«I greci si chiedono perché l’Europa voglia punirli. Tutti sanno la risposta. Hanno Atene • osato sfidarla votando Syriza, il partito «sbagliato»: di sinistra ed europeista».
Il manifesto, 2 luglio 2015 (m.p.r.)
Paura contro speranza, ragionamento e sangue freddo contro il terrorismo mediatico. È una settimana difficile per la Grecia a ancora di più per il governo, costretto a scusarsi per colpe non sue e in particolare per la chiusura delle banche.
C’è una campagna mediatica di dimensioni mai viste, neanche durante le difficili elezioni di gennaio. Tutte, ma tutte, senza eccezione alcuna, le emittenti private scatenate in terrorismo, catastrofismo e disinformazione. Ogni assembramento con più di tre persone davanti a una detlle banche rimaste aperte per i pensionati, diventa oggetto di dibattito per ore intere. Se poi l’anziano dà il minimo segno di stanchezza, allora c’è la tragedia mediatica, con gerontologo invitato in studio a spiegare con fare severo che, in effetti, il sole estivo potrebbe essere dannoso per chi è avanti con gli anni. Se poi la vecchietta si avvia verso il «periptero» (il caratteristico chioschetto) a comprare una bottiglietta d’acqua, ecco la pioggia di microfoni che gridano preoccupati: «Si sente male? Chiamiamo un’ambulanza?». Il consumo dell’acqua va in diretta mentre nello studio se segue con grande apprensione. Il collegamento si interrompe solo quando l’anziana mostra di non avere alcuna intenzione di stramazzare per terra e si avvia per la sua strada.
Ancora peggio i notiziari: l’«informazione» è che il limite al prelievo dal Bancomat sarà ridotto da 60 a 20 euro. Il ministero delle Finanze ha smentito ma peggio per lui. La notizia rimbalza, si moltiplica, diventa un fatto. La Merkel ha detto nessuna trattativa prima del referendum. La notizia diventa «nessuna trattativa», siamo già fuori dall’Europa e non lo sappiamo. Quello che invece le emittenti private oligarchiche sanno di sicuro è che le tipografie dello stato stanno lavorando giorno e notte per stampare le dracme. Non ci credete? Ma come, l’ha detto la Tv. Molti elettori di Syriza sono inorriditi. Accusano il governo di aver tollerato questa sconcezza mediatica. Bisognava prendere provvedimenti subito, fare loro pagare le tasse (evase sistematicamente) e l’occupazione (praticamente gratuita) delle frequenze. Giusto, forse. Ma poi rischiavamo una campagna europea in favore della libertà d’informazione violata dagli stalinisti al potere. Vagli poi a spiegare che si trattava di cialtroni ben stipendiati dagli oligarchi. Quanto rende in termini di voti questa incredibile disinformazione? Forse è questo il vero quesito del referendum. I greci ostentano calma e sangue freddo e si infastidiscono quando si vedono inquadrati dalle telecamere. Gli anziani sono i più determinati.
Nessun incidente ai più di 800 sportelli rimasti aperti per loro, nessuna folla, nessun panico. Ma sicuramente c’è preoccupazione, forse anche paura. Chi accusa il governo, si vede, è per partito preso ma tutti sono concordi nel chiedersi meravigliati perché l’Europa democratica li vuole punire. Tutti sanno la risposta: hanno osato sfidarla votando il partito sbagliato: ma sono pochi coloro che vedono con sollievo l’abbandono dell’eurozona o anche l’Unione Europea. I greci sono orgogliosamente europei, nessuno può fargli cambiare idea.
È a loro che Tsipras ha voluto rivolgere il suo appello televisivo ieri sera. «Voglio ringraziarvi con tutto il cuore per la calma e il sangue freddo che state mostrando in ogni momento di questa settimana difficile. Voglio assicurarvi che questa situazione non durerà a lungo. Sarà provvisoria. Gli stipendi e le pensioni non andranno persi. I conti dei cittadini che hanno scelto di non portare i loro soldi all’estero non saranno sacrificati sull’altare dei ricatti e delle oscure manovre politiche. Rivolgo l’appello di sostenere questo processo negoziale, vi chiedo di dire no alle ricette di austerità che stanno distruggendo l’Europa». Molti si chiedono. Va bene, ma se poi questa mancanza di liquidità durasse a lungo, come se ne esce? Tsipras, anche ieri, ha ostentato la sua convinzione che dopo la vittoria del no ci saranno nuovi negoziati e la questione sarà risolta in tempi brevi. Martedì sera si sono radunati a piazza Syntagma i sostenitori del «Sì». Non tantissimi, ma pioveva. Però si sa che c’è una «maggioranza silenziosa» che non scende in piazza ma vota. Il progetto delle forze del Sì è chiaro, lo ha annunciato il leader della destra Samaras da Bruxelles: un nuovo premier, probabilmente il suo ex ministro delle Finanze, ora governatore della Banca di Grecia, Yannis Stournaras, per un governo «di unità nazionale».
Ma Samaras è una carta bruciata, dentro il suo partito quasi nessuno lo vuole. La nuova carta della rivincita delle forze pro austerità è il partito di plastica Tio Potami e il suo leader semianalfabeta Stavros Theodorakis. È lui che regge il grosso della campagna per il sì e probabilmente sarà lui a dettare l’agenda del ribaltamento politico nel caso di vittoria. Un’agenda molto chiara e semplice: accettare tutte le richieste di Berlino. Fine dell’anomalia greca, ritorno alla normalità teutonica.
Se qualcuno avesse dubbi sulle ragioni di chi sta tentando di cacciare la Grecia di Tsipras dall'Unione europea, troverà l'elenco argomentato delle menzogne impiegate.
Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2015
C’è un gran dibattito sul referendum in Grecia. E’ difficile riassumere i diversi aspetti economici, sociali e politici del problema che sono tutti ugualmente importanti: tutti richiedono un intervento che possa invertire una rotta che sembra destinata a naufragio sicuro. Qui di seguito ho isolato i punti a mio avviso più rilevanti.
Le politiche di austerità sono state ispirate dallo stesso paradigma ideologico neoclassico che ha fallito ogni previsione della crisi economica scoppiata nel 2007/2008, e sono basate su un famoso articolo degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni, che ha evidenziato l’esistenza, in diversi paesi, di una correlazione tra un alto rapporto debito/Pil (maggiore del 90%) e la bassa crescita. L’articolo di Reinhart e Rogoff è stato mostrato essere effetto da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio di calcolo. Eppure questo studio è stato tra quelli usati per giustificare l’austerità, il pareggio di bilancio e la necessità di “rimettere a posto i conti” nei diversi paesi. Malgrado i dati stessi, analizzati correttamente, non mostrano alcuna correlazione tra debito e Pil, e dunque non giustificano in nessun modo le assunzioni delle politiche d’austerità, queste non sono cambiate e anzi sono continuamente riproposte.
Secondo Mario Monti la Grecia “è la manifestazione più completa del grande successo dell’Euro”. La Grecia dopo cinque anni il “salvataggio” della Troika (Banca Europea, Commissione Europea e Fondo Monetario) è ancora in recessione, ha un tasso di disoccupazione intorno al 30% che sale al 55% per i giovani, ha sofferto un abbassamento del PIL del 25% e il 30% della sua popolazione vive sotto il livello di povertà dell’Unione Europea. Le misure di austerità hanno causato una vera e propria emergenza umanitaria. In un articolo scientifico, pubblicato sulla rivista The Lancet, sono stati presentati dei dati impressionanti: in Grecia dopo quaranta anni è riapparsa la malaria, il 70% dei partecipanti ad un sondaggio ha dichiarato di non avere sufficiente denaro per comprare le medicine, i suicidi sono aumentati del 45%, i neonati sottopeso sono aumentati del 19% mentre i bambini nati morti sono incrementati del 21%.
Dall’inizio della crisi, cinque anni fa è avvenuta la più grande fuga di cervelli in un’economia occidentale avanzata nei tempi moderni, con oltre 200.000 greci che hanno lasciato il paese. Più della metà sono andati nel Regno Unito e in Germania, rappresentando un enorme spostamento di forza lavoro qualificata, formata a spesa del paese d’origine, che va dunque ad arricchire i paesi di destinazione. Quest’ondata di giovani, insieme con quelle provenienti dagli altri paesi dell’Europa meridionale, rappresenta forza lavoro qualificata che entra in concorrenza con quella locale abbassando dunque il costo del lavoro. D’altro canto questo impoverimento di risorse umane sta minando le residue possibilità di una ripresa del paese in un futuro più o meno lontano.
Ma i danni non sono finiti qui. Come spiega chiaramente, Andrea Baranes, il piano di salvataggio della Grecia è stato «concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia» (fonte Fmi): infatti, uno studio indipendente ha mostrato come per lo meno il 77% di tutti gli aiuti forniti alla Grecia tra maggio 2010 e giugno 2013 sono finiti al settore finanziario e non alla popolazione o allo Stato ellenico. In parallelo l’esposizione delle banche francesi e tedesche si è trasformata in debito pubblico (si veda anche pagina 15 di questo documento del Parlamento Greco).
Questi semplici fatti, facilmente verificabili, mostrano l’assurdità delle politiche d’austerità che hanno l’effetto di deprimere l’economia sia nell’immediato che nel futuro. I vari “economisti”,come Francesco Giavazzi, che si agitano al grido “i Greci hanno scelto la povertà, lasciamoli al loro destino”, con argomenti che possono essere agevolmente falsificati, rendono semplicemente chiaro, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, come, utilizzando la propria cattedra universitaria, la scienza economica sia usata solo per puntellare scelte politiche e ideologiche. La discussione è in realtà tutta politica ma la bussola che si è persa è quella etica: solo indignandoci di fronte alle inutili sofferenze della gran parte di un paese potremo capire da che parte stare.
L'appello televisivo del premier greco. «Il referendum di domenica non riguarda la permanenza o no della Grecia nell’eurozona. Questa è scontata e nessuno può contestarla. Domenica dobbiamo scegliere se accettare l’accordo specifico oppure rivendicare subito, una volta espresso il responso del popolo, una soluzione sostenibile».
Il manifesto, 2 luglio 2015
Il referendum di domenica non riguarda la permanenza o no della Grecia nell’eurozona. Questa è scontata e nessuno può contestarla. Domenica dobbiamo scegliere se accettare l’accordo specifico oppure rivendicare subito, una volta espresso il responso del popolo, una soluzione sostenibile.
In ogni caso voglio assicurare al popolo greco che la ferma intenzione del governo è quella di ottenere un accordo con i partners, in condizioni però di sostenibilità e di prospettiva per il futuro. Già l’indomani della nostra decisione di proclamare un referendum sono state poste sul tavolo proposte riguardanti il debito e la necessità di ristrutturarlo, migliori di quelle che ci erano state presentate fino a venerdì. Non le abbiamo lasciate cadere.
Abbiamo immediatamente presentato le nostre controproposte, chiedendo una soluzione sostenibile. È per questa ragione che c’è stata la riunione straordinaria dell’eurogruppo ieri e ci sarà una nuova riunione oggi pomeriggio. Se ci sarà una conclusione positiva, noi risponderemo immediatamente. In ogni caso, il governo greco rimane al tavolo del negoziato e continuerà a rimanerci fino alla fine. Ma ci rimarrà su questo tavolo anche lunedì, subito dopo il referendum, in condizioni più favorevoli per la parte greca. Il verdetto popolare, infatti, è sempre più potente rispetto alla volontà di un governo. Vorrei anche ribadire che il ricorso alla volontà popolare è uno dei fondamenti delle tradizioni europee.
In momenti cruciali della storia europea, i popoli hanno preso decisioni importanti attraverso lo strumento del referendum. E’ successo in Francia e in tanti altri paesi, dove si sono svolti referendum sulla Costituzione europea. E’ successo in Irlanda, dove un referendum ha temporaneamente sospeso il Trattato di Lisbona e ha condotto a un nuovo negoziato, dal quale l’Irlanda ha ottenuto condizioni migliori. Nel caso della Grecia, purtroppo, si usano due metri e due misure.
Personalmente, non mi sarei mai aspettato che l’Europa democratica non riesca a comprendere la necessità di lasciare a un popolo sovrano lo spazio e il tempo necessario perché faccia le sue scelte riguardo al proprio futuro. Sono prevalsi ambienti estremisti conservatori e di conseguenza le banche del nostro paese sono state portate all’asfissia. L’obiettivo è evidente: esercitare un ricatto che parte dal governo e arriva fino a ogni singolo cittadino greco.
E’ infatti inaccettabile in un’Europa della solidarietà e del rispetto reciproco, vedere queste scene vergognose: far chiudere le banche proprio perché il governo ha deciso di far parlare il popolo, creare disagi a migliaia di anziani, per i quali, malgrado l’asfissia finanziaria, il governo si è preoccupato e ha fatto in modo che la loro pensione fosse regolarmente versata nei loro conti. A queste persone dobbiamo delle spiegazioni. E’ per proteggere le vostre pensioni che stiamo dando battaglia tutti questi mesi. Per proteggere il vostro diritto a una pensione dignitosa e non a una mancia. Le proposte che, in maniera ricattatoria, ci hanno chiesto di sottoscrivere prevedevano un taglio consistente delle pensioni. Per questo motivo ci siamo rifiutati, per questo oggi si vendicano.
E’ stato dato al governo greco un ultimatum che comprendeva esattamente la stessa ricetta, comprendente tutte le misure ancora non applicate del vecchio Memorandum di austerità. Come se non bastasse, non hanno previsto alcuna forma di alleggerimento del debito né di finanziamento dello sviluppo. L’ultimatum non è stato accettato. Poiché in regime di democrazia non ci sono strade senza uscita, l’ovvia via d’uscita era quella di rivolgerci al popolo, ed è stato esattamente quello che abbiamo fatto.
Sono pienamente consapevole che in queste ore c’è un’orgia di catastrofismo. Vi ricattano e vi invitano a votare sì a tutte le misure chieste dai creditori, senza alcuna visibile via d’uscita dalla crisi. Vogliono fare dire anche a voi, come succedeva nei quei giorni bui della nostra vita parlamentare che abbiamo lasciato dietro di noi, sì a tutto. Farvi diventare simili a loro, complici nel piano di farci rimanere per sempre sotto l’austerità.
Dall’altra parte, il no non è una semplice parola d’ordine. Il no rappresenta un passo decisivo verso un accordo migliore che puntiamo a sottoscrivere subito dopo la proclamazione dei risultati di domenica. Sarà l’inequivocabile scelta del popolo riguardo le sue condizioni di vita nei giorni a venire. No non significa rottura con l’Europa, ma ritorno all’Europa dei valori. No significa pressione potente per un accordo economicamente sostenibile che trovi una soluzione al problema del debito, non lo farà schizzare a livelli insostenibili, non costituirà un eterno ostacolo verso i nostri sforzi per far riprendere l’economia greca e dare sollievo alla società. No significa pressione forte per un accordo socialmente equo che distribuirà il peso ai possidenti e non ai lavoratori dipendenti e ai pensionati.
Un accordo cioè che porterà in tempi brevi il paese a essere di nuovo presente nei mercati finanziari internazionali, in modo che si ponga termine alla sorveglianza straniera e al commissariamento. Un accordo che comprenda quelle riforme che puniranno una volta per sempre gli intrecci insani tra politica, mezzi d’informazione e potere economico che hanno contraddistinto in tutti questi anni il vecchio sistema politico. Nel contempo potrà affrontare la crisi umanitaria: stenderà, in altre parole, una rete di sicurezza per tutti quelli che oggi sono stati spinti all’emarginazione grazie alle politiche seguite in tutti questi anni nel nostro paese.
Greche e greci, sono pienamente consapevole delle difficoltà che state affrontando. Mi impegno personalmente a fare qualunque cosa perché siano provvisorie. Alcuni fanno dipendere la permanenza della Grecia all’eurozona dal risultato del referendum. Mi accusano di avere un’agenda segreta: nel caso di vittoria del no, far uscire il paese dall’Unione Europea. Mentono sapendo di mentire. Sono quelli stessi che dicevano le stesse cose nel passato e rendono un pessimo servizio sia al nostro popolo che all’Europa. D’altronde, sapete bene che un anno fa io stesso ero candidato per la presidenza della Commissione alle elezioni per il Parlamento europeo.
Anche allora ho detto agli europei che le politiche di austerità devono finire, che non è questa la strada per uscire dalla crisi, che il programma applicato alla Grecia è stato un fallimento. E che l’Europa deve smettere di comportarsi in maniera non democratica.
Pochi mesi più tardi, nel gennaio del 2015, il nostro popolo ha sigillato questa scelta. Sfortunatamente, alcuni in Europa si rifiutano di comprendere questa verità, non la vogliono ammettere. Quelli che preferiscono un’Europa ancorata in logiche autoritarie, di disprezzo verso le regole democratiche, che vogliono un’Europa unita solo in maniera epidermica e tenuta insieme dal Fmi, non hanno una visione degna dell’Europa. Sono politici senza coraggio che non riescono a pensare come europei.
A loro fianco sta il nostro sistema politico che ha portato il paese alla bancarotta e ora si propone di gettare la colpa a noi, a chi cerca di far finire questa marcia verso il disastro. Sognano il loro ritorno: lo hanno progettato nel caso che noi avessimo accettato l’ultimatum – hanno pubblicamente chiesto la nomina di un altro premier per applicarlo– ma continuano anche adesso, che abbiamo dato la parola al popolo. Parlano di colpo di stato. Ma la democrazia non è un colpo di stato, i governi nominati da fuori sono un colpo di stato.
Greche e greci, voglio ringraziarvi con tutto il cuore per la calma e il sangue freddo che state mostrando in ogni momento di questa settimana difficile. Voglio assicurarvi che questa situazione non durerà a lungo. Sarà provvisoria. Gli stipendi e le pensioni non andranno persi. I conti dei cittadini che hanno scelto di non portare i loro soldi all’estero non saranno sacrificati sull’altare dei ricatti e delle oscure manovre politiche. Assumo io personalmente la responsabilità di trovare una soluzione al più presto, subito dopo la conclusione del referendum. Allo stesso tempo rivolgo l’appello di sostenere questo processo negoziale, vi chiedo di dire no alle ricette di austerità che stanno distruggendo l’Europa.
Vi chiedo di accettare la strada di una soluzione sostenibile, di aprire una brillante pagina di democrazia, nella speranza certa di un accordo migliore. Siamo responsabili verso i nostri genitori, i nostri figli e verso noi stessi. E’ il nostro debito verso la storia.
(a cura di Dimitri Deliolanes)
Il messaggio ad Alexis Tsipras del Premio Nobel per la pace: «È urgente riformare il sistema economico e stabilire un nuovo contratto sociale»: ed è chiaro che non si parla delle "riforme" della Troika. La Repubblica, 2 luglio 2015
AL PRIMO ministro della Grecia, Alexis Tsipras.
Qui dall’Argentina seguiamo da vicino le richieste che state facendo per trovare una giusta soluzione che non condanni il popolo greco alla fame e all’emarginazione sociale. Nel 2001 e 2002 abbiamo vissuto anche noi la stessa crisi. L’abbiamo superata unendo le forze e cercando cammini alternativi e creativi. Molte organizzazioni sociali e assemblee popolari hanno recuperato le fabbriche e hanno istituito un sistema di scambio di lavoro e di materie prime. La solidarietà popolare ha permesso di condividere il pane e la libertà.
Il debito estero è un meccanismo di dominazione. I grandi interessi economici privilegiano il capitale finanziario rispetto alla vita delle persone. Noi, purtroppo, ancora ne soffriamo le conseguenze.
Il governo greco ha avuto coraggio ad indire un referendum per chiedere al popolo di decidere sul cammino da intraprendere di fronte all’ultimatum dei soci europei. Questi ultimi, come sappiamo bene, contravvengono ai principi e ai valori sui quali si è fondata l’Europa, cercando d’imporre la deregolamentazione del mercato del lavoro, il taglio delle pensioni e dei salari pubblici, le privatizzazioni e l’aumento dell’Iva anche sugli alimenti. Si tratta di una violazione del diritto d’uguaglianza e di dignità.
Vi invito a resistere per rafforzare la democrazia e la sovranità nazionale. È ormai urgente riformare il sistema economico mondiale e stabilire un nuovo contratto sociale ed è giusto che il popolo greco scelga da solo quale debba essere il presente e il futuro del proprio Paese. La Grecia conosce la resistenza, la democrazia e il coraggio e noi la sosteniamo. Vi accompagno e vi auguro molta forza e speranza.
L’autore è premio Nobel per la pace (Traduzione di Grazia Tuzi)
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«Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata».
Huffington post, 30 giugno 2015
Per un governo rappresentativo si tratta di una decisione determinante, una di quelle gravide di conseguenze non rivedibili per questa generazione e quelle a venire. La consultazione dei diretti interessati sul Memorandum politico dell'austerità è per questo legittima. Ma è anche ragionevole in vista proprio della continuazione della trattativa. Segno di un governo che rischia e ha il senso della gravità del momento. Del resto, nonostante sia identificato come un governo di sinistra radicale, la maggioranza dei greci che lo hanno votato, ha scritto Stathis Gourgouris, non é composta di persone ideologiche, ma di cittadini stanchi delle impotenze dei governi precedenti, della mancanza di coraggio delle leadership tradizionali. Il voto a Syriza ha espresso una richiesta di coraggio, di mutamento di percorso. E la sua classe politica giovane e nuova ha anche per questo avuto il sostegno di persone politicamente distanti.
Un fatto va sottolineato, e che non appare nei resoconti catastrofisti di questi giorni: Syriza ha pensato che per uscire dallo stallo della trattativa a Bruxelles solo l'appello al popolo poteva rimettere in moto le cose. Gli scienziati politici hanno in varie occasioni messo in evidenza come la scelta radicale, per esempio il ricorso diretto alla voce del popolo, ha precisamente la funzione di imprimere una svolta che dia nuovo vigore e immaginazione alle forze in campo. Non è il referendum che le erode, del resto.
L'erosione deriva semmai dal far trascinare la trattativa troppo a lungo perché questo rischia di generare una crescente incomprensione nei partner in quanto mette in moto emozioni ostruttive, come la diffidenza e perfino il disprezzo personale tra i contraenti. Le trattative faccia-a-faccia sono cruciali quando vi é la volontà di risolvere il contenzioso in modo che tutti abbiano covenienza. Ma la lunghezza dei tempi gioca contro perché apre lo spazio alla guerra psicologia, che mira non a trovare una soluzione equa o non a somma zero, ma ad annientare l'avversario.
In questo senso, il referendum puó avere la funzione di stemperare gli umori psicologici spostando il problema sul terreno della procedura e dell'aspettativa assolutamente impersonale, quale é l'esito di un voto segreto. Sappiamo del resto che in molti casi, forme di democrazia diretta hanno il merito di stabilizzare le relazioni pubbliche perché orientano chi deve subire le conseguenza di una decisione all'accettazione delle scelte, anche le più ostiche (il caso esemplare é quello della Svizzera, che si é consolidata con i referendum). A giudicare dai movimenti della diplomazia mai interrotta a Bruxelles, è probabile che il referendum greco abbia il merito di rianimare la scena e mettere in campo proposte nuove e intenzioni meno macchinose e fatali. Sia che Syriza perda o vinca, il referendum potrà forse stabilizzare anziché destabilizzare le relazioni tra Grecia e Europa, poiché il popolo greco si fa direttamente responsabile.
Sarebbe desiderabile valutare positivamente l'onestà e il coraggio di questo governo, virtù determinanti in una fase di grande difficoltà come l'attuale. Virtù politiche che hanno il potere di tenere insieme una situazione difficilissima e aprire vie d'uscita.
Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata come ha commentato Paul Krugman. Il referendum é a ben guardare il gesto di una politica europeista non anti-europeista. Solleva direttamente una questione che vale per tutti gli europei: che Europa é questa che tratta il debito secondo una logica contrattualistica privata e non sa comprendere la legittimità democratica che un popolo ha di tentare strade meno dolorose e ingiuste? Su quali basi e con quale logica la dirigenza europea pensa di poter evadere una richiesta democratica di mutare rotta per avviare una diversa strategia di risoluzione del debito che faccia perno sulla crescita e non sui tagli?
Il referendum greco ha posto un problema all'Europa, un problema che deve essere risolto in e con l'Europa: quello di un modo diverso di affrontare le politiche del debito - cioé come politiche di risanamento e di crescita, non di punizione. Così è stato in Europa dopo la distruzione lasciata dalla guerra, così dovrebbe essere oggi dopo la distruzione lasciata da questa crisi economica. E la scossa del referendum, nella sua tragicità può aiutare a intraprendere questo percorso.
Così la cancelliera sacrifica la battaglia greca per superare un’altra prova: salvare l’Euro(pa). In qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei.
Corriere della Sera, 1 luglio 2015 (m.p.r.)
Berlino. Nel finale della partita greca, Angela Merkel ha scelto di sacrificare il breve termine per il lungo: non salvare necessariamente la Grecia rinnegando i principi ma cercare di proteggere l’euro. Decisione rischiosa: non si può sapere cosa abbia in serbo il futuro. Ma decisione in parte obbligata e potenzialmente saggia: l’evoluzione della realtà è spesso benigna per gli statisti pronti a perdere una battaglia per vincere la guerra.
«Inammisibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».
«Un mini esercito di eroi per caso sostituisce lo Stato e fa a gara di solidarietà per salvare i più bisognosi».
La Repubblica, 1 luglio 2015 (m.p.r.)
Atene. L’armata degli angeli anti-crisi di Atene si è regalata un nuovo iscritto di peso. «Ci stavamo pensando da un po’» ammettono alla sede dell’Associazione dei medici ellenici. Poi domenica scorsa, davanti alle immagini in tv delle code ai bancomat e agli allarmi sulle scorte di medicine nelle farmacie, hanno rotto gli indugi. «Crisi o non crisi una cosa non cambia: i greci non hanno perso il vizio di ammalarsi», scherza Eirini Vathis, infermiera all’Evangelismos. E così la mini-Confindustria dei dottori – davanti al rischio dell’ennesima emergenza sanitaria - ha acceso il pc e mandato una mail a tutti i suoi iscritti: «Questa settimana, almeno fino al referendum, vi preghiamo di curare gratuitamente chiunque ne avesse davvero bisogno».
Articoli di di Dimitri Deliolanes e di Pavlos Nerantzis. sugli eventi di una giornata cruciale, per L'Europa e il suo futuro. Il manifesto, 1° luglio 2015
Ad Atene in piazza il fronte del sì
di Pavlos Nerantzis
Il governo greco non accetta l’ultima proposta in extremis dei «creditori», e conferma: «Referendum non in discussione»
Una giornata piena di riunioni al Megaro Maximou, sede del governo, ma anche di informazioni contraddittorie per un’eventuale intesa tra Atene e i suoi creditori. A piazza Syntagma di fronte al parlamento, questa volta era presente il «fronte del sì», ovvero i greci che vorrebbero ad ogni costo un accordo con le «istituzioni». Migliaia di persone a manifestare la volontà di accettare le condizioni dei creditori, spinti per strada — forse — dalla campagna mediatica dell’opposizione che ritiene che il referendum possa allontanare, per sempre, la Grecia dalla Ue.
Di sicuro rappresentano una parte dei greci, compresi alcuni elettori di Syriza, che non vogliono in alcun modo il rischio di un’uscita dall’euro. Il premier Tsipras (che ieri ha avuto comunicazioni telefoniche con Draghi, Merkel, Hollande e Schulz), secondo alcuni media locali si sarebbe schierato a favore di una soluzione sostenibile; altre fonti — invece — dicevano che «siamo molto vicini ad un’intesa». Lo stesso Tsipras che fa campagna per il «fronte del no», è stato chiaro anche durante un’intervista alla tv pubblica Ert lunedi sera: «rispetteremo la volontà dell’elettorato, anche se io non sono un uomo per tutte le stagioni». Vale a dire che nel caso vincesse il «fronte del sì», il premier non ha altra scelta che dimettersi, aprendo la strada ad un ricorso anticipato alle urne e a un periodo di instabilità politica. In tal caso il governo delle sinistre sarebbe una parentesi e la sconfitta non sarà soltanto greca.
A questo punto si pone la domanda: perché il premier greco non si è aggrappato all’opportunità fornita da Juncker, che avrebbe proposto un accordo in extremis (con l’aliquota dell’Iva al 13% per gli alberghieri e i servizi turistici e non al 23%) e un impegno da parte dell’ Eurogruppo per una ristrutturazione del debito? Tanto è vero che Tsipras ha annunciato il referendum per far maggior pressione sulle «istituzioni» affinché riducessero le pretese per arrivare ad un’intesa e per «distribuire» il peso della responsabilità di una decisione che potrebbe essere interpretata come una resa ai creditori o, in caso contrario, un salto nel buio.
Nel caso dovesse esserci un accordo prima del referendum della domenica prossima ci sono due possibilità: o la consultazione verrà annulata, un’eventualitá tutto sommato scarsa — «il referendum comunque sarà realizzato» ha detto ieri il ministro Nikos Pappas, braccio destro di Tsipras — oppure il governo si schiererà a favore del «si».
La maggioranza dei greci vuole continuare a utilizzare la moneta unica e preferirebbe un accordo con i partner europei del Paese piuttosto che una rottura. È quanto risulta da due sondaggi effettuati prima di sabato, giorno in cui Tsipras ha annunciato il referendum. Nel sondaggio della Alco per il settimanale Proto Thema, il 57% degli intervistati ha detto di ritenere che la Grecia dovrebbe fare un accordo con i partner europei, mentre il 29% ha detto di preferire una rottura.
Dal sondaggio condotto dalla Kapa Research per il quotidiano To Vima è emerso che il 47,2% degli intervistati voterebbe a favore di un accordo, per quanto doloroso, con i creditori, contro il 33% che voterebbe no e il 18,4% di indecisi. Entrambi i sondaggi sono stati condotti a livello nazionale dal 24 al 26 giugno. Tenendo poi conto del clima di preoccupazione e di tensione creatosi dalla decisione di chiudere le banche greche, analisti fanno notare che «la percentuale a favore di un’intesa e quindi del sì dovrebbe essere aumentato».
A questo spostamento ha contribuito la campagna di intimidazione, se non di terrorismo dell’opinione pubblica da parte dei media mainstream, alimentata da altri due fattori: la chiusura delle banche seguita dal capital control e il limite dei 60 euro al giorno dai bancomat. Oggi apriranno i battenti a quasi mille filiali per pagare le pensioni ai clienti che non possiedono carte di credito, ma il clima è peggiorato rispetto ai giorni precedenti.
La confusione, l’ansia e il nervosismo sono evidenti sui volti delle persone, in gran parte pensionati, che sotto la pioggia fanno delle lunghe file di fronte ai bancomat, soprattutto quelli della National Bank of Greece. La polizia greca è stata posta in stato di allerta nel timore di attentati dinamitardi contro i bancomat o tafferugli tra i clienti in fila. Preoccupati pure i commercianti e le aziende di esportazione, perché oltre al calo pauroso delle vendite — già ridotte — hanno problemi di liquidità. 350 milioni di euro saranno persi questa settimana, secondo l’Associazione dei commercianti di Atene. Inoltre, il «fronte del sì» sta crescendo perché il governo non ha ancora chiarito cosa fare il giorno dopo il referendum nel caso vincesse il «no», rispetto alle proposte dei creditori. Il discorso generico «avremo un potere di negoziato più forte» convince i militanti di Syriza, ma non tanti altri elettori.
Un «no» forte sicuramente rafforzerà il potere contrattuale del premier greco, ma presentandosi a Bruxelles Tsipras rischia di non trovare i suoi interlocutori delle «istituzioni» perché semplicemente potrebbero dire che il negoziato è terminato. A quel punto la Grecia camminerà su «acque sconosciute». La Bce potrebbe chiudere i rubinetti –da ieri il Paese non è più nel programma di aiuti e l’agenzia di ratings Fitch ha declassato le quattro banche elleniche al grado Rd (fallimento in parte, Restricted default)- provocando in un primo momento il crollo del sistema bancario greco e in seguito, l’intervento dello stato. Con un’economia in ginocchio da parecchi anni causa recessione, il governo greco, anche se non lo vuole, non avrebbe altra possibilità che chiedere aiuti da paesi fuori dalla Ue, nazionalizzare gli istituti di credito e stampare la dracma.
Tsipras, il vero europeista
di Dimitri Deliolanes
Alexis Tsipras è un europeista. Non di quelli tutti retorica e finanziamenti: è un europeista vero, di quelli che ci credono. Lo si è visto nella sua lunga intervista alla tv pubblica Ert lunedì sera. I giornalisti gli avevano chiesto perché ha lasciato che la Grecia rimanesse fuori dal programma di “salvataggio” che scadeva ieri, in modo che la Bce non potesse stendere la sua copertura (Ela) sulle banche greche. Da qui lo sgradevole provvedimento di chiudere le banche per evitare il bank run.
La risposta del premier greco è stata una testimonianza di europeismo: «Non me lo aspettavo — ha ammesso Tsipras — il prolungamento era stato sempre concesso, non immaginavo che lo negassero per una settimana». In altre parole, Tsipras ha ammesso di non essersi aspettato l’atto di guerra annunciato sabato scorso con sorrisetto odioso da Diijsselbloem e finalizzato a far spargere la paura tra i greci e condizionare l’esito del referendum.
Un’operazione che ha avuto un certo successo: se prima della chiusura delle banche la vittoria del no era scontata, ora le cose sono cambiate. Una parte non trascurabile dell’opinione pubblica si è fatta condizionare: dalle emittenti oligarchiche che non perdono occasione di annunciare catastrofi cosmiche, dalla retorica su presunti grexit che rimbalza tra Atene e le capitali europee, ma anche dalla incertezza reale riguardante i rapporti tra la Grecia e l’Europa.
Tsipras non se lo aspettava perché pensa che l’Ue sia un’Unione di paesi di pari dignità, la patria della democrazia e dei diritti dell’uomo. Ma ora sembra abbia decisamente realizzato che l’Ue, e in particolare l’eurozona, sono il terreno di caccia di mostri finanziari, che hanno anche imposto una loro «Costituzione materiale». Non è ammissibile contestarla. Per questo è stato alzato un muro di intransigenza e menzogne: «Greci dite di sì a qualsiasi proposta venga dai creditori», è stata l’esortazione di Junker.
Tsipras potrebbe pigiare l’acceleratore della crisi dentro l’eurozona, minacciando apertamente di farla esplodere con tutti i filistei. Puntando, per esempio, sul fatto che la Bce e l’Ue sono i garanti del debito greco di fronte al Fmi. Debito greco che non sarà pagato nei prossimi mesi. Ma non lo fa perché è un europeista. Piuttosto che sparare, ha pensato bene di rilanciare la sua proposta di compromesso, pronto, sempre e in qualsiasi momento, a firmare un «accordo sostenibile» per dare indicazioni ai suoi elettori di votare domenica «sì».
La giornata tumultuosa di ieri ha segnato un punto in favore degli sforzi europeisti di Tsipras. Tra conferme e smentite, proposte più o meno attendibili da parte di Juncker e un acceso attivismo da parte di tutti, del gruppo socialista a Strasburgo, del Presidente cipriota, del ministro francese e di quello irlandese (perfino di Renzi che ha concesso una lunga intervista al Sole 24 Ore, perdendo una splendida occasione di tacere) alla fine si è arrivati alla riunione dell’eurogruppo ieri sera, ancora in corso mentre scriviamo.
Egualmente importante è anche la decisione di Atene di risolvere i suoi problemi di liquidità ricorrendo al Mse, il meccanismo di stabilità instaurato alcuni anni fa. In sostanza, si tenta di aggirare le difficoltà create dal dominio di Schauble dentro l’eurogruppo, per instaurare le nuove misure su un piano completamente nuovo. In altre parole, né no né sì ma una terza proposta, ancora tutta da negoziare. Con il vantaggio che ai negoziati non parteciperà il Fmi.
a menzogna è la prima regola rispettata in Italia (e in Europa). Il peggio è che è una menzogna senza innocenza: non meriterebbe d'essere accostata al ligneo Pinocchio.
Il manifesto, 1° luglio 2015
Finalmente qualcuno che, anziché cercare riparo dietro la fatidica affermazione “ce lo chiede Bruxelles”, come ci hanno abituato i governanti europei, pretende di dire la sua sulle scelte lì compiute.
E’ certo vero che nella stessa Grecia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vorrebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è questo l’oggetto della consultazione. Tsipras chiede più forza per negoziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il possibile eventuale e deprecato esito di un fallimento definitivo del negoziato.
Un’eventualità che in queste ore sembra forse scongiurata, sebbene il signor Tusk, il più rude delle istituzioni, abbia all’ultimo appuntamento buttato fuori dal tavolo i negoziatori greci, dichiarando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il contrario). E’ una speranza flebile, ma già dimostra che rifiutare i ricatti è giusto.
Purtroppo tutta la lunga trattativa è stata accompagnata da un frastuono mediatico che ha creato grande confusione. E così la gente meglio intenzionata continua a chiedere se è proprio vero che i greci hanno una pletora di dipendenti pubblici, quando invece ne hanno, proporzionalmente, la metà della Germania.
Se è vero che vanno tutti in pensione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è superiore a quella dell’Unione europea e la spesa pubblica per il pensionamento, sempre proporzionalmente, metà di quella francese e un quarto di quella tedesca. La produttività è bassa ma è cresciuta assai di più che in Italia e persino che in Germania.
Se poi si guardano nei dettagli i punti sui quali la squadra greca ha trattato e si è rifiutata di accogliere le proposte delle istituzioni europee è difficile rimanere insensibili alle sue ragioni: rifiutare un aumento dell’Iva sui generi di prima necessità (cibo, prodotti sanitari, elettricità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turismo; respingere la richiesta di varare una legge che consenta licenziamenti di massa. Rifiuto, anche, a cancellare i prepensionamenti esistenti, ma bisogna ben tener conto che una quantità di gente è stata licenziata e non ha altre fonti di sostentamento. E invece è Bruxelles che ha rifiutato la richiesta greca di un aumento del 12 % di tasse sui profitti che superano i 500.000 milioni.
Si continua a ripetere ossessivamente che la Grecia deve fare le riforme, ma, come del resto in Italia, non si dice mai esattamente di quali riforme si tratti e in che modo quelle proposte, o attuate (vedi job act o Italicum da noi) possano in qualche modo aiutare una ripresa economica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una politica tanto miope da impedirla? Questa è la lezione che viene dalla Grecia: se invece di insistere su questa come sola ricetta già dal 2010 si fossero invece sacrificati pochi soldi per consentire gli investimenti necessari alla modernizzazione del paese non saremmo a questo punto.
I greci oltre che fannulloni sarebbero anche imbroglioni perché hanno preso i soldi e non li restituiscono. Se qualcuno avesse memoria, un bene che sembra ormai raro, ci si ricorderebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scoppiò il dramma del debito accumulato dai paesi del terzo mondo da poco arrivati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vittime di quelli che allora non si ebbe timore di chiamare “spacciatori”. Perché è così che si indebitarono oltre il ragionevole: per l’insistente offerta di accedere a un modello di consumo superfluo e dannoso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto perché così conveniva ai prestatori che poi passarono a chiedere il conto.
La Grecia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accumulata proprio così, per colpa di banche e di imprese senza scrupoli. Che peraltro sono state oggi — erano tedesche sopratutto ma non solo — felicemente ripagate con danaro pubblico europeo.
Quando, poco dopo l’ingresso della Grecia nella Comunità Europea, nell’81, si arrivò al semestre di presidenza affidato per la prima volta ad Atene, l’allora ministro degli esteri del governo di Andreas Papandreu, Charampopulos, dichiarò: «Non possiamo restare silenziosi di fronte a una linea politica che non prende in considerazione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ricchi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il prossimo ingresso di Spagna e Portogallo, soffrirà di un drammatico gap nord-sud per affrontare il quale sarà necessario un vasto trasferimento di risorse pubbliche e di un piano statale inteso a condizionare le selvagge regole del mercato».
Si trattò di una saggia previsione. Di cui tuttavia anche il governo socialista greco finì per dimenticarsi, sicché anche quando i governi socialisti furono in maggioranza nel Consiglio europeo non ci fu alcuna modifica sostanziale nella linea politica dell’Unione. Fu proprio allora che fu decisa la libera circolazione dei capitali senza che alcuna misura di controllo e di unificazione fiscale fosse assunta.
Renzi avrebbe avuto una buona occasione per riprendere il discorso e far valere le ragioni dei paesi europei del Mediterraneo, contro la logica assurdamente e falsamente omologante che pretende di adottare linee di politica economica analoghe per realtà così diverse. Fa comodo, naturalmente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli straccioni del sud. Per di più comunisti. «Un’Europa senza il Mediterraneo sarebbe — come ha scritto Peredrag Matvejevitch — un adulto privato della sua infanzia». Cioè un mostro.
Quando l’altro giorno ho sentito nel corso di un medesimo giornale radio che le ultime notizie da Bruxelles riguardavano un formaggio senza latte, un cioccolato senza cioccolata, e sopratutto un territorio senza immigrati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo.
Ma non si può. Con la globalizzazione abbiamo perduto quel tanto di sovranità che gli stati nazionali ci consentivano. A livello mondiale è quasi impossibile costruire istituzioni che ce ne restituiscano almeno una parte. La sola speranza è di ricostruirle ad un livello più ampio del nazionale e più limitato del globale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa articolarsi. L’Europa è una di queste. Ma il discorso vale solo se lo spazio comune non è solo un pezzo di mercato, ma una scelta, un modello di produzione e di consumo diversi, una rivisitazione positiva di una comune tradizione. Il negoziato di Atene ci aiuta, in definitiva, ad andare in questa direzione. Ed è per questo che va sostenuto.
«I creditori vogliono essere certi che a pagare il "risanamento" e la permanenza nell’eurozona sia la grande massa proletarizzata dei lavoratori dipendenti, costretti a vivere stabilmente in miseria e in schiavitù. Se a pagare fossero i grandi capitali, i conti tornerebbero ugualmente».
Il manifesto, 30 giugno 2015 (m.p.r.)
C’è un aureo testo di Kant che torna alla mente in queste ore in cui si consuma l’attacco finale alla Grecia democratica da parte dei cani da guardia dell’Europa oligarchica, della finanza internazionale e del Nuovo ordine coloniale a centralità franco-tedesca. Nel 1784, l’autore della Critica della ragione pura, già celeberrimo in tutto il continente, rispondeva alla domanda sull’essenza dell’illuminismo. La individuava nella scelta dell’autonomia; nella decisione consapevole e non priva di rischi di «uscire da una minorità della quale si è responsabili».
Intendeva dire che affidarsi alla guida di un tutore che per noi sceglie e delibera è umiliante benché comodo. Che la libertà è affascinante ma il più delle volte pericolosa. E che l’insegnamento fondamentale del movimento dei Lumi che di lì a poco avrebbe portato i francesi a sollevarsi contro l’autocrazia dell’antico regime consiste proprio in questo: nel considerare l’esercizio dell’autonomia individuale e collettiva un inderogabile dovere morale e politico. Un fatto di dignità. Essere uomini significa in primo luogo decidere per sé e rispondere delle proprie scelte. Rifiutarsi di vivere sotto il giogo di qualsiasi potere imposto con la violenza delle armi o della superstizione, del denaro o del conformismo.
Sono trascorsi oltre due secoli densi di storia. Il mondo è cambiato. Ma nessuno direbbe che quelle di Kant sono considerazioni arcaiche, inadatte al nostro tempo. Siamo tutti pronti a sottoscriverle. Riformulate con parole meno alate, le ripetiamo ogni qualvolta ragioniamo sui principi democratici ai quali vorremmo si ispirassero le nostre società. Eppure che succede quando i nodi vengono al pettine e la dignità di tutto un popolo è messa davvero in discussione, quando un intero paese è posto di fronte al bivio tra minorità e autonomia?
Anche se televisioni e giornali di tutto il mondo fanno a gara per nascondere la realtà descrivendo i greci come un gregge di bugiardi parassiti (e attenzione: vale per i greci oggi quel che ci si prepara a dire domani sul conto di spagnoli, portoghesi e italiani, sudici d’Europa), è abbastanza chiaro il motivo per cui Ue, Bce e Fmi hanno deciso di scatenare la guerra contro la Grecia. I soldi (pochi) sono più che altro un pretesto. La sostanza è il modello sociale che deve prevalere.
I creditori vogliono essere certi che a pagare il «risanamento» e la permanenza nell’eurozona sia la grande massa proletarizzata dei lavoratori dipendenti, costretti a vivere stabilmente in miseria e in schiavitù. Se a pagare fossero i grandi capitali, i conti tornerebbero ugualmente. E solo così l’economia greca potrebbe per davvero risanarsi. Ma il prezzo politico sarebbe esorbitante, tale da vanificare quanto è stato sin qui fatto, per mezzo della crisi, al fine di «riformare» i paesi europei e conformarli finalmente al modello neoliberale di «società aperta».
La partita è quindi squisitamente politica. Se non c’è di mezzo tanto un problema di ragioneria quanto una questione politica di prima grandezza – il modello sociale, appunto: i criteri base dell’allocazione delle risorse – allora è sacrosanta la pretesa del governo greco che a decidere se obbedire o meno ai diktat della troika sia il popolo che dovrà pagare le conseguenze delle decisioni assunte in sede europea. È un fatto elementare di democrazia. Che però sposta il conflitto sul terreno, cruciale e decisivo, della legittimazione dell’Europa unita: uno spostamento del tutto inaccettabile.
Non c’è da sorprendersi se proprio la decisione di Tsipras di andare al referendum popolare abbia fatto saltare il banco. L’Europa – questa Europa dei tecnocrati e degli speculatori – può accettare molte deroghe. Può tollerare gravi infrazioni alle regole finanziarie, come ha dimostrato proprio nei confronti di Francia e Germania. Può anche faticosamente chiudere un occhio su qualche misura tesa a ridurre l’iniquità delle cosiddette riforme strutturali che i paesi sono chiamati a realizzare per conformarsi al modello sociale prescritto.
Ma sulla questione delle questioni – la sovranità – non si transige. Nessuno può rimettere in discussione il fatto che in Europa i presunti «popoli sovrani» non hanno voce in capitolo sul proprio destino. Finché si scherza, magari fingendo di avere un parlamento europeo, bene. Ma guai ad aprire una breccia sulla costituzione dispotica dell’Unione, che è il suo fondamento ma anche, a guardar bene, il suo tallone d’Achille.
Se questo è vero, allora un silenzio pesa assordante mentre le cronache documentano le battute finali di quest’ultima guerra intestina del vecchio continente. Dove sono finiti i «grandi intellettuali», quelli che lo spirito del tempo designa a propri portavoce, coloro la cui sapienza e saggezza reca l’onore e l’onere di indicare la retta via quando il cammino si ingarbuglia? Non se ne vede l’ombra. Tutto su questo fronte tace, come se si trattasse di bazzecole. Eppure c’è ancora qualche sedicente filosofo, qualche storico, qualche giurista o sociologo in Europa. C’è chi si atteggia a interprete autentico della crisi e sforna a ripetizione libri che discutono di Europa e di democrazia. Forse che, per tornare al vecchio Kant, ciò che vale in teoria non serve a nulla in pratica?
Ci si domanda che farebbe oggi un novello Zola (o un nuovo Sartre) di fronte alla prepotenza e alla viltà di quest’Europa. Eppure non occorrono gesti eroici per ricordare che esistono diritti inviolabili, per chiarire che nessuna ragione al mondo consente di scaraventare un popolo nell’indigenza e nella disperazione, per rammentare che in questa partita torti e ragioni sono, come sempre, ripartiti fra tutte le parti in causa. Niente. Silenzio. A sbraitare è solo chi può permettersi di svolgere due parti in commedia, il ruolo dell’accusatore e quello del giudice. Quanto all’imputato, stiamo molto attenti. Nati a Palermo o a Siviglia, a Milano o a Lisbona, siamo tutti quanti greci anche noi.
«Intervista all'’economista Emiliano Brancaccio: “Se l’Euro registrerà una crepa sarà bene che avvenga da sinistra e non sull’onda nera montante di forze ultranazionaliste e xenofobe"».
Il manifesto, 30 giugno 2015
I «creditori» respingono la proposta del governo greco e chiedono altre dosi di lacrime e sangue. Tsipras si smarca dal ricatto e indice un referendum, invitando a votare «no» alle richieste delle istituzioni europee e del Fmi. Siamo a un passo dall’uscita della Grecia dall’euro? Quali saranno le ripercussioni per il nostro paese e per l’Unione europea? E in questo guado così difficile, quale linea dovrebbero assumere le forze politiche della sinistra? Ne parliamo con Emiliano Brancaccio, che insegna Economia politica ed Economia internazionale all’Università del Sannio ed è stato promotore del «monito degli economisti» sulla crisi dell’eurozona pubblicato nel 2013 sul Financial Times.
Professor Brancaccio, i principali organi di stampa attaccano la decisione di Tsipras di indire un referendum con cui chiede al popolo greco di respingere la bozza dei cosiddetti «creditori». Tornano alla ribalta gli slogan sui «greci irresponsabili», che rifiuterebbero di «fare i compiti» per risanare i conti e pretenderebbero di «prosperare a spese degli altri». Che ne pensa?
Basta osservare le statistiche ufficiali per rendersi conto che la realtà è un’altra. Negli ultimi cinque anni i governi greci hanno diligentemente applicato le ricette di austerity e di riduzione dei salari imposte dalla Troika. La spesa pubblica è crollata del venticinque percento e le buste paga sono precipitate di oltre il venti percento. Il risultato di queste misure è stato catastrofico: la più pesante caduta della domanda, della produzione, dell’occupazione e dei redditi mai registrata in epoca di pace, e un boom conseguente del rapporto tra debito e reddito. Il caso della Grecia sarà ricordato nei libri di storia economica come la prova empirica per eccellenza del fallimento della dottrina dell’austerity e della deflazione salariale.
In queste ore però c’è chi è tornato a sostenere che il disastro in cui versa la Grecia dipende anche dal fatto che per entrare nell’euro i governi ellenici truccarono i conti.
È un’altra opinione infondata. Innanzitutto ricordiamo che i ritocchi contabili li hanno fatti in tanti, persino i tedeschi. Ma poi stiamo ancora ai dati. Eurostat ha stimato che tra il 1999 e il 2001 i «trucchi contabili» della Grecia per entrare nell’euro ammontarono a meno di 10 miliardi. Non è una gran cifra se consideriamo che da quando la Grecia nel 2010 si è sottoposta ai programmi della Troika, sono stati effettuati tagli alla spesa pubblica per un ammontare complessivo di ben 106 miliardi. Insomma, i famigerati «trucchi» per entrare nell’euro non rappresentano nemmeno il dieci percento degli enormi sacrifici compiuti dai greci per tentare di restarci, dentro la moneta unica.
Veniamo alle possibili conseguenze del referendum. Matteo Renzi afferma che si tratta di una scelta tra un «sì» e un «no» all’euro, lasciando intendere che lui sosterrà il «sì». Qual è la sua posizione?
Un’eventuale vittoria dei «sì» prolungherebbe solo l’agonia della Grecia e in prospettiva non garantirebbe la permanenza del paese nell’Unione monetaria. Di sicuro, invece, affosserebbe per lungo tempo qualsiasi ipotesi di rilancio della sinistra, in Grecia e non solo. Non escluderei la possibilità che Renzi miri esattamente a questo esito. Il «no» è l’unica opzione sensata.
Ma il «no» del popolo greco alla bozza delle istituzioni europee implicherebbe un’uscita del paese dall’euro? Il ministro delle finanze Varoufakis continua a sostenere che la «Grexit» non è un’opzione contemplata dal suo governo. Esiste ancora la possibilità di riaprire la trattativa?
Gli spazi di manovra si stanno stringendo, al punto in cui siamo non scommetterei su un’intesa. Molto dipenderà dal comportamento della Banca centrale europea. In passato Draghi e gli altri membri del direttorio hanno condizionato i loro interventi di salvataggio al fatto che i paesi in difficoltà accettassero di sottostare ai memorandum imposti dalla Troika, come nel caso cipriota. Se a Francoforte non hanno cambiato improvvisamente linea, a un eventuale «no» al referendum probabilmente risponderanno con il blocco dei finanziamenti alle banche greche. A quel punto la Grecia sarebbe costretta ad avviare un percorso di uscita dall’euro. Ma Tsipras e Varoufakis potrebbero affermare che sono stati buttati fuori dall’Unione, e che la responsabilità dell’uscita è a carico della BCE e dei «creditori». In fin dei conti avrebbero ragione.
Anche a sinistra, c’è grande timore nei confronti di un tracollo generale dell’eurozona. La Grecia può diventare il fattore scatenante in grado di mettere in crisi l’intero progetto di unificazione europea?
La migliore ricerca economica sostiene, da anni, che quello dell’eurozona è un progetto nato male, che crea squilibri continui tra paesi creditori e debitori e in prospettiva non è sostenibile. Presto o tardi bisognerà prenderne atto, occorrerà ripensare i termini delle relazioni economiche internazionali. Occorre che la sinistra affronti questa nuova fase storica con una propria visione e un progetto, potremmo dire un «nuovo internazionalismo del lavoro». Anche per questo, se l’impianto della moneta unica dovrà registrare una crepa, sarà bene che ciò avvenga da sinistra, su impulso di un’Atene rossa, piuttosto che sull’onda nera montante di forze ultranazionaliste e xenofobe.
«Nella dannosa confusione di ruoli nell’Eurozona di questi mesi l’unica istituzione che ha fatto politica (cioè compromessi) è stata quella che dovrebbe essere solo un organismo tecnico: la Bce». Articoli di Angelo Baglioni e Fausto Panunzi.
Lavoce.info, 20 giugno 2015 (m.p.r.)
GRECIA: E ORA COSA SUCCEDE?
di Angelo Baglioni
Salvo sorprese dell’ultimo minuto, la Grecia sta scivolando verso l’insolvenza e l’uscita dall’euro. L’impatto immediato sarà drammatico per il paese ellenico. Ma in futuro chi rischia di perderci maggiormente saranno gli altri paesi europei. A cominciare dal nostro.
Le prospettive della Grecia…
Salvo una iniziativa a sorpresa, e molto tardiva, dei governi europei nelle prossime ore, domenica 5 luglio il popolo greco sarà chiamato a votare su un piano di assistenza finanziaria, condizionato a misure fiscali ed economiche, che di fatto non esiste più. Il piano è stato infatti ritirato dai ministri finanziari dell’Eurogruppo sabato 27 giugno, non appena appresa la notizia della indizione del referendum, che è stata accolta come una rottura delle trattative. Tecnicamente si tratta di un referendum privo di senso, anche per il fatto che implicitamente il popolo è chiamato a rispondere su una materia fiscale, che in genere non può essere materia referendaria per ovvie ragioni (non si va a chiedere alla gente se è d’accordo su un aumento della tasse). Tuttavia, il referendum ha un forte significato politico,sebbene Tsipras continui a negarlo: in sostanza il popolo greco deve decidere se restare nell’euro a ogni costo (comprese le misure imposte dalla Troika adesso e in futuro) oppure lanciarsi in un’avventura che potrebbe molto probabilmente portare il paese a uscire dall’euro.
(i) le banche greche siano solvibili e (ii) i titoli presentati a garanzia siano accettati dalla Bce. Entrambe queste condizioni verranno meno con l’insolvenza dello Stato greco: (i) le banche subiranno perdite sui titoli detenuti in portafoglio e sui crediti alle imprese e alle famiglie, data la situazione che si verrà a creare, tali da erodere il loro patrimonio e portarle in una situazione di insolvenza; (ii) ben difficilmente la Bce potrà considerare accettabili come garanzia i titoli di debito di uno Stato insolvente, per di più verso la Bce stessa. Non a caso, il 28 giugno la Bce ha deciso di porre un limite a questi finanziamenti: per ora si è limitata a non aumentarli, ma è chiaro che è un passo verso la revoca, se la situazione dovesse precipitare. Una volta venuti meno i prestiti della Bce, l’unico modo per fare funzionare le banche greche sarà introdurre una nuova moneta, emessa dalla banca centrale greca. In una parola: Grexit.
…e per noi
Le conseguenze immediate del fallimento della Grecia e della sua uscita dall’euro potrebbero essere limitate. L’esposizione delle banche e dei soggetti privati è molto ridotta. Quella del governo è maggiore (50-60 miliardi), attraverso diversi canali (prestiti diretti, Fondo di stabilità europeo, Bce), ma l’impatto sui conti pubblici sarebbe dilazionato nel tempo. Quanto ai tassi d’interesse, l’Italia gode al momento dell’accesso ai mercati finanziari a costi bassi, anche per merito del Quantitative easing avviato dalla Bce a febbraio. Tuttavia, questo piano prima o poi terminerà, presumibilmente nel settembre del 2016. L’altro strumento a disposizione della Bce, l’Omt è di difficile utilizzo, poiché richiede che un governo stipuli un accordo di assistenza finanziaria con il Fondo di stabilità europeo (Esm), cosa che nessuno vuole fare per evitare di sottoporsi alle torture della Troika. Quindi in futuro l’uscita delle Grecia ci potrà danneggiare molto: qualora la sostenibilità della nostra finanza pubblica venisse rimessa in discussione, il rischio di nostra uscita dall’euro alimenterebbe la speculazione, e nessuno potrebbe più dire che l’euro è irreversibile. Questa, come abbiamo già sostenuto, è la differenza tra una unione monetaria e un accordo di cambio. Il ritorno del rischio di break-up potrebbe riportare lo spread ai terribili livelli del 2011. Più in generale, l’uscita della Grecia sarebbe l’inizio della fine per l’euro e comporterebbe un’inversione del processo di integrazione europea. Speriamo che i governi europei nelle ultime ore disponibili evitino il disastro. In fin dei conti, il resto dell’Europa ha molto più da perdere dal Grexit che la Grecia stessa.
ATENE, DOVE FALLISCE LA POLITICA EUROPEA
Un accordo reciprocamente vantaggioso tra la Grecia e i suoi creditori sembrava possibile. Invece, si è arrivati alla rottura. Per molte ragioni, ma certo è che la governance dell’Eurozona non funziona. L’unica istituzione europea che in questo periodo ha fatto politica è stata la Bce.
Perché l’accordo era quasi certo
La scorsa settimana si era aperta all’insegna dell’ottimismo. La soluzione all’ormai estenuante trattativa tra il governo greco e le sue controparti europee sembrava essere a un passo. Poi c’è stato il moltiplicarsi dei vertici a Bruxelles fino all’annuncio del referendum chiesto da Alexis Tispras. Adesso è partito, come c’era da aspettarsi, il gioco a identificare il colpevole. Ma forse è più utile fare un passo indietro e capire la posta in gioco e quali fattori possono avere contribuito a questa impasse.
Considerate un’impresa che abbia un livello del debito molto elevato, tale da non poter essere interamente ripagato. L’impresa ha anche un nuovo progetto d’investimento che, se finanziato, genera utili. In questa situazione, potrebbe accadere che gli azionisti si rifiutino di finanziare il nuovo progetto perché gli utili da esso generati andrebbero a beneficio soprattutto dei creditori.
Che cosa è andato storto
Cosa è andato storto? In primo luogo, alcune delle istituzioni coinvolte non possono accettare una esplicita cancellazione, anche solo parziale, dei loro crediti. Questo rende anche le altre parti coinvolte meno propense a fare concessioni. In secondo luogo, la rinegoziazione è più difficile quando ci sono molte parti sedute al tavolo, specie se hanno obiettivi diversi. Chi parla per l’Europa? Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk? Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker? La cancelliera Angela Merkel? Chi di loro ha l’ultima parola? Dover convocare un Consiglio europeo ogni volta che un accordo sembra in vista non è il modo più efficace per convergere verso una soluzione. In terzo luogo, hanno pesato considerazioni politiche e non economiche.
Già trent’anni fa Giorgio Ruffolo definiva il Prodotto nazionale lordo, un “idolo bugiardo”. Un indice al quale veniva attribuita la capacità di dar conto non solo della crescita economica di un paese, ma anche del suo progresso sociale.
La necessità di una tale innovazione è evidente nell’attuale fase storica nella quale la politica economica sta forzando la trasformazione degli assetti sociali ereditati dal passato. Legittimato da una teoria economica ristretta alle dimensioni strettamente economiche e quantitative del processo sociale, quando non ridotta esclusivamente agli aspetti finanziari, il policy maker può ignorare le altre dimensioni qualitative del benessere in quanto irrilevanti per le sue conclusioni.
Per tener conto del rapporto tra processo economico e situazione ambientale e socio-culturale non è peraltro sufficiente sviluppare una gamma di indicatori alternativi; è necessaria una teoria economica capace di spiegare come l’azione della politica economica influenzi e sia influenzata da quei fattori del benessere attualmente esclusi dal suo dominio di indagine.
Non si tratta di una questione teorica astratta, anzi. Si consideri, ad esempio, il caso – del Jobs Act? – nel quale la crescita della Pil è perseguita modificando la capacità contrattuale dei lavoratori con il deterioramento delle tutele e lo svilimento del loro ruolo e della loro dignità. Non disponendo di alcuna spiegazione della relazione tra benessere, aumento del Pil (peraltro sperato) e regressione nei rapporti di lavoro (peraltro certi), qualsiasi giudizio sugli effetti di questa politica in termini di benessere risulta infondato. In sostanza, assumere come obiettivo di politica economica il livello del Pil – solo parte del benessere della popolazione – condanna le prescrizioni degli economisti ad essere un’informazione distorta; tali prescrizioni non possono che avere un carattere “autoritario” quando - come si vede nel caso Grecia – si impone una teoria di riferimento che prevede una società ridotta ai soli rapporti economici per mettere a tacere le possibili alternative bollate come non scientifiche perché guardano al di là della sola contabilità nazionale.
Il superamento del Pil come criterio sufficiente per valutare i risultati perseguiti dalla politica economica non pone solo una questione analitica (l’estensione del dominio di indagine dell’economista), ma pone anche una questione politica dato che, in società complesse come la nostra, l’obiettivo di benessere può essere declinato in diversi modi. In altre parole, vi possono essere nel corpo sociale diverse idee di progresso sociale e civile tra le quali poter scegliere e ciò richiede la realizzazione di meccanismi di democrazia partecipata in grado di favorire, in uno spazio aperto e trasparente, le necessarie mediazioni tra interessi inevitabilmente diversi. In definitiva, assumere come riferimento il benessere piuttosto del Pil impone la ricerca di forme più avanzate di analisi economica e di pratiche democratiche.
Ma inevitabili sono anche le resistenze dei poteri costituiti. Ridimensionare il ruolo del Pil nel dibattito e nelle scelte politiche significa intaccare il potere tecnocratico fondato su una teoria economica che non ammette alternative all’assolutezza delle sue prescrizioni. La conquista di spazi di effettiva democrazia passa quindi anche attraverso la contestazione di quel nodo culturale che è l’informazione economica basata sul Pil che, a sua volta, è parte significativa di quella egemonia culturale fondata sulla pretesa “scientificità” di argomentazioni che, in maniera arbitraria e pretestuosa, delimitano i fattori (il prodotto invece del benessere) rilevanti per il futuro della società.
«La Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco».
La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)
Ora, colpire i formaggi significa colpire il cuore del patrimonio agricolo e gastronomico italiano. In Italia esistono oltre 400 tipi di formaggi frutto di una straordinaria diversità: di climi, di paesaggi, di pascoli, di razze animali, di tecniche, di saperi. Sono questi 400 formaggi, dalle tome di montagna alle paste filate del sud - orgoglio e ricchezza di altrettanti territori - che dovrebbero poter «circolare liberamente» in Europa, per restituire valore ai loro luoghi di origine, non di rado in montagne o alte colline che proprio le logiche dell’iperindustrializzazione hanno spinto sempre più ai margini. Ma lo stesso discorso vale per i numerosi formaggi di qualità di altre nazioni, patrimonio di un’Europa che troppo spesso si dimentica di queste realtà per rispondere ad altre logiche.
Alcuni giorni fa, la Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco. Avete capito bene: senza latte. La legge nazionale del 1974 (la numero 138 dell’11 aprile) che vieta l’uso di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito per produrre yogurt, caciotte, robiole e mozzarelle, secondo Bruxelles rappresenterebbe infatti una restrizione alla «libera circolazione delle merci». Libera circolazione delle merci prodotte dalle solite grandi lobby industriali interessate solo a spendere poco per guadagnare tanto, aggiungiamo noi. La legge 138 è una legge nazionale di cui andare fieri, perché ha consentito nel tempo di tutelare e promuovere prodotti unici di altissima qualità: di quel made in Italy di cui tanto ci vantiamo. Mi aspetto che il Governo italiano difenda questa normativa e non una logica al ribasso che non è utile a nessuno, tanto meno all’immagine del nostro Paese.
Al di là di queste cifre, chiediamo loro se conoscono l’Europa che pretendono di difendere, quando invece fanno di tutto per disgregarla definitivamente, deturparne la vocazione, e seminare ripugnanza nei suoi popoli.
Ricordiamo loro che l’unità europea non è nata per favorire in prima linea la governabilità economica, e ancor meno per diventare un incubo contabile e cader preda di economisti che hanno sbagliato tutti i calcoli. È nata per opporre la democrazia costituzionale alle dittature che nel passato avevano spezzato l’Europa, e per creare fra le sue società una convivenza solidale che non avrebbe più permesso alla povertà di dividere il continente e precipitarlo nella disperazione sociale e nelle guerre. La cosiddetta governance economica non può esser vista come sola priorità, a meno di non frantumare il disegno politico europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità — unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale — è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri.
Chiediamo al Fondo Monetario di smettere l’atteggiamento di malevola indifferenza democratica che caratterizza le sue ultime mosse, e di non gettare nel dimenticatoio il senso di responsabilità mostrato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma è soprattutto alle due istituzioni europee che fanno parte della trojka — Commissione e Banca centrale europea — che vorremmo ricordare il loro compito, che non coincide con le mansioni del Fmi ed è quello di rappresentare non gli Stati più forti e nemmeno una maggioranza di Stati, ma l’Unione nella sua interezza.
Chiediamo infine che il negoziato sia tolto una volta per tutte dalle mani dei tecnocrati che l’hanno fin qui condotto, per essere restituito ai politici eletti e ai capi di Stato o di governo. Costoro hanno voluto il trasferimento di poteri a una ristretta cerchia di apprendisti contabili che nulla sanno della storia europea e degli abissi che essa ha conosciuto. È ora che si riprendano quei poteri, e che ne rispondano personalmente.
Barbara Spinelli è europarlamentare indipendente del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica. Étienne Balibar è un filosofo francese
La Repubblica, 29 giugno 2015
Da un puto di vista politico, i grandi perdenti di questa dinamica sono stati i partiti di centro-sinistra, la cui acquiescenza in fase di rigorosa austerità — e il conseguente abbandono di quei valori per i quali avrebbero presumibilmente dovuto battersi — produce danni ben più gravi di quelli che politiche analoghe mietono nel centro-destra.
Ho l’impressione che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta: o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro- destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere.
Tuttavia Tsipras non sembra per ora disposto a lasciarsi cadere sulla propria spada. Anzi: di fronte all’ultimatum posto dalla troika ha indetto un referendum sull’opportunità di accettarlo o meno. La sua scelta produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi.
Per cominciare, una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo).
In secondo luogo Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, è lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo.
Ritengo che spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle.
©New York Times 2015 Traduzione di Marzia Porta
«Difficile da capire l’irrigidimento del Fondo monetario sul salvataggio greco. Dai dati viene fuori che Atene ha fatto molti tagli e alcune riforme anche in campo pensionistico. Con risparmi di spesa solo graduali nel tempo. È ora che i creditori ammettano che servono dieci anni, non tre, per aggiustare la Grecia». Lavoce.info, 26 giugno 2015 (m.p.r.)
Dopo il 2010 la Grecia ha ridotto il deficit pubblico, i salari e aumentato l’età del pensionamento. Oggi il paese è allo stremo, senza soldi per ripagare i suoi debiti. Il Fmi chiede di più, ma i creditori dovrebbero capire che ci vorranno cinque-dieci anni per rimettere la Grecia in carreggiata.
Il 24 giugno del 2011, con Angelo Baglioni e Massimo Bordignon firmavamo un pezzo intitolato “Grecia: peggio di così non si poteva fare”. Ci sbagliavamo: si poteva fare di peggio, eccome! Non si è pensato in tempo ad allungare l’orizzonte temporale dei prestiti e neppure quello delle manovre di consolidamento fiscali (eccessive e perciò recessive) e tantomeno quello delle cosiddette “riforme” (cioè riforma delle pensioni, riduzioni salariali e snellimento del pubblico impiego, rivelatesi altrettanto recessive). Il costo della crisi greca, con l’avvitamento recessivo, è salito enormemente, per i greci e per tutti gli europei. Ma si sa: pacta sunt servanda. Anche se sono pacta sceleris, magari imposti col ricatto dai più forti. Almeno, stavolta, la Bce è in mani più competenti di quelle che la reggevano nel giugno 2011 (anno in cui uno stordito board, ad aprile e ancora a luglio, aumentò il tasso di policy, temendo l’inflazione e non vedendo la seconda recessione europea e l’incombente tragedia greca). Ma, purtroppo, una Bce più saggia non può bastare, per come si sono messe le cose. Così, proprio mentre entriamo nella stagione che, col turismo, vale quasi il 15 per cento del Pil greco di un anno, la probabilità che si verifichi la Grexit è più alta che mai.
Una forte dose di medicina amara…
Eppure. Eppure la Grecia ha eseguito molti dei compiti che i creditori (l’odiata troika) avevano sciaguratamente richiesto. Il deficit pubblico è stato portato dal 15,6 per cento del 2009 al 3,5 nel 2014: il più consistente aggiustamento dell’intera Europa. Il surplus primario aggiustato per il ciclo supera il 5 per cento del Pil: il più alto d’Europa (l’Italia è seconda). Il Pil, nello stesso periodo, si è ridotto di 20 punti percentuali (contro una previsione del Fondo monetario di una riduzione del 5 per cento nei primi due anni e un successivo ritorno, nel 2014, ai livelli del 2009). La medicina fatta ingollare ai greci è stata amara: riduzione dei dipendenti pubblici del 25 per cento (255 mila unità); riduzione dei salari reali senza precedenti, dal momento che i salari nominali sono crollati ma i prezzi no; riforma delle pensioni che ha previsto di aumentare gradualmente l’età di pensionamento da 62 a 65 e poi a 67 anni per tutti (come risulta dall’Ageing Report 2015 della Commissione Europea, pp. 39-40); “riforme strutturali” che hanno portato la Grecia dal centonovesimo al sessantunesimo posto nel ranking del Doing Business Report tra 2010 e 2015. Col bel risultato che s’è detto: tracollo del Pil, aumento dell’incidenza della povertà assoluta e relativa, insolvenza finanziaria con i creditori.
«Thomas Piketty: “serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili. Se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”».
La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)
L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse - quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo Il capitale del XXI secolo - che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.
«Bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra».
Larepubblica.it, 27 giugno 2015 (m.p.r.)
C'è un modo peculiare per tener dietro alla rocambolesca evoluzione della scena geopolitica: star connessi al sito "Viaggiare sicuri" del Ministero degli esteri. Quegli addetti, come generali di una ritirata militare presso a farsi rotta, spostano via via più a ridosso dei nostri confini le bandierine del territorio ancora accessibile. La ritirata riguarda noi, la parte privilegiata, dalla quale si parte con documenti rispettabili, e un biglietto di andata e ritorno in tasca. Dalla parte opposta si viene arrancando, con le tasche vuote di andata e ritorno. La sicurezza, da quell'altra parte, è la più ironica delle parole. Ci si mette in viaggio a rischio della vita. Se si sopravvive, se si tocca terra d'Europa, libertà e democrazia, comincia un'altra traversata, altre soste immemorabili, sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais. Il vero discrimine del mondo di oggi, dice Zygmunt Bauman- lo ridice nel dialogo con Ezio Mauro - non corre più fra ricchi e poveri, ma fra mobilità e fissità, fra chi resta fermo e chi si sposta. Lui parla soprattutto della finanza globale, che a differenza dal capitalismo industriale non sottostà a vincoli territoriali e si muove fulmineamente da un capo all'altro del pianeta, fino ad annichilire la capacità negoziale di lavoratori e sindacati lasciati a boccheggiare su un loro suolo prosciugato.
Ma è la mobilità umana, nella sua doppia faccia, a opporre nuove classi: l'una urtata dalle guerre e le carestie, l'altra spinta da voglia di conoscenza e vacanza. Il fantasma dell'invasione barbarica e il miraggio del turismo, intelligente o avventuroso o semplicemente piacevole. Quanto pesa, nel nostro sentimento, anche il meno malintenzionato, la carta d'identità che ci fa attraversare con piede leggero i confini di Schengen, il passaporto che ci autorizza, tutt'al più con la seccatura d'un visto, a visitare il mondo pressoché intero. Quando diciamo "extracomunitario" non pensiamo a cittadini con passaporto canadese, o svizzero. Ed ecco che il mondo dei nostri dépliants ci si stringe sotto i piedi, nelle impronte rovesciate delle stesse eruzioni che travolgono e cacciano i fuggiaschi. A marzo, dopo il Bardo, era giusto proporsi di tornare, deprecare le grandi compagnie che cancellavano quelle coste dagli itinerari, promettersi un'estate tunisina colma di bellezze archeologiche e naturali e di dedizione solidale. Ma la cosa era legata a un filo: bastava uno o due di questi superstiziosi che infestano l'aria del tempo, col corredo di un kalashnikov e un paio di calzoncini da spiaggia per dare il colpo di grazia all'economia e all'anima di un paese intento a riscattarsi. Oggi è più difficile replicare gli impegni: non si chiede a bravi pensionati di andare in vacanza per resistere al terrorismo.
Sulla carta continuamente ridisegnata dalla violenza contemporanea si allargano i territori su cui è scritto: Hic sunt leones; e si cancellano le frontiere. Alla larga da quella fra Libia e Tunisia. Pericolante l'Algeria. Alla larga dal Sinai e dal mar Rosso. I paesi del Golfo insidiati, il Corno d'Africa al bando: nella fatale giornata di ieri all'eccidio tunisino si sono sommati la strage nella moschea sciita del Kuwait e quella nella base dell'Unione Africana in Somalia. Gli shabab hanno portato il terrore sempre più dentro un paradiso del nostro turismo come il Kenya. Luoghi materni del genere umano, l'Iraq, la Siria, lo Yemen, sono interdetti a un rischio peggiore della vita, e così gran parte dell'Africa sotto il Sahara. In Europa, a casa nostra, dove temiamo tanto l'avvento dei fuggiaschi del mondo invasato, fra poco commemoreremo i vent'anni di Srebrenica con un'Ucraina che ripercorre la strada ex-jugoslava, e i jet militari che si sfiorano sul Baltico.
Del resto, il fanatico assassino che va a conquistarsi il paradiso in calzoncini su una spiaggia di Susa non ci metterà molto ad approdare anche di qua dallo stesso mare arrivò già nel cuore dell'Europa, ed era casa sua. Bisognava saperlo, bisogna ancora. Anche a non essere innamorati del prossimo e dei diritti umani, anche a essere solo gelosi di Palmira e di Ninive e di Timbuctu e di Sanaa e della regina di Saba, e dei propri tour tutto compreso, bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra.
«Da un lato gli stati non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».
Corriere della Sera, 28 giugno 2015 (m.p.r.)
«Le statistiche ingannano. Dietro la crescita economica fotografata dai numeri si accumula malessere e la sola cura che conosciamo ci dice di spingere ancora sull’economia, ma non è così che impareremo ad essere felici». Zygmunt Bauman ragiona sull’impotenza della democrazia dei consumi di fronte alle domande fondamentali. Ospite d’onore di Berlucchi a Palazzo Lana per la cerimonia dei diplomi della Scuola estiva dell’Iseo di Brescia, il grande sociologo polacco descrive il capovolgimento dei rapporti tra politica e finanza in queste ore convulse di trattative. «Non solo lo Stato non dispone più della capacità di dirigere i processi economici ma ne è diretto a sua volta - dice Bauman al Corriere -. E questo accade mentre i governi sono sottoposti a una duplice pressione: da un lato non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».
«Gli elettori greci sono chiamati a decidere se il loro desiderio di rimanere all’interno dell’eurozona è superiore alla loro rabbia e disperazione per la politica criminale che la trojka vuole continuare ad applicare in Grecia».
Il manifesto, 28 giugno 2015 (m.p.r.)
L’Eurogruppo ha dichiarato guerra alla Grecia. Ieri il suo presidente è apparso alla fine della riunione e poco ci è mancato che sbattesse i pugni sul tavolo. La decisione della Grecia di indire un referendum, ha detto, equivale all’interruzione unilaterale del negoziato. Quindi l’Unione Europea se ne lava le mani di tutto quello che può succedere. La richiesta di Varoufakis di protrarre di qualche settimana il memorandum del 2012, che scade martedì, è stata respinta. Quindi ufficialmente la Grecia ha smesso di fare parte dei paesi sotto programma di aggiustamento da parte della trojka. Se ce ne sarà un altro dopo il referendum non è sicuro, perché Dijsselbloem è molto arrabbiato e non «c’è fiducia» verso la Grecia.
Prima della riunione, il riccioluto agronomo olandese aveva tentato di nascondere la mano dopo aver lanciato il sasso: il testo scandaloso presentato dal Fmi martedì scorso «non era un ultimatum» e «c’era spazio per miglioramenti». Peccato che appena il giorno prima egli stesso, e il suo datore di lavoro Schauble, avevano testualmente detto che era proprio un ultimatum e che i greci dovevano accettarlo o respingerlo. Parlando di fiducia e di credibilità.
All’ultimatum Tsipras ha riposto con il referendum, ritenuto, lo avevamo detto da tempo, una carta potente e una risorsa di mobilitazione popolare. Malgrado i grandi sforzi dei media europei, la domanda non sarà euro o dracma. Riguarderà invece proprio l’ipotesi di accordo presentata in maniera ultimativa dalla trojka. Tsipras è arrivato alla decisione di indire il referendum dopo aver constatato di non avere più alcuno spazio di manovra.
Il massimo di concessioni era stato già raggiunto nel testo di Atene approvato in linea di massima lunedì e poi a sorpresa disconosciuto dalla troika. Da lì il fondato sospetto che da parte dei creditori non c’era alcuna volontà di compromesso ma solo una guerra di logoramento per favorire un cambiamento politico.
Anche se in queste ore i media pro–austerità cercano di fare confusione, sostenendo che la proposta del Fmi non è più valida, quindi il referendum sarebbe senza oggetto, l’oggetto c’è, eccome: gli elettori greci sono chiamati a decidere se il loro desiderio di rimanere all’interno dell’eurozona è superiore alla loro rabbia e disperazione per la politica criminale che la trojka vuole continuare ad applicare in Grecia. Si tratta di decidere se si vuole essere un paese membro di pari dignità in un’Unione di popoli liberi oppure un paese per sempre satellite, una colonia tedesca, al livello dei Baltici.
Al suo proclama televisivo Tsipras non ha parlato di soldi ma di «ricatto inaccettabile». Ieri in Parlamento ha ripetuto che la posta in gioco è la dignità, l’orgoglio e la libertà del paese. Anche il suo alleato al governo, il ministro della Difesa Kammenos, con le lacrime agli occhi, ha insistito sull’importanza delle isole dell’Egeo, che la trojka vuole «svuotare» e «distruggere». La convinzione è che l’atteggiamento dell’Europa non lascia spazio a equivoci: il governo di sinistra greco si deve sottomettere e umiliare, perché dentro l’eurozona non c’è posto per chi non accetta i dogmi neoliberisti.
Quale sarà il responso delle urne? È molto probabile che vinca il «no» all’austerità. Anche se le Tv oligarchiche hanno già cominciato a spargere il terrore, chiamando i greci a ritirare i propri soldi dalle banche, se uno giudica dall’atteggiamento dell’opposizione greca capisce che è in preda al panico. Girare per le Tv sostenendo che bisogna tagliare le pensioni e aumentare l’IVA al 23% per i servizi turistici non è certo piacevole. Dopo grandi sforzi, alla fine la destra e il partito degli oligarchi To Potami hanno deciso per il sì, mentre i socialisti del Pasok, in sprezzo del ridicolo, hanno anche chiesto le dimissioni del governo.
Il loro ragionamento è esattamente quello dei creditori: dire no all’austerità equivale a uscita dall’eurozona. Al governo invece sono convinti che la vittoria del «no» aiuterà a piegare le grandi resistenze dei creditori. Un pronunciamento diretto difficile da ignorare perfino per l’eurozona.
Cosa succederà nel caso vinca il sì? Tsipras ha assicurato che «rispetterà qualsiasi responso delle urne» ma Varoufakis è andato più in là, ipotizzando un rimpasto governativo, probabilmente includendo To Potami, amatissimo a Bruxelles ma confinato dagli elettori a un misero 6%. Ad Atene però sono tutti convinti che né Tsipras né gli altri ministri di Syriza saranno disposti a eseguire una politica che non è la loro.
Intanto bisogna affrontare la crisi di liquidità delle banche, probabilmente senza il sostegno di Draghi, mentre il governo non ha alcuna intenzione di pagare i debiti né di giugno né di luglio. Nelle capitali europee si pensa a come evitare le conseguenze dello scontro tra Atene e la trojka. Ma sono pie illusioni. L’ignavia e la viltà di molti di loro hanno lasciato mano libera agli estremisti liberisti, sabotando ogni ipotesi di compromesso. Se alla fine ci sarà l’esplosione dell’eurozona nessuno sarà al riparo. Forse non è troppo tardi per far sentire la loro voce.
Un appello di "L'altra Europa con Tsipras" e un articolo di Raffaella Bolini. Solidarietà al popolo greco, aggredito dagli oligarchi che si sono impadroniti dell'Europa e tentano di rottamare la democrazia.
Il manifesto, 28 giugno 2015
Quando non c’era l’Ue i colpi di stato per liberarsi di governi democratici li facevano i colonnelli (o per le pagliacciate i generali Di Lorenzo ). Si dirà un passo in avanti, ma quale? Il rifiuto di accogliere il compromesso che dopo mesi di trattative Tsipras aveva controproposto equivale –lo hanno detto autorevoli economisti — a un colpo di stato di tipo nuovo. Un tentativo scoperto di pugnalare il primo governo di sinistra greco. Appare adesso anche più chiaro che in ballo non c’era la restituzione del debito, ma proprio questo obiettivo politico, per dimostrare al mondo, e nell’immediato alla Spagna, che non è lecito contestare la politica decisa a Bruxelles.
Tsipras ha risposto con coraggio convocando per il 5 luglio un referendum. Per avere dalla sua la forza di un appoggio popolare. Si tratta di un voto decisivo e drammatico, perché tutti sono consapevoli della durezza della scelta. È un voto che ci coinvolge e per questo dimostriamo ai greci che non lo consideriamo qualcosa che riguarda solo loro. Dobbiamo far sentire ai greci che non sono soli, dar loro sostegno come possiamo: sin dal 3 sera manifestando, facendo una fiaccolata, attrezzandoci per seguire i filmati che da Atene ci invieranno. E perché la TV greca possa dar conto della nostra mobilitazione a chi deve sentirsi meno solo quando andrà a votare.
Per il 5 sera, organizziamo ovunque un ascolto collettivo dei risultati delle urne. Il rifiuto del diktat non sarà una vittoria definitiva, perché si aprirà comunque una fase assai difficile. Ma sarà un atto politico soggettivo di enorme importanza, la testimonianza che siamo ancora convinti che Davide ce la può fare contro Golia. E appendiamo alle nostre finestre, per dire quanto importante sia anche per noi l’esito della vicenda, un drappo blu. (n drappo blu per questa volta, ma la prossima una vera bandiera greca che ora non abbiamo ma faremo bene a procurarci).
Grecia. La Grecia sta lottando da sola, in mezzo a intrighi di ogni genere. Vogliono far cadere Tsipras nonostante il consenso di cui gode
«Le istituzioni hanno presentato una nuova proposta che trasferisce il carico sui lavoratori e i pensionati con misure sociali ingiuste, mentre al tempo stesso propone di evitare l’aumento del peso su coloro che hanno di più». Questa è una nota del governo greco prima dell’Eurogruppo – e chiunque abbia un briciolo di cervello sa che è vero.
La Grecia sta lottando sostanzialmente da sola, in mezzo ad intrighi e sporcizia di ogni genere – vogliono cercare di far cadere il governo Tsipras nonostante abbia la grande maggioranza di consensi nel suo paese, e vogliono impedire un accordo onorevole che incrini la gabbia dell’austerità. È una terribile vergogna europea. Che cade non soltanto sulle istituzioni e sui liberisti, ma anche sulla società civile progressista e sui movimenti sociali.
Non si trattava di smettere di fare le proprie lotte e iniziative per dedicarsi alla Grecia. Neppure i greci chiedevano questo. Ma non costa nulla aggiungere un logo, una bandiera, uno slogan alle proprie vertenze. Per solidarietà, ma soprattutto per dare più forza a se stessi costruendo una alleanza europea contro l’austerità.
La storia non è fatta di automatismi, è fatta di scelte. Di tante scelte personali e collettive. Della capacità di capire quale è il punto, laddove la storia può cambiare in meglio. E di dare un contributo perché ciò accada.
Chi non capisce, chi non ha gli strumenti, a chi non è permesso uscire può stare alla finestra, mentre si giocano le partite fondamentali. Non è colpa sua. Ma chi gli strumenti per capire ce l’ha, e nonostante questo alla finestra rimane, dimostra — a mio modestissimo parere — di non essere all’altezza della sfida.
E tanto più importanti in queste ore sono le scelte di chi decide, o deciderà, che questa politica europea e la sua versione in salsa italiana richiede strappi grandi e coraggiosi – e un impegno vero, in prima persona, non delegato agli addetti ai lavori.
Oggi ad Atene si incontrano di nuovo le campagne di solidarietà europee, sindacati, organizzazioni e movimenti sociali di diversi paesi che hanno compreso fino in fondo quale è la scommessa. Ci saranno anche i tedeschi, che il 20 giugno con la manifestazione di Berlino hanno detto, in un appello forte promosso da una bella coalizione politica e sociale, che l’Europa fortezza e l’Europa della austerità sono due facce della stessa medaglia.
Tenerle separate rischia di essere una sudditanza inconsapevole verso le culture reazionarie che alimentano la guerra dei nativi contro i migranti. I movimenti presenti, dalla Spagna alla Germania alla Francia, presenteranno la proposta di fare intorno al 17 ottobre, giornata internazionale contro la povertà, una sorta di invasione popolare di Bruxelles.
Il progetto è di fare carovane che arrivino da diversi paesi, azioni, un contro vertice e una manifestazione grande di cui sta discutendo anche il sindacato belga.
Chiedono all’Italia di essere della partita. Diverse organizzazioni e reti italiane ne stanno già discutendo.
Si deciderà anche, naturalmente, di che cosa fare se le cose per la Grecia — diciamo meglio per l’Europa democratica– vadano male nelle prossime ore.
Ma io confido. Confido soprattutto nella grandissima forza, nel coraggio e nella straordinaria intelligenza e lucidità politica di Syriza. E nel popolo greco.
Salveranno il loro paese, salveranno questo Europa schifosa che chiude le porte in faccia alle persone: nativi, migranti e rifugiati. Terranno aperta la breccia per farci passare tutti e tutte. E salveranno anche chi non se lo merita e chi non ci arriva, perché sono gente generosa. Forza Grecia.
* Cambia la Grecia Cambia l’Europa
Parole chiare a chi vuol sanare il male col male. «Dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati».
Il Messaggero, 28 giugno 2015
Ma «quante volte - ammonisce - con questa scusa di fermare l'aggressore le potenze hanno fatto una vera guerra di conquista. Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore». Papa Bergoglio ricorda che «dopo la Seconda guerra mondiale è nata l'idea della Organizzazione delle Nazioni Unite, è là che si deve discutere: 'Come facciamo a fermarlo?'». «Fermare l'aggressore ingiusto - ha spiegato il Papa - è un diritto dell'umanità, ma è anche un diritto che ha l'aggressore di essere fermato perchè non faccia il male».
Racconta anche che ha studiato con i collaboratori tutti i passi da fare per la situazione irachena, ha emesso un comunicato, ha scritto al segretario dell'Onu Ban ki-moon, ha mandato il card. Fernando Filoni quale suo inviato in Iraq e Kurdistan, e ha deciso di essere «disposto ad andare in Kurdistan» e che «c'è questa possibilità», che è stata valutata prima di partire per il viaggio in Corea e per il momento resta una possibilità. «Questi sono i frutti della guerra», dice il Papa ricordando le vittime di oggi, e di ieri, e «il fumo delle bombe» che in Terrasanta non fa vedere la «porta» che si è aperta con la preghiera comune nei giardini vaticani dei presidenti israeliano e palestinese Shimon Peres e Abu Mazen, ma il fumo delle bombe «è congiuntura», mentre la porta resta aperta.
Dalla guerra alle speranze di dialogo, papa Francesco è pronto a partire per Pechino «magari, domani», spiega ai 72 giornalisti da 11 paesi del mondo che lo hanno accompagnato nel suo terzo viaggio internazionale. Conferma inoltre il viaggio a Filadelfia di settembre 2015 e spiega che, avendo ricevuto inviti anche dal presidente e dal parlamento americano e dal segretario dell'Onu si potrebbero visitare «forse le tre città insieme», cioè Filadelfia, Washington e New York. Spiega poi che andrà in Albania il 21 settembre per due motivi «importanti»: in Albania «sono riusciti a fare un governo nazionale» fra diverse componenti, cattolici, ortodossi, «e questo va bene - sottolinea il Papa perché vuol dire che è possibile lavorare bene insieme». Altro motivo è che «l'Albania è l'unico Paese comunista che aveva l'ateismo pratico nella costituzione, se andavi a messa era anticostituzionale». «Sono state distrutte - ha aggiunto - 1820 chiese, voglio citare il numero preciso, sia ortodosse che cattoliche, in altre sono stati fatti cinema e teatri». In ottima forma al termine dell'impegnativo viaggio in Oriente, il Papa racconta anche alcuni aspetti della sua vita in Vaticano, alla ricerca di normalità, e senza abbandonare la abitudine di non fare vacanze ma ritrovare un ritmo più disteso, leggendo e dormendo di più e ascoltando musica.
Contento anche della popolarità di cui gode, «se il popolo è felice per quello che faccio». «La vivo come generosità - spiega - ma cerco di pensare anche ai miei peccati, però cerco anche di godermela, perchè so che durerà poco tempo e poi sarò nella Casa del Padre».