione cognitiva tra due diverse esperienze formative.
4. Più soldi agli insegnanti – I soldi promessi con la Card (spese per la formazione e la cultura) e l’incentivo individuale non compensano i tagli subiti in busta per i mancati rinnovi contrattuali e il blocco degli scatti. Bastava restituire il maltolto e gli insegnanti avrebbero speso gli adeguamenti salariali a loro piacimento. Non hanno bisogno dei consigli del governo per acquistare un libro o andare al cinema.
Sull’incentivo si sono dette tante sciocchezze. Non c’entra nulla con la valutazione, come spiegano bene gli esperti, si ridurrà a un compenso per le persone che coadiuveranno il preside nelle funzioni didattiche e gestionali, come previsto al comma 6 dell’articolo 9 del testo Camera. Anche questo strumento è già disponibile nella normativa vigente, con la retribuzione di incarichi e progetti finanziati dal Fondo MOF che però ha subito un taglio di circa il 50%. Bastava rimpinguarlo almeno con i 200 milioni previsti per l’incentivo e il governo si sarebbe risparmiato il conflitto con il mondo della scuola.
5. Cultura umanista(ica) – L’attenzione si è rivolta all’errore grammaticale dello speech presidenziale, ma è più grave il contenuto. Si complica la questione didattica invece di migliorarla. Sono ripristinate alcune discipline che erano state cancellate dalla Gelmini, dall’arte, alla musica, non la geografia chissà perché. È una meritoria intenzione ma il metodo è vecchio. Si aggiungono singole discipline che inevitabilmente vanno a restringere il tempo disponibile delle altre, senza una rielaborazione della metodologia. Si aggrava il difetto dell’attuale didattica, già troppo estensiva e poco intensiva. Il mondo nuovo richiede precisamente il contrario.
Questi cinque punti seguono le schema utilizzato dal Presidente Renzi per riassumere la “buona scuola”. Come si vede sono tutte vecchie novità, che riprendono le norme già in vigore e in molti casi le complicano inutilmente. L’unica vera novità è il potere del preside di nominare gli insegnanti. Si apre una breccia al clientelismo, all’aumento delle diseguaglianze, alle scuole di tendenza ideologica proprio mentre premono alle porte i fondamentalismi, come si è visto nella manifestazione dei cattolici integralisti. Soprattutto, la chiamata diretta conferisce al preside il potere illegittimo di derogare le graduatorie di merito certificate dallo Stato nei concorsi pubblici. L’insegnante perderebbe la titolarità della cattedra e quindi la libertà di insegnamento, come il lavoratore perde la tutele con il Jobs Act.
L’unica novità è l’applicazione ossessiva di uno solo al comando anche nel mondo della scuola. Nessuno dei veri problemi viene affrontato, né la riforma dei cicli, né l’abbandono degli studenti, né il neoanalfabetismo degli adulti. I centomila sono utilizzati come una clava per imporre scelte inutili o dannose. Uno, nessuno e centomila, è il titolo di un dramma che racconta lo smarrimento del protagonista.
Le immagini dei profughi bloccati a Ventimiglia hanno scioccato l’opinione pubblica da una parte e dall’altra delle Alpi. Ma tra quelle immagini c’è una foto che va ben oltre l’indignazione suscitata dal blocco. In essa si vedono dei migranti avvolti in coperte isotermiche che lottano contro il freddo sugli scogli in riva al mare. È stata scattata il 15 giugno. Se è assurta a icona probabilmente è perché quei rifugiati avvolti in coperte non hanno più forma umana, sono fantasmi, spettri, marziani venuti da un altro pianeta. In ogni caso non sono del tutto umani, della loro antica condizione conservano solo un’impronta sulla pellicola di poliestere che funge loro da involucro, sono dei mutanti, dei white walkers, dei morti viventi… Sono lo spettro della nostra società. L’immagine ci invita ad analizzare gli avvenimenti di questi ultimi giorni non solo in termini giuridici, politici o morali, ma come un teatro, il teatro della sovranità perduta.
Afferma il filosofo, intervistato da Anais Ginori:«Penso in particolare ad afgani, iracheni, siriani, etiopi, libici, maliani. Noi occidentali abbiamo, almeno in parte, la responsabilità di queste persone: se non possono restare nel loro Paese è anche per colpa nostra».
La Repubblica, 21 giugno 2015 (m.p.r.)
Parigi. «Le scene di respingimento degli stranieri al confine franco-italiano sono insopportabili, vergognose». Il filosofo bulgaro Tzvetan Todorov è indignato dall’atteggiamento del governo socialista che ha blindato le frontiere, esattamente come fece quattro anni fa l’esecutivo della destra di Nicolas Sarkozy. Le maggioranze politiche cambiano ma la paura ancestrale dei “barbari”, che Todorov ha raccontato nei suoi saggi, riaffiora comunque. «Siamo responsabili in parte di questi movimenti migratori », spiega ricordando come il rigetto dello straniero non sia nuovo per i francesi. Centocinquant’anni fa, i “topi” da cacciare erano gli italiani che varcavano il confine per sfuggire alla povertà. «La Francia ha sempre avuto difficoltà ad accettare il passaggio da grande a media potenza, sperimentando nella sua Storia regolari picchi di febbre nazionalista».
I rapporti tra Grecia ed Europa sono arrivati a una stretta decisiva. Tra ora e lunedì pomeriggio, quando si riunisce a sorpresa il Consiglio europeo, possono succedere quattro cose.
La prima – quella auspicabile — è un accordo sulla base della proposta del leader greco Alexis Tsipras: fine dell’austerità, sblocco degli aiuti europei previsti, ristrutturazione radicale del debito. Ma perfino il più morbido, Jean-Claude Juncker, ha detto ieri «non capisco Tsipras. Non mi è possibile evitare ad ogni costo il fallimento dei colloqui». Non si prepara un accordo dicendo che c’è un dialogo tra sordi.
La seconda possibilità è che i colloqui di questo fine settimana portino a un compromesso intermedio: fondi ponte europei per il rimborso degli 1,6 miliardi di euro da restituire al Fondo monetario a fine giugno. E nel frattempo, ieri sono arrivati 2 miliardi del fondo di liquidità di emergenza fornito da Mario Draghi alle banche di Atene. Dopo che molti miliardi di capitali sono fuggiti dal paese.
La terza possibilità è la più probabile. Una rottura radicale tra Atene e Bruxelles. Il primo messaggio l’ha dato Mario Draghi lunedi scorso (ma l’aveva già detto il 18 aprile) «se la crisi dovesse precipitare, entreremmo in acque sconosciute». Pierre Moscovici, commissario europeo all’economia, l’ha confermato venerdi: «Siamo alla fine dei giochi. È ora di agire e decidersi. Non c’è molto tempo per evitare il peggio». Ancora più esplicito Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo: la Grecia deve accettare la nostra offerta, «o avviarsi verso il default». Ma la proposta europea è quella di una ritorno al passato che Syriza non potrà mai accettare. Così Alexis Tsipras, ieri a San Pietroburgo con Putin, ha replicato tranquillo: «Siamo al centro di una tempesta, ma non ci spaventa il mare aperto, siamo pronti a solcare nuovi mari».
Quale forma potrà prendere la rottura? E con quali tempi? Ci sono tre «strappi» possibili. Il più morbido è una dichiarazione d’insolvenza senza uscire dall’euro. Atene annuncia che non ripagherà il debito pubblico detenuto per l’80% da fondi europei d’emergenza, paesi membri, Fmi, Bce, né pagherà gli interessi dovuti. Si toglie in questo modo la pietra che ha al collo, la spesa pubblica greca non viene intascata dalla finanza, l’economia riparte.
Se la Bce fosse d’accordo, continuerebbe ad alimentare la liquidità delle banche greche, e troverebbe il modo di gestire senza troppi danni i 322 miliardi di euro non ripagati. Il grande vantaggio sarebbe evitare il contagio: nessuna speculazione sulla fine dell’euro. Ma sarebbe un precedente pericoloso di vittoria di un paese indebitato e un trionfo politico per Syriza che Berlino difficilmente potrebbe permettere. L’alternativa opposta – un’uscita dall’euro senza insolvenza – darebbe ad Atene solo svantaggi: svalutazione e un debito sempre più impossibile da restituire.
Resta l’uscita dall’euro accompagnata dal default sul debito pubblico. L’Eurozona e Berlino si liberano del paese membro indisciplinato, Atene riprende la sua autonomia di politica economica con una dracma che si svaluta immediatamente (magari del 40%), il debito che non si paga, i mercati finanziari che dichiarano guerra alla Grecia, l’economia che crolla per poi riprendersi. Berlino tira un sospiro di sollievo, ma a Roma, Madrid e Lisbona e nei piccoli paesi dell’est europeo inizia l’incubo: spread alle stelle, scommesse su chi sarà il prossimo a uscire, assalto della speculazione.
A meno che l’Eurozona garantisca a tutti i soci «buoni» dell’euro le garanzie che avrebbero potuto salvare la Grecia e l’Europa fin dall’inizio: mutualizzazione del debito, azzeramento dello spread con gli interventi della Bce, blocco della speculazione della finanza.
Come si realizza questa rottura? Prima un periodo di attesa e le rassicurazioni sulla stabilità dell’euro e dell’Europa, poi si aspetta la chiusura di borse e banche il venerdi sera, il sabato e domenica si bloccano i movimenti di capitale e – se torna la dracma – si forniscono le banche delle nuove banconote fresche di stampa in arrivo da Mosca o Pechino.
Nel week end si annuncia la rottura, a mercati chiusi, e il lunedi il Consiglio europeo sancisce il cambiamento, spergiurando sull’unità dell’Europa e dell’euro. È quello che è successo nei giorni scorsi e che potrebbe succedere proprio in queste ore. Oppure tutto questo si prepara per il prossimo fine settimana, alla scadenza del rimborso per il Fondo monetario. O magari nel mezzo dell’estate, come la fine di Bretton Woods il 15 agosto 1971.
Un interrogativo decisivo è se l’eventuale rottura avviene in forma concordata — una separazione consensuale — o al culmine di uno scontro politico. Nel primo caso l’Europa potrebbe sopravvivere e lo choc in una Grecia impoverita, ma non più oppressa, potrebbe essere superato in qualche mese. Nel secondo caso potrebbe succedere qualunque cosa, un avvitamento caotico che farebbe a pezzi l’Europa insieme alla Grecia.
Lo scenario più drammatico sarebbe proprio questo: nessuna proposta al Consiglio europeo di lunedì, nessun «piano B», nessun accordo nemmeno su come separarsi, l’Europa che si accanisce contro la culla in cui è nata, una crisi verticale dell’economia greca, una strategia della tensione contro il governo di Syriza, un contagio che da debito si estende al collasso politico dell’Europa. C’è qualche margine per evitare questo peggio. E per sostenere fino in fondo le ragioni di Alexis Tsipras e della Grecia, con l’euro o con la dracma. Che sono le ragioni della democrazia, ad Atene come in Europa.
«Per tenere insieme i suoi valori, uguaglianza e fraternità, la socialdemocrazia ha sempre avuto bisogno di molti soldi, di crescita economica e forte tassazione, per pagare un sistema di welfare che è diventato il vanto del Vecchio Continente, ma oggi ne è anche la soma».
Corriere della Sera, 20 giugno 2015, con postilla
Come i dinosauri, anche il gigante della socialdemocrazia rischia l’estinzione? Le dimissioni presentate ieri alla regina di Danimarca da Helle Thorning-Schmidt, la più glamour dei leader della sinistra europea (Renzi escluso), sembrano l’ultimo segno di un destino crudele, e forse irreversibile, che si sta abbattendo sulla storia centenaria del riformismo. La vicenda danese è altamente simbolica. La giovane premier, sposata col figlio di Neil Kinnock, storico capo del laburismo britannico, non esce infatti di scena per una delle solite oscillazioni del pendolo elettorale; ma è stata travolta dal boom di quella destra anti-immigrati che dal circolo polare in Norvegia fino alla linea gotica in Italia sta rubando voti alla sinistra in nome di un «sacro egoismo» nazionale.
postilla
Il vicedirettore del Corriere della sera ha evidentemente dimenticato le sue letturegiovanili. Altrimenti ricorderebbe cosa accadde quando i “padroni delvapore” furono costretti a ridurre i loro profitti riducendo così lo sfruttamento in patria ed “esportarono lecontraddizioni” del sistema capitalistico, allargando l’area dello sfruttamentoad altri popoli e ad altri gruppi sociali. E’ certamente noto anche a lui che questomodo del sistema capitalistico di “salvarsi” ha prodotto, saccheggi, attizzato fuochi e disperazioni in ogni partedel globo, generato ribellioni e guerre. Sa certamente che guerresono utili al sistema capitalistico perché le spese militari contribuiscono acreare una domanda di merci che tiene in piedi quel sistema. Ci rendiamo contoche via Solferino è lontana dal Vaticano, e che nelle stanze del Corsera èdifficile formulare l’idea che ridurre drasticamante le spese militari, e lagigantesca lievitazione delle rendite finanziarie, potrebbe contribuire a garantirela sopravvivenza del welfare dove c’è, e magari a estenderlo dove ancora nonc’è. Ce ne dispiace un po', perchè Poilito è un bravo giornalista e il Corriere un giornale spesso interessante.
«L’appello di Ian McEwan ai giovani americani “Solo il sapere umanistico ci rende sensibili ai diritti”».
La Repubblica, 20 giugno 2015 (m.p.r.)
Vorrei condividere con voi qualche riflessione sulla libertà di parola (e libertà di parola qui include la scrittura e la lettura, l’ascolto e il pensiero): la libertà di parola, la linfa vitale dell’esistenza, la condizione essenziale dell’educazione umanistica che avete appena ricevuto. Partiamo da una nota positiva: con ogni probabilità oggi sulla terra esiste più libertà di parola, più libertà di pensiero, più libertà di ricerca che in qualsiasi altro momento della storia conosciuta ( anche prendendo in considerazione l’età dell’oro dei cosiddetti filosofi “pagani”). Ma la libertà di parola è stata, è e sarà sempre sotto attacco: da destra, da sinistra, dal centro. L’attacco verrà da sotto i vostri piedi, dagli estremisti religiosi come da ideologie non religiose.
«È caduto ogni divieto sul controllo dei dipendenti. Pc, posta elettronica, telefonate non hanno più segreti per gli imprenditori. Gli unici limiti arrivano dal Garante della privacy: non si può abusare dei dati».
La Repubblica, 19 giugno 2015 (m.p.r.)
Siamo tutti lavoratori sorvegliati. Il Grande fratello c’era già prima che il governo approvasse l’ultimo decreto sul Jobs act. I “padroni della rete” sanno tutto di noi: conoscono i nostri gusti alimentari, i libri che leggiamo, la musica che ascoltiamo, i vestiti che indossiamo, i film che vediamo, probabilmente pure il partito che votiamo o che abbiamo intenzione di votare. Anche il “nostro padrone” sa quasi tutto di noi. Lo sa, ma non lo dice. La nostra posta elettronica nel posto di lavoro può essere controllata, i nostri accessi a internet pure, le nostre telefonate altrettanto. Tutto è tracciato. La rete, si sa, non dimentica, o non vuole dimenticare, mai. I dati sono ormai facilmente acquisibili, bisogna vedere l’uso che se ne fa dopo. Questo è il punto più delicato.
Doppio risultato per il renzismo: si rafforza il controllo su quei potenziali facinorosi che sono i lavoratori, e s'incentiva ulteriormente la produzione di prodotti digitali.
La Repubblica, 18 giugno
Il decreto che attua il Jobs Act va in Parlamento Niente permessi per vigilare. Sindacati in rivolta
ROMA. Le informazioni raccolte dalle aziende - tramite cellulari, smartphone, tablet, portatili, badge in dotazione al lavoratore, ma anche telecamere di sorveglianza - «sono utilizzabili a tutti i fini». C’è anche questo, in uno dei decreti attuativi del Jobs Act, arrivato martedì nelle commissioni Lavoro di Camera e Senato, per un parere non vincolante.
Quindi non solo d’ora in avanti il datore di lavoro non avrà più bisogno di un accordo con i sindacati né del permesso delle Direzioni territoriali del lavoro (il ministero) per controllare da remoto il proprio dipendente tramite vecchi e nuovi strumenti high-tech. Non solo per le telecamere quell’accordo non sarà più obbligatorio, come dal 1970. Ma l’utilizzo dei dati a posteriori (tutti i dati, anche quelli video) potrà essere praticamente infinito. Utilizzo «ad ogni fine, connesso al rapporto di lavoro», si legge nella relazione illustrativa al decreto. «Purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e l’effettuazione dei controlli, sempre comunque nel rispetto del Codice della privacy».
Un rispetto che ora i sindacati, uniti e furiosi, mettono in dubbio. Come anticipato da Repubblica , la norma non poteva non sollevare un polverone. «Siamo al colpo di mano», denuncia Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil, che parla di «arretramento pesante» rispetto allo Statuto dei lavoratori (il cui articolo 4 in materia di controlli a distanza viene aggiornato). «Non solo daremo battaglia in Parlamento», annuncia. Ma «verificheremo anche con il Garante della privacy se ciò si può consentire». Anche la Cisl chiede una riscrittura del testo. «Così com’è non va bene, va cambiato, perché è attraverso la contrattazione sui luoghi di lavoro che si devono gestire questi aspetti così delicati per la vita di un lavoratore, ma anche per l’azienda», commenta Annamaria Furlan, segretario generale Cisl, in linea con le posizioni della Uil. Si allarma anche Cesare Damiano, presidente pd della commissione Lavoro della Camera: «Non bisogna far rientrare dalla finestra quello che è uscito dalla porta. La delega prevede un controllo sugli impianti e non sulle persone. Buon senso vorrebbe che il governo, com’è avvenuto nel passato, affidasse questa regolazione alla contrattazione delle parti sociali. E soltanto nel caso di mancata intesa, far intervenire la legge».
La norma tra l’altro non vale per gli statali, altra benzina sul fuoco delle polemiche. «Il Grande fratello è nelle cose, già oggi», commenta il giuslavorista e senatore pd Pietro Ichino a Radio24 . «I controlli a distanza sono stati inseriti nel 1970, nello Statuto dei lavoratori, ma con l’obbligo di negoziazione. Mezzo secolo dopo, passare da accordi con i sindacati vorrebbe dire non fare una rete Internet aziendale oppure le auto con il gps o rinunciare a dotare i lavoratori del cellulare». Il dibattito è aperto.
Il decreto sulle Semplificazioni, con la norma incriminata (l’articolo 23), dovrà ora essere esaminato dalla commissioni parlamentari, le cui raccomandazioni potrebbero o meno essere accolte dal governo (con altri decreti del Jobs Act, però, è successo).
«C’è un’amnesia totale. Nessuno si ricorda più di quando a emigrare eravamo noi italiani: milioni di persone in cerca di futuro e anche loro a bordo di carrette».
Emma Bonino ne è sicura, non ci sarà nessuna barriera in grado di fermare chi è disposto a lasciarsi alle spalle tutto ciò che ha pur di salvarsi la vita o provare o ricrearsela in un altro continente.
«L’Unhcr ci dice che a breve ci saranno 50 milioni di rifugiati veri e propri. Poi bisogna considerare le migrazioni di altro tipo - spiega -. Quello migratorio è un fenomeno strutturale e anche se ci sono delle punte emergenziali nei vari continenti, convive da sempre con l’umanità. Noi italiani ne siamo stati grandi protagonisti in passato, tra la prima e la seconda guerra mondiale. Dico sempre che una delle cose migliori che potrebbero fare le scuole italiane è portare i ragazzi a visitare i musei dell’emigrazione italiana. C’è un episodio che mi piace citare: una volta un museo ha fatto un esperimento mettendo a confronto due fotografie. Una rappresentava una nave di emigranti italiani, l’altra la prima nave carica di albanesi che arrivò in Italia nel 1991. Poi hanno chiesto ai ragazzi quali erano gli italiani e quali gli albanesi. I ragazzi non hanno quasi mai indovinato».
I demografi spiegano come l’immigrazione sia sempre più importante per le popolazioni occidentali. Eppure alziamo muri, facciamo blocchi navali, respingiamo le persone. Il nostro è egoismo o incapacità di capire quanto queste persone possono essere preziose per noi?
Secondo me c’è una incapacità della classe dirigente di governare il fenomeno e di mandare i messaggi giusti. E’ chiaro che se una persona vede solo Salvini che sbraita in televisione finirà per credere che se suo figlio non trova lavoro è perché c’è un keniota che glielo ha rubato. Parlare alla pancia funziona sempre, specie in un periodo di crisi vera. Eppure abbiamo tutte le informazioni per capire che l’immigrazione può essere una risorsa. Oggi gli immigrati (legalizzati) in Italia sono circa 5 milioni, contribuiscono all’8.8% del Pil, contribuiscono all’Inps, pagano le nostre future pensioni che loro godono molto poco perché la stragrande maggioranza rientra al suo Paese appena può. Quindi cosa siamo, egoisti o incapaci di capire? Io direi che siamo vittime del populismo della classe dirigente, ma per quanto riguarda l’opinione pubblica in generale parlerei di ignoranza. Hanno creato una guerra tra poveri che funziona benissimo. La verità è un’altra, ed è che noi non vogliamo i poveri, italiani o non italiani che siano.
Lei in passato ha sempre sottolineato la necessità di avere rapporti di partenariato con i paesi del Mediterraneo e ha sponsorizzato la costituzione di un commissario europeo per il Mediterraneo invece di uno per l’Immigrazione. Per quello che valgono i ragionamenti fatti con i senno di poi, se tutto questo si fosse attuato sarebbero diverse le cose?
Parliamo un attimo prima di quanto accade oltre il Mediterraneo. In Asia c’è un grandissimo movimento di cui i Rohingya sono solo la punta dell’iceberg. Pensi inoltre ai Karen che, poveracci, stanno nei campi profughi della Thailandia ormai da tre generazioni e non riescono a rientrare a Myanmar né Myanmar - che ha un centinaio di etnie - li vuole. Poi c’è la frontiera tra Messico e Stati uniti, che ora è diventato il problema Guatemala, Messico, Stati uniti, o l’esodo dalla Colombia per esempio. C’è il Venezuela… Molti sono movimenti migratori prevalentemente interlatini, perché il Brasile va piuttosto bene economicamente. Anche le migrazioni del Mediterraneo le possiamo considerare intracontinentali, perché il Mediterraneo è poco più di un grande lago che ci unisce all’Africa. E qui cosa abbiamo? Da una parte un continente in rapido declino demografico, l’Europa, ma che è ancora il più ricco per quanto riguarda welfare, istruzione, siamo anche più equilibrati degli Stati uniti. A Sud invece c’è un giardino d’infanzia, un continente con una crescita demografica ovunque perlomeno del 3–4%. Poi c’è la parte Sahel tormentata da guerre, dittature, Boko Haram, Shabaab (movimento islamista somalo, ndr). Dove vuoi che vada questa gente? In Botswana? Non è che uno siccome è poveraccio e senza prospettive di vita nel suo Paese, è anche ignorante. Quindi va dove pensa di avere una speranza, una possibilità, cioè in Europa. Dove magari ha già famiglia o conoscenti o amici.
Il problema è che il numero dei conflitti presenti a Sud aumenta quotidianamente.
Questo è un momento della storia che possiamo definire di risveglio arabo e di contaminazioni di vario tipo, perché c’è anche il terrorismo. Noi europei eravamo abituati a lavorare solo con le élite, ne conoscevamo vita, morte e miracoli, le mogli, le amanti e con loro trattavamo. Ricordo che quando mi sono trasferita al Cairo, nel 2001, dopo un po’ cominciai a fare una rassegna stampa del mondo arabo per Radio Radicale nella quale provai a dire: guardate che qui c’è veramente una bomba a orologeria. Parlavo dal punto di vista sociale demografico, non intereligioso. In quegli anni l’Egitto era pieno di bambini, ma con nessuna crescita economica, un milione di nuovi ragazzi che si affacciavano al mercato del lavoro ogni anno, prospettive zero, tutti interconnessi e la stragrande maggioranza di loro non aveva mai visto un’altra faccia oltre alla fotografia di Mubarak appeso al muro di casa sua. Mi sembrava che ci fosse un subbuglio, un popolo che in qualche modo brontolava. Avevo la stessa impressione anche per la Tunisia per dire la verità, ma quando provavo a dirlo mi rispondevano che no, erano popoli stabili.
Perché vivevano sotto dittature che li obbligavano a essere stabili.
Certo, ma erano come una pentola a pressione senza valvola e quindi pronti a scoppiare. Non avevano nessuna agibilità politica, o sindacale. Niente di niente. All’epoca si poteva fare politica solo il venerdì nelle moschee, unico spazio che veniva dato, con tutte le complicazioni che ne potevano derivare. Non sapevo quando e dove tutto questo sarebbe sfociato, ma avevo l’impressione che tutta la regione fosse così: un giardino d’infanzia, senza sfoghi politici né possibilità di alternative politiche, nessuna prospettiva economica salvo ovviamente le monarchie del Golfo, ma questo è un altro discorso. E infatti sia l’Egitto che la Tunisia finché hanno potuto hanno fatto una grande politica di sussidi, al pane, alla benzina, a qualunque cosa. Però non hanno retto, nonostante i potentissimi servizi segreti. Torniamo allora alla mia proposta di un commissario per il Mediterraneo. Quando la lanciai ho pensato che sarebbe stato importante – e lo penso anche ora — fare una politica di contenimento, cercare di aiutare quei Paesi che ancora non sono nel baratro: Tunisia, Marocco, Algeria. Vogliamo parlare dell’Algeria, capire un attimo cosa sta succedendo lì? Quaranta milioni di persone, tantissimi giovani, quasi tutti nati dopo o durante la guerra civile, un bilancio dello Stato che si è ridotto del 50% per il crollo del petrolio. E’ vero che hanno riserve per due o tre anni, ma anche in Algeria - che non esporta nulla - hanno sempre tenuto calma la popolazione con sussidi che prima o poi dovranno cominciare a ridurre. E allora cosa accadrà?
Certo che di fronte a un simile scenario l’Europa che litiga per dividersi 40 mila profughi fa pensare.
Il piano Juncker è importante dal punto di vista del principio, perché in definitiva rimette in discussione il trattato di Dublino. Non è tanto quindi il risvolto pratico della vicenda. Nella timidezza complessiva bruxellese a cui siamo abituati, in particolare della commissione Barroso, devo dire che la commissione Juncker è stata piuttosto decisa e ha posto almeno in discussione tre o quattro argomenti considerati finora un tabù, anche se per ora una revisione del regolamento di Dublino non passa, perché non ci sono i numeri necessari.
L’Italia aveva salutato come un successo la proposta della commissione Juncker di dividere 40 mila profughi tra gli Stati membri, ma l’entusiasmo è durato poco.
Il fatto è che i migranti sono una priorità per noi, ma non per i Paesi che si trovano dall’altra parte del Mediterraneo. Non possiamo andare in Tunisia a dire: tenetevi i migranti, anzi aprite un campo profughi e un ufficio per gestire l’emigrazione legale perché noi prima o poi apriremo le quote. La reazione è scontata: oltre al milione di libici che già abbiamo, e che in un Paese di 11 milioni di abitanti sono un problema non da poco, dovremmo ospitare anche tutti gli africani che verrebbero in attesa di avere un canale legale? E non basta promettere ulteriori finanziamenti. La mia idea è che nessuno ha soluzioni miracolose, neanche i più decisi guerrafondai, quelli convinti che bisogna andare in Libia e bombardare non si è capito chi, come, né dove, però poi boots on the ground nessuno li vuole mettere.
Sarà anche per questo che l’Onu tarda a fare la risoluzione che darebbe il via alla missione europea contro gli scafisti?
L’Onu tarda perché sono state espresse una serie di riserve. Una è quella della Russia, che non vuole essere bypassata come accadde nel 2011 quando con la motivazione di salvare Bengasi è stato fatto fuori Gheddafi. Quindi fino a quando non c’è un linguaggio preciso che assicuri alla Russia chi, dove, come, quando vuole fare questa operazione, non si muove nulla. Il piano presentato poi è troppo ambiguo, non si capisce cosa si deve fare e per quanto tempo. Tutta questa operazione a mio modesto avviso non va da nessuna parte, almeno non come era stata pensata inizialmente.
E allora come ne usciamo?
Chiunque abbia in mente una soluzione miracolosa, secondo me vende fumo. Credo che questa situazione si trascinerà ancora a lungo. In Libia, per esempio, oltre alle milizie locali è in corso la continuazione della guerra intrasunnita, perché Tobruck rappresenta Egitto, Arabia Saudita ed Emirati mentre Tripoli Qatar e Turchia. Poi la politica è molto fragile e non so se adesso la Turchia vuole ancora continuare la sua precedente politica regionale oppure no. Ma anche quello che sta succedendo in Arabia saudita dove la transizione dopo la morte del re non è affatto così tranquilla come ce l’hanno dipinta. Attenzione, perché le alleanze sono fragili. Penso che oggi stiamo assistendo a una guerra tra di loro, una guerra che noi abbiamo contribuito a far scoppiare dal 2003 con l’Iraq senza sapere bene che fare il giorno dopo.
L'Ungheria traduce in fatti concreti, ferrigni e spinosi, l'ideologia dominante nell'Unione europea, che solo il velo dell'ipocrisia nasconde agli ingenui.
La Repubblica, 18 giugno 2015
Budapest. Quando l’annuncio è venuto, non voleva crederci nessuno: in Europa, con Orbàn e con la marea dei migranti, torna l’èra dei Muri, proprio quei Muri della cui caduta Orbàn allora giovane dissidente liberal fu coraggioso protagonista.
Il 15 giugno le quattro associazioni ambientaliste Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF hanno sottoscritto unitariamente un appello per chiedere continuità nelle politiche portate avanti in questi cinque anni sul governo del territorio e del paesaggio. Nessun quotidiano l'ha ripreso.
Le Associazioni ambientaliste - Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF - hanno condotto insieme una battaglia per affermare in Toscana i valori dell'ambiente, del territorio, del paesaggio. In modo particolare, hanno contribuito, nella passata legislatura, a far approvare provvedimenti legislativi di portata nazionale come la Legge per il governo del territorio e il Piano paesaggistico.
La battaglia però non può fermarsi qui. È necessario che nella prossima legislatura questi provvedimenti siano salvaguardati e correttamente applicati e, in proposito, le Associazioni auspicano e chiedono continuità nel lavoro svolto da Anna Marson durante la scorsa legislatura: e ritengono, inoltre, che la garanzia più efficace di una corretta gestione del Piano consista nel mettere prima possibile in funzione l’Osservatorio del paesaggio previsto dall’art. 59 della nuova Legge per il governo del territorio, articolato in una struttura regionale e in una rete di nodi locali aperti alla partecipazione delle comunità locali, come «strutture ecomuseali, associazioni ambientali e civiche, già attivi sul territorio» (da Relazione generale del Piano, p. 24). Se ciò, come vivamente è auspicabile, sarà realizzato le Associazioni ambientaliste si propongono di fornire al governo regionale il proprio contributo per mettere in atto i risultati positivi della precedente legislatura.
Firenze, 15 giugno 2015.
Fondo Ambiente italiano, Italia Nostra, Legambiente, Rete dei comitati per la difesa del territorio, WWF
. Comune.info, 17 giugno 2015
In questo periodo alcuni dirigenti politici alzano la voce contro gli stranieri, quelli miserabili (non i miliardari arabi che si stanno comprando mezza Italia), quelli che scappano dalla fame, dalla guerra, dalle situazioni disumane e tragiche prodotte dalle politiche occidentali, in primis gli Usa e le multinazionali euro-statunitensi che sfruttano le risorse dell’Africa e del Medio-oriente. Quei dirigenti usano una violenza verbale, veicolata dai media, che fanno così da cassa di risonanza allacostruzione del capro espiatorio in una situazione di crisi sociale, culturale, morale, politica ed economica che sta affondando la democrazia italiana, ma anche di molti paesi europei.
La violenza verbale si accompagna purtroppo anche dalla violenza fisica di chi viene sfruttato da scafisti di tutte le nazionalità, basta vedere la vicenda di Roma (sulle vicende di Roma, Milano, Ventimiglia e, più in generale sulla situazione dei migranti in questo momento, leggi anche Migranti in trappola di Fulvio Vassallo Paleologo e la durissima denuncia di Amnesty). L’importante è fare crescere l’odio verso i poveri del mondo che chiedono aiuto, l’importante è metterli alla gogna facendo tremare i cittadini impoveriti e impauriti con le favole sulla scabbia, il terrorismo ecc. La cosa grave è che il giornalismo italiano sembra non avere senso del pudore e della responsabilità sociale nell’influenzare l’opinione pubblica, anzi più si sbatte il mostro in prima pagina nei tg, più si dà spazi ai deliri razzisti e volgari di certi personaggi, più si amplifica il fenomeno della presunta invasione del paese. E se il paese è invaso vuol dire che siamo in guerra. Contro chi? Contro i poveri che arrivano dal Corno dell’Africa (ex colonie italiane), dal Medio-oriente (Sira, Iraq distrutti dalla guerre occidentali), dall’Africa centrale sfruttate dalle multinazionali per le sue materie prime. Non guerra alle diseguaglianza e alla povertà nel mondo e anche alle sue cause, dunque, ma guerra ai poveri.
Austerity
D’altronde che la guerra contro i poveri sia una realtà i cittadini europei se ne accorgono con le politiche di austerity che hanno avuto finora l’effetto d’impoverire la popolazione e di distruggere i sistema di diritti e di tutela dei lavoratori. Allora bisogna far crescere l’odio contro i profughi, scatenare la guerra tra i poveri facendo leva sugli istinti più bassi e incivili dell’essere umano per fare dimenticare che la crisi sociale in Italia e in Europa ha dei responsabili, cioè chi governa e conduce per conto dei mercati della finanza le politiche di distruzione dello Stato sociale per favorire il trasferimento di ricchezza verso chi è ricco e per rendere schiavi i salariati.
Come ha scritto René Girard nei suoi testi La violenza e il sacro e Il capro espiatorio, l’aggressione razzista è proporzionata non alla diversità dello straniero ma al fatto che ci assomiglia tanto, insomma aggrediamo l’altro perché è molto simile a noi e non il contrario (è quello che il filosofo francese chiama “la vendetta mimetica”). Nel caso dell’Italia con la sua storia d’emigrazione (rimossa anche se molto attuale, visto che negli ultimi tre anni hanno lasciato il paese 350.000 mila italiani) la questione diventa ancora più complicata poiché i profughi ci ricordano molte cose sulla sua storia passata e anche attuale. L’aggressività razzista e xenofoba è anche sempre lo specchio di una paura irrazionale, di una insicurezza e di un tentativo di eliminare l’altro diverso da sé per non fare i conti con se stesso, quindi con l’altro che ci sta dentro.
Il dominio sull’altro secondo Fanon
Psicologicamente si può dire, con lo psichiatra afro-martinichese Franz Fanon, chel’aggressività linguistica e simbolica nonché la violenza fisica sono parte di una logica di dominazione sull’altro agita da chi si sente insicuro (agendo come un “ferito psico-affettivo” che costruisce un rapporto di doppio legame con l’oggetto del proprio odio e della propria violenza). Si tratta di un tratto patologico che, negando dignità e umanità all’altro, porta a annichilire la propria dignità e umanità, quindi la propria capacità riflessiva lasciandosi travolgere dalle pur emozioni del momento, emozioni che non diventano sentimenti poiché quest’ultimi ci portano a relazionarci con i sentimenti dell’altro e quindi a considerarlo nella propria umanità.
L’odio ha purtroppo sempre funzionato nella storia umana permettendo alle classi dominanti di trovare, tra una parte dei dominati e sfruttati autoctoni, delle truppe e dei sostegni per continuare ad essere dominanti. L’odio è anche un modo molto più semplice di non dovere fare i conti con se stessi nella relazione con l’altro e quindi con la propria coscienza. Giuseppe Mazzini l’aveva già capito nella prima metà dell’800 e sosteneva che solo la fratellanza tra i popoli, in particolare tra i popoli sfruttati e oppressi avrebbe permesso di costruire una Europa più democratica e più giusta, scrisse anche in un proclama indirizzo ai giovani italiani che bisognava “abolire la parola straniero dalla favella dell’umanità”!
«La superficialità, l’inconsistenza e la criminalità tanto delle soluzioni della Lega e delle destre europee quanto delle non-soluzioni dei governi italiani ed europei è una drammatica spia del tarlo che rode da anni l’edificio dell’Unione Europea».
Il manifesto, 16 giugno 2015
È come se l’Europa fosse piombata di nuovo in una guerra. Solo i suoi governanti non se ne sono accorti. Pochi di noi, sempre meno, in tutta Europa, sono ormai sicuri di poter tornare domani nella fabbrica o nell’ufficio dove hanno lavorato fino ad oggi; e non perché quei luoghi siano stati distrutti da una bomba, ma perché rischiano di venir chiusi dai debiti o da una delocalizzazione. Lo stesso vale per la casa dove si è abitato fino a ora: sfratto per morosità o rateo del mutuo non pagato. O per la pensione, dissolta, dimezzata o allontanata da un diktat della Commissione Europea.
Ma le manifestazioni di insipienza non finiscono qui: emergono ora con virulenza nella vicenda dei profughi: anche in questo campo Grecia e Italia sono state elette a vittime sacrificali di una politica senza futuro. Quello che Maroni vorrebbe fare delle Regioni dell’Italia meridionale e che Salvini (nella sua nuova veste di eroe nazionale) vorrebbe fare della Libia - trattenere là i profughi che non vogliono accogliere qua - l’Europa, cioè i governi dei paesi membri, incalzati e travolti dai furori xenofobi e antieuropei delle destre, lo stanno già facendo nei confronti di Grecia e Italia: «È un problema vostro; teneteveli. Siamo stati così designati a campo profughi, nuova Libia delle guerre che investono ormai i confini di tutta l’Unione.
E’ la prova di una totale mancanza di visione di che cosa possa, ma anche debba, essere l’Europa; e di una totale mancanza di strategia di fronte ai problemi più gravi. Dal canto suo, il governo italiano, investito direttamente dall’ondata montante (ma prevedibile) dei profughi, ha messo a punto (accanto alla iniziativa salvifica, ma a termine, di Mare Nostrum) due soluzioni emblematiche del modo con cui affronta le emergenze. La soluzione Alfano-Buzzi: speculare a man bassa, sia in termini economici che elettorali, su quei disperati. E la soluzione Alfano-Pansa: farli scappare dai luoghi di accoglienza (cioè di detenzione); lasciarli per strada. Che si arrangino a riempire stazioni, giardini, fabbriche abbandonate, ricoveri improvvisati. Così si alimenta allarmismo tra popolazioni ignare della dimensione geopolitica del problema e indotte a guardare solo ciò che interferisce con le loro vite quotidiane. Ma soprattutto si offrono nuovi argomenti alle strategie di Salvini.
Ma che cosa succederà se o quando vincerà Salvini? O quando le sue ricette saranno fatte proprie da chi ci governa (il piano B)? I campi profughi in Libia non si faranno. Ci sono già: sono quelli da cui si imbarcano a decine di migliaia. Chi o che cosa potrebbero mai ottenere che non succeda più? L’occupazione di tutta la costa libica? Ci vuole quella guerra che l’Onu per ora non permette; ma che poi, comunque, bisognerebbe vincere. Ma l’ultima guerra contro la Libia l’Europa in realtà l’ha persa. Così, sarebbe comunque il deserto a inghiottire i profughi e migranti tenuti lontani dal mare (e dal nostro sguardo: chi si è mai preoccupato dei morti nel deserto, che sono già ora di più di quelli annegati in mare?). E magari, bisognerebbe anche ricacciare verso i territori occupati dallo Stato Islamico i profughi accampati in Libano, Giordania e Turchia prima che cerchino anche loro di raggiungere l’Europa.
Oppure, si può smettere di salvarli in mare, o respingerli con la forza quando chiedono aiuto. Cioè farli annegare. In sostanza la proposta vera è questa, e si chiama sterminio. Ma alcuni, anzi molti, riuscirebbero comunque a raggiungere i nostri porti. Li si affonda lì? Davanti ai turisti che fanno il bagno? Senza neanche capire che un’accoglienza come quella inaugurata dalla sindaca di Lampedusa è riuscita a salvare sia turismo che vite umane?
Oppure, ancora, si adotta la linea Maroni, Zaia e Toti e si nega l’apertura di ricoveri decenti nelle regioni a cui i profughi sono stati destinati. Spingendoli così ad accamparsi nelle stazioni e nei giardinetti e, se vengono cacciati anche di lì, a spostarsi in altre stazioni e in altri giardinetti (in una girandola come quella imposta ai campi rom): affidandoli alle cure di quei tanti cittadini e associazioni che mostrano ancora una grande voglia di aiutarli (ciò che dà ancora speranza di poter costruire una società solidale). Ma mettendoli anche alla mercé di squadracce decise a farla pagare a quei disgraziati, rei di essersi salvati da una guerra, dal mare e dalle torture inflitte loro durante il loro viaggio.
La superficialità, l’inconsistenza e la criminalità tanto delle soluzioni della Lega e delle destre europee quanto delle non-soluzioni dei governi italiani ed europei è una drammatica spia del tarlo che rode da anni l’edificio dell’Unione Europea. Vent’anni fa era già stato detto che, se non si fossero adottate misure adeguate, profughi e migranti dall’Africa e dal Medio Oriente ci avrebbero raggiunti anche a nuoto. Ora quel momento è arrivato e si parla solo di come fermarli o fargli invertire rotta; ma nessuno ha ancora detto come. La soluzione finale, lo sterminio dei profughi in mare o in Libia o nel deserto, ciò che l’Europa si era impegnata a non permettere mai più, è inaccettabile.