«Il filosofo americano Michael Walzer e gli scenari aperti dallo scontro Ue-Tsipras: “Il centrosinistra esca dalla logica liberista della destra e rilanci il progetto di una federazione di Stati. Nell’Europa post-sovrana l’unica salvezza è il modello Usa"».
La Repubblica, 19 luglio 2015
«Se l’Unione Europea fa tanta fatica a uscire dalla crisi greca, non è soltanto per errori contingenti, commessi da una parte e dall’altra. Guardando la vicenda dall’altra sponda dell’Atlantico, mi sembra che il caso greco sia particolarmente importante perché mette a nudo i due problemi maggiori dell’Europa attuale: la politica economica e la cornice istituzionale. È assurdo che l’Unione Europea continui a imporre al governo ellenico le stesse misure di austerità che hanno fallito ovunque, ma è altrettanto grave il fatto che oggi l’Unione Europea non disponga di organi di controllo in grado di bilanciare in modo democratico lo strapotere della Bce». Michael Walzer, tra i massimi filosofi politici contemporanei, professore emerito all’Institute for Advanced Study di Princeton, guarda il modo in cui la politica europea sta gestendo l’emergenza Grexit, e vi scorge i limiti strutturali del progetto comunitario.
Professor Walzer, in questi giorni concitati ha ancora fiducia nella Ue?
«Credo che l’Unione sia un progetto ambizioso, che poggia su grandi valori e può vantare quantomeno un successo straordinario: quello di aver trasformato in un’area di pace un continente devastato da secoli di guerre e conflitti fratricidi. Detto ciò, non si può negare che l’Unione Europea sia un regime a dir poco curioso, l’unico che ha centralizzato il potere economico in una struttura oligarchica fatta di banchieri e burocrati, senza centralizzare la politica, che in forma democratica resiste solamente all’interno dei singoli Stati nazionali. In altre parole, il caso Grexit sta facendo emergere una contraddizione immanente al sistema istituzionale europeo, quella tra l’oligarchia sovranazionale dei banchieri e le democrazie nazionali dei popoli. E io non vedo in che modo questa asimmetria possa reggere a lungo. Servirebbe piuttosto uno scatto verso un governo genuinamente politico sia dell’eurozona sia dell’Unione Europea. Eppure, sebbene sia necessario, oggi il passo in avanti sembra piuttosto improbabile, perché nessun Paese europeo sembra pronto a compierlo. La Grecia paga anche l’assenza di un solo governo europeo».
L’altro problema, invece, è la politica economica. Perché l’Europa non ha saputo trovare una ricetta alternativa alle politiche di austerità?
«È un fatto che non mi so spiegare. L’idea che le misure di austerità siano la risposta giusta alla recessione è una menzogna. Basterebbe leggere Paul Krugman o Joseph Stiglitz. Anche negli Stati Uniti abbiamo vissuto una fase in cui il governo repubblicano ha seguito questa strategia, ma per fortuna il governo Obama ha imboccato una strada diversa. I partiti socialisti europei dovrebbero fare una battaglia comune per cambiare la politica economica imposta dalla Troika in Grecia».
Invece appaiono sempre più schiacciati tra la destra e la sinistra radicale.
«È così. E il fallimento della socialdemocrazia non inizia oggi e riguarda ormai tutti i paesi occidentali. Negli ultimi anni tutti partiti di centrosinistra, a cominciare dal New Labour blairiano, sono stati subalterni al neoliberismo della destra. In qualche occasione hanno provato a imprimergli un “volto umano”, ma il dato di fondo è che non hanno saputo articolare una strategia alternativa. E il risultato è un fallimento catastrofico, che vede scomparire i partiti neokeynesiani e lasciare lo spazio a sinistra a frange populiste come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Ma il populismo è uno stile politico, di destra o di sinistra, che per definizione è incapace di costruire una società che produca più risorse e le distribuisca in maniera equilibrata. Insomma, mi è molto difficile rimanere ottimista».
Dopo il referendum personaggi di spicco del centrosinistra europeo come Schulz e Gabriel hanno espresso posizioni più oltranziste della Merkel. Invece quale dovrebbe essere la visione istituzionale del fronte progressista?
«Non saprei fare un elenco delle specifiche riforme da adottare. Sono convinto però che una riforma dell’Unione Europea sia non solo necessaria, ma anche urgente. E penso inoltre che il riordino istituzionale debba andare nella direzione di una vera e propria federazione. Non sono abituato a spacciare gli Stati Uniti come un modello per il resto del mondo, ma in questo caso sì, l’assetto federalistico statunitense potrebbe essere molto utile per ripensare l’Europa. Anche a voi servirebbe un governo federale unico che controlli la moneta e la politica estera, pur concedendo larga autonomia agli Stati membri in materia sanitaria, educativa, sindacale».
Ma la prospettiva di una federazione di Stati non costringerebbe tutti i cittadini europei, e non solo i greci, a rinunciare alla loro sovranità?
«Basta dare un’occhiata a ciò che accade nel mondo per rendersi conto di quanto sia importante l’idea di sovranità. La maggior parte di chi oggi vive in condizioni di oppressione, in Africa o in Asia, soffre per l’assenza di uno Stato sovrano. Il primo grande bisogno del popolo siriano, per fare un esempio, è la costruzione uno Stato sovrano. Ma allo stesso tempo viviamo un’epoca post-sovrana. Un’epoca globale che sta riducendo il potere degli Stati, rendendo quelli piccoli simili a semplici province».
Come si colloca l’Unione europea in questo secondo scenario?
Una cronaca e un'ampia sintesi del discorso di Alexis Tsipras e di alcuni interventi nel dibattito al Parlamento europeo. Il manifesto, 9 luglio 2015. In questa stessa colonna, qui sotto, un articolo il testo integrale del discorso e il link al video del discorso
Grecia. Il premier greco all’europarlamento difende le proprie scelte: «L’austerità è fallita, il salvataggio ha riguardato le banche, non il popolo». Poi rassicura l’Unione: «Resteremo nell’euro». La Grecia presenta al Mes la richiesta formale per il terzo piano di aiuti: previsti tagli alle pensioni baby e riforma fiscale
Con applausi, abbracci e grandi sorrisi Alexis Tsipras ha fatto ieri il suo primo ingresso al Parlamento Europeo. Non era una passeggiata. Nel suo discorso introduttivo, il premier greco si è concentrato a rispondere, usando il buon senso e la ragionevolezza, a tutte le critiche, spesso del tutto infondate, che sono state mosse in tutti questi mesi contro di lui e la Grecia. Provocando spesso reazioni tempestose, attacchi, persino invettive, da parte di alcuni deputati europei.
Innanzitutto Tsipras ha voluto sancire, anche in questa sede, il fallimento del programma di austerità: «I soldi che ci avete prestato non sono andati a favore del popolo greco né a favore dell’economia reale. Sono andati alle banche, greche e straniere. La mia patria è stata trasformata in un laboratorio sperimentale che ha portato il popolo greco a esaurire la sua capacità di resistenza facendo fallire l’esperimento. Oggi, qualsiasi sia l’ orientamento di ognuno, tutto il popolo greco sente che non ha altra scelta che lottare per la sua liberazione».
La Grecia, ha continuato, ha fatto uno «sforzo senza precedenti di adeguamento» alle richieste dell’eurozona. «Nessun altro paese sotto programma di salvataggio e con riforme in corso ha fatto uno sforzo simile alla Grecia», ha detto il premier greco. Ma tutto invano.
Tsipras ha negato decisamente ogni progetto, segreto o palese, di ritorno alla dracma: «La settimana scorsa la maggior parte delle dichiarazioni consistevano nel dire che il vero quesito del referendum era la scelta tra euro e dracma e che la vittoria del no significava l’uscita del paese dall’eurozona. I greci hanno votato No. Se avessi voluto far uscire il mio paese dall’euro non avrei fatto le dichiarazioni che ho fatto domenica sera».
«Un estratto dal saggio di Euclid Tsakalotos e Christos Laskos (PlutoPress 2013). E' uno testi migliori sulla crisi tra Grecia e Europa e presenta le analisi del successore di Yanis Varoufakis sui problemi che ora affronta come nuovo ministro delle finanze di Atene».
Il manifesto, 7 luglio 2015
La nostra tesi principale è che la crisi greca non sia assolutamente da considerarsi un caso particolare. Al contrario, essa costituisce il paradigma di una più generale crisi dell’assetto politico ed economico neoliberista. In questo senso, è necessario non solo comprendere le origini della crisi economica globale ma anche capire perché la struttura economica e istituzionale dell’eurozona si sia rivelata inadeguata per affrontare gli effetti della crisi esplosa nel 2008.
Le politiche di austerità che hanno dominato la scena sin dall’avvento della crisi hanno rafforzato l’impostazione neoliberista dell’economia e della società. Lo spazio per rispondere alle domande provenienti dagli strati più bassi della società si sono andati drammaticamente riducendo, anche rispetto al periodo, comunque contrassegnato dall’egemonia neoliberale, precedente la crisi.
Tale irrigidimento ha coinciso con un sempre maggiore distacco tra le élite la realtà sociale o, alternativamente, con una crescente incapacità delle medesime élite di recepire proposte di soluzione ai problemi provenienti dall’esterno dei loro circoli.
La risoluzione finale della presente crisi non potrà portare alla ricostruzione delle condizioni vissute delle economie neoliberali prima del 2008 né, tantomeno, condurre verso il ritorno di un sistema socialdemocratico di tipo Keynesiano. Dovremmo ricordare che non vi fu nessun ritorno agli status quo precedenti in seguito alle due grandi crisi degli anni ’30 e ’70.
Dunque, da questa crisi si muoverà o nella direzione di un’economia capitalistica caratterizzata da un sostanziale autoritarismo oppure verso un lungo periodo di trascendenza rispetto ad alcuni degli elementi fondamentali del capitalismo.
La nostra visione rispetto alla situazione attuale può essere sintetizzata nelle quattro tesi che seguono.
La crisi che ha investito la Grecia non presenta alcun carattere di eccezionalità
La narrativa che vorrebbe la Grecia come un caso isolato ed eccezionale si fonda su tre elementi tra di loro interconnessi. In primo luogo, l’irresponsabilità fiscale dei politici greci. In secondo luogo, le dinamiche clientelari che affliggono il sistema politico greco. Infine, sia l’irresponsabilità della classe politica che il clientelismo diffuso sarebbero da ricondurre a una generale incapacità di modernizzarsi del paese.
Tutto ciò dovrebbe condurre a una giustificazione dell’austerità fondata sulla favola calvinista cara ad Angela Merkel, per la quale i peccatori debbono essere puniti per gli sbagli da loro commessi nel passato. La nostra visione non potrebbe essere più lontana da quella appena sintetizzata.
La Grecia, all’alba dell’esplosione della crisi, era completamente posizionata all’interno di un’impostazione neoliberista sia dal punto di vista economico che da quello politico. Il paese si trovava a condividere con gli altri Stati membri tutti i tratti caratterizzanti le economie fondate su basi neoliberiste, così come tutti i fallimenti sperimentati dalle stesse economie. In altre parole, la crisi greca è comprensibile solo se la si guarda come una manifestazione della crisi globale del neoliberismo piuttosto che come una crisi dovuta all’incapacità di applicare, in modo efficace, le ricette proprie dello stesso sistema neoliberale.
Siamo di fronte ad una crisi globale del neoliberismo e del capitalismo
La nostra seconda tesi è confermata dal fatto che l’epicentro della crisi è localizzabile nei paesi più avanzati dal punto di vista dell’applicazione delle ricette neoliberiste, piuttosto che in paesi ‘statalisti’ quali la Francia o la Grecia. La nostra interpretazione della crisi, inoltre, rifiuta nettamente l’interpretazione ortodossa sulla base della quale il malfunzionamento dei sistemi economici sarebbe da ricondurre a ragioni esogene al sistema stesso. Le radici della crisi sono, altresì, legate all’incertezza e all’instabilità endogenamente prodotta dal sistema capitalistico.
La crisi ha messo a nudo la fragilità del sistema politico post 2008
Dopo una breve fase in cui i principali elementi caratterizzanti l’impostazione neoliberista – la deregolamentazione del sistema finanziario, i superbonus dei manager, gli squilibri macroeconomici tra paesi o gli effetti dell’individualismo sulla coesione sociale – sono stati messi in discussione dalle stesse élite, vi è stato un rapida e rinnovata convergenza verso lo status quo ideologico.
In tale contesto, la domanda da un milione di dollari è stata: per quale motivo la crisi del 2008 non è stata colta, dalla socialdemocrazia, come un’opportunità per riaffermare le proprie ragioni sull’ideologia neoliberista?
La nostra ipotesi è che i socialdemocratici siano intrappolati in quel che viene definito da Blyth nel 2002 il «cognitive locking». Dopo tanti anni di egemonia culturale neoliberista i socialdemocratici si son scoperti non più in grado di guardare il modo da un’altra prospettiva.
Dalla crisi attuale non è possibile tornare indietro
La nostra tesi conclusiva è che dalla crisi che stiamo sperimentando non è possibile tornare indietro. Le strade possibili sono due. Una svolta verso una forma di capitalismo autoritario o una trascendenza di alcuni degli elementi fondamentali del capitalismo. Nel secondo caso si avrà un disvelamento degli effetti corrosivi prodotti da una visione ingegneristica della economia in cui un unico modello è valido per tutte le società.
Il razionalismo-tecnocratico fa di concetti quali la «competitività» o la «flessibilità del mercato del lavoro» elementi di per sé pregni di valore e sulla base dei quali i paesi vengono costantemente classificati. Questa visione ha avuto un effetto devastante sullo stato di salute delle democrazie occidentali. E sulla capacità di costruire una narrativa basata sulle domande crescenti provenienti dagli strati più bassi della società.
Il legame fondamentale tra la democrazia e il funzionamento del sistema economico dovrà, dunque, essere posto al centro della risposta della sinistra alla presente crisi.
* Quello qui è presentato è un estratto da «Crucible of resistance. Greece, the Eurozone and the World Economic Crisis» di Euclid Tsakalotos e Christos Laskos (PlutoPress 2013). E’ uno testi migliori sulla crisi tra Grecia e Europa e presenta le analisi del successore di Yanis Varoufakis sui problemi che ora affronta come nuovo ministro delle finanze di Atene.
Traduzione di Dario Guarascio.
Che cos’è il debito? In tedesco il sostantivo femminile Schuld designa insieme il debito e la colpa. «Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce colpa e debito», scriveva già nel 1921 Walter Benjamin. La vittoria del no al referendum greco ha richiamato l’attenzione del mondo non solo sulla drammaticità della situazione politica ma anche sul conflitto culturale, sull’antinomia profonda connessa alla concezione del debito nell’evolversi della psiche collettiva: ancora una volta, sull’antica polarità tra Grecia e Germania.
Debito e colpa è il titolo di un libro appena uscito (Ediesse, pagg. 240, euro 12) che Elettra Stimilli ha dedicato alla centralità della figura del debito come colpa nell’indebitamento planetario che segna la più recente fase del capitalismo contemporaneo. Le forme di consumo illimitato basate sull’indebitamento privato, partite dall’America, sono diventate, argomenta Stimilli, il motore principale dell’economia. Dal 2009, con l’immediato globalizzarsi della crisi americana, l’aumento esponenziale del debito privato ha coinvolto il debito pubblico dei paesi economicamente avanzati fino ad arrivare ai debiti sovrani. La finanziarizzazione della vita quotidiana, la “democratizzazione del credito”, ha prodotto uno stato di indebitamento generalizzato in cui ognuno, sia come lavoratore sia come consumatore, è diventato per definizione anzitutto debitore.
Nella cultura attuale dell’occidente, la parola debito è eminentemente connessa a quell’etica protestante, che già Max Weber vedeva all’origine ideale e psicologica, prima ancora che materiale e sociale, del sistema capitalista, alla cui indubbia efficienza i teorici, da Karl Marx a Joseph Schumpeter, hanno sempre contrapposto, con diversi gradi di perplessità, la difficoltà etica della giustificazione teorica. Se per Max Weber il capitale nella sua forma moderna nasceva dalla concezione calvinista della grazia e del peccato per poi secolarizzarsi in ideologia profana, secondo Benjamin il capitalismo può considerarsi in sé una religione, il culto di un dio minore, privo di dogmi ma dalla legge implacabile. È proprio la connessione religiosa fra debito economico e colpa morale — attinta peraltro a un’intuizione degli scritti giovanili di Marx — che porta il povero insolvente, scriveva Benjamin, «a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire, così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco».
Se in tedesco i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale, la lingua greca, che sta all’origine del nostro pensiero e della nostra sintassi filosofica, distingue nettamente tra l’uno e l’altra. Nel greco antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos , un sostantivo che deriva dal verbo chraomai , “usare”, e dalla locuzione chre , “ciò che serve”, che si usa e di cui c’è bisogno; è inoltre connesso con chreia , la “mancanza”. Il termine chreos viene usato ampiamente dagli storici, come Tucidide, dai filosofi, come Platone, e dai giuristi, fino alle Novelle di Giustiniano e ai Basilika : il greco bizantino assicurerà la continuità e trasmetterà la certezza del diritto romano nel suo transito millenario dall’età antica a quella moderna, attraverso i secoli solo in occidente oscuri del cosiddetto medioevo dominato dal diritto barbarico.
Ma la prima attestazione della parola chreos nella letteratura greca è già nell’ottavo canto dell’ Odissea , nel passo in cui Efesto incatena Ares e Afrodite dopo averli colti in adulterio. Tutti gli dèi ridono tranne Poseidone, che gli intima di scioglierli. Efesto rifiuta perché, dice, se lo facesse Ares fuggirebbe eludendo insieme due vincoli, quello materiale della catena e quello morale, il chreos , che lo lega ormai a Efesto. Questo secondo legame non è una servitù, impossibile tra dèi, piuttosto una comunanza di destino, un pegno. Il dio della guerra si è indebitato con il dio del fuoco, dell’ingegneria, dei fabbri, di tutti gli artigiani: cedendo all’amore, condividendo il fascino della dea, si è sottomesso al vincolo di un reciproco scambio. Anche altrove il significato del
chreos greco sfuma spesso in quello di una comunanza ferrea di destino, di una ineludibile necessità: designa “il debito che tutti devono pagare”, ossia, almeno a partire da Teognide, anzitutto e per definizione la morte. Un’accezione metaforica di chreos che si ritrova lungo tutta la letteratura greca, da Platone alla Sapienza di Salomone tradotta nella bibbia dei Settanta.
Lo squilibrio politico generato da un lungo e inestinguibile debito ha un precedente storico nel mondo greco. A provocare la caduta dell’impero di Bisanzio sei secoli fa è stato il debito con la repubblica di Venezia, incarnazione di quel capitalismo nascente che la percezione teologica e filosofica bizantina, erede di quella classica, non sarebbe mai riuscita ad assimilare né a comprendere.
L’indebitamento dello stato bizantino con i banchieri dell’occidente spinse le sue élite verso l’oriente. La civiltà bizantina entrò allora nella sfera geopolitica dell’islam ottomano, da cui solo nel XIX secolo la Grecia è emersa.
Non è scritto in nessun memorandum che l'Europa debba assumere l'ideologia della tradizione luterana, anziché quella della tradizione giudaico-greco-cristiana. Ma se pure così fosse, una cosa è il debito altra è il debitore. Far passare Alexis Tsipras come responsabile di un debito contratto dai governi contro i quali lui, il suo partito e il suo popolo hanno combattuto e vinto è una pesante mistificazione. Come dire che la Merkel e Schulze sono responsabili dei debiti dei nazisti.
Si tratta, molto prosaicamente, di un tassello di quel mosaico di menzogne sotto il quale si vuole nascondere la verità strategica di "questa" Europa: ciò che da essa si vuol cacciare Europa è la speranza del cambiamento che la Grecia di Tsipras.
«Il referendum contro l’austerità in Grecia è stato politicamente importante per l’intera Europa — sostiene Luciano Gallino, autore di FinanzCapitalismo e Il colpo di stato di banche e governi (Einaudi) — Se un popolo ridotto in miseria, che conta 11 milioni di abitanti, riesce a creare seri problemi ai paesi più importanti d’Europa, con un peso economico e politico come la Germania, ad un certo numero di persone potrebbero venire delle idee.
Quali, ad esempio?
Anziché subire passivamente le direttive di Bruxelles, che in molti casi sono quelle di Berlino, potrebbero puntare i piedi e discutere i provvedimenti. Cosa che non è avvenuto in Italia negli ultimi quattro governi italiani che hanno accettato passivamente e pedissequamente obbedito alle terapie della Commissione Europea o della Bce. Non si è mai vista una banca centrale chiedere di rendere flessibile il mercato del lavoro. Lo fece con Trichet da governatore con la lettera del 2011. Il governo Monti messo al posto di quello Berlusconi ha immediatamente provveduto a farlo. Chissà se il caso della Grecia non farà crescere il numero delle persone che vogliono farsi sentire sull’euro o sul funzionamento dell’Unione Europea.
Tsipras ha denunciato un colpo di stato contro il suo governo. Che cosa è accaduto davvero in Grecia nell’ultima settimana?
Si è concretata la situazione che sta maturando da molti anni. La democrazia è un fattore di disturbo per le istituzioni europee, per molti paesi a cominciare dalla stessa Germania o per il Fondo Monetario Internazionale. Tanto Lagarde, quanto Merkel, hanno detto in varie occasioni che è molto bello vivere in democrazia ma che bisogna anche rendersi conto che la democrazia si deve conformare alle esigenze del mercato. Io trovo queste dichiarazioni politiche di una gravità eccezionale perché dovrebbe essere vero invece esattamente il contrario. In Europa la democrazia viene considerata ormai un intoppo per le decisioni del mercato. Del resto nei trattati fondativi dell’Unione i riferimenti alla democrazia sono nulli. Con la Grecia hanno proprio esagerato. Se anche i primi ministri, per non parlare dei funzionari della Bce o di importanti esponenti dei socialisti hanno interferito apertamente con il governo greco, dimostrando che per loro la democrazia è una seccatura per la libera circolazione dei capitali. La socialdemocrazia è scomparsa totalmente. È ora di prendere posizione. Non che sia facile ma, piuttosto che battere la testa contro un muro, vale la pena di provarci.
Professor Gallino lei sostiene che dal 2007–8 sia in corso in Europa proprio un colpo di stato. Il referendum greco è stata una prima risposta collettiva?
È una risposta politica dei greci a cinque anni di politiche devastanti imposte da Commissione Ue, Fmi e Bce, ed è anche la prima contro quanto è maturato in Europa dalla crisi dei debiti sovrani in poi. La prima fase del colpo di stato presupponeva che le vittime protestassero un po’, per poi obbedire come nulla fosse successo. Oggi, il fatto che un paese economicamente insignificante alzi la testa e prenda a calci negli stinchi questi poteri è un fatto rilevante. Alexis Tsipras ha rivelato una tempra fisica e politica eccezionale per reggere cinque mesi di trattative. Oggi il fatto nuovo è che qualcuno abbia detto “No”, non solo nelle piazze, ma soprattutto nelle trattative, imponendo un referendum al quale hanno partecipato milioni di persone. Questo ha innervosito molto Merkel e gli ineffabili pretoriani della Commissione Europea o del Consiglio Europeo.
Quante possibilità esistono per un accordo sul debito e sui fondi per la Grecia?
Lo spettro delle opzioni sul tavolo oggi è molto ampio. La ristrutturazione del debito è essenziale, ogni economista di mezza tacca ammette che non è pagabile. La Grecia ha perso il 25% del pil grazie alle medicine tossiche di Bruxelles. In queste condizioni, se va bene, riusciranno a pagare un debito che arriverà al 180% del Pil tra moltissimi anni. Questa situazione dimostra che gli economisti che hanno proposto queste ricette non conoscono il loro mestiere e andrebbero licenziati. La soluzione è quella di affrontare i problemi immediati: creare occupazione qualificata per milioni di persone, se è possibile evitando i giochetti come il Jobs Act che non servono a nulla, aumentare la produzione possibilmente non con le vecchie politiche industriali e nuove politiche di investimenti pubblici. Per fare questo è necessario ridiscutere il trattato istitutivo dell’Unione Europea, oltre che lo statuto della Bce, che non contempla la necessità della nostra epoca, cioè creare occupazione o il prestito di denaro ai governi. Una cosa inaudita per una banca centrale.
In che modo si può intervenire?
Ci sono due problemi collegati da affrontare. I trattati, oggi, non sono modificabili, se non all’unanimità. È il segno dell’impossibilità pratica di intervenire: come si fa a far votare 28 paesi insieme? Questo è il funzionamento di un’unione nata male, fondata sulle necessità economiche e non su quelle democratiche, dove la partecipazione non conta nulla. Poi c’è il problema della Germania, l’unico paese ad avere avuto vantaggi dall’euro in termini di export e produttività, anche se negli ultimi dieci anni in questo paese i salari sono rimasti fermi. Convincerla a diminuire l’export, è difficile se non impossibile, ma questo è uno dei problemi fondamentali e lo dicono anche gli economisti tedeschi. L’euro non funziona e non funzionerà mai. Non si tratta però di continuare le invettive contro la finanza, ma di mettersi a studiare cosa fare per migliorare l’euro, per affiancarlo a monete parallele o dissolverlo in maniera consensuale. Così com’è l’euro è una camicia di forza che rende la vita impossibile a tutti, tranne che alla Germania.
In Europa Tsipras è isolato. Se il suo governo perde la guerra, cosa si prepara per la Spagna, con Podemos, e in generale per l’Europa?
A questo punto, anche se perde, Tsipras ha vinto comunque. Le vittorie restano, spingono le persone a fare qualcosa che prima non osavano nemmeno immaginare. Qualcosa di nuovo può rinascere dopo la scomparsa totale della sinistra in Europa.
L’asse Rignano-Berlino, messo su in gran fretta per spezzare le reni alla Grecia, è miseramente crollato. Con il sogno di un pezzo di mantello imperiale da poggiare sulle spalle, Renzi è volato dalla Merkel. In ginocchio dinanzi al nuovo sovrano del continente, rivendicava un riconoscimento ufficiale del suo rango di vassallo fedele che ha eseguito bene il mandato. Con la distruzione dei diritti del lavoro e il rogo della scuola pubblica, lui si presentava come la soluzione, la ragione obbediente ai voleri dei signori della tecnica e della finanza. Tsipras invece era il problema, la follia, il disordine. Mai viaggio, per incassare benefici immediati, fu più incauto. La terra promessa, cioè l’ombrello protettivo della signora della teutonica potenza, per il giovin cavaliere errante si trasforma ora in incubo.
Un altro fallimento. Dopo il trend elettorale disastroso, che dall’Emilia alla Liguria aveva visto la fuga del popolo della sinistra da un partito che ha il programma massimo della destra economica europea, la batosta greca accelera il declino del renzismo. I suoi ideologi avevano cercato di buttarla in velina di regime presentando l’immagine di una Grecia con gli arsenali pieni e le tasche vuote. E al coro di delegittimazione si era aggiunto Veltroni, dalle colonne di un giornale apocrifo. Con la sua predicazione domenicale ammoniva: Roosevelt non avrebbe fatto un referendum per decidere se entrare in guerra. Il coraggio di Tsipras si colorava, nella penna di solito buonista dell’artefice della virata liberista del Lingotto, di codardia.
Con Renzi alla corte della Merkel si congeda, e in malo modo, anche una parte cospicua degli eredi della tradizione del Pci, che hanno interiorizzato valori, simboli, credenze, interessi materiali della destra economica e tecnocratica. Il referendum greco suona la campana a morte per le politiche neoliberiste imposte in Italia anche da una parte influente di quel mondo senza più radici e identità. Il vangelo della transizione post-berlusconiana, esigeva riforme strutturali, sospensione delle elezioni, forzature costituzionali, governi d’eccezione che alteravano i tempi del gioco dei poteri parlamentari e adottavano il programma economico scritto dalle potenze del capitale sotto il ricatto della speculazione. La manovra sullo spread è la nuova coercizione muscolare che costringe i paesi privi dello scudo della sovranità alla resa nel tempo della post-politica. Gli eventi della Grecia mandano in soffitta i simulacri appassiti del socialismo europeo, percepito come braccio secolare del business e parte integrante del piano del capitale globale contro i diritti del lavoro. Nell’Europa del sud si è aperta una frattura storica, una di quelle cesure che implicano la comparsa di nuovi attori politici, la maturazione di altre culture.
La sfida di Tsipras non appartiene alla congiuntura, e non è un fenomeno solo locale, o la manifestazione radicale di un ellenismo periferico. È parte di un processo europeo più vasto, che da Atene si spinge verso Madrid, e annuncia l’inizio di una nuova sinistra, critica verso il capitalismo postmoderno, come imporrebbe il suo stesso codice genetico, da troppi dimenticato. Una sinistra legata al lavoro, in ogni paese dovrà assumere caratteri originali nell’organizzazione, nella cultura, nei simboli. Le parti della tradizione del comunismo italiano rimaste coerenti con i punti cardine di una cultura critica verso gli idoli del capitale, le reti dell’associazionismo civico, le sensibilità sociali di un radicalismo religioso, e le nuove istanze dei diritti di libertà, il movimento sindacale legato al conflitto devono partecipare a un processo per la definizione di un nuovo soggetto politico. Bisogna fare in fretta perché già si è accumulato un ritardo e tanti errori sono stati commessi. È opportuno ascoltare la lezione greca che dà la carica per l’invenzione organizzativa.
I commentatori che incasellano il fenomeno Tsipras nelle categorie del populismo compiono un deliberato compitino di depistaggio cognitivo. Il disegno di Tsipras non ha nulla di populista, cioè non costruisce inganni, deviazioni, capri espiatori. Non coltiva la paura ma la percezione della propria condizione sociale e non c’entra nulla con la ruspa che se la prende con i nemici immaginari. Niente in comune ha poi con lo tsunami tour, che odia anche il sindacato ed evita di collocarsi in una parte precisa nello spazio politico e sociale. Tsipras non salta con immagini deformanti il conflitto, anzi lo nomina, lo politicizza. E non si situa oltre la coppia destra-sinistra, al contrario la rivendica come fondativa, la declina in forme trasparenti. Il suo è un disegno di radicalizzazione della proposta politica e sociale della sinistra dinanzi alle sofferenze di un paese ridotto in ginocchio dalle classi politiche tradizionali, con la Spd che ora vuole la resa dei conti contro i ribelli greci e minaccia “misure umanitarie”.
Per questo recupero da sinistra dell’interesse nazionale, Tsipras parla all’Europa del sud ed è, il suo percorso, l’esatto contrario del populismo, che inventa nemici di una cultura altra, li espone alla gogna in maniera ossessiva grazie alle coperture dei media, che fabbricano fantasmi di comodo pur di proteggere il capitale dagli attori del conflitto. All’invenzione di un totalmente altro (immigrato, islam, rom) contro cui sparare il risentimento e le paure degli esclusi, egli contrappone la verità dei rapporti materiali. Con forza denuncia il dominio che vede l’idolo pagano con simbologie teutoniche succhiare il suo nettare dal cranio dei popoli uccisi con le politiche di austerità palesemente insostenibili. La vendetta dei mercati non tarderà a scagliarsi con furore cieco contro la rivolta politica inaugurata ad Atene. Ma il voto greco dice che è possibile una grande politica, contro il servilismo del fresco vigore di un Renzi, orfano delle magnifiche riforme impopolari che senza una rimodulazione del debito, una rivisitazione del fiscal compact saranno state prove inutili di sacrificio. Con il suo volo alto nei cieli di Germania, per assicurare a poche ore dal referendum che la partita si giocava tra l’euro e la dracma, Renzi ha scordato le parole del poeta: «Ai voli troppo alti e repentini / sogliono i precipizi esser vicini».
In uno dei suoi aforismi, Ludwig Wittgenstein affermava che “ niente è così difficile come non ingannare se stessi”, specialmente quanto manca un minimo di onestà intellettuale, si potrebbe aggiungere. E’ precisamente il quadro che stampa e altri mass – media, ci presentano il giorno dopo della straordinaria vittoria del No in Grecia, con una percentuale tanto lontana da quel testa a testa che i sondaggi presentavano prima di domenica, al punto da farci pensare che fossero del tutto farlocchi.
La linea più comune è quella di chi dice che la vittoria del No non cambierebbe quasi nulla e lascerebbe inalterata la durezza del confronto in atto. C’è poi chi afferma, con una logica difficile da esplorare, che la vittoria del Sì avrebbe creato migliori condizioni per i greci nella trattativa. In realtà questa non ci sarebbe più stata perché sarebbe passata integralmente la proposta dei creditori. C’è chi, da destra come da sinistra – si fa per dire –, afferma invece che il No vuole dire ben altro e cioè l’addio all’euro, malgrado che la maggioranza del popolo greco si sia esplicitamente espressa in più di un’occasione per la permanenza nell’Eurozona.
Senza rincorrere le interpretazioni più stravaganti è chiaro che le élite europee e i loro fidi commentatori sono stati presi alla sprovvista da un esito così clamorosamente nitido del pronunciamento ellenico e si trovano in difficoltà a replicare in modo convincente, se non rincorrendo alla impossibile denegazione del suo significato e del suo valore.
La sconfitta della Merkel e di tutti coloro che perseguono ostinatamente- malgrado le bocciature che giungono al Fondo monetario internazionale persino dal Congresso americano - la strada dell’austerità, incapaci di pensarne un’altra, è stata questa volta netta e chiara. Ma non è stata la sola. Sulla vicenda greca si è consumato il definitivo harakiri della socialdemocrazia, quella tedesca in particolare. La dichiarazione di Sigmar Gabriel vicecancelliere tedesco e capo della Spd “Tsipras ha distrutto l’ultimo ponte verso un compromesso” è tanto perentoria ( assomiglia molto al tweet della Csu bavarese “Buonanotte Grecia”) quanto incosciente e chiude indegnamente un giro di pronunciamenti uno peggiore dell’altro.
Martin Schulz, dopo averne dette e combinate di tutti i colori, ha ribadito contro ogni evidenza che “il no significa che la Grecia torna alla dracma”, addirittura sulla falsariga di Matteo Renzi che aveva dipinto il referendum come un derby fra euro e dracma. Persino il silente Mattarella, anche se con una dichiarazione un po’ criptica ma comunque rispettosa del voto greco (“si aprono scenari inediti”), sembra prenderne le distanze. Il primato della pagina giornalistica peggiore in assoluto spetta alla risorta L’Unità, nella cui testata campeggia il nome martoriato di Antonio Gramsci, che scarica tutto il suo livore contro il governo greco con quel titolo di prima “Grecia: tasche vuote arsenali pieni”. Intanto Hollande è stato chiamato a consulto dalla Merkel, ma aspettarsi da lui un sussulto di autonomia di pensiero è forse ottimismo eccessivo.
Il primo ostacolo a una riapertura della trattativa, che la Merkel aveva voluto interrompere in attesa dell’esito del referendum - legittimandolo in anticipo al di là delle sue proprie intenzioni - è rappresentato da questa cecità volutamente diffusa e in particolare dalle posizioni della socialdemocrazia tedesca che vuole scavalcare a destra la stessa cancelliera. Non certo dalla intransigenza della delegazione greca, il cui obiettivo rimane quello che era fin dall’inizio: avere un po’ di tempo e di fiato finanziario, quindi rubinetti aperti da parte della Bce ( l’economista Paul de Grauwe giudica del tutto arbitraria la decisione di quest’ultima di escludere la Grecia dal quantitative easing in atto nel resto d’Europa). Si è detto che esattamente due anni fa Mario Draghi abbia salvato dal crollo la Ue con una semplice dichiarazione, la celebre “Whatever it takes”. Ma non lo ha ripetuto e soprattutto non lo ha fatto ora nei confronti della Grecia, essendo l’innalzamento dei limiti dei finanziamenti Ela, rimessi in forse, troppo poco e troppo cari. E avrebbe potuto farlo, sdrammatizzando la situazione almeno dal punto di vista dell’emergenza finanziaria.
Anzi, il comportamento del governo greco è stato contenuto nelle dichiarazioni post voto e soprattutto molto concreto nei fatti. Le dimissioni di Yanis Varoufakis vanno considerate in questo quadro. La stessa dichiarazione dell’economista greco va letta per quello che dice, abbandonando i soliti esercizi dietrologici: “Considero un mio dovere quello di aiutare Alexis Tsipras, nel modo che ritiene più opportuno, per ottenere il massimo dal risultato che ci ha affidato ieri il popolo greco tramite il referendum. Mi farò carico con orgoglio del disprezzo dei creditori”.
Egli sa bene che per andare avanti, ovvero per affrontare il tema di fondo – la ristrutturazione e la diminuzione del debito su cui ha sempre giustamente insistito e che la Germania respinge per ora nettamente -, bisogna prima superare l’emergenza e accumulare forze in campo europeo. Ora c’è il forte No del popolo greco che rafforza Tsipras e chiunque vada a trattare. Ogni pretesto va eliminato. Perciò egli con grande senso di responsabilità e di lealtà può benissimo tenersi da parte.
Non si tratta dell’esplodere di divergenze fra Tsipras e Varoufakis. Anche a sinistra c’è chi pensa così, vedendo un nuovo caso Che Guevara, con Tsipras nella parte di Fidel Castro. Ma non è questo il caso. I due hanno giocato fin dall’inizio la medesima partita con ruoli e modalità giustamente diverse per funzioni, competenze e carattere. Il tentativo di dividerli da parte delle elite europee, accreditando in Tsipras la figura più malleabile, è già stato respinto con la proclamazione del referendum fatta dal primo ministro greco.
Ma il farsi da parte di Varoufakis in questa delicatissima fase della riapertura della trattativa, non significa la sparizione dalla scena del professore di Houston. Anche perché i nodi del debito complessivo e della carenza di investimenti produttivi in settori innovativi verranno al pettine della crisi europea. E su queste cose Varoufakis ha molto da dire. Egli non è solo un brillante teorico di una possibile alternativa di politica economica ai modelli neoliberisti dominanti. Un’analista profondo della situazione economica mondiale. E’ anche lo studioso che si è impegnato a formulare soluzioni pratiche alla questione del debito e della rinascita dell’economia su nuove basi. In lui non vi è separazione inconciliabile fra teoria e pratica, come i suoi avversari – peraltro molto ignoranti sul primo fronte e incapaci sul secondo – vogliono fare credere. Ma la convinzione profonda che senza una lettura adeguata delle contraddizioni del moderno sistema capitalistico mondiale ogni soluzione tende ad accomodarsi sul carro del più forte ed a perpetuare l’attuale sistema.
Yanis Varoufakis si è dedicato a partire dall’annus horribilis della crisi economica in Europa, ovvero il 2009, a progettare un vero piano di investimenti – non come quello attuale di Juncker ridicolmente limitato a una manciata di miliardi -. La sua proposta, che sarebbe tuttora perfettamente valida, era quella di consentire alla Banca Europea degli Investimenti di emettere obbligazioni, che sarebbero state acquistate dalla Banca centrale europea per finanziare investimenti produttivi in settori qualitativamente diversi da quelli verso i quali si indirizza normalmente un mercato di capitali, peraltro restio a farlo perché votato interamente alla finanza. Come si vede si tratterebbe, per così dire, di un’altra forma di quantitative easing, dove però i soldi non verrebbero posteggiati nelle banche, gelose e sospettose a concederli in prestito, creando così una sorta della famosa “trappola della liquidità” di cui ci parlava Keynes, ma verrebbero direttamente impegnati nella economia reale.
Proprio qui sta la chiave per ridare una speranza all’Europa. Da un lato si tratta di affrontare seriamente il tema del debito in base al principio confortato da innumerevoli esempi storici - in primo luogo quelli della Germania nei due periodi postbellici, ove si praticarono scelte diverse con esiti politici non a caso opposti (il nazismo dal rigore nell’esigere il rimborso, la democrazia dal condono del debito nella conferenza di Londra del 1953) – e cioè che debiti troppo elevati non possono venire interamente pagati e che quindi è anche interesse dei creditori giungere alla loro ristrutturazione e riduzione. Se non vogliono perdere tutto costringendo un paese al default. Dall’altro bisogna pensare a un’Europa unita politicamente su basi federali, nella quale si arrivi all’unificazione fiscale e a un bilancio centrale capace di avviare un nuovo modello di sviluppo.
Purtroppo la Ue si muove in modo opposto, non solo nel caso greco, ma più in generale, visto il documento recentemente presentato da Juncker, Tusk, Draghi, Dijsselbloem e Schulz. Come ha detto l’economista americano Jeffrey Sachs il problema, se non vuole implodere o ridursi a una provincia tedesca, è dell’Europa, non della Grecia. Per questo per Varoufakis è solo un arrivederci.
Il giorno dopo le clamorose dimissioni di Varufakis emergono le virtù politiche e le prospettive della decisione, Articoli di Tommaso De Francesco, Pavlos Nerantsis, Annamaria Merlo. Il manifesto, 7 luglio 2015
È la prima volta, dopo tanti anni, che tutti i leader politici partecipano allo stesso vertice — l’ultimo risale ai primi anni ’90 — con l’esclusione dei nazisti di Alba dorata, assenti per «motivi ideologici e politici». Durante la riunione, durata più di sette ore, Tsipras ha presentato ai suoi interlocutori un piano simile a quello discusso dieci giorni fa con i creditori, aggiornato con i dati nuovi. In primo luogo ha ribadito la richiesta di Atene di un prestito dall’Esm pari a 29,1 miliardi di euro, cui si contrappone Berlino che continua a non voler sentir parlare di ristrutturazione del debito.
Per il momento il problema più urgente è la liquidità. Le banche greche rischiano di rimanere a secco da un momento all’altro. La Bce, per ora, si è limitata a mantenere il flusso d’emergenza dell’Ela al livello pre-voto (89 miliardi) e a una «correzione» del collaterale offerto in garanzia dagli istituti greci. Per questo motivo il governo ha deciso il prolungamento della chiusura delle banche fino a domani. «La Grecia andrà al tavolo delle trattative con l’obiettivo di riportare alla normalità il sistema bancario» ha detto Tsipras. Il premier greco è uscito dall’aula due volte. La prima per avere una conversazione telefonica con Mario Draghi e l’altra con Putin. La Bce potrebbe togliere completamente l’ossigeno alle banche greche, ma non vorrebbe essere Draghi a provocare il default.
Tsipras oggi è più forte che mai dopo aver ottenuto oltre il 60% dei voti, strappando il consenso anche di altre forze politiche. «L’esito del referendum non è un mandato di rottura ma un mandato per continuare gli sforzi per una soluzione sostenibile» sottolineano i leader politici, aggiungendo che «ciascuno farà il possibile per contribuire all’obiettivo comune». Ovvero garantire la liquidità alle banche e la crescita del paese, promuovere le riforme tenendo conto la giustizia sociale e il negoziato per la ristrutturazione del debito.
Il premier greco partecipa oggi al vertice Ue con un mandato chiaro: ottenere un accordo al più presto, possibilmente «entro le prossime 48 ore». Un’intesa all’ interno dell’eurozona che apre la strada ad una Europa diversa, della solidarietà e dei diritti contro l’austerità e la recessione. Il premier greco deve affrontare i falchi dell’eurozona che non vedono come un dramma l’uscita della Grecia dall’euro, a differenza di altri che fanno di tutto per tenere Atene nell’eurozona, specie nel momento in cui Jp Morgan e Barclays considerano «probabile» un’uscita.
Intanto i greci che per cinque anni stanno vivendo sulla propria pelle le conseguenze del peggior attacco del neoliberalismo, nonostante il terrorismo mediatico, la chiusura delle banche, le intimidazioni e i ricatti di alcuni partner europei in questi giorni sono ottimisti. Come aveva scritto Yannis Ritsos, una delle voci poetiche più forti della Grecia contemporanea, «noi cantiamo per unire il mondo».
Per arrivare a questo punto d’intesa tra le forze politiche e un cambiamento del clima nei rapporti con i creditori era, però, necessario un sacrificio. Yanis Varoufakis, il ministro delle finanze greco, che per cinque mesi ha tenuto duro, ieri mattina ha dovuto dimettersi non perché in disaccordo con Tsipras, ma perché l’hanno chiesto i partner europei. E il premier greco per togliere ogni alibi ai suoi interlocutori europei ha chiesto le dimissioni del suo ministro e amico.
Verso le otto di mattina Varoufakis ha scritto sul suo blog di aver lasciato l’incarico per consentire al premier di ottenere più facilmente un accordo. «Subito dopo l’annuncio dei risultati del referendum, sono stato informato di una certa preferenza di alcuni membri dell’Eurogruppo e di partner assortiti per una mia «assenza» dai loro vertici, un’idea che il primo ministro ha giudicato potenzialmente utile per consentirgli di raggiungere un’intesa. Per questo motivo da oggi lascio il ministero delle Finanze. Considero mio dovere aiutare Alexis Tsipras a sfruttare come ritiene opportuno il capitale che il popolo greco ci ha offerto con il referendum d’ ieri». E poi conclude: «Porterò con orgoglio il disprezzo dei creditori».
La notizia non ha sorpreso nessuno. Anzi in un’ottica di rilancio del negoziato, le dimissioni sono state accolte positivamente dai mercati. Da parecchio tempo era noto che il ministro delle finanze greco non era affatto grradito ai membri dell’Eurogruppo e soprattutto al suo omologo tedesco, Wolfgang Schauble. Le posizioni diverse, ma anche l’aria da prof e l’abbigliamento casual di Varoufakis hanno creato prima un’antipatia, poi uno scontro frontale e in seguito un vuoto che con il tempo è diventato caotico, tra il ministro greco e i 18 dell’eurozona.
Secondo fonti a Bruxelles, era diventato «un dialogo tra sordi» a tal punto, che mesi fa, l’ambasciatore tedesco ad Atene per ben due volte aveva chiesto al governo greco l’allontanamento di Varoufakis.
Anche all’interno di Syriza non piaceva tanto questo spirito esibizionista e scontroso del ministro ormai ex. La settimana scorsa secondo un servizio apparso sul quotidiano Ta Nea (Le novità) che non è mai stato smentito dal governo, alcuni ministri avevano chiesto l’allontanamento di Varoufakis.
E domenica sera quando l’ esito del «no» era quasi sicuro, durante un incontro, Tsipras ha chiesto le dimissioni di Varoufakis, il quale uscendo dalla sede di governo, ha usato toni duri contro i creditori, parlando di «partner che terrorizzano i greci» e di «valuta parallela all’euro», una dichiarazione che non andava di pari passo con il tentativo di Tsipras di tenere i toni bassi e trovare un compromesso.
L’allontanamento di Yanis Varoufakis, tanto amato tra i greci, potrebbe paragonarsi con il sacrificio di Ifigenia nella tragedia Agamemnone di Eschilo. Il suo sotituto sarà Euclid Tsakalotos, capo-gruppo della squadra di negoziato greca, stretto amico di Varoufakis.
Parole e scelta inaspettate perché annunciate appena il giorno dopo la vittoria del no contro i diktat della troika. Come dice Alexis Tsipras, «per lottare per la libertà servono virtù e coraggio».
C’è già chi paragona il gesto di Varoufakis a «Cincinnato», chi sapientemente torna sulle sfortune di Dioniso raccontate nel kylix di Exekias alle prese con gli etruschi «delfini», chi addirittura richiama alla memoria la scelta di allontanarsi da Cuba fatta da Che Guevara d’accordo con Fidel Castro. Si rischia così però di fare della mitologia, antica o moderna che sia.
Qui al contrario ci troviamo di fronte ad una scelta immediata, strategica e consapevole: «Mi dimetto per favorire l’accordo». Si intuisce l’accordo consensuale (lo conferma la nomina al ministero delel Finanze al suo posto di Euclid Tsakalotos, fortemente legato a Varoufakis ed esponente della piattaforma di sinistra di Syriza) tra i due dirigenti che, forti dell’immenso sostegno popolare che arriva dai risultati del referendum, hanno deciso di togliere, con questa mossa dolorosissima per entrambi, ogni alibi all’intransigenza della troika. Che ora non può più trincerarsi dietro la presunta «arroganza» dell’«intrattabile» e fuori dagli schemi, mediatore Varoufakis.
Il sacrificio di Varoufakis, più che l’evento mitologico di riferimento, mostra la capacità di rispondere al «peso» della vittoria. Nel senso della poesia di Costantino Kavafis Che fece…il gran rifiuto (ispirata ai versi della Divina Commedia di Dante) di più d’un secolo fa ma che sembra scritta in occasione del referendum greco: «Per alcuni uomini giunge il giorno in cui/ devono pronunciare il grande Sì o il grande/ No. È chiaro sin da subito chi lo ha/ pronto dentro di sé il Sì e pronunciandolo/ si sente più rispettabile e risoluto./ Chi rifiuta non si pente. Se glielo richiedessero,/ «no» pronuncerebbe di nuovo. Eppure quel no — / quel no giusto lo annienta per tutta la vita».
Una rinuncia, quella di Yanis Varoufakis, che sottolinea l’originale drammaticità della sinistra greca e della sua storia. Intessuta della necessità di rompere un profondo isolamento. Già nel secondo dopoguerra con la disperazione e sconfitta sanguinosa della guerra civile continuata dai comunisti contro i nuovi occupanti britannici, dopo la sconfitta di quelli nazisti-fascisti.
Una sconfitta consumata, oltre che per i gravi errori dei comunisti greci, sull’altare di Yalta e di Stalin ma anche per responsabilità di Tito, l’emergente leader jugoslavo anti-stalinista. Poi, mentre in tutta Europa esplodeva il ’68, in Grecia la sinistra soccombeva già da un anno alla dittatura militare dopo il golpe dei colonnelli, sostenuta dalla Nato. Il riscatto fu la rivolta del Politecnico del ’74. Ancora una volta per rivendicare la specificità della crisi greca di fronte all’ordine mondiale della Guerra fredda e alla sostanziale indifferenza-connivenza dell’Europa.
Ora la sinistra — prima composita e ora con Syriza finalmente unita — che il leader Alexis Tsipras ha portato al governo del Paese dopo il disastro della destra, è impegnata nella diversità più difficile: contraddire il neoliberismo e l’economicismo dell’Unione europea ridotta solo ad una moneta e al ruolo di recupero crediti al servizio del Fmi.
Oggi la Grecia presenta nuove proposte, concordate tra tutti i partiti, ai due incontri programmati a Bruxelles, l’ennesimo Eurogruppo straordinario a metà giornata, seguito in serata da un vertice dei capi di stato e di governo dei 19 della zona euro. La mossa è stata concordata con Alexis Tsipras da Angela Merkel e François Hollande, in successive telefonate, tra domenica sera e ieri. Hollande ha ricevuto Merkel ieri all’Eliseo, per cercare un terreno di intesa, dopo le divergenze recenti. Hollande attende «proposte serie e credibili», offrendo un equilibrio tra «solidarietà e responsabilità», con «urgenza». Per Merkel, i partner hanno già dato prova «di molta solidarietà», l’ultima proposta era «molto generosa».
Hollande è invitato, in Francia, ad uscire dalla sua tradizionale ambiguità e a proporsi come un vero mediatore per evitare il peggio. Il ministro dell’Economia, Emanuel Macron, ha respinto l’ipotesi di organizzare un’uscita dall’euro della Grecia «senza drammi», avanzata dall’ex primo ministro Alain Juppé (che sogna l’Eliseo per il 2017). Per la Germania, invece, «al momento non ci sono i presupposti per una nuova trattativa su un altro programma di aiuto», ha affermato il portavoce di Merkel, Steffen Siebert, che ha anche precisato che «non c’è ragione per una ristrutturazione» del debito, come chiede Tsipras. La reazione tedesca al risultato del Greferendum sfiora l’isteria, al punto che il numero due del governo, l’Spd Sigmar Gabriel ha annunciato che «il summit discuterà di aiuti umanitari» per la Grecia, «la gente laggiù ha bisogno di aiuto e noi non dovremmo rifiutarglielo solo perché non siamo d’accordo con il risultato del referendum». Di ricorso alla charity aveva già parlato l’ineffabile Martin Schulz (Europarlamento), un’ipotesi ripresa dal gruppo Ppe a Strasburgo.
Il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, segue la posizione tedesca e afferma che «la vittoria del no è molto disdicevole per l’avvenire della Grecia», perché «per la ripresa economica sono inevitabili misure difficili e riforme» e che non c’è «niente da aspettarsi» dalle proposte greche. La Commissione ieri ha pubblicato un commento minimalista, che «prende atto e rispetta» il risultato del referendum. Il commissario all’euro Vladis Dombrovskis ripete che «il posto della Grecia era e resta nell’eurozona», ma aspetta il risultato dell’Eurogruppo di oggi per vederci più chiaro. Attendismo anche all’Fmi, dopo aver «preso atto» del Greferendum: «Sorvegliamo la situazione – ha detto Christine Lagarde – e siamo pronti ad aiutare la Grecia se ce lo chiedono».
Comunque, la Commissione è soprattutto preoccupata della stabilità dell’euro: «La stabilità della zona euro non è in gioco», insiste Bruxelles e Dombrovskis ribadisce: «La stabilità dell’eurozona non è in discussione». Jean-Claude Juncker ha avuto contatti con Tusk, Dijsselbloem e Draghi, che ha parlato anche con Tsipras.
La Bce, suo malgrado, è gettata in prima linea in queste ore. Ha in mano l’arma fatale dell’Ela (liquidità di emergenza), l’ultimo rubinetto rimasto aperto per finanziare il sistema bancario greco. L’Ela è ferma a 89 miliardi e domenica la Banca centrale greca ha di nuovo chiesto a Francoforte un rialzo. Oggi e domani le banche non riaprono, come previsto, sono a secco. Per la Bce, che ha prestato alla Grecia 30 miliardi, la data finale è il 20 luglio, quando la Grecia deve rimborsare 3,5 miliardi. Se non c’è l’accordo, non ci saranno i soldi. Di qui ad allora, la Bce potrebbe progressivamente stringere il cappio attorno al collo della Grecia, fino a sospendere anche l’Ela. Allora ci saranno i fallimenti delle banche, che precipiteranno la Grecia nel caos, nel panico del bank run e a dover ricorrere agli IOU (I owe you), cioè una moneta parallela per pagare funzionari e pensioni, equivalente a un Grexident nel disordine.
Jens Weidmann, della Bundesbank, sottolinea da tempo che l’Ela della Bce è al limite delle competenze di Francoforte, che sta rischiando la propria reputazione. La ristrutturazione del debito chiesta da Atene ha di fronte un ostacolo di peso: per Christian Noyer, governatore della Banque de France, «per definizione il debito greco verso la Bce non può essere ristrutturato perché costituirebbe un finanziamento monetario a uno stato», escluso dall’art.123 del Trattato di Lisbona.
In caso di Grexident, ma anche di un Grexit ordinato, non sono del tutto dissipati i timori di un contagio, a cominciare da Spagna e Portogallo. Luis de Guindos, ministro spagnolo, ha affermato che «la Spagna non prevede assolutamente» un Grexit e ha aperto a un «terzo piano di aiuti, la Grecia ha diritto di chiederlo», ma ha ricordato che «bisogna applicare le regole». Impazienza anche da parte di Matteo Renzi: le riunioni di oggi «devono indicare una via definitiva» per uscire da quello che Paolo Gentiloni ha definito «il labirinto greco».
«La vittoria del «no» ha tanti significati. Ma prima di tutto onore ai greci, che hanno vinto la loro battaglia ma non certo la guerra, anche per noi italiani e per l’Europa, senza che l’Europa (e l’Italia) facesse molto per loro».
Il manifesto, 6 luglio 2015 (m.p.r.)
La vittoria del «no» è la risposta a quanti hanno cercato in tutti i modi di trasformare il loro voto in un azzardo, come se il giusto diritto di un popolo di esprimersi sul suo futuro rappresentasse un rischio da non far correre ai mercati, in un contesto reso confuso nell’ultima settimana dai comportamenti ricattatori della troika ed in particolare della Bce, che ha cercato in vari modi di influenzare il voto con l’arma del panico, bloccando la liquidità agli sportelli anche se le banche sono solvibili a stesso giudizio della Bce. La democrazia non è azzardo, ma un diritto, e questo è il primo risultato del «no».
Questa vittoria è la risposta a quanti hanno voluto trasformare il negoziato su un nuovo Memorandum in un «prendere o lasciare» tutto politico, in un «dentro o fuori l’Europa», perché la posta in gioco non era solo economica ma, come è risultato evidente, era il diritto di una nazione a non accettare i diktat della dottrina ordoliberale tedesca che impone le sue regole, e a scegliere assieme in quale Europa si vuole stare. L’inclusione contro l’esclusione, secondo risultato del «no».
La vittoria del «no» ha il merito di non azzerare le prospettive di cambiamento. L’uso politico della negoziazione sul Memorandum era far capire ai popoli europei che non vi sarebbe stata altra strada se non quella tracciata da Bruxelles, Francoforte, Washington, e su tutti Berlino; che ogni tentativo di avere una idea diversa di Europa doveva essere espulsa sul nascere, prima che rischiasse di contagiare altre nazioni, altri popoli, quello spagnolo anzitutto. Con il governo di coalizione a guida Syriza le istituzioni europee e quelle internazionali (Fmi), sono costrette invece a fare i conti, e a negoziare, e in prospettiva altri governi di coalizione potrebbero essere eletti aprendo un fronte di nuove negoziazioni,terzo risultato del «no».
La vittoria del «no» è la risposta al socialismo europeo che co-governa le istituzioni nazionali e comunitarie condividendo la politica dei partiti conservatori; a ciò che è rimasto del socialismo europeo, simulacro persino dello spirito della socialdemocrazia dell’alternanza, che oggi delega con i governi di coalizione al Ppe ogni scelta sul terreno economico, sociale e politico, e fuori dalle coalizioni condivide gli stessi paradigmi e le stesse ricette del liberismo più retrivo. Il quarto risultato del «no» prova che un’altra sinistra è possibile.
La vittoria del «no» consente di mantenere vivo il tentativo di cambiare l’agenda economica europea. Le ricette dell’austerità espansiva hanno prodotto un peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della gran parte delle popolazioni che le hanno subite. La Grecia è solo il caso più eclatante, ma danni sono stati procurati ovunque la troika è arrivata, oppure dove le politiche sono state da questa dettate, in Irlanda, Spagna, Portogallo, Finlandia, e Italia da Monti a Renzi.
Al contempo il debito deve essere ristrutturato perché un paese quando non è in grado di ripagare il suo debito e viene forzato a farlo, non ha alcuna prospettiva di crescita e fallisce su entrambi i fronti, quello della crescita e quello del pagamento del debito. Il quinto risultato è quello di proporre una agenda diversa: un negoziato per un Memorandum che segni una discontinuità con i precedenti, e una conferenza sulla ristrutturazione del debito.
A questo punto quale sarà la reazione delle istituzioni europee e della troika?
Un primo scenario è quello della irresponsabilità. Ovvero rigettare nei fatti il successo del «no» e perseguire come se nulla fosse accaduto l’obiettivo politico, mettere in crisi ancor più la Grecia e far cadere il governo Tsipras. Quindi nessun accordo, Memorandum o meno, e costringere la Grecia al default e alla uscita dall’euro tramite la Bce che blocca il credito al sistema bancario greco. Scenario assai rischioso per gli altri paesi dell’eurozona, perché saremmo nel campo dell’ignoto, non solo con costi elevati per la Grecia.
Un secondo scenario è quello della stupidità, in cui viene abbandonato l’obiettivo politico ma non quello economico, per cui nessuna concessione alle richieste greche sul piano delle politiche di austerità e nessuna ristrutturazione del debito. Il debito va pagato, le istituzioni europee e internazionali sono disposte ad intervenire concedendo linee di credito solo a condizione che la Grecia accetti un Memorandum 3 sulla linea dei precedenti. L’esito è il perdurare della depressione in Grecia, qualora il governo ellenico accetti pur di non dichiarare default e uscire dall’euro. Il rischio è che la crisi sistemica venga solamente rinviata a tempi futuri perché i fondamentali non mutano.
Il terzo scenario è quello della saggezza. Si riconosce la necessità della ristrutturazione del debito e si concede alla Grecia una prospettiva per far uscire l’economia greca dalla depressione con misure che non sono di osservanza liberista. I creditori rinunciano all’obbiettivo economico di breve periodo di essere ripagati, e concedono alla Grecia di accompagnare alle politiche di offerta le politiche di sostegno alla domanda, quindi aiuti non vincolati alla svalutazione interna.
Possiamo essere fiduciosi in questa Europa a guida liberista? Se dovessimo scommettere, punteremmo purtroppo sul secondo scenario. Ma vi sono variabili in gioco nel 2015, proprio quelle che la troika voleva escludere ribaltando il governo Tsipras, ovvero che alla Grecia faccia seguito la Spagna. E questo aprirebbe la strada affinché la discussione su «Quale Europa» diventi discussione politica di tutti i cittadini europei.
«La festa spontanea a piazza Syntagma, subito dopo i primi risultati. Migliaia di bandiere greche, per strada un’intera generazione di giovani travolta dalla crisi, la classe media impoverita, gli operai e i disoccupati».
Il manifesto.info, 6 luglio 2015
Dopo giorni di tensione, minacce e allarmi, la festa esplode spontanea già all’arrivo dei primi inequivoci risultati, a meno di due ore dalla chiusura dei seggi. Le strade si intasano di migliaia di persone dirette ancora una volta, come venerdì scorso, verso Syntagma, la piazza del Parlamento. Non c’è nulla di organizzato perché Alexis Tsipras alla vigilia aveva raccomandato calma e sobrietà, la stessa con la quale da ieri mattina cittadini greci di ogni età si sono messi in fila ai seggi per votare, ognuno senza chiedere all’altro come la pensasse. Quella che per una settimana li aveva disciplinatamente fatti mettere in fila ai bancomat per ritirare i 60 euro giornalieri consentiti dopo lo stop deciso dal governo o a qualche supermercato per la paura, infondata, che come in guerra prendessero a scarseggiare i viveri.
Fin dalle prime ore del mattino, prima gli anziani e poi man mano tutti gli altri, i seggi erano stati un tranquillo via vai di persone, restituendo un’idea di grande maturità e dando una lezione di democrazia all’Europa, laddove quest’ultima è nata, come ama ricordare spesso Alexis Tsipras. Divisi ma insieme, chi era convinto che dopo aver detto tanti sì all’Europa in cambio di un massacro sociale era giunta l’ora di un bel no, e chi invece aveva paura di perdere anche quel po’ che gli è rimasto, chi non ha più alcunché da mettere in gioco e chi invece sulla crisi ha galleggiato come un surfista su un mare in tempesta.
Ma la voglia di scendere in piazza è stata incontenibile: troppo netto il successo, troppa la voglia di mostrare all’Europa che per i greci questa battaglia è appena cominciata e vogliono vincerla. È per questo che le bandiere greche questa volta hanno la meglio sui simboli di partito e sui drappi rossi, persino sugli stracci con su scritto «Oxi», «no», dei quali ora non c’è più bisogno. Ora è necessario che i negoziatori greci a Bruxelles sentano di non essere soli, e per questo si sprecano i cartelli in inglese dai messaggi espliciti. Il più chiaro di tutti recita: «This struggle is not about Europe, it’s about freedom» («Questa lotta non riguarda l’Europa, ma la libertà»). C’è anche un gruppo di tedeschi, sono del movimento Blockupy che lotta contro l’austerità e sono i benvenuti.
Un cauto ottimismo serpeggiava già dal primo pomeriggio anche nel quartier generale di Syriza in piazza Koumoundourou. La sensazione che la vittoria fosse a portata di mano è aumentata quando hanno cominciato a circolare i primi sondaggi non ufficiali, a urne ancora aperte: il no al 51 per cento, poi al 54. Finché, alle 19 in punto, ai primi “opinion polls” che davano il no in vantaggio la gioia era esplosa e la tensione si era sciolta negli abbracci e nei sorrisi condivisi con gli alleati europei (rappresentanti della Linke tedesca, della spagnola Podemos, ciprioti dell’Akel, irlandesi dello Sinn Fein, la nutrita delegazione italiana, rappresentativa di tutta la galassia della sinistra) accorsi già da venerdì a sostenere la rivoluzione europea partita da una periferia del continente e il suo condottiero Alexis Tsipras, che ha vinto la scommessa più grande trascinandosi dietro più della metà abbondante del popolo greco.
Non sono servite a molto le ingerenze europee e la confusione mediatica, davvero impressionante, messa in piedi ad arte da un fronte del sì con pochi argomenti a propria disposizione se non quello, abituale, della paura. Un argomento che però i greci hanno rigettato, come si intuiva nelle strade e si è capito la sera della grande manifestazione di venerdì a sostegno del no. Lo sapevano tutti, anche quelli del sì che in un documento a uso interno già giovedì scrivevano che il no era al 70 per cento nei centri urbani e che perfino il 10 per cento degli elettori di Nea Democratia avrebbe votato a favore del piano dei creditori. Ma hanno continuato a fingere e a propagandare sondaggi inattendibili e costruiti alla bisogna per sola propaganda elettorale. Ci sono cascati in molti, ma solo chi non voleva vedere per partito preso non ha capito quello che stava fermentando ancora una volta nella pancia della società ellenica.
Nella notte di piazza Syntagma circola una battuta: «I colpi di stato non avvengono più by tanks, but by banks», con chiaro riferimento ai carri armati della dittatura dei colonnelli che in tanti ancora ricordano qui in Grecia e al rischio che siano ora le banche, asfissiando la popolazione, a promuovere il regime change. Ma buttare giù Alexis Tsipras e il suo governo è ora molto più difficile per tutti, anzi i più deboli sono i falchi dell’austerità, a cominciare da Angela Merkel e Jean Claude Juncker (anche se, tra i leader europei, nessuno esce bene da questa storia, compreso il nostro Matteo Renzi), ed è stato questo il colpo da maestro del premier greco. Ma a come andare avanti si penserà da oggi, subito perché la situazione non consente di tergiversare, con calma e determinazione com’è stato fino a oggi. Ora è il tempo di festeggiare, la notte di Syntagma è ancora lunga.
»Sulla Grecia abbiamo assistito a una straordinaria opera di manipolazione dell’informazione». Articoli di Norma Rangeri, Gianni Ferrari, Simorne Pieranni, e l'intervista di Anna Maria Merlo a Yaris Varoufakis. Il manifesto, 5 luglio 2015
LA SFIDA GRECA
di Norma Rangeri
«Abbiamo assistito a una straordinaria opera di manipolazione dell’informazione, particolarmente sfrontata nell’impegno profuso a dare per verità sondaggi smentiti dalle stesse fonti, a censurare notizie importanti, come la critica del congresso Usa, recapitata, nero su bianco, alla signora Lagarde».
Può suonare retorico dire che oggi la Grecia sarà teatro di un avvenimento storico. Ma così è. Il risultato del referendum influirà sul futuro stesso dell’Unione europea e su quello di uno dei paesi più piccoli della Comunità. E proprio questa particolarità merita una prima riflessione. Come è possibile che un paese tanto piccolo possa, non dico tenere in scacco, ma condizionare il domani di altri 27 stati? Non è strano che il voto di dieci milioni di persone possa influire sulla vita di altri quattrocento? Lo sarebbe se questa vicenda non rappresentasse la quintessenza della globalizzazione.
Dagli Stati uniti alla Cina tutti seguono con attenzione quanto sta accadendo nella terra degli dei dell’Olimpo. Perciò il voto di oggi è qualcosa di più e di diverso della sfida simbolica di Davide contro Golia, anche se la grande disparità di forze può ben suggerire l’accostamento perché in questo cimento del piccolo contro il gigante non sono certo i filistei di Bruxelles ad aver dovuto sfidare nella vita quotidiana gli orsi e i leoni della lunga, infinita crisi che ha buttato donne, uomini, bambini, anziani nella battaglia contro le bestie nere della povertà, della fame, della mancanza di medicinali, della depressione che ha fatto impennare le percentuali dei suicidi.
Il cittadino greco per lunghi anni ha sopportato l’assedio e quando il Golia di Berlino lo ha inchiodato all’ultimo duello, il piccolo Davide ha tirato fuori la fionda del referendum cogliendo tutti di sorpresa. Atene mette oggi in evidenza non solo la sproporzione delle forze in campo ma le contraddizioni forti e divisive della Ue.
Sono lì a dimostrarlo i politici italiani che, da sinistra a destra - da Vendola a Brunetta a Salvini passando per Grillo - tifano, pur tra molti distinguo, per la battaglia del piccolo Davide. Sicuramente perché molti vorrebbero usare il voto greco a fini di politica interna. E non è curioso che grandi economisti, quasi tutti nobel e liberal si siano pronunciati per il “No”, posizione mal digerita da tutte le grandi firme del giornalismo nostrano, scritto e televisivo?
Abbiamo assistito a una straordinaria opera di manipolazione dell’informazione, particolarmente sfrontata nell’impegno profuso a dare per verità sondaggi smentiti dalle stesse fonti, a censurare notizie importanti, come la critica del congresso Usa, recapitata, nero su bianco, alla signora Lagarde.
Questo voto mette strappa i veli alle magnifiche e progressive sorti della Ue a trazione tedesca. Denuncia il difetto di nascita, una Unione calata dall’alto senza nulla chiedere ai cittadini, contraddicendo lo spirito dell’Europa pensata da Altiero Spinelli. Scopre un’Unione costruita su un’impalcatura economico-finanziaria che sostituiva alla valvola di sfogo della svalutazione delle monete nazionali l’impressionante svalutazione del lavoro sottomesso alle durissime leggi dell’eterna precarietà.
Tuttavia la tensione e la passione che viviamo nel giorno in cui ci sentiamo tutti greci è così forte non solo perché abbiamo imparato a memoria i numeri del disastro provocato dalla cieca austerità, fino all’ultimo paradosso del mancato rimborso di 1,6 miliardi non pagato da Atene che ha provocato il falò di 287 bruciati dalle borse il giorno dopo. Perché i mercati si erano «spaventati», così titolavano i giornali con la consueta banalità invece di raccontare a lettori e telespettatori l’assurdità della situazione.
E non si venga a dire che tagliando e dilazionando il debito greco verrebbe annullato il principio fondamentale della Ue, cioè il rispetto delle regole. Se rispettarle significa danneggiare l’intera comunità, allora è solo un braccio di ferro politico quello in corso, una pura guerra di potere con la volontà di arrivare allo scontro frontale.
Ed eccolo lì il nostro Renzi, fin dal primo momento lesto a nascondersi dietro lo scudo tedesco, pronto ad accusare Tsipras di voler tornare alla dracma, non solo una bugia ma una meschineria che spiega molte cose sulla stoffa del personaggio. Naturalmente in ottima compagnia di cuori coraggiosi come Hollande, Gabriel, Schulz…
C’è di più, è in gioco qualcosa di più profondo. Oltre alla testa, alla razionalità, c’è in ballo il cuore acceso dalla sfida democratica, c’è la lezione di un grande popolo capace di sopportare e tenere a bada la fortissima tensione del momento. Tutti gli italiani, giovani e vecchi, che danno lezioni sulle regole da rispettare sarebbero stati capaci di mettersi in fila così dignitosamente davanti ai bancomat vuoti?
E, infine, nello scontro frontale gioca una partita molto rischiosa anche lo stesso Tsipras. Aveva già vinto le elezioni con un programma molto chiaro, no all’austerità, sì, moderato, all’Europa. Oggi il giovane leader tenta il tutto per tutto, il numero secco alla roulette, dove punti quello che hai. Se perdi è un disastro, se vinci sei più forte ma non hai risolto i tuoi problemi. Che sono comuni a molti altri paesi. Italia compresa, come già dice l’Istat a proposito del rallentamento di una ripresa già debolissima.
Da questo punto di vista il voto di Atene ha un significato storico, unico. Nella mitologia greca ci sono numerosi esempi di uomini abbandonati dagli dei. Tsipras deve sperare che gli dei dell’Olimpo - e il popolo greco - oggi siano con lui.
LA CREDITOCRAZIA NON FERMA LA LOTTA DI CLASSE
Il che si è soggettivamente tradotto nella separazione e opposizione tra stati creditori e stati debitori, i due termini di un rapporto di forza tra gli stati che è tutto a vantaggio di quelli creditori. Creditori che, per essere detentori della titolarità e dell’esercizio del potere di erogazione, acquisiscono anche quello di imporre le condizioni per ottenerne l’assegnazione ed anche quello di vincolarne la destinazione. L’accumulazione aggregata di tali poteri ha prodotto la forma attuale del capitale finanziario, la «creditocrazia» e la ha munita di propri organi istituzionali convertendo quelli esistenti o inventandone nuovi.
Ma in quale ambito? Se fosse quello del mondo globalizzato ci sarebbe certamente da combatterla perché tale ma con mezzi adeguati a quella dimensione spaziale. Come affrontare invece la «creditocrazia» costituitasi all’interno di una entità ordinamentale, giuridicamente indefinibile, ma massicciamente conglomerante come l’Unione europea? Unione che, nel suo Trattato costitutivo, si impegna a «promuovere la coesione economica, sociale e territoriale e la solidarietà tra gli stati membri».
Il cui vertice però, troika o non troika che sia, ha deciso di usare l’euro-potere non ai fini della coesione che la impegna e della solidarietà che strombazza, non per assicurare la qualità della vita o anche la sola sopravvivenza, almeno questa, degli esseri umani che compongono gli stati-comunità dell’Europa. Ai quali gli stati-governi hanno sottratto la sovranità appropriandosene per esercitarla congiuntamente agli altri stati-governi in funzione esclusiva e assoluta della prosecuzione di un’austerity inefficace e distruttiva come sostengono economisti con l’autorità scientifica di Krugman, Stiglitz, Piketty.
Come dimostrano gli effetti catastrofici prodotti - e ai governanti tedeschi ben noti - nei Laender dell’ex Ddr, a venticinque anni dalla caduta del muro. Perché l’austerity, allora? La risposta è obbligata, le cifre sono note. Non può esserci altra spiegazione che quella politica. Chi danneggia l’austerity, chi avvantaggia? Il caso Grecia è esemplare. Obbedendo al programma che le dettò la troika 5 anni fa, la Grecia ha ridotto di un quarto, 106 miliardi, la spesa pubblica e del venti per cento i salari. La vastità del disastro determinato da queste misure non ha precedenti.
E indigna, ed è doveroso indignarsi, leggendo che l’enormità del debito greco è dovuta al salvataggio delle banche tedesche e francesi. Operazione, questa dell’attribuzione di un debito, comunque operata, a soggetti doversi dai beneficiari, oltre che palesemente criminosa, dimostra a quale livello di ignobiltà si giunge invocando l’etica (protestante?) delle relazioni umane, l’intangibilità delle regole e della loro efficacia, e quale concezione si abbia per la «coesione economica, sociale … e per la solidarietà tra stati». È la Grecia che mette in crisi l’Unione europea o chi ne rinnega operativamente i fondamenti morali ed ideali?
Chi danneggia l’austerity, chi avvantaggia? Lo hanno confessato i creditori nel corso della trattativa. Chiedendo altri tagli alle pensioni, un’ulteriore riduzione dei salari, l’aumento dell’Iva, privatizzazioni più estese. Rifiutando però, e nettamente, aumenti dell’imposizione fiscale sui ceti più ricchi, e anche una tassa una tantum sugli utili di impresa superiori a 500.000 euro l’anno.
C’è ancora qualche dubbio sul significato, l’obiettivo, l’effetto dell’austerity e, con esso, sulla funzione che si è assunta la Ue, sullo specifico ruolo che la fase attuale del capitalismo neoliberista affida alla «creditocrazia»? Un capitalista affermò, qualche anno fa, che la lotta di classe c’era stata, ma la avevano vinto loro, i capitalisti. È vero, la avevano vinta. Ma continua. È indissolubilmente connessa alla democrazia che è chiamata a vincere, oggi, lì dove nacque e da dove insegnò cosa sia la civiltà politica.
VAROUFAKIS: «CHIUDERE LE BANCHE È TERRORISMO, DOPO IL REFERENDUM L'ACCORDO CI SARÀ»
Oggi il referendum. Lunedì 6 luglio, il consiglio dei governatori avrà potere di vita o di morte sulle finanze greche. Varoufakis accusa: creditori come "terroristi", "ci hanno forzato a chiudere le banche per far paura alla gente". L'appello alla ragionevolezza di Jacques Delors, mentre la Ue punta a un governo guidato dal presidente della Banca centrale greca, Yannis Stournaras
Oggi i greci votano e alla vigilia nessuno si sbilancia in previsioni. Ma già da domani, secondo le autorità di Bruxelles, il destino della Grecia sarà nelle mani della Bce. Domani, infatti, si riunisce il consiglio dei governatori della Banca centrale che avrà, nell’immediato, un grande potere: dovrà esaminare l’Ela (liquidità di emergenza, ndr), l’unico rubinetto ancora aperto.
Se vince il «sì», Francoforte potrebbe alzare l’Ela, se vince il «no» potrebbe decidere di soffocare il paese rifiutando di intervenire, con la conseguenza che le banche resteranno chiuse e, in una prospettiva non tanto lontana, spingere Atene all’uscita nella confusione più totale. Basti ricordare che il caos di questi giorni ha origine nella decisione della Bce del 29 giugno scorso, che ha obbligato alla stretta sull’accesso ai conti e al controllo dei capitali (le imprese greche non hanno più accesso al trasferimento elettronico di fondi all’interno della zona euro). Negli ultimi giorni, due membri del consiglio dei governatori, Benoît Coeuré e Victor Constancio, hanno per la prima volta espressamente fatto riferimento a un possibile Grexit.
In risposta agli ultimi attacchi, tra cui l’affondo dell’Spd Martin Schulz (Europarlamento) che ingiunge di «mettere fine all’era Syriza», Yanis Varoufakis ha reagito con rabbia: «Perché ci hanno forzato a chiudere le banche? – si chiede il ministro delle Finanze greco in un’intervista allo spagnolo El Mundo - per far paura alla gente. E quando si tratta di diffondere la paura, questo fenomeno si chiama terrorismo». Varoufakis continua a credere che «qualunque sia il risultato del referendum, martedì ci sarà un accordo», perché «l’Europa ha bisogno di un accordo e la Grecia anche. Se la Grecia crolla, mille miliardi di euro andranno in fumo» (è l’equivalente del pil spagnolo, ndr), avverte il ministro, «sono troppi soldi e non penso che l’Europa possa permetterselo».
Bruxelles tuttavia non fa mistero di puntare ad avere un governo di unità nazionale, con alla testa il presidente della Banca centrale greca, Yannis Stournaras. Per il momento, un Eurogruppo dovrebbe venire convocato martedì.
Nessuno ascolta più in queste ore le voci della ragione. Da Joseph Stiglitz, che ha parlato di «responsabilità criminale» dei creditori, fino all’ex presidente della Commissione, Jacques Delors, che firma un testo assieme a Pascal Lamy (ex Wto) e Antonio Vitorin (ex commissario) invitando le parti a «superare i giochi tattici» del momento, la Ue a tener conto della «prospettiva geo-politica» (Balcani, crisi dei migranti etc.) e non solo delle questioni tecnico-finanziarie, per proporre ad Atene una «ricostruzione» in tre tappe: aiuto immediato «ragionevole» per restaurare la solvibilità a breve; mobilitazione degli strumenti Ue per rianimare l’economia greca; infine, esaminare il «peso del debito», non solo in Grecia.
LA NARRAZIONE SULLA GRECIA DEI MEDIA ITALIANI È QUELLA DELLA TROIKA
«Informazione. Il giornalismo italiano mainstream, in grande maggioranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per raccontare un paese - la Grecia - che a detta di tanti che sono in loco, non esiste».
La crisi greca non solo ha mostrato il vero volto della troika, basti pensare ai documenti segreti pubblicati dal Guardian, alle intercettazioni di Merkel, o all’ostruzione dei paesi europei alla diffusione del documento del Fmi, che sostanzialmente dava ragione ai greci, ma ha permesso di comprendere come la narrazione dei fatti esteri dei media mainstream, sia giunto ad un suo punto di non ritorno.
La crisi greca non solo ha posto in discussione, evidentemente, l’Europa e l’eurozona, seppure in modo per ora imperscrutabile, ma ha messo in mostra una sorta di modus operandi dell’informazione italiana, che ha finito per agganciarsi completamente alla narrazione della troika, per salvare se stessa. Non ha tanto favorito le “istituzioni”, ne ha assunto in pieno le linee strategiche comunicative.
Il giornalismo italiano mainstream, in grande maggioranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per raccontare un paese - la Grecia - che a detta di tanti che sono in loco, non esiste. Dal “dramma del pensionato” con cui Repubblica ha tenuto la sua home page per tutta la giornata di venerdì, fino al confronto tra le due piazze di venerdì sera, come se fossero la stessa cosa. Come se da una parte non fossero di più, e per lo più giovani e dall’altra non fossero meno e non fossero per lo più i vituperati “pelandroni pensionati” greci. Un corto circuito – voluto — vero e proprio che ha portato la stessa Syriza a cercare di comunicare più sui social network, che sui media (come racconta Le Monde).
Non si può, oggi, fare un giornale come se non esistesse internet. Lo dovrebbe sapere l’esperto Federico Fubini (vice direttore del Corriere della Sera), i cui racconti “in presa diretta” sono stati smentiti, punto per punto, luogo per luogo da Matteo Nucci su minimaetmoralia Nucci è andato in ogni posto nel quale Fubini lamentava una situazione simile al disastro, dimostrando cosa stesse realmente accadendo in quei luoghi.
Senza parlare dei “nostri” giornalisti sui social network. Tralasciando i neo adepti renziani come Claudio Cerasa, direttore de Il Foglio, che ha twittato come se il –26% del Pil grazie ai trattamenti troika, fosse un’invenzione di Syriza, i social network si sono riempiti di novelli esperti economici, colmi di certezze.
Alcuni si sono distinti in modo particolare. È il caso di Vittorio Zucconi di Repubblica, in prima linea contro Tsipras, ispirato nel citare il Guardian su articoli circa il calo di turismo, ma decisamente meno pronto a lanciare gli scoop sui documenti segreti della troika.
Gli esempi sono moltissimi ed evidenziano - non solo in Italia - come nel momento del bisogno e di un grande rischio, la grancassa mediatica mainstream abbia saputo subito piazzarsi dalla parte del più forte, facendo finta di niente riguardo le “notizie” (la lettera del Congresso, il documento del Fmi, le pressioni dei paesi europei, i documenti di Nuova Democrazia in Grecia per indirizzare la comunicazione dei media in Grecia, i fallimenti della troika) e ingaggiando la lotta contro la contraddizione di un partito che non accetta le regole imposte dai “potenti”.
La narrazione a senso unico, fino ad arrivare a mistificare la realtà, purtroppo, non è una novità (l’abbiamo vista all’opera anche in Ucraina, per fare un esempio, dove i neonazisti sono diventati “europeisti”). Basta chiedere a un qualsiasi freelance, in giro per il mondo, quali siano spesso i suoi pensieri dopo la lettura di molti, tanti, pezzi di “corrispondenti” ben più noti e titolati. Non importa ciò che è vero, quanto ciò che è verosimile. Il mito del giornalismo indipendente viene dunque smascherato proprio da chi se ne fa paladino, attraverso una vera e propria narrazione di una realtà che si cerca di piegare alla propria “visione del mondo” dettata da interessi accomunabili, nel proprio “settore”, a quelli che non vuole perdere la troika in Europa.
Si accusa chi fa un giornalismo politico, evidenziando quindi le contraddizioni ma ponendosi apertamente da un lato della barricata, di essere di parte, fingendo di essere neutrali. Come se la scelta delle fonti, di chi si intervista, della prospettiva con cui si sceglie di parlare di un argomento, fossero neutrali, asettici e non presupponessero, invece, una chiara scelta.
E infine ci sono quelli imbarazzanti. Ieri l’Unità titolava “Grecia tasche vuote, arsenali pieni”, facendo finta di niente su chi in precedenza ha comprato le armi e sul fatto che quelle, insieme al ministro di destra del governo greco, dovrebbe rassicurare proprio gli amici di Renzi, ovvero la Nato. Senza considerare poi il silenzio del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, su guerre umanitarie e recenti acquisti in tema di F35.
LaRepubblica, 5 luglio 2015
In queste ore, discutere della Grecia è deprimente. Quindi se per voi va bene parleremo d’altro. Parleremo, per cominciare, della Finlandia - che di quel Paese corrotto e irresponsabile non potrebbe essere più diversa. La Finlandia è un modello: vanta un governo onesto, un’economia solida e un rating del credito affidabile che le permette di prendere in prestito denaro a tassi d’interesse incredibilmente vantaggiosi. Tuttavia, sta anche attraversando l’ottavo anno di una recessione che ha decurtato del dieci percento il suo prodotto interno lordo reale e che ancora non accenna a finire. Tanto che se l’Europa meridionale non stesse vivendo un incubo, i guai dell’economia finlandese sarebbero considerati un disastro di dimensioni epiche.
La Finlandia tuttavia non è sola: rientra infatti in una regione dell’Europa del nord che vive una fase di declino economico, e che si estende dalla Danimarca (la quale, pur non appartenendo all’eurozona gestisce il proprio denaro come se ne facesse parte) ai Paesi Bassi. Questi paesi se la passano ben peggio della Francia: una nazione la cui economia viene descritta in termini catastrofici dai giornalisti, che odiano la solidità degli ammortizzatori sociali, ma che di fatto ha resistito meglio di quasi ogni altro Paese europeo, ad eccezione della Germania.
Che dire poi dell’Europa meridionale, Grecia a parte? I funzionari europei esaltano la ripresa della Spagna, che ha fatto tutto quanto andava fatto e la cui economia ha finalmente ricominciato a crescere, creando addirittura nuovi posti di lavoro. Il concetto europeo di “successo” prevede però anche un tasso di disoccupazione che continua ad aggirarsi attorno al 23%. Anche il Portogallo ha diligentemente implementato un’austerità rigorosa, ma risulta del 6% più povero.
Come si spiegano tutti questi disastri economici in Europa? Ciò che stupisce, in realtà, è che in ogni paese la crisi sia stata innestata da cause diverse. Il governo greco ha contratto troppi debiti, ma quello spagnolo no: a segnare il suo destino sono stati piuttosto i prestiti ai privati e la bolla immobiliare. Nel caso della Finlandia sono stati determinanti il contrarsi della domanda per i prodotti del settore forestale, che sono ancora tra i suoi principali beni da esportazione, e le difficoltà del manifatturiero, in particolare della Nokia, che un tempo ne era la punta di diamante.
Ciò che queste economie hanno in comune tra loro è invece il fatto che aderendo all’eurozona si sono infilate in una camicia di forza economica. Alla fine degli anni Ottanta la Finlandia stava attraversando una crisi gravissima, che inizialmente era di gran lunga peggiore di quella che sta attraversando oggi. Tuttavia riuscì a mettere in atto una ripresa piuttosto rapida, grazie soprattutto alla forte svalutazione della propria valuta - che la rese più competitiva sul piano delle esportazioni. Purtroppo però questa volta non ha alcuna valuta da svalutare. E lo stesso vale per le altre zone problematiche dell’Europa.
Ciò significa forse che l’euro è stato un errore? Beh, sì. Questo però non equivale a dire che adesso occorrerebbe eliminarlo. La cosa urgente da fare è allentare la camicia di forza: un gesto che richiederebbe interventi su diversi fronti: da un sistema di garanzie bancarie unificato alla disponibilità a concedere una riduzione del debito ai Paesi per i quali è proprio il debito il problema. Richiederebbe, inoltre, la creazione di un ambiente complessivamente più favorevole a quei Paesi che si sforzano di far fronte alla cattiva sorte senza però sposare un’eccessiva austerità e facendo tutto il possibile per innalzare il tasso di inflazione europeo (attualmente inferiore all’1%) per riportarlo almeno all’obiettivo ufficiale del 2%.
Molti funzionari e politici europei si oppongono però a qualsiasi decisione che potrebbe far funzionare l’euro. E questo è il motivo per cui la posta in gioco nel referendum di domenica è persino più alta di quanto molti osservatori immaginino. Una vittoria del “sì” - ovvero un voto a favore delle richieste dei creditori, che boccia la posizione del governo greco e ne determina probabilmente la caduta - rischia di avvalorare e incoraggiare gli architetti del fallimento europeo. Un simile esito darà modo ai creditori di dimostrare la propria forza e la loro capacità di umiliare chiunque si opponga alle richieste di un’austerity senza fine. E di continuare ad affermare che imporre la disoccupazione di massa è l’unica via responsabile da percorrere.
E se la Grecia votasse no? In quel caso ci troveremmo su un terreno spaventoso e sconosciuto. La Grecia potrebbe abbandonare l’euro, con conseguenze immensamente destabilizzanti nel breve periodo. Tuttavia il “no”, oltre a minare l’autocompiacimento delle élite europee, fornirebbe alla Grecia anche l’opportunità di un’autentica ripresa. In altre parole, temere le conseguenze di un “no” è ragionevole, perché non si può prevedere cosa accadrebbe dopo. Ma le conseguenze della vittoria del “sì” dovrebbero spaventarci ancora di più.
Traduzione di Marzia Porta
NOBEL Paul Krugman editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia nel 2008
«La democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte».
R.it online, 4 luglio 2015
Ci volle la paura napoleonica per svegliare i liberali dal mito o dal terrore della virtù degli antichi e farli desiderosi di studiarli gli antichi invece di imitarli o mitizzarli. A Benjamin Constant, che dopo tutto continuava a rovescio la linea mitica settecentesca quando suggeriva ai suoi lettori di abbandonare gli antichi poiché avevano poco da dire ai moderni, John Stuart Mill, il più brillante del gruppo di Bentham, contrappose una strategia più convincente: quella della ricostruzione delle istituzioni e delle procedure inventate dall'Atene democratica, da Solone e Clistene fino a Pericle e Efialte. E il suo amico George Grote, sulla cui Storia della Grecia Momigliano scrisse nel 1952 pagine esemplari, si diede a ricostruire la storia politica, religiosa, filosofica e infine istituzionale dell'Atene classica, emancipando la democrazia dall'identificazione con il governo rozzo delle masse. Ne venne fuori un quadro straordinario di immaginazione costituzionale, di raffinatezza della conoscenza dei comportamenti umani collettivi, di cui già David Hume aveva colto l'originalità. Furono gli ateniesi dunque a mettere la democrazia sui binari delle procedure di decisione e dei controlli costituzionali, non gli spartani con le loro piazze di plebisciti urlati. Furono gli ateniesi a valorizzare il voto singolo e a prestare attenzione al suo conteggio, ad abbandonare la valutazione imprecisa del grido della massa, a scegliere la strada sicura e soprattutto libera da contestazioni dell'aritmetica.
I padri della democrazia moderna, liberale e costituzionale, furono dunque riattratti dalla Grecia antica, ma non per farne un mito irripetibile e pre-moderno, bensì per farne a tutti gli affetti il primo e fondamentale capitolo della storia dei moderni, che cominciava, ha spiegato Josiah Ober con la pratica democratica come "potere di fare succedere le cose insieme", non potere bruto, ma potere regolato da procedure e norme, dalla selezione per mezzo della lotteria all'elezione dei leader, alla diretta decisione popolare in assemblea. Una democrazia che escogitò sistemi di controllo delle proposte di legge (e dei proponenti) e delle leggi approvate; che, come Aristotele scrisse, sapeva assegnare ai pochi un ruolo nel governo dei molti.
A questa democrazia costituzionale, Mill e i liberali inglesi dell'ottocento si rivolsero per comprendere in che cosa la democrazia moderna era diversa da quella antica. E videro che tre furono le ragioni di superiorità dei moderni: l'invenzione della rappresentanza, l'emancipazione femminile e la liberazione del lavoro schiavo. Tre condizioni che rendevano la democrazia moderna capace di superare quella antica realizzando meglio il suo principio dell'eguaglianza politica. Quel modello, quella forma di governo per la quale, disse Pericle nell'orazione funebre, tutto il mondo ci ammira, ha ancora tanta forza simbolica da farci partecipare empaticamente ai destini di questo popolo che vuole riprendere Europa per impedire che nuovi despoti la conquistino. La priorità della politica su tutte le sfere sociali sta in questo mito che è squisitamente europeo perché e in quanto mito greco di una vita pubblica politica. Nelle parole di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte.
Professor Sennett, che cosa sarebbe l’Europa senza la Grecia?
«L’eventuale uscita della Grecia dall’eurozona non implicherebbe soltanto delle gravi ripercussioni sul piano economico. Avrebbe anche e soprattutto un immenso significato simbolico. Al netto della complessità e delle differenze, l’Unione europea ha senso soltanto come progetto politico ben radicato in una cultura condivisa. E la radice di questa cultura non può che essere la Grecia e l’idea di democrazia. Se l’Europa lo dimentica, è fatale che finisca in mano a banchieri e burocrati».
Se siamo arrivati a questo punto, però, una parte di responsabilità grava anche sui governi greci…
«È vero, ma secondo me oggi il vero problema non è tanto il debito, che in termini assoluti sarebbe stato facilmente gestibile dalla Ue. Il vero problema, quello che ci ha condotto fin qui, sono la Troika e la cultura neoliberista che porta avanti. Il capitalismo finanziario mette in ginocchio non più soltanto il lavoro, ma anche la politica. Al punto che gli Stati rischiano di fallire come un’azienda qualsiasi. Per scongiurare quest’esito, dal 2010 la Grecia sta attuando le ricette imposte dal Fondo Monetario e il risultato è chiaro a tutti: un’economia ancora più depressa».
Non ritiene che il premier greco, convocando il referendum, sia venuto meno alle proprie responsabilità?
«No. Credo invece che il referendum rappresenti sempre, e tanto più in questo caso, una positiva occasione di esercizio della sovranità popolare. Non mi faccio illusioni sulle conseguenze del voto. So bene che se vincesse il “no” e la Grecia uscisse dall’eurozona, i cittadini greci incorrerebbero in una fase di sofferenza terribile, simile a quella subita dall’Argentina qualche anno fa. Sarebbe un disastro economico per tutte le fasce sociali, specie per quelle più deboli. Eppure, se io fossi un elettore greco, voterei sicuramente per il “no”. Non è più tollerabile essere comandati da un potere illegittimo. Meglio poveri che sudditi».
Pensa che le conseguenze politiche ed economiche del voto si faranno sentire anche nel resto d’Europa?
«Credo che tutte le economie più fragili dell’eurozona, Portogallo in testa, saranno esposte al rischio di un contagio finanziario. Ma ciò che più mi preoccupa sono i contraccolpi politici di quanto sta accadendo. In Gran Bretagna, ad esempio, un eventuale default greco offrirebbe l’ennesimo argomento a chi sostiene che il progetto dell’Unione Europea è insostenibile. La sfiducia cresce. E allora dopo Grexit, è probabile che esploda il pericolo Brexit».
Il manifesto, 4 luglio 2015 (m.p.r.)
Qualunque sarà l’esito della vicenda greca se ne possono già trarre numerosi insegnamenti. Per l’oggi e per il tempo a venire. Nonostante una martellante campagna mediatica che mira ad annoverare il governo di Atene tra i populismi antieuropei, affiancandolo alla Polonia o a Marine Le Pen (qualcuno ha voluto perfino scomodare l’impero d’Oriente e la fede ortodossa), quella greca è probabilmente la prima lotta democratica europea e per l’Europa alla quale abbiamo assistito.
La prima volta in cui la tenuta dell’Unione viene affrontata nella sua dimensione politica, economica e sociale. E l’occasione nella quale è venuto pienamente in luce il rifiuto delle istituzioni e dei governi europei di fare i conti con questa “totalità”, nonostante gli enormi rischi che incombono sul processo di unificazione.
Il lungo processo negoziale tra Atene e le “istituzioni” non è stato che un esasperante gioco di finzioni poiché i dogmi, com’è noto, non sono negoziabili e l’Europa è prigioniera di una dogmatica neoliberista che, per definizione, non può essere smentita dai suoi effetti nella realtà. Per quanto disastrosi possano rivelarsi.
Soprattutto nella sua ultima fase la trattativa ha assunto i tratti inconfondibili della lotta di classe: i conti non devono tornare in un modo o nell’altro, ma solo mantenendo inalterati (e possibilmente ancor più squilibrati) i rapporti tra le classi sociali. Le correzioni del Fmi al piano proposto da Atene non mostrano il minimo sforzo di mascherare questa circostanza. Si ricorderà che in anni ormai piuttosto lontani, nella tradizione socialdemocratica, le “riforme di struttura” indicavano una trasformazione in senso sociale e maggiormente inclusivo del sistema economico e politico. Oggi significano l’esatto contrario. Ragion per cui devono essere messe al riparo da possibili interferenze dei processi democratici.
Le socialdemocrazie europee, enfatizzando i lati peggiori della loro storia, coniugando l’autoreferenzialità burocratico-amministrativa con la zelante adesione ai principi dell’accumulazione neoliberista sono diventate il principale nemico della democrazia. In un duplice senso: o occupandone direttamente lo spazio con il proprio decisionismo tecnocratico, o consegnando i ceti popolari alle destre nazionaliste. Non si richiedono particolari doti profetiche per immaginare nullità quali Hollande e Renzi mendicare ben presto il “voto utile” di fronte all’onda montante delle destre. In uno scontro imminente, dagli esiti incerti, tra una Unione insostenibile e i nemici giurati dell’Europa.
Di fronte a questo probabile scenario dovrebbe essere chiaro che Tsipras rappresenta per ora, nel suo isolamento, (almeno a livello di governi) l’unica chance disponibile in difesa dell’Unione europea. Tanto si discute dei rischi di un Grexit sul fronte della speculazione finanziaria, tanto poco se ne ragiona su quello della speculazione politica. Salvo abbandonarsi di tanto in tanto alle solite scemenze retoriche sulla “culla della civiltà occidentale”. Sta di fatto che le istituzioni europee (e i governi nazionali che impongono loro di rispettarne la gerarchia e i rapporti di forze) condividono con le destre nazionaliste un punto decisivo: non può esservi altra Europa all’infuori di questa e dei suoi equilibri di potere. Tanto che la si difenda quanto che la si avversi. Di qui la conclusione che il tentativo della Grecia è contro il principio di realtà.
Tuttavia, poiché nell’opinione pubblica del vecchio continente, e in non poche iniziative di lotta, i dogmi della governance neoliberista europea cominciano a perdere credito, sulla vicenda greca (e non solo) piovono le più incredibili menzogne. I greci che vanno tutti in pensione a 50 anni (misura circoscritta che riguarda soggetti analoghi ai nostri esodati in un paese dove il 26 per cento di disoccupazione rende le pensioni un sostanziale strumento di sopravvivenza) fanno il paio con i “clandestini” negli alberghi a 5 stelle. Ai cittadini europei, presi ormai per scemi dalla mattina alla sera, si lascia intendere che recuperare l’irrecuperabile debito greco, riporterà quei soldi (sia pure indirettamente) nelle loro tasche e non in quelle della grande rendita finanziaria. Bisogna essere ottenebrati dalla birra e dalla televisione per considerarsi “azionisti” del proprio (avarissimo) stato nazionale, secondo la mitologia attribuita al contribuente tedesco. Quanto agli altri paesi indebitati (con tassi di disoccupazione che non si muovono di una virgola) è una gran corsa a taroccare improbabili risultati per dimostrare quanto siano distanti dalla Grecia, se non addirittura in una botte di ferro.
Questo terrorismo ci sospinge a pensare che a vincere (si fa per dire) la partita sarà chi è in grado di incutere maggiore paura. Del resto non è una novità. Le classi subalterne non hanno mai ottenuto nulla se non quando sono state in condizione di terrorizzare la classe dominante. Tutta la storia del Novecento ne è testimone. Da molto tempo non accade. Governi e governati, lavoratori e precari sotto ricatto non rappresentano più una minaccia per le oligarchie. Ma, per la prima volta, la vittoria di Syriza, il braccio di ferro con le “istituzioni”, infine il Referendum, fanno paura. Talmente tanta paura che anche i falchi si affrettano a sostenere che una vittoria del no non significherà necessariamente la fine del negoziato, anche se lo renderebbe sempre più difficoltoso. Certo, la paura crescerebbe, trasformandosi in una forza vincente, se in tutta Europa si cogliesse l’occasione per mobilitarsi contro l’ideologia e la pratica del neoliberismo che oggi la governa negando ogni alternativa. Non è insomma questo un nuovo accenno di “grande politica”? Quella che investe gli interessi dominanti caparbiamente incapaci di ogni compromesso? Se, tra tante, vi è una ragione sintetica per dire no ai diktat è che questo “no” incute finalmente timore a quanti desiderano e concepiscono la “stabilità” come tacita sottomissione alle oligarchie e alla rendita finanziaria. Un no per l’Europa.
a Repubblica, 4 luglio 2015
Diceva Machiavelli che “assaltare una città disunita, per occuparla mediante la sua disunione, è partito contrario”, cioè può produrre il risultato opposto: quello di unire e rendere compatto il popolo diviso. Forse il referendum greco potrebbe dimostrare la verità di questa osservazione. Vedremo, tra pochi giorni e ore. Ma la domanda avrebbero potuto e forse dovuto porsela gli statisti tedeschi e i loro ossequenti alleati europei e magari velare meglio l’aggressione nei confronti del regime greco. Mai come in questo caso la regola della non ingerenza negli affari interni degli stati membri è stata così trasgredita. Tutti i capi di governo si sono schierati in maniera massiccia per il sì e contro Tsipras fin dal primo giorno. I media si sono uniformati. Assistiamo a episodi perfino grotteschi, come quello dell’inviato Rai che intervista cinque greci e vedi caso, scopre che tutt’e cinque sono decisi a votare sì. La disinformazione si unisce alle tante falsificazioni dei fatti: ad esempio, non è vero che la scelta sarà fra la dracma e l’euro, come ha sveltamente sintetizzato il premier Renzi.
«Atene. Oceanica manifestazione a sostegno dell’oxi: «Respingiamo il ricatto». Il premier greco parla da vincitore "L’Europa che vogliamo non è quella degli ultimatum", ma un continente che "torni ai suoi principi fondativi". Sul palco Podemos e la Linke».
Il manifesto, 4 luglio 2015
Basta un colpo d’occhio dall’alto del palco di piazza Syntagma, al calar del sole, a squarciare all’improvviso la nebbia che da giorni avvolgeva la vigilia del referendum greco: una cortina fumogena fatta di ingerenze indebite dei leader europei, ridicolizzazione delle richieste greche all’Eurogruppo e dello stesso voto di domenica, presentato come una scelta tra euro e dracma o tra europeisti e antieuropeisti, titoli di giornale allarmistici e battage televisivo a favore del sì.
La marea umana che si estende a perdita d’occhio nell’enorme piazza e nelle arterie circostanti, senza soluzione di continuità fino a piazza Omonia, dice una cosa sola: il governo di Alexis Tsipras non è solo e il popolo che gli aveva dato fiducia appena cinque mesi fa è sempre con lui. Anzi, è pronto a fargli quadrato attorno. Non sarà facile sbarazzarsene, comunque vada a finire domenica (e a questo punto sorge più di un dubbio su sondaggi e previsioni della vigilia, l’ultimo diffuso ieri da un giornale di centrodestra, To Ethnos, che dava il sì leggermente in vantaggio).
Quando sale sul palco in camicia bianca con i polsini arrotolati quasi fino al gomito, alle 21,50, Alexis Tsipras è consapevole del fatto che la prova di forza con il fronte del sì, radunato nel vicino Stadio del marmo, era ampiamente vinta. Così, ha potuto trascinare la folla utilizzando la stessa parola-simbolo della campagna elettorale dello scorso gennaio: «elpida», «speranza», la stessa parola che gli aveva consentito di sconfiggere pochi mesi fa «la politica della paura» utilizzata dagli avversari per provare a non farlo vincere e ora riproposta in maniera ancora più brutale. Quello del premier greco è un discorso da vincitore: «Popolo greco, oggi non protestiamo, festeggiamo la vittoria delle democrazia e mandiamo un messaggio di orgoglio che nessuno può invocare», comincia. Poi, come nel pomeriggio in televisione, incita i greci a «prendere il destino nelle proprie mani», perché «l’Europa che vogliamo non è quella degli ultimatum» ma un continente che «torni ai suoi principi fondativi». Per questo «domenica manderemo un messaggio di eguaglianza e dignità», affonda il colpo.
In dieci minuti appena di discorso in maniche di camicia, Tsipras non lesina qualche stoccata a Jean Claude Juncker, Angela Merkel e il suo ministro del Tesoro Wolfgang Schauble, rappresentato col volto truce nelle strade di Atene sui manifesti che incitano a votare no: «Nessuno ha il diritto di dire che toglierà la Grecia dal suo spazio naturale», manda a dire ai falchi dell’austerità. Per questo invita «il popolo greco», che «ha dimostrato molte volte di saper rispedire al mittente gli ultimatum», «a dire un grande e orgoglioso no» anche a quest’ultimo, il più indecente.
Infine, prima di recitare alcuni versi di una poesia di Yannis Ritzos sul «piccolo popolo senza spada né pallottole che combatte per il pane di tutti», ben conscio della delicatezza del momento, spende qualche parola per smorzare la tensione: «Lunedì, qualsiasi sarà il risultato, dobbiamo dire no alla divisione tra i greci». Unità, come aveva fatto appello in chiusura di campagna elettorale alla fine di gennaio.
Già nel pomeriggio, di fronte all’intensificarsi del bombardamento mediatico e della propaganda a favore del sì, Tsipras aveva deciso di lanciare un breve messaggio alla televisione: «Dite no a ricatti e ultimatum, decidete con calma il vostro futuro», aveva detto alla popolazione greca con l’obiettivo di tranquillizzarla. Durante la giornata era stata un’escalation di allarmi e pressioni: vecchi arnesi della politica greca, responsabili dell’indebitamento del paese come l’ex premier Kostas Karamanlis, rimasto in silenzio durante tutti gli anni della crisi e dei Memorandum, che lanciavano appelli per il sì, un giornale vicino alla destra che titolava su un presunto prelievo dai risparmi superiori ai 20 mila euro, i banchieri che sostenevano di avere liquidità fino a lunedì, perfino una compagnia telefonica che si è messa a regalare minuti a chi inviava un messaggio con scritto «sì». Mentre la Corte Costituzionale aveva dichiarato valido il quesito e smontato pure l’ultimo tentativo di impedirlo.
Non è escluso che la ricomparsa nell’agone politico di personaggi screditati e le fastidiose ingerenze dei leader europei nella campagna referendaria, unite alla sensazione che l’Europa voglia asfissiare la Grecia per arrivare a un «regime change», abbiano giocato un ruolo negativo per i sostenitori del sì, facendo loro perdere consensi piuttosto che guadagnarli.
In ogni modo, il premier si è deciso a non limitarsi al previsto comizio serale in piazza Syntagma e ha parlato a tutti i greci, precisando che «il referendum non è sulla permanenza della Grecia nell’euro» e facendosi forza del fatto che anche il Fmi ha ammesso l’insostenibilità del debito ellenico, con la previsione un taglio del 30 per cento e la dilazione del rimanente 70 per cento in vent’anni: «Ha giustificato la nostra scelta di non accettare un accordo che ignora il tema fondamentale del debito». Anche se stranamente, ha fatto notare Tsipras, questo rapporto «non è mai stato condiviso con le istituzioni nei cinque mesi in cui abbiamo negoziato».
La bocciatura del piano dei creditori rischia a questo punto di mettere in pesante discussione proprio la leader europea che voleva toglierlo di mezzo, e con lui le rinascenti velleità delle sinistre europee, non a caso presenti in gran spolvero sul palco di piazza Syntagma: un rappresentante della Linke strappa applausi quando dice «voi fate la vostra battaglia qui e noi faremo la nostra in Germania», ovazione per Miguel Urban di Podemos che il prossimo autunno potrebbe conquistare la Spagna dopo aver già preso Madrid e Barcellona. Spazio pure a un messaggio di Gerry Adams per lo Sinn Fein, ai ciprioti dell’Akel, ai Verdi e a una esponente del centro sociale Diktio di Exarchia che trascina la folla recitando tutti i «no» dei movimenti sociali. «La vittoria del no significherà avere più forza sul tavolo dei negoziati» e non una fuga dall’Europa, ha detto Tipras. Da lunedì potrebbe avere ragione.
La presidente della nostra Camera dei deputati e il presidente dell'Assemblée nationale francese convergono nel giudicare insensata la politica dei terroristi di Bruxelles ai danni della Grecia e del Terzo mondo in fuga dalla miseria e dalla morte.
La Repubblica, 4 luglio 2015
Vi è in primo luogo la vicenda euro-greca, giunta ormai al suo drammatico parossismo con il referendum. Come si è potuto arrivare a questo punto? Come spiegare che non siamo riusciti a trovare un terreno d’intesa con le autorità di un’area economica che incide solo per il 2 per cento del Pil dell’Unione? Al tempo stesso, è giocoforza constatare che le politiche messe in atto negli anni scorsi dalla “troika” — Commissione europea, Banca Centrale europea, Fondo Monetario internazionale — sono fallite. Guardando ai risultati, si potrebbe anzi affermare che siano state attuate a svantaggio della Grecia: il Pil greco, che nel 2008 era solo 7 punti percentuali sotto la media Ue, nel 2013 è crollato a meno 28. Come si fa, in questo contesto, a chiamare “aiuti” degli interventi dagli effetti così devastanti sulla vita dei greci? Il medico ha sbagliato terapia, ma si accanisce sul paziente, e poco importa se il suo assistito rischia la vita! Non è solo un modo di dire: il numero di bambini abbandonati negli orfanotrofi greci è triplicato in pochi anni, un terzo della popolazione non ha copertura sanitaria e il potere di acquisto è diminuito del 40 per cento. Non è ammissibile che la consapevolezza di queste cifre non influisca sulle politiche economiche dell’Ue. E questi dati rendono altrettanto inammissibili le dichiarazioni di certi responsabili europei, che fingono di stupirsi che gran parte della popolazione greca respinga il regime che le viene imposto.
C’è poi la sfida dell’immigrazione, che ha ormai preso posto nel dibattito continentale come un tema ineludibile, che cristallizza le tensioni e lascia campo libero a ogni sorta di fantasmi. Anche in questa materia, se si analizzano oggettivamente i numeri, c’è da rimanere sconcertati. L’Unione europea viene descritta come assediata per aver ricevuto l’anno scorso, nei suoi 28 Paesi, 626mila domande d’asilo. Un continente che, nonostante la crisi, rappresenta l’economia più ricca del mondo, sarebbe messo in ginocchio — secondo campagne politiche di cui non serve svelare i secondi fini — dall’un per cento, o poco più, di quei circa 60 milioni di persone che sono costrette all’esilio da guerre e persecuzioni. Questo popolo senza terra e senza nome, il cui numero è pari a quello degli abitanti dell’Italia e di poco inferiore a quelli della Francia, l’Europa la lambisce appena, e invece si riversa in modo massiccio sui Paesi più vicini alle aree di crisi. Sono il Libano, la Giordania e la Turchia, che ospitano milioni di rifugiati siriani, a poter parlare legittimamente di emergenza. Possono farlo l’Iran e il Pakistan, che accolgono milioni di afghani. Ma come possiamo, noi qui, gridare all’invasione? Il dramma sono i migranti a conoscerlo, non certo noi. Che le migrazioni rappresentino una sfida per i nostri paesi è indiscutibile; ma abbiamo anche tutti i mezzi per affrontarla. Invece di assumerci serenamente le nostre responsabilità, rimaniamo inerti, afflitti e imbarazzati davanti alle immagini che ci arrivano da Ventimiglia: poche centinaia di persone sono diventate — incredibilmente — materia di tensione tra Italia e Francia, mentre basterebbe che ogni Stato dell’Unione accettasse di fare la sua parte.
Vedendoci lacerare, ripiegarci su noi stessi e rimanere fermi, che cosa penserebbero di noi Spinelli, Schuman e Adenauer? Come reagirebbero, scoprendo che su quegli scogli di confine si è incagliata, schiantata l’idea che loro seppero concepire in anni d’autentica tragedia, e far crescere tra le macerie del dopoguerra? Ricordiamoci che l’Europa esiste anche attraverso i principi che essa fa vivere: perché è il continente dei diritti, del rispetto della dignità umana, della solidarietà verso chi è in difficoltà. Questo ci ha resi grandi nel mondo, questo è un punto di riferimento per tutti coloro che abbiano a cuore libertà e giustizia sociale.
Dimenticare questa storia, non sentirne l’orgoglio, non è soltanto un tradimento. È anche una clamorosa dimostrazione di miopia e autolesionismo. Perché in un mondo globalizzato le questioni irrisolte — che si tratti dell’economia greca o dei conflitti dai quali fuggono i rifugiati — hanno e continueranno ad avere su di noi ripercussioni dirette, che ci piaccia o no. Sta a noi decidere se vogliamo affrontare queste sfide governandole con lucidità, lavorando sulle soluzioni, e dunque investire su un’Unione più solidale, al proprio interno e verso l’esterno, un’Unione politica, pienamente politica. Oppure se intendiamo seguitare ad agitarci senza andare avanti. Il che significa cedere di fronte ai tanti populismi che sulla crisi economica e la retorica xenofoba stanno costruendo le proprie fortune, e accettare che sulle rovine dell’ideale europeo volteggino soddisfatti i costruttori di muri. Siccome siamo degli ottimisti irriducibili, crediamo che sia possibile imboccare con decisione la prima strada. Speriamo che le due prove cui è sottoposta oggi la nostra Unione spingeranno ciascuno degli Stati membri a cogliere la misura dell’emergenza europea.
Laura Boldrini è Presidente della Camera dei Deputati Claude Bartolone è Presidente dell’Assemblea Nazionale francese
«I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato».
La Repubblica, 4 luglio 2015 (m.p.r.)
I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato. La censura ha colpito con solerzia. Via dalle scuole della laguna tutti i libri che parlano di “gender, o di genitore 1 e genitore 2” diceva frettolosamente la breve circolare inviata ai dirigenti scolastici. Strana definizione per albi illustrati destinati ai bambini dei nidi e delle materne, liberamente in vendita in tutte le librerie italiane, e dove i protagonisti sono oche, orsi, topi, principesse, elefanti, gatti, famiglie, madri e padri. Ma il risultato, grottesco, e già finito sui giornali stranieri, è che sotto la scure del presunto “gender” sono finiti ben 49 titoli delle migliori case editrici per ragazzi.
Capolavori per l’infanzia come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, scrittore e illustratore celebre e amatissimo, dove due colori tanto diversi sono così profondamente amici, da mescolarsi per creare il verde...Difficile comprendere il messaggio eversivo di questo abbraccio cromatico. Tanto che contro la “lista di proscrizione”, dove si narra anche di (pericolose) ninne nanne per far addormentare i bebè, si sono mobilitati autori, editori, cittadini, librai, bibliotecari, con letture in piazza, flash mob, e campagne via Facebook dal titolo “Liberiamo i libri”. Durissima l’Associazione Italiana Scrittori per l’Infanzia, che parla di «prassi autoritaria che ha visto luce soltanto nei periodi più bui della storia delle dittature». Sottolineando come nella caccia al libro pericoloso ordinata dal nuovo sindaco di centrodestra, siano rimasti intrappolati volumi di ogni tipo, e assi poco “gender”. Dai lupi intelligenti di Mario Ramos ai figli dell’adozione di Amaltea, e altri cult della letteratura da zero a sei anni, da Orecchie di farfalla al Pentolino di Antonino di Isabel Carrer, delicata storia di un bambino disabile.
«Mi ha chiamato da New York Annie, la nipote di Leo Lionni, per chiedermi sbalordita come mai fossero stati censurati in Italia i libri del nonno», racconta Francesca Archinto, direttrice editoriale di “BabaLibri”, che ha diversi titoli “all’indice” nella lista veneziana. «È incredibile che la politica cerchi di controllare la cultura, in quegli albi illustrati c’è la vita reale, i bambini non possono ignorare che esistono diversi tipi di famiglie, e nelle scuole c’è il bullismo, e il razzismo esiste », incalza Francesca Archinto. «Che senso ha censurare una storia come Il segreto di Lu, dove si parla di soprusi a scuola? Francamente penso che il sindaco di Venezia non conosca i libri per bambini, e soprattutto la lista di titoli che ha messo al bando». Difficile ad esempio rintracciare il fantasma del “gender” nel I papà bis. Nei libri all’Indice per il gender anche i capolavori dell’infanzia storia di una famiglia ricomposta dopo un divorzio. Come accade in Italia a 174 coppie ogni mille matrimoni.
Però è vero, in questa lista di libri si parla molto di “famiglie” al plurale, raccontando, ad esempio nel famoso Piccolo uovo edito da Stampatello e disegnato da Altan, di tutte le forme di genitorialità attuali, comprese quelle “omo” e arcobaleno. Ideatrice del progetto “Leggere senza stereotipi”, è Camilla Seibezzi, già delegata ai Diritti Civili del Comune di Venezia. «Ma quei titoli furono scelti da una équipe di pedagogisti e psicologi e consegnati alle scuole dopo un corso di formazione per gli insegnanti. Dunque con estrema cautela». Sommerso dalle critiche Brugnaro ha adesso annunciato che sui libri proibiti verrà fatta un’analisi ulteriore, e forse alcuni saranno “liberati”. Replica Camilla Seibezzi: «Se accettiamo che anche solo uno dei 49 libri di favole venga censurato la battaglia è giá persa e la democrazia è venuta meno, perché la scuola pubblica ha il dovere di rappresentare e tutelare tutti i bambini e non una sola parte».
Qualsiasi fosse la nostra scelta di domenica, lunedì nulla ci dividerà. Nessuno mette in dubbio la permanenza del paese in Europa».
Il manifesto, 4 luglio 2014 (m.p.r.)
Il momento della democrazia e della responsabilità è arrivato. È ora che le sirene dell’allarmismo e del disfattismo tacciano. Quando un popolo prende il futuro nelle proprie mani non ha niente da temere. Andiamo tutti alle urne con calma e facciamo la nostra scelta, valutando gli argomenti e non gli slogan.
Ieri è accaduto un fatto di grande importanza politica. È stato pubblicato il rapporto del Fmi per l’economia greca. Un rapporto che ha reso giustizia al governo greco, perché conferma quanto è ovvio, cioè che il debito greco non è sostenibile. Loro stessi dicono che l’unico modo per rendere sostenibile il debito e per aprire la strada alla ripresa sia quello di procedere a un taglio del debito del 30%, concedendo un periodo di grazia di 20 anni. Questa posizione, però, i creditori non l’hanno mai esposta al governo greco durante i 5 mesi della trattativa. Anche nella proposta finale delle istituzioni, quella che domenica il popolo viene chiamato ad approvare o respingere, ogni posizione simile è assente.
Il rapporto del Fmi rende giustizia alla nostra scelta di non accettare un accordo che ignora il grande problema del debito. In poche parole, il principale ispiratore del memorandum viene adesso a confermare la nostra giusta valutazione, ovvero che la proposta che ci viene data non porta a un’uscita dalla crisi. Cerchiamo allora di capire, tutti noi. Domenica non si decide sulla permanenza della Grecia in Europa.
Si decide se, sotto ricatto, dobbiamo accettare il proseguimento di una politica senza via d’ uscita, come ormai ammettono i suoi stessi ideatori.
Domenica si decide se dobbiamo dare il nostro accordo alla morte lenta dell’economia e all’impoverimento della società, se dobbiamo acconsentire a tagliare ulteriormente le pensioni, per ripagare un debito non sostenibile coi risparmi dei pensionati, o, se, con determinazione, dobbiamo rafforzare il nostro potere negoziale, per raggiungere un accordo che ponga definitivamente fine a questo catastrofico quinquennio.
Greche e greci, ora che ci divide poco tempo dall’apertura delle urne, dobbiamo tutte e tutti mostrarci responsabili, rispettando le opinioni contrarie alle nostre, e affrontare uniti il nostro comune futuro.
Qualsiasi fosse la nostra scelta di domenica, lunedì nulla ci dividerà. Nessuno mette in dubbio la permanenza del paese in Europa. Il ‘no’ ad un accordo non sostenibile non significa rottura con l’Europa. Significa proseguimento dei negoziati in condizioni migliori per il popolo greco.
Vi rivolgo dunque l’invito di opporre un no agli ultimatum, ai ricatti, alla campagna della paura. Ma vi rivolgo anche l’invito di dire di no alla divisione. No a chi cerca di spargere il panico e di impedirvi di decidere con calma e responsabilità per il vostro futuro. Vi rivolgo l’invito di decidere con determinazione a favore della democrazia e della dignità. Per una Grecia orgogliosa e fiera in un’Europa democratica e solidale.
(a cura di Tonia Tsitsovic)
«Syriza nelle piazze e nei quartieri per far leva sulla "dignità", i sostenitori del sì non si vedono ma si appoggiano ai media amici. Facendo leva sulla paura».
Il manifesto, 3 luglio 2015 (m.p.r.)
Atene. Osservato dalla piazza di Labrini, periferia nord di Atene, il referendum che spaventa l’Europa assume tutt’altra prospettiva rispetto a quella restituita dalle dichiarazioni di Angela Merkel o di Jean Claude Juncker. Si è appena concluso un dibattito pubblico tra sostenitori del no e la gente del quartiere, uno dei tanti che si susseguono ogni sera nelle piazze della capitale ellenica, e si tratta di capire, per quanto è possibile, quale sia l’orientamento dei diretti interessati: sottomettersi alle misure europee che la maggioranza dei greci ha rigettato appena cinque mesi fa votando Syriza e gli altri partiti anti-austerità oppure far saltare il banco accettando di «navigare in acque sconosciute», per dirla con il presidente francese Francois Hollande, il leader politico europeo che pare aver deluso più ancora di Angela Merkel o Jean Claude Juncker?
Tra locali e taverne affollati come al solito, frotte di bambini all’inseguimento di un pallone e altoparlanti che diffondono canzoni della resistenza greca e italiana, in un clima a metà tra una vecchia festa dell’Unità e una sagra paesana si ascolta di tutto: dal «colpo di stato europeo» per abbattere Tsipras al «volete rovinarci» indirizzato agli esponenti di Syriza, segno di una polarizzazione, soprattutto in provincia, «che non si vedeva dai tempi della guerra civile», sostiene chi ha il polso della campagna referendaria. In un angolo, a un banchetto del Kke si distribuiscono volantini che invitano a mettere sulla scheda due no: al piano dei creditori e al governo Syriza-Anel, con il risultato di annullare la scheda e, di fatto, nuocere alle ragioni del no, a differenza di Antarsya, altro partitino della sinistra radicale fuori dalla maggioranza ma schieratosi a sostegno del referendum voluto dal governo. Li rivedrò entrambi, Antarsya e il Kke, il giorno dopo, cioè ieri sera, a manifestare separati per le vie del centro cittadino, i primi per il no, i secondi a dire «né-né»: né con lo Stato né con la troika.
Divisi a metà
Una rappresentazione plastica della divisione nella società greca è arrivata dalle due manifestazioni di qualche giorno fa: piena quella del no, altrettanto e forse persino di più quella del sì. La propaganda mediatica non aiuta a capirne di più. Non è un mistero che i boss della comunicazione in Grecia abbiano mal digerito il governo della sinistra e in questi giorni si sono trasformati nel megafono del fronte del sì, altrimenti assente dalle manifestazioni pubbliche, a differenza dei loro antagonisti. Nella fretta di rispondere colpo su colpo ai discorsi di Tsipras e al quartiere per quartiere degli attivisti di Syriza, sono però scivolati sulla più classica delle bucce di banana: un sondaggio prontamente smentito dagli stessi sondaggisti ai quali era stato attribuito. Per rispondere a quello pubblicato dal quotidiano indipendente (edito da una cooperativa di giornalisti) Efimerida due giorni fa, che dava il no al 54 per cento, contro il 33 dei sì e un 13 per cento di indecisi, ieri è finito sul giornale di orientamento conservatore Kathimerini un contro-sondaggio commissionato dai banchieri di Bnp Paribas all’istituto Gpo, per il quale il 47,1 per cento dei greci voterebbe invece a favore del piano presentato dai creditori, contro il 43,2 per cento che lo rifiuterebbe (con gli indecisi stimati tra l’8 e il 17 per cento). Ma a smentire tutto è stata la stessa Gpo (che in passato aveva fornito sondaggi attendibili sull’ascesa di Syriza), che ha negato di aver partecipato alla rilevazione minacciando di portare il quotidiano in tribunale e ha ribattuto che i sondaggi devono essere fatti in maniera «responsabile», in attesa della «critica decisione del popolo greco».
I due fronti
Cercando di costruire una geografia degli schieramenti, finisco a una conferenza stampa di avvocati, convocata per contestare la decisione del Consiglio dell’ordine di dare indicazione ai propri iscritti di votare sì al referendum. Non sono i soli: ha fatto altrettanto la Confederazione generale dei lavoratori greci (Gsee), il più grande sindacato ellenico, e non è una buona notizia per Syriza anche se la federazione dei metalmeccanici, al contrario, pur non esprimendosi apertamente a favore del no, si è schierata con il governo. Ma accade che le decisioni dei vertici siano contestate dagli iscritti, come sta avvenendo tra i legali, letteralmente imbufaliti perché, spiegano, il loro Ordine non dovrebbe immischiarsi in questioni del genere, come spiega Sarantos Theodoropoulos, appena tornato da Berlino dov’è andato a incontrare i deputati della Linke e della sinistra Spd per spiegare loro dal punto di vista legale la questione dei risarcimenti dovuti dalla Germania alla Grecia a causa dell’occupazione nazista. Mai come in questo caso, sostengono diversi analisti, il voto potrebbe non rispettare le indicazioni delle organizzazioni di riferimento.
Gli scenari del dopo-voto
Come andrà a finire domenica nessuno è in grado di affermarlo con sicurezza. «Quello che ha messo in difficoltà il governo è stata la decisione di chiudere le banche per una settimana», spiegano nella redazione del settimanale indipendente Epohi, vicino alle posizioni della sinistra radicale al governo. Una decisione estrema che ha consentito di evitare la bancarotta dovuta al panico e che potrebbe incidere negativamente sull’esito del voto, anche se ottocento istituti sono rimasti aperti per pagare le pensioni e ieri il governo ha annunciato la riapertura di tutti per martedì. Tutto sommato, i greci hanno affrontato con grande calma lo stop al credito (e pure ai tribunali), grazie anche al fatto che esso non è stato totale e il governo ha garantito pure la gratuità dei trasporti. Ma tutto ciò non basta a evitare che, per l’ennesima volta in pochi anni, un voto in Grecia si giochi sulla paura, quella stessa che solo alla fine di gennaio Alexis Tsipras era riuscito a sconfiggere contrapponendole la «speranza».
Anche gli scenari del dopo-voto rimangono incerti: ieri il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis ha detto ieri di essere pronto a dimettersi se dovesse vincere il sì e lo stesso Tsipras ha già fatto sapere di non essere «un uomo per tutte le stagioni». Insomma, non ci sarà un governo Syriza che firmerà l’accordo con i creditori. Ma cosa accadrebbe se dovesse cadere il governo, come vogliono sull’asse Bruxelles-Berlino? Quale regime change sarebbe possibile? Bruciato dai fallimenti del passato l’ex premier di Nea Democrazia Antonis Samaras, ridotti ai minimi termini i socialisti del Pasok, il candidato dell’Europa pare essere l’ex giornalista televisivo Stavros Theodorakis, fondatore e leader della formazione centrista To Potami, che potrebbe finire alla testa di un governo di unità nazionale, l’unico in grado di far passare un programma ancora una volta lacrime e sangue. Ma con quali voti un siffatto esecutivo si reggerebbe se l’azionista di maggioranza Syriza non ci starebbe e men che meno le altre minoranze da sinistra a destra (anche se tre deputati dei Greci Indipendenti, al governo, ieri si sono schierati per il sì)? In che modo si riuscirebbe a mettere in piedi un governo che firmi l’accordo con i creditori entro il 20 luglio, in tempo utile per ricevere i soldi del programma e ripagarela rata di debiti con la Bce? Una sconfitta del no, paradossalmente, rischierebbe di rendere ancora più confusa la situazione e di aprire un periodo di forte instabilità politica nel paese.
La strategia della dignità
Syriza dal suo canto mira a smontare la strategia del «ci ridurranno in povertà» ricordando cosa hanno prodotto le politiche di austerità esasperate in Grecia: un tasso di disoccupazione al 27 per cento, un fortissimo aumento di depressioni e suicidi (uno studio pubblicato dal British medical journal ne ha censiti 10 mila dal 2008, la maggior parte avvenuti dopo l’approvazione del contestato Memorandum del 2011), precarizzazione del lavoro e smantellamento di diritti. Quella catastrofe sociale che ha portato in pochi anni la sinistra radicale al governo del paese (e alimentato pure l’ascesa dell’estrema destra di Alba Dorata).
Se dovesse farcela per la seconda volta in un anno, Tsipras ne uscirebbe da trionfatore nonostante i rischi di default incontrollato, i rating al ribasso di Moody’s e Standard&Poor’s e le minacce europee di abbandonare la Grecia al suo destino che rischierebbero di lasciare il tempo che trovano di fronte a un quadro radicalmente cambiato. Il leader greco sostiene, forse a ragione, che una vittoria del no gli darebbe più forza negoziale in Europa e alla paura contrappone un altro sostantivo: dignità. Il messaggio, un pizzico patriottico, è: non lasciamoci più calpestare.
«L’ex premier italiano non crede nella Grexit: “Il danno sarebbe troppo grande, si troverà un compromesso. Un’occasione per rilanciare l’Europa, ora senza forza e autonomia. Non possiamo dimostrare di essere incapaci di risolvere un piccolo problema come quello ellenico, sennò a che cosa serve la Ue?”».
La Repubblica, 2 luglio 2015 (m.p.r.)
Bruxelles. Qualunque sia l’esito del referendum, la Grecia alla fine non uscirà dall’euro. Tuttavia l’Europa, se vuole salvarsi, deve dotarsi immediatamente di una forte autorità di tipo federale, altrimenti sarà votata al fallimento. Di fronte al precipitare della crisi è questo il pensiero di Romano Prodi, uno dei “grandi vecchi” europei che guarda con preoccupazione, e non poca amarezza, ai sussulti che da Atene stanno dilangando in tutta la Ue. «Comunque vada a finire il referendum, il danno di una uscita della Grecia dall’euro sarebbe troppo grande. Si troverà un compromesso. Se tutto il mondo, da Obama ai cinesi, continua a ripeterci che bisogna trovare un accordo, vuol dire che c’è il diffuso sentimento di una catastrofe imminente che occorre evitare ad ogni costo».
Bruxelles. Alexis Tsipras rimane intrappolato nel suo stesso referendum. Fino a poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Prevedeva che i greci ritirassero la consultazione popolare e gli europei offrissero ad Atene un terzo programma di salvataggio con una serie di concessioni per renderne le condizioni meno amare. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti. Ora si guarda a lunedì, il giorno dopo il referendum. A Bruxelles, Berlino, Atene e nelle altre capitali si studiano piani e scenari. Molti leader ora puntano a far fuori una volta per tutte Tsipras, determinato invece a resistere a prescindere dal risultato del voto. La fine ha avuto inizio ieri notte, quando a Bruxelles è arrivata la seconda lettera in poche ore con le richieste di Tsipras per annullare il referendum. Per la prima volta accettava il testo Juncker – piuttosto generoso - con riforme e impegni per Atene in cambio del salvataggio. Ma a sorpresa il capo del governo greco ha aggiunto cinque punti irrinunciabili. Il viceministro Euclid Tsakalotos si prodigava a spiegare a Bruxelles il perché di tanta rigidità: «Abbiamo bisogno di queste ulteriori concessioni altrimenti l’accordo non passa in Parlamento».
La Grecia ci ha provato, ma l’ordine che regna nell’Europa reale pare essersi imposto. Il manifesto consentirà il riuso di un suo titolo famoso “Atene è sola”. Qui sta il dramma delle forze del cambiamento in Europa. Le manifestazioni di solidarietà sono necessarie ed apprezzabili, ma non cambiano il quadro.
La contesa è stata tra il governo greco, da un lato, ed il governo dell’Europa reale, dall’altro, senza che in questa fosse operato o si aprisse un conflitto forte ed esteso contro le sua politiche. Il fatto che a Tsipras e ai suoi non si possa rimproverare alcunché aggrava la questione. Il governo greco ha provato a realizzare un’impresa pressoché impossibile. La sua condotta è stata tanto efficace da averci persino indotti, in qualche passaggio cruciale, a credere (contro l’analisi di cosa sia materialmente quest’Europa) che ce l’avrebbe fatta. Questo qualcosa è così prezioso per il futuro di tutti, anche ora che il tentativo è stato sconfitto, da dover continuare a riflettere su di esso.
L’Europa reale, che pretendeva di aver espulso da sé, in nome dell’ineluttabilità delle sue scelte strategiche, la politica, come autonoma capacità di scelta, se la vede improvvisamente parare davanti con la vittoria elettorale di Syriza e la nascita di un governo che pretende di tenere fede al mandato ricevuto dagli elettori, come se questo cardine della democrazia rappresentativa non fosse ormai abrogato in tutti i paesi europei ove, con il voto, si può scegliere il governo, ma non le sue politiche, giacché queste sono predeterminate dal sistema economico in costruzione. Perché il governo greco può tentare l’impossibile? Perché si fonda su un’esperienza politica straordinaria. Syriza assume pienamente il conflitto tra il basso e l’alto della società, organizza mutualità, cooperazione sociale, promuove una partecipazione democratica nell’organizzazione del partito, stabilisce un rapporto di scambio permanete con i movimenti di lotta, e vede emergere, al suo interno, un leader e una leadership che interpretano politicamente il bisogno di una rottura radicale con tutto il passato.
Syriza si da un programma di governo alternativo alla politiche di austerità e che ha le sue fondamenta nel soddisfacimento dei bisogni prioritari della popolazione greca. Perciò può tentare l’impossibile. Ma un’iniezione di democrazia nella costituzione materiale di questa Europa è incompatibile con essa stessa quanto l’uscita dalle politiche di austerità (che sono micidiali politiche di destrutturazione e di desoggettivazione del lavoro).
L’iniziativa greca ha sospeso la Troika, ma la controparte rappresentante del governo europeo che l’ha sostituito, ha rivelato che la vittoria del funzionalismo sulla democrazia rappresentativa si è già realizzato in Europa. Todos caballeros. I governi e i governati devono appartenere alla specie del pensiero unico e tendenziale diventare parti di un governo unico, sovrannazionale ed articolato, ma nella sostanza unitario. Ai governi nazionali è richiesto di essere proconsoli del governo centrale, governo costituito saldamente dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. Lo scandalo causato dal governo greco è consistito nel far vivere, in questo ordine oligarchico, il mandato ricevuto dal suo popolo. Lo scandalo ha denudato il re ma la debolezza dei sudditi (noi europei) lo ha lasciato sul trono.
All’emersione della politica come possibilità di scelta provocata dal governo di Tsipras, quest’Europa ha risposto con la politica della conservazione del potere. Poteva perciò contare poco che la Grecia fosse una parte così piccola dell’Europa da essere ininfluente sui suoi destini economici. Così come poteva contare ancora meno che il suo debito potesse essere agevolmente ristrutturato. Quel che andava dimostrato è che nessuno può derogare alla Regola: non già quella del debito (altrimenti flessibile) bensì quella della compatibilità richiesta tra le politiche di un qualsiasi governo europeo e l’ordine economico promosso dal nuovo capitalismo, ordine adottato e garantito dal governo reale di quest’Europa. Non si era mai vista una trattativa così squilibrata nei rapporti di forza come quella tra il governo greco e quello europeo. Solo una mobilitazione dei popoli europei, o meglio un’accumulazione di forze ed esperienze, di lotte sociali nei diversi paesi europei, avrebbe potuto colmare lo squilibrio. Non c’era e non c’è stata. Al contrario qualcosa di molto pesante è avvenuto nelle forze di governo.
Non vorrei che quel che è accaduto sembrasse scontato. Non vorrei che il giudizio severamente negativo che molti di noi hanno su di essi, oscurasse il passaggio storico che è avvenuto in questa vicenda. Certo, non si può dire, per senso delle proporzioni, che la prima socialdemocrazia, muore sui crediti di guerra e l’ultima muore scegliendo di stare dalla parte dei paesi creditori. Ma che la Troika non abbia trovato un solo governo a contrastarla e neppure a differenziarsi da essa è un’enormità. La socialdemocrazia tedesca, i socialisti francesi, il partito di Renzi, e più in generale i centrosinistra hanno portato a termine, con i propri governi, la propria definitiva mutazione genetica. Con essa è morta in Europa ogni ipotesi socialdemocratica e sono usciti definitivamente di scena, nella vergogna, tutti i vari centrosinistra.
La solitudine di Atene tocca anche noi. Tocca anche tutto il campo, variegato e diviso, delle forze critiche. Non è questa la sede per un ragionamento sulla sinistra di alternativa in Europa e sui movimenti, ma quel che non può sfuggire è però la constatazione drammatica di un’impotenza. Per rilevarla, basti solo il confronto con una precedente vicenda che pure ha riguardato il formarsi della costituzione materiale europea, quello della direttiva Bolkestein. Allora si rifletteva criticamente sul livello di iniziative e di mobilitazione in atto; eppure esse furono incomparabilmente superiori a quelle d’oggi e furono capaci di influire sul vittorioso referendum francese contro il Trattato.
“Atene sola” ci dovrebbe costringere a riflettere criticamente, coraggiosamente e in un campo largo di forze che oggi ancora non sono attive ma che potrebbero esserlo domani, sul nostro destino. Il rischio è che il conflitto in essere tra l’alto e il basso della società diventi, nei diversi paesi la contesa esclusiva tra il campo del governo e il campo delle opposizioni populiste, dei populismi. Ma anche in questo caso, molti ci insegnano che le propensioni populiste possono dar vita a soggettività sociali e politiche radicalmente diverse tra loro. Se qualcosa Syriza continua a dirci, anche con l’appello al voto del suo popolo è che nel conflitto tra l’alto e il basso della società, una forza di cambiamento nasce e vive, oggi, solo scegliendo di stare radicalmente su quest’ultimo versante e solo se lo sa agire sul suo terreno di scontro che è quello del proprio paese ma ormai inesorabilmente anche dell’Europa intera.
Il luogo di vocazione della rinascita di un’alternativa, come ci insegna Syriza ma anche Podemos e come ci testimoniano tutti i movimenti di nuova generazione, è diventata la piazza, una piazza che, a intendersi, si può anche chiamare rivolta. Sostenere le ragioni del “NO” di Syriza al referendum di domenica prossima è sacrosanto, ma per stare davvero dalla parte di Syriza, in Europa, non basta la solidarietà.
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