loader
menu
© 2025 Eddyburg
«Il filosofo americano Michael Walzer e gli scenari aperti dallo scontro Ue-Tsipras: “Il centrosinistra esca dalla logica liberista della destra e rilanci il progetto di una federazione di Stati. Nell’Europa post-sovrana l’unica salvezza è il modello Usa"».

La Repubblica, 19 luglio 2015

«Se l’Unione Europea fa tanta fatica a uscire dalla crisi greca, non è soltanto per errori contingenti, commessi da una parte e dall’altra. Guardando la vicenda dall’altra sponda dell’Atlantico, mi sembra che il caso greco sia particolarmente importante perché mette a nudo i due problemi maggiori dell’Europa attuale: la politica economica e la cornice istituzionale. È assurdo che l’Unione Europea continui a imporre al governo ellenico le stesse misure di austerità che hanno fallito ovunque, ma è altrettanto grave il fatto che oggi l’Unione Europea non disponga di organi di controllo in grado di bilanciare in modo democratico lo strapotere della Bce». Michael Walzer, tra i massimi filosofi politici contemporanei, professore emerito all’Institute for Advanced Study di Princeton, guarda il modo in cui la politica europea sta gestendo l’emergenza Grexit, e vi scorge i limiti strutturali del progetto comunitario.

Professor Walzer, in questi giorni concitati ha ancora fiducia nella Ue?
«Credo che l’Unione sia un progetto ambizioso, che poggia su grandi valori e può vantare quantomeno un successo straordinario: quello di aver trasformato in un’area di pace un continente devastato da secoli di guerre e conflitti fratricidi. Detto ciò, non si può negare che l’Unione Europea sia un regime a dir poco curioso, l’unico che ha centralizzato il potere economico in una struttura oligarchica fatta di banchieri e burocrati, senza centralizzare la politica, che in forma democratica resiste solamente all’interno dei singoli Stati nazionali. In altre parole, il caso Grexit sta facendo emergere una contraddizione immanente al sistema istituzionale europeo, quella tra l’oligarchia sovranazionale dei banchieri e le democrazie nazionali dei popoli. E io non vedo in che modo questa asimmetria possa reggere a lungo. Servirebbe piuttosto uno scatto verso un governo genuinamente politico sia dell’eurozona sia dell’Unione Europea. Eppure, sebbene sia necessario, oggi il passo in avanti sembra piuttosto improbabile, perché nessun Paese europeo sembra pronto a compierlo. La Grecia paga anche l’assenza di un solo governo europeo».

L’altro problema, invece, è la politica economica. Perché l’Europa non ha saputo trovare una ricetta alternativa alle politiche di austerità?
«È un fatto che non mi so spiegare. L’idea che le misure di austerità siano la risposta giusta alla recessione è una menzogna. Basterebbe leggere Paul Krugman o Joseph Stiglitz. Anche negli Stati Uniti abbiamo vissuto una fase in cui il governo repubblicano ha seguito questa strategia, ma per fortuna il governo Obama ha imboccato una strada diversa. I partiti socialisti europei dovrebbero fare una battaglia comune per cambiare la politica economica imposta dalla Troika in Grecia».

Invece appaiono sempre più schiacciati tra la destra e la sinistra radicale.
«È così. E il fallimento della socialdemocrazia non inizia oggi e riguarda ormai tutti i paesi occidentali. Negli ultimi anni tutti partiti di centrosinistra, a cominciare dal New Labour blairiano, sono stati subalterni al neoliberismo della destra. In qualche occasione hanno provato a imprimergli un “volto umano”, ma il dato di fondo è che non hanno saputo articolare una strategia alternativa. E il risultato è un fallimento catastrofico, che vede scomparire i partiti neokeynesiani e lasciare lo spazio a sinistra a frange populiste come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna. Ma il populismo è uno stile politico, di destra o di sinistra, che per definizione è incapace di costruire una società che produca più risorse e le distribuisca in maniera equilibrata. Insomma, mi è molto difficile rimanere ottimista».

Dopo il referendum personaggi di spicco del centrosinistra europeo come Schulz e Gabriel hanno espresso posizioni più oltranziste della Merkel. Invece quale dovrebbe essere la visione istituzionale del fronte progressista?

«Non saprei fare un elenco delle specifiche riforme da adottare. Sono convinto però che una riforma dell’Unione Europea sia non solo necessaria, ma anche urgente. E penso inoltre che il riordino istituzionale debba andare nella direzione di una vera e propria federazione. Non sono abituato a spacciare gli Stati Uniti come un modello per il resto del mondo, ma in questo caso sì, l’assetto federalistico statunitense potrebbe essere molto utile per ripensare l’Europa. Anche a voi servirebbe un governo federale unico che controlli la moneta e la politica estera, pur concedendo larga autonomia agli Stati membri in materia sanitaria, educativa, sindacale».

Ma la prospettiva di una federazione di Stati non costringerebbe tutti i cittadini europei, e non solo i greci, a rinunciare alla loro sovranità?
«Basta dare un’occhiata a ciò che accade nel mondo per rendersi conto di quanto sia importante l’idea di sovranità. La maggior parte di chi oggi vive in condizioni di oppressione, in Africa o in Asia, soffre per l’assenza di uno Stato sovrano. Il primo grande bisogno del popolo siriano, per fare un esempio, è la costruzione uno Stato sovrano. Ma allo stesso tempo viviamo un’epoca post-sovrana. Un’epoca globale che sta riducendo il potere degli Stati, rendendo quelli piccoli simili a semplici province».

Come si colloca l’Unione europea in questo secondo scenario?

«La Ue ha rappresentato un grande esperimento per trascendere la sovranità statale, ma la crisi greca dimostra in modo definitivo che, da questo punto di vista, l’esperimento non ha funzionato. Non è più tollerabile che i vertici economici dell’Unione non rispondano democraticamente del proprio operato ai cittadini dei vari paesi. Ecco perché voi europei dovreste scongiurare il rischio Grexit e perseguire la strada di una federazione, ben sapendo che questa implica il sacrificio di determinate quote di sovranità. Un sacrificio che, però, che non potrà mai provocare la sofferenza che i greci stanno subendo in questi giorni».

Una cronaca e un'ampia sintesi del discorso di Alexis Tsipras e di alcuni interventi nel dibattito al Parlamento europeo. Il manifesto, 9 luglio 2015. In questa stessa colonna, qui sotto, un articolo il testo integrale del discorso e il link al video del discorso

Grecia. Il premier greco all’europarlamento difende le proprie scelte: «L’austerità è fallita, il salvataggio ha riguardato le banche, non il popolo». Poi rassicura l’Unione: «Resteremo nell’euro». La Grecia presenta al Mes la richiesta formale per il terzo piano di aiuti: previsti tagli alle pensioni baby e riforma fiscale

Con applausi, abbracci e grandi sor­risi Ale­xis Tsi­pras ha fatto ieri il suo primo ingresso al Par­la­mento Euro­peo. Non era una pas­seg­giata. Nel suo discorso intro­dut­tivo, il pre­mier greco si è con­cen­trato a rispon­dere, usando il buon senso e la ragio­ne­vo­lezza, a tutte le cri­ti­che, spesso del tutto infon­date, che sono state mosse in tutti que­sti mesi con­tro di lui e la Gre­cia. Pro­vo­cando spesso rea­zioni tem­pe­stose, attac­chi, per­sino invet­tive, da parte di alcuni depu­tati europei.

Innan­zi­tutto Tsi­pras ha voluto san­cire, anche in que­sta sede, il fal­li­mento del pro­gramma di auste­rità: «I soldi che ci avete pre­stato non sono andati a favore del popolo greco né a favore dell’economia reale. Sono andati alle ban­che, gre­che e stra­niere. La mia patria è stata tra­sfor­mata in un labo­ra­to­rio spe­ri­men­tale che ha por­tato il popolo greco a esau­rire la sua capa­cità di resi­stenza facendo fal­lire l’esperimento. Oggi, qual­siasi sia l’ orien­ta­mento di ognuno, tutto il popolo greco sente che non ha altra scelta che lot­tare per la sua liberazione».

La Gre­cia, ha con­ti­nuato, ha fatto uno «sforzo senza pre­ce­denti di ade­gua­mento» alle richie­ste dell’eurozona. «Nes­sun altro paese sotto pro­gramma di sal­va­tag­gio e con riforme in corso ha fatto uno sforzo simile alla Gre­cia», ha detto il pre­mier greco. Ma tutto invano.

Poi Tsi­pras ha rispo­sto a chi lo ha accu­sato di non aver por­tato pro­po­ste mar­tedì alla riu­nione dell’eurogruppo: «Abbiamo inviato un testo di 47 pagine che non com­prende le nostre posi­zioni ma il risul­tato del dif­fi­cile nego­ziato. In que­ste pro­po­ste è com­preso il nostro forte impe­gno a rag­giun­gere gli obiet­tivi di bilan­cio che abbiamo fis­sato. Man­te­niamo però il nostro diritto, come governo sovrano, di aggiun­gere o togliere impo­ste. È un nostro diritto tas­sare le imprese in utile e non tagliare le pen­sioni. Se non abbiamo il diritto a tro­vare da soli i set­tori in cui rispar­miare, allora saremmo con­dotti in una logica estrema e anti­po­po­lare. Si direbbe allora che nei paesi sotto pro­gramma di sal­va­tag­gio non si deb­bano tenere ele­zioni, solo nomi­nare dei tec­no­crati e che solo loro pos­sano decidere».
Il rife­ri­mento è alle ripe­tute inter­fe­renze dello stesso pre­si­dente del Par­la­mento euro­peo Mar­tin Schulz sulla com­po­si­zione del governo greco. Ma anche un colpo pre­ven­tivo verso i piani, acca­rez­zati da una parte della destra tede­sca, di pun­tare a risol­vere il caso Atene attra­verso il rove­scia­mento del governo.

Tsi­pras ha negato deci­sa­mente ogni pro­getto, segreto o palese, di ritorno alla dracma: «La set­ti­mana scorsa la mag­gior parte delle dichia­ra­zioni con­si­ste­vano nel dire che il vero que­sito del refe­ren­dum era la scelta tra euro e dracma e che la vit­to­ria del no signi­fi­cava l’uscita del paese dall’eurozona. I greci hanno votato No. Se avessi voluto far uscire il mio paese dall’euro non avrei fatto le dichia­ra­zioni che ho fatto dome­nica sera».

Il refe­ren­dum rap­pre­senta un «forte mes­sag­gio» del popolo greco: «Il forte no di dome­nica ci ha dato l’incarico di raf­for­zare i nostri sforzi verso una solu­zione soste­ni­bile al pro­blema greco, senza ripe­tere gli errori del pas­sato e senza l’eterna e inu­tile austerità».
«Un estratto dal saggio di Euclid Tsakalotos e Christos Laskos (PlutoPress 2013). E' uno testi migliori sulla crisi tra Grecia e Europa e presenta le analisi del successore di Yanis Varoufakis sui problemi che ora affronta come nuovo ministro delle finanze di Atene».

Il manifesto, 7 luglio 2015

La nostra tesi prin­ci­pale è che la crisi greca non sia asso­lu­ta­mente da con­si­de­rarsi un caso par­ti­co­lare. Al con­tra­rio, essa costi­tui­sce il para­digma di una più gene­rale crisi dell’assetto poli­tico ed eco­no­mico neoliberista. In que­sto senso, è neces­sa­rio non solo com­pren­dere le ori­gini della crisi eco­no­mica glo­bale ma anche capire per­ché la strut­tura eco­no­mica e isti­tu­zio­nale dell’eurozona si sia rive­lata ina­de­guata per affron­tare gli effetti della crisi esplosa nel 2008.

Le poli­ti­che di auste­rità che hanno domi­nato la scena sin dall’avvento della crisi hanno raf­for­zato l’impostazione neo­li­be­ri­sta dell’economia e della società. Lo spa­zio per rispon­dere alle domande pro­ve­nienti dagli strati più bassi della società si sono andati dram­ma­ti­ca­mente ridu­cendo, anche rispetto al periodo, comun­que con­tras­se­gnato dall’egemonia neo­li­be­rale, pre­ce­dente la crisi.

Tale irri­gi­di­mento ha coin­ciso con un sem­pre mag­giore distacco tra le élite la realtà sociale o, alter­na­ti­va­mente, con una cre­scente inca­pa­cità delle mede­sime élite di rece­pire pro­po­ste di solu­zione ai pro­blemi pro­ve­nienti dall’esterno dei loro circoli.

La riso­lu­zione finale della pre­sente crisi non potrà por­tare alla rico­stru­zione delle con­di­zioni vis­sute delle eco­no­mie neo­li­be­rali prima del 2008 né, tan­to­meno, con­durre verso il ritorno di un sistema social­de­mo­cra­tico di tipo Key­ne­siano. Dovremmo ricor­dare che non vi fu nes­sun ritorno agli sta­tus quo pre­ce­denti in seguito alle due grandi crisi degli anni ’30 e ’70.

Dun­que, da que­sta crisi si muo­verà o nella dire­zione di un’economia capi­ta­li­stica carat­te­riz­zata da un sostan­ziale auto­ri­ta­ri­smo oppure verso un lungo periodo di tra­scen­denza rispetto ad alcuni degli ele­menti fon­da­men­tali del capitalismo.

La nostra visione rispetto alla situa­zione attuale può essere sin­te­tiz­zata nelle quat­tro tesi che seguono.

La crisi che ha inve­stito la Gre­cia non pre­senta alcun carat­tere di eccezionalità

La nar­ra­tiva che vor­rebbe la Gre­cia come un caso iso­lato ed ecce­zio­nale si fonda su tre ele­menti tra di loro inter­con­nessi. In primo luogo, l’irresponsabilità fiscale dei poli­tici greci. In secondo luogo, le dina­mi­che clien­te­lari che afflig­gono il sistema poli­tico greco. Infine, sia l’irresponsabilità della classe poli­tica che il clien­te­li­smo dif­fuso sareb­bero da ricon­durre a una gene­rale inca­pa­cità di moder­niz­zarsi del paese.

Tutto ciò dovrebbe con­durre a una giu­sti­fi­ca­zione dell’austerità fon­data sulla favola cal­vi­ni­sta cara ad Angela Mer­kel, per la quale i pec­ca­tori deb­bono essere puniti per gli sba­gli da loro com­messi nel pas­sato. La nostra visione non potrebbe essere più lon­tana da quella appena sintetizzata.

La Gre­cia, all’alba dell’esplosione della crisi, era com­ple­ta­mente posi­zio­nata all’interno di un’impostazione neo­li­be­ri­sta sia dal punto di vista eco­no­mico che da quello poli­tico. Il paese si tro­vava a con­di­vi­dere con gli altri Stati mem­bri tutti i tratti carat­te­riz­zanti le eco­no­mie fon­date su basi neo­li­be­ri­ste, così come tutti i fal­li­menti spe­ri­men­tati dalle stesse eco­no­mie. In altre parole, la crisi greca è com­pren­si­bile solo se la si guarda come una mani­fe­sta­zione della crisi glo­bale del neo­li­be­ri­smo piut­to­sto che come una crisi dovuta all’incapacità di appli­care, in modo effi­cace, le ricette pro­prie dello stesso sistema neoliberale.

Siamo di fronte ad una crisi glo­bale del neo­li­be­ri­smo e del capitalismo

La nostra seconda tesi è con­fer­mata dal fatto che l’epicentro della crisi è loca­liz­za­bile nei paesi più avan­zati dal punto di vista dell’applicazione delle ricette neo­li­be­ri­ste, piut­to­sto che in paesi ‘sta­ta­li­sti’ quali la Fran­cia o la Gre­cia. La nostra inter­pre­ta­zione della crisi, inol­tre, rifiuta net­ta­mente l’interpretazione orto­dossa sulla base della quale il mal­fun­zio­na­mento dei sistemi eco­no­mici sarebbe da ricon­durre a ragioni eso­gene al sistema stesso. Le radici della crisi sono, altresì, legate all’incertezza e all’instabilità endo­ge­na­mente pro­dotta dal sistema capitalistico.

La crisi ha messo a nudo la fra­gi­lità del sistema poli­tico post 2008

Dopo una breve fase in cui i prin­ci­pali ele­menti carat­te­riz­zanti l’impostazione neo­li­be­ri­sta – la dere­go­la­men­ta­zione del sistema finan­zia­rio, i super­bo­nus dei mana­ger, gli squi­li­bri macroe­co­no­mici tra paesi o gli effetti dell’individualismo sulla coe­sione sociale – sono stati messi in discus­sione dalle stesse élite, vi è stato un rapida e rin­no­vata con­ver­genza verso lo sta­tus quo ideologico.

In tale con­te­sto, la domanda da un milione di dol­lari è stata: per quale motivo la crisi del 2008 non è stata colta, dalla social­de­mo­cra­zia, come un’opportunità per riaf­fer­mare le pro­prie ragioni sull’ideologia neoliberista?

La nostra ipo­tesi è che i social­de­mo­cra­tici siano intrap­po­lati in quel che viene defi­nito da Blyth nel 2002 il «cogni­tive loc­king». Dopo tanti anni di ege­mo­nia cul­tu­rale neo­li­be­ri­sta i social­de­mo­cra­tici si son sco­perti non più in grado di guar­dare il modo da un’altra prospettiva.

Dalla crisi attuale non è pos­si­bile tor­nare indietro

La nostra tesi con­clu­siva è che dalla crisi che stiamo spe­ri­men­tando non è pos­si­bile tor­nare indie­tro. Le strade pos­si­bili sono due. Una svolta verso una forma di capi­ta­li­smo auto­ri­ta­rio o una tra­scen­denza di alcuni degli ele­menti fon­da­men­tali del capi­ta­li­smo. Nel secondo caso si avrà un disve­la­mento degli effetti cor­ro­sivi pro­dotti da una visione inge­gne­ri­stica della eco­no­mia in cui un unico modello è valido per tutte le società.

Il razionalismo-tecnocratico fa di con­cetti quali la «com­pe­ti­ti­vità» o la «fles­si­bi­lità del mer­cato del lavoro» ele­menti di per sé pre­gni di valore e sulla base dei quali i paesi ven­gono costan­te­mente clas­si­fi­cati. Que­sta visione ha avuto un effetto deva­stante sullo stato di salute delle demo­cra­zie occi­den­tali. E sulla capa­cità di costruire una nar­ra­tiva basata sulle domande cre­scenti pro­ve­nienti dagli strati più bassi della società.

Il legame fon­da­men­tale tra la demo­cra­zia e il fun­zio­na­mento del sistema eco­no­mico dovrà, dun­que, essere posto al cen­tro della rispo­sta della sini­stra alla pre­sente crisi.

* Quello qui è pre­sen­tato è un estratto da «Cru­ci­ble of resi­stance. Greece, the Euro­zone and the World Eco­no­mic Cri­sis» di Euclid Tsa­ka­lo­tos e Chri­stos Laskos (Plu­to­Press 2013). E’ uno testi migliori sulla crisi tra Gre­cia e Europa e pre­senta le ana­lisi del suc­ces­sore di Yanis Varou­fa­kis sui pro­blemi che ora affronta come nuovo mini­stro delle finanze di Atene.

Tra­du­zione di Dario Guarascio.

Che cos’è il debito? In tedesco il sostantivo femminile Schuld designa insieme il debito e la colpa. «Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce colpa e debito», scriveva già nel 1921 Walter Benjamin. La vittoria del no al referendum greco ha richiamato l’attenzione del mondo non solo sulla drammaticità della situazione politica ma anche sul conflitto culturale, sull’antinomia profonda connessa alla concezione del debito nell’evolversi della psiche collettiva: ancora una volta, sull’antica polarità tra Grecia e Germania.

Debito e colpa è il titolo di un libro appena uscito (Ediesse, pagg. 240, euro 12) che Elettra Stimilli ha dedicato alla centralità della figura del debito come colpa nell’indebitamento planetario che segna la più recente fase del capitalismo contemporaneo. Le forme di consumo illimitato basate sull’indebitamento privato, partite dall’America, sono diventate, argomenta Stimilli, il motore principale dell’economia. Dal 2009, con l’immediato globalizzarsi della crisi americana, l’aumento esponenziale del debito privato ha coinvolto il debito pubblico dei paesi economicamente avanzati fino ad arrivare ai debiti sovrani. La finanziarizzazione della vita quotidiana, la “democratizzazione del credito”, ha prodotto uno stato di indebitamento generalizzato in cui ognuno, sia come lavoratore sia come consumatore, è diventato per definizione anzitutto debitore.

Nella cultura attuale dell’occidente, la parola debito è eminentemente connessa a quell’etica protestante, che già Max Weber vedeva all’origine ideale e psicologica, prima ancora che materiale e sociale, del sistema capitalista, alla cui indubbia efficienza i teorici, da Karl Marx a Joseph Schumpeter, hanno sempre contrapposto, con diversi gradi di perplessità, la difficoltà etica della giustificazione teorica. Se per Max Weber il capitale nella sua forma moderna nasceva dalla concezione calvinista della grazia e del peccato per poi secolarizzarsi in ideologia profana, secondo Benjamin il capitalismo può considerarsi in sé una religione, il culto di un dio minore, privo di dogmi ma dalla legge implacabile. È proprio la connessione religiosa fra debito economico e colpa morale — attinta peraltro a un’intuizione degli scritti giovanili di Marx — che porta il povero insolvente, scriveva Benjamin, «a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire, così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco».

Se in tedesco i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale, la lingua greca, che sta all’origine del nostro pensiero e della nostra sintassi filosofica, distingue nettamente tra l’uno e l’altra. Nel greco antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos , un sostantivo che deriva dal verbo chraomai , “usare”, e dalla locuzione chre , “ciò che serve”, che si usa e di cui c’è bisogno; è inoltre connesso con chreia , la “mancanza”. Il termine chreos viene usato ampiamente dagli storici, come Tucidide, dai filosofi, come Platone, e dai giuristi, fino alle Novelle di Giustiniano e ai Basilika : il greco bizantino assicurerà la continuità e trasmetterà la certezza del diritto romano nel suo transito millenario dall’età antica a quella moderna, attraverso i secoli solo in occidente oscuri del cosiddetto medioevo dominato dal diritto barbarico.

Ma la prima attestazione della parola chreos nella letteratura greca è già nell’ottavo canto dell’ Odissea , nel passo in cui Efesto incatena Ares e Afrodite dopo averli colti in adulterio. Tutti gli dèi ridono tranne Poseidone, che gli intima di scioglierli. Efesto rifiuta perché, dice, se lo facesse Ares fuggirebbe eludendo insieme due vincoli, quello materiale della catena e quello morale, il chreos , che lo lega ormai a Efesto. Questo secondo legame non è una servitù, impossibile tra dèi, piuttosto una comunanza di destino, un pegno. Il dio della guerra si è indebitato con il dio del fuoco, dell’ingegneria, dei fabbri, di tutti gli artigiani: cedendo all’amore, condividendo il fascino della dea, si è sottomesso al vincolo di un reciproco scambio. Anche altrove il significato del
chreos greco sfuma spesso in quello di una comunanza ferrea di destino, di una ineludibile necessità: designa “il debito che tutti devono pagare”, ossia, almeno a partire da Teognide, anzitutto e per definizione la morte. Un’accezione metaforica di chreos che si ritrova lungo tutta la letteratura greca, da Platone alla Sapienza di Salomone tradotta nella bibbia dei Settanta.

La distinzione tra debito e colpa è evidente nel Nuovo Testamento, anzitutto in uno dei suoi passaggi più noti: la preghiera del discorso della montagna, che diventerà il padre nostro. Qui il greco della koiné usa, anziché chreos , il più materiale e umile sostantivo ophèilema , che si ritrova in Matteo 6, 12: “rimetti a noi i nostri debiti”. La clamorosa discrepanza dal testo di Luca 11, 4, che ha invece la variante “rimetti a noi i nostri peccati” e usa il ben distinto sostantivo amartìa , ha dato luogo a infinite dispute teologiche e fatto sospettare una comune ascendenza dall’ebraico hôb , hôbot , insieme debito e colpa. Ma proprio il fatto che il dettato neotestamentario debba adottare due voci diverse sottolinea l’estraneità dei due concetti nella psiche greca.

Lo squilibrio politico generato da un lungo e inestinguibile debito ha un precedente storico nel mondo greco. A provocare la caduta dell’impero di Bisanzio sei secoli fa è stato il debito con la repubblica di Venezia, incarnazione di quel capitalismo nascente che la percezione teologica e filosofica bizantina, erede di quella classica, non sarebbe mai riuscita ad assimilare né a comprendere.

L’indebitamento dello stato bizantino con i banchieri dell’occidente spinse le sue élite verso l’oriente. La civiltà bizantina entrò allora nella sfera geopolitica dell’islam ottomano, da cui solo nel XIX secolo la Grecia è emersa.


Non è scritto in nessun memorandum che l'Europa debba assumere l'ideologia della tradizione luterana, anziché quella della tradizione giudaico-greco-cristiana. Ma se pure così fosse, una cosa è il debito altra è il debitore. Far passare Alexis Tsipras come responsabile di un debito contratto dai governi contro i quali lui, il suo partito e il suo popolo hanno combattuto e vinto è una pesante mistificazione. Come dire che la Merkel e Schulze sono responsabili dei debiti dei nazisti.

Si tratta, molto prosaicamente, di un tassello di quel mosaico di menzogne sotto il quale si vuole nascondere la verità strategica di "questa" Europa: ciò che da essa si vuol cacciare Europa è la speranza del cambiamento che la Grecia di Tsipras.

«Il refe­ren­dum con­tro l’austerità in Gre­cia è stato poli­ti­ca­mente impor­tante per l’intera Europa — sostiene Luciano Gal­lino, autore di Finan­z­Ca­pi­ta­li­smo e Il colpo di stato di ban­che e governi (Einaudi) — Se un popolo ridotto in mise­ria, che conta 11 milioni di abi­tanti, rie­sce a creare seri pro­blemi ai paesi più impor­tanti d’Europa, con un peso eco­no­mico e poli­tico come la Ger­ma­nia, ad un certo numero di per­sone potreb­bero venire delle idee.

Quali, ad esem­pio?

Anzi­ché subire pas­si­va­mente le diret­tive di Bru­xel­les, che in molti casi sono quelle di Ber­lino, potreb­bero pun­tare i piedi e discu­tere i prov­ve­di­menti. Cosa che non è avve­nuto in Ita­lia negli ultimi quat­tro governi ita­liani che hanno accet­tato pas­si­va­mente e pedis­se­qua­mente obbe­dito alle tera­pie della Com­mis­sione Euro­pea o della Bce. Non si è mai vista una banca cen­trale chie­dere di ren­dere fles­si­bile il mer­cato del lavoro. Lo fece con Tri­chet da gover­na­tore con la let­tera del 2011. Il governo Monti messo al posto di quello Ber­lu­sconi ha imme­dia­ta­mente prov­ve­duto a farlo. Chissà se il caso della Gre­cia non farà cre­scere il numero delle per­sone che vogliono farsi sen­tire sull’euro o sul fun­zio­na­mento dell’Unione Europea.

Tsi­pras ha denun­ciato un colpo di stato con­tro il suo governo. Che cosa è acca­duto dav­vero in Gre­cia nell’ultima set­ti­mana?

Si è con­cre­tata la situa­zione che sta matu­rando da molti anni. La demo­cra­zia è un fat­tore di disturbo per le isti­tu­zioni euro­pee, per molti paesi a comin­ciare dalla stessa Ger­ma­nia o per il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Tanto Lagarde, quanto Mer­kel, hanno detto in varie occa­sioni che è molto bello vivere in demo­cra­zia ma che biso­gna anche ren­dersi conto che la demo­cra­zia si deve con­for­mare alle esi­genze del mer­cato. Io trovo que­ste dichia­ra­zioni poli­ti­che di una gra­vità ecce­zio­nale per­ché dovrebbe essere vero invece esat­ta­mente il con­tra­rio. In Europa la demo­cra­zia viene con­si­de­rata ormai un intoppo per le deci­sioni del mer­cato. Del resto nei trat­tati fon­da­tivi dell’Unione i rife­ri­menti alla demo­cra­zia sono nulli. Con la Gre­cia hanno pro­prio esa­ge­rato. Se anche i primi mini­stri, per non par­lare dei fun­zio­nari della Bce o di impor­tanti espo­nenti dei socia­li­sti hanno inter­fe­rito aper­ta­mente con il governo greco, dimo­strando che per loro la demo­cra­zia è una sec­ca­tura per la libera cir­co­la­zione dei capi­tali. La social­de­mo­cra­zia è scom­parsa total­mente. È ora di pren­dere posi­zione. Non che sia facile ma, piut­to­sto che bat­tere la testa con­tro un muro, vale la pena di provarci.

Pro­fes­sor Gal­lino lei sostiene che dal 2007–8 sia in corso in Europa pro­prio un colpo di stato. Il refe­ren­dum greco è stata una prima rispo­sta col­let­tiva?

È una rispo­sta poli­tica dei greci a cin­que anni di poli­ti­che deva­stanti impo­ste da Com­mis­sione Ue, Fmi e Bce, ed è anche la prima con­tro quanto è matu­rato in Europa dalla crisi dei debiti sovrani in poi. La prima fase del colpo di stato pre­sup­po­neva che le vit­time pro­te­stas­sero un po’, per poi obbe­dire come nulla fosse suc­cesso. Oggi, il fatto che un paese eco­no­mi­ca­mente insi­gni­fi­cante alzi la testa e prenda a calci negli stin­chi que­sti poteri è un fatto rile­vante. Ale­xis Tsi­pras ha rive­lato una tem­pra fisica e poli­tica ecce­zio­nale per reg­gere cin­que mesi di trat­ta­tive. Oggi il fatto nuovo è che qual­cuno abbia detto “No”, non solo nelle piazze, ma soprat­tutto nelle trat­ta­tive, impo­nendo un refe­ren­dum al quale hanno par­te­ci­pato milioni di per­sone. Que­sto ha inner­vo­sito molto Mer­kel e gli inef­fa­bili pre­to­riani della Com­mis­sione Euro­pea o del Con­si­glio Europeo.

Quante pos­si­bi­lità esi­stono per un accordo sul debito e sui fondi per la Gre­cia?

Lo spet­tro delle opzioni sul tavolo oggi è molto ampio. La ristrut­tu­ra­zione del debito è essen­ziale, ogni eco­no­mi­sta di mezza tacca ammette che non è paga­bile. La Gre­cia ha perso il 25% del pil gra­zie alle medi­cine tos­si­che di Bru­xel­les. In que­ste con­di­zioni, se va bene, riu­sci­ranno a pagare un debito che arri­verà al 180% del Pil tra mol­tis­simi anni. Que­sta situa­zione dimo­stra che gli eco­no­mi­sti che hanno pro­po­sto que­ste ricette non cono­scono il loro mestiere e andreb­bero licen­ziati. La solu­zione è quella di affron­tare i pro­blemi imme­diati: creare occu­pa­zione qua­li­fi­cata per milioni di per­sone, se è pos­si­bile evi­tando i gio­chetti come il Jobs Act che non ser­vono a nulla, aumen­tare la pro­du­zione pos­si­bil­mente non con le vec­chie poli­ti­che indu­striali e nuove poli­ti­che di inve­sti­menti pub­blici. Per fare que­sto è neces­sa­rio ridi­scu­tere il trat­tato isti­tu­tivo dell’Unione Euro­pea, oltre che lo sta­tuto della Bce, che non con­tem­pla la neces­sità della nostra epoca, cioè creare occu­pa­zione o il pre­stito di denaro ai governi. Una cosa inau­dita per una banca centrale.

In che modo si può inter­ve­nire?

Ci sono due pro­blemi col­le­gati da affron­tare. I trat­tati, oggi, non sono modi­fi­ca­bili, se non all’unanimità. È il segno dell’impossibilità pra­tica di inter­ve­nire: come si fa a far votare 28 paesi insieme? Que­sto è il fun­zio­na­mento di un’unione nata male, fon­data sulle neces­sità eco­no­mi­che e non su quelle demo­cra­ti­che, dove la par­te­ci­pa­zione non conta nulla. Poi c’è il pro­blema della Ger­ma­nia, l’unico paese ad avere avuto van­taggi dall’euro in ter­mini di export e pro­dut­ti­vità, anche se negli ultimi dieci anni in que­sto paese i salari sono rima­sti fermi. Con­vin­cerla a dimi­nuire l’export, è dif­fi­cile se non impos­si­bile, ma que­sto è uno dei pro­blemi fon­da­men­tali e lo dicono anche gli eco­no­mi­sti tede­schi. L’euro non fun­ziona e non fun­zio­nerà mai. Non si tratta però di con­ti­nuare le invet­tive con­tro la finanza, ma di met­tersi a stu­diare cosa fare per miglio­rare l’euro, per affian­carlo a monete paral­lele o dis­sol­verlo in maniera con­sen­suale. Così com’è l’euro è una cami­cia di forza che rende la vita impos­si­bile a tutti, tranne che alla Germania.

In Europa Tsi­pras è iso­lato. Se il suo governo perde la guerra, cosa si pre­para per la Spa­gna, con Pode­mos, e in gene­rale per l’Europa?

A que­sto punto, anche se perde, Tsi­pras ha vinto comun­que. Le vit­to­rie restano, spin­gono le per­sone a fare qual­cosa che prima non osa­vano nem­meno imma­gi­nare. Qual­cosa di nuovo può rina­scere dopo la scom­parsa totale della sini­stra in Europa.

L’asse Rignano-Berlino, messo su in gran fretta per spez­zare le reni alla Gre­cia, è mise­ra­mente crol­lato. Con il sogno di un pezzo di man­tello impe­riale da pog­giare sulle spalle, Renzi è volato dalla Mer­kel. In ginoc­chio dinanzi al nuovo sovrano del con­ti­nente, riven­di­cava un rico­no­sci­mento uffi­ciale del suo rango di vas­sallo fedele che ha ese­guito bene il man­dato. Con la distru­zione dei diritti del lavoro e il rogo della scuola pub­blica, lui si pre­sen­tava come la solu­zione, la ragione obbe­diente ai voleri dei signori della tec­nica e della finanza. Tsi­pras invece era il pro­blema, la fol­lia, il disor­dine. Mai viag­gio, per incas­sare bene­fici imme­diati, fu più incauto. La terra pro­messa, cioè l’ombrello pro­tet­tivo della signora della teu­to­nica potenza, per il gio­vin cava­liere errante si tra­sforma ora in incubo.

Un altro fal­li­mento. Dopo il trend elet­to­rale disa­stroso, che dall’Emilia alla Ligu­ria aveva visto la fuga del popolo della sini­stra da un par­tito che ha il pro­gramma mas­simo della destra eco­no­mica euro­pea, la bato­sta greca acce­lera il declino del ren­zi­smo. I suoi ideo­logi ave­vano cer­cato di but­tarla in velina di regime pre­sen­tando l’immagine di una Gre­cia con gli arse­nali pieni e le tasche vuote. E al coro di dele­git­ti­ma­zione si era aggiunto Vel­troni, dalle colonne di un gior­nale apo­crifo. Con la sua pre­di­ca­zione dome­ni­cale ammo­niva: Roo­se­velt non avrebbe fatto un refe­ren­dum per deci­dere se entrare in guerra. Il corag­gio di Tsi­pras si colo­rava, nella penna di solito buo­ni­sta dell’artefice della virata libe­ri­sta del Lin­gotto, di codardia.

Con Renzi alla corte della Mer­kel si con­geda, e in malo modo, anche una parte cospi­cua degli eredi della tra­di­zione del Pci, che hanno inte­rio­riz­zato valori, sim­boli, cre­denze, inte­ressi mate­riali della destra eco­no­mica e tec­no­cra­tica. Il refe­ren­dum greco suona la cam­pana a morte per le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste impo­ste in Ita­lia anche da una parte influente di quel mondo senza più radici e iden­tità. Il van­gelo della tran­si­zione post-berlusconiana, esi­geva riforme strut­tu­rali, sospen­sione delle ele­zioni, for­za­ture costi­tu­zio­nali, governi d’eccezione che alte­ra­vano i tempi del gioco dei poteri par­la­men­tari e adot­ta­vano il pro­gramma eco­no­mico scritto dalle potenze del capi­tale sotto il ricatto della spe­cu­la­zione. La mano­vra sullo spread è la nuova coer­ci­zione musco­lare che costringe i paesi privi dello scudo della sovra­nità alla resa nel tempo della post-politica. Gli eventi della Gre­cia man­dano in sof­fitta i simu­la­cri appas­siti del socia­li­smo euro­peo, per­ce­pito come brac­cio seco­lare del busi­ness e parte inte­grante del piano del capi­tale glo­bale con­tro i diritti del lavoro. Nell’Europa del sud si è aperta una frat­tura sto­rica, una di quelle cesure che impli­cano la com­parsa di nuovi attori poli­tici, la matu­ra­zione di altre culture.

La sfida di Tsi­pras non appar­tiene alla con­giun­tura, e non è un feno­meno solo locale, o la mani­fe­sta­zione radi­cale di un elle­ni­smo peri­fe­rico. È parte di un pro­cesso euro­peo più vasto, che da Atene si spinge verso Madrid, e annun­cia l’inizio di una nuova sini­stra, cri­tica verso il capi­ta­li­smo post­mo­derno, come impor­rebbe il suo stesso codice gene­tico, da troppi dimen­ti­cato. Una sini­stra legata al lavoro, in ogni paese dovrà assu­mere carat­teri ori­gi­nali nell’organizzazione, nella cul­tura, nei sim­boli. Le parti della tra­di­zione del comu­ni­smo ita­liano rima­ste coe­renti con i punti car­dine di una cul­tura cri­tica verso gli idoli del capi­tale, le reti dell’associazionismo civico, le sen­si­bi­lità sociali di un radi­ca­li­smo reli­gioso, e le nuove istanze dei diritti di libertà, il movi­mento sin­da­cale legato al con­flitto devono par­te­ci­pare a un pro­cesso per la defi­ni­zione di un nuovo sog­getto poli­tico. Biso­gna fare in fretta per­ché già si è accu­mu­lato un ritardo e tanti errori sono stati com­messi. È oppor­tuno ascol­tare la lezione greca che dà la carica per l’invenzione organizzativa.

I com­men­ta­tori che inca­sel­lano il feno­meno Tsi­pras nelle cate­go­rie del popu­li­smo com­piono un deli­be­rato com­pi­tino di depi­stag­gio cogni­tivo. Il dise­gno di Tsi­pras non ha nulla di popu­li­sta, cioè non costrui­sce inganni, devia­zioni, capri espia­tori. Non col­tiva la paura ma la per­ce­zione della pro­pria con­di­zione sociale e non c’entra nulla con la ruspa che se la prende con i nemici imma­gi­nari. Niente in comune ha poi con lo tsu­nami tour, che odia anche il sin­da­cato ed evita di col­lo­carsi in una parte pre­cisa nello spa­zio poli­tico e sociale. Tsi­pras non salta con imma­gini defor­manti il con­flitto, anzi lo nomina, lo poli­ti­cizza. E non si situa oltre la cop­pia destra-sinistra, al con­tra­rio la riven­dica come fon­da­tiva, la declina in forme tra­spa­renti. Il suo è un dise­gno di radi­ca­liz­za­zione della pro­po­sta poli­tica e sociale della sini­stra dinanzi alle sof­fe­renze di un paese ridotto in ginoc­chio dalle classi poli­ti­che tra­di­zio­nali, con la Spd che ora vuole la resa dei conti con­tro i ribelli greci e minac­cia “misure umanitarie”.

Per que­sto recu­pero da sini­stra dell’interesse nazio­nale, Tsi­pras parla all’Europa del sud ed è, il suo per­corso, l’esatto con­tra­rio del popu­li­smo, che inventa nemici di una cul­tura altra, li espone alla gogna in maniera osses­siva gra­zie alle coper­ture dei media, che fab­bri­cano fan­ta­smi di comodo pur di pro­teg­gere il capi­tale dagli attori del con­flitto. All’invenzione di un total­mente altro (immi­grato, islam, rom) con­tro cui spa­rare il risen­ti­mento e le paure degli esclusi, egli con­trap­pone la verità dei rap­porti mate­riali. Con forza denun­cia il domi­nio che vede l’idolo pagano con sim­bo­lo­gie teu­to­ni­che suc­chiare il suo net­tare dal cra­nio dei popoli uccisi con le poli­ti­che di auste­rità pale­se­mente inso­ste­ni­bili. La ven­detta dei mer­cati non tar­derà a sca­gliarsi con furore cieco con­tro la rivolta poli­tica inau­gu­rata ad Atene. Ma il voto greco dice che è pos­si­bile una grande poli­tica, con­tro il ser­vi­li­smo del fre­sco vigore di un Renzi, orfano delle magni­fi­che riforme impo­po­lari che senza una rimo­du­la­zione del debito, una rivi­si­ta­zione del fiscal com­pact saranno state prove inu­tili di sacri­fi­cio. Con il suo volo alto nei cieli di Ger­ma­nia, per assi­cu­rare a poche ore dal refe­ren­dum che la par­tita si gio­cava tra l’euro e la dracma, Renzi ha scor­dato le parole del poeta: «Ai voli troppo alti e repen­tini / sogliono i pre­ci­pizi esser vicini».

In uno dei suoi aforismi, Ludwig Wittgenstein affermava che “ niente è così difficile come non ingannare se stessi”, specialmente quanto manca un minimo di onestà intellettuale, si potrebbe aggiungere. E’ precisamente il quadro che stampa e altri mass – media, ci presentano il giorno dopo della straordinaria vittoria del No in Grecia, con una percentuale tanto lontana da quel testa a testa che i sondaggi presentavano prima di domenica, al punto da farci pensare che fossero del tutto farlocchi.

La linea più comune è quella di chi dice che la vittoria del No non cambierebbe quasi nulla e lascerebbe inalterata la durezza del confronto in atto. C’è poi chi afferma, con una logica difficile da esplorare, che la vittoria del Sì avrebbe creato migliori condizioni per i greci nella trattativa. In realtà questa non ci sarebbe più stata perché sarebbe passata integralmente la proposta dei creditori. C’è chi, da destra come da sinistra – si fa per dire –, afferma invece che il No vuole dire ben altro e cioè l’addio all’euro, malgrado che la maggioranza del popolo greco si sia esplicitamente espressa in più di un’occasione per la permanenza nell’Eurozona.

Senza rincorrere le interpretazioni più stravaganti è chiaro che le élite europee e i loro fidi commentatori sono stati presi alla sprovvista da un esito così clamorosamente nitido del pronunciamento ellenico e si trovano in difficoltà a replicare in modo convincente, se non rincorrendo alla impossibile denegazione del suo significato e del suo valore.

La sconfitta della Merkel e di tutti coloro che perseguono ostinatamente- malgrado le bocciature che giungono al Fondo monetario internazionale persino dal Congresso americano - la strada dell’austerità, incapaci di pensarne un’altra, è stata questa volta netta e chiara. Ma non è stata la sola. Sulla vicenda greca si è consumato il definitivo harakiri della socialdemocrazia, quella tedesca in particolare. La dichiarazione di Sigmar Gabriel vicecancelliere tedesco e capo della Spd “Tsipras ha distrutto l’ultimo ponte verso un compromesso” è tanto perentoria ( assomiglia molto al tweet della Csu bavarese “Buonanotte Grecia”) quanto incosciente e chiude indegnamente un giro di pronunciamenti uno peggiore dell’altro.

Martin Schulz, dopo averne dette e combinate di tutti i colori, ha ribadito contro ogni evidenza che “il no significa che la Grecia torna alla dracma”, addirittura sulla falsariga di Matteo Renzi che aveva dipinto il referendum come un derby fra euro e dracma. Persino il silente Mattarella, anche se con una dichiarazione un po’ criptica ma comunque rispettosa del voto greco (“si aprono scenari inediti”), sembra prenderne le distanze. Il primato della pagina giornalistica peggiore in assoluto spetta alla risorta L’Unità, nella cui testata campeggia il nome martoriato di Antonio Gramsci, che scarica tutto il suo livore contro il governo greco con quel titolo di prima “Grecia: tasche vuote arsenali pieni”. Intanto Hollande è stato chiamato a consulto dalla Merkel, ma aspettarsi da lui un sussulto di autonomia di pensiero è forse ottimismo eccessivo.

Il primo ostacolo a una riapertura della trattativa, che la Merkel aveva voluto interrompere in attesa dell’esito del referendum - legittimandolo in anticipo al di là delle sue proprie intenzioni - è rappresentato da questa cecità volutamente diffusa e in particolare dalle posizioni della socialdemocrazia tedesca che vuole scavalcare a destra la stessa cancelliera. Non certo dalla intransigenza della delegazione greca, il cui obiettivo rimane quello che era fin dall’inizio: avere un po’ di tempo e di fiato finanziario, quindi rubinetti aperti da parte della Bce ( l’economista Paul de Grauwe giudica del tutto arbitraria la decisione di quest’ultima di escludere la Grecia dal quantitative easing in atto nel resto d’Europa). Si è detto che esattamente due anni fa Mario Draghi abbia salvato dal crollo la Ue con una semplice dichiarazione, la celebre “Whatever it takes”. Ma non lo ha ripetuto e soprattutto non lo ha fatto ora nei confronti della Grecia, essendo l’innalzamento dei limiti dei finanziamenti Ela, rimessi in forse, troppo poco e troppo cari. E avrebbe potuto farlo, sdrammatizzando la situazione almeno dal punto di vista dell’emergenza finanziaria.

Anzi, il comportamento del governo greco è stato contenuto nelle dichiarazioni post voto e soprattutto molto concreto nei fatti. Le dimissioni di Yanis Varoufakis vanno considerate in questo quadro. La stessa dichiarazione dell’economista greco va letta per quello che dice, abbandonando i soliti esercizi dietrologici: “Considero un mio dovere quello di aiutare Alexis Tsipras, nel modo che ritiene più opportuno, per ottenere il massimo dal risultato che ci ha affidato ieri il popolo greco tramite il referendum. Mi farò carico con orgoglio del disprezzo dei creditori”.

Egli sa bene che per andare avanti, ovvero per affrontare il tema di fondo – la ristrutturazione e la diminuzione del debito su cui ha sempre giustamente insistito e che la Germania respinge per ora nettamente -, bisogna prima superare l’emergenza e accumulare forze in campo europeo. Ora c’è il forte No del popolo greco che rafforza Tsipras e chiunque vada a trattare. Ogni pretesto va eliminato. Perciò egli con grande senso di responsabilità e di lealtà può benissimo tenersi da parte.

Non si tratta dell’esplodere di divergenze fra Tsipras e Varoufakis. Anche a sinistra c’è chi pensa così, vedendo un nuovo caso Che Guevara, con Tsipras nella parte di Fidel Castro. Ma non è questo il caso. I due hanno giocato fin dall’inizio la medesima partita con ruoli e modalità giustamente diverse per funzioni, competenze e carattere. Il tentativo di dividerli da parte delle elite europee, accreditando in Tsipras la figura più malleabile, è già stato respinto con la proclamazione del referendum fatta dal primo ministro greco.

Ma il farsi da parte di Varoufakis in questa delicatissima fase della riapertura della trattativa, non significa la sparizione dalla scena del professore di Houston. Anche perché i nodi del debito complessivo e della carenza di investimenti produttivi in settori innovativi verranno al pettine della crisi europea. E su queste cose Varoufakis ha molto da dire. Egli non è solo un brillante teorico di una possibile alternativa di politica economica ai modelli neoliberisti dominanti. Un’analista profondo della situazione economica mondiale. E’ anche lo studioso che si è impegnato a formulare soluzioni pratiche alla questione del debito e della rinascita dell’economia su nuove basi. In lui non vi è separazione inconciliabile fra teoria e pratica, come i suoi avversari – peraltro molto ignoranti sul primo fronte e incapaci sul secondo – vogliono fare credere. Ma la convinzione profonda che senza una lettura adeguata delle contraddizioni del moderno sistema capitalistico mondiale ogni soluzione tende ad accomodarsi sul carro del più forte ed a perpetuare l’attuale sistema.

Yanis Varoufakis si è dedicato a partire dall’annus horribilis della crisi economica in Europa, ovvero il 2009, a progettare un vero piano di investimenti – non come quello attuale di Juncker ridicolmente limitato a una manciata di miliardi -. La sua proposta, che sarebbe tuttora perfettamente valida, era quella di consentire alla Banca Europea degli Investimenti di emettere obbligazioni, che sarebbero state acquistate dalla Banca centrale europea per finanziare investimenti produttivi in settori qualitativamente diversi da quelli verso i quali si indirizza normalmente un mercato di capitali, peraltro restio a farlo perché votato interamente alla finanza. Come si vede si tratterebbe, per così dire, di un’altra forma di quantitative easing, dove però i soldi non verrebbero posteggiati nelle banche, gelose e sospettose a concederli in prestito, creando così una sorta della famosa “trappola della liquidità” di cui ci parlava Keynes, ma verrebbero direttamente impegnati nella economia reale.

Proprio qui sta la chiave per ridare una speranza all’Europa. Da un lato si tratta di affrontare seriamente il tema del debito in base al principio confortato da innumerevoli esempi storici - in primo luogo quelli della Germania nei due periodi postbellici, ove si praticarono scelte diverse con esiti politici non a caso opposti (il nazismo dal rigore nell’esigere il rimborso, la democrazia dal condono del debito nella conferenza di Londra del 1953) – e cioè che debiti troppo elevati non possono venire interamente pagati e che quindi è anche interesse dei creditori giungere alla loro ristrutturazione e riduzione. Se non vogliono perdere tutto costringendo un paese al default. Dall’altro bisogna pensare a un’Europa unita politicamente su basi federali, nella quale si arrivi all’unificazione fiscale e a un bilancio centrale capace di avviare un nuovo modello di sviluppo.

Purtroppo la Ue si muove in modo opposto, non solo nel caso greco, ma più in generale, visto il documento recentemente presentato da Juncker, Tusk, Draghi, Dijsselbloem e Schulz. Come ha detto l’economista americano Jeffrey Sachs il problema, se non vuole implodere o ridursi a una provincia tedesca, è dell’Europa, non della Grecia. Per questo per Varoufakis è solo un arrivederci.

Il giorno dopo le clamorose dimissioni di Varufakis emergono le virtù politiche e le prospettive della decisione, Articoli di Tommaso De Francesco, Pavlos Nerantsis, Annamaria Merlo. Il manifesto, 7 luglio 2015


IL SACRIFICIO DI VAROUFAKIS
di
Pavlos Nerantzis

Tsipras incontra i leader politici dei partiti, tranne i nazisti di Alba Dorata, e trova un’intesa comune per il negoziato. Il titolare delle finanze si dimette, al suo posto Euclid Tsakalotos

La Gre­cia sta vivendo un momento sto­rico. Il giorno dopo il refe­ren­dum, ha ritro­vato l’unità e la volontà di riven­di­care una solu­zione soste­ni­bile con i part­ner euro­pei. L’intero paese si pre­senta com­patto ai suoi cre­di­tori, dopo il ver­tice dei lea­der poli­tici che si è rea­liz­zato ieri sotto l’egida del pre­si­dente della Repub­blica, Pro­ko­pis Pavlopoulos.

È la prima volta, dopo tanti anni, che tutti i lea­der poli­tici par­te­ci­pano allo stesso ver­tice — l’ultimo risale ai primi anni ’90 — con l’esclusione dei nazi­sti di Alba dorata, assenti per «motivi ideo­lo­gici e poli­tici». Durante la riu­nione, durata più di sette ore, Tsi­pras ha pre­sen­tato ai suoi inter­lo­cu­tori un piano simile a quello discusso dieci giorni fa con i cre­di­tori, aggior­nato con i dati nuovi. In primo luogo ha riba­dito la richie­sta di Atene di un pre­stito dall’Esm pari a 29,1 miliardi di euro, cui si con­trap­pone Ber­lino che con­ti­nua a non voler sen­tir par­lare di ristrut­tu­ra­zione del debito.

Per il momento il pro­blema più urgente è la liqui­dità. Le ban­che gre­che rischiano di rima­nere a secco da un momento all’altro. La Bce, per ora, si è limi­tata a man­te­nere il flusso d’emergenza dell’Ela al livello pre-voto (89 miliardi) e a una «cor­re­zione» del col­la­te­rale offerto in garan­zia dagli isti­tuti greci. Per que­sto motivo il governo ha deciso il pro­lun­ga­mento della chiu­sura delle ban­che fino a domani. «La Gre­cia andrà al tavolo delle trat­ta­tive con l’obiettivo di ripor­tare alla nor­ma­lità il sistema ban­ca­rio» ha detto Tsi­pras. Il pre­mier greco è uscito dall’aula due volte. La prima per avere una con­ver­sa­zione tele­fo­nica con Mario Dra­ghi e l’altra con Putin. La Bce potrebbe togliere com­ple­ta­mente l’ossigeno alle ban­che gre­che, ma non vor­rebbe essere Dra­ghi a pro­vo­care il default.

Tsi­pras oggi è più forte che mai dopo aver otte­nuto oltre il 60% dei voti, strap­pando il con­senso anche di altre forze poli­ti­che. «L’esito del refe­ren­dum non è un man­dato di rot­tura ma un man­dato per con­ti­nuare gli sforzi per una solu­zione soste­ni­bile» sot­to­li­neano i lea­der poli­tici, aggiun­gendo che «cia­scuno farà il pos­si­bile per con­tri­buire all’obiettivo comune». Ovvero garan­tire la liqui­dità alle ban­che e la cre­scita del paese, pro­muo­vere le riforme tenendo conto la giu­sti­zia sociale e il nego­ziato per la ristrut­tu­ra­zione del debito.

Il pre­mier greco par­te­cipa oggi al ver­tice Ue con un man­dato chiaro: otte­nere un accordo al più pre­sto, pos­si­bil­mente «entro le pros­sime 48 ore». Un’intesa all’ interno dell’eurozona che apre la strada ad una Europa diversa, della soli­da­rietà e dei diritti con­tro l’austerità e la reces­sione. Il pre­mier greco deve affron­tare i fal­chi dell’eurozona che non vedono come un dramma l’uscita della Gre­cia dall’euro, a dif­fe­renza di altri che fanno di tutto per tenere Atene nell’eurozona, spe­cie nel momento in cui Jp Mor­gan e Bar­clays con­si­de­rano «pro­ba­bile» un’uscita.

Intanto i greci che per cin­que anni stanno vivendo sulla pro­pria pelle le con­se­guenze del peg­gior attacco del neo­li­be­ra­li­smo, nono­stante il ter­ro­ri­smo media­tico, la chiu­sura delle ban­che, le inti­mi­da­zioni e i ricatti di alcuni part­ner euro­pei in que­sti giorni sono otti­mi­sti. Come aveva scritto Yan­nis Ritsos, una delle voci poe­ti­che più forti della Gre­cia con­tem­po­ra­nea, «noi can­tiamo per unire il mondo».

Per arri­vare a que­sto punto d’intesa tra le forze poli­ti­che e un cam­bia­mento del clima nei rap­porti con i cre­di­tori era, però, neces­sa­rio un sacri­fi­cio. Yanis Varou­fa­kis, il mini­stro delle finanze greco, che per cin­que mesi ha tenuto duro, ieri mat­tina ha dovuto dimet­tersi non per­ché in disac­cordo con Tsi­pras, ma per­ché l’hanno chie­sto i part­ner euro­pei. E il pre­mier greco per togliere ogni alibi ai suoi inter­lo­cu­tori euro­pei ha chie­sto le dimis­sioni del suo mini­stro e amico.

Verso le otto di mat­tina Varou­fa­kis ha scritto sul suo blog di aver lasciato l’incarico per con­sen­tire al pre­mier di otte­nere più facil­mente un accordo. «Subito dopo l’annuncio dei risul­tati del refe­ren­dum, sono stato infor­mato di una certa pre­fe­renza di alcuni mem­bri dell’Eurogruppo e di part­ner assor­titi per una mia «assenza» dai loro ver­tici, un’idea che il primo mini­stro ha giu­di­cato poten­zial­mente utile per con­sen­tir­gli di rag­giun­gere un’intesa. Per que­sto motivo da oggi lascio il mini­stero delle Finanze. Con­si­dero mio dovere aiu­tare Ale­xis Tsi­pras a sfrut­tare come ritiene oppor­tuno il capi­tale che il popolo greco ci ha offerto con il refe­ren­dum d’ ieri». E poi con­clude: «Por­terò con orgo­glio il disprezzo dei creditori».

La noti­zia non ha sor­preso nes­suno. Anzi in un’ottica di rilan­cio del nego­ziato, le dimis­sioni sono state accolte posi­ti­va­mente dai mer­cati. Da parec­chio tempo era noto che il mini­stro delle finanze greco non era affatto grra­dito ai mem­bri dell’Eurogruppo e soprat­tutto al suo omo­logo tede­sco, Wol­fgang Schau­ble. Le posi­zioni diverse, ma anche l’aria da prof e l’abbigliamento casual di Varou­fa­kis hanno creato prima un’antipatia, poi uno scon­tro fron­tale e in seguito un vuoto che con il tempo è diven­tato cao­tico, tra il mini­stro greco e i 18 dell’eurozona.

Secondo fonti a Bru­xel­les, era diven­tato «un dia­logo tra sordi» a tal punto, che mesi fa, l’ambasciatore tede­sco ad Atene per ben due volte aveva chie­sto al governo greco l’allontanamento di Varoufakis.

Anche all’interno di Syriza non pia­ceva tanto que­sto spi­rito esi­bi­zio­ni­sta e scon­troso del mini­stro ormai ex. La set­ti­mana scorsa secondo un ser­vi­zio apparso sul quo­ti­diano Ta Nea (Le novità) che non è mai stato smen­tito dal governo, alcuni mini­stri ave­vano chie­sto l’allontanamento di Varoufakis.

E dome­nica sera quando l’ esito del «no» era quasi sicuro, durante un incon­tro, Tsi­pras ha chie­sto le dimis­sioni di Varou­fa­kis, il quale uscendo dalla sede di governo, ha usato toni duri con­tro i cre­di­tori, par­lando di «part­ner che ter­ro­riz­zano i greci» e di «valuta paral­lela all’euro», una dichia­ra­zione che non andava di pari passo con il ten­ta­tivo di Tsi­pras di tenere i toni bassi e tro­vare un compromesso.

L’allontanamento di Yanis Varou­fa­kis, tanto amato tra i greci, potrebbe para­go­narsi con il sacri­fi­cio di Ifi­ge­nia nella tra­ge­dia Aga­mem­none di Eschilo. Il suo soti­tuto sarà Euclid Tsa­ka­lo­tos, capo-gruppo della squa­dra di nego­ziato greca, stretto amico di Varoufakis.

UN PASSO INDIETRO PER FARNE DUE AVANTI INEUROPA
di Tommaso Di Francesco
Varoufakis. Dimissioni eccellenti, perché non c’entra la mitologia. Una rinuncia che richiama il dramma storico dell’isolamento della sinistra
«Por­terò con orgo­glio il disprezzo dei cre­di­tori verso di me»: parole piene di dignità quelle di ieri di Yanis Varou­fa­kis che cor­ri­spon­dono all’originalità della per­sona e alla fase della crisi greca — non­ché al visi­bile com­plesso d’inferiorità che l’establishment euro­peo deve sem­pre aver pro­vato di fronte alla sua sta­tura di sta­ti­sta ed eco­no­mi­sta mar­xi­sta di valore internazionale.

Parole e scelta ina­spet­tate per­ché annun­ciate appena il giorno dopo la vit­to­ria del no con­tro i dik­tat della troika. Come dice Ale­xis Tsi­pras, «per lot­tare per la libertà ser­vono virtù e coraggio».

C’è già chi para­gona il gesto di Varou­fa­kis a «Cin­cin­nato», chi sapien­te­mente torna sulle sfor­tune di Dio­niso rac­con­tate nel kylix di Exe­kias alle prese con gli etru­schi «del­fini», chi addi­rit­tura richiama alla memo­ria la scelta di allon­ta­narsi da Cuba fatta da Che Gue­vara d’accordo con Fidel Castro. Si rischia così però di fare della mito­lo­gia, antica o moderna che sia.

Qui al con­tra­rio ci tro­viamo di fronte ad una scelta imme­diata, stra­te­gica e con­sa­pe­vole: «Mi dimetto per favo­rire l’accordo». Si intui­sce l’accordo con­sen­suale (lo con­ferma la nomina al mini­stero delel Finanze al suo posto di Euclid Tsa­ka­lo­tos, for­te­mente legato a Varou­fa­kis ed espo­nente della piat­ta­forma di sini­stra di Syriza) tra i due diri­genti che, forti dell’immenso soste­gno popo­lare che arriva dai risul­tati del refe­ren­dum, hanno deciso di togliere, con que­sta mossa dolo­ro­sis­sima per entrambi, ogni alibi all’intransigenza della troika. Che ora non può più trin­ce­rarsi die­tro la pre­sunta «arro­ganza» dell’«intrattabile» e fuori dagli schemi, media­tore Varoufakis.

Il sacri­fi­cio di Varou­fa­kis, più che l’evento mito­lo­gico di rife­ri­mento, mostra la capa­cità di rispon­dere al «peso» della vit­to­ria. Nel senso della poe­sia di Costan­tino Kava­fis Che fece…il gran rifiuto (ispi­rata ai versi della Divina Com­me­dia di Dante) di più d’un secolo fa ma che sem­bra scritta in occa­sione del refe­ren­dum greco: «Per alcuni uomini giunge il giorno in cui/ devono pro­nun­ciare il grande Sì o il grande/ No. È chiaro sin da subito chi lo ha/ pronto den­tro di sé il Sì e pronunciandolo/ si sente più rispet­ta­bile e risoluto./ Chi rifiuta non si pente. Se glielo richiedessero,/ «no» pro­nun­ce­rebbe di nuovo. Eppure quel no — / quel no giu­sto lo annienta per tutta la vita».

Una rinun­cia, quella di Yanis Varou­fa­kis, che sot­to­li­nea l’originale dram­ma­ti­cità della sini­stra greca e della sua sto­ria. Intes­suta della neces­sità di rom­pere un pro­fondo iso­la­mento. Già nel secondo dopo­guerra con la dispe­ra­zione e scon­fitta san­gui­nosa della guerra civile con­ti­nuata dai comu­ni­sti con­tro i nuovi occu­panti bri­tan­nici, dopo la scon­fitta di quelli nazisti-fascisti.

Una scon­fitta con­su­mata, oltre che per i gravi errori dei comu­ni­sti greci, sull’altare di Yalta e di Sta­lin ma anche per respon­sa­bi­lità di Tito, l’emergente lea­der jugo­slavo anti-stalinista. Poi, men­tre in tutta Europa esplo­deva il ’68, in Gre­cia la sini­stra soc­com­beva già da un anno alla dit­ta­tura mili­tare dopo il golpe dei colon­nelli, soste­nuta dalla Nato. Il riscatto fu la rivolta del Poli­tec­nico del ’74. Ancora una volta per riven­di­care la spe­ci­fi­cità della crisi greca di fronte all’ordine mon­diale della Guerra fredda e alla sostan­ziale indifferenza-connivenza dell’Europa.

Ora la sini­stra — prima com­po­sita e ora con Syriza final­mente unita — che il lea­der Ale­xis Tsi­pras ha por­tato al governo del Paese dopo il disa­stro della destra, è impe­gnata nella diver­sità più dif­fi­cile: con­trad­dire il neo­li­be­ri­smo e l’economicismo dell’Unione euro­pea ridotta solo ad una moneta e al ruolo di recu­pero cre­diti al ser­vi­zio del Fmi.

Come dice Ale­xis Tsi­pras, «per lot­tare per la libertà ser­vono virtù e coraggio».
ATENE PORTA NUOVE PROPOSTE AI CREDITORI
di Anna Maria Merlo
Oggi Eurogruppo e vertice a 19 a Bruxelles. Incontro Hollande-Merkel, che cercano di accordare il discorso: Atene sia "responsabile", noi siamo (o siamo già stati) "solidali". Isteria in Germania: per il numero due del governo, Sigmar Gabriel (Spd), oggi si discuterà di "aiuti umanitari" ad Atene. La Bce mantiene in vita l'Ela, per il momento (la scadenza finale è il 20 luglio, quando la Grecia dovrà rimborsare 3,5 miliardi). Dissensi nel board dei governatori, Noyer chiude alla ristrutturazione del debito verso la Banca centrale (30 miliardi), che contraddirebbe l'art.123 del Trattato di Lisbona

Oggi la Gre­cia pre­senta nuove pro­po­ste, con­cor­date tra tutti i par­titi, ai due incon­tri pro­gram­mati a Bru­xel­les, l’ennesimo Euro­gruppo straor­di­na­rio a metà gior­nata, seguito in serata da un ver­tice dei capi di stato e di governo dei 19 della zona euro. La mossa è stata con­cor­data con Ale­xis Tsi­pras da Angela Mer­kel e Fra­nçois Hol­lande, in suc­ces­sive tele­fo­nate, tra dome­nica sera e ieri. Hol­lande ha rice­vuto Mer­kel ieri all’Eliseo, per cer­care un ter­reno di intesa, dopo le diver­genze recenti. Hol­lande attende «pro­po­ste serie e cre­di­bili», offrendo un equi­li­brio tra «soli­da­rietà e respon­sa­bi­lità», con «urgenza». Per Mer­kel, i part­ner hanno già dato prova «di molta soli­da­rietà», l’ultima pro­po­sta era «molto generosa».

Hol­lande è invi­tato, in Fran­cia, ad uscire dalla sua tra­di­zio­nale ambi­guità e a pro­porsi come un vero media­tore per evi­tare il peg­gio. Il mini­stro dell’Economia, Ema­nuel Macron, ha respinto l’ipotesi di orga­niz­zare un’uscita dall’euro della Gre­cia «senza drammi», avan­zata dall’ex primo mini­stro Alain Juppé (che sogna l’Eliseo per il 2017). Per la Ger­ma­nia, invece, «al momento non ci sono i pre­sup­po­sti per una nuova trat­ta­tiva su un altro pro­gramma di aiuto», ha affer­mato il por­ta­voce di Mer­kel, Stef­fen Sie­bert, che ha anche pre­ci­sato che «non c’è ragione per una ristrut­tu­ra­zione» del debito, come chiede Tsi­pras. La rea­zione tede­sca al risul­tato del Gre­fe­ren­dum sfiora l’isteria, al punto che il numero due del governo, l’Spd Sig­mar Gabriel ha annun­ciato che «il sum­mit discu­terà di aiuti uma­ni­tari» per la Gre­cia, «la gente lag­giù ha biso­gno di aiuto e noi non dovremmo rifiu­tar­glielo solo per­ché non siamo d’accordo con il risul­tato del refe­ren­dum». Di ricorso alla cha­rity aveva già par­lato l’ineffabile Mar­tin Schulz (Euro­par­la­mento), un’ipotesi ripresa dal gruppo Ppe a Strasburgo.

Il pre­si­dente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijs­sel­bloem, segue la posi­zione tede­sca e afferma che «la vit­to­ria del no è molto disdi­ce­vole per l’avvenire della Gre­cia», per­ché «per la ripresa eco­no­mica sono ine­vi­ta­bili misure dif­fi­cili e riforme» e che non c’è «niente da aspet­tarsi» dalle pro­po­ste gre­che. La Com­mis­sione ieri ha pub­bli­cato un com­mento mini­ma­li­sta, che «prende atto e rispetta» il risul­tato del refe­ren­dum. Il com­mis­sa­rio all’euro Vla­dis Dom­bro­v­skis ripete che «il posto della Gre­cia era e resta nell’eurozona», ma aspetta il risul­tato dell’Eurogruppo di oggi per vederci più chiaro. Atten­di­smo anche all’Fmi, dopo aver «preso atto» del Gre­fe­ren­dum: «Sor­ve­gliamo la situa­zione – ha detto Chri­stine Lagarde – e siamo pronti ad aiu­tare la Gre­cia se ce lo chiedono».

Comun­que, la Com­mis­sione è soprat­tutto pre­oc­cu­pata della sta­bi­lità dell’euro: «La sta­bi­lità della zona euro non è in gioco», insi­ste Bru­xel­les e Dom­bro­v­skis riba­di­sce: «La sta­bi­lità dell’eurozona non è in discus­sione». Jean-Claude Junc­ker ha avuto con­tatti con Tusk, Dijs­sel­bloem e Dra­ghi, che ha par­lato anche con Tsipras.

La Bce, suo mal­grado, è get­tata in prima linea in que­ste ore. Ha in mano l’arma fatale dell’Ela (liqui­dità di emer­genza), l’ultimo rubi­netto rima­sto aperto per finan­ziare il sistema ban­ca­rio greco. L’Ela è ferma a 89 miliardi e dome­nica la Banca cen­trale greca ha di nuovo chie­sto a Fran­co­forte un rialzo. Oggi e domani le ban­che non ria­prono, come pre­vi­sto, sono a secco. Per la Bce, che ha pre­stato alla Gre­cia 30 miliardi, la data finale è il 20 luglio, quando la Gre­cia deve rim­bor­sare 3,5 miliardi. Se non c’è l’accordo, non ci saranno i soldi. Di qui ad allora, la Bce potrebbe pro­gres­si­va­mente strin­gere il cap­pio attorno al collo della Gre­cia, fino a sospen­dere anche l’Ela. Allora ci saranno i fal­li­menti delle ban­che, che pre­ci­pi­te­ranno la Gre­cia nel caos, nel panico del bank run e a dover ricor­rere agli IOU (I owe you), cioè una moneta paral­lela per pagare fun­zio­nari e pen­sioni, equi­va­lente a un Gre­xi­dent nel disordine.

Jens Weid­mann, della Bun­de­sbank, sot­to­li­nea da tempo che l’Ela della Bce è al limite delle com­pe­tenze di Fran­co­forte, che sta rischiando la pro­pria repu­ta­zione. La ristrut­tu­ra­zione del debito chie­sta da Atene ha di fronte un osta­colo di peso: per Chri­stian Noyer, gover­na­tore della Ban­que de France, «per defi­ni­zione il debito greco verso la Bce non può essere ristrut­tu­rato per­ché costi­tui­rebbe un finan­zia­mento mone­ta­rio a uno stato», escluso dall’art.123 del Trat­tato di Lisbona.

In caso di Gre­xi­dent, ma anche di un Gre­xit ordi­nato, non sono del tutto dis­si­pati i timori di un con­ta­gio, a comin­ciare da Spa­gna e Por­to­gallo. Luis de Guin­dos, mini­stro spa­gnolo, ha affer­mato che «la Spa­gna non pre­vede asso­lu­ta­mente» un Gre­xit e ha aperto a un «terzo piano di aiuti, la Gre­cia ha diritto di chie­derlo», ma ha ricor­dato che «biso­gna appli­care le regole». Impa­zienza anche da parte di Mat­teo Renzi: le riu­nioni di oggi «devono indi­care una via defi­ni­tiva» per uscire da quello che Paolo Gen­ti­loni ha defi­nito «il labi­rinto greco».

«La vit­to­ria del «no» ha tanti signi­fi­cati. Ma prima di tutto onore ai greci, che hanno vinto la loro bat­ta­glia ma non certo la guerra, anche per noi ita­liani e per l’Europa, senza che l’Europa (e l’Italia) facesse molto per loro».

Il manifesto, 6 luglio 2015 (m.p.r.)

La vit­to­ria del «no» è la rispo­sta a quanti hanno cer­cato in tutti i modi di tra­sfor­mare il loro voto in un azzardo, come se il giu­sto diritto di un popolo di espri­mersi sul suo futuro rap­pre­sen­tasse un rischio da non far cor­rere ai mer­cati, in un con­te­sto reso con­fuso nell’ultima set­ti­mana dai com­por­ta­menti ricat­ta­tori della troika ed in par­ti­co­lare della Bce, che ha cer­cato in vari modi di influen­zare il voto con l’arma del panico, bloc­cando la liqui­dità agli spor­telli anche se le ban­che sono sol­vi­bili a stesso giu­di­zio della Bce. La demo­cra­zia non è azzardo, ma un diritto, e que­sto è il primo risul­tato del «no».

Que­sta vit­to­ria è la rispo­sta a quanti hanno voluto tra­sfor­mare il nego­ziato su un nuovo Memo­ran­dum in un «pren­dere o lasciare» tutto poli­tico, in un «den­tro o fuori l’Europa», per­ché la posta in gioco non era solo eco­no­mica ma, come è risul­tato evi­dente, era il diritto di una nazione a non accet­tare i dik­tat della dot­trina ordo­li­be­rale tede­sca che impone le sue regole, e a sce­gliere assieme in quale Europa si vuole stare. L’inclusione con­tro l’esclusione, secondo risul­tato del «no».

La vit­to­ria del «no» ha il merito di non azze­rare le pro­spet­tive di cam­bia­mento. L’uso poli­tico della nego­zia­zione sul Memo­ran­dum era far capire ai popoli euro­pei che non vi sarebbe stata altra strada se non quella trac­ciata da Bru­xel­les, Fran­co­forte, Washing­ton, e su tutti Ber­lino; che ogni ten­ta­tivo di avere una idea diversa di Europa doveva essere espulsa sul nascere, prima che rischiasse di con­ta­giare altre nazioni, altri popoli, quello spa­gnolo anzi­tutto. Con il governo di coa­li­zione a guida Syriza le isti­tu­zioni euro­pee e quelle inter­na­zio­nali (Fmi), sono costrette invece a fare i conti, e a nego­ziare, e in pro­spet­tiva altri governi di coa­li­zione potreb­bero essere eletti aprendo un fronte di nuove nego­zia­zioni,terzo risul­tato del «no».

La vit­to­ria del «no» è la rispo­sta al socia­li­smo euro­peo che co-governa le isti­tu­zioni nazio­nali e comu­ni­ta­rie con­di­vi­dendo la poli­tica dei par­titi con­ser­va­tori; a ciò che è rima­sto del socia­li­smo euro­peo, simu­la­cro per­sino dello spi­rito della social­de­mo­cra­zia dell’alternanza, che oggi delega con i governi di coa­li­zione al Ppe ogni scelta sul ter­reno eco­no­mico, sociale e poli­tico, e fuori dalle coa­li­zioni con­di­vide gli stessi para­digmi e le stesse ricette del libe­ri­smo più retrivo. Il quarto risul­tato del «no» prova che un’altra sini­stra è possibile.

La vit­to­ria del «no» con­sente di man­te­nere vivo il ten­ta­tivo di cam­biare l’agenda eco­no­mica euro­pea. Le ricette dell’austerità espan­siva hanno pro­dotto un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita e di lavoro della gran parte delle popo­la­zioni che le hanno subite. La Gre­cia è solo il caso più ecla­tante, ma danni sono stati pro­cu­rati ovun­que la troika è arri­vata, oppure dove le poli­ti­che sono state da que­sta det­tate, in Irlanda, Spa­gna, Por­to­gallo, Fin­lan­dia, e Ita­lia da Monti a Renzi.

Al con­tempo il debito deve essere ristrut­tu­rato per­ché un paese quando non è in grado di ripa­gare il suo debito e viene for­zato a farlo, non ha alcuna pro­spet­tiva di cre­scita e fal­li­sce su entrambi i fronti, quello della cre­scita e quello del paga­mento del debito. Il quinto risul­tato è quello di pro­porre una agenda diversa: un nego­ziato per un Memo­ran­dum che segni una discon­ti­nuità con i pre­ce­denti, e una con­fe­renza sulla ristrut­tu­ra­zione del debito.

A que­sto punto quale sarà la rea­zione delle isti­tu­zioni euro­pee e della troika?

Un primo sce­na­rio è quello della irre­spon­sa­bi­lità. Ovvero riget­tare nei fatti il suc­cesso del «no» e per­se­guire come se nulla fosse acca­duto l’obiettivo poli­tico, met­tere in crisi ancor più la Gre­cia e far cadere il governo Tsi­pras. Quindi nes­sun accordo, Memo­ran­dum o meno, e costrin­gere la Gre­cia al default e alla uscita dall’euro tra­mite la Bce che blocca il cre­dito al sistema ban­ca­rio greco. Sce­na­rio assai rischioso per gli altri paesi dell’eurozona, per­ché saremmo nel campo dell’ignoto, non solo con costi ele­vati per la Grecia.

Un secondo sce­na­rio è quello della stu­pi­dità, in cui viene abban­do­nato l’obiettivo poli­tico ma non quello eco­no­mico, per cui nes­suna con­ces­sione alle richie­ste gre­che sul piano delle poli­ti­che di auste­rità e nes­suna ristrut­tu­ra­zione del debito. Il debito va pagato, le isti­tu­zioni euro­pee e inter­na­zio­nali sono dispo­ste ad inter­ve­nire con­ce­dendo linee di cre­dito solo a con­di­zione che la Gre­cia accetti un Memo­ran­dum 3 sulla linea dei pre­ce­denti. L’esito è il per­du­rare della depres­sione in Gre­cia, qua­lora il governo elle­nico accetti pur di non dichia­rare default e uscire dall’euro. Il rischio è che la crisi siste­mica venga sola­mente rin­viata a tempi futuri per­ché i fon­da­men­tali non mutano.

Il terzo sce­na­rio è quello della sag­gezza. Si rico­no­sce la neces­sità della ristrut­tu­ra­zione del debito e si con­cede alla Gre­cia una pro­spet­tiva per far uscire l’economia greca dalla depres­sione con misure che non sono di osser­vanza libe­ri­sta. I cre­di­tori rinun­ciano all’obbiettivo eco­no­mico di breve periodo di essere ripa­gati, e con­ce­dono alla Gre­cia di accom­pa­gnare alle poli­ti­che di offerta le poli­ti­che di soste­gno alla domanda, quindi aiuti non vin­co­lati alla sva­lu­ta­zione interna.

Pos­siamo essere fidu­ciosi in que­sta Europa a guida libe­ri­sta? Se doves­simo scom­met­tere, pun­te­remmo pur­troppo sul secondo sce­na­rio. Ma vi sono varia­bili in gioco nel 2015, pro­prio quelle che la troika voleva esclu­dere ribal­tando il governo Tsi­pras, ovvero che alla Gre­cia fac­cia seguito la Spa­gna. E que­sto apri­rebbe la strada affin­ché la discus­sione su «Quale Europa» diventi discus­sione poli­tica di tutti i cit­ta­dini europei.

«La festa spontanea a piazza Syntagma, subito dopo i primi risultati. Migliaia di bandiere greche, per strada un’intera generazione di giovani travolta dalla crisi, la classe media impoverita, gli operai e i disoccupati».

Il manifesto.info, 6 luglio 2015

Dopo giorni di ten­sione, minacce e allarmi, la festa esplode spon­ta­nea già all’arrivo dei primi ine­qui­voci risul­tati, a meno di due ore dalla chiu­sura dei seggi. Le strade si inta­sano di migliaia di per­sone dirette ancora una volta, come venerdì scorso, verso Syn­tagma, la piazza del Par­la­mento. Non c’è nulla di orga­niz­zato per­ché Ale­xis Tsi­pras alla vigi­lia aveva rac­co­man­dato calma e sobrietà, la stessa con la quale da ieri mat­tina cit­ta­dini greci di ogni età si sono messi in fila ai seggi per votare, ognuno senza chie­dere all’altro come la pen­sasse. Quella che per una set­ti­mana li aveva disci­pli­na­ta­mente fatti met­tere in fila ai ban­co­mat per riti­rare i 60 euro gior­na­lieri con­sen­titi dopo lo stop deciso dal governo o a qual­che super­mer­cato per la paura, infon­data, che come in guerra pren­des­sero a scar­seg­giare i viveri.

Fin dalle prime ore del mat­tino, prima gli anziani e poi man mano tutti gli altri, i seggi erano stati un tran­quillo via vai di per­sone, resti­tuendo un’idea di grande matu­rità e dando una lezione di demo­cra­zia all’Europa, lad­dove quest’ultima è nata, come ama ricor­dare spesso Ale­xis Tsi­pras. Divisi ma insieme, chi era con­vinto che dopo aver detto tanti sì all’Europa in cam­bio di un mas­sa­cro sociale era giunta l’ora di un bel no, e chi invece aveva paura di per­dere anche quel po’ che gli è rima­sto, chi non ha più alcun­ché da met­tere in gioco e chi invece sulla crisi ha gal­leg­giato come un sur­fi­sta su un mare in tempesta.

Ma la voglia di scen­dere in piazza è stata incon­te­ni­bile: troppo netto il suc­cesso, troppa la voglia di mostrare all’Europa che per i greci que­sta bat­ta­glia è appena comin­ciata e vogliono vin­cerla. È per que­sto che le ban­diere gre­che que­sta volta hanno la meglio sui sim­boli di par­tito e sui drappi rossi, per­sino sugli stracci con su scritto «Oxi», «no», dei quali ora non c’è più biso­gno. Ora è neces­sa­rio che i nego­zia­tori greci a Bru­xel­les sen­tano di non essere soli, e per que­sto si spre­cano i car­telli in inglese dai mes­saggi espli­citi. Il più chiaro di tutti recita: «This strug­gle is not about Europe, it’s about free­dom» («Que­sta lotta non riguarda l’Europa, ma la libertà»). C’è anche un gruppo di tede­schi, sono del movi­mento Bloc­kupy che lotta con­tro l’austerità e sono i ben­ve­nuti.

Come due giorni fa per la chiu­sura della cam­pa­gna refe­ren­da­ria, quello che stu­pi­sce è l’altissimo numero di gio­vani e gio­va­nis­simi: una intera gene­ra­zione (ma in realtà sono almeno due) che ha messo le radici ai tempi del G8 di Genova e dei social forum, si è ribel­lata al potere quando in viuzza di Exar­chia fu ucciso dalla poli­zia il sedi­cenne Ale­xis Gri­go­ro­pou­los e ha messo le tende in piazza Syn­tagma nel 2010 ai tempi degli Indi­gna­dos. Quella gio­ventù pre­ca­ria che nel 2008 fu defi­nita degli «800 euro» e che oggi non gua­da­gna più nem­meno quelli ed è costretta a emi­grare, gli stu­denti uni­ver­si­tari che devono tra­sfe­rirsi all’estero per cer­care una borsa di stu­dio o un impiego qua­li­fi­cato. Que­sta Gre­cia è diven­tata mag­gio­ri­ta­ria e, insieme a ope­rai, disoc­cu­pati e alla classe media impo­ve­rita è oggi il blocco sociale che dice no alla gab­bia dell’austerità, anche a costo di accet­tare ulte­riori sacri­fici, ma a patto che non siano coman­dati da Angela Mer­kel o Jean Claude Junc­kel e senza fare sconti a nes­suno. All’epoca veni­vano con­trap­po­sti ai loro padri, con­si­de­rati garan­titi e in quanto tali pri­vi­le­giati. Ora sono entrambi in piazza, mas­sa­crati entrambi da poli­ti­che a dir poco selvagge.

Un cauto otti­mi­smo ser­peg­giava già dal primo pome­rig­gio anche nel quar­tier gene­rale di Syriza in piazza Kou­moun­dou­rou. La sen­sa­zione che la vit­to­ria fosse a por­tata di mano è aumen­tata quando hanno comin­ciato a cir­co­lare i primi son­daggi non uffi­ciali, a urne ancora aperte: il no al 51 per cento, poi al 54. Fin­ché, alle 19 in punto, ai primi “opi­nion polls” che davano il no in van­tag­gio la gioia era esplosa e la ten­sione si era sciolta negli abbracci e nei sor­risi con­di­visi con gli alleati euro­pei (rap­pre­sen­tanti della Linke tede­sca, della spa­gnola Pode­mos, ciprioti dell’Akel, irlan­desi dello Sinn Fein, la nutrita dele­ga­zione ita­liana, rap­pre­sen­ta­tiva di tutta la galas­sia della sini­stra) accorsi già da venerdì a soste­nere la rivo­lu­zione euro­pea par­tita da una peri­fe­ria del con­ti­nente e il suo con­dot­tiero Ale­xis Tsi­pras, che ha vinto la scom­messa più grande tra­sci­nan­dosi die­tro più della metà abbon­dante del popolo greco.

Non sono ser­vite a molto le inge­renze euro­pee e la con­fu­sione media­tica, dav­vero impres­sio­nante, messa in piedi ad arte da un fronte del sì con pochi argo­menti a pro­pria dispo­si­zione se non quello, abi­tuale, della paura. Un argo­mento che però i greci hanno riget­tato, come si intuiva nelle strade e si è capito la sera della grande mani­fe­sta­zione di venerdì a soste­gno del no. Lo sape­vano tutti, anche quelli del sì che in un docu­mento a uso interno già gio­vedì scri­ve­vano che il no era al 70 per cento nei cen­tri urbani e che per­fino il 10 per cento degli elet­tori di Nea Demo­cra­tia avrebbe votato a favore del piano dei cre­di­tori. Ma hanno con­ti­nuato a fin­gere e a pro­pa­gan­dare son­daggi inat­ten­di­bili e costruiti alla biso­gna per sola pro­pa­ganda elet­to­rale. Ci sono cascati in molti, ma solo chi non voleva vedere per par­tito preso non ha capito quello che stava fer­men­tando ancora una volta nella pan­cia della società ellenica.

Nella notte di piazza Syn­tagma cir­cola una bat­tuta: «I colpi di stato non avven­gono più by tanks, but by banks», con chiaro rife­ri­mento ai carri armati della dit­ta­tura dei colon­nelli che in tanti ancora ricor­dano qui in Gre­cia e al rischio che siano ora le ban­che, asfis­siando la popo­la­zione, a pro­muo­vere il regime change. Ma but­tare giù Ale­xis Tsi­pras e il suo governo è ora molto più dif­fi­cile per tutti, anzi i più deboli sono i fal­chi dell’austerità, a comin­ciare da Angela Mer­kel e Jean Claude Junc­ker (anche se, tra i lea­der euro­pei, nes­suno esce bene da que­sta sto­ria, com­preso il nostro Mat­teo Renzi), ed è stato que­sto il colpo da mae­stro del pre­mier greco. Ma a come andare avanti si pen­serà da oggi, subito per­ché la situa­zione non con­sente di ter­gi­ver­sare, con calma e deter­mi­na­zione com’è stato fino a oggi. Ora è il tempo di festeg­giare, la notte di Syn­tagma è ancora lunga.

»Sulla Grecia abbiamo assi­stito a una straor­di­na­ria opera di mani­po­la­zione dell’informazione». Articoli di Norma Rangeri, Gianni Ferrari, Simorne Pieranni, e l'intervista di Anna Maria Merlo a Yaris Varoufakis. Il manifesto, 5 luglio 2015
LA SFIDA GRECA
di Norma Rangeri

«Abbiamo assi­stito a una straor­di­na­ria opera di mani­po­la­zione dell’informazione, par­ti­co­lar­mente sfron­tata nell’impegno pro­fuso a dare per verità son­daggi smen­titi dalle stesse fonti, a cen­su­rare noti­zie impor­tanti, come la cri­tica del con­gresso Usa, reca­pi­tata, nero su bianco, alla signora Lagarde».

Può suo­nare reto­rico dire che oggi la Gre­cia sarà tea­tro di un avve­ni­mento sto­rico. Ma così è. Il risul­tato del refe­ren­dum influirà sul futuro stesso dell’Unione euro­pea e su quello di uno dei paesi più pic­coli della Comunità. E pro­prio que­sta par­ti­co­la­rità merita una prima rifles­sione. Come è pos­si­bile che un paese tanto pic­colo possa, non dico tenere in scacco, ma con­di­zio­nare il domani di altri 27 stati? Non è strano che il voto di dieci milioni di per­sone possa influire sulla vita di altri quat­tro­cento? Lo sarebbe se que­sta vicenda non rap­pre­sen­tasse la quin­tes­senza della globalizzazione.

Dagli Stati uniti alla Cina tutti seguono con atten­zione quanto sta acca­dendo nella terra degli dei dell’Olimpo. Per­ciò il voto di oggi è qual­cosa di più e di diverso della sfida sim­bo­lica di Davide con­tro Golia, anche se la grande dispa­rità di forze può ben sug­ge­rire l’accostamento per­ché in que­sto cimento del pic­colo con­tro il gigante non sono certo i fili­stei di Bru­xel­les ad aver dovuto sfi­dare nella vita quo­ti­diana gli orsi e i leoni della lunga, infi­nita crisi che ha but­tato donne, uomini, bam­bini, anziani nella bat­ta­glia con­tro le bestie nere della povertà, della fame, della man­canza di medi­ci­nali, della depres­sione che ha fatto impen­nare le per­cen­tuali dei suicidi.

Il cit­ta­dino greco per lun­ghi anni ha sop­por­tato l’assedio e quando il Golia di Ber­lino lo ha inchio­dato all’ultimo duello, il pic­colo Davide ha tirato fuori la fionda del refe­ren­dum cogliendo tutti di sorpresa. Atene mette oggi in evi­denza non solo la spro­por­zione delle forze in campo ma le con­trad­di­zioni forti e divi­sive della Ue.

Sono lì a dimo­strarlo i poli­tici ita­liani che, da sini­stra a destra - da Ven­dola a Bru­netta a Sal­vini pas­sando per Grillo - tifano, pur tra molti distin­guo, per la bat­ta­glia del pic­colo Davide. Sicu­ra­mente per­ché molti vor­reb­bero usare il voto greco a fini di poli­tica interna. E non è curioso che grandi eco­no­mi­sti, quasi tutti nobel e libe­ral si siano pro­nun­ciati per il “No”, posi­zione mal dige­rita da tutte le grandi firme del gior­na­li­smo nostrano, scritto e televisivo?

Abbiamo assi­stito a una straor­di­na­ria opera di mani­po­la­zione dell’informazione, par­ti­co­lar­mente sfron­tata nell’impegno pro­fuso a dare per verità son­daggi smen­titi dalle stesse fonti, a cen­su­rare noti­zie impor­tanti, come la cri­tica del con­gresso Usa, reca­pi­tata, nero su bianco, alla signora Lagarde.

Que­sto voto mette strappa i veli alle magni­fi­che e pro­gres­sive sorti della Ue a tra­zione tede­sca. Denun­cia il difetto di nascita, una Unione calata dall’alto senza nulla chie­dere ai cit­ta­dini, con­trad­di­cendo lo spi­rito dell’Europa pen­sata da Altiero Spinelli. Sco­pre un’Unione costruita su un’impalcatura economico-finanziaria che sosti­tuiva alla val­vola di sfogo della sva­lu­ta­zione delle monete nazio­nali l’impressionante sva­lu­ta­zione del lavoro sot­to­messo alle duris­sime leggi dell’eterna precarietà.

Tut­ta­via la ten­sione e la pas­sione che viviamo nel giorno in cui ci sen­tiamo tutti greci è così forte non solo per­ché abbiamo impa­rato a memo­ria i numeri del disa­stro pro­vo­cato dalla cieca auste­rità, fino all’ultimo para­dosso del man­cato rim­borso di 1,6 miliardi non pagato da Atene che ha pro­vo­cato il falò di 287 bru­ciati dalle borse il giorno dopo. Per­ché i mer­cati si erano «spa­ven­tati», così tito­la­vano i gior­nali con la con­sueta bana­lità invece di rac­con­tare a let­tori e tele­spet­ta­tori l’assurdità della situazione.

E non si venga a dire che tagliando e dila­zio­nando il debito greco ver­rebbe annul­lato il prin­ci­pio fon­da­men­tale della Ue, cioè il rispetto delle regole. Se rispet­tarle signi­fica dan­neg­giare l’intera comu­nità, allora è solo un brac­cio di ferro poli­tico quello in corso, una pura guerra di potere con la volontà di arri­vare allo scon­tro frontale.

Ed eccolo lì il nostro Renzi, fin dal primo momento lesto a nascon­dersi die­tro lo scudo tede­sco, pronto ad accu­sare Tsi­pras di voler tor­nare alla dracma, non solo una bugia ma una meschi­ne­ria che spiega molte cose sulla stoffa del per­so­nag­gio. Natu­ral­mente in ottima com­pa­gnia di cuori corag­giosi come Hol­lande, Gabriel, Schulz…

C’è di più, è in gioco qual­cosa di più profondo. Oltre alla testa, alla razio­na­lità, c’è in ballo il cuore acceso dalla sfida demo­cra­tica, c’è la lezione di un grande popolo capace di sop­por­tare e tenere a bada la for­tis­sima ten­sione del momento. Tutti gli ita­liani, gio­vani e vec­chi, che danno lezioni sulle regole da rispet­tare sareb­bero stati capaci di met­tersi in fila così digni­to­sa­mente davanti ai ban­co­mat vuoti?

E, infine, nello scon­tro fron­tale gioca una par­tita molto rischiosa anche lo stesso Tsipras. Aveva già vinto le ele­zioni con un pro­gramma molto chiaro, no all’austerità, sì, mode­rato, all’Europa. Oggi il gio­vane lea­der tenta il tutto per tutto, il numero secco alla rou­lette, dove punti quello che hai. Se perdi è un disa­stro, se vinci sei più forte ma non hai risolto i tuoi pro­blemi. Che sono comuni a molti altri paesi. Ita­lia com­presa, come già dice l’Istat a pro­po­sito del ral­len­ta­mento di una ripresa già debolissima.

Da que­sto punto di vista il voto di Atene ha un signi­fi­cato sto­rico, unico. Nella mito­lo­gia greca ci sono nume­rosi esempi di uomini abban­do­nati dagli dei. Tsi­pras deve spe­rare che gli dei dell’Olimpo - e il popolo greco - oggi siano con lui.

LA CREDITOCRAZIA NON FERMA LA LOTTA DI CLASSE

di Gianni Ferrara

«Il capitale finanziario. Chi danneggia l’austerity, chi avvantaggia? Lo hanno confessato i creditori nel corso della trattativa. Chiedendo altri tagli alle pensioni, un’ulteriore riduzione dei salari, l’aumento dell’Iva, privatizzazioni più estese. Rifiutando però, e nettamente, aumenti dell’imposizione fiscale sui ceti più ricchi, e anche una tassa una tantum sugli utili di impresa superiori a 500.000 euro l’anno».
È poli­tico, tutto poli­tico il con­flitto tra la troika e il governo greco. Lo si com­batte con un’arma impro­pria e ter­ri­bile che ne è anche l’oggetto, l’euro, con­si­de­rato, misu­rato e distinto come cre­dito o come debito, cre­dito o debito di stati.

Il che si è sog­get­ti­va­mente tra­dotto nella sepa­ra­zione e oppo­si­zione tra stati cre­di­tori e stati debi­tori, i due ter­mini di un rap­porto di forza tra gli stati che è tutto a van­tag­gio di quelli cre­di­tori. Cre­di­tori che, per essere deten­tori della tito­la­rità e dell’esercizio del potere di ero­ga­zione, acqui­si­scono anche quello di imporre le con­di­zioni per otte­nerne l’assegnazione ed anche quello di vin­co­larne la destinazione. L’accumulazione aggre­gata di tali poteri ha pro­dotto la forma attuale del capi­tale finan­zia­rio, la «cre­di­to­cra­zia» e la ha munita di pro­pri organi isti­tu­zio­nali con­ver­tendo quelli esi­stenti o inven­tan­done nuovi.

Ma in quale ambito? Se fosse quello del mondo glo­ba­liz­zato ci sarebbe cer­ta­mente da com­bat­terla per­ché tale ma con mezzi ade­guati a quella dimen­sione spa­ziale. Come affron­tare invece la «cre­di­to­cra­zia» costi­tui­tasi all’interno di una entità ordi­na­men­tale, giu­ri­di­ca­mente inde­fi­ni­bile, ma mas­sic­cia­mente con­glo­me­rante come l’Unione euro­pea? Unione che, nel suo Trat­tato costi­tu­tivo, si impe­gna a «pro­muo­vere la coe­sione eco­no­mica, sociale e ter­ri­to­riale e la soli­da­rietà tra gli stati membri».

Il cui ver­tice però, troika o non troika che sia, ha deciso di usare l’euro-potere non ai fini della coe­sione che la impe­gna e della soli­da­rietà che strom­bazza, non per assi­cu­rare la qua­lità della vita o anche la sola soprav­vi­venza, almeno que­sta, degli esseri umani che com­pon­gono gli stati-comunità dell’Europa. Ai quali gli stati-governi hanno sot­tratto la sovra­nità appro­prian­do­sene per eser­ci­tarla con­giun­ta­mente agli altri stati-governi in fun­zione esclu­siva e asso­luta della pro­se­cu­zione di un’austerity inef­fi­cace e distrut­tiva come sosten­gono eco­no­mi­sti con l’autorità scien­ti­fica di Krug­man, Sti­glitz, Piketty.

Come dimo­strano gli effetti cata­stro­fici pro­dotti - e ai gover­nanti tede­schi ben noti - nei Laen­der dell’ex Ddr, a ven­ti­cin­que anni dalla caduta del muro. Per­ché l’austerity, allora? La rispo­sta è obbli­gata, le cifre sono note. Non può esserci altra spie­ga­zione che quella poli­tica. Chi dan­neg­gia l’austerity, chi avvan­tag­gia? Il caso Gre­cia è esem­plare. Obbe­dendo al pro­gramma che le dettò la troika 5 anni fa, la Gre­cia ha ridotto di un quarto, 106 miliardi, la spesa pub­blica e del venti per cento i salari. La vastità del disa­stro deter­mi­nato da que­ste misure non ha precedenti.

E indi­gna, ed è dove­roso indi­gnarsi, leg­gendo che l’enormità del debito greco è dovuta al sal­va­tag­gio delle ban­che tede­sche e fran­cesi. Ope­ra­zione, que­sta dell’attribuzione di un debito, comun­que ope­rata, a sog­getti doversi dai bene­fi­ciari, oltre che pale­se­mente cri­mi­nosa, dimo­stra a quale livello di igno­biltà si giunge invo­cando l’etica (pro­te­stante?) delle rela­zioni umane, l’intangibilità delle regole e della loro effi­ca­cia, e quale con­ce­zione si abbia per la «coe­sione eco­no­mica, sociale … e per la soli­da­rietà tra stati». È la Gre­cia che mette in crisi l’Unione euro­pea o chi ne rin­nega ope­ra­ti­va­mente i fon­da­menti morali ed ideali?

Chi dan­neg­gia l’austerity, chi avvan­tag­gia? Lo hanno con­fes­sato i cre­di­tori nel corso della trat­ta­tiva. Chie­dendo altri tagli alle pen­sioni, un’ulteriore ridu­zione dei salari, l’aumento dell’Iva, pri­va­tiz­za­zioni più estese. Rifiu­tando però, e net­ta­mente, aumenti dell’imposizione fiscale sui ceti più ric­chi, e anche una tassa una tan­tum sugli utili di impresa supe­riori a 500.000 euro l’anno.

C’è ancora qual­che dub­bio sul signi­fi­cato, l’obiettivo, l’effetto dell’austerity e, con esso, sulla fun­zione che si è assunta la Ue, sullo spe­ci­fico ruolo che la fase attuale del capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta affida alla «creditocrazia»? Un capi­ta­li­sta affermò, qual­che anno fa, che la lotta di classe c’era stata, ma la ave­vano vinto loro, i capi­ta­li­sti. È vero, la ave­vano vinta. Ma con­ti­nua. È indis­so­lu­bil­mente con­nessa alla demo­cra­zia che è chia­mata a vin­cere, oggi, lì dove nac­que e da dove inse­gnò cosa sia la civiltà politica.

VAROUFAKIS: «CHIUDERE LE BANCHE È TERRORISMO, DOPO IL REFERENDUM L'ACCORDO CI SARÀ»

di Anna Maria Merlo

Oggi il referendum. Lunedì 6 luglio, il consiglio dei governatori avrà potere di vita o di morte sulle finanze greche. Varoufakis accusa: creditori come "terroristi", "ci hanno forzato a chiudere le banche per far paura alla gente". L'appello alla ragionevolezza di Jacques Delors, mentre la Ue punta a un governo guidato dal presidente della Banca centrale greca, Yannis Stournaras

Oggi i greci votano e alla vigi­lia nes­suno si sbi­lan­cia in pre­vi­sioni. Ma già da domani, secondo le auto­rità di Bru­xel­les, il destino della Gre­cia sarà nelle mani della Bce. Domani, infatti, si riu­ni­sce il con­si­glio dei gover­na­tori della Banca cen­trale che avrà, nell’immediato, un grande potere: dovrà esa­mi­nare l’Ela (liqui­dità di emer­genza, ndr), l’unico rubi­netto ancora aperto.

Se vince il «sì», Fran­co­forte potrebbe alzare l’Ela, se vince il «no» potrebbe deci­dere di sof­fo­care il paese rifiu­tando di inter­ve­nire, con la con­se­guenza che le ban­che reste­ranno chiuse e, in una pro­spet­tiva non tanto lon­tana, spin­gere Atene all’uscita nella con­fu­sione più totale. Basti ricor­dare che il caos di que­sti giorni ha ori­gine nella deci­sione della Bce del 29 giu­gno scorso, che ha obbli­gato alla stretta sull’accesso ai conti e al con­trollo dei capi­tali (le imprese gre­che non hanno più accesso al tra­sfe­ri­mento elet­tro­nico di fondi all’interno della zona euro). Negli ultimi giorni, due mem­bri del con­si­glio dei gover­na­tori, Benoît Coeuré e Vic­tor Con­stan­cio, hanno per la prima volta espres­sa­mente fatto rife­ri­mento a un pos­si­bile Gre­xit.

In rispo­sta agli ultimi attac­chi, tra cui l’affondo dell’Spd Mar­tin Schulz (Euro­par­la­mento) che ingiunge di «met­tere fine all’era Syriza», Yanis Varou­fa­kis ha rea­gito con rab­bia: «Per­ché ci hanno for­zato a chiu­dere le ban­che? – si chiede il mini­stro delle Finanze greco in un’intervista allo spa­gnolo El Mundo - per far paura alla gente. E quando si tratta di dif­fon­dere la paura, que­sto feno­meno si chiama ter­ro­ri­smo». Varou­fa­kis con­ti­nua a cre­dere che «qua­lun­que sia il risul­tato del refe­ren­dum, mar­tedì ci sarà un accordo», per­ché «l’Europa ha biso­gno di un accordo e la Gre­cia anche. Se la Gre­cia crolla, mille miliardi di euro andranno in fumo» (è l’equivalente del pil spa­gnolo, ndr), avverte il mini­stro, «sono troppi soldi e non penso che l’Europa possa permetterselo».

Bru­xel­les tut­ta­via non fa mistero di pun­tare ad avere un governo di unità nazio­nale, con alla testa il pre­si­dente della Banca cen­trale greca, Yan­nis Stour­na­ras. Per il momento, un Euro­gruppo dovrebbe venire con­vo­cato martedì.

Nes­suno ascolta più in que­ste ore le voci della ragione. Da Joseph Sti­glitz, che ha par­lato di «respon­sa­bi­lità cri­mi­nale» dei cre­di­tori, fino all’ex pre­si­dente della Com­mis­sione, Jac­ques Delors, che firma un testo assieme a Pascal Lamy (ex Wto) e Anto­nio Vito­rin (ex com­mis­sa­rio) invi­tando le parti a «supe­rare i gio­chi tat­tici» del momento, la Ue a tener conto della «pro­spet­tiva geo-politica» (Bal­cani, crisi dei migranti etc.) e non solo delle que­stioni tecnico-finanziarie, per pro­porre ad Atene una «rico­stru­zione» in tre tappe: aiuto imme­diato «ragio­ne­vole» per restau­rare la sol­vi­bi­lità a breve; mobi­li­ta­zione degli stru­menti Ue per ria­ni­mare l’economia greca; infine, esa­mi­nare il «peso del debito», non solo in Grecia.

LA NARRAZIONE SULLA GRECIA DEI MEDIA ITALIANI È QUELLA DELLA TROIKA

di Simone Pieranni

«Informazione. Il gior­na­li­smo ita­liano main­stream, in grande mag­gio­ranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per rac­con­tare un paese - la Gre­cia - che a detta di tanti che sono in loco, non esi­ste».

La crisi greca non solo ha mostrato il vero volto della troika, basti pen­sare ai docu­menti segreti pub­bli­cati dal Guar­dian, alle inter­cet­ta­zioni di Mer­kel, o all’ostruzione dei paesi euro­pei alla dif­fu­sione del docu­mento del Fmi, che sostan­zial­mente dava ragione ai greci, ma ha per­messo di com­pren­dere come la nar­ra­zione dei fatti esteri dei media main­stream, sia giunto ad un suo punto di non ritorno.

La crisi greca non solo ha posto in discus­sione, evi­den­te­mente, l’Europa e l’eurozona, sep­pure in modo per ora imper­scru­ta­bile, ma ha messo in mostra una sorta di modus ope­randi dell’informazione ita­liana, che ha finito per aggan­ciarsi com­ple­ta­mente alla nar­ra­zione della troika, per sal­vare se stessa. Non ha tanto favo­rito le “isti­tu­zioni”, ne ha assunto in pieno le linee stra­te­gi­che comunicative.

Il gior­na­li­smo ita­liano main­stream, in grande mag­gio­ranza, ha mostrato i muscoli e ogni tipo di mezzo per rac­con­tare un paese - la Gre­cia - che a detta di tanti che sono in loco, non esi­ste. Dal “dramma del pen­sio­nato” con cui Repub­blica ha tenuto la sua home page per tutta la gior­nata di venerdì, fino al con­fronto tra le due piazze di venerdì sera, come se fos­sero la stessa cosa. Come se da una parte non fos­sero di più, e per lo più gio­vani e dall’altra non fos­sero meno e non fos­sero per lo più i vitu­pe­rati “pelan­droni pen­sio­nati” greci. Un corto cir­cuito – voluto — vero e pro­prio che ha por­tato la stessa Syriza a cer­care di comu­ni­care più sui social net­work, che sui media (come rac­conta Le Monde).

Non si può, oggi, fare un gior­nale come se non esi­stesse internet. Lo dovrebbe sapere l’esperto Fede­rico Fubini (vice diret­tore del Cor­riere della Sera), i cui rac­conti “in presa diretta” sono stati smen­titi, punto per punto, luogo per luogo da Mat­teo Nucci su mini­maet­mo­ra­lia Nucci è andato in ogni posto nel quale Fubini lamen­tava una situa­zione simile al disa­stro, dimo­strando cosa stesse real­mente acca­dendo in quei luoghi.

Senza par­lare dei “nostri” gior­na­li­sti sui social network. Tra­la­sciando i neo adepti ren­ziani come Clau­dio Cerasa, diret­tore de Il Foglio, che ha twittato come se il –26% del Pil gra­zie ai trat­ta­menti troika, fosse un’invenzione di Syriza, i social net­work si sono riem­piti di novelli esperti eco­no­mici, colmi di certezze.

Alcuni si sono distinti in modo particolare. È il caso di Vit­to­rio Zuc­coni di Repub­blica, in prima linea con­tro Tsi­pras, ispi­rato nel citare il Guar­dian su arti­coli circa il calo di turi­smo, ma deci­sa­mente meno pronto a lan­ciare gli scoop sui docu­menti segreti della troika.

Gli esempi sono mol­tis­simi ed evi­den­ziano - non solo in Ita­lia - come nel momento del biso­gno e di un grande rischio, la gran­cassa media­tica main­stream abbia saputo subito piaz­zarsi dalla parte del più forte, facendo finta di niente riguardo le “noti­zie” (la let­tera del Con­gresso, il docu­mento del Fmi, le pres­sioni dei paesi euro­pei, i docu­menti di Nuova Demo­cra­zia in Gre­cia per indi­riz­zare la comu­ni­ca­zione dei media in Gre­cia, i fal­li­menti della troika) e ingag­giando la lotta con­tro la con­trad­di­zione di un par­tito che non accetta le regole impo­ste dai “potenti”.

La nar­ra­zione a senso unico, fino ad arri­vare a misti­fi­care la realtà, pur­troppo, non è una novità (l’abbiamo vista all’opera anche in Ucraina, per fare un esem­pio, dove i neo­na­zi­sti sono diven­tati “europeisti”). Basta chie­dere a un qual­siasi free­lance, in giro per il mondo, quali siano spesso i suoi pen­sieri dopo la let­tura di molti, tanti, pezzi di “cor­ri­spon­denti” ben più noti e tito­lati. Non importa ciò che è vero, quanto ciò che è vero­si­mile. Il mito del gior­na­li­smo indi­pen­dente viene dun­que sma­sche­rato pro­prio da chi se ne fa pala­dino, attra­verso una vera e pro­pria nar­ra­zione di una realtà che si cerca di pie­gare alla pro­pria “visione del mondo” det­tata da inte­ressi acco­mu­na­bili, nel pro­prio “set­tore”, a quelli che non vuole per­dere la troika in Europa.

Si accusa chi fa un gior­na­li­smo poli­tico, evi­den­ziando quindi le con­trad­di­zioni ma ponen­dosi aper­ta­mente da un lato della bar­ri­cata, di essere di parte, fin­gendo di essere neutrali. Come se la scelta delle fonti, di chi si inter­vi­sta, della pro­spet­tiva con cui si sce­glie di par­lare di un argo­mento, fos­sero neu­trali, aset­tici e non pre­sup­po­nes­sero, invece, una chiara scelta.

E infine ci sono quelli imba­raz­zanti. Ieri l’Unità tito­lava “Gre­cia tasche vuote, arse­nali pieni”, facendo finta di niente su chi in pre­ce­denza ha com­prato le armi e sul fatto che quelle, insieme al mini­stro di destra del governo greco, dovrebbe ras­si­cu­rare pro­prio gli amici di Renzi, ovvero la Nato. Senza con­si­de­rare poi il silen­zio del quo­ti­diano fon­dato da Anto­nio Gram­sci, su guerre uma­ni­ta­rie e recenti acqui­sti in tema di F35.

LaRepubblica, 5 luglio 2015

In queste ore, discutere della Grecia è deprimente. Quindi se per voi va bene parleremo d’altro. Parleremo, per cominciare, della Finlandia - che di quel Paese corrotto e irresponsabile non potrebbe essere più diversa. La Finlandia è un modello: vanta un governo onesto, un’economia solida e un rating del credito affidabile che le permette di prendere in prestito denaro a tassi d’interesse incredibilmente vantaggiosi. Tuttavia, sta anche attraversando l’ottavo anno di una recessione che ha decurtato del dieci percento il suo prodotto interno lordo reale e che ancora non accenna a finire. Tanto che se l’Europa meridionale non stesse vivendo un incubo, i guai dell’economia finlandese sarebbero considerati un disastro di dimensioni epiche.

La Finlandia tuttavia non è sola: rientra infatti in una regione dell’Europa del nord che vive una fase di declino economico, e che si estende dalla Danimarca (la quale, pur non appartenendo all’eurozona gestisce il proprio denaro come se ne facesse parte) ai Paesi Bassi. Questi paesi se la passano ben peggio della Francia: una nazione la cui economia viene descritta in termini catastrofici dai giornalisti, che odiano la solidità degli ammortizzatori sociali, ma che di fatto ha resistito meglio di quasi ogni altro Paese europeo, ad eccezione della Germania.

Che dire poi dell’Europa meridionale, Grecia a parte? I funzionari europei esaltano la ripresa della Spagna, che ha fatto tutto quanto andava fatto e la cui economia ha finalmente ricominciato a crescere, creando addirittura nuovi posti di lavoro. Il concetto europeo di “successo” prevede però anche un tasso di disoccupazione che continua ad aggirarsi attorno al 23%. Anche il Portogallo ha diligentemente implementato un’austerità rigorosa, ma risulta del 6% più povero.

Come si spiegano tutti questi disastri economici in Europa? Ciò che stupisce, in realtà, è che in ogni paese la crisi sia stata innestata da cause diverse. Il governo greco ha contratto troppi debiti, ma quello spagnolo no: a segnare il suo destino sono stati piuttosto i prestiti ai privati e la bolla immobiliare. Nel caso della Finlandia sono stati determinanti il contrarsi della domanda per i prodotti del settore forestale, che sono ancora tra i suoi principali beni da esportazione, e le difficoltà del manifatturiero, in particolare della Nokia, che un tempo ne era la punta di diamante.

Ciò che queste economie hanno in comune tra loro è invece il fatto che aderendo all’eurozona si sono infilate in una camicia di forza economica. Alla fine degli anni Ottanta la Finlandia stava attraversando una crisi gravissima, che inizialmente era di gran lunga peggiore di quella che sta attraversando oggi. Tuttavia riuscì a mettere in atto una ripresa piuttosto rapida, grazie soprattutto alla forte svalutazione della propria valuta - che la rese più competitiva sul piano delle esportazioni. Purtroppo però questa volta non ha alcuna valuta da svalutare. E lo stesso vale per le altre zone problematiche dell’Europa.

Ciò significa forse che l’euro è stato un errore? Beh, sì. Questo però non equivale a dire che adesso occorrerebbe eliminarlo. La cosa urgente da fare è allentare la camicia di forza: un gesto che richiederebbe interventi su diversi fronti: da un sistema di garanzie bancarie unificato alla disponibilità a concedere una riduzione del debito ai Paesi per i quali è proprio il debito il problema. Richiederebbe, inoltre, la creazione di un ambiente complessivamente più favorevole a quei Paesi che si sforzano di far fronte alla cattiva sorte senza però sposare un’eccessiva austerità e facendo tutto il possibile per innalzare il tasso di inflazione europeo (attualmente inferiore all’1%) per riportarlo almeno all’obiettivo ufficiale del 2%.

Molti funzionari e politici europei si oppongono però a qualsiasi decisione che potrebbe far funzionare l’euro. E questo è il motivo per cui la posta in gioco nel referendum di domenica è persino più alta di quanto molti osservatori immaginino. Una vittoria del “sì” - ovvero un voto a favore delle richieste dei creditori, che boccia la posizione del governo greco e ne determina probabilmente la caduta - rischia di avvalorare e incoraggiare gli architetti del fallimento europeo. Un simile esito darà modo ai creditori di dimostrare la propria forza e la loro capacità di umiliare chiunque si opponga alle richieste di un’austerity senza fine. E di continuare ad affermare che imporre la disoccupazione di massa è l’unica via responsabile da percorrere.

E se la Grecia votasse no? In quel caso ci troveremmo su un terreno spaventoso e sconosciuto. La Grecia potrebbe abbandonare l’euro, con conseguenze immensamente destabilizzanti nel breve periodo. Tuttavia il “no”, oltre a minare l’autocompiacimento delle élite europee, fornirebbe alla Grecia anche l’opportunità di un’autentica ripresa. In altre parole, temere le conseguenze di un “no” è ragionevole, perché non si può prevedere cosa accadrebbe dopo. Ma le conseguenze della vittoria del “sì” dovrebbero spaventarci ancora di più.

Traduzione di Marzia Porta

NOBEL Paul Krugman editorialista del New York Times e premio Nobel per l’economia nel 2008

«La democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte».

R.it online, 4 luglio 2015

In quel crogiuolo di pensiero radicale e critico che fu il gruppo riunito intorno a Jeremy Bentham, nella Londra degli anni Trenta dell'ottocento, avvenne un passaggio epocale di modelli politici: dalla Roma repubblicana all'Atene periclea. Il Settecento fu romano, come ci spiegò Arnaldo Momigliano, sia quando fu mito imperiale e cesaristico sia quando fu mito repubblicano. E non fu democratico. Nonostante le rivoluzioni costituzionali settecentesche americana e francese avrebbero inaugurato la democratizzazione in occidente, esse non nacquero all'insegna della democrazia, il nome ancora allora di un pessimo governo. I padri fondatori americani pensavano con orrore alle assemblee democratiche e congegnarono rappresentanza e federalismo come strategie per imbrigliare il demos: sostituendo i delegati eletti ai cittadini in assemblea, e rompendo la sovranità nazionale nell'articolazione federale. Circa i francesi, come avrebbe scritto con la sua penna inconfondibile Carlo Marx, essi vestirono i panni degli antichi romani come a coprire la mancanza di un linguaggio loro proprio che servisse a denotare la loro rivoluzione. E come i concittadini di Catone e di Cicerore, anch'essi disdegnavano la democrazia e riponevano nella virtù dei pochi tutta la fiducia nel futuro della rivoluzione, la quale deragliò verso la tirannia dei virtuosi perché fatta nel nome di una libertà che doveva essere meritata e non lasciata a tutti.

Ci volle la paura napoleonica per svegliare i liberali dal mito o dal terrore della virtù degli antichi e farli desiderosi di studiarli gli antichi invece di imitarli o mitizzarli. A Benjamin Constant, che dopo tutto continuava a rovescio la linea mitica settecentesca quando suggeriva ai suoi lettori di abbandonare gli antichi poiché avevano poco da dire ai moderni, John Stuart Mill, il più brillante del gruppo di Bentham, contrappose una strategia più convincente: quella della ricostruzione delle istituzioni e delle procedure inventate dall'Atene democratica, da Solone e Clistene fino a Pericle e Efialte. E il suo amico George Grote, sulla cui Storia della Grecia Momigliano scrisse nel 1952 pagine esemplari, si diede a ricostruire la storia politica, religiosa, filosofica e infine istituzionale dell'Atene classica, emancipando la democrazia dall'identificazione con il governo rozzo delle masse. Ne venne fuori un quadro straordinario di immaginazione costituzionale, di raffinatezza della conoscenza dei comportamenti umani collettivi, di cui già David Hume aveva colto l'originalità. Furono gli ateniesi dunque a mettere la democrazia sui binari delle procedure di decisione e dei controlli costituzionali, non gli spartani con le loro piazze di plebisciti urlati. Furono gli ateniesi a valorizzare il voto singolo e a prestare attenzione al suo conteggio, ad abbandonare la valutazione imprecisa del grido della massa, a scegliere la strada sicura e soprattutto libera da contestazioni dell'aritmetica.

I padri della democrazia moderna, liberale e costituzionale, furono dunque riattratti dalla Grecia antica, ma non per farne un mito irripetibile e pre-moderno, bensì per farne a tutti gli affetti il primo e fondamentale capitolo della storia dei moderni, che cominciava, ha spiegato Josiah Ober con la pratica democratica come "potere di fare succedere le cose insieme", non potere bruto, ma potere regolato da procedure e norme, dalla selezione per mezzo della lotteria all'elezione dei leader, alla diretta decisione popolare in assemblea. Una democrazia che escogitò sistemi di controllo delle proposte di legge (e dei proponenti) e delle leggi approvate; che, come Aristotele scrisse, sapeva assegnare ai pochi un ruolo nel governo dei molti.

A questa democrazia costituzionale, Mill e i liberali inglesi dell'ottocento si rivolsero per comprendere in che cosa la democrazia moderna era diversa da quella antica. E videro che tre furono le ragioni di superiorità dei moderni: l'invenzione della rappresentanza, l'emancipazione femminile e la liberazione del lavoro schiavo. Tre condizioni che rendevano la democrazia moderna capace di superare quella antica realizzando meglio il suo principio dell'eguaglianza politica. Quel modello, quella forma di governo per la quale, disse Pericle nell'orazione funebre, tutto il mondo ci ammira, ha ancora tanta forza simbolica da farci partecipare empaticamente ai destini di questo popolo che vuole riprendere Europa per impedire che nuovi despoti la conquistino. La priorità della politica su tutte le sfere sociali sta in questo mito che è squisitamente europeo perché e in quanto mito greco di una vita pubblica politica. Nelle parole di Aristotele, ai cui scritti la scienza e la pratica politica europee sono debitrici, la democrazia é un modo politico di vivere insieme nel quale tutti hanno un egual condivisione di potere e autorità di parola e di giudizio pubblico. Senza di che ci sono relazioni di dominio, come nelle satrapie orientali; senza di che non c'é posto per le mediazioni e le trattative, ma solo per la subordinazione a scelte imposte.

Intervistato da Giulio Azzolini il sociologo american interviene a favore delle ragioni della Grecia di Tsipras e afferma «se fossi greco voterei no. Meglio poveri che sudditi dei poteri forti». La Repubblica, 5 luglio 2015

«OGNI giorno che passa dimostra come le élite politiche e burocratiche europee siano del tutto cieche sia sulle cause della crisi economica greca sia sulle sue possibili soluzioni. Sono abbagliate dalla stessa ideologia che nel 2008 ha portato alla crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti: il neoliberismo. Ancora una volta si bada al guadagno di breve termine e non si scorgono gli effetti di lungo periodo delle proprie scelte. Evidentemente, sbagliando, non sempre si impara ». Questa l’impietosa diagnosi del sociologo americano Richard Sennett, professore alla New York University e alla London School of Economics, che da tempo denuncia i vizi di una politica ripiegata sul presente.

Professor Sennett, che cosa sarebbe l’Europa senza la Grecia?
«L’eventuale uscita della Grecia dall’eurozona non implicherebbe soltanto delle gravi ripercussioni sul piano economico. Avrebbe anche e soprattutto un immenso significato simbolico. Al netto della complessità e delle differenze, l’Unione europea ha senso soltanto come progetto politico ben radicato in una cultura condivisa. E la radice di questa cultura non può che essere la Grecia e l’idea di democrazia. Se l’Europa lo dimentica, è fatale che finisca in mano a banchieri e burocrati».

Se siamo arrivati a questo punto, però, una parte di responsabilità grava anche sui governi greci
«È vero, ma secondo me oggi il vero problema non è tanto il debito, che in termini assoluti sarebbe stato facilmente gestibile dalla Ue. Il vero problema, quello che ci ha condotto fin qui, sono la Troika e la cultura neoliberista che porta avanti. Il capitalismo finanziario mette in ginocchio non più soltanto il lavoro, ma anche la politica. Al punto che gli Stati rischiano di fallire come un’azienda qualsiasi. Per scongiurare quest’esito, dal 2010 la Grecia sta attuando le ricette imposte dal Fondo Monetario e il risultato è chiaro a tutti: un’economia ancora più depressa».

Non ritiene che il premier greco, convocando il referendum, sia venuto meno alle proprie responsabilità?
«No. Credo invece che il referendum rappresenti sempre, e tanto più in questo caso, una positiva occasione di esercizio della sovranità popolare. Non mi faccio illusioni sulle conseguenze del voto. So bene che se vincesse il “no” e la Grecia uscisse dall’eurozona, i cittadini greci incorrerebbero in una fase di sofferenza terribile, simile a quella subita dall’Argentina qualche anno fa. Sarebbe un disastro economico per tutte le fasce sociali, specie per quelle più deboli. Eppure, se io fossi un elettore greco, voterei sicuramente per il “no”. Non è più tollerabile essere comandati da un potere illegittimo. Meglio poveri che sudditi».

Pensa che le conseguenze politiche ed economiche del voto si faranno sentire anche nel resto d’Europa?
«Credo che tutte le economie più fragili dell’eurozona, Portogallo in testa, saranno esposte al rischio di un contagio finanziario. Ma ciò che più mi preoccupa sono i contraccolpi politici di quanto sta accadendo. In Gran Bretagna, ad esempio, un eventuale default greco offrirebbe l’ennesimo argomento a chi sostiene che il progetto dell’Unione Europea è insostenibile. La sfiducia cresce. E allora dopo Grexit, è probabile che esploda il pericolo Brexit».

Il manifesto, 4 luglio 2015 (m.p.r.)

Qua­lun­que sarà l’esito della vicenda greca se ne pos­sono già trarre nume­rosi inse­gna­menti. Per l’oggi e per il tempo a venire. Nono­stante una mar­tel­lante cam­pa­gna media­tica che mira ad anno­ve­rare il governo di Atene tra i popu­li­smi anti­eu­ro­pei, affian­can­dolo alla Polo­nia o a Marine Le Pen (qual­cuno ha voluto per­fino sco­mo­dare l’impero d’Oriente e la fede orto­dossa), quella greca è pro­ba­bil­mente la prima lotta demo­cra­tica euro­pea e per l’Europa alla quale abbiamo assistito.

La prima volta in cui la tenuta dell’Unione viene affron­tata nella sua dimen­sione poli­tica, eco­no­mica e sociale. E l’occasione nella quale è venuto pie­na­mente in luce il rifiuto delle isti­tu­zioni e dei governi euro­pei di fare i conti con que­sta “tota­lità”, nono­stante gli enormi rischi che incom­bono sul pro­cesso di unificazione.

Il lungo pro­cesso nego­ziale tra Atene e le “isti­tu­zioni” non è stato che un esa­spe­rante gioco di fin­zioni poi­ché i dogmi, com’è noto, non sono nego­zia­bili e l’Europa è pri­gio­niera di una dog­ma­tica neo­li­be­ri­sta che, per defi­ni­zione, non può essere smen­tita dai suoi effetti nella realtà. Per quanto disa­strosi pos­sano rivelarsi.

Soprat­tutto nella sua ultima fase la trat­ta­tiva ha assunto i tratti incon­fon­di­bili della lotta di classe: i conti non devono tor­nare in un modo o nell’altro, ma solo man­te­nendo inal­te­rati (e pos­si­bil­mente ancor più squi­li­brati) i rap­porti tra le classi sociali. Le cor­re­zioni del Fmi al piano pro­po­sto da Atene non mostrano il minimo sforzo di masche­rare que­sta cir­co­stanza. Si ricor­derà che in anni ormai piut­to­sto lon­tani, nella tra­di­zione social­de­mo­cra­tica, le “riforme di strut­tura” indi­ca­vano una tra­sfor­ma­zione in senso sociale e mag­gior­mente inclu­sivo del sistema eco­no­mico e poli­tico. Oggi signi­fi­cano l’esatto con­tra­rio. Ragion per cui devono essere messe al riparo da pos­si­bili inter­fe­renze dei pro­cessi democratici.

Le social­de­mo­cra­zie euro­pee, enfa­tiz­zando i lati peg­giori della loro sto­ria, coniu­gando l’autoreferenzialità burocratico-amministrativa con la zelante ade­sione ai prin­cipi dell’accumulazione neo­li­be­ri­sta sono diven­tate il prin­ci­pale nemico della demo­cra­zia. In un duplice senso: o occu­pan­done diret­ta­mente lo spa­zio con il pro­prio deci­sio­ni­smo tec­no­cra­tico, o con­se­gnando i ceti popo­lari alle destre nazio­na­li­ste. Non si richie­dono par­ti­co­lari doti pro­fe­ti­che per imma­gi­nare nul­lità quali Hol­lande e Renzi men­di­care ben pre­sto il “voto utile” di fronte all’onda mon­tante delle destre. In uno scon­tro immi­nente, dagli esiti incerti, tra una Unione inso­ste­ni­bile e i nemici giu­rati dell’Europa.
Di fronte a que­sto pro­ba­bile sce­na­rio dovrebbe essere chiaro che Tsi­pras rap­pre­senta per ora, nel suo iso­la­mento, (almeno a livello di governi) l’unica chance dispo­ni­bile in difesa dell’Unione euro­pea. Tanto si discute dei rischi di un Gre­xit sul fronte della spe­cu­la­zione finan­zia­ria, tanto poco se ne ragiona su quello della spe­cu­la­zione poli­tica. Salvo abban­do­narsi di tanto in tanto alle solite sce­menze reto­ri­che sulla “culla della civiltà occi­den­tale”. Sta di fatto che le isti­tu­zioni euro­pee (e i governi nazio­nali che impon­gono loro di rispet­tarne la gerar­chia e i rap­porti di forze) con­di­vi­dono con le destre nazio­na­li­ste un punto deci­sivo: non può esservi altra Europa all’infuori di que­sta e dei suoi equi­li­bri di potere. Tanto che la si difenda quanto che la si avversi. Di qui la con­clu­sione che il ten­ta­tivo della Gre­cia è con­tro il prin­ci­pio di realtà.

Tut­ta­via, poi­ché nell’opinione pub­blica del vec­chio con­ti­nente, e in non poche ini­zia­tive di lotta, i dogmi della gover­nance neo­li­be­ri­sta euro­pea comin­ciano a per­dere cre­dito, sulla vicenda greca (e non solo) pio­vono le più incre­di­bili men­zo­gne. I greci che vanno tutti in pen­sione a 50 anni (misura cir­co­scritta che riguarda sog­getti ana­lo­ghi ai nostri eso­dati in un paese dove il 26 per cento di disoc­cu­pa­zione rende le pen­sioni un sostan­ziale stru­mento di soprav­vi­venza) fanno il paio con i “clan­de­stini” negli alber­ghi a 5 stelle. Ai cit­ta­dini euro­pei, presi ormai per scemi dalla mat­tina alla sera, si lascia inten­dere che recu­pe­rare l’irrecuperabile debito greco, ripor­terà quei soldi (sia pure indi­ret­ta­mente) nelle loro tasche e non in quelle della grande ren­dita finan­zia­ria. Biso­gna essere otte­ne­brati dalla birra e dalla tele­vi­sione per con­si­de­rarsi “azio­ni­sti” del pro­prio (ava­ris­simo) stato nazio­nale, secondo la mito­lo­gia attri­buita al con­tri­buente tede­sco. Quanto agli altri paesi inde­bi­tati (con tassi di disoc­cu­pa­zione che non si muo­vono di una vir­gola) è una gran corsa a taroc­care impro­ba­bili risul­tati per dimo­strare quanto siano distanti dalla Gre­cia, se non addi­rit­tura in una botte di ferro.

Que­sto ter­ro­ri­smo ci sospinge a pen­sare che a vin­cere (si fa per dire) la par­tita sarà chi è in grado di incu­tere mag­giore paura. Del resto non è una novità. Le classi subal­terne non hanno mai otte­nuto nulla se non quando sono state in con­di­zione di ter­ro­riz­zare la classe domi­nante. Tutta la sto­ria del Nove­cento ne è testi­mone. Da molto tempo non accade. Governi e gover­nati, lavo­ra­tori e pre­cari sotto ricatto non rap­pre­sen­tano più una minac­cia per le oli­gar­chie. Ma, per la prima volta, la vit­to­ria di Syriza, il brac­cio di ferro con le “isti­tu­zioni”, infine il Refe­ren­dum, fanno paura. Tal­mente tanta paura che anche i fal­chi si affret­tano a soste­nere che una vit­to­ria del no non signi­fi­cherà neces­sa­ria­mente la fine del nego­ziato, anche se lo ren­de­rebbe sem­pre più dif­fi­col­toso. Certo, la paura cre­sce­rebbe, tra­sfor­man­dosi in una forza vin­cente, se in tutta Europa si cogliesse l’occasione per mobi­li­tarsi con­tro l’ideologia e la pra­tica del neo­li­be­ri­smo che oggi la governa negando ogni alter­na­tiva. Non è insomma que­sto un nuovo accenno di “grande poli­tica”? Quella che inve­ste gli inte­ressi domi­nanti capar­bia­mente inca­paci di ogni com­pro­messo? Se, tra tante, vi è una ragione sin­te­tica per dire no ai dik­tat è che que­sto “no” incute final­mente timore a quanti desi­de­rano e con­ce­pi­scono la “sta­bi­lità” come tacita sot­to­mis­sione alle oli­gar­chie e alla ren­dita finan­zia­ria. Un no per l’Europa.

a Repubblica, 4 luglio 2015

Diceva Machiavelli che “assaltare una città disunita, per occuparla mediante la sua disunione, è partito contrario”, cioè può produrre il risultato opposto: quello di unire e rendere compatto il popolo diviso. Forse il referendum greco potrebbe dimostrare la verità di questa osservazione. Vedremo, tra pochi giorni e ore. Ma la domanda avrebbero potuto e forse dovuto porsela gli statisti tedeschi e i loro ossequenti alleati europei e magari velare meglio l’aggressione nei confronti del regime greco. Mai come in questo caso la regola della non ingerenza negli affari interni degli stati membri è stata così trasgredita. Tutti i capi di governo si sono schierati in maniera massiccia per il sì e contro Tsipras fin dal primo giorno. I media si sono uniformati. Assistiamo a episodi perfino grotteschi, come quello dell’inviato Rai che intervista cinque greci e vedi caso, scopre che tutt’e cinque sono decisi a votare sì. La disinformazione si unisce alle tante falsificazioni dei fatti: ad esempio, non è vero che la scelta sarà fra la dracma e l’euro, come ha sveltamente sintetizzato il premier Renzi.

Ma il nostro dovere, di tutti noi cittadini degli stati dell’unione europea, non è chiederci che cosa faranno gli elettori greci: la domanda è che cosa faranno le autorità che ci governano — la Germania di frau Merkel, il Fondo monetario internazionale — se e quando saranno riuscite a raggiungere il loro intento, cioè a delegittimare Syriza e il premier Tsipras. Perché una cosa è evidente: la natura politica e non economica o finanziaria dello scontro. Fin dall’inizio il governo espresso dalle elezioni greche ha dovuto fare i conti con un’ostilità fortissima. La stampa tedesca è stata perfino capace di superare il limite degli insulti personali nel descrivere l’abbigliamento del ministro Varoufakis. Dobbiamo all’attenzione non imparziale del Wall Street Journal se dalle zone nascoste della battaglia è emerso il documento delle proposte greche e delle correzioni con pennarello rosso di Bruxelles: un documento impressionante, una nuova versione della favola del lupo e dell’agnello. Non imparziale l’editore, certo: tutti sanno quanto siano grandi i problemi che gli conquassi europei e la crescita della superpotenza tedesca stanno creando alle esigenze strategiche e finanziarie di quella americana. Ma intanto quelle che ci toccano sono le conseguenze di una eventuale umiliazione referendaria per il governo greco: se ci sarà, non per questo i vincitori avranno risolto il problema fondamentale, quello di una costruzione sbagliata in grave e generale crisi.
L’errore grave, tremendo, come dovrebbe riconoscere oggi qualche responsabile che invece ancora cinguetta sui giornali, è stato quello di una unione monetaria a cui non ha corrisposto un’unione politica. L’Europa non è uno stato federale. Come ricordava l’altro ieri Paul Krugman spiegando perché è stato un errore tremendo, in un vero stato federale come gli Stati Uniti quando in Florida scoppia una bolla immobiliare è Washington che protegge automaticamente gli anziani contro ogni rischio per le loro cure mediche e i loro depositi bancari. In questa Europa anziani e malati e tutte le altre categorie dell’umanità debole sono vittime di misure di austerità imposte da una burocrazia politico-finanziaria tecnicamente irresponsabile all’insegna di un liberismo di facciata, con l’ossessione del fantasma dei diritti umani e politici, quelli dei lavoratori e dei migranti in primo luogo.
E oggi le misure che si vorrebbero imporre alla Grecia garantiscono che il crollo diverrà spaventoso e che non sarà solo la popolazione greca a pagarne il conto. Una vittoria di Pirro, se ci sarà: non solo perché i costi finanziari sono stati altissimi, di centinaia di volte superiori agli spiccioli necessari alla Grecia per andare avanti pagando il suo debito in scadenza. Ma perché vincere una battaglia aggraverà il problema di come convincere, lascerà aperta e più incerta la guerra per la costruzione di una vera Europa. Resterà il fatto dell’aver umiliato e spezzato il morale di un popolo che porta nel suo nome l’immenso capitale simbolico di avere inventato la democrazia e l’Europa. Diceva il grande storico del mondo antico, Arnaldo Momigliano, che se non fosse stato per la Grecia delle Termopili, per Maratona e Salamina (vi combatté un soldato che si chiamava Socrate), non ci sarebbe stata nessuna Europa: saremmo tutti sudditi di qualche deposta asiatico.
Postilla
E la storia si ribalterebbe: saremmo tutti sudditi di un qualche despota globale.
«Atene. Oceanica manifestazione a sostegno dell’oxi: «Respingiamo il ricatto». Il premier greco parla da vincitore "L’Europa che vogliamo non è quella degli ultimatum", ma un continente che "torni ai suoi principi fondativi". Sul palco Podemos e la Linke».

Il manifesto, 4 luglio 2015

Basta un colpo d’occhio dall’alto del palco di piazza Syn­tagma, al calar del sole, a squar­ciare all’improvviso la neb­bia che da giorni avvol­geva la vigi­lia del refe­ren­dum greco: una cor­tina fumo­gena fatta di inge­renze inde­bite dei lea­der euro­pei, ridi­co­liz­za­zione delle richie­ste gre­che all’Eurogruppo e dello stesso voto di dome­nica, pre­sen­tato come una scelta tra euro e dracma o tra euro­pei­sti e anti­eu­ro­pei­sti, titoli di gior­nale allar­mi­stici e bat­tage tele­vi­sivo a favore del sì.

La marea umana che si estende a per­dita d’occhio nell’enorme piazza e nelle arte­rie cir­co­stanti, senza solu­zione di con­ti­nuità fino a piazza Omo­nia, dice una cosa sola: il governo di Ale­xis Tsi­pras non è solo e il popolo che gli aveva dato fidu­cia appena cin­que mesi fa è sem­pre con lui. Anzi, è pronto a far­gli qua­drato attorno. Non sarà facile sba­raz­zar­sene, comun­que vada a finire dome­nica (e a que­sto punto sorge più di un dub­bio su son­daggi e pre­vi­sioni della vigi­lia, l’ultimo dif­fuso ieri da un gior­nale di cen­tro­de­stra, To Eth­nos, che dava il sì leg­ger­mente in vantaggio).

Quando sale sul palco in cami­cia bianca con i pol­sini arro­to­lati quasi fino al gomito, alle 21,50, Ale­xis Tsi­pras è con­sa­pe­vole del fatto che la prova di forza con il fronte del sì, radu­nato nel vicino Sta­dio del marmo, era ampia­mente vinta. Così, ha potuto tra­sci­nare la folla uti­liz­zando la stessa parola-simbolo della cam­pa­gna elet­to­rale dello scorso gen­naio: «elpida», «spe­ranza», la stessa parola che gli aveva con­sen­tito di scon­fig­gere pochi mesi fa «la poli­tica della paura» uti­liz­zata dagli avver­sari per pro­vare a non farlo vin­cere e ora ripro­po­sta in maniera ancora più bru­tale. Quello del pre­mier greco è un discorso da vin­ci­tore: «Popolo greco, oggi non pro­te­stiamo, festeg­giamo la vit­to­ria delle demo­cra­zia e man­diamo un mes­sag­gio di orgo­glio che nes­suno può invo­care», comin­cia. Poi, come nel pome­rig­gio in tele­vi­sione, incita i greci a «pren­dere il destino nelle pro­prie mani», per­ché «l’Europa che vogliamo non è quella degli ulti­ma­tum» ma un con­ti­nente che «torni ai suoi prin­cipi fon­da­tivi». Per que­sto «dome­nica man­de­remo un mes­sag­gio di egua­glianza e dignità», affonda il colpo.

In dieci minuti appena di discorso in mani­che di cami­cia, Tsi­pras non lesina qual­che stoc­cata a Jean Claude Junc­ker, Angela Mer­kel e il suo mini­stro del Tesoro Wol­fgang Schau­ble, rap­pre­sen­tato col volto truce nelle strade di Atene sui mani­fe­sti che inci­tano a votare no: «Nes­suno ha il diritto di dire che toglierà la Gre­cia dal suo spa­zio natu­rale», manda a dire ai fal­chi dell’austerità. Per que­sto invita «il popolo greco», che «ha dimo­strato molte volte di saper rispe­dire al mit­tente gli ulti­ma­tum», «a dire un grande e orgo­glioso no» anche a quest’ultimo, il più indecente.

Infine, prima di reci­tare alcuni versi di una poe­sia di Yan­nis Ritzos sul «pic­colo popolo senza spada né pal­lot­tole che com­batte per il pane di tutti», ben con­scio della deli­ca­tezza del momento, spende qual­che parola per smor­zare la ten­sione: «Lunedì, qual­siasi sarà il risul­tato, dob­biamo dire no alla divi­sione tra i greci». Unità, come aveva fatto appello in chiu­sura di cam­pa­gna elet­to­rale alla fine di gennaio.

Già nel pome­rig­gio, di fronte all’intensificarsi del bom­bar­da­mento media­tico e della pro­pa­ganda a favore del sì, Tsi­pras aveva deciso di lan­ciare un breve mes­sag­gio alla tele­vi­sione: «Dite no a ricatti e ulti­ma­tum, deci­dete con calma il vostro futuro», aveva detto alla popo­la­zione greca con l’obiettivo di tran­quil­liz­zarla. Durante la gior­nata era stata un’escalation di allarmi e pres­sioni: vec­chi arnesi della poli­tica greca, respon­sa­bili dell’indebitamento del paese come l’ex pre­mier Kostas Kara­man­lis, rima­sto in silen­zio durante tutti gli anni della crisi e dei Memo­ran­dum, che lan­cia­vano appelli per il sì, un gior­nale vicino alla destra che tito­lava su un pre­sunto pre­lievo dai risparmi supe­riori ai 20 mila euro, i ban­chieri che soste­ne­vano di avere liqui­dità fino a lunedì, per­fino una com­pa­gnia tele­fo­nica che si è messa a rega­lare minuti a chi inviava un mes­sag­gio con scritto «sì». Men­tre la Corte Costi­tu­zio­nale aveva dichia­rato valido il que­sito e smon­tato pure l’ultimo ten­ta­tivo di impedirlo.

Non è escluso che la ricom­parsa nell’agone poli­tico di per­so­naggi scre­di­tati e le fasti­diose inge­renze dei lea­der euro­pei nella cam­pa­gna refe­ren­da­ria, unite alla sen­sa­zione che l’Europa voglia asfis­siare la Gre­cia per arri­vare a un «regime change», abbiano gio­cato un ruolo nega­tivo per i soste­ni­tori del sì, facendo loro per­dere con­sensi piut­to­sto che guadagnarli.

In ogni modo, il pre­mier si è deciso a non limi­tarsi al pre­vi­sto comi­zio serale in piazza Syn­tagma e ha par­lato a tutti i greci, pre­ci­sando che «il refe­ren­dum non è sulla per­ma­nenza della Gre­cia nell’euro» e facen­dosi forza del fatto che anche il Fmi ha ammesso l’insostenibilità del debito elle­nico, con la pre­vi­sione un taglio del 30 per cento e la dila­zione del rima­nente 70 per cento in vent’anni: «Ha giu­sti­fi­cato la nostra scelta di non accet­tare un accordo che ignora il tema fon­da­men­tale del debito». Anche se stra­na­mente, ha fatto notare Tsi­pras, que­sto rap­porto «non è mai stato con­di­viso con le isti­tu­zioni nei cin­que mesi in cui abbiamo negoziato».

La boc­cia­tura del piano dei cre­di­tori rischia a que­sto punto di met­tere in pesante discus­sione pro­prio la lea­der euro­pea che voleva toglierlo di mezzo, e con lui le rina­scenti vel­leità delle sini­stre euro­pee, non a caso pre­senti in gran spol­vero sul palco di piazza Syn­tagma: un rap­pre­sen­tante della Linke strappa applausi quando dice «voi fate la vostra bat­ta­glia qui e noi faremo la nostra in Ger­ma­nia», ova­zione per Miguel Urban di Pode­mos che il pros­simo autunno potrebbe con­qui­stare la Spa­gna dopo aver già preso Madrid e Bar­cel­lona. Spa­zio pure a un mes­sag­gio di Gerry Adams per lo Sinn Fein, ai ciprioti dell’Akel, ai Verdi e a una espo­nente del cen­tro sociale Dik­tio di Exar­chia che tra­scina la folla reci­tando tutti i «no» dei movi­menti sociali. «La vit­to­ria del no signi­fi­cherà avere più forza sul tavolo dei nego­ziati» e non una fuga dall’Europa, ha detto Tipras. Da lunedì potrebbe avere ragione.

La presidente della nostra Camera dei deputati e il presidente dell'Assemblée nationale francese convergono nel giudicare insensata la politica dei terroristi di Bruxelles ai danni della Grecia e del Terzo mondo in fuga dalla miseria e dalla morte.

La Repubblica, 4 luglio 2015

È insensato continuare a chiudere gli occhi sul fatto che l’Europa, incapace di consolidare la propria integrazione politica e di proiettarsi nel futuro, rinuncia a se stessa. Due crisi di queste settimane dimostrano con chiarezza che non siamo sulla strada giusta.

Vi è in primo luogo la vicenda euro-greca, giunta ormai al suo drammatico parossismo con il referendum. Come si è potuto arrivare a questo punto? Come spiegare che non siamo riusciti a trovare un terreno d’intesa con le autorità di un’area economica che incide solo per il 2 per cento del Pil dell’Unione? Al tempo stesso, è giocoforza constatare che le politiche messe in atto negli anni scorsi dalla “troika” — Commissione europea, Banca Centrale europea, Fondo Monetario internazionale — sono fallite. Guardando ai risultati, si potrebbe anzi affermare che siano state attuate a svantaggio della Grecia: il Pil greco, che nel 2008 era solo 7 punti percentuali sotto la media Ue, nel 2013 è crollato a meno 28. Come si fa, in questo contesto, a chiamare “aiuti” degli interventi dagli effetti così devastanti sulla vita dei greci? Il medico ha sbagliato terapia, ma si accanisce sul paziente, e poco importa se il suo assistito rischia la vita! Non è solo un modo di dire: il numero di bambini abbandonati negli orfanotrofi greci è triplicato in pochi anni, un terzo della popolazione non ha copertura sanitaria e il potere di acquisto è diminuito del 40 per cento. Non è ammissibile che la consapevolezza di queste cifre non influisca sulle politiche economiche dell’Ue. E questi dati rendono altrettanto inammissibili le dichiarazioni di certi responsabili europei, che fingono di stupirsi che gran parte della popolazione greca respinga il regime che le viene imposto.

C’è poi la sfida dell’immigrazione, che ha ormai preso posto nel dibattito continentale come un tema ineludibile, che cristallizza le tensioni e lascia campo libero a ogni sorta di fantasmi. Anche in questa materia, se si analizzano oggettivamente i numeri, c’è da rimanere sconcertati. L’Unione europea viene descritta come assediata per aver ricevuto l’anno scorso, nei suoi 28 Paesi, 626mila domande d’asilo. Un continente che, nonostante la crisi, rappresenta l’economia più ricca del mondo, sarebbe messo in ginocchio — secondo campagne politiche di cui non serve svelare i secondi fini — dall’un per cento, o poco più, di quei circa 60 milioni di persone che sono costrette all’esilio da guerre e persecuzioni. Questo popolo senza terra e senza nome, il cui numero è pari a quello degli abitanti dell’Italia e di poco inferiore a quelli della Francia, l’Europa la lambisce appena, e invece si riversa in modo massiccio sui Paesi più vicini alle aree di crisi. Sono il Libano, la Giordania e la Turchia, che ospitano milioni di rifugiati siriani, a poter parlare legittimamente di emergenza. Possono farlo l’Iran e il Pakistan, che accolgono milioni di afghani. Ma come possiamo, noi qui, gridare all’invasione? Il dramma sono i migranti a conoscerlo, non certo noi. Che le migrazioni rappresentino una sfida per i nostri paesi è indiscutibile; ma abbiamo anche tutti i mezzi per affrontarla. Invece di assumerci serenamente le nostre responsabilità, rimaniamo inerti, afflitti e imbarazzati davanti alle immagini che ci arrivano da Ventimiglia: poche centinaia di persone sono diventate — incredibilmente — materia di tensione tra Italia e Francia, mentre basterebbe che ogni Stato dell’Unione accettasse di fare la sua parte.

Vedendoci lacerare, ripiegarci su noi stessi e rimanere fermi, che cosa penserebbero di noi Spinelli, Schuman e Adenauer? Come reagirebbero, scoprendo che su quegli scogli di confine si è incagliata, schiantata l’idea che loro seppero concepire in anni d’autentica tragedia, e far crescere tra le macerie del dopoguerra? Ricordiamoci che l’Europa esiste anche attraverso i principi che essa fa vivere: perché è il continente dei diritti, del rispetto della dignità umana, della solidarietà verso chi è in difficoltà. Questo ci ha resi grandi nel mondo, questo è un punto di riferimento per tutti coloro che abbiano a cuore libertà e giustizia sociale.

Dimenticare questa storia, non sentirne l’orgoglio, non è soltanto un tradimento. È anche una clamorosa dimostrazione di miopia e autolesionismo. Perché in un mondo globalizzato le questioni irrisolte — che si tratti dell’economia greca o dei conflitti dai quali fuggono i rifugiati — hanno e continueranno ad avere su di noi ripercussioni dirette, che ci piaccia o no. Sta a noi decidere se vogliamo affrontare queste sfide governandole con lucidità, lavorando sulle soluzioni, e dunque investire su un’Unione più solidale, al proprio interno e verso l’esterno, un’Unione politica, pienamente politica. Oppure se intendiamo seguitare ad agitarci senza andare avanti. Il che significa cedere di fronte ai tanti populismi che sulla crisi economica e la retorica xenofoba stanno costruendo le proprie fortune, e accettare che sulle rovine dell’ideale europeo volteggino soddisfatti i costruttori di muri. Siccome siamo degli ottimisti irriducibili, crediamo che sia possibile imboccare con decisione la prima strada. Speriamo che le due prove cui è sottoposta oggi la nostra Unione spingeranno ciascuno degli Stati membri a cogliere la misura dell’emergenza europea.

Laura Boldrini è Presidente della Camera dei Deputati Claude Bartolone è Presidente dell’Assemblea Nazionale francese

«I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato».

La Repubblica, 4 luglio 2015 (m.p.r.)

I libri proibiti adesso sono chiusi in scatoloni sigillati e pronti per essere nascosti chissà dove. Così come aveva ordinato il nuovo sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, non appena insediato. La censura ha colpito con solerzia. Via dalle scuole della laguna tutti i libri che parlano di “gender, o di genitore 1 e genitore 2” diceva frettolosamente la breve circolare inviata ai dirigenti scolastici. Strana definizione per albi illustrati destinati ai bambini dei nidi e delle materne, liberamente in vendita in tutte le librerie italiane, e dove i protagonisti sono oche, orsi, topi, principesse, elefanti, gatti, famiglie, madri e padri. Ma il risultato, grottesco, e già finito sui giornali stranieri, è che sotto la scure del presunto “gender” sono finiti ben 49 titoli delle migliori case editrici per ragazzi.

Capolavori per l’infanzia come Piccolo blu e piccolo giallo di Leo Lionni, scrittore e illustratore celebre e amatissimo, dove due colori tanto diversi sono così profondamente amici, da mescolarsi per creare il verde...Difficile comprendere il messaggio eversivo di questo abbraccio cromatico. Tanto che contro la “lista di proscrizione”, dove si narra anche di (pericolose) ninne nanne per far addormentare i bebè, si sono mobilitati autori, editori, cittadini, librai, bibliotecari, con letture in piazza, flash mob, e campagne via Facebook dal titolo “Liberiamo i libri”. Durissima l’Associazione Italiana Scrittori per l’Infanzia, che parla di «prassi autoritaria che ha visto luce soltanto nei periodi più bui della storia delle dittature». Sottolineando come nella caccia al libro pericoloso ordinata dal nuovo sindaco di centrodestra, siano rimasti intrappolati volumi di ogni tipo, e assi poco “gender”. Dai lupi intelligenti di Mario Ramos ai figli dell’adozione di Amaltea, e altri cult della letteratura da zero a sei anni, da Orecchie di farfalla al Pentolino di Antonino di Isabel Carrer, delicata storia di un bambino disabile.

«Mi ha chiamato da New York Annie, la nipote di Leo Lionni, per chiedermi sbalordita come mai fossero stati censurati in Italia i libri del nonno», racconta Francesca Archinto, direttrice editoriale di “BabaLibri”, che ha diversi titoli “all’indice” nella lista veneziana. «È incredibile che la politica cerchi di controllare la cultura, in quegli albi illustrati c’è la vita reale, i bambini non possono ignorare che esistono diversi tipi di famiglie, e nelle scuole c’è il bullismo, e il razzismo esiste », incalza Francesca Archinto. «Che senso ha censurare una storia come Il segreto di Lu, dove si parla di soprusi a scuola? Francamente penso che il sindaco di Venezia non conosca i libri per bambini, e soprattutto la lista di titoli che ha messo al bando». Difficile ad esempio rintracciare il fantasma del “gender” nel I papà bis. Nei libri all’Indice per il gender anche i capolavori dell’infanzia storia di una famiglia ricomposta dopo un divorzio. Come accade in Italia a 174 coppie ogni mille matrimoni.

Però è vero, in questa lista di libri si parla molto di “famiglie” al plurale, raccontando, ad esempio nel famoso Piccolo uovo edito da Stampatello e disegnato da Altan, di tutte le forme di genitorialità attuali, comprese quelle “omo” e arcobaleno. Ideatrice del progetto “Leggere senza stereotipi”, è Camilla Seibezzi, già delegata ai Diritti Civili del Comune di Venezia. «Ma quei titoli furono scelti da una équipe di pedagogisti e psicologi e consegnati alle scuole dopo un corso di formazione per gli insegnanti. Dunque con estrema cautela». Sommerso dalle critiche Brugnaro ha adesso annunciato che sui libri proibiti verrà fatta un’analisi ulteriore, e forse alcuni saranno “liberati”. Replica Camilla Seibezzi: «Se accettiamo che anche solo uno dei 49 libri di favole venga censurato la battaglia è giá persa e la democrazia è venuta meno, perché la scuola pubblica ha il dovere di rappresentare e tutelare tutti i bambini e non una sola parte».

Qual­siasi fosse la nostra scelta di dome­nica, lunedì nulla ci divi­derà. Nes­suno mette in dub­bio la per­ma­nenza del paese in Europa».

Il manifesto, 4 luglio 2014 (m.p.r.)

Il momento della demo­cra­zia e della respon­sa­bi­lità è arri­vato. È ora che le sirene dell’allarmismo e del disfat­ti­smo tac­ciano. Quando un popolo prende il futuro nelle pro­prie mani non ha niente da temere. Andiamo tutti alle urne con calma e fac­ciamo la nostra scelta, valu­tando gli argo­menti e non gli slogan.

Ieri è acca­duto un fatto di grande impor­tanza poli­tica. È stato pub­bli­cato il rap­porto del Fmi per l’economia greca. Un rap­porto che ha reso giu­sti­zia al governo greco, per­ché con­ferma quanto è ovvio, cioè che il debito greco non è soste­ni­bile. Loro stessi dicono che l’unico modo per ren­dere soste­ni­bile il debito e per aprire la strada alla ripresa sia quello di pro­ce­dere a un taglio del debito del 30%, con­ce­dendo un periodo di gra­zia di 20 anni. Que­sta posi­zione, però, i cre­di­tori non l’hanno mai espo­sta al governo greco durante i 5 mesi della trat­ta­tiva. Anche nella pro­po­sta finale delle isti­tu­zioni, quella che dome­nica il popolo viene chia­mato ad appro­vare o respin­gere, ogni posi­zione simile è assente.

Il rap­porto del Fmi rende giu­sti­zia alla nostra scelta di non accet­tare un accordo che ignora il grande pro­blema del debito. In poche parole, il prin­ci­pale ispi­ra­tore del memo­ran­dum viene adesso a con­fer­mare la nostra giu­sta valu­ta­zione, ovvero che la pro­po­sta che ci viene data non porta a un’uscita dalla crisi. Cer­chiamo allora di capire, tutti noi. Dome­nica non si decide sulla per­ma­nenza della Gre­cia in Europa.

Si decide se, sotto ricatto, dob­biamo accet­tare il pro­se­gui­mento di una poli­tica senza via d’ uscita, come ormai ammet­tono i suoi stessi ideatori.

Dome­nica si decide se dob­biamo dare il nostro accordo alla morte lenta dell’economia e all’impoverimento della società, se dob­biamo accon­sen­tire a tagliare ulte­rior­mente le pen­sioni, per ripa­gare un debito non soste­ni­bile coi risparmi dei pen­sio­nati, o, se, con deter­mi­na­zione, dob­biamo raf­for­zare il nostro potere nego­ziale, per rag­giun­gere un accordo che ponga defi­ni­ti­va­mente fine a que­sto cata­stro­fico quinquennio.

Gre­che e greci, ora che ci divide poco tempo dall’apertura delle urne, dob­biamo tutte e tutti mostrarci respon­sa­bili, rispet­tando le opi­nioni con­tra­rie alle nostre, e affron­tare uniti il nostro comune futuro.
Qual­siasi fosse la nostra scelta di dome­nica, lunedì nulla ci divi­derà. Nes­suno mette in dub­bio la per­ma­nenza del paese in Europa. Il ‘no’ ad un accordo non soste­ni­bile non signi­fica rot­tura con l’Europa. Signi­fica pro­se­gui­mento dei nego­ziati in con­di­zioni migliori per il popolo greco.

Vi rivolgo dun­que l’invito di opporre un no agli ulti­ma­tum, ai ricatti, alla cam­pa­gna della paura. Ma vi rivolgo anche l’invito di dire di no alla divi­sione. No a chi cerca di spar­gere il panico e di impe­dirvi di deci­dere con calma e respon­sa­bi­lità per il vostro futuro. Vi rivolgo l’invito di deci­dere con deter­mi­na­zione a favore della demo­cra­zia e della dignità. Per una Gre­cia orgo­gliosa e fiera in un’Europa demo­cra­tica e solidale.

(a cura di Tonia Tsitsovic)

«Syriza nelle piazze e nei quartieri per far leva sulla "dignità", i sostenitori del sì non si vedono ma si appoggiano ai media amici. Facendo leva sulla paura».

Il manifesto, 3 luglio 2015 (m.p.r.)

Atene. Osser­vato dalla piazza di Labrini, peri­fe­ria nord di Atene, il refe­ren­dum che spa­venta l’Europa assume tutt’altra pro­spet­tiva rispetto a quella resti­tuita dalle dichia­ra­zioni di Angela Mer­kel o di Jean Claude Junc­ker. Si è appena con­cluso un dibat­tito pub­blico tra soste­ni­tori del no e la gente del quar­tiere, uno dei tanti che si sus­se­guono ogni sera nelle piazze della capi­tale elle­nica, e si tratta di capire, per quanto è pos­si­bile, quale sia l’orientamento dei diretti inte­res­sati: sot­to­met­tersi alle misure euro­pee che la mag­gio­ranza dei greci ha riget­tato appena cin­que mesi fa votando Syriza e gli altri par­titi anti-austerità oppure far sal­tare il banco accet­tando di «navi­gare in acque sco­no­sciute», per dirla con il pre­si­dente fran­cese Fran­cois Hol­lande, il lea­der poli­tico euro­peo che pare aver deluso più ancora di Angela Mer­kel o Jean Claude Juncker?

Tra locali e taverne affol­lati come al solito, frotte di bam­bini all’inseguimento di un pal­lone e alto­par­lanti che dif­fon­dono can­zoni della resi­stenza greca e ita­liana, in un clima a metà tra una vec­chia festa dell’Unità e una sagra pae­sana si ascolta di tutto: dal «colpo di stato euro­peo» per abbat­tere Tsi­pras al «volete rovi­narci» indi­riz­zato agli espo­nenti di Syriza, segno di una pola­riz­za­zione, soprat­tutto in pro­vin­cia, «che non si vedeva dai tempi della guerra civile», sostiene chi ha il polso della cam­pa­gna refe­ren­da­ria. In un angolo, a un ban­chetto del Kke si distri­bui­scono volan­tini che invi­tano a met­tere sulla scheda due no: al piano dei cre­di­tori e al governo Syriza-Anel, con il risul­tato di annul­lare la scheda e, di fatto, nuo­cere alle ragioni del no, a dif­fe­renza di Antar­sya, altro par­ti­tino della sini­stra radi­cale fuori dalla mag­gio­ranza ma schie­ra­tosi a soste­gno del refe­ren­dum voluto dal governo. Li rive­drò entrambi, Antar­sya e il Kke, il giorno dopo, cioè ieri sera, a mani­fe­stare sepa­rati per le vie del cen­tro cit­ta­dino, i primi per il no, i secondi a dire «né-né»: né con lo Stato né con la troika.

Divisi a metà

Una rap­pre­sen­ta­zione pla­stica della divi­sione nella società greca è arri­vata dalle due mani­fe­sta­zioni di qual­che giorno fa: piena quella del no, altret­tanto e forse per­sino di più quella del sì. La pro­pa­ganda media­tica non aiuta a capirne di più. Non è un mistero che i boss della comu­ni­ca­zione in Gre­cia abbiano mal dige­rito il governo della sini­stra e in que­sti giorni si sono tra­sfor­mati nel mega­fono del fronte del sì, altri­menti assente dalle mani­fe­sta­zioni pub­bli­che, a dif­fe­renza dei loro anta­go­ni­sti. Nella fretta di rispon­dere colpo su colpo ai discorsi di Tsi­pras e al quar­tiere per quar­tiere degli atti­vi­sti di Syriza, sono però sci­vo­lati sulla più clas­sica delle bucce di banana: un son­dag­gio pron­ta­mente smen­tito dagli stessi son­dag­gi­sti ai quali era stato attri­buito. Per rispon­dere a quello pub­bli­cato dal quo­ti­diano indi­pen­dente (edito da una coo­pe­ra­tiva di gior­na­li­sti) Efi­me­rida due giorni fa, che dava il no al 54 per cento, con­tro il 33 dei sì e un 13 per cento di inde­cisi, ieri è finito sul gior­nale di orien­ta­mento con­ser­va­tore Kathi­me­rini un contro-sondaggio com­mis­sio­nato dai ban­chieri di Bnp Pari­bas all’istituto Gpo, per il quale il 47,1 per cento dei greci vote­rebbe invece a favore del piano pre­sen­tato dai cre­di­tori, con­tro il 43,2 per cento che lo rifiu­te­rebbe (con gli inde­cisi sti­mati tra l’8 e il 17 per cento). Ma a smen­tire tutto è stata la stessa Gpo (che in pas­sato aveva for­nito son­daggi atten­di­bili sull’ascesa di Syriza), che ha negato di aver par­te­ci­pato alla rile­va­zione minac­ciando di por­tare il quo­ti­diano in tri­bu­nale e ha ribat­tuto che i son­daggi devono essere fatti in maniera «respon­sa­bile», in attesa della «cri­tica deci­sione del popolo greco».

I due fronti

Cer­cando di costruire una geo­gra­fia degli schie­ra­menti, fini­sco a una con­fe­renza stampa di avvo­cati, con­vo­cata per con­te­stare la deci­sione del Con­si­glio dell’ordine di dare indi­ca­zione ai pro­pri iscritti di votare sì al refe­ren­dum. Non sono i soli: ha fatto altret­tanto la Con­fe­de­ra­zione gene­rale dei lavo­ra­tori greci (Gsee), il più grande sin­da­cato elle­nico, e non è una buona noti­zia per Syriza anche se la fede­ra­zione dei metal­mec­ca­nici, al con­tra­rio, pur non espri­men­dosi aper­ta­mente a favore del no, si è schie­rata con il governo. Ma accade che le deci­sioni dei ver­tici siano con­te­state dagli iscritti, come sta avve­nendo tra i legali, let­te­ral­mente imbu­fa­liti per­ché, spie­gano, il loro Ordine non dovrebbe immi­schiarsi in que­stioni del genere, come spiega Saran­tos Theo­do­ro­pou­los, appena tor­nato da Ber­lino dov’è andato a incon­trare i depu­tati della Linke e della sini­stra Spd per spie­gare loro dal punto di vista legale la que­stione dei risar­ci­menti dovuti dalla Ger­ma­nia alla Gre­cia a causa dell’occupazione nazi­sta. Mai come in que­sto caso, sosten­gono diversi ana­li­sti, il voto potrebbe non rispet­tare le indi­ca­zioni delle orga­niz­za­zioni di riferimento.

Gli sce­nari del dopo-voto

Come andrà a finire dome­nica nes­suno è in grado di affer­marlo con sicu­rezza. «Quello che ha messo in dif­fi­coltà il governo è stata la deci­sione di chiu­dere le ban­che per una set­ti­mana», spie­gano nella reda­zione del set­ti­ma­nale indi­pen­dente Epohi, vicino alle posi­zioni della sini­stra radi­cale al governo. Una deci­sione estrema che ha con­sen­tito di evi­tare la ban­ca­rotta dovuta al panico e che potrebbe inci­dere nega­ti­va­mente sull’esito del voto, anche se otto­cento isti­tuti sono rima­sti aperti per pagare le pen­sioni e ieri il governo ha annun­ciato la ria­per­tura di tutti per mar­tedì. Tutto som­mato, i greci hanno affron­tato con grande calma lo stop al cre­dito (e pure ai tri­bu­nali), gra­zie anche al fatto che esso non è stato totale e il governo ha garan­tito pure la gra­tuità dei tra­sporti. Ma tutto ciò non basta a evi­tare che, per l’ennesima volta in pochi anni, un voto in Gre­cia si gio­chi sulla paura, quella stessa che solo alla fine di gen­naio Ale­xis Tsi­pras era riu­scito a scon­fig­gere con­trap­po­nen­dole la «speranza».

Anche gli sce­nari del dopo-voto riman­gono incerti: ieri il mini­stro delle Finanze Yan­nis Varou­fa­kis ha detto ieri di essere pronto a dimet­tersi se dovesse vin­cere il sì e lo stesso Tsi­pras ha già fatto sapere di non essere «un uomo per tutte le sta­gioni». Insomma, non ci sarà un governo Syriza che fir­merà l’accordo con i cre­di­tori. Ma cosa acca­drebbe se dovesse cadere il governo, come vogliono sull’asse Bruxelles-Berlino? Quale regime change sarebbe pos­si­bile? Bru­ciato dai fal­li­menti del pas­sato l’ex pre­mier di Nea Demo­cra­zia Anto­nis Sama­ras, ridotti ai minimi ter­mini i socia­li­sti del Pasok, il can­di­dato dell’Europa pare essere l’ex gior­na­li­sta tele­vi­sivo Sta­vros Theo­do­ra­kis, fon­da­tore e lea­der della for­ma­zione cen­tri­sta To Potami, che potrebbe finire alla testa di un governo di unità nazio­nale, l’unico in grado di far pas­sare un pro­gramma ancora una volta lacrime e san­gue. Ma con quali voti un sif­fatto ese­cu­tivo si reg­ge­rebbe se l’azionista di mag­gio­ranza Syriza non ci sta­rebbe e men che meno le altre mino­ranze da sini­stra a destra (anche se tre depu­tati dei Greci Indi­pen­denti, al governo, ieri si sono schie­rati per il sì)? In che modo si riu­sci­rebbe a met­tere in piedi un governo che firmi l’accordo con i cre­di­tori entro il 20 luglio, in tempo utile per rice­vere i soldi del pro­gramma e ripa­ga­rela rata di debiti con la Bce? Una scon­fitta del no, para­dos­sal­mente, rischie­rebbe di ren­dere ancora più con­fusa la situa­zione e di aprire un periodo di forte insta­bi­lità poli­tica nel paese.

La stra­te­gia della dignità

Syriza dal suo canto mira a smon­tare la stra­te­gia del «ci ridur­ranno in povertà» ricor­dando cosa hanno pro­dotto le poli­ti­che di auste­rità esa­spe­rate in Gre­cia: un tasso di disoc­cu­pa­zione al 27 per cento, un for­tis­simo aumento di depres­sioni e sui­cidi (uno stu­dio pub­bli­cato dal Bri­tish medi­cal jour­nal ne ha cen­siti 10 mila dal 2008, la mag­gior parte avve­nuti dopo l’approvazione del con­te­stato Memo­ran­dum del 2011), pre­ca­riz­za­zione del lavoro e sman­tel­la­mento di diritti. Quella cata­strofe sociale che ha por­tato in pochi anni la sini­stra radi­cale al governo del paese (e ali­men­tato pure l’ascesa dell’estrema destra di Alba Dorata).

Se dovesse far­cela per la seconda volta in un anno, Tsi­pras ne usci­rebbe da trion­fa­tore nono­stante i rischi di default incon­trol­lato, i rating al ribasso di Moody’s e Standard&Poor’s e le minacce euro­pee di abban­do­nare la Gre­cia al suo destino che rischie­reb­bero di lasciare il tempo che tro­vano di fronte a un qua­dro radi­cal­mente cam­biato. Il lea­der greco sostiene, forse a ragione, che una vit­to­ria del no gli darebbe più forza nego­ziale in Europa e alla paura con­trap­pone un altro sostan­tivo: dignità. Il mes­sag­gio, un piz­zico patriot­tico, è: non lascia­moci più calpestare.

«L’ex premier italiano non crede nella Grexit: “Il danno sarebbe troppo grande, si troverà un compromesso. Un’occasione per rilanciare l’Europa, ora senza forza e autonomia. Non possiamo dimostrare di essere incapaci di risolvere un piccolo problema come quello ellenico, sennò a che cosa serve la Ue?”».

La Repubblica, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Bruxelles. Qualunque sia l’esito del referendum, la Grecia alla fine non uscirà dall’euro. Tuttavia l’Europa, se vuole salvarsi, deve dotarsi immediatamente di una forte autorità di tipo federale, altrimenti sarà votata al fallimento. Di fronte al precipitare della crisi è questo il pensiero di Romano Prodi, uno dei “grandi vecchi” europei che guarda con preoccupazione, e non poca amarezza, ai sussulti che da Atene stanno dilangando in tutta la Ue. «Comunque vada a finire il referendum, il danno di una uscita della Grecia dall’euro sarebbe troppo grande. Si troverà un compromesso. Se tutto il mondo, da Obama ai cinesi, continua a ripeterci che bisogna trovare un accordo, vuol dire che c’è il diffuso sentimento di una catastrofe imminente che occorre evitare ad ogni costo».

Presidente, tutti dicono che la moneta non è a rischio, neppure in caso di Grexit. Possibile che un’economia che pesa per il due per cento del Pil europeo affondi l’euro?
«Non lo affonderà, perchè si farà un accordo. Ma il pericolo è reale. Proprio perchè la crisi è così piccola, un fallimento sarebbe clamoroso. Una istituzione che non riesce a governare un problema minuscolo come la Grecia che fiducia può dare sulla sua capacità di gestire un problema più grosso? Oggi non è all’orizzonte, ma tutti sappiamo che, prima o poi, arriverà. E lo sanno anche i mercati. L’uscita della Grecia non sarebbe tanto un danno economico, quanto un vulnus alla credibilità politica dell’Europa. Quando, da presidente della Commissione, dicevo che il parametro del 3 per cento era una follia, e che occorreva invece una politica di integrazione dei bilanci, mi hanno accusato di minare la credibilità dell’Europa. E’ urgente preparare le istituzioni ad affrontare gli eventi futuri, altrimenti non sono sicure nè credibili. Purtroppo le istituzioni europee sono un pane cotto a metà. Per questo non sono in grado di affrontare le crisi che ci aspettano, nè di affermarsi nel mondo».
Eppure non sembra esserci nell’aria molta voglia di compromesso...
«Un non compromesso è un evento impensabile. Voglio vedere come Merkel, Juncker o Lagarde possono prendersi la responsabilità di lasciare la Grecia fuori dall’euro. Certo, l’irrazionalità della Storia è sempre in agguato. Anche la Prima guerra mondiale scoppiò per un piccolo incidente. Ma voglio sperare che Atene non sia la nostra Sarajevo».
Come si è arrivati a questo?
«Perchè questa vicenda è stata gestita da protagonisti nazionali che l’hanno strumentalizzata per puri scopi di politica interna. Le due parti stanno continuando a parlare solo ai loro elettori. E questo ha impedito che si adottassero soluzioni di buon senso».
Quali?
«Mia madre diceva: dai cattivi debitori si prende quello che viene. Fin dall’inizio si sapeva che la Grecia non avrebbe mai potuto restituire per intero il suo enorme debito. Un compromesso di buonsenso, all’inizio di questa crisi, sarebbe stato un taglio del debito sopportabile per i creditori e l’imposizione di una austerità sopportabile per i greci. Ma non è successo perchè hanno prevalso logiche nazionali: gli estremisti di Tsipras da una parte, e i bavaresi dall’altra. Così si è continuato a pasticciare. Che cosa c’entra la troika in questa faccenda? Che cosa c’entra il Fondo monetario internazionale? Perchè abbiamo trattato un paese dell’Ue alla stregua di Portorico? Se l’Europa non sa risolvere da sola un problema piccolo come quello greco, a che cosa serve l’Europa? La verità è che, quando non si vogliono prendere le proprie responsabilità politiche, si cerca di scaricarle su strutture teoricamente tecniche».
Tutta colpa degli europei?
«Da parte greca si è fatto lo stesso. Quando Papandreou voleva indire un referendum per mettere i greci davanti alle proprie responsabilità, è stato costretto a dimettersi dopo un durissimo attacco dei principali leader europei. Così la politica greca è andata verso una deriva estremista. Tsipras ha approfittato della tragica caduta dell’economia per vincere le elezioni sulla base di un programma assolutamente irrealistico, facendo promesse impossibili. E questo è successo perché si sono eliminate le posizioni di mediazione, come quella di Papandreou».
Come è stata possibile una simile catena di errori?
«Perché manca una vera autorità europea. La Grecia è entrata nell’euro perché ha potuto ingannare vergognosamente sui dati reali della propria economia grazie al fatto che Francia, Germania e Italia avevano rifiutato il doveroso controllo europeo sui bilanci, magari affidato alla Corte dei conti. Se ci fosse stata una forte autorità federale, probabilmente Atene non sarebbe mai entrata nell’unione monetaria, o sarebbe entrata ad altre condizioni. Invece noi non abbiamo voluto un’autorità federale. Abbiamo delegato ogni potere ai leader nazionali, che sono ostaggi dei loro problemi di politica interna».
Ma allora qual è la soluzione?
«Occorre creare una vera e forte autorità europea, che è stata continuamente messa in un angolo dai governi nazionali. Se l’Europa si vuole salvare deve reagire immediatamente dotandosi di una autentica autorità federale. Alla fine anche la Merkel lo ammette, quando afferma che l’Ue può vivere solo se si lavora insieme. E’ chiaro che, dopo il referendum, quale che sia il risultato, si deve fare un balzo in avanti. E non è solo la crisi greca che ce lo chiede. Guardi all’Ucraina, guardi all’immigrazione. L’Europa non riesce ad avere un ruolo autonomo e forte. Così non può continuare. Questo secolo sta distruggendo il più bel progetto che era sbocciato dalle macerie del secolo precedente. Dobbiamo impedirlo».

Il manifesto, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Per Atene pas­sano vie che con­du­cono ai grandi e irri­solti pro­blemi che la crisi delle società, nelle quali viviamo, ci pon­gono quo­ti­dia­na­mente di fronte. Una di que­ste inve­ste più diret­ta­mente chi pensa che una con­di­zione neces­sa­ria per poterli affron­tare sia quella di con­tra­stare e scon­fig­gere le poli­ti­che di auste­rità e quella di met­tere in discus­sione l’assetto oli­gar­chico dell’Europa.

La Gre­cia ci ha pro­vato, ma l’ordine che regna nell’Europa reale pare essersi impo­sto. Il mani­fe­sto con­sen­tirà il riuso di un suo titolo famoso “Atene è sola”. Qui sta il dramma delle forze del cam­bia­mento in Europa. Le mani­fe­sta­zioni di soli­da­rietà sono neces­sa­rie ed apprez­za­bili, ma non cam­biano il quadro.

La con­tesa è stata tra il governo greco, da un lato, ed il governo dell’Europa reale, dall’altro, senza che in que­sta fosse ope­rato o si aprisse un con­flitto forte ed esteso con­tro le sua poli­ti­che. Il fatto che a Tsi­pras e ai suoi non si possa rim­pro­ve­rare alcun­ché aggrava la que­stione. Il governo greco ha pro­vato a rea­liz­zare un’impresa pres­so­ché impos­si­bile. La sua con­dotta è stata tanto effi­cace da averci per­sino indotti, in qual­che pas­sag­gio cru­ciale, a cre­dere (con­tro l’analisi di cosa sia mate­rial­mente quest’Europa) che ce l’avrebbe fatta. Que­sto qual­cosa è così pre­zioso per il futuro di tutti, anche ora che il ten­ta­tivo è stato scon­fitto, da dover con­ti­nuare a riflet­tere su di esso.

L’Europa reale, che pre­ten­deva di aver espulso da sé, in nome dell’ineluttabilità delle sue scelte stra­te­gi­che, la poli­tica, come auto­noma capa­cità di scelta, se la vede improv­vi­sa­mente parare davanti con la vit­to­ria elet­to­rale di Syriza e la nascita di un governo che pre­tende di tenere fede al man­dato rice­vuto dagli elet­tori, come se que­sto car­dine della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva non fosse ormai abro­gato in tutti i paesi euro­pei ove, con il voto, si può sce­gliere il governo, ma non le sue poli­ti­che, giac­ché que­ste sono pre­de­ter­mi­nate dal sistema eco­no­mico in costru­zione. Per­ché il governo greco può ten­tare l’impossibile? Per­ché si fonda su un’esperienza poli­tica straor­di­na­ria. Syriza assume pie­na­mente il con­flitto tra il basso e l’alto della società, orga­nizza mutua­lità, coo­pe­ra­zione sociale, pro­muove una par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica nell’organizzazione del par­tito, sta­bi­li­sce un rap­porto di scam­bio per­ma­nete con i movi­menti di lotta, e vede emer­gere, al suo interno, un lea­der e una lea­der­ship che inter­pre­tano poli­ti­ca­mente il biso­gno di una rot­tura radi­cale con tutto il passato.

Syriza si da un pro­gramma di governo alter­na­tivo alla poli­ti­che di auste­rità e che ha le sue fon­da­menta nel sod­di­sfa­ci­mento dei biso­gni prio­ri­tari della popo­la­zione greca. Per­ciò può ten­tare l’impossibile. Ma un’iniezione di demo­cra­zia nella costi­tu­zione mate­riale di que­sta Europa è incom­pa­ti­bile con essa stessa quanto l’uscita dalle poli­ti­che di auste­rità (che sono mici­diali poli­ti­che di destrut­tu­ra­zione e di desog­get­ti­va­zione del lavoro).

L’iniziativa greca ha sospeso la Troika, ma la con­tro­parte rap­pre­sen­tante del governo euro­peo che l’ha sosti­tuito, ha rive­lato che la vit­to­ria del fun­zio­na­li­smo sulla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva si è già rea­liz­zato in Europa. Todos cabal­le­ros. I governi e i gover­nati devono appar­te­nere alla spe­cie del pen­siero unico e ten­den­ziale diven­tare parti di un governo unico, sovran­na­zio­nale ed arti­co­lato, ma nella sostanza uni­ta­rio. Ai governi nazio­nali è richie­sto di essere pro­con­soli del governo cen­trale, governo costi­tuito sal­da­mente dalla Com­mis­sione euro­pea, dalla Banca cen­trale euro­pea e dal Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale. Lo scan­dalo cau­sato dal governo greco è con­si­stito nel far vivere, in que­sto ordine oli­gar­chico, il man­dato rice­vuto dal suo popolo. Lo scan­dalo ha denu­dato il re ma la debo­lezza dei sud­diti (noi euro­pei) lo ha lasciato sul trono.

All’emersione della poli­tica come pos­si­bi­lità di scelta pro­vo­cata dal governo di Tsi­pras, quest’Europa ha rispo­sto con la poli­tica della con­ser­va­zione del potere. Poteva per­ciò con­tare poco che la Gre­cia fosse una parte così pic­cola dell’Europa da essere inin­fluente sui suoi destini eco­no­mici. Così come poteva con­tare ancora meno che il suo debito potesse essere age­vol­mente ristrut­tu­rato. Quel che andava dimo­strato è che nes­suno può dero­gare alla Regola: non già quella del debito (altri­menti fles­si­bile) bensì quella della com­pa­ti­bi­lità richie­sta tra le poli­ti­che di un qual­siasi governo euro­peo e l’ordine eco­no­mico pro­mosso dal nuovo capi­ta­li­smo, ordine adot­tato e garan­tito dal governo reale di quest’Europa. Non si era mai vista una trat­ta­tiva così squi­li­brata nei rap­porti di forza come quella tra il governo greco e quello euro­peo. Solo una mobi­li­ta­zione dei popoli euro­pei, o meglio un’accumulazione di forze ed espe­rienze, di lotte sociali nei diversi paesi euro­pei, avrebbe potuto col­mare lo squi­li­brio. Non c’era e non c’è stata. Al con­tra­rio qual­cosa di molto pesante è avve­nuto nelle forze di governo.

Non vor­rei che quel che è acca­duto sem­brasse scon­tato. Non vor­rei che il giu­di­zio seve­ra­mente nega­tivo che molti di noi hanno su di essi, oscu­rasse il pas­sag­gio sto­rico che è avve­nuto in que­sta vicenda. Certo, non si può dire, per senso delle pro­por­zioni, che la prima social­de­mo­cra­zia, muore sui cre­diti di guerra e l’ultima muore sce­gliendo di stare dalla parte dei paesi cre­di­tori. Ma che la Troika non abbia tro­vato un solo governo a con­tra­starla e nep­pure a dif­fe­ren­ziarsi da essa è un’enormità. La social­de­mo­cra­zia tede­sca, i socia­li­sti fran­cesi, il par­tito di Renzi, e più in gene­rale i cen­tro­si­ni­stra hanno por­tato a ter­mine, con i pro­pri governi, la pro­pria defi­ni­tiva muta­zione gene­tica. Con essa è morta in Europa ogni ipo­tesi social­de­mo­cra­tica e sono usciti defi­ni­ti­va­mente di scena, nella ver­go­gna, tutti i vari centrosinistra.

La soli­tu­dine di Atene tocca anche noi. Tocca anche tutto il campo, varie­gato e diviso, delle forze cri­ti­che. Non è que­sta la sede per un ragio­na­mento sulla sini­stra di alter­na­tiva in Europa e sui movi­menti, ma quel che non può sfug­gire è però la con­sta­ta­zione dram­ma­tica di un’impotenza. Per rile­varla, basti solo il con­fronto con una pre­ce­dente vicenda che pure ha riguar­dato il for­marsi della costi­tu­zione mate­riale euro­pea, quello della diret­tiva Bol­ke­stein. Allora si riflet­teva cri­ti­ca­mente sul livello di ini­zia­tive e di mobi­li­ta­zione in atto; eppure esse furono incom­pa­ra­bil­mente supe­riori a quelle d’oggi e furono capaci di influire sul vit­to­rioso refe­ren­dum fran­cese con­tro il Trattato.

Atene sola” ci dovrebbe costrin­gere a riflet­tere cri­ti­ca­mente, corag­gio­sa­mente e in un campo largo di forze che oggi ancora non sono attive ma che potreb­bero esserlo domani, sul nostro destino. Il rischio è che il con­flitto in essere tra l’alto e il basso della società diventi, nei diversi paesi la con­tesa esclu­siva tra il campo del governo e il campo delle oppo­si­zioni popu­li­ste, dei popu­li­smi. Ma anche in que­sto caso, molti ci inse­gnano che le pro­pen­sioni popu­li­ste pos­sono dar vita a sog­get­ti­vità sociali e poli­ti­che radi­cal­mente diverse tra loro. Se qual­cosa Syriza con­ti­nua a dirci, anche con l’appello al voto del suo popolo è che nel con­flitto tra l’alto e il basso della società, una forza di cam­bia­mento nasce e vive, oggi, solo sce­gliendo di stare radi­cal­mente su quest’ultimo ver­sante e solo se lo sa agire sul suo ter­reno di scon­tro che è quello del pro­prio paese ma ormai ine­so­ra­bil­mente anche dell’Europa intera.

Il luogo di voca­zione della rina­scita di un’alternativa, come ci inse­gna Syriza ma anche Pode­mos e come ci testi­mo­niano tutti i movi­menti di nuova gene­ra­zione, è diven­tata la piazza, una piazza che, a inten­dersi, si può anche chia­mare rivolta. Soste­nere le ragioni del “NO” di Syriza al refe­ren­dum di dome­nica pros­sima è sacro­santo, ma per stare dav­vero dalla parte di Syriza, in Europa, non basta la solidarietà.

SCARICA IN:

«Fino a poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti». La Repubblica, 2 luglio 2015 (m.p.r.)

Bruxelles. Alexis Tsipras rimane intrappolato nel suo stesso referendum. Fino a poche ore dalla rottura definitiva di ieri pomeriggio l’accordo era a un passo. Prevedeva che i greci ritirassero la consultazione popolare e gli europei offrissero ad Atene un terzo programma di salvataggio con una serie di concessioni per renderne le condizioni meno amare. Ma poi hanno prevalso la diffidenza, i caratteri e il calcolo politico dei protagonisti. Ora si guarda a lunedì, il giorno dopo il referendum. A Bruxelles, Berlino, Atene e nelle altre capitali si studiano piani e scenari. Molti leader ora puntano a far fuori una volta per tutte Tsipras, determinato invece a resistere a prescindere dal risultato del voto. La fine ha avuto inizio ieri notte, quando a Bruxelles è arrivata la seconda lettera in poche ore con le richieste di Tsipras per annullare il referendum. Per la prima volta accettava il testo Juncker – piuttosto generoso - con riforme e impegni per Atene in cambio del salvataggio. Ma a sorpresa il capo del governo greco ha aggiunto cinque punti irrinunciabili. Il viceministro Euclid Tsakalotos si prodigava a spiegare a Bruxelles il perché di tanta rigidità: «Abbiamo bisogno di queste ulteriori concessioni altrimenti l’accordo non passa in Parlamento».

Ma l’ennesimo gioco al rialzo di Tsipras ha irritato diversi governi e ha fornito ai falchi un comodo match point per chiudere la partita. L’Eurogruppo viene spostato dalle 11.30 alle 17.30, ma il tempo non basta a negoziare le nuove richieste di Tsipras. Quindi Schaeuble e la Merkel pubblicamente affondano ogni speranza di accordo. Tsipras gli risponde in tv con parole altrettanto dure. In quei minuti Matteo Renzi è a colloquio a Berlino con Angela Merkel. Uscendo dalla stanza della Cancelliera confida al telefono a un ministro che lo chiama da Roma: «È finita, non c’è più niente da fare».
Eppure fino a ieri mattina la soluzione sembrava a portata di mano, con Juncker, Renzi e Hollande che avevano fatto di tutto per avvicinare Merkel e Tsipras ed evitare all’Europa altri giorni di fuoco. Solo 60 milioni dividevano le parti, niente rispetto ai 240 miliardi già mobilitati per salvare la Grecia. Una rottura non solo tecnica, ma molto politica. Descrive bene l’accaduto Roberto Gualtieri (Pd), presidente della commissione economica dell’Europarlamento tra gli ufficiali di collegamento nel negoziato: «Tsipras è stato cinico nel non volere l’accordo ed è sua gran parte della responsabilità del fallimento, ma anche altri governi sono stati inutilmente rigidi». Ieri Juncker ha tenuto una lunga discussione con i commissari europei per fare il punto della situazione. «I canali con Atene rimangono aperti – spiegava - ma non c’è più nessun movimento». Intanto i ministri delle Finanze dei paesi dell’euro hanno cancellato tutti gli impegni di lunedì, pronti a volare a Bruxelles per rispondere al voto greco.
Gli uomini di Tsipras fanno sapere agli europei le intenzioni del loro leader. Se passa il referendum, il premier si dimetterà ma metterà l’ala moderata del partito a disposizione di un governo di unità nazionale che firmi il memorandum per il terzo pacchetto di aiuti. Un minuto dopo si sfilerà dalla maggioranza provocando le elezioni anticipate, che si dice certo di vincere. In caso di vittoria del “no”, che lui sostiene, tornerà invece a Bruxelles chiedendo tutte le concessioni che ha richiesto in questi mesi. Da ieri Atene è fuori dal programma di salvataggio ed inadempiente con l’Fmi, ma per il default tecnico restano ancora un paio di settimane.
Ma dovrà fare i conti con gli altri. Con la vittoria del “sì” a Berlino e in altre capitali contano di sbarazzarsi una volta per tutte di Tsipras. Non tutti i governi sono così determinati sul punto, ma tutti quanti sono estremamente irritati con il premier greco accusato di scarsa affidabilità e di avere trasformato un suo problema interno in un problema europeo che aizza populisti di destra e sinistra in giro per il continente. Se passasse il “no”, invece, la Merkel e gli altri leader sono determinati a non concedere tutto al collega di Atene. Ripartirà il negoziato con Tsipras che minaccerà la rottura dell’eurozona e gli europei che risponderanno con lo spettro di un taglio definitivo dei viveri ad Atene costringendo il premier greco a lasciare.
Rende bene la situazione la battuta di un diplomatico mitteleuropeo: «Tsipras doveva decidere se morire firmando o non firmando il salvataggio. Sembra avere deciso la via più dolorosa per tutti».
La vittoria del “sì” farebbe ripartire il braccio di ferro, con i tedeschi decisi a non concedere quasi nulla alle autorità elleniche L’ennesimo gioco al rialzo del leader di Syriza ha fornito ai falchi dell’eurozona un comodo assist per chiudere la partita
© 2025 Eddyburg