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«I greci si chiedono perché l’Europa voglia punirli. Tutti sanno la risposta. Hanno Atene • osato sfidarla votando Syriza, il partito «sbagliato»: di sinistra ed europeista».

Il manifesto, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Paura con­tro spe­ranza, ragio­na­mento e san­gue freddo con­tro il ter­ro­ri­smo media­tico. È una set­ti­mana dif­fi­cile per la Gre­cia a ancora di più per il governo, costretto a scu­sarsi per colpe non sue e in par­ti­co­lare per la chiu­sura delle banche.

C’è una cam­pa­gna media­tica di dimen­sioni mai viste, nean­che durante le dif­fi­cili ele­zioni di gen­naio. Tutte, ma tutte, senza ecce­zione alcuna, le emit­tenti pri­vate sca­te­nate in ter­ro­ri­smo, cata­stro­fi­smo e disin­for­ma­zione. Ogni assem­bra­mento con più di tre per­sone davanti a una detlle ban­che rima­ste aperte per i pen­sio­nati, diventa oggetto di dibat­tito per ore intere. Se poi l’anziano dà il minimo segno di stan­chezza, allora c’è la tra­ge­dia media­tica, con geron­to­logo invi­tato in stu­dio a spie­gare con fare severo che, in effetti, il sole estivo potrebbe essere dan­noso per chi è avanti con gli anni. Se poi la vec­chietta si avvia verso il «perip­tero» (il carat­te­ri­stico chio­schetto) a com­prare una bot­ti­glietta d’acqua, ecco la piog­gia di micro­foni che gri­dano pre­oc­cu­pati: «Si sente male? Chia­miamo un’ambulanza?». Il con­sumo dell’acqua va in diretta men­tre nello stu­dio se segue con grande appren­sione. Il col­le­ga­mento si inter­rompe solo quando l’anziana mostra di non avere alcuna inten­zione di stra­maz­zare per terra e si avvia per la sua strada.

Ancora peg­gio i noti­ziari: l’«informazione» è che il limite al pre­lievo dal Ban­co­mat sarà ridotto da 60 a 20 euro. Il mini­stero delle Finanze ha smen­tito ma peg­gio per lui. La noti­zia rim­balza, si mol­ti­plica, diventa un fatto. La Mer­kel ha detto nes­suna trat­ta­tiva prima del refe­ren­dum. La noti­zia diventa «nes­suna trat­ta­tiva», siamo già fuori dall’Europa e non lo sap­piamo. Quello che invece le emit­tenti pri­vate oli­gar­chi­che sanno di sicuro è che le tipo­gra­fie dello stato stanno lavo­rando giorno e notte per stam­pare le dracme. Non ci cre­dete? Ma come, l’ha detto la Tv. Molti elet­tori di Syriza sono inor­ri­diti. Accu­sano il governo di aver tol­le­rato que­sta scon­cezza media­tica. Biso­gnava pren­dere prov­ve­di­menti subito, fare loro pagare le tasse (evase siste­ma­ti­ca­mente) e l’occupazione (pra­ti­ca­mente gra­tuita) delle fre­quenze. Giu­sto, forse. Ma poi rischia­vamo una cam­pa­gna euro­pea in favore della libertà d’informazione vio­lata dagli sta­li­ni­sti al potere. Vagli poi a spie­gare che si trat­tava di cial­troni ben sti­pen­diati dagli oli­gar­chi. Quanto rende in ter­mini di voti que­sta incre­di­bile disin­for­ma­zione? Forse è que­sto il vero que­sito del refe­ren­dum. I greci osten­tano calma e san­gue freddo e si infa­sti­di­scono quando si vedono inqua­drati dalle tele­ca­mere. Gli anziani sono i più determinati.

Nes­sun inci­dente ai più di 800 spor­telli rima­sti aperti per loro, nes­suna folla, nes­sun panico. Ma sicu­ra­mente c’è pre­oc­cu­pa­zione, forse anche paura. Chi accusa il governo, si vede, è per par­tito preso ma tutti sono con­cordi nel chie­dersi mera­vi­gliati per­ché l’Europa demo­cra­tica li vuole punire. Tutti sanno la rispo­sta: hanno osato sfi­darla votando il par­tito sba­gliato: ma sono pochi coloro che vedono con sol­lievo l’abbandono dell’eurozona o anche l’Unione Euro­pea. I greci sono orgo­glio­sa­mente euro­pei, nes­suno può far­gli cam­biare idea.

È a loro che Tsi­pras ha voluto rivol­gere il suo appello tele­vi­sivo ieri sera. «Voglio rin­gra­ziarvi con tutto il cuore per la calma e il san­gue freddo che state mostrando in ogni momento di que­sta set­ti­mana dif­fi­cile. Voglio assi­cu­rarvi che que­sta situa­zione non durerà a lungo. Sarà prov­vi­so­ria. Gli sti­pendi e le pen­sioni non andranno persi. I conti dei cit­ta­dini che hanno scelto di non por­tare i loro soldi all’estero non saranno sacri­fi­cati sull’altare dei ricatti e delle oscure mano­vre poli­ti­che. Rivolgo l’appello di soste­nere que­sto pro­cesso nego­ziale, vi chiedo di dire no alle ricette di auste­rità che stanno distrug­gendo l’Europa». Molti si chie­dono. Va bene, ma se poi que­sta man­canza di liqui­dità durasse a lungo, come se ne esce? Tsi­pras, anche ieri, ha osten­tato la sua con­vin­zione che dopo la vit­to­ria del no ci saranno nuovi nego­ziati e la que­stione sarà risolta in tempi brevi. Mar­tedì sera si sono radu­nati a piazza Syn­tagma i soste­ni­tori del «Sì». Non tan­tis­simi, ma pio­veva. Però si sa che c’è una «mag­gio­ranza silen­ziosa» che non scende in piazza ma vota. Il pro­getto delle forze del Sì è chiaro, lo ha annun­ciato il lea­der della destra Sama­ras da Bru­xel­les: un nuovo pre­mier, pro­ba­bil­mente il suo ex mini­stro delle Finanze, ora gover­na­tore della Banca di Gre­cia, Yan­nis Stour­na­ras, per un governo «di unità nazionale».

Ma Sama­ras è una carta bru­ciata, den­tro il suo par­tito quasi nes­suno lo vuole. La nuova carta della rivin­cita delle forze pro auste­rità è il par­tito di pla­stica Tio Potami e il suo lea­der semia­nal­fa­beta Sta­vros Theo­do­ra­kis. È lui che regge il grosso della cam­pa­gna per il sì e pro­ba­bil­mente sarà lui a det­tare l’agenda del ribal­ta­mento poli­tico nel caso di vit­to­ria. Un’agenda molto chiara e sem­plice: accet­tare tutte le richie­ste di Ber­lino. Fine dell’anomalia greca, ritorno alla nor­ma­lità teutonica.

Se qualcuno avesse dubbi sulle ragioni di chi sta tentando di cacciare la Grecia di Tsipras dall'Unione europea, troverà l'elenco argomentato delle menzogne impiegate.

Il Fatto quotidiano, 2 luglio 2015

C’è un gran dibattito sul referendum in Grecia. E’ difficile riassumere i diversi aspetti economici, sociali e politici del problema che sono tutti ugualmente importanti: tutti richiedono un intervento che possa invertire una rotta che sembra destinata a naufragio sicuro. Qui di seguito ho isolato i punti a mio avviso più rilevanti.

Le politiche di austerità sono state ispirate dallo stesso paradigma ideologico neoclassico che ha fallito ogni previsione della crisi economica scoppiata nel 2007/2008, e sono basate su un famoso articolo degli economisti Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni, che ha evidenziato l’esistenza, in diversi paesi, di una correlazione tra un alto rapporto debito/Pil (maggiore del 90%) e la bassa crescita. L’articolo di Reinhart e Rogoff è stato mostrato essere effetto da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio di calcolo. Eppure questo studio è stato tra quelli usati per giustificare l’austerità, il pareggio di bilancio e la necessità di “rimettere a posto i conti” nei diversi paesi. Malgrado i dati stessi, analizzati correttamente, non mostrano alcuna correlazione tra debito e Pil, e dunque non giustificano in nessun modo le assunzioni delle politiche d’austerità, queste non sono cambiate e anzi sono continuamente riproposte.

Malgrado questa situazione la Grecia, come nota Andrea Boitani, ha seguito la ricette delle politiche d’austerità: “La Grecia ha mandato giù una forte dose di medicina amara, ma troppa rischia di ammazzare il paziente. E cosa vogliono i creditori al tavolo delle trattative? Un po’ di più della stessa medicina!”. Il problema è, appunto, la medicina.

Secondo Mario Monti la Grecia “è la manifestazione più completa del grande successo dell’Euro”. La Grecia dopo cinque anni il “salvataggio” della Troika (Banca Europea, Commissione Europea e Fondo Monetario) è ancora in recessione, ha un tasso di disoccupazione intorno al 30% che sale al 55% per i giovani, ha sofferto un abbassamento del PIL del 25% e il 30% della sua popolazione vive sotto il livello di povertà dell’Unione Europea. Le misure di austerità hanno causato una vera e propria emergenza umanitaria. In un articolo scientifico, pubblicato sulla rivista The Lancet, sono stati presentati dei dati impressionanti: in Grecia dopo quaranta anni è riapparsa la malaria, il 70% dei partecipanti ad un sondaggio ha dichiarato di non avere sufficiente denaro per comprare le medicine, i suicidi sono aumentati del 45%, i neonati sottopeso sono aumentati del 19% mentre i bambini nati morti sono incrementati del 21%.

Dall’inizio della crisi, cinque anni fa è avvenuta la più grande fuga di cervelli in un’economia occidentale avanzata nei tempi moderni, con oltre 200.000 greci che hanno lasciato il paese. Più della metà sono andati nel Regno Unito e in Germania, rappresentando un enorme spostamento di forza lavoro qualificata, formata a spesa del paese d’origine, che va dunque ad arricchire i paesi di destinazione. Quest’ondata di giovani, insieme con quelle provenienti dagli altri paesi dell’Europa meridionale, rappresenta forza lavoro qualificata che entra in concorrenza con quella locale abbassando dunque il costo del lavoro. D’altro canto questo impoverimento di risorse umane sta minando le residue possibilità di una ripresa del paese in un futuro più o meno lontano.

Ma i danni non sono finiti qui. Come spiega chiaramente, Andrea Baranes, il piano di salvataggio della Grecia è stato «concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia» (fonte Fmi): infatti, uno studio indipendente ha mostrato come per lo meno il 77% di tutti gli aiuti forniti alla Grecia tra maggio 2010 e giugno 2013 sono finiti al settore finanziario e non alla popolazione o allo Stato ellenico. In parallelo l’esposizione delle banche francesi e tedesche si è trasformata in debito pubblico (si veda anche pagina 15 di questo documento del Parlamento Greco).

Questi semplici fatti, facilmente verificabili, mostrano l’assurdità delle politiche d’austerità che hanno l’effetto di deprimere l’economia sia nell’immediato che nel futuro. I vari “economisti”,come Francesco Giavazzi, che si agitano al grido “i Greci hanno scelto la povertà, lasciamoli al loro destino”, con argomenti che possono essere agevolmente falsificati, rendono semplicemente chiaro, ancora una volta se ce ne fosse bisogno, come, utilizzando la propria cattedra universitaria, la scienza economica sia usata solo per puntellare scelte politiche e ideologiche. La discussione è in realtà tutta politica ma la bussola che si è persa è quella etica: solo indignandoci di fronte alle inutili sofferenze della gran parte di un paese potremo capire da che parte stare.

L'appello televisivo del premier greco. «Il refe­ren­dum di dome­nica non riguarda la per­ma­nenza o no della Gre­cia nell’eurozona. Que­sta è scon­tata e nes­suno può con­te­starla. Dome­nica dob­biamo sce­gliere se accet­tare l’accordo spe­ci­fico oppure riven­di­care subito, una volta espresso il responso del popolo, una solu­zione sostenibile».

Il manifesto, 2 luglio 2015

Il refe­ren­dum di dome­nica non riguarda la per­ma­nenza o no della Gre­cia nell’eurozona. Que­sta è scon­tata e nes­suno può con­te­starla. Dome­nica dob­biamo sce­gliere se accet­tare l’accordo spe­ci­fico oppure riven­di­care subito, una volta espresso il responso del popolo, una solu­zione sostenibile.

In ogni caso voglio assi­cu­rare al popolo greco che la ferma inten­zione del governo è quella di otte­nere un accordo con i part­ners, in con­di­zioni però di soste­ni­bi­lità e di pro­spet­tiva per il futuro. Già l’indomani della nostra deci­sione di pro­cla­mare un refe­ren­dum sono state poste sul tavolo pro­po­ste riguar­danti il debito e la neces­sità di ristrut­tu­rarlo, migliori di quelle che ci erano state pre­sen­tate fino a venerdì. Non le abbiamo lasciate cadere.

Abbiamo imme­dia­ta­mente pre­sen­tato le nostre con­tro­pro­po­ste, chie­dendo una solu­zione soste­ni­bile. È per que­sta ragione che c’è stata la riu­nione straor­di­na­ria dell’eurogruppo ieri e ci sarà una nuova riu­nione oggi pome­rig­gio. Se ci sarà una con­clu­sione posi­tiva, noi rispon­de­remo imme­dia­ta­mente. In ogni caso, il governo greco rimane al tavolo del nego­ziato e con­ti­nuerà a rima­nerci fino alla fine. Ma ci rimarrà su que­sto tavolo anche lunedì, subito dopo il refe­ren­dum, in con­di­zioni più favo­re­voli per la parte greca. Il ver­detto popo­lare, infatti, è sem­pre più potente rispetto alla volontà di un governo. Vor­rei anche riba­dire che il ricorso alla volontà popo­lare è uno dei fon­da­menti delle tra­di­zioni europee.

In momenti cru­ciali della sto­ria euro­pea, i popoli hanno preso deci­sioni impor­tanti attra­verso lo stru­mento del refe­ren­dum. E’ suc­cesso in Fran­cia e in tanti altri paesi, dove si sono svolti refe­ren­dum sulla Costi­tu­zione euro­pea. E’ suc­cesso in Irlanda, dove un refe­ren­dum ha tem­po­ra­nea­mente sospeso il Trat­tato di Lisbona e ha con­dotto a un nuovo nego­ziato, dal quale l’Irlanda ha otte­nuto con­di­zioni migliori. Nel caso della Gre­cia, pur­troppo, si usano due metri e due misure.

Per­so­nal­mente, non mi sarei mai aspet­tato che l’Europa demo­cra­tica non rie­sca a com­pren­dere la neces­sità di lasciare a un popolo sovrano lo spa­zio e il tempo neces­sa­rio per­ché fac­cia le sue scelte riguardo al pro­prio futuro. Sono pre­valsi ambienti estre­mi­sti con­ser­va­tori e di con­se­guenza le ban­che del nostro paese sono state por­tate all’asfissia. L’obiettivo è evi­dente: eser­ci­tare un ricatto che parte dal governo e arriva fino a ogni sin­golo cit­ta­dino greco.

E’ infatti inac­cet­ta­bile in un’Europa della soli­da­rietà e del rispetto reci­proco, vedere que­ste scene ver­go­gnose: far chiu­dere le ban­che pro­prio per­ché il governo ha deciso di far par­lare il popolo, creare disagi a migliaia di anziani, per i quali, mal­grado l’asfissia finan­zia­ria, il governo si è pre­oc­cu­pato e ha fatto in modo che la loro pen­sione fosse rego­lar­mente ver­sata nei loro conti. A que­ste per­sone dob­biamo delle spie­ga­zioni. E’ per pro­teg­gere le vostre pen­sioni che stiamo dando bat­ta­glia tutti que­sti mesi. Per pro­teg­gere il vostro diritto a una pen­sione digni­tosa e non a una man­cia. Le pro­po­ste che, in maniera ricat­ta­to­ria, ci hanno chie­sto di sot­to­scri­vere pre­ve­de­vano un taglio con­si­stente delle pen­sioni. Per que­sto motivo ci siamo rifiu­tati, per que­sto oggi si vendicano.

E’ stato dato al governo greco un ulti­ma­tum che com­pren­deva esat­ta­mente la stessa ricetta, com­pren­dente tutte le misure ancora non appli­cate del vec­chio Memo­ran­dum di auste­rità. Come se non bastasse, non hanno pre­vi­sto alcuna forma di alleg­ge­ri­mento del debito né di finan­zia­mento dello svi­luppo. L’ultimatum non è stato accet­tato. Poi­ché in regime di demo­cra­zia non ci sono strade senza uscita, l’ovvia via d’uscita era quella di rivol­gerci al popolo, ed è stato esat­ta­mente quello che abbiamo fatto.

Sono pie­na­mente con­sa­pe­vole che in que­ste ore c’è un’orgia di cata­stro­fi­smo. Vi ricat­tano e vi invi­tano a votare sì a tutte le misure chie­ste dai cre­di­tori, senza alcuna visi­bile via d’uscita dalla crisi. Vogliono fare dire anche a voi, come suc­ce­deva nei quei giorni bui della nostra vita par­la­men­tare che abbiamo lasciato die­tro di noi, sì a tutto. Farvi diven­tare simili a loro, com­plici nel piano di farci rima­nere per sem­pre sotto l’austerità.

Dall’altra parte, il no non è una sem­plice parola d’ordine. Il no rap­pre­senta un passo deci­sivo verso un accordo migliore che pun­tiamo a sot­to­scri­vere subito dopo la pro­cla­ma­zione dei risul­tati di dome­nica. Sarà l’inequivocabile scelta del popolo riguardo le sue con­di­zioni di vita nei giorni a venire. No non signi­fica rot­tura con l’Europa, ma ritorno all’Europa dei valori. No signi­fica pres­sione potente per un accordo eco­no­mi­ca­mente soste­ni­bile che trovi una solu­zione al pro­blema del debito, non lo farà schiz­zare a livelli inso­ste­ni­bili, non costi­tuirà un eterno osta­colo verso i nostri sforzi per far ripren­dere l’economia greca e dare sol­lievo alla società. No signi­fica pres­sione forte per un accordo social­mente equo che distri­buirà il peso ai pos­si­denti e non ai lavo­ra­tori dipen­denti e ai pensionati.

Un accordo cioè che por­terà in tempi brevi il paese a essere di nuovo pre­sente nei mer­cati finan­ziari inter­na­zio­nali, in modo che si ponga ter­mine alla sor­ve­glianza stra­niera e al com­mis­sa­ria­mento. Un accordo che com­prenda quelle riforme che puni­ranno una volta per sem­pre gli intrecci insani tra poli­tica, mezzi d’informazione e potere eco­no­mico che hanno con­trad­di­stinto in tutti que­sti anni il vec­chio sistema poli­tico. Nel con­tempo potrà affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria: sten­derà, in altre parole, una rete di sicu­rezza per tutti quelli che oggi sono stati spinti all’emarginazione gra­zie alle poli­ti­che seguite in tutti que­sti anni nel nostro paese.

Gre­che e greci, sono pie­na­mente con­sa­pe­vole delle dif­fi­coltà che state affron­tando. Mi impe­gno per­so­nal­mente a fare qua­lun­que cosa per­ché siano prov­vi­so­rie. Alcuni fanno dipen­dere la per­ma­nenza della Gre­cia all’eurozona dal risul­tato del refe­ren­dum. Mi accu­sano di avere un’agenda segreta: nel caso di vit­to­ria del no, far uscire il paese dall’Unione Euro­pea. Men­tono sapendo di men­tire. Sono quelli stessi che dice­vano le stesse cose nel pas­sato e ren­dono un pes­simo ser­vi­zio sia al nostro popolo che all’Europa. D’altronde, sapete bene che un anno fa io stesso ero can­di­dato per la pre­si­denza della Com­mis­sione alle ele­zioni per il Par­la­mento europeo.

Anche allora ho detto agli euro­pei che le poli­ti­che di auste­rità devono finire, che non è que­sta la strada per uscire dalla crisi, che il pro­gramma appli­cato alla Gre­cia è stato un fal­li­mento. E che l’Europa deve smet­tere di com­por­tarsi in maniera non democratica.

Pochi mesi più tardi, nel gen­naio del 2015, il nostro popolo ha sigil­lato que­sta scelta. Sfor­tu­na­ta­mente, alcuni in Europa si rifiu­tano di com­pren­dere que­sta verità, non la vogliono ammet­tere. Quelli che pre­fe­ri­scono un’Europa anco­rata in logi­che auto­ri­ta­rie, di disprezzo verso le regole demo­cra­ti­che, che vogliono un’Europa unita solo in maniera epi­der­mica e tenuta insieme dal Fmi, non hanno una visione degna dell’Europa. Sono poli­tici senza corag­gio che non rie­scono a pen­sare come europei.

A loro fianco sta il nostro sistema poli­tico che ha por­tato il paese alla ban­ca­rotta e ora si pro­pone di get­tare la colpa a noi, a chi cerca di far finire que­sta mar­cia verso il disa­stro. Sognano il loro ritorno: lo hanno pro­get­tato nel caso che noi aves­simo accet­tato l’ultimatum – hanno pub­bli­ca­mente chie­sto la nomina di un altro pre­mier per appli­carlo– ma con­ti­nuano anche adesso, che abbiamo dato la parola al popolo. Par­lano di colpo di stato. Ma la demo­cra­zia non è un colpo di stato, i governi nomi­nati da fuori sono un colpo di stato.

Gre­che e greci, voglio rin­gra­ziarvi con tutto il cuore per la calma e il san­gue freddo che state mostrando in ogni momento di que­sta set­ti­mana dif­fi­cile. Voglio assi­cu­rarvi che que­sta situa­zione non durerà a lungo. Sarà prov­vi­so­ria. Gli sti­pendi e le pen­sioni non andranno persi. I conti dei cit­ta­dini che hanno scelto di non por­tare i loro soldi all’estero non saranno sacri­fi­cati sull’altare dei ricatti e delle oscure mano­vre poli­ti­che. Assumo io per­so­nal­mente la respon­sa­bi­lità di tro­vare una solu­zione al più pre­sto, subito dopo la con­clu­sione del refe­ren­dum. Allo stesso tempo rivolgo l’appello di soste­nere que­sto pro­cesso nego­ziale, vi chiedo di dire no alle ricette di auste­rità che stanno distrug­gendo l’Europa.

Vi chiedo di accet­tare la strada di una solu­zione soste­ni­bile, di aprire una bril­lante pagina di demo­cra­zia, nella spe­ranza certa di un accordo migliore. Siamo respon­sa­bili verso i nostri geni­tori, i nostri figli e verso noi stessi. E’ il nostro debito verso la storia.

(a cura di Dimi­tri Deliolanes)

Il messaggio ad Alexis Tsipras del Premio Nobel per la pace: «È urgente riformare il sistema economico e stabilire un nuovo contratto sociale»: ed è chiaro che non si parla delle "riforme" della Troika. La Repubblica, 2 luglio 2015

LETTERA A TSIPRAS

AL PRIMO ministro della Grecia, Alexis Tsipras.

Invio a lei e al popolo greco il mio abbraccio solidale per la grave situazione che state vivendo a causa della speculazione finanziaria che raggiunge i propri interessi a scapito dei popoli.

Qui dall’Argentina seguiamo da vicino le richieste che state facendo per trovare una giusta soluzione che non condanni il popolo greco alla fame e all’emarginazione sociale. Nel 2001 e 2002 abbiamo vissuto anche noi la stessa crisi. L’abbiamo superata unendo le forze e cercando cammini alternativi e creativi. Molte organizzazioni sociali e assemblee popolari hanno recuperato le fabbriche e hanno istituito un sistema di scambio di lavoro e di materie prime. La solidarietà popolare ha permesso di condividere il pane e la libertà.

Il debito estero è un meccanismo di dominazione. I grandi interessi economici privilegiano il capitale finanziario rispetto alla vita delle persone. Noi, purtroppo, ancora ne soffriamo le conseguenze.

Il governo greco ha avuto coraggio ad indire un referendum per chiedere al popolo di decidere sul cammino da intraprendere di fronte all’ultimatum dei soci europei. Questi ultimi, come sappiamo bene, contravvengono ai principi e ai valori sui quali si è fondata l’Europa, cercando d’imporre la deregolamentazione del mercato del lavoro, il taglio delle pensioni e dei salari pubblici, le privatizzazioni e l’aumento dell’Iva anche sugli alimenti. Si tratta di una violazione del diritto d’uguaglianza e di dignità.

Vi invito a resistere per rafforzare la democrazia e la sovranità nazionale. È ormai urgente riformare il sistema economico mondiale e stabilire un nuovo contratto sociale ed è giusto che il popolo greco scelga da solo quale debba essere il presente e il futuro del proprio Paese. La Grecia conosce la resistenza, la democrazia e il coraggio e noi la sosteniamo. Vi accompagno e vi auguro molta forza e speranza.

L’autore è premio Nobel per la pace (Traduzione di Grazia Tuzi)

«Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata».

Huffington post, 30 giugno 2015

Ogni referendum ha una storia sua propria. Quello greco è politico nei suoi fondamenti ed eccezionale. Non nasce dalla volontà del governo di Atene di scaricare la responsabilità di una decisione ardua sui suoi cittadini. Nasce da un coacervo di circostanze che hanno creato un'oggettiva situazione di stallo nella trattativa tra il governo greco, i partner europei e i rappresentanti del FMI volta ad approntare un iter realistico verso il ripiano del debito che non uccida i debitori o non li renda così impotenti da annullare la loro capacità di darsi una vita dignitosa. Si tratta di un referendum in ultima istanza; per superare la situazione di stallo o uscire dal binario morto nel quale le parti di questa lunga trattativa si sono cacciate.

Per un governo rappresentativo si tratta di una decisione determinante, una di quelle gravide di conseguenze non rivedibili per questa generazione e quelle a venire. La consultazione dei diretti interessati sul Memorandum politico dell'austerità è per questo legittima. Ma è anche ragionevole in vista proprio della continuazione della trattativa. Segno di un governo che rischia e ha il senso della gravità del momento. Del resto, nonostante sia identificato come un governo di sinistra radicale, la maggioranza dei greci che lo hanno votato, ha scritto Stathis Gourgouris, non é composta di persone ideologiche, ma di cittadini stanchi delle impotenze dei governi precedenti, della mancanza di coraggio delle leadership tradizionali. Il voto a Syriza ha espresso una richiesta di coraggio, di mutamento di percorso. E la sua classe politica giovane e nuova ha anche per questo avuto il sostegno di persone politicamente distanti.

Un fatto va sottolineato, e che non appare nei resoconti catastrofisti di questi giorni: Syriza ha pensato che per uscire dallo stallo della trattativa a Bruxelles solo l'appello al popolo poteva rimettere in moto le cose. Gli scienziati politici hanno in varie occasioni messo in evidenza come la scelta radicale, per esempio il ricorso diretto alla voce del popolo, ha precisamente la funzione di imprimere una svolta che dia nuovo vigore e immaginazione alle forze in campo. Non è il referendum che le erode, del resto.

L'erosione deriva semmai dal far trascinare la trattativa troppo a lungo perché questo rischia di generare una crescente incomprensione nei partner in quanto mette in moto emozioni ostruttive, come la diffidenza e perfino il disprezzo personale tra i contraenti. Le trattative faccia-a-faccia sono cruciali quando vi é la volontà di risolvere il contenzioso in modo che tutti abbiano covenienza. Ma la lunghezza dei tempi gioca contro perché apre lo spazio alla guerra psicologia, che mira non a trovare una soluzione equa o non a somma zero, ma ad annientare l'avversario.

In questo senso, il referendum puó avere la funzione di stemperare gli umori psicologici spostando il problema sul terreno della procedura e dell'aspettativa assolutamente impersonale, quale é l'esito di un voto segreto. Sappiamo del resto che in molti casi, forme di democrazia diretta hanno il merito di stabilizzare le relazioni pubbliche perché orientano chi deve subire le conseguenza di una decisione all'accettazione delle scelte, anche le più ostiche (il caso esemplare é quello della Svizzera, che si é consolidata con i referendum). A giudicare dai movimenti della diplomazia mai interrotta a Bruxelles, è probabile che il referendum greco abbia il merito di rianimare la scena e mettere in campo proposte nuove e intenzioni meno macchinose e fatali. Sia che Syriza perda o vinca, il referendum potrà forse stabilizzare anziché destabilizzare le relazioni tra Grecia e Europa, poiché il popolo greco si fa direttamente responsabile.

Sarebbe desiderabile valutare positivamente l'onestà e il coraggio di questo governo, virtù determinanti in una fase di grande difficoltà come l'attuale. Virtù politiche che hanno il potere di tenere insieme una situazione difficilissima e aprire vie d'uscita.

Il desiderio del governo greco, espresso fin dall'inizio, è stato quello di alterare la politica di austerità, non di rinnegare l'Europa. Forse questo desiderio era utopistico ma non illegittimo; forse ha fallito nell'efficacia, ma la visione non era sbagliata come ha commentato Paul Krugman. Il referendum é a ben guardare il gesto di una politica europeista non anti-europeista. Solleva direttamente una questione che vale per tutti gli europei: che Europa é questa che tratta il debito secondo una logica contrattualistica privata e non sa comprendere la legittimità democratica che un popolo ha di tentare strade meno dolorose e ingiuste? Su quali basi e con quale logica la dirigenza europea pensa di poter evadere una richiesta democratica di mutare rotta per avviare una diversa strategia di risoluzione del debito che faccia perno sulla crescita e non sui tagli?

Il referendum greco ha posto un problema all'Europa, un problema che deve essere risolto in e con l'Europa: quello di un modo diverso di affrontare le politiche del debito - cioé come politiche di risanamento e di crescita, non di punizione. Così è stato in Europa dopo la distruzione lasciata dalla guerra, così dovrebbe essere oggi dopo la distruzione lasciata da questa crisi economica. E la scossa del referendum, nella sua tragicità può aiutare a intraprendere questo percorso.

Del resto la democrazia è un governo del rischio e della crisi. Da onorare sia quando la fortuna arride sia in tempi duri che richiedono un surplus di saggezza e di coraggio. Nel linguaggio di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere. Senza di che ci sono relazioni di dominio; senza di che non c'è posto per alcuna trattativa, ma solo per la non-scelta del prendere o lasciare.
Così la cancelliera sacrifica la battaglia greca per superare un’altra prova: salvare l’Euro(pa). In qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei.

Corriere della Sera, 1 luglio 2015 (m.p.r.)

Berlino. Nel finale della partita greca, Angela Merkel ha scelto di sacrificare il breve termine per il lungo: non salvare necessariamente la Grecia rinnegando i principi ma cercare di proteggere l’euro. Decisione rischiosa: non si può sapere cosa abbia in serbo il futuro. Ma decisione in parte obbligata e potenzialmente saggia: l’evoluzione della realtà è spesso benigna per gli statisti pronti a perdere una battaglia per vincere la guerra.

La rottura delle trattative tra creditori e Atene è una sconfitta per la cancelliera, che per mesi ha cercato il compromesso. Non è riuscita a esercitare quella leadership che le chiedevano mezza Europa, la Washington di Barack Obama, politici e autorità economiche dall’Asia al Sudamerica. Non solo: se la crisi greca non sarà gestita con maestria dalla stessa signora Merkel e dall’Eurozona, potrebbe iniziare il tramonto dell’Unione europea come l’abbiamo conosciuta, quella uscita dalla Guerra fredda, modello di pace a espansione continua. La «ragazza» un tempo pupilla del «cancelliere della riunificazione» tedesca e dell’Europa unita, Helmut Kohl, passerebbe alla storia come la cancelliera della divisione del Vecchio Continente. In gioco c’è molto, per la leader e per l’intera Ue.
A questa situazione si è arrivati per più di un motivo. Frau Merkel voleva con determinazione un accordo con Atene. La sua convinzione-ritornello è sempre stata «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». Aveva però di fronte due ostacoli non indifferenti. Sul piano interno, una maggioranza dell’opinione pubblica tedesca contraria a dare nuovi aiuti alla Grecia in cambio di nulla; sostenuta da una larga maggioranza di parlamentari. Sul piano esterno, un gruppo nutrito di partner dell’Eurozona che non avrebbe mai accettato regali ad Atene: perché i sacrifici per rimettere in piedi le loro finanze pubbliche li avevano fatti, ad esempio Irlanda, Portogallo, Spagna, Lettonia; oppure perché con redditi pro capite (e salari minimi) più bassi di quelli greci, ad esempio la Slovacchia e la Lituania.
A questo si aggiungeva una crescente sfiducia nel governo greco di Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis, che conduceva le trattative in modo da convincere via via praticamente tutti in Europa che in realtà non volesse un accordo ma solo soldi. In questa cornice, fare la scelta di dare denaro ad Atene senza un programma di riforme avrebbe voluto dire non solo mettersi contro tutti, in Germania e in Europa: avrebbe significato soprattutto rimuovere la pietra angolare dell’Eurozona a 19 Paesi, cioè il fatto che l’unico modo per sperare di stare assieme in un’Unione monetaria è rispettarne le regole. Superata quella linea rossa, liberi tutti, qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Lunedì ha spiegato che se l’Europa rinnegasse i suoi principi «anche solo momentaneamente, nel medio e lungo termine ne soffrirebbe i danni». Tra cercare di vincere una battaglia sbagliata e cercare di vincere una guerra giusta, la cancelliera ha scelto la seconda strada. E ha dunque modificato il paradigma: salvare l’euro per salvare l’Europa non comporta più l’obbligo di salvare Atene.
Il problema è che, in qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei. La dimostrazione della fragilità dell’architettura su cui poggia l’Unione monetaria. Si dice che di solito la Ue non spreca le proprie crisi, le usa per andare avanti nell’integrazione. Come fare, anche in questo caso, non è un mistero. Sul tavolo dei governi è arrivato da pochi giorni un documento, il «Rapporto dei 5 presidenti», che propone quali misure prendere per rafforzare la governance dell’Eurozona e in quali fasi farlo. Lo hanno preparato Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Martin Schulz. È ambizioso: punta a una progressiva convergenza strutturale delle economie dell’euro, a un’unione economica, finanziaria, di bilancio e politica che in un decennio dovrebbe essere realizzata.
Finora, Frau Merkel non ha preso l’occasione di questo documento per cercare di rilanciare la credibilità dell’Europa di domani. L’aspettativa è che lo faccia forse già dalla settimana prossima: d’altra parte, il Rapporto e la riforma della Ue chiesta dalla Gran Bretagna sono le due occasioni che l’Europa ha per non finire, dopo la crisi greca, in un gomitolo di recriminazioni, accuse reciproche e chiusure ma di rilanciare una prospettiva. Strada impervia. Ma l’alternativa, per Frau Merkel, è passare alla storia come colei che disfece ciò che Kohl costruì.

«È un gioco ormai politico, più che economico: creare paura e panico per far cadere Tsipras». Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2015 (m.p.r.)

«Inammisibile e quanto meno irrituale l’ennesimo tentativo tedesco di interferire nella politica greca». Una volta c’erano i colonnelli, oggi l’austerità della Germania, la Grecia è sempre la vittima e Barbara Spinelli, eurodeputata della Sinistra europea, figlia di Altiero, padre dell’Europa, accusa: «È in atto un tentativo di colpo di Stato post-moderno». Le ultime ore sono concitate. Juncker riapre, Tsipras avanza nuove richieste. Si riavviano le trattative, ma interviene la Merkel: «No al terzo salvataggio prima del referendum».

Cos’altro vuole la Germania? Il sangue greco? È un intervento gravissimo. Non può e non deve essere il cancelliere, l’interlocutore di Atene. Le trattative le porta avanti la Troika, anche se i greci rifiutano di chiamarla così: Commissione europea, Bce e Fmi. Anzi sarebbe bene che Atene negoziasse prescindendo dal Fmi. Il resto è ingerenza. Qual è il motivo dell’ingerenza?
Si configura come un colpo di Stato di tipo nuovo: una forma di regime change. È un gioco ormai politico, più che economico: creare paura e panico per far cadere Tsipras.
Perché?
Per avere di nuovo, in Grecia, un gruppo dirigente in linea con l’austerità voluta da Berlino. Ma è proprio così che si è generato il disastro europeo che stiamo vivendo. Non è responsabile solo la Merkel, ma anche la Lagarde, Renzi e molti altri.
Non era questa l’Europa sognata da suo padre a Ventotene...
Era l’opposto. È stata azzerata la solidarietà, l’Unione oggi viola il proprio stesso Trattato, che prescrive la “cooperazione leale” in caso di crisi. Dovrebbe essere citata davanti alla Corte di Lussemburgo. E la Bce non è in grado di svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza. L’interruzione degli aiuti d’emergenza viola le regole stesse della Bce, che dovrebbe garantire stabilità finanziaria nell’eurozona.
Boccia anche l’operato di Mario Draghi, quindi?
Difendo l’indipendenza della Bce e il ruolo positivo spesso svolto durante la crisi dell’euro. Negli ultimi frangenti, però, la stessa Bce ha svolto un ruolo molto dubbio, di parte. Non indipendente.

Crede che il suo gruppo, la Sinistra europea, abbia responsabilità?
La Sinistra europea è minoritaria, non mi pare responsabile di questo dramma.

Almeno la responsabilità della sconfitta?
Il governo Tsipras ha indetto un referendum: non è una sconfitta, ma un ritorno alla natura democratica della costruzione europea contro le decisioni prese da poteri oligarchici. L’azione di Tsipras è una scommessa sulla democrazia, l’elemento che più è mancato nella crisi dell’euro.
La cura potrebbe essere l’unità tra sinistra radicale e socialdemocrazia?
È la cosa in cui spero moltissimo. Così come punto su alleanze con i Verdi. Ma non sembrano esserci ancora le condizioni. Dopotutto i partiti socialisti (la Spd tedesca e anche il Pd) hanno sulla Grecia una posizione perniciosa, ambigua: interpretano il referendum come una scelta tra dracma ed euro. Ma Tsipras non ha alcuna intenzione di uscire dall’euro. I socialdemocratici sono dentro una deliberata strategia della paura e della menzogna, molto pericolosa.
Paradossalmente anche il Movimento cinque stelle racconta così questo referendum...
Fa molto male. Beppe Grillo ha tutto il diritto di pensare che la soluzione sia l’uscita dall’euro, ma non la penso così io e non la pensa così il governo Tsipras.
Che cosa succede se vince il sì? Il panico è tale che non si può escludere una vittoria del sì alle proposte della Troika, ancora nel segno dell’austerità. Credo che in quel caso il governo Tsipras accetterà comunque il nuovo mandato popolare, se ne farà interprete fino ad accettare le proposte della Troika e “riconfigurando il governo”, come ha detto il ministro Varoufakis.
L’Europa del dopoguerra era una speranza. Oggi non riesce a fornire alcuna risposta. Né economica né di civiltà. E il Mediterraneo sembra diventato un mare di migranti in costante pericolo di vita e di terroristi pronti a uccidere.
Non sono d’accordo con quest’ultima visione. È anch'essa il risultato della strategia della paura. È sbagliato mischiare migranti, richiedenti asilo, terroristi, scafisti: alimentando un immaginario di terrore nelle nazioni. Ingiusto e non corrispondente al vero.
«Un mini esercito di eroi per caso sostituisce lo Stato e fa a gara di solidarietà per salvare i più bisognosi».

La Repubblica, 1 luglio 2015 (m.p.r.)

Atene. L’armata degli angeli anti-crisi di Atene si è regalata un nuovo iscritto di peso. «Ci stavamo pensando da un po’» ammettono alla sede dell’Associazione dei medici ellenici. Poi domenica scorsa, davanti alle immagini in tv delle code ai bancomat e agli allarmi sulle scorte di medicine nelle farmacie, hanno rotto gli indugi. «Crisi o non crisi una cosa non cambia: i greci non hanno perso il vizio di ammalarsi», scherza Eirini Vathis, infermiera all’Evangelismos. E così la mini-Confindustria dei dottori – davanti al rischio dell’ennesima emergenza sanitaria - ha acceso il pc e mandato una mail a tutti i suoi iscritti: «Questa settimana, almeno fino al referendum, vi preghiamo di curare gratuitamente chiunque ne avesse davvero bisogno».

Un fiore nel deserto? Tutt’altro. Tsipras, Merkel e i tecnocrati della Troika sono i primattori mediatici della tragedia della Grecia. Dietro le quinte però, lontano dai riflettori, a scrivere il lato B dell’austerity sono altri protagonisti: un piccolo esercito di eroi per caso che in questi cinque anni passati come uno tsunami sul paese si è rimboccato le maniche e ha sostituito uno stato senza soldi, aprendo un ombrello di solidarietà sulla parte più debole della società. «Platone dice che la comunità si costruisce quando la gente non è più autosufficiente » è il mantra di Xenia Papastravou, laurea alla London School of Economics e anima della Ong Boroume. Lei è uno dei primi angeli della capitale: nel 2011 - mentre era dal panettiere verso l’ora di chiusura - ha adocchiato 12 torte di formaggio che due ore dopo sarebbero finite come avanzi in pattumiera. E, con l’ok del fornaio, le ha portate alla mensa della chiesa locale, dove ogni sera si allungava una fila di persone che non avevano i soldi per la cena.
L’economista che c’è in lei ha fiutato il business. A fin di bene. E oggi quelle torte di formaggio si sono moltiplicate come i pani e i pesci. Boroume ha distribuito lo scorso anno in tutta la Grecia 1,3 milioni di pasti strappati alla spazzatura (il 400% in più del 2013). Donano gli avanzi gli alberghi di lusso, regalano i cibi vicini alla scadenza le catene di supermercati. «Il telefono non smette mai di squillare» racconta uno dei 60 volontari che ruotano attorno al piccolo ufficio nel cuore della vecchia Atene, dove un data base hi-tech incrocia la domanda (purtroppo ancora in aumento) e l’offerta, pilotando a destinazione qualcosa come 4mila pasti al giorno.
A 100 metri dal quartier generale della geniale Borsa degli scarti alimentari di Alexandra c’è la clinica gratuita di Doctors of the world, che dal 2012 a due mesi fa – quando il governo Syriza ha reintrodotto il concetto di copertura sanitaria per tutti - è stata uno dei pochissimi punti di riferimento per quel milione di greci che dopo un anno di disoccupazione ha perso il diritto all’assistenza medica gratuita. «Pensavamo di aver visto tutto, ma di fronte al rischio del default del paese ci stiamo preparando al peggio» racconta Dimitris nel suo camice blu, uno dei pediatri volontari che la mattina visitano i bambini. «La nostra clinica mobile lo scorso anno ha assistito 80mila persone» racconta Nikitas Kanakis, l’anima di questa oasi di solidarietà in uno dei quartieri più problematici della capitale. E ogni mattina davanti all’ospedale c’è una fila di un centinaio di persone in attesa «tra cui i greci – ammette sconsolato -sono sempre di più». L’Europa si sta sfaldando in diretta in queste ore in un ping-pong tra Atene, Berlino e Bruxelles. I suoi valori, per fortuna, resistono ancora in queste strade strette e spesso un po’ malandate sotto il Partenone.
Ogni venerdì a Ermou, davanti ai negozi delle griffe, si piazza la cucina mobile di O Allos Anthropos sotto il cartello “Cibo gratis per tutti” a servire pasti gratuiti. Manna in un paese (dati Ocse) dove la percentuale di chi non può permettersi un pasto è raddoppiata dal 2008 al 18%. Ci sono gli psicologi di Klimaka che aiutano le persone in difficoltà neurologica (i suicidi nel paese sono aumentati del 35 per cento), la Kyada che ha organizzato centinaia di posti letto per i senza tetto. In questi giorni, da Salonicco ad Atene, si stanno moltiplicando le iniziative spontanee per aiutare le centinaia di migranti che ogni giorno passano qui nel corso dell’Odissea per fuggire dalle guerre.
Al Pireo, nel cuore della vecchia base americana, lavorano i volontari della Metropolitan Clinic of Helliniko. Il governo ha tagliato i fondi agli ospedali – scesi da 640 milioni a 43 nei primi quattro mesi dell’anno – e molti arrivano qui, di fronte al vecchio campo di baseball dei militari a stelle e strisce, per farsi curare o prendere medicinali. «Siamo a quota 1.100 visite al mese» dice Christos Sideris, uno dei coordinatori dell’iniziativa appena premiata dal Parlamento europeo con un riconoscimento («un premio ipocrita – dice Christos – senza l’imposizione della loro austerity di noi non ci sarebbe bisogno»). L’università di Atene calcola che nel paese – in questi cinque anni d’austerity - siano spuntate almeno 500 iniziative spontanee di solidarietà come queste.
Il Pil scende, la Troika taglia le pensioni. Ma il numero degli angeli di Atene, almeno quello e per fortuna, continua a crescere.

Articoli di di Dimitri Deliolanes e di Pavlos Nerantzis. sugli eventi di una giornata cruciale, per L'Europa e il suo futuro. Il manifesto, 1° luglio 2015


Ad Atene in piazza il fronte del sì
di Pavlos Nerantzis

Il governo greco non accetta l’ultima proposta in extremis dei «creditori», e conferma: «Referendum non in discussione»

Una gior­nata piena di riu­nioni al Megaro Maxi­mou, sede del governo, ma anche di infor­ma­zioni con­trad­dit­to­rie per un’eventuale intesa tra Atene e i suoi cre­di­tori. A piazza Syn­tagma di fronte al par­la­mento, que­sta volta era pre­sente il «fronte del sì», ovvero i greci che vor­reb­bero ad ogni costo un accordo con le «isti­tu­zioni». Migliaia di per­sone a mani­fe­stare la volontà di accet­tare le con­di­zioni dei cre­di­tori, spinti per strada — forse — dalla cam­pa­gna media­tica dell’opposizione che ritiene che il refe­ren­dum possa allon­ta­nare, per sem­pre, la Gre­cia dalla Ue.

Di sicuro rap­pre­sen­tano una parte dei greci, com­presi alcuni elet­tori di Syriza, che non vogliono in alcun modo il rischio di un’uscita dall’euro. Il pre­mier Tsi­pras (che ieri ha avuto comu­ni­ca­zioni tele­fo­ni­che con Dra­ghi, Mer­kel, Hol­lande e Schulz), secondo alcuni media locali si sarebbe schie­rato a favore di una solu­zione soste­ni­bile; altre fonti — invece — dice­vano che «siamo molto vicini ad un’intesa». Lo stesso Tsi­pras che fa cam­pa­gna per il «fronte del no», è stato chiaro anche durante un’intervista alla tv pub­blica Ert lunedi sera: «rispet­te­remo la volontà dell’elettorato, anche se io non sono un uomo per tutte le sta­gioni». Vale a dire che nel caso vin­cesse il «fronte del sì», il pre­mier non ha altra scelta che dimet­tersi, aprendo la strada ad un ricorso anti­ci­pato alle urne e a un periodo di insta­bi­lità poli­tica. In tal caso il governo delle sini­stre sarebbe una paren­tesi e la scon­fitta non sarà sol­tanto greca.

A que­sto punto si pone la domanda: per­ché il pre­mier greco non si è aggrap­pato all’opportunità for­nita da Junc­ker, che avrebbe pro­po­sto un accordo in extre­mis (con l’aliquota dell’Iva al 13% per gli alber­ghieri e i ser­vizi turi­stici e non al 23%) e un impe­gno da parte dell’ Euro­gruppo per una ristrut­tu­ra­zione del debito? Tanto è vero che Tsi­pras ha annun­ciato il refe­ren­dum per far mag­gior pres­sione sulle «isti­tu­zioni» affin­ché ridu­ces­sero le pre­tese per arri­vare ad un’intesa e per «distri­buire» il peso della respon­sa­bi­lità di una deci­sione che potrebbe essere inter­pre­tata come una resa ai cre­di­tori o, in caso con­tra­rio, un salto nel buio.

Nel caso dovesse esserci un accordo prima del refe­ren­dum della dome­nica pros­sima ci sono due pos­si­bi­lità: o la con­sul­ta­zione verrà annu­lata, un’eventualitá tutto som­mato scarsa — «il refe­ren­dum comun­que sarà rea­liz­zato» ha detto ieri il mini­stro Nikos Pap­pas, brac­cio destro di Tsi­pras — oppure il governo si schie­rerà a favore del «si».

La mag­gio­ranza dei greci vuole con­ti­nuare a uti­liz­zare la moneta unica e pre­fe­ri­rebbe un accordo con i part­ner euro­pei del Paese piut­to­sto che una rot­tura. È quanto risulta da due son­daggi effet­tuati prima di sabato, giorno in cui Tsi­pras ha annun­ciato il refe­ren­dum. Nel son­dag­gio della Alco per il set­ti­ma­nale Proto Thema, il 57% degli inter­vi­stati ha detto di rite­nere che la Gre­cia dovrebbe fare un accordo con i part­ner euro­pei, men­tre il 29% ha detto di pre­fe­rire una rottura.

Dal son­dag­gio con­dotto dalla Kapa Research per il quo­ti­diano To Vima è emerso che il 47,2% degli inter­vi­stati vote­rebbe a favore di un accordo, per quanto dolo­roso, con i cre­di­tori, con­tro il 33% che vote­rebbe no e il 18,4% di inde­cisi. Entrambi i son­daggi sono stati con­dotti a livello nazio­nale dal 24 al 26 giu­gno. Tenendo poi conto del clima di pre­oc­cu­pa­zione e di ten­sione crea­tosi dalla deci­sione di chiu­dere le ban­che gre­che, ana­li­sti fanno notare che «la per­cen­tuale a favore di un’intesa e quindi del sì dovrebbe essere aumentato».

A que­sto spo­sta­mento ha con­tri­buito la cam­pa­gna di inti­mi­da­zione, se non di ter­ro­ri­smo dell’opinione pub­blica da parte dei media main­stream, ali­men­tata da altri due fat­tori: la chiu­sura delle ban­che seguita dal capi­tal con­trol e il limite dei 60 euro al giorno dai ban­co­mat. Oggi apri­ranno i bat­tenti a quasi mille filiali per pagare le pen­sioni ai clienti che non pos­sie­dono carte di cre­dito, ma il clima è peg­gio­rato rispetto ai giorni precedenti.

La con­fu­sione, l’ansia e il ner­vo­si­smo sono evi­denti sui volti delle per­sone, in gran parte pen­sio­nati, che sotto la piog­gia fanno delle lun­ghe file di fronte ai ban­co­mat, soprat­tutto quelli della Natio­nal Bank of Greece. La poli­zia greca è stata posta in stato di allerta nel timore di atten­tati dina­mi­tardi con­tro i ban­co­mat o taf­fe­ru­gli tra i clienti in fila. Pre­oc­cu­pati pure i com­mer­cianti e le aziende di espor­ta­zione, per­ché oltre al calo pau­roso delle ven­dite — già ridotte — hanno pro­blemi di liqui­dità. 350 milioni di euro saranno persi que­sta set­ti­mana, secondo l’Associazione dei com­mer­cianti di Atene. Inol­tre, il «fronte del sì» sta cre­scendo per­ché il governo non ha ancora chia­rito cosa fare il giorno dopo il refe­ren­dum nel caso vin­cesse il «no», rispetto alle pro­po­ste dei cre­di­tori. Il discorso gene­rico «avremo un potere di nego­ziato più forte» con­vince i mili­tanti di Syriza, ma non tanti altri elettori.

Un «no» forte sicu­ra­mente raf­for­zerà il potere con­trat­tuale del pre­mier greco, ma pre­sen­tan­dosi a Bru­xel­les Tsi­pras rischia di non tro­vare i suoi inter­lo­cu­tori delle «isti­tu­zioni» per­ché sem­pli­ce­mente potreb­bero dire che il nego­ziato è ter­mi­nato. A quel punto la Gre­cia cam­mi­nerà su «acque sco­no­sciute». La Bce potrebbe chiu­dere i rubi­netti –da ieri il Paese non è più nel pro­gramma di aiuti e l’agenzia di ratings Fitch ha declas­sato le quat­tro ban­che elle­ni­che al grado Rd (fal­li­mento in parte, Restric­ted default)- pro­vo­cando in un primo momento il crollo del sistema ban­ca­rio greco e in seguito, l’intervento dello stato. Con un’economia in ginoc­chio da parec­chi anni causa reces­sione, il governo greco, anche se non lo vuole, non avrebbe altra pos­si­bi­lità che chie­dere aiuti da paesi fuori dalla Ue, nazio­na­liz­zare gli isti­tuti di cre­dito e stam­pare la dracma.

Visto che il pre­si­dente della Repub­blica, Pro­ko­pis Pavlo­pou­los, ex mini­stro della Nea Dimo­kra­tia, ha chia­rito parec­chie volte che «non sarò mai il pre­si­dente di un paese che esce dalla moneta unica», nel caso di un ritorno alla dracma Pavlo­pou­los si dimet­terà pro­vo­cando nuove ele­zioni. Nei trat­tati Ue non è pre­vi­sta l’uscita di un paese mem­bro, ma a quel punto la Gre­cia rischia l’isolamento e un’esplosione della crisi uma­ni­ta­ria. Ieri Atene ha chie­sto dall’Esm la ristrut­tu­ra­zione del debito greco e un accordo di due anni per sod­di­sfare i suoi biso­gni di bilan­cio, men­tre il mini­stro delle finanze Yanis Varou­fa­kis ha detto che farà ricorso al Tri­bu­nale euro­peo nel caso i cre­di­tori doves­sero obbli­gare il paese a uscire dall’eurozona.

Tsipras, il vero europeista
di Dimitri Deliolanes

Ale­xis Tsi­pras è un euro­pei­sta. Non di quelli tutti reto­rica e finan­zia­menti: è un euro­pei­sta vero, di quelli che ci cre­dono. Lo si è visto nella sua lunga inter­vi­sta alla tv pub­blica Ert lunedì sera. I gior­na­li­sti gli ave­vano chie­sto per­ché ha lasciato che la Gre­cia rima­nesse fuori dal pro­gramma di “sal­va­tag­gio” che sca­deva ieri, in modo che la Bce non potesse sten­dere la sua coper­tura (Ela) sulle ban­che gre­che. Da qui lo sgra­de­vole prov­ve­di­mento di chiu­dere le ban­che per evi­tare il bank run.

La rispo­sta del pre­mier greco è stata una testi­mo­nianza di euro­pei­smo: «Non me lo aspet­tavo — ha ammesso Tsi­pras — il pro­lun­ga­mento era stato sem­pre con­cesso, non imma­gi­navo che lo negas­sero per una set­ti­mana». In altre parole, Tsi­pras ha ammesso di non essersi aspet­tato l’atto di guerra annun­ciato sabato scorso con sor­ri­setto odioso da Dii­js­sel­bloem e fina­liz­zato a far spar­gere la paura tra i greci e con­di­zio­nare l’esito del referendum.

Un’operazione che ha avuto un certo suc­cesso: se prima della chiu­sura delle ban­che la vit­to­ria del no era scon­tata, ora le cose sono cam­biate. Una parte non tra­scu­ra­bile dell’opinione pub­blica si è fatta con­di­zio­nare: dalle emit­tenti oli­gar­chi­che che non per­dono occa­sione di annun­ciare cata­strofi cosmi­che, dalla reto­rica su pre­sunti gre­xit che rim­balza tra Atene e le capi­tali euro­pee, ma anche dalla incer­tezza reale riguar­dante i rap­porti tra la Gre­cia e l’Europa.

Tsi­pras non se lo aspet­tava per­ché pensa che l’Ue sia un’Unione di paesi di pari dignità, la patria della demo­cra­zia e dei diritti dell’uomo. Ma ora sem­bra abbia deci­sa­mente rea­liz­zato che l’Ue, e in par­ti­co­lare l’eurozona, sono il ter­reno di cac­cia di mostri finan­ziari, che hanno anche impo­sto una loro «Costi­tu­zione mate­riale». Non è ammis­si­bile con­te­starla. Per que­sto è stato alzato un muro di intran­si­genza e men­zo­gne: «Greci dite di sì a qual­siasi pro­po­sta venga dai cre­di­tori», è stata l’esortazione di Junker.

Tsi­pras potrebbe pigiare l’acceleratore della crisi den­tro l’eurozona, minac­ciando aper­ta­mente di farla esplo­dere con tutti i fili­stei. Pun­tando, per esem­pio, sul fatto che la Bce e l’Ue sono i garanti del debito greco di fronte al Fmi. Debito greco che non sarà pagato nei pros­simi mesi. Ma non lo fa per­ché è un euro­pei­sta. Piut­to­sto che spa­rare, ha pen­sato bene di rilan­ciare la sua pro­po­sta di com­pro­messo, pronto, sem­pre e in qual­siasi momento, a fir­mare un «accordo soste­ni­bile» per dare indi­ca­zioni ai suoi elet­tori di votare dome­nica «sì».

La gior­nata tumul­tuosa di ieri ha segnato un punto in favore degli sforzi euro­pei­sti di Tsi­pras. Tra con­ferme e smen­tite, pro­po­ste più o meno atten­di­bili da parte di Junc­ker e un acceso atti­vi­smo da parte di tutti, del gruppo socia­li­sta a Stra­sburgo, del Pre­si­dente cipriota, del mini­stro fran­cese e di quello irlan­dese (per­fino di Renzi che ha con­cesso una lunga inter­vi­sta al Sole 24 Ore, per­dendo una splen­dida occa­sione di tacere) alla fine si è arri­vati alla riu­nione dell’eurogruppo ieri sera, ancora in corso men­tre scriviamo.

Egual­mente impor­tante è anche la deci­sione di Atene di risol­vere i suoi pro­blemi di liqui­dità ricor­rendo al Mse, il mec­ca­ni­smo di sta­bi­lità instau­rato alcuni anni fa. In sostanza, si tenta di aggi­rare le dif­fi­coltà create dal domi­nio di Schau­ble den­tro l’eurogruppo, per instau­rare le nuove misure su un piano com­ple­ta­mente nuovo. In altre parole, né no né sì ma una terza pro­po­sta, ancora tutta da nego­ziare. Con il van­tag­gio che ai nego­ziati non par­te­ci­perà il Fmi.

a menzogna è la prima regola rispettata in Italia (e in Europa). Il peggio è che è una menzogna senza innocenza: non meriterebbe d'essere accostata al ligneo Pinocchio.

Il manifesto, 1° luglio 2015

Nono­stante l’amichevole gesto con cui Mat­teo Renzi, rega­lan­do­gli una cra­vatta, accolse la prima volta il neo eletto primo mini­stro greco, è pro­prio lui che, arri­vati al dun­que, ha ora reso il peg­gior ser­vi­zio a Ale­xis Tsi­pras. Dicendo che il refe­ren­dum di Atene avrà per oggetto un pro­nun­cia­mento a favore dell’euro o della dracma. Pro­prio il con­tra­rio di quanto il governo greco si è sfor­zato di spie­gare. E cioè che non intende affatto optare per un ritorno alla moneta nazio­nale e uscire dall’eurozona, e invece aver più forza per imporre una discus­sione– che fino ad ora non c’è stata mai — su quale debba essere in mate­ria la poli­tica europea.

Final­mente qual­cuno che, anzi­ché cer­care riparo die­tro la fati­dica affer­ma­zione “ce lo chiede Bru­xel­les”, come ci hanno abi­tuato i gover­nanti euro­pei, pre­tende di dire la sua sulle scelte lì compiute.

E’ certo vero che nella stessa Gre­cia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vor­rebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è que­sto l’oggetto della con­sul­ta­zione. Tsi­pras chiede più forza per nego­ziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il pos­si­bile even­tuale e depre­cato esito di un fal­li­mento defi­ni­tivo del negoziato.

Un’eventualità che in que­ste ore sem­bra forse scon­giu­rata, seb­bene il signor Tusk, il più rude delle isti­tu­zioni, abbia all’ultimo appun­ta­mento but­tato fuori dal tavolo i nego­zia­tori greci, dichia­rando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il con­tra­rio). E’ una spe­ranza fle­bile, ma già dimo­stra che rifiu­tare i ricatti è giu­sto.

Pur­troppo tutta la lunga trat­ta­tiva è stata accom­pa­gnata da un fra­stuono media­tico che ha creato grande con­fu­sione. E così la gente meglio inten­zio­nata con­ti­nua a chie­dere se è pro­prio vero che i greci hanno una ple­tora di dipen­denti pub­blici, quando invece ne hanno, pro­por­zio­nal­mente, la metà della Germania.

Se è vero che vanno tutti in pen­sione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è supe­riore a quella dell’Unione euro­pea e la spesa pub­blica per il pen­sio­na­mento, sem­pre pro­por­zio­nal­mente, metà di quella fran­cese e un quarto di quella tede­sca. La pro­dut­ti­vità è bassa ma è cre­sciuta assai di più che in Ita­lia e per­sino che in Germania.

Se poi si guar­dano nei det­ta­gli i punti sui quali la squa­dra greca ha trat­tato e si è rifiu­tata di acco­gliere le pro­po­ste delle isti­tu­zioni euro­pee è dif­fi­cile rima­nere insen­si­bili alle sue ragioni: rifiu­tare un aumento dell’Iva sui generi di prima neces­sità (cibo, pro­dotti sani­tari, elet­tri­cità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turi­smo; respin­gere la richie­sta di varare una legge che con­senta licen­zia­menti di massa. Rifiuto, anche, a can­cel­lare i pre­pen­sio­na­menti esi­stenti, ma biso­gna ben tener conto che una quan­tità di gente è stata licen­ziata e non ha altre fonti di sosten­ta­mento. E invece è Bru­xel­les che ha rifiu­tato la richie­sta greca di un aumento del 12 % di tasse sui pro­fitti che supe­rano i 500.000 milioni.

Si con­ti­nua a ripe­tere osses­si­va­mente che la Gre­cia deve fare le riforme, ma, come del resto in Ita­lia, non si dice mai esat­ta­mente di quali riforme si tratti e in che modo quelle pro­po­ste, o attuate (vedi job act o Ita­li­cum da noi) pos­sano in qual­che modo aiu­tare una ripresa eco­no­mica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una poli­tica tanto miope da impe­dirla? Que­sta è la lezione che viene dalla Gre­cia: se invece di insi­stere su que­sta come sola ricetta già dal 2010 si fos­sero invece sacri­fi­cati pochi soldi per con­sen­tire gli inve­sti­menti neces­sari alla moder­niz­za­zione del paese non saremmo a que­sto punto.

I greci oltre che fan­nul­loni sareb­bero anche imbro­glioni per­ché hanno preso i soldi e non li resti­tui­scono. Se qual­cuno avesse memo­ria, un bene che sem­bra ormai raro, ci si ricor­de­rebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scop­piò il dramma del debito accu­mu­lato dai paesi del terzo mondo da poco arri­vati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vit­time di quelli che allora non si ebbe timore di chia­mare “spac­cia­tori”. Per­ché è così che si inde­bi­ta­rono oltre il ragio­ne­vole: per l’insistente offerta di acce­dere a un modello di con­sumo super­fluo e dan­noso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto per­ché così con­ve­niva ai pre­sta­tori che poi pas­sa­rono a chie­dere il conto.

La Gre­cia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accu­mu­lata pro­prio così, per colpa di ban­che e di imprese senza scru­poli. Che peral­tro sono state oggi — erano tede­sche sopra­tutto ma non solo — feli­ce­mente ripa­gate con danaro pub­blico europeo.

Quando, poco dopo l’ingresso della Gre­cia nella Comu­nità Euro­pea, nell’81, si arrivò al seme­stre di pre­si­denza affi­dato per la prima volta ad Atene, l’allora mini­stro degli esteri del governo di Andreas Papan­dreu, Cha­ram­po­pu­los, dichiarò: «Non pos­siamo restare silen­ziosi di fronte a una linea poli­tica che non prende in con­si­de­ra­zione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ric­chi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il pros­simo ingresso di Spa­gna e Por­to­gallo, sof­frirà di un dram­ma­tico gap nord-sud per affron­tare il quale sarà neces­sa­rio un vasto tra­sfe­ri­mento di risorse pub­bli­che e di un piano sta­tale inteso a con­di­zio­nare le sel­vagge regole del mercato».

Si trattò di una sag­gia pre­vi­sione. Di cui tut­ta­via anche il governo socia­li­sta greco finì per dimen­ti­carsi, sic­ché anche quando i governi socia­li­sti furono in mag­gio­ranza nel Con­si­glio euro­peo non ci fu alcuna modi­fica sostan­ziale nella linea poli­tica dell’Unione. Fu pro­prio allora che fu decisa la libera cir­co­la­zione dei capi­tali senza che alcuna misura di con­trollo e di uni­fi­ca­zione fiscale fosse assunta.

Renzi avrebbe avuto una buona occa­sione per ripren­dere il discorso e far valere le ragioni dei paesi euro­pei del Medi­ter­ra­neo, con­tro la logica assur­da­mente e fal­sa­mente omo­lo­gante che pre­tende di adot­tare linee di poli­tica eco­no­mica ana­lo­ghe per realtà così diverse. Fa comodo, natu­ral­mente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli strac­cioni del sud. Per di più comu­ni­sti. «Un’Europa senza il Medi­ter­ra­neo sarebbe — come ha scritto Pere­drag Mat­ve­je­vitch — un adulto pri­vato della sua infan­zia». Cioè un mostro.

Quando l’altro giorno ho sen­tito nel corso di un mede­simo gior­nale radio che le ultime noti­zie da Bru­xel­les riguar­da­vano un for­mag­gio senza latte, un cioc­co­lato senza cioc­co­lata, e sopra­tutto un ter­ri­to­rio senza immi­grati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo.

Ma non si può. Con la glo­ba­liz­za­zione abbiamo per­duto quel tanto di sovra­nità che gli stati nazio­nali ci con­sen­ti­vano. A livello mon­diale è quasi impos­si­bile costruire isti­tu­zioni che ce ne resti­tui­scano almeno una parte. La sola spe­ranza è di rico­struirle ad un livello più ampio del nazio­nale e più limi­tato del glo­bale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa arti­co­larsi. L’Europa è una di que­ste. Ma il discorso vale solo se lo spa­zio comune non è solo un pezzo di mer­cato, ma una scelta, un modello di pro­du­zione e di con­sumo diversi, una rivi­si­ta­zione posi­tiva di una comune tra­di­zione. Il nego­ziato di Atene ci aiuta, in defi­ni­tiva, ad andare in que­sta dire­zione. Ed è per que­sto che va sostenuto.

«I cre­di­tori vogliono essere certi che a pagare il "risa­na­mento" e la per­ma­nenza nell’eurozona sia la grande massa pro­le­ta­riz­zata dei lavo­ra­tori dipen­denti, costretti a vivere sta­bil­mente in mise­ria e in schia­vitù. Se a pagare fos­sero i grandi capi­tali, i conti tor­ne­reb­bero ugual­mente».

Il manifesto, 30 giugno 2015 (m.p.r.)

C’è un aureo testo di Kant che torna alla mente in que­ste ore in cui si con­suma l’attacco finale alla Gre­cia demo­cra­tica da parte dei cani da guar­dia dell’Europa oli­gar­chica, della finanza inter­na­zio­nale e del Nuovo ordine colo­niale a cen­tra­lità franco-tedesca. Nel 1784, l’autore della Cri­tica della ragione pura, già cele­ber­rimo in tutto il con­ti­nente, rispon­deva alla domanda sull’essenza dell’illuminismo. La indi­vi­duava nella scelta dell’autonomia; nella deci­sione con­sa­pe­vole e non priva di rischi di «uscire da una mino­rità della quale si è responsabili».

Inten­deva dire che affi­darsi alla guida di un tutore che per noi sce­glie e deli­bera è umi­liante ben­ché comodo. Che la libertà è affa­sci­nante ma il più delle volte peri­co­losa. E che l’insegnamento fon­da­men­tale del movi­mento dei Lumi che di lì a poco avrebbe por­tato i fran­cesi a sol­le­varsi con­tro l’autocrazia dell’antico regime con­si­ste pro­prio in que­sto: nel con­si­de­rare l’esercizio dell’autonomia indi­vi­duale e col­let­tiva un inde­ro­ga­bile dovere morale e poli­tico. Un fatto di dignità. Essere uomini signi­fica in primo luogo deci­dere per sé e rispon­dere delle pro­prie scelte. Rifiu­tarsi di vivere sotto il giogo di qual­siasi potere impo­sto con la vio­lenza delle armi o della super­sti­zione, del denaro o del conformismo.

Sono tra­scorsi oltre due secoli densi di sto­ria. Il mondo è cam­biato. Ma nes­suno direbbe che quelle di Kant sono con­si­de­ra­zioni arcai­che, ina­datte al nostro tempo. Siamo tutti pronti a sot­to­scri­verle. Rifor­mu­late con parole meno alate, le ripe­tiamo ogni qual­volta ragio­niamo sui prin­cipi demo­cra­tici ai quali vor­remmo si ispi­ras­sero le nostre società. Eppure che suc­cede quando i nodi ven­gono al pet­tine e la dignità di tutto un popolo è messa dav­vero in discus­sione, quando un intero paese è posto di fronte al bivio tra mino­rità e autonomia?

Anche se tele­vi­sioni e gior­nali di tutto il mondo fanno a gara per nascon­dere la realtà descri­vendo i greci come un gregge di bugiardi paras­siti (e atten­zione: vale per i greci oggi quel che ci si pre­para a dire domani sul conto di spa­gnoli, por­to­ghesi e ita­liani, sudici d’Europa), è abba­stanza chiaro il motivo per cui Ue, Bce e Fmi hanno deciso di sca­te­nare la guerra con­tro la Gre­cia. I soldi (pochi) sono più che altro un pre­te­sto. La sostanza è il modello sociale che deve prevalere.

I cre­di­tori vogliono essere certi che a pagare il «risa­na­mento» e la per­ma­nenza nell’eurozona sia la grande massa pro­le­ta­riz­zata dei lavo­ra­tori dipen­denti, costretti a vivere sta­bil­mente in mise­ria e in schia­vitù. Se a pagare fos­sero i grandi capi­tali, i conti tor­ne­reb­bero ugual­mente. E solo così l’economia greca potrebbe per dav­vero risa­narsi. Ma il prezzo poli­tico sarebbe esor­bi­tante, tale da vani­fi­care quanto è stato sin qui fatto, per mezzo della crisi, al fine di «rifor­mare» i paesi euro­pei e con­for­marli final­mente al modello neo­li­be­rale di «società aperta».

La par­tita è quindi squi­si­ta­mente poli­tica. Se non c’è di mezzo tanto un pro­blema di ragio­ne­ria quanto una que­stione poli­tica di prima gran­dezza – il modello sociale, appunto: i cri­teri base dell’allocazione delle risorse – allora è sacro­santa la pre­tesa del governo greco che a deci­dere se obbe­dire o meno ai dik­tat della troika sia il popolo che dovrà pagare le con­se­guenze delle deci­sioni assunte in sede euro­pea. È un fatto ele­men­tare di demo­cra­zia. Che però spo­sta il con­flitto sul ter­reno, cru­ciale e deci­sivo, della legit­ti­ma­zione dell’Europa unita: uno spo­sta­mento del tutto inaccettabile.

Non c’è da sor­pren­dersi se pro­prio la deci­sione di Tsi­pras di andare al refe­ren­dum popo­lare abbia fatto sal­tare il banco. L’Europa – que­sta Europa dei tec­no­crati e degli spe­cu­la­tori – può accet­tare molte dero­ghe. Può tol­le­rare gravi infra­zioni alle regole finan­zia­rie, come ha dimo­strato pro­prio nei con­fronti di Fran­cia e Ger­ma­nia. Può anche fati­co­sa­mente chiu­dere un occhio su qual­che misura tesa a ridurre l’iniquità delle cosid­dette riforme strut­tu­rali che i paesi sono chia­mati a rea­liz­zare per con­for­marsi al modello sociale prescritto.

Ma sulla que­stione delle que­stioni – la sovra­nità – non si tran­sige. Nes­suno può rimet­tere in discus­sione il fatto che in Europa i pre­sunti «popoli sovrani» non hanno voce in capi­tolo sul pro­prio destino. Fin­ché si scherza, magari fin­gendo di avere un par­la­mento euro­peo, bene. Ma guai ad aprire una brec­cia sulla costi­tu­zione dispo­tica dell’Unione, che è il suo fon­da­mento ma anche, a guar­dar bene, il suo tal­lone d’Achille.

Se que­sto è vero, allora un silen­zio pesa assor­dante men­tre le cro­na­che docu­men­tano le bat­tute finali di quest’ultima guerra inte­stina del vec­chio con­ti­nente. Dove sono finiti i «grandi intel­let­tuali», quelli che lo spi­rito del tempo desi­gna a pro­pri por­ta­voce, coloro la cui sapienza e sag­gezza reca l’onore e l’onere di indi­care la retta via quando il cam­mino si ingar­bu­glia? Non se ne vede l’ombra. Tutto su que­sto fronte tace, come se si trat­tasse di baz­ze­cole. Eppure c’è ancora qual­che sedi­cente filo­sofo, qual­che sto­rico, qual­che giu­ri­sta o socio­logo in Europa. C’è chi si atteg­gia a inter­prete auten­tico della crisi e sforna a ripe­ti­zione libri che discu­tono di Europa e di demo­cra­zia. Forse che, per tor­nare al vec­chio Kant, ciò che vale in teo­ria non serve a nulla in pratica?

Ci si domanda che farebbe oggi un novello Zola (o un nuovo Sar­tre) di fronte alla pre­po­tenza e alla viltà di quest’Europa. Eppure non occor­rono gesti eroici per ricor­dare che esi­stono diritti invio­la­bili, per chia­rire che nes­suna ragione al mondo con­sente di sca­ra­ven­tare un popolo nell’indigenza e nella dispe­ra­zione, per ram­men­tare che in que­sta par­tita torti e ragioni sono, come sem­pre, ripar­titi fra tutte le parti in causa. Niente. Silen­zio. A sbrai­tare è solo chi può per­met­tersi di svol­gere due parti in com­me­dia, il ruolo dell’accusatore e quello del giu­dice. Quanto all’imputato, stiamo molto attenti. Nati a Palermo o a Sivi­glia, a Milano o a Lisbona, siamo tutti quanti greci anche noi.

«Intervista all'’economista Emiliano Brancaccio: “Se l’Euro registrerà una crepa sarà bene che avvenga da sinistra e non sull’onda nera montante di forze ultranazionaliste e xenofobe"».

Il manifesto, 30 giugno 2015

I «cre­di­tori» respin­gono la pro­po­sta del governo greco e chie­dono altre dosi di lacrime e san­gue. Tsi­pras si smarca dal ricatto e indice un refe­ren­dum, invi­tando a votare «no» alle richie­ste delle isti­tu­zioni euro­pee e del Fmi. Siamo a un passo dall’uscita della Gre­cia dall’euro? Quali saranno le riper­cus­sioni per il nostro paese e per l’Unione euro­pea? E in que­sto guado così dif­fi­cile, quale linea dovreb­bero assu­mere le forze poli­ti­che della sini­stra? Ne par­liamo con Emi­liano Bran­cac­cio, che inse­gna Eco­no­mia poli­tica ed Eco­no­mia inter­na­zio­nale all’Università del San­nio ed è stato pro­mo­tore del «monito degli eco­no­mi­sti» sulla crisi dell’eurozona pub­bli­cato nel 2013 sul Finan­cial Times.

Pro­fes­sor Bran­cac­cio, i prin­ci­pali organi di stampa attac­cano la deci­sione di Tsi­pras di indire un refe­ren­dum con cui chiede al popolo greco di respin­gere la bozza dei cosid­detti «cre­di­tori». Tor­nano alla ribalta gli slo­gan sui «greci irre­spon­sa­bili», che rifiu­te­reb­bero di «fare i com­piti» per risa­nare i conti e pre­ten­de­reb­bero di «pro­spe­rare a spese degli altri». Che ne pensa?
Basta osser­vare le sta­ti­sti­che uffi­ciali per ren­dersi conto che la realtà è un’altra. Negli ultimi cin­que anni i governi greci hanno dili­gen­te­mente appli­cato le ricette di auste­rity e di ridu­zione dei salari impo­ste dalla Troika. La spesa pub­blica è crol­lata del ven­ti­cin­que per­cento e le buste paga sono pre­ci­pi­tate di oltre il venti per­cento. Il risul­tato di que­ste misure è stato cata­stro­fico: la più pesante caduta della domanda, della pro­du­zione, dell’occupazione e dei red­diti mai regi­strata in epoca di pace, e un boom con­se­guente del rap­porto tra debito e red­dito. Il caso della Gre­cia sarà ricor­dato nei libri di sto­ria eco­no­mica come la prova empi­rica per eccel­lenza del fal­li­mento della dot­trina dell’austerity e della defla­zione salariale.

In que­ste ore però c’è chi è tor­nato a soste­nere che il disa­stro in cui versa la Gre­cia dipende anche dal fatto che per entrare nell’euro i governi elle­nici truc­ca­rono i conti.
È un’altra opi­nione infon­data. Innan­zi­tutto ricor­diamo che i ritoc­chi con­ta­bili li hanno fatti in tanti, per­sino i tede­schi. Ma poi stiamo ancora ai dati. Euro­stat ha sti­mato che tra il 1999 e il 2001 i «truc­chi con­ta­bili» della Gre­cia per entrare nell’euro ammon­ta­rono a meno di 10 miliardi. Non è una gran cifra se con­si­de­riamo che da quando la Gre­cia nel 2010 si è sot­to­po­sta ai pro­grammi della Troika, sono stati effet­tuati tagli alla spesa pub­blica per un ammon­tare com­ples­sivo di ben 106 miliardi. Insomma, i fami­ge­rati «truc­chi» per entrare nell’euro non rap­pre­sen­tano nem­meno il dieci per­cento degli enormi sacri­fici com­piuti dai greci per ten­tare di restarci, den­tro la moneta unica.

Veniamo alle pos­si­bili con­se­guenze del refe­ren­dum. Mat­teo Renzi afferma che si tratta di una scelta tra un «sì» e un «no» all’euro, lasciando inten­dere che lui sosterrà il «sì». Qual è la sua posi­zione?
Un’eventuale vit­to­ria dei «sì» pro­lun­ghe­rebbe solo l’agonia della Gre­cia e in pro­spet­tiva non garan­ti­rebbe la per­ma­nenza del paese nell’Unione mone­ta­ria. Di sicuro, invece, affos­se­rebbe per lungo tempo qual­siasi ipo­tesi di rilan­cio della sini­stra, in Gre­cia e non solo. Non esclu­de­rei la pos­si­bi­lità che Renzi miri esat­ta­mente a que­sto esito. Il «no» è l’unica opzione sen­sata.

Ma il «no» del popolo greco alla bozza delle isti­tu­zioni euro­pee impli­che­rebbe un’uscita del paese dall’euro? Il mini­stro delle finanze Varou­fa­kis con­ti­nua a soste­nere che la «Gre­xit» non è un’opzione con­tem­plata dal suo governo. Esi­ste ancora la pos­si­bi­lità di ria­prire la trat­ta­tiva?
Gli spazi di mano­vra si stanno strin­gendo, al punto in cui siamo non scom­met­te­rei su un’intesa. Molto dipen­derà dal com­por­ta­mento della Banca cen­trale euro­pea. In pas­sato Dra­ghi e gli altri mem­bri del diret­to­rio hanno con­di­zio­nato i loro inter­venti di sal­va­tag­gio al fatto che i paesi in dif­fi­coltà accet­tas­sero di sot­to­stare ai memo­ran­dum impo­sti dalla Troika, come nel caso cipriota. Se a Fran­co­forte non hanno cam­biato improv­vi­sa­mente linea, a un even­tuale «no» al refe­ren­dum pro­ba­bil­mente rispon­de­ranno con il blocco dei finan­zia­menti alle ban­che gre­che. A quel punto la Gre­cia sarebbe costretta ad avviare un per­corso di uscita dall’euro. Ma Tsi­pras e Varou­fa­kis potreb­bero affer­mare che sono stati but­tati fuori dall’Unione, e che la respon­sa­bi­lità dell’uscita è a carico della BCE e dei «cre­di­tori». In fin dei conti avreb­bero ragione.

Anche a sini­stra, c’è grande timore nei con­fronti di un tra­collo gene­rale dell’eurozona. La Gre­cia può diven­tare il fat­tore sca­te­nante in grado di met­tere in crisi l’intero pro­getto di uni­fi­ca­zione euro­pea?
La migliore ricerca eco­no­mica sostiene, da anni, che quello dell’eurozona è un pro­getto nato male, che crea squi­li­bri con­ti­nui tra paesi cre­di­tori e debi­tori e in pro­spet­tiva non è soste­ni­bile. Pre­sto o tardi biso­gnerà pren­derne atto, occor­rerà ripen­sare i ter­mini delle rela­zioni eco­no­mi­che inter­na­zio­nali. Occorre che la sini­stra affronti que­sta nuova fase sto­rica con una pro­pria visione e un pro­getto, potremmo dire un «nuovo inter­na­zio­na­li­smo del lavoro». Anche per que­sto, se l’impianto della moneta unica dovrà regi­strare una crepa, sarà bene che ciò avvenga da sini­stra, su impulso di un’Atene rossa, piut­to­sto che sull’onda nera mon­tante di forze ultra­na­zio­na­li­ste e xenofobe.

«Nella dannosa confusione di ruoli nell’Eurozona di questi mesi l’unica istituzione che ha fatto politica (cioè compromessi) è stata quella che dovrebbe essere solo un organismo tecnico: la Bce». Articoli di Angelo Baglioni e Fausto Panunzi.

Lavoce.info, 20 giugno 2015 (m.p.r.)

GRECIA: E ORA COSA SUCCEDE?
di Angelo Baglioni

Salvo sorprese dell’ultimo minuto, la Grecia sta scivolando verso l’insolvenza e l’uscita dall’euro. L’impatto immediato sarà drammatico per il paese ellenico. Ma in futuro chi rischia di perderci maggiormente saranno gli altri paesi europei. A cominciare dal nostro.

La vicenda greca è a una svolta decisiva e drammatica. È fin troppo facile individuare le responsabilità dei diversi partecipanti a questa tragedia: l’ottusità della Troika, l’improvvisazione del governo greco, la mancanza di iniziativa politica del governo tedesco e degli altri governi europei. Ben più difficile capire cosa potrà succedere d’ora in poi, ma cerchiamo comunque di farlo.

Le prospettive della Grecia…

Salvo una iniziativa a sorpresa, e molto tardiva, dei governi europei nelle prossime ore, domenica 5 luglio il popolo greco sarà chiamato a votare su un piano di assistenza finanziaria, condizionato a misure fiscali ed economiche, che di fatto non esiste più. Il piano è stato infatti ritirato dai ministri finanziari dell’Eurogruppo sabato 27 giugno, non appena appresa la notizia della indizione del referendum, che è stata accolta come una rottura delle trattative. Tecnicamente si tratta di un referendum privo di senso, anche per il fatto che implicitamente il popolo è chiamato a rispondere su una materia fiscale, che in genere non può essere materia referendaria per ovvie ragioni (non si va a chiedere alla gente se è d’accordo su un aumento della tasse). Tuttavia, il referendum ha un forte significato politico,sebbene Tsipras continui a negarlo: in sostanza il popolo greco deve decidere se restare nell’euro a ogni costo (comprese le misure imposte dalla Troika adesso e in futuro) oppure lanciarsi in un’avventura che potrebbe molto probabilmente portare il paese a uscire dall’euro.

Il referendum è un’iniziativa molto rischiosa, qualunque sia il suo esito. Se vincesse il “Sì” al piano della Troika, il governo attuale ne uscirebbe indebolito, visto che ha fatto campagna contro il piano stesso. Probabilmente si andrebbe a elezioni anticipate, e bisognerebbe ricominciare da capo una trattativa con un altro governo. Nel frattempo, per un periodo che potrebbe durare alcuni mesi, l’erogazione dei finanziamenti europei resterebbe bloccata. Se vincesse il “No”, quei finanziamenti verrebbero persi del tutto. Comunque vada, il governo greco non sarà in grado di fare fronte ai pagamenti più urgenti per restituire i suoi debiti nei confronti dell’Fmi (30 giugno ) e della Bce (20 luglio). In altre parole, la Grecia è insolvente.
A questo punto, ci si pone la domanda cruciale. L’insolvenza comporta l’uscita dall’euro? La risposta breve è: in questo caso si. La risposta più articolata è: dipende dal creditore. Se il creditore è un privato, un governo della zona euro può essere insolvente senza che questo comporti l’uscita dalla zona euro: questo è già successo nel 2012, quando il valore dei titoli di stato greci è stato tagliato della metà, senza che il paese uscisse dalla zona euro. Se invece il creditore è la Bce, le cose cambiano. Si tenga presente che il sistema bancario greco è nel mezzo di una grave crisi di liquidità: essendo sottoposto a un continuo ritiro di depositi, dipende dai prestiti forniti dalla Bce, che sono costantemente aumentati negli ultimi mesi. Questi prestiti possono essere mantenuti a due condizioni:

(i) le banche greche siano solvibili e (ii) i titoli presentati a garanzia siano accettati dalla Bce. Entrambe queste condizioni verranno meno con l’insolvenza dello Stato greco: (i) le banche subiranno perdite sui titoli detenuti in portafoglio e sui crediti alle imprese e alle famiglie, data la situazione che si verrà a creare, tali da erodere il loro patrimonio e portarle in una situazione di insolvenza; (ii) ben difficilmente la Bce potrà considerare accettabili come garanzia i titoli di debito di uno Stato insolvente, per di più verso la Bce stessa. Non a caso, il 28 giugno la Bce ha deciso di porre un limite a questi finanziamenti: per ora si è limitata a non aumentarli, ma è chiaro che è un passo verso la revoca, se la situazione dovesse precipitare. Una volta venuti meno i prestiti della Bce, l’unico modo per fare funzionare le banche greche sarà introdurre una nuova moneta, emessa dalla banca centrale greca. In una parola: Grexit.

…e per noi

Le conseguenze immediate del fallimento della Grecia e della sua uscita dall’euro potrebbero essere limitate. L’esposizione delle banche e dei soggetti privati è molto ridotta. Quella del governo è maggiore (50-60 miliardi), attraverso diversi canali (prestiti diretti, Fondo di stabilità europeo, Bce), ma l’impatto sui conti pubblici sarebbe dilazionato nel tempo. Quanto ai tassi d’interesse, l’Italia gode al momento dell’accesso ai mercati finanziari a costi bassi, anche per merito del Quantitative easing avviato dalla Bce a febbraio. Tuttavia, questo piano prima o poi terminerà, presumibilmente nel settembre del 2016. L’altro strumento a disposizione della Bce, l’Omt è di difficile utilizzo, poiché richiede che un governo stipuli un accordo di assistenza finanziaria con il Fondo di stabilità europeo (Esm), cosa che nessuno vuole fare per evitare di sottoporsi alle torture della Troika. Quindi in futuro l’uscita delle Grecia ci potrà danneggiare molto: qualora la sostenibilità della nostra finanza pubblica venisse rimessa in discussione, il rischio di nostra uscita dall’euro alimenterebbe la speculazione, e nessuno potrebbe più dire che l’euro è irreversibile. Questa, come abbiamo già sostenuto, è la differenza tra una unione monetaria e un accordo di cambio. Il ritorno del rischio di break-up potrebbe riportare lo spread ai terribili livelli del 2011. Più in generale, l’uscita della Grecia sarebbe l’inizio della fine per l’euro e comporterebbe un’inversione del processo di integrazione europea. Speriamo che i governi europei nelle ultime ore disponibili evitino il disastro. In fin dei conti, il resto dell’Europa ha molto più da perdere dal Grexit che la Grecia stessa.

ATENE, DOVE FALLISCE LA POLITICA EUROPEA

di Fausto Panunzi

Un accordo reciprocamente vantaggioso tra la Grecia e i suoi creditori sembrava possibile. Invece, si è arrivati alla rottura. Per molte ragioni, ma certo è che la governance dell’Eurozona non funziona. L’unica istituzione europea che in questo periodo ha fatto politica è stata la Bce.

Perché l’accordo era quasi certo
La scorsa settimana si era aperta all’insegna dell’ottimismo. La soluzione all’ormai estenuante trattativa tra il governo greco e le sue controparti europee sembrava essere a un passo. Poi c’è stato il moltiplicarsi dei vertici a Bruxelles fino all’annuncio del referendum chiesto da Alexis Tispras. Adesso è partito, come c’era da aspettarsi, il gioco a identificare il colpevole. Ma forse è più utile fare un passo indietro e capire la posta in gioco e quali fattori possono avere contribuito a questa impasse.
Considerate un’impresa che abbia un livello del debito molto elevato, tale da non poter essere interamente ripagato. L’impresa ha anche un nuovo progetto d’investimento che, se finanziato, genera utili. In questa situazione, potrebbe accadere che gli azionisti si rifiutino di finanziare il nuovo progetto perché gli utili da esso generati andrebbero a beneficio soprattutto dei creditori.

Come si può evitare l’inefficienza che tale fenomeno (detto debt overhang) crea? La risposta che si trova nei manuali è che occorre una rinegoziazione tra creditori e debitori che preveda da un lato la cancellazione (parziale) del debito in cambio del finanziamento del nuovo progetto. Chi guadagna di più dalla rinegoziazione? Dipende dal potere negoziale delle due parti. Ma il vero punto è che la rinegoziazione può essere nell’interesse sia del debitore (che vede il suo debito alleggerito) sia dei creditori (che si possono appropriare di una parte degli utili del nuovo progetto).
Adesso proviamo a pensare alla Grecia al posto dell’impresa e ai paesi e alle istituzioni europee nel ruolo dei creditori. Atene ha debiti che palesemente non può ripagare. Inoltre la sua economia è in recessione da anni, anche a causa di politiche di austerità prolungata. Far tornare a crescere il paese è nell’interesse sia dei cittadini greci che dei creditori. A tal fine, sono necessarie delle riforme (l’equivalente del nuovo progetto). La Grecia soffre di una forte evasione fiscale, ha una regolamentazione che sfavorisce la concorrenza nei mercati dei prodotti, una spesa pensionistica del 17 per cento del Pil (contro poco più del 12 della Germania), oltre a vari altri problemi.
Naturalmente, non è pensabile di combattere l’evasione fiscale in modo serio in pochi mesi. In Italia lo sappiamo fin troppo bene. Quindi il programma di riforme ha bisogno di un adeguato orizzonte temporale. Oltre alle riforme, occorre che la morsa dell’austerità sia allentata. Avanzi primari superiori all’1 per cento sono indesiderabili in questa fase. Programmi di aiuto alle fasce più deboli della popolazione sono invece indispensabili. Su queste basi, un accordo reciprocamente vantaggioso non sembra impossibile da raggiungere, specie tenendo conto che il Pil della Grecia è meno del 2 per cento di quello dell’Eurozona. Infatti, a un certo punto sembrava che l’accordo fosse dietro l’angolo. Eppure non è andata così, come la chiusura delle banche greche ci ricorda in modo fin troppo chiaro.

Che cosa è andato storto

Cosa è andato storto? In primo luogo, alcune delle istituzioni coinvolte non possono accettare una esplicita cancellazione, anche solo parziale, dei loro crediti. Questo rende anche le altre parti coinvolte meno propense a fare concessioni. In secondo luogo, la rinegoziazione è più difficile quando ci sono molte parti sedute al tavolo, specie se hanno obiettivi diversi. Chi parla per l’Europa? Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk? Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker? La cancelliera Angela Merkel? Chi di loro ha l’ultima parola? Dover convocare un Consiglio europeo ogni volta che un accordo sembra in vista non è il modo più efficace per convergere verso una soluzione. In terzo luogo, hanno pesato considerazioni politiche e non economiche.

Il primo ministro Tsipras è arrivato al potere dopo una campagna elettorale in cui aveva promesso fine dell’austerità e dei diktat della Troika e al contempo il mantenimento della Grecia nell’euro, senza però specificare come ciò poteva essere fatto. Dall’altra parte, ci sono paesi come la Spagna, che hanno attuato dure politiche di austerità, che vivrebbero come una sconfitta un accordo troppo “morbido” verso la Grecia. La paura che movimenti e partiti populisti possano esserne rafforzati ha certamente avuto un ruolo in queste settimane di trattative infruttuose.
In quarto luogo, ha pesato la mancanza di fiducia delle controparti verso il governo Tsipras. Proprio perché alcune riforme, come la lotta all’evasione richiedono tempo, ci si è concentrati su richieste, come quella dell’aumento dell’Iva, di immediata attuazione ma anche dagli effetti recessivi, particolarmente indigesti in questa fase. Infine, queste trattative avvengono con informazione incompleta. È difficile sapere fino a che punto può spingersi veramente la controparte. Quanto era credibile che Tsipras ottenesse un aiuto sostanziale da Putin? Chi pensava che il governo greco fosse pronto veramente a chiudere le banche? Quanto ha contato per Tsipras l’idea che i governi dell’Eurozona non avrebbero messo in discussione il dogma dell’irreversibilità dell’euro?
In queste condizioni, le trattative possono fallire, anche se un esito positivo sarebbe nell’interesse di tutte le parti coinvolte. Può darsi che il governo Tsipras abbia gran parte delle colpe nella vicenda. Personalmente giudico il referendum un’abdicazione dalle responsabilità della politica, ma su questo punto le opinioni possono divergere.
È difficile invece negare che la governance dell’Eurozona sia del tutto disfunzionale. Ogni volta che c’è una crisi si invoca una maggiore unione politica. Ma c’è davvero chi crede ancora che la mia generazione vedrà gli Stati Uniti d’Europa? E quella dei miei figli? La realtà, purtroppo, è che anche ipotesi meno radicali, come l’assicurazione sulla disoccupazione finanziata a livello europeo proposta da Luigi Zingales, non vengono nemmeno considerate. In questo vuoto politico, abbiamo lasciato per settimane a Mario Draghi la decisione se tenere a galla le banche greche mediante l’Ela (Emergency Liquidity Assistance) o farle fallire. L’unica istituzione europea che ha fatto politica è stata quella che dovrebbe essere solo un organismo tecnico, cioè la Banca centrale europea. Per quanto pensiamo si possa andare avanti così?

«Ridimensionare il ruolo del Pil nel dibattito e nelle scelte politiche significa intaccare il potere tecnocratico fondato su una teoria economica che non ammette alternative all’assolutezza delle sue prescrizioni». Sbilanciamoci.info, 30 giugno 2015

Già trent’anni fa Giorgio Ruffolo definiva il Prodotto nazionale lordo, un “idolo bugiardo”. Un indice al quale veniva attribuita la capacità di dar conto non solo della crescita economica di un paese, ma anche del suo progresso sociale.

L’inganno sta nel fatto che esso offre un’informazione distorta del progresso sociale. Questa consapevolezza ha sollecitato da tempo la costruzione di indicatori più appropriati del livello di “ben-essere” di una nazione. L’importanza dei nuovi indicatori risiede – oltre a certificare meglio le condizioni sociali esistenti – nel ruolo che avrebbero nel definire, in direzione socialmente più appropriata, gli obiettivi della politica economica.

La necessità di una tale innovazione è evidente nell’attuale fase storica nella quale la politica economica sta forzando la trasformazione degli assetti sociali ereditati dal passato. Legittimato da una teoria economica ristretta alle dimensioni strettamente economiche e quantitative del processo sociale, quando non ridotta esclusivamente agli aspetti finanziari, il policy maker può ignorare le altre dimensioni qualitative del benessere in quanto irrilevanti per le sue conclusioni.

Per tener conto del rapporto tra processo economico e situazione ambientale e socio-culturale non è peraltro sufficiente sviluppare una gamma di indicatori alternativi; è necessaria una teoria economica capace di spiegare come l’azione della politica economica influenzi e sia influenzata da quei fattori del benessere attualmente esclusi dal suo dominio di indagine.

Non si tratta di una questione teorica astratta, anzi. Si consideri, ad esempio, il caso – del Jobs Act? – nel quale la crescita della Pil è perseguita modificando la capacità contrattuale dei lavoratori con il deterioramento delle tutele e lo svilimento del loro ruolo e della loro dignità. Non disponendo di alcuna spiegazione della relazione tra benessere, aumento del Pil (peraltro sperato) e regressione nei rapporti di lavoro (peraltro certi), qualsiasi giudizio sugli effetti di questa politica in termini di benessere risulta infondato. In sostanza, assumere come obiettivo di politica economica il livello del Pil – solo parte del benessere della popolazione – condanna le prescrizioni degli economisti ad essere un’informazione distorta; tali prescrizioni non possono che avere un carattere “autoritario” quando - come si vede nel caso Grecia – si impone una teoria di riferimento che prevede una società ridotta ai soli rapporti economici per mettere a tacere le possibili alternative bollate come non scientifiche perché guardano al di là della sola contabilità nazionale.

Il superamento del Pil come criterio sufficiente per valutare i risultati perseguiti dalla politica economica non pone solo una questione analitica (l’estensione del dominio di indagine dell’economista), ma pone anche una questione politica dato che, in società complesse come la nostra, l’obiettivo di benessere può essere declinato in diversi modi. In altre parole, vi possono essere nel corpo sociale diverse idee di progresso sociale e civile tra le quali poter scegliere e ciò richiede la realizzazione di meccanismi di democrazia partecipata in grado di favorire, in uno spazio aperto e trasparente, le necessarie mediazioni tra interessi inevitabilmente diversi. In definitiva, assumere come riferimento il benessere piuttosto del Pil impone la ricerca di forme più avanzate di analisi economica e di pratiche democratiche.

Ma inevitabili sono anche le resistenze dei poteri costituiti. Ridimensionare il ruolo del Pil nel dibattito e nelle scelte politiche significa intaccare il potere tecnocratico fondato su una teoria economica che non ammette alternative all’assolutezza delle sue prescrizioni. La conquista di spazi di effettiva democrazia passa quindi anche attraverso la contestazione di quel nodo culturale che è l’informazione economica basata sul Pil che, a sua volta, è parte significativa di quella egemonia culturale fondata sulla pretesa “scientificità” di argomentazioni che, in maniera arbitraria e pretestuosa, delimitano i fattori (il prodotto invece del benessere) rilevanti per il futuro della società.

Riferimenti
Ci sembra d'obbligo il riferimento alla famosa definizione che Robert Kennedy dette del modermo totem chiamto PIL. Eccola qui.
«La Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco».

La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)

Ora, colpire i formaggi significa colpire il cuore del patrimonio agricolo e gastronomico italiano. In Italia esistono oltre 400 tipi di formaggi frutto di una straordinaria diversità: di climi, di paesaggi, di pascoli, di razze animali, di tecniche, di saperi. Sono questi 400 formaggi, dalle tome di montagna alle paste filate del sud - orgoglio e ricchezza di altrettanti territori - che dovrebbero poter «circolare liberamente» in Europa, per restituire valore ai loro luoghi di origine, non di rado in montagne o alte colline che proprio le logiche dell’iperindustrializzazione hanno spinto sempre più ai margini. Ma lo stesso discorso vale per i numerosi formaggi di qualità di altre nazioni, patrimonio di un’Europa che troppo spesso si dimentica di queste realtà per rispondere ad altre logiche.

E invece, l’Unione si muove con una lettera di diffida per consentire la libera circolazione di una materia prima anonima e industriale, il latte in polvere. Per favorire, dunque, un’idea completamente diversa di cibo: un cibo divenuto merce, disponibile in grandi quantità a prezzi sempre più bassi. Per favorire, in questo caso specifico, allevamenti intensivi, che hanno trasformato le vacche in macchine da latte, che non hanno più legami con la terra, con i cicli naturali e con il territorio.
Come Slow Food, ci battiamo da anni per promuovere i formaggi a latte crudo, le produzioni di alpeggio, le tecniche tradizionali, le razze autoctone. Almeno dal 1997, prima edizione di Cheese, che proprio quest’anno a settembre celebrerà il decimo anniversario. In quella occasione saranno tutti i migliori produttori d’Europa a dire insieme a noi un secco e perentorio «no» a questa assurdità. Anzi, lavoreremo perché l’ottima legge italiana diventi norma in tutta Europa. Ci stupiamo che la Commissione europea, spesso aperta alle nostre istanze e sensibile al valore culturale e sociale ed economico della biodiversità, subisca poi un’influenza così pesante da parte della grande industria, al punto da prendere strade diametralmente opposte.
E questo atteggiamento altalenante ci preoccupa soprattutto perché, proprio in queste settimane, l’Europa sta discutendo il Ttip, ovvero il trattato commerciale con gli Usa. Non vorremmo che il libero scambio delle merci si traducesse in libertà dalle regole che tutelano l’ambiente, i piccoli produttori e i consumatori. Il nostro cibo e noi consumatori meritiamo più attenzione e tutela da parte
dell’Ue.

Alcuni giorni fa, la Commissione europea ha ribadito all’Italia la richiesta di consentire la produzione di formaggi senza latte fresco. Avete capito bene: senza latte. La legge nazionale del 1974 (la numero 138 dell’11 aprile) che vieta l’uso di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito per produrre yogurt, caciotte, robiole e mozzarelle, secondo Bruxelles rappresenterebbe infatti una restrizione alla «libera circolazione delle merci». Libera circolazione delle merci prodotte dalle solite grandi lobby industriali interessate solo a spendere poco per guadagnare tanto, aggiungiamo noi. La legge 138 è una legge nazionale di cui andare fieri, perché ha consentito nel tempo di tutelare e promuovere prodotti unici di altissima qualità: di quel made in Italy di cui tanto ci vantiamo. Mi aspetto che il Governo italiano difenda questa normativa e non una logica al ribasso che non è utile a nessuno, tanto meno all’immagine del nostro Paese.

Questa vicenda scandalosa è l’ultima trovata burocratica in questo settore. Ci vengono subito in mente altre iniziative simili della Commissione europea, come quella a favore del cioccolato senza burro di cacao, o del vino senza uva, fatto con il famoso wine-kit. E ci ricorda ancora una volta che l’Europa ha due volti, molto spesso contrapposti. Da un lato un patrimonio di piccole produzioni di alta qualità, che potrebbero rappresentare il futuro dell’agricoltura e dell’artigianato alimentare, ma che faticano a sopravvivere. Dall’altro una produzione industriale che troppo spesso punta ad appiattire, a omologare, a ignorare l’origine delle materie prime, a cancellare il valore dei territori e dei saperi. Quando si tratta di legiferare o di assegnare contributi, purtroppo, prevale questa seconda realtà, capace di portare sui tavoli della politica europea numeri, volumi e interessi ben più significativi.

o francese lanciano questo appello che eddyburg cercherà di rilanciare in modo adeguato alla gravità della situazione: non solo per la Grecia, ma per tutta l'Europa che vuole cambiare nella direzione degli interessi delle persone, e non di un'economia divenuta disumana. La Repubblica, 29 giugno 2015
CARO direttore, chiediamo ai tre creditori della Grecia (Commissione, Banca centrale europea, Fondo Monetario internazionale) se sanno quello che fanno, quando applicano alla Grecia un’ennesima terapia dell’austerità e giudicano irricevibile ogni controproposta proveniente da Atene. Se sanno che la Grecia già dal 2009 è sottoposta a un accanimento terapeutico che ha ridotto i suoi salari del 37%, le pensioni in molti casi del 48%, il numero degli impiegati statali del 30%, la spesa per i consumi del 33%, il reddito complessivo del 27%, mentre la disoccupazione è salita al 27% e il debito pubblico al 180% del Pil.

Al di là di queste cifre, chiediamo loro se conoscono l’Europa che pretendono di difendere, quando invece fanno di tutto per disgregarla definitivamente, deturparne la vocazione, e seminare ripugnanza nei suoi popoli.

Ricordiamo loro che l’unità europea non è nata per favorire in prima linea la governabilità economica, e ancor meno per diventare un incubo contabile e cader preda di economisti che hanno sbagliato tutti i calcoli. È nata per opporre la democrazia costituzionale alle dittature che nel passato avevano spezzato l’Europa, e per creare fra le sue società una convivenza solidale che non avrebbe più permesso alla povertà di dividere il continente e precipitarlo nella disperazione sociale e nelle guerre. La cosiddetta governance economica non può esser vista come sola priorità, a meno di non frantumare il disegno politico europeo alle radici. Non può calpestare la volontà democratica espressa dai cittadini sovrani in regolari elezioni, umiliando un paese membro in difficoltà e giocando con il suo futuro. La resistenza del governo Tsipras alle nuove misure di austerità — unitamente alla proposta di indire su di esse un referendum nazionale — è la risposta al colpo di Stato postmoderno che le istituzioni europee e il Fondo Monetario stanno sperimentando oggi nei confronti della Grecia, domani verso altri Paesi membri.

Chiediamo al Fondo Monetario di smettere l’atteggiamento di malevola indifferenza democratica che caratterizza le sue ultime mosse, e di non gettare nel dimenticatoio il senso di responsabilità mostrato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods. Ma è soprattutto alle due istituzioni europee che fanno parte della trojka — Commissione e Banca centrale europea — che vorremmo ricordare il loro compito, che non coincide con le mansioni del Fmi ed è quello di rappresentare non gli Stati più forti e nemmeno una maggioranza di Stati, ma l’Unione nella sua interezza.

Chiediamo infine che il negoziato sia tolto una volta per tutte dalle mani dei tecnocrati che l’hanno fin qui condotto, per essere restituito ai politici eletti e ai capi di Stato o di governo. Costoro hanno voluto il trasferimento di poteri a una ristretta cerchia di apprendisti contabili che nulla sanno della storia europea e degli abissi che essa ha conosciuto. È ora che si riprendano quei poteri, e che ne rispondano personalmente.

Barbara Spinelli è europarlamentare indipendente del Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica. Étienne Balibar è un filosofo francese


Il premio Nobel per l'economia sputtana i mostri che governano l'Europa dell'UE: «Ritengo che spingere [Tsipras] sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle».

La Repubblica, 29 giugno 2015

Ad oggi ogni monito riguardo a un’imminente frattura dell’euro si è dimostrato infondato. A dispetto di quanto affermato in fase di campagna elettorale, i governi cedono alle richieste della troika, e parallelamente la Bce interviene per calmare i mercati. Tale dinamica ha permesso di tenere insieme la moneta unica, ma ha al tempo stesso perpetuato un’austerità profondamente distruttiva: non lasciate che qualche trimestre di modesta crescita metta in ombra l’immenso costo di cinque anni di disoccupazione di massa.

Da un puto di vista politico, i grandi perdenti di questa dinamica sono stati i partiti di centro-sinistra, la cui acquiescenza in fase di rigorosa austerità — e il conseguente abbandono di quei valori per i quali avrebbero presumibilmente dovuto battersi — produce danni ben più gravi di quelli che politiche analoghe mietono nel centro-destra.

Ho l’impressione che la troika (credo sia ora di smettere di fingere che qualcosa sia cambiato, e tornare a chiamarla con il vecchio nome) si aspettasse, o quanto meno si augurasse, che nel caso della Grecia la storia si sarebbe ripetuta: o Tsipras avrebbe preso come al solito le distanze dalla maggior parte della propria coalizione, trovandosi probabilmente obbligato a stringere un’alleanza con il centro- destra, o il governo Syriza sarebbe caduto. Cosa che infatti potrebbe ancora accadere.

Tuttavia Tsipras non sembra per ora disposto a lasciarsi cadere sulla propria spada. Anzi: di fronte all’ultimatum posto dalla troika ha indetto un referendum sull’opportunità di accettarlo o meno. La sua scelta produrrà certo grande preoccupazione e numerose dichiarazioni sul suo scarso senso di responsabilità, ma in realtà egli sta facendo la cosa giusta, e per due motivi.

Per cominciare, una vittoria del referendum rafforzerà il governo, conferendogli una legittimità democratica — cosa che in Europa credo conti ancora (e se non contasse occorre saperlo).

In secondo luogo Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra, con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l’euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, è lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la troika lo porti a un gesto estremo.

Ritengo che spingerlo sino a questo punto sia stato, da parte dei governi e degli istituti creditori, un atto di mostruosa follia. Eppure lo hanno fatto, e non posso assolutamente biasimare Tsipras per aver rimesso la questione nelle mani degli elettori anziché voltar loro le spalle.

©New York Times 2015 Traduzione di Marzia Porta

«Difficile da capire l’irrigidimento del Fondo monetario sul salvataggio greco. Dai dati viene fuori che Atene ha fatto molti tagli e alcune riforme anche in campo pensionistico. Con risparmi di spesa solo graduali nel tempo. È ora che i creditori ammettano che servono dieci anni, non tre, per aggiustare la Grecia». Lavoce.info, 26 giugno 2015 (m.p.r.)

Dopo il 2010 la Grecia ha ridotto il deficit pubblico, i salari e aumentato l’età del pensionamento. Oggi il paese è allo stremo, senza soldi per ripagare i suoi debiti. Il Fmi chiede di più, ma i creditori dovrebbero capire che ci vorranno cinque-dieci anni per rimettere la Grecia in carreggiata.

Il 24 giugno del 2011, con Angelo Baglioni e Massimo Bordignon firmavamo un pezzo intitolato “Grecia: peggio di così non si poteva fare”. Ci sbagliavamo: si poteva fare di peggio, eccome! Non si è pensato in tempo ad allungare l’orizzonte temporale dei prestiti e neppure quello delle manovre di consolidamento fiscali (eccessive e perciò recessive) e tantomeno quello delle cosiddette “riforme” (cioè riforma delle pensioni, riduzioni salariali e snellimento del pubblico impiego, rivelatesi altrettanto recessive). Il costo della crisi greca, con l’avvitamento recessivo, è salito enormemente, per i greci e per tutti gli europei. Ma si sa: pacta sunt servanda. Anche se sono pacta sceleris, magari imposti col ricatto dai più forti. Almeno, stavolta, la Bce è in mani più competenti di quelle che la reggevano nel giugno 2011 (anno in cui uno stordito board, ad aprile e ancora a luglio, aumentò il tasso di policy, temendo l’inflazione e non vedendo la seconda recessione europea e l’incombente tragedia greca). Ma, purtroppo, una Bce più saggia non può bastare, per come si sono messe le cose. Così, proprio mentre entriamo nella stagione che, col turismo, vale quasi il 15 per cento del Pil greco di un anno, la probabilità che si verifichi la Grexit è più alta che mai.

Una forte dose di medicina amara…

Eppure. Eppure la Grecia ha eseguito molti dei compiti che i creditori (l’odiata troika) avevano sciaguratamente richiesto. Il deficit pubblico è stato portato dal 15,6 per cento del 2009 al 3,5 nel 2014: il più consistente aggiustamento dell’intera Europa. Il surplus primario aggiustato per il ciclo supera il 5 per cento del Pil: il più alto d’Europa (l’Italia è seconda). Il Pil, nello stesso periodo, si è ridotto di 20 punti percentuali (contro una previsione del Fondo monetario di una riduzione del 5 per cento nei primi due anni e un successivo ritorno, nel 2014, ai livelli del 2009). La medicina fatta ingollare ai greci è stata amara: riduzione dei dipendenti pubblici del 25 per cento (255 mila unità); riduzione dei salari reali senza precedenti, dal momento che i salari nominali sono crollati ma i prezzi no; riforma delle pensioni che ha previsto di aumentare gradualmente l’età di pensionamento da 62 a 65 e poi a 67 anni per tutti (come risulta dall’Ageing Report 2015 della Commissione Europea, pp. 39-40); “riforme strutturali” che hanno portato la Grecia dal centonovesimo al sessantunesimo posto nel ranking del Doing Business Report tra 2010 e 2015. Col bel risultato che s’è detto: tracollo del Pil, aumento dell’incidenza della povertà assoluta e relativa, insolvenza finanziaria con i creditori.

…ma troppa rischia di ammazzare il paziente
E cosa vogliono questi ultimi al tavolo delle trattative? Un po’ di più della stessa medicina! Anzi il documento pubblicato oggi dal Wall Street Journal contiene un puntiglioso elenco di correzioni volte a inasprire e cambiare il mix di misure proposte dal governo Tsipras. Senza entrare nei dettagli, sembra che i creditori vogliano imporre un piano basato su maggiori tagli di spesa e minori incrementi delle tasse, secondo la dottrina (assai dubbia) che gli aumenti delle tasse sarebbero dannosi per la crescita mentre le riduzioni di spesa pubblica la favorirebbero. Se è difficile comprendere perché il governo greco voglia aumentare l’Iva, è incomprensibile perché i creditori glielo vogliano lasciar fare. Sarebbe utile nell’ambito di un’articolata strategia di svalutazione fiscale volta a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro per rilanciare la competitività delle esportazioni greche e, contemporaneamente, a ridurre i consumi interni grazie all’aumento dei prezzi al consumo (per l’aumento dell’Iva). Una strategia rischiosissima, dal momento che la Grecia al momento ha ben poco da esportare, anche guadagnando competitività, mentre deve assolutamente rilanciare i consumi interni se vuole sperare di tornare a crescere o quantomeno non decrescere (infelicemente) troppo. L’accelerazione dell’entrata a regime della riforma pensionistica e la riduzione dei prepensionamenti, come richiesto dai creditori, può essere un’idea ragionevole, purché non abbia effetti depressivi sulla domanda interna. Ma sarà così? Dove sono e quali sono le stime? Ci si limita agli effetti di impatto sul bilancio? O si guarda agli effetti complessivi, tenendo conto di quelli sul Pil? Nulla è chiaro in questa trattativa.
In generale, nessuno sembra capire, tra i creditori, che in Grecia più ancora che negli altri paesi della cosiddetta periferia dell’Eurozona, la crisi economica e finanziaria si è innestata su una debolezza strutturale per superare la quale si richiedono da cinque a dieci anni di lavoro costante, attento e cauto. Lavoro che non può essere svolto da nessun governo (anche più competente dell’attuale, che però è quello che i greci si sono democraticamente scelti) col permanente incubo del default e la rapinosa attenzione dei creditori alle scadenze trimestrali. Bene che i creditori (e il governo greco) abbiano chiaro nel rush finale di trattative dei prossimi giorni che il problema non è solo la scadenza di fine giugno o dei primi di luglio. Ma anche e soprattutto la sicurezza finanziaria per fare riforme per i prossimi 60-120 mesi, senza massacrare un intero paese. Se è troppo per le mire di rielezione di Christine Lagarde al Fmi, sarebbe bene che i paesi europei ripagassero il debito greco con il Fmi e lo facessero uscire dalla partita, assumendo sulle loro spalle (come sarebbe stato giusto fin dall’inizio) il problema di aiutare un paese membro dell’Unione a tornare in carreggiata.

«Thomas Piketty: “serve una conferenza per ristrutturare i debiti più insostenibili. Se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il boom, fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci”».

La Repubblica, 29 giugno 2015 (m.p.r.)

L’Europa sta per essere distrutta. Ma non dai greci e dall’ostinazione di Tsipras e Varoufakis, ma dai “conservatori” del Vecchio Continente, in particolare quelli tedeschi. E’ un Thomas Piketty furente a dire la sua, in un’intervista alla Zeit che il settimanale tedesco pubblica non a caso con grandissimo rilievo. Perché è un j’accuse - quello dell’economista divenuto una star internazionale con il suo Il capitale del XXI secolo - che cade come un meteorite in fiamme sulla cronaca greca di questi giorni.

«I conservatori stanno ad un passo dal devastare definitivamente l’idea europea, e lo fanno per colpa di uno spaventoso deficit di memoria storica. In particolare per quello che riguarda i debiti. Proprio la Germania di oggi dovrebbe capire il significato di quello che sta accadendo: dopo la guerra Gran Bretagna, Germania e Francia soffrirono di una situazione debitoria peggiore di quella della Grecia di oggi. La prima lezione che dovremmo trarne è che ci sono molti modi per saldare dei debiti: e non uno solo, come Berlino vorrebbe far intendere ai greci».
Sul banco degli imputati, non è difficile immaginarlo, soprattutto Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble. «Quando sento i tedeschi dire che sono mossi solo dall’etica e che sono fermamente convinti che i debiti debbano essere pagati, penso: ma questa è una barzelletta! La Germania è esattamente il paese che non ha mai onorato i suoi debiti, né dopo la prima né dopo la seconda guerra mondiale». Niente a che vedere con «l’accezione comune di ordine e giustizia: perché se la Germania nel secondo dopoguerra realizzò il , fu proprio grazie del fatto che i suoi debiti furono abbattuti, cosa che oggi neghiamo con ferocia ai greci».
Quello che propone Piketty è chiaro: una grande conferenza europea sul tema dei debiti. Qualcosa di paragonabile, come dimensione strategica, al Piano Marshall. Ma niente del genere è all’orizzonte, anzi. «La verità è che una ristrutturazione dei debiti è inevitabile in molti paesi europei, non soltanto in Grecia. E invece abbiamo appena perso inutilmente sei mesi di tempo a causa di trattative tutt’altro che trasparenti con Atene». Non solo. A Schaeuble, che sostiene che una eventuale Grexit addirittura favorirebbe una rinnovata compattazione europea, Piketty risponde con uno scenario opposto: se non cambia passo, l’Unione europea affronterà una crisi di fiducia ancora più grave. «Sarà l’inizio di una lenta agonia, nella quale sacrificheremo all’altare di una politica debitoria irrazionale il modello sociale europeo, persino in termini di democrazia e civilizzazione». L’ultimo pensiero, e non poteva essere altrimenti, è per la cancellera tedesca Angela Merkel: «Se vuole assicurarsi un posto nella storia, come Kohl con la riunificazione tedesca, deve avere il coraggio di un nuovo inizio. Chi invece oggi insiste nel voler cacciare la Grecia dall’eurozona finirà nella pattumiera della storia».
«Bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra».

Larepubblica.it, 27 giugno 2015 (m.p.r.)

C'è un modo peculiare per tener dietro alla rocambolesca evoluzione della scena geopolitica: star connessi al sito "Viaggiare sicuri" del Ministero degli esteri. Quegli addetti, come generali di una ritirata militare presso a farsi rotta, spostano via via più a ridosso dei nostri confini le bandierine del territorio ancora accessibile. La ritirata riguarda noi, la parte privilegiata, dalla quale si parte con documenti rispettabili, e un biglietto di andata e ritorno in tasca. Dalla parte opposta si viene arrancando, con le tasche vuote di andata e ritorno. La sicurezza, da quell'altra parte, è la più ironica delle parole. Ci si mette in viaggio a rischio della vita. Se si sopravvive, se si tocca terra d'Europa, libertà e democrazia, comincia un'altra traversata, altre soste immemorabili, sugli scogli di Ventimiglia e nei piazzali di Calais. Il vero discrimine del mondo di oggi, dice Zygmunt Bauman- lo ridice nel dialogo con Ezio Mauro - non corre più fra ricchi e poveri, ma fra mobilità e fissità, fra chi resta fermo e chi si sposta. Lui parla soprattutto della finanza globale, che a differenza dal capitalismo industriale non sottostà a vincoli territoriali e si muove fulmineamente da un capo all'altro del pianeta, fino ad annichilire la capacità negoziale di lavoratori e sindacati lasciati a boccheggiare su un loro suolo prosciugato.

Ma è la mobilità umana, nella sua doppia faccia, a opporre nuove classi: l'una urtata dalle guerre e le carestie, l'altra spinta da voglia di conoscenza e vacanza. Il fantasma dell'invasione barbarica e il miraggio del turismo, intelligente o avventuroso o semplicemente piacevole. Quanto pesa, nel nostro sentimento, anche il meno malintenzionato, la carta d'identità che ci fa attraversare con piede leggero i confini di Schengen, il passaporto che ci autorizza, tutt'al più con la seccatura d'un visto, a visitare il mondo pressoché intero. Quando diciamo "extracomunitario" non pensiamo a cittadini con passaporto canadese, o svizzero. Ed ecco che il mondo dei nostri dépliants ci si stringe sotto i piedi, nelle impronte rovesciate delle stesse eruzioni che travolgono e cacciano i fuggiaschi. A marzo, dopo il Bardo, era giusto proporsi di tornare, deprecare le grandi compagnie che cancellavano quelle coste dagli itinerari, promettersi un'estate tunisina colma di bellezze archeologiche e naturali e di dedizione solidale. Ma la cosa era legata a un filo: bastava uno o due di questi superstiziosi che infestano l'aria del tempo, col corredo di un kalashnikov e un paio di calzoncini da spiaggia per dare il colpo di grazia all'economia e all'anima di un paese intento a riscattarsi. Oggi è più difficile replicare gli impegni: non si chiede a bravi pensionati di andare in vacanza per resistere al terrorismo.

Sulla carta continuamente ridisegnata dalla violenza contemporanea si allargano i territori su cui è scritto: Hic sunt leones; e si cancellano le frontiere. Alla larga da quella fra Libia e Tunisia. Pericolante l'Algeria. Alla larga dal Sinai e dal mar Rosso. I paesi del Golfo insidiati, il Corno d'Africa al bando: nella fatale giornata di ieri all'eccidio tunisino si sono sommati la strage nella moschea sciita del Kuwait e quella nella base dell'Unione Africana in Somalia. Gli shabab hanno portato il terrore sempre più dentro un paradiso del nostro turismo come il Kenya. Luoghi materni del genere umano, l'Iraq, la Siria, lo Yemen, sono interdetti a un rischio peggiore della vita, e così gran parte dell'Africa sotto il Sahara. In Europa, a casa nostra, dove temiamo tanto l'avvento dei fuggiaschi del mondo invasato, fra poco commemoreremo i vent'anni di Srebrenica con un'Ucraina che ripercorre la strada ex-jugoslava, e i jet militari che si sfiorano sul Baltico.

Del resto, il fanatico assassino che va a conquistarsi il paradiso in calzoncini su una spiaggia di Susa non ci metterà molto ad approdare anche di qua dallo stesso mare arrivò già nel cuore dell'Europa, ed era casa sua. Bisognava saperlo, bisogna ancora. Anche a non essere innamorati del prossimo e dei diritti umani, anche a essere solo gelosi di Palmira e di Ninive e di Timbuctu e di Sanaa e della regina di Saba, e dei propri tour tutto compreso, bisognava capire che fra la nostra mobilità (provvisoriamente) di lusso e la loro mobilità (perennemente) sventurata c'era e c'è uno scambio ineguale, ma inesorabile: e che l'una, affondando, si porta dietro l'altra.

«Da un lato gli stati non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».

Corriere della Sera, 28 giugno 2015 (m.p.r.)

«Le statistiche ingannano. Dietro la crescita economica fotografata dai numeri si accumula malessere e la sola cura che conosciamo ci dice di spingere ancora sull’economia, ma non è così che impareremo ad essere felici». Zygmunt Bauman ragiona sull’impotenza della democrazia dei consumi di fronte alle domande fondamentali. Ospite d’onore di Berlucchi a Palazzo Lana per la cerimonia dei diplomi della Scuola estiva dell’Iseo di Brescia, il grande sociologo polacco descrive il capovolgimento dei rapporti tra politica e finanza in queste ore convulse di trattative. «Non solo lo Stato non dispone più della capacità di dirigere i processi economici ma ne è diretto a sua volta - dice Bauman al Corriere -. E questo accade mentre i governi sono sottoposti a una duplice pressione: da un lato non possono ignorare le richieste degli elettori che li hanno investiti di un preciso mandato, come in Grecia, Italia o Portogallo; dall’altro sanno di non poter mantenere le promesse perché aumento della disoccupazione e abbassamento degli standard sociali non dipendono più dalla loro capacità d’intervento».

In questo svuotamento di prerogative, che investe governi ed elettori, alla politica che dovrebbe risolvere le crisi spetta un ruolo residuale?
«Sì e non per colpa di programmi sbagliati o scandali di corruzione, ma per l’esternalizzazione delle funzioni dello Stato progressivamente cedute ai mercati, impolitici per definizione. Gli standard della nostra vita quotidiana dipendono dai movimenti dei capitali finanziari internazionali. Così i governi devono cercare l’approvazione dei cittadini, sola fonte di legittimità democratica, e al tempo stesso inseguire gli andamenti delle Borse».
Cosa impedisce al progresso economico di essere fattore di stabilità e benessere condiviso?
«Il perfido meccanismo per il quale gli indicatori economici crescono grazie a dinamiche socialmente dannose. La macchina provoca i guasti e si autoalimenta riparandoli. L’organizzazione che ci siamo dati non prevede collaborazione, non può promuovere solidarietà e stabilità perché ha bisogno di uno stato perenne di precarietà, mutuo sospetto e competizione. Eppure è la possibilità di collaborare con gli altri, di migliorare e sentirci parte di una comunità solidale che dà senso al nostro esistere. Facciamo un esempio. Se tra vicini ci si aiuta dando vita a un microsistema non produttivo ma virtuoso, non ci saranno ricadute positive per l’economia, che potrà invece beneficiare di un incidente d’auto. Se la vittima finisce in ospedale e viene sottoposta a un complicato intervento chirurgico, più soggetti ne trarranno vantaggi economici».
Se il paziente Grecia è sottoposto a un complicato intervento di salvataggio...
«La Grecia è un esempio lampante. Il popolo ha eletto una squadra che aveva promesso di ribaltare l’ordine creato dalle politiche di austerità. Si è così venuto a creare un conflitto insanabile tra la Grande Troika e un governo democraticamente eletto. Il fatto è che l’intera economia nazionale in questi anni è collassata ed è evidente che Atene non potrà ripagare i debiti. Sul fronte opposto, i creditori devono curare i propri interessi, dal loro punto di vista il fatto che l’austerità non abbia migliorato le condizioni di vita dei greci non rappresenta un problema».
Inevitabile che la trattativa si areni in assenza di «choc», come un referendum.
«Ormai il confronto tra Atene e i creditori assomiglia a certe gare di coraggio tra auto sulle strade americane, come nel film Duel. Una guerra di nervi tra automobilisti, perde chi si spaventa prima. Non c’è alcuna logica razionale».
Quali prospettive vede per la democrazia?
«Quelle che sapremo inventare, la Storia non finisce qui. Per quanto pervasive siano le forme di manipolazione che dobbiamo affrontare, nessuno potrà mai privarci della libertà di scegliere e immaginare altri mondi possibili» .

«Gli elet­tori greci sono chia­mati a deci­dere se il loro desi­de­rio di rima­nere all’interno dell’eurozona è supe­riore alla loro rab­bia e dispe­ra­zione per la poli­tica cri­mi­nale che la tro­jka vuole con­ti­nuare ad appli­care in Grecia».

Il manifesto, 28 giugno 2015 (m.p.r.)

L’Eurogruppo ha dichia­rato guerra alla Gre­cia. Ieri il suo pre­si­dente è apparso alla fine della riu­nione e poco ci è man­cato che sbat­tesse i pugni sul tavolo. La deci­sione della Gre­cia di indire un refe­ren­dum, ha detto, equi­vale all’interruzione uni­la­te­rale del nego­ziato. Quindi l’Unione Euro­pea se ne lava le mani di tutto quello che può suc­ce­dere. La richie­sta di Varou­fa­kis di pro­trarre di qual­che set­ti­mana il memo­ran­dum del 2012, che scade mar­tedì, è stata respinta. Quindi uffi­cial­mente la Gre­cia ha smesso di fare parte dei paesi sotto pro­gramma di aggiu­sta­mento da parte della tro­jka. Se ce ne sarà un altro dopo il refe­ren­dum non è sicuro, per­ché Dijs­sel­bloem è molto arrab­biato e non «c’è fidu­cia» verso la Grecia.

Prima della riu­nione, il ric­cio­luto agro­nomo olan­dese aveva ten­tato di nascon­dere la mano dopo aver lan­ciato il sasso: il testo scan­da­loso pre­sen­tato dal Fmi mar­tedì scorso «non era un ulti­ma­tum» e «c’era spa­zio per miglio­ra­menti». Pec­cato che appena il giorno prima egli stesso, e il suo datore di lavoro Schau­ble, ave­vano testual­mente detto che era pro­prio un ulti­ma­tum e che i greci dove­vano accet­tarlo o respin­gerlo. Par­lando di fidu­cia e di credibilità.

All’ultimatum Tsi­pras ha ripo­sto con il refe­ren­dum, rite­nuto, lo ave­vamo detto da tempo, una carta potente e una risorsa di mobi­li­ta­zione popolare. Mal­grado i grandi sforzi dei media euro­pei, la domanda non sarà euro o dracma. Riguar­derà invece pro­prio l’ipotesi di accordo pre­sen­tata in maniera ulti­ma­tiva dalla tro­jka. Tsi­pras è arri­vato alla deci­sione di indire il refe­ren­dum dopo aver con­sta­tato di non avere più alcuno spa­zio di manovra.

Il mas­simo di con­ces­sioni era stato già rag­giunto nel testo di Atene appro­vato in linea di mas­sima lunedì e poi a sor­presa disco­no­sciuto dalla troika. Da lì il fon­dato sospetto che da parte dei cre­di­tori non c’era alcuna volontà di com­pro­messo ma solo una guerra di logo­ra­mento per favo­rire un cam­bia­mento politico.

Anche se in que­ste ore i media pro–auste­rità cer­cano di fare con­fu­sione, soste­nendo che la pro­po­sta del Fmi non è più valida, quindi il refe­ren­dum sarebbe senza oggetto, l’oggetto c’è, eccome: gli elet­tori greci sono chia­mati a deci­dere se il loro desi­de­rio di rima­nere all’interno dell’eurozona è supe­riore alla loro rab­bia e dispe­ra­zione per la poli­tica cri­mi­nale che la tro­jka vuole con­ti­nuare ad appli­care in Grecia. Si tratta di deci­dere se si vuole essere un paese mem­bro di pari dignità in un’Unione di popoli liberi oppure un paese per sem­pre satel­lite, una colo­nia tede­sca, al livello dei Baltici.

Al suo pro­clama tele­vi­sivo Tsi­pras non ha par­lato di soldi ma di «ricatto inac­cet­ta­bile». Ieri in Par­la­mento ha ripe­tuto che la posta in gioco è la dignità, l’orgoglio e la libertà del paese. Anche il suo alleato al governo, il mini­stro della Difesa Kam­me­nos, con le lacrime agli occhi, ha insi­stito sull’importanza delle isole dell’Egeo, che la tro­jka vuole «svuo­tare» e «distruggere». La con­vin­zione è che l’atteggiamento dell’Europa non lascia spa­zio a equi­voci: il governo di sini­stra greco si deve sot­to­met­tere e umi­liare, per­ché den­tro l’eurozona non c’è posto per chi non accetta i dogmi neoliberisti.

Quale sarà il responso delle urne? È molto pro­ba­bile che vinca il «no» all’austerità. Anche se le Tv oli­gar­chi­che hanno già comin­ciato a spar­gere il ter­rore, chia­mando i greci a riti­rare i pro­pri soldi dalle ban­che, se uno giu­dica dall’atteggiamento dell’opposizione greca capi­sce che è in preda al panico. Girare per le Tv soste­nendo che biso­gna tagliare le pen­sioni e aumen­tare l’IVA al 23% per i ser­vizi turi­stici non è certo pia­ce­vole. Dopo grandi sforzi, alla fine la destra e il par­tito degli oli­gar­chi To Potami hanno deciso per il sì, men­tre i socia­li­sti del Pasok, in sprezzo del ridi­colo, hanno anche chie­sto le dimis­sioni del governo.

Il loro ragio­na­mento è esat­ta­mente quello dei cre­di­tori: dire no all’austerità equi­vale a uscita dall’eurozona. Al governo invece sono con­vinti che la vit­to­ria del «no» aiu­terà a pie­gare le grandi resi­stenze dei cre­di­tori. Un pro­nun­cia­mento diretto dif­fi­cile da igno­rare per­fino per l’eurozona.

Cosa suc­ce­derà nel caso vinca il sì? Tsi­pras ha assi­cu­rato che «rispet­terà qual­siasi responso delle urne» ma Varou­fa­kis è andato più in là, ipo­tiz­zando un rim­pa­sto gover­na­tivo, pro­ba­bil­mente inclu­dendo To Potami, ama­tis­simo a Bru­xel­les ma con­fi­nato dagli elet­tori a un misero 6%. Ad Atene però sono tutti con­vinti che né Tsi­pras né gli altri mini­stri di Syriza saranno dispo­sti a ese­guire una poli­tica che non è la loro.

Intanto biso­gna affron­tare la crisi di liqui­dità delle ban­che, pro­ba­bil­mente senza il soste­gno di Dra­ghi, men­tre il governo non ha alcuna inten­zione di pagare i debiti né di giu­gno né di luglio. Nelle capi­tali euro­pee si pensa a come evi­tare le con­se­guenze dello scon­tro tra Atene e la tro­jka. Ma sono pie illusioni. L’ignavia e la viltà di molti di loro hanno lasciato mano libera agli estre­mi­sti libe­ri­sti, sabo­tando ogni ipo­tesi di com­pro­messo. Se alla fine ci sarà l’esplosione dell’eurozona nes­suno sarà al riparo. Forse non è troppo tardi per far sen­tire la loro voce.

Un appello di "L'altra Europa con Tsipras" e un articolo di Raffaella Bolini. Solidarietà al popolo greco, aggredito dagli oligarchi che si sono impadroniti dell'Europa e tentano di rottamare la democrazia.

Il manifesto, 28 giugno 2015

Quando non c’era l’Ue i colpi di stato per libe­rarsi di governi demo­cra­tici li face­vano i colon­nelli (o per le pagliac­ciate i gene­rali Di Lorenzo ). Si dirà un passo in avanti, ma quale? Il rifiuto di acco­gliere il com­pro­messo che dopo mesi di trat­ta­tive Tsi­pras aveva con­tro­pro­po­sto equi­vale –lo hanno detto auto­re­voli eco­no­mi­sti — a un colpo di stato di tipo nuovo. Un ten­ta­tivo sco­perto di pugna­lare il primo governo di sini­stra greco. Appare adesso anche più chiaro che in ballo non c’era la resti­tu­zione del debito, ma pro­prio que­sto obiet­tivo poli­tico, per dimo­strare al mondo, e nell’immediato alla Spa­gna, che non è lecito con­te­stare la poli­tica decisa a Bruxelles.

Tsi­pras ha rispo­sto con corag­gio con­vo­cando per il 5 luglio un refe­ren­dum. Per avere dalla sua la forza di un appog­gio popo­lare. Si tratta di un voto deci­sivo e dram­ma­tico, per­ché tutti sono con­sa­pe­voli della durezza della scelta. È un voto che ci coin­volge e per que­sto dimo­striamo ai greci che non lo con­si­de­riamo qual­cosa che riguarda solo loro. Dob­biamo far sen­tire ai greci che non sono soli, dar loro soste­gno come pos­siamo: sin dal 3 sera mani­fe­stando, facendo una fiac­co­lata, attrez­zan­doci per seguire i fil­mati che da Atene ci invie­ranno. E per­ché la TV greca possa dar conto della nostra mobi­li­ta­zione a chi deve sen­tirsi meno solo quando andrà a votare.

Per il 5 sera, orga­niz­ziamo ovun­que un ascolto col­let­tivo dei risul­tati delle urne. Il rifiuto del dik­tat non sarà una vit­to­ria defi­ni­tiva, per­ché si aprirà comun­que una fase assai dif­fi­cile. Ma sarà un atto poli­tico sog­get­tivo di enorme impor­tanza, la testi­mo­nianza che siamo ancora con­vinti che Davide ce la può fare con­tro Golia. E appen­diamo alle nostre fine­stre, per dire quanto impor­tante sia anche per noi l’esito della vicenda, un drappo blu. (n drappo blu per que­sta volta, ma la pros­sima una vera ban­diera greca che ora non abbiamo ma faremo bene a procurarci).

Solidarietà con Atene, in movimento, dalla parte giusta

SOLIDARIETÀ CON ATENE, IN MOVIMENTO DALLA PARTE GIUSTA
di Raffaella Bolini

Grecia. La Grecia sta lottando da sola, in mezzo a intrighi di ogni genere. Vogliono far cadere Tsipras nonostante il consenso di cui gode
«Le isti­tu­zioni hanno pre­sen­tato una nuova pro­po­sta che tra­sfe­ri­sce il carico sui lavo­ra­tori e i pen­sio­nati con misure sociali ingiu­ste, men­tre al tempo stesso pro­pone di evi­tare l’aumento del peso su coloro che hanno di più». Que­sta è una nota del governo greco prima dell’Eurogruppo – e chiun­que abbia un bri­ciolo di cer­vello sa che è vero.

La Gre­cia sta lot­tando sostan­zial­mente da sola, in mezzo ad intri­ghi e spor­ci­zia di ogni genere – vogliono cer­care di far cadere il governo Tsi­pras nono­stante abbia la grande mag­gio­ranza di con­sensi nel suo paese, e vogliono impe­dire un accordo ono­re­vole che incrini la gab­bia dell’austerità. È una ter­ri­bile ver­go­gna euro­pea. Che cade non sol­tanto sulle isti­tu­zioni e sui libe­ri­sti, ma anche sulla società civile pro­gres­si­sta e sui movi­menti sociali.

Non si trat­tava di smet­tere di fare le pro­prie lotte e ini­zia­tive per dedi­carsi alla Gre­cia. Nep­pure i greci chie­de­vano que­sto. Ma non costa nulla aggiun­gere un logo, una ban­diera, uno slo­gan alle pro­prie ver­tenze. Per soli­da­rietà, ma soprat­tutto per dare più forza a se stessi costruendo una alleanza euro­pea con­tro l’austerità.

La sto­ria non è fatta di auto­ma­ti­smi, è fatta di scelte. Di tante scelte per­so­nali e col­let­tive. Della capa­cità di capire quale è il punto, lad­dove la sto­ria può cam­biare in meglio. E di dare un con­tri­buto per­ché ciò accada.

Chi non capi­sce, chi non ha gli stru­menti, a chi non è per­messo uscire può stare alla fine­stra, men­tre si gio­cano le par­tite fon­da­men­tali. Non è colpa sua. Ma chi gli stru­menti per capire ce l’ha, e nono­stante que­sto alla fine­stra rimane, dimo­stra — a mio mode­stis­simo parere — di non essere all’altezza della sfida.

E tanto più impor­tanti in que­ste ore sono le scelte di chi decide, o deci­derà, che que­sta poli­tica euro­pea e la sua ver­sione in salsa ita­liana richiede strappi grandi e corag­giosi – e un impe­gno vero, in prima per­sona, non dele­gato agli addetti ai lavori.

Oggi ad Atene si incon­trano di nuovo le cam­pa­gne di soli­da­rietà euro­pee, sin­da­cati, orga­niz­za­zioni e movi­menti sociali di diversi paesi che hanno com­preso fino in fondo quale è la scommessa. Ci saranno anche i tede­schi, che il 20 giu­gno con la mani­fe­sta­zione di Ber­lino hanno detto, in un appello forte pro­mosso da una bella coa­li­zione poli­tica e sociale, che l’Europa for­tezza e l’Europa della auste­rità sono due facce della stessa medaglia.

Tenerle sepa­rate rischia di essere una sud­di­tanza incon­sa­pe­vole verso le cul­ture rea­zio­na­rie che ali­men­tano la guerra dei nativi con­tro i migranti. I movi­menti pre­senti, dalla Spa­gna alla Ger­ma­nia alla Fran­cia, pre­sen­te­ranno la pro­po­sta di fare intorno al 17 otto­bre, gior­nata inter­na­zio­nale con­tro la povertà, una sorta di inva­sione popo­lare di Bruxelles.

Il pro­getto è di fare caro­vane che arri­vino da diversi paesi, azioni, un con­tro ver­tice e una mani­fe­sta­zione grande di cui sta discu­tendo anche il sin­da­cato belga.

Chie­dono all’Italia di essere della par­tita. Diverse orga­niz­za­zioni e reti ita­liane ne stanno già discutendo.

Si deci­derà anche, natu­ral­mente, di che cosa fare se le cose per la Gre­cia — diciamo meglio per l’Europa demo­cra­tica– vadano male nelle pros­sime ore.

Ma io con­fido. Con­fido soprat­tutto nella gran­dis­sima forza, nel corag­gio e nella straor­di­na­ria intel­li­genza e luci­dità poli­tica di Syriza. E nel popolo greco.

Sal­ve­ranno il loro paese, sal­ve­ranno que­sto Europa schi­fosa che chiude le porte in fac­cia alle per­sone: nativi, migranti e rifu­giati. Ter­ranno aperta la brec­cia per farci pas­sare tutti e tutte. E sal­ve­ranno anche chi non se lo merita e chi non ci arriva, per­ché sono gente gene­rosa. Forza Grecia.

* Cam­bia la Gre­cia Cam­bia l’Europa

Parole chiare a chi vuol sanare il male col male. «Dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati».

Il Messaggero, 28 giugno 2015

Dalla guerra giusta alla necessità di fermare l'aggressore ingiusto, con una forte indicazione di multilateralismo e del ruolo dell'Onu. Ancora la denuncia della «crudeltà inaudita» dei conflitti non convenzionali e della tortura. Infine una constatazione: «siamo nella III guerra mondiale, ma a pezzi». Si può sintetizzare così la visione del Papa davanti al precipitare della situazione irachena e del conflitto in Terrasanta, mentre è in volo da Seul a Roma dopo il terzo viaggio internazionale del pontificato. Papa Francesco riceve una domanda molto diretta: «E' d'accordo se gli Stati Uniti bombardano l'Iraq per prevenire il genocidio?». «In questi casi dove c'è un'aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l'aggressore ingiusto, sottolineo il verbo, dico fermare, non bombardare o fare la guerra», e «i mezzi con i quali fermare l'aggressore ingiusto dovranno essere valutati».

Ma «quante volte - ammonisce - con questa scusa di fermare l'aggressore le potenze hanno fatto una vera guerra di conquista. Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore». Papa Bergoglio ricorda che «dopo la Seconda guerra mondiale è nata l'idea della Organizzazione delle Nazioni Unite, è là che si deve discutere: 'Come facciamo a fermarlo?'». «Fermare l'aggressore ingiusto - ha spiegato il Papa - è un diritto dell'umanità, ma è anche un diritto che ha l'aggressore di essere fermato perchè non faccia il male».

Racconta anche che ha studiato con i collaboratori tutti i passi da fare per la situazione irachena, ha emesso un comunicato, ha scritto al segretario dell'Onu Ban ki-moon, ha mandato il card. Fernando Filoni quale suo inviato in Iraq e Kurdistan, e ha deciso di essere «disposto ad andare in Kurdistan» e che «c'è questa possibilità», che è stata valutata prima di partire per il viaggio in Corea e per il momento resta una possibilità. «Questi sono i frutti della guerra», dice il Papa ricordando le vittime di oggi, e di ieri, e «il fumo delle bombe» che in Terrasanta non fa vedere la «porta» che si è aperta con la preghiera comune nei giardini vaticani dei presidenti israeliano e palestinese Shimon Peres e Abu Mazen, ma il fumo delle bombe «è congiuntura», mentre la porta resta aperta.

Dalla guerra alle speranze di dialogo, papa Francesco è pronto a partire per Pechino «magari, domani», spiega ai 72 giornalisti da 11 paesi del mondo che lo hanno accompagnato nel suo terzo viaggio internazionale. Conferma inoltre il viaggio a Filadelfia di settembre 2015 e spiega che, avendo ricevuto inviti anche dal presidente e dal parlamento americano e dal segretario dell'Onu si potrebbero visitare «forse le tre città insieme», cioè Filadelfia, Washington e New York. Spiega poi che andrà in Albania il 21 settembre per due motivi «importanti»: in Albania «sono riusciti a fare un governo nazionale» fra diverse componenti, cattolici, ortodossi, «e questo va bene - sottolinea il Papa perché vuol dire che è possibile lavorare bene insieme». Altro motivo è che «l'Albania è l'unico Paese comunista che aveva l'ateismo pratico nella costituzione, se andavi a messa era anticostituzionale». «Sono state distrutte - ha aggiunto - 1820 chiese, voglio citare il numero preciso, sia ortodosse che cattoliche, in altre sono stati fatti cinema e teatri». In ottima forma al termine dell'impegnativo viaggio in Oriente, il Papa racconta anche alcuni aspetti della sua vita in Vaticano, alla ricerca di normalità, e senza abbandonare la abitudine di non fare vacanze ma ritrovare un ritmo più disteso, leggendo e dormendo di più e ascoltando musica.

Contento anche della popolarità di cui gode, «se il popolo è felice per quello che faccio». «La vivo come generosità - spiega - ma cerco di pensare anche ai miei peccati, però cerco anche di godermela, perchè so che durerà poco tempo e poi sarò nella Casa del Padre».

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