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«A Nicosia sta accadendo l’incredibile: per la prima volta i leader delle due comunità, la minoranza turca e la maggioranza greca, hanno una visione comune, quella di uno Stato federato sullo stile dell’Unione Europea». Corriere della Sera, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Nicosia. Il 20 luglio a Cipro c’è chi piange e chi festeggia. I greci fanno suonare le sirene alle 5,30 del mattino per ricordare l’invasione turca del 1974 delle coste a nord e vanno sulle tombe a commemorare i morti. I turchi disseminano le città di bandierine con su la mezzaluna e portano i bambini a vedere la parata militare con i poliziotti che si sdraiano sulle moto in corsa e fanno gli addominali. Nella parte Nord dell’isola è la giornata della Pace e della Libertà, una festa nazionale. Ma per il resto del mondo la data ricorda un’invasione e un’occupazione illegale che dura tuttora.
Quest’anno, però, molto è cambiato. Il presidente della Repubblica Turca di Cipro Nord, Mustafa Akinci, eletto lo scorso aprile, ha ammesso per la prima volta che l’operazione militare di 41 anni fa, in risposta al colpo di Stato che depose l’allora Capo di Stato Makarios, non fu un’operazione di pace: «Non c’è dubbio che possiamo chiamarla guerra - ha spiegato domenica prima dell’inizio dei festeggiamenti -. E che oltre alla grande sofferenza dei turchi ciprioti negli anni ‘50 e ‘60, c’è stata anche quella dei greci dopo la tragedia del 1974 causata dalla giunta greca». Parole molto apprezzate dall’omologo greco Nicos Anastasiades che dice: «Dobbiamo guarire le ferite e far sbiadire le cicatrici».

Passi enormi sulla via della pace. A Nicosia sta accadendo l’incredibile: per la prima volta i leader delle due comunità, la minoranza turca e la maggioranza greca, hanno una visione comune, quella di uno Stato federato sullo stile dell’Unione Europea. «Le differenze si assottigliano ogni giorno che passa» ha detto l’inviato speciale delle Nazioni Unite Espen Barth Eide che ha il compito di vigilare sul negoziato. «Se tutto va come dovrebbe - ha spiegato - la scelta cadrà su una struttura federale in cui ci sono due Stati costituenti con poteri e competenze chiare». Il Paese farà parte della Ue come già oggi la Cipro greca. «Su questo - dice Eide - l’accordo è pieno, al cento per cento».
Ma Ankara lascerà andare la sua creatura libera sulle proprie gambe? Ieri il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, presente ai festeggiamenti, ha parlato di «una buona opportunità che non deve essere persa». «Noi siamo qui - ha aggiunto rivolgendosi ad Akinci -, accanto a voi, come sempre. La terra madre e la terra bambina». Ma il cipriota, al contrario, già ad aprile rivendicava la sua autonomia di Stato indipendente per negoziare senza lacci e lacciuoli.
«La nostra proposta è stata accolta con un silenzio assordante. Più precisamente, l’Eurogruppo e la troika hanno continuato a far credere ai media del mondo che le autorità greche non avevano proposte credibili e innovative da offrire».

Corriere della Sera, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Il 12 luglio, il summit dell’eurozona ha imposto le condizioni della resa al primo ministro greco Alexis Tsipras, che, terrorizzato dalle alternative, le ha accettate tutte. Una di queste condizioni riguardava la cessione dei restanti beni pubblici della Grecia. I leader europei hanno chiesto che i beni pubblici greci siano trasferiti in un fondo equivalente al Treuhand - un’agenzia deputata alla svendita simile a quella usata dopo la caduta del muro di Berlino per privatizzare velocemente, con grandi perdite finanziarie e con effetti devastanti sull’occupazione, tutto il patrimonio pubblico della Germania dell’Est che stava scomparendo. Il Treuhand greco sarebbe situato - udite udite - a Lussemburgo, e sarebbe gestito da un gruppo supervisionato dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, autore del modello. Dovrebbe completare la svendita entro tre anni. Tuttavia, mentre il lavoro del Treuhand originale era accompagnato da un massiccio investimento della Germania dell’Ovest in infrastrutture e trasferimenti sociali su larga scala verso la Germania dell’Est, il popolo greco non riceverà nessun beneficio di alcun genere.

Euclid Tsakalotos, diventato mio successore come ministro delle Finanze della Grecia da due settimane, ha fatto del suo meglio per migliorare gli aspetti peggiori del Treuhand greco. È riuscito a mantenere il fondo ad Atene, e ha ottenuto dai creditori della Grecia (la cosiddetta troika della Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) l’importante concessione che le vendite siano estese a 30 anni, piuttosto che a 3. Una conquista importante, perché consentirà allo Stato di tenere gli asset sottostimati fino a che il loro prezzo non si riprenda dagli attuali cali che hanno indotto la recessione.
Ahimè, il Treuhand greco resta un abominio, e dovrebbe essere un marchio sulla coscienza dell’Europa. Peggio, è un’opportunità sprecata. Il piano è politicamente tossico, dal momento che il fondo, anche se domiciliato in Grecia, sarà effettivamente gestito dalla troika. È anche finanziariamente nocivo, poiché i proventi andranno a pagare quello che anche secondo l’Fmi è un debito insostenibile. E rappresenta un fallimento economico, poiché spreca una straordinaria opportunità di creare investimenti locali per contrastare l’impatto recessionistico del consolidamento fiscale punitivo che rientra nelle «condizioni» del summit del 12 luglio.
Non doveva andare così. Il 19 giugno ho comunicato al governo tedesco e alla troika una proposta alternativa, che fa parte del documento intitolato Fine della crisi greca: «Il governo greco propone di raggruppare i beni pubblici (esclusi quelli relativi alla sicurezza del Paese, le bellezze pubbliche e il patrimonio culturale) in una holding centrale separata dall’amministrazione del governo e gestita da un ente privato, sotto l’egida del Parlamento greco, con l’obiettivo di massimizzare il valore degli asset e di creare un flusso di investimenti locale. Lo Stato greco sarà l’unico azionista, ma non darà in garanzia le sue passività o il debito». La holding giocherà un ruolo attivo preparando i beni alla vendita: «Emetterà un bond completamente collateralizzato sui mercati dei capitali internazionali» per raccogliere 30-40 miliardi di euro (32-43 miliardi di dollari), che, «prendendo in considerazione l’attuale valore degli asset», saranno «investiti nella modernizzazione e ristrutturazione degli asset in gestione».
Il programma ha previsto un piano di investimenti di 3-4 anni, con conseguente «ulteriore spesa del 5% del Pil all’anno», con le attuali condizioni macroeconomiche che implicano «un moltiplicatore di crescita positivo superiore all’1,5», il che «dovrebbe spingere la crescita del Pil a un livello superiore al 5% per diversi anni». Ciò, a sua volta, indurrebbe «proporzionali aumenti del gettito fiscale contribuendo in tal modo alla sostenibilità fiscale e consentendo al contempo al governo greco di esercitare la disciplina della spesa senza affossare ulteriormente l’economia sociale». In questo scenario, l’avanzo primario (che esclude il pagamento degli interessi) «raggiungerà una certa rilevanza sia in termini assoluti che in termini percentuali nel tempo». Di conseguenza, alla holding «sarà concessa una licenza bancaria» entro un anno o due, «trasformandosi quindi in una Banca dello sviluppo capace di avere un assumere un ruolo primario negli investimenti privati alla Grecia e di partecipare a progetti collaborativi con la Banca europea di investimenti».
La Banca di sviluppo che abbiamo proposto «permetterà al governo di scegliere quali asset privatizzare e quali no, garantendo al contempo un maggiore impatto sulla riduzione del debito dalle privatizzazioni selezionate». Dopo tutto, «il valore degli asset dovrebbe aumentare di un importo superiore a quello attuale speso sulla modernizzazione e sulla ristrutturazione, sostenuto da un programma di partnership pubblico-privato il cui valore è aumentato in base alla probabilità di privatizzazione». La nostra proposta è stata accolta con un silenzio assordante. Più precisamente, l’Eurogruppo e la troika hanno continuato a far credere ai media del mondo che le autorità greche non avevano proposte credibili e innovative da offrire - il loro solito ritornello. Pochi giorni dopo, una volta constatato che il governo greco stava per capitolare del tutto di fronte alle richieste della troika, hanno ritenuto opportuno imporre alla Grecia il loro modello del Treuhand umiliante, inimmaginabile e pericoloso.
In un momento cruciale per la storia europea, la nostra alternativa innovativa è stata gettata via. Tocca agli altri recuperarla.

Yanis Varoufakis è l'ex ministro delle Finanze della Grecia
Il testo originale dell'articolo è stato pubblicato da www.project-syndicate.org

L'estrema gravità di una situazione nella quale la smania politica della coppia Merkel/Schäuble di sconfiggere, con Alexis Tsipras, la possibilità di un'Europa diversa da quella a trazione tedesca, e l'ignavia delle socialdemocrazie europee hanno gettato il nostro continente nelle macerie del sogno federalista, il preannuncio di un riemergere dei fantasmi del più feroce passato.

Il manifesto, 21 luglio 2015

Gli «accordi» del 13 luglio a Bru­xel­les tra l’unione euro­pea e la Gre­cia segnano la fine di un’epoca? Sì, ma cer­ta­mente non nel senso indi­cato dal comu­ni­cato con­clu­sivo del «ver­tice». In effetti gli «accordi» sono fon­da­men­tal­mente inap­pli­ca­bili e tut­ta­via costi­tui­scono una for­za­tura altret­tanto vio­lenta, e ancor più con­flit­tuale, di quanto è già avve­nuto negli ultimi cin­que anni. Si è par­lato di dik­tat e que­sta dram­ma­tiz­za­zione è basata su fatti concreti.

Le pro­po­ste con le quali Ale­xis Tsi­pras è arri­vato a Bru­xel­les erano in con­trad­di­zione con il risul­tato del refe­ren­dum, ma face­vano ancora parte di un pro­getto sul quale aveva l’iniziativa per potere spe­rare di svi­lup­pare una poli­tica nell’interesse del suo popolo. I suoi «inter­lo­cu­tori» si sono impe­gnati a far fal­lire que­sto ten­ta­tivo. Il risul­tato è un anti-piano senza alcuna razio­na­lità eco­no­mica, che asso­mi­glia a un salasso e a un sac­cheg­gio dell’economia nazionale.

Peg­gio ancora, le misure di «messa sotto tutela» isti­tui­scono un pro­tet­to­rato nell’Unione Europea.

La Gre­cia non è più sovrana: non nel senso di una sovra­nità con­di­visa, che impli­che­rebbe un pro­gresso verso il fede­ra­li­smo euro­peo, ma nel senso di un assog­get­ta­mento al potere del Padrone. Di quale «Padrone» si tratta? Per descri­vere il regime che governa oggi l’Europa, il filo­sofo tede­sco Jür­gen Haber­mas ha par­lato di «fede­ra­li­smo ese­cu­tivo post­de­mo­cra­tico». Ma que­sto «ese­cu­tivo» è occulto e infor­male. La Com­mis­sione ha ceduto il potere all’Eurogruppo, che non dipende da alcun trat­tato e non obbe­di­sce a nes­suna legge. Il suo pre­si­dente si limita a essere il por­ta­voce dello Stato più potente.

Que­sto signi­fica che il nuovo regime non è altro che la maschera dell’imperialismo tedesco?

L’egemonia è senz’altro reale, certo, ma è espo­sta a nume­rose con­te­sta­zioni, tra cui quella della Bce. Pro­sciu­gando la liqui­dità di emer­genza, la Bce ha svolto un ruolo deter­mi­nante, «ter­ro­ri­stico», per pie­gare Atene. Que­sto non signi­fica tut­ta­via che la con­cer­ta­zione tra Ber­lino e Fran­co­forte fun­zioni sem­pre, né che gli inte­ressi e le ideo­lo­gie siano iden­ti­che. Que­sta divi­sione dura­tura nell’«esecutivo» euro­peo fa parte della sua costi­tu­zione materiale.

Come ne fanno parte le diver­genze tra governo fran­cese e tede­sco. È impor­tante capire ciò che li ha sepa­rati, senza natu­ral­mente pren­dere per oro colato le loro giu­sti­fi­ca­zioni. Per quanto riguarda i tede­schi, le ragioni poli­ti­che della loro «intran­si­genza» sono state più rile­vanti di quelle eco­no­mi­che. I due schemi del Bun­de­sfi­nan­z­mi­ni­ste­rium: uscita «prov­vi­so­ria» della Gre­cia dall’euro, o espro­pria­zione delle sue risorse nazio­nali, erano in fondo equi­va­lenti, se si con­si­dera che l’obiettivo ultimo era (e resta) la caduta di Syriza.

Sul lato fran­cese si era con­vinti che l’unica maniera per far pas­sare l’aumento dell’austerità tra la popo­la­zione greca era quella di sca­ri­carlo su Syriza. Dopo tutto lo stesso Hol­lande ha una certa espe­rienza nel tra­di­mento delle pro­messe elet­to­rali… Ma la chiave è la pre­oc­cu­pa­zione evi­den­ziata da Varou­fa­kis: resi­stere al modo in cui la Ger­ma­nia si è ser­vita della situa­zione greca per «disci­pli­nare la Fran­cia». Si può dire che, nella notte fati­dica, Hol­lande abbia «vinto» sul man­te­ni­mento della Gre­cia nell’euro, ma abbia «perso» sulle sue con­di­zioni. Quando si cono­scerà il seguito di que­sta vicenda, è pro­ba­bile che la sua vit­to­ria non lo por­terà lontano…

Que­ste trat­ta­tive sulle spalle dei greci non hanno evi­den­te­mente risolto nes­suno dei pro­blemi che sono alla radice della crisi. Anzi, li hanno aggravati.

Il debito euro­peo accu­mu­lato, quello pub­blico e soprat­tutto quello pri­vato, rimane incon­trol­la­bile. Volerlo fis­sare in Gre­cia non serve ad altro che a farlo aumen­tare, man­te­nendo l’insicurezza della moneta comune.

Qual­siasi solu­zione si scon­tra con un pro­blema ancora più pre­oc­cu­pante per il futuro dell’Europa: l’aumento delle dise­gua­glianze e la loro tra­sfor­ma­zione in rap­porti di domi­nio. Un abisso si è allar­gato in un’«Unione» il cui pro­getto asso­ciava la ridu­zione delle ini­mi­ci­zie seco­lari con l’apertura di una pro­spet­tiva di pro­spe­rità e di com­ple­men­ta­rità tra i popoli.

Il 13 luglio ha evi­den­ziato soprat­tutto la gra­vità del pro­blema demo­cra­tico in Europa, e della man­canza di legit­ti­mità che esso induce. Il più serio degli argo­menti sol­le­vati con­tro le richie­ste gre­che è quello che ha riba­dito che la «volontà di un solo popolo» non può pre­va­lere su quella degli altri. È incon­te­sta­bile, ma non ha senso senza un con­trad­di­to­rio al quale tutti i cit­ta­dini euro­pei siano invi­tati a par­te­ci­pare insieme. La tec­no­strut­tura e le classi poli­ti­che dei dif­fe­renti paesi non vogliono nem­meno sen­tirne parlare.

Il males­sere e la col­lera gene­rati da que­sto spo­sta­mento di potere verso le isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali e gli orga­ni­smi occulti con­ti­nue­ranno così ad aumen­tare. In «com­penso» si è messo in moto un dispo­si­tivo inquie­tante: i con­tri­buenti dei diversi paesi sono stati mar­tel­lati dall’idea che non smet­te­ranno di «pagare per i greci» e che lo faranno di tasca loro. Que­sta pro­pa­ganda genera un potente popu­li­smo «di cen­tro» che ali­menta le pas­sioni xeno­fobe in tutto il con­ti­nente. Sarà l’estrema destra a capi­ta­liz­zarne i frutti.

In que­sta situa­zione, Syriza si trova di fronte a un dilemma ter­ri­bile. Il memo­ran­dum è pas­sato al Par­la­mento greco per­ché i vec­chi par­titi di governo hanno votato a favore, ma con una forte mino­ranza di oppo­si­tori, tra i quali ci sono una tren­tina di depu­tati di Syriza. Assu­men­dosi le sue respon­sa­bi­lità, il primo mini­stro ha dichia­rato di «non cre­dere» nelle virtù del piano di Bru­xel­les, ma che biso­gnava accet­tarlo per evi­tare un «disa­stro». Ci sono già stati scio­peri e mani­fe­sta­zioni. La crisi è aperta e continuerà.

Il prin­ci­pale appog­gio «esterno» di cui dispone al momento Tsi­pras è giunto para­dos­sal­mente dal Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale. Pub­bli­cando la sua ana­lisi sull’insostenibilità del debito greco, chie­dendo agli euro­pei di «alleg­ge­rirlo», ha avviato una sorta di rine­go­zia­zione stri­sciante. Ma Schäu­ble ha subito rilan­ciato l’idea di una «Gre­xit tem­po­ra­nea», che ha come posta la stessa appar­te­nenza della Gre­cia all’Unione Europea.

La situa­zione interna è quella deter­mi­nante. Da anni, la società greca si è difesa con­tro l’impoverimento e la dispe­ra­zione svi­lup­pando straor­di­na­rie lotte e mol­te­plici forme di soli­da­rietà. Ora è esau­sta, divisa secondo linee che pos­sono diver­gere brutalmente.

Molto dipen­derà dal modo in cui sarà per­ce­pita l’azione di governo: come «tra­di­mento» o come «resi­stenza». È fon­da­men­tale che Tsi­pras abbia per­se­ve­rato nella deci­sione di dire la verità. Ha dovuto però fare un rim­pa­sto di governo e annun­ciare la pos­si­bi­lità di ele­zioni anti­ci­pate, che si pre­sen­tano come alta­mente rischiose.

Sog­getta a simili ten­sioni, Syriza resterà unita?

La spinta verso implo­sione viene dall’esterno, ma anche dai «mar­xi­sti» che hanno sem­pre visto nella Gre­xit un’occasione da cogliere. Pur legit­tima, ci sem­bra che la con­te­sta­zione non dovrebbe por­tare a fare il gioco dell’avversario, pre­ten­dendo di mono­po­liz­zare la potenza espressa dal «No» del 5 luglio, che costi­tui­sce la forza del movi­mento. O l’unità tiene, e allora la dia­let­tica tra attua­zione dell’«accordo» e resi­stenza potrà svi­lup­parsi in forme ine­dite, in cui un ruolo fon­da­men­tale dovrà essere svolto dalla mobi­li­ta­zione sociale. Oppure cederà, sep­pel­lendo la spe­ranza era nata in Gre­cia, in Europa e nel mondo.

Aggiun­giamo solo un’ultima battuta.

Tsi­pras lo ha detto chia­ra­mente: la solu­zione che abbiamo dovuto sce­gliere non era la migliore, è stata solo quella meno disa­strosa per la Gre­cia e per l’Europa. Que­sto impe­gno al ser­vi­zio dell’interesse comune ci asse­gna grandi respon­sa­bi­lità. Fino ad oggi, biso­gna pur dirlo chia­ra­mente, il nostro soste­gno non è stato all’altezza della situa­zione. Ma la «lunga mar­cia» per l’Europa soli­dale e demo­cra­tica non è finita il 13 luglio 2015. Con­ti­nuerà anche in Gre­cia, men­tre altri movi­menti cari­chi di spe­ranza ne pren­de­ranno il testi­mone. L’unione fa la forza.

Il pre­sente testo sarà pub­bli­cato dal quo­ti­diano Libe­ra­tion in Fran­cia e dal gior­nale Der Frei­tag in Ger­ma­nia. Una ver­sione più ampia si può leg­gere nel sito di Open Demo­cracy.

Tra­du­zione di Roberto Ciccarelli

L'Unione europea ha due tare d'origine: il mercantilismo, la barriera contro il socialismo reale. Il grande merito della Grecia di Tsipras è di averlo reso trasparente. Ora il re è nudo.

Il manifesto, 19 luglio 2015

L’Unione euro­pea, figlia delle comu­nità che ave­vano carat­te­riz­zato la vita economico-politica del nostro con­ti­nente dopo la seconda guerra mon­diale, ha avuto fin dall’inizio un’impostazione mer­can­tile. Chi sa se que­sta parola, così espli­cita, verrà per­do­nata all’autore di quest’articolo; eppure essa è pro­prio una foto­gra­fia dello spi­rito ini­ziale del pro­getto euro­peo, che prese l’avvio nel secondo dopo­guerra con una Comu­nità euro­pea del car­bone e dell’acciaio (1957). Il pro­blema, allora, era quello di faci­li­tare gli scambi, che avreb­bero favo­rito la rico­stru­zione e lo svi­luppo del con­ti­nente. Ma era anche quello d’impedire che car­bone e acciaio, allora stru­menti basi­lari per fare la guerra, restas­sero sotto il con­trollo esclu­sivo dei pochi stati che li possedevano.

Il col­lante di carat­tere mer­can­tile, natu­ral­mente trovò ragione di farsi più forte quando, in un’altra metà dell’Europa, venne a con­so­li­darsi l’influenza poli­tica ed eco­no­mica dell’Unione sovie­tica. Dun­que da una parte la sfida del libero mer­cato che attra­verso gli accordi euro­pei veniva a con­so­li­darsi; dall’altra il blocco dell’economia col­let­ti­vi­stica d’impronta e guida sovietica.

Una impo­sta­zione invece che fosse euro­pea ma di carat­tere poli­tico, e che in pro­spet­tiva avesse un’unione di tipo con­fe­de­rale, allora non ci fu, anche se nei pro­getti dei padri ispi­ra­tori era stata molto forte. Allora, quello non sem­brava un pro­blema, né poli­tico né ideo­lo­gico. Si deve anche ricor­dare che i padri ave­vano tutti un’impostazione ideologico-politica di stampo libe­rale, e dun­que un pro­getto euro­peo che andasse avanti in quel modo, era rite­nuto sod­di­sfa­cente. Punto essen­ziale fu per­ciò nel dopo­guerra quello di ren­dere sem­pre più forte un rap­porto di carat­tere mer­can­tile, che ser­visse da anti­doto a guerre future. E che si con­trap­po­nesse soprat­tutto alla poli­tica di socia­li­smo reale che per­meava l’altra metà del con­ti­nente. Diciamo, per sem­pli­fi­care la rap­pre­sen­ta­zione di que­sta situa­zione nei rap­porti inter­na­zio­nali, che la parte libe­rale guar­dava agli Stati Uniti come fonte d’ispirazione poli­tica, ideo­lo­gica e di scambi; e i paesi dell’Europa orien­tale, invece, guar­da­vano verso l’Unione sovie­tica. Natu­ral­mente, sia gli uni che gli altri, subi­vano abbon­dan­te­mente i con­di­zio­na­menti dei rispet­tivi punti di riferimento.

Date que­ste pre­messe for­te­mente pola­riz­zate, di unione poli­tica dell’Europa, date le con­tin­genze inter­na­zio­nali e il punto di par­tenza, non si è par­lato più. Anzi, sono cre­sciute gene­ra­zioni di super­bu­ro­crati della Ue, ai quali sono stati affi­dati i posti al ver­tice dell’Unione euro­pea. I poteri di que­sti super­bu­ro­crati, mediante deci­sioni for­mali pro­mosse da essi mede­simi negli organi che «occu­pa­vano» (il verbo non è impro­prio, per­ché eletti essi non lo sono stati mai), sono cre­sciuti a dismi­sura. Si è lasciato che gover­nas­sero l’intero con­ti­nente, mediante rego­la­menti impo­sti al di fuori di ogni pro­ce­dura demo­cra­tica (lo ha riba­dito Yanis Varou­fa­kis venerdì su Die Zeit). La strut­tura della Ue ha acqui­stato sem­pre più potere, nes­suno ha più pen­sato di met­terne in discus­sione le lacune di demo­cra­zia nel suo fun­zio­na­mento. Nes­suno ci ha pen­sato più. Natu­ral­mente i ver­tici non demo­cra­tici dell’Unione hanno pre­teso sem­pre più potere; al loro interno si sono impo­sti i voleri degli stati eco­no­mi­ca­mente più potenti, fin­che si è arri­vati al punto attuale di rot­tura, in cui non si può più nep­pure par­lare di «stati che con­tano»: chi conta è solo la Ger­ma­nia. Che attra­verso la for­ma­zione men­tale di molti suoi diri­genti si tira die­tro anche difetti anti­chi.

È natu­rale che una impo­sta­zione di potere del genere cui si è accen­nato, dopo il geno­ci­dio e lo stra­zio della seconda guerra mon­diale dovesse sem­brare un grande passo avanti. Sem­brò una strada di pace, e sem­brò uno stru­mento utile da non lasciarsi sfug­gire. C’erano enormi pro­blemi pra­tici di nuova edi­fi­ca­zione degli scambi che nes­suno era stato capace di risol­vere altri­menti; c’era la pos­si­bi­lità di costruire un mer­cato di dimen­sioni con­ti­nen­tali. Forse non c’erano ancora gli stru­menti, e la men­ta­lità, per mirare a pro­spet­tive ideali ampia­mente demo­cra­ti­che; era più sem­plice sol­le­ti­cando inte­ressi meno ampi, sotto la guida di appa­rati fal­sa­mente demo­cra­tici.

Fin­ché non ci si è accorti, all’improvviso, che da un pic­colo paese, con un red­dito com­ples­sivo di poco conto, con una disoc­cu­pa­zione immensa, con un’economia fatta di piro­scafi e di atti­vità tutte minori, insi­gni­fi­canti, l’intero impianto euro­peo veniva messo in discus­sione. Quello stato, dopo avere subìto una dit­ta­tura atroce, afferma sem­pre più il valore della demo­cra­zia e del fare poli­tica (il che vuol dire anche avere dei par­la­men­tari che non votano tutti allo stesso modo, come s’usa da qual­che altra parte), e dice con forza che nella Ue ci vuole stare, ma a con­di­zioni che diventi demo­cra­tica. Occorre avere pazienza per i debiti; ma l’Europa deve invece inco­min­ciare a discu­tere subito della demo­cra­zia al suo interno. E un con­ti­nente intero non può essere domi­nato da una superpotenza.

«Da gennaio la paura dello straniero è cresciuta di nove punti, dal 33 al 42% Eppure in maggioranza condanniamo le Regioni, i Comuni e gli Stati europei che rifiutano o respingono i profughi Ecco le contraddizioni del Paese».

La Repubblica, 18 luglio 2015

VIVIAMO tempi inquieti. Sul crinale tra ferocia e paura. D’altronde, la paura incendia i sentimenti e i risentimenti. Così assistiamo, senza nemmeno stupirci, ai blocchi, alle manifestazioni, agli assalti che accompagnano i trasferimenti dei profughi in campi, scuole e caserme vuote. A Roma o a Treviso, non importa. Iniziative organizzate da residenti. Fiancheggiati da “militanti della paura”, esterni alla comunità. Eppure l’Italia e, soprattutto, il Veneto sono da oltre un decennio terra di immigrazione. Dopo essere stati, per secoli, Paese di emigranti. Diretti oltre oceano, dove sono rimasti. A milioni.

Treviso, in particolare, è divenuta, negli ultimi vent’anni, tra le province con il maggior tasso di immigrati, come molte altre aree padane, o meglio, pedemontane. Costellate di piccole e piccolissime imprese artigiane. Dove la manodopera non è certo italiana. Visto che i nostri giovani, i nostri figli, se ne vanno in massa, dall’Italia. Ma non per lavorare in fabbrica…

Le preoccupazioni suscitate dall’immigrazione, comunque, si sono allargate in fretta, negli ultimi mesi. Soprattutto in tema di sicurezza: dal 33% al 42% della popolazione, da gennaio ad oggi (Sondaggio Demos, giugno 2015). Mentre risulta stabile – e ampia – la sensazione che gli immigrati costituiscano una minaccia all’occupazione: intorno al 34-35%. L’impatto dei flussi migratori sul piano della cultura, dell’identità e della religione, a sua volta, coinvolge circa un terzo degli italiani. Non si tratta di un fenomeno nuovo.
L’immigrazione è sempre stata motivo di tensione. Da quando abbiamo iniziato a rilevare gli orientamenti dei cittadini al proposito. Cioè, dalla fine degli anni Novanta. Tuttavia, il livello di inquietudine più elevato si registra fra il 2006 e il 2008. In particolare nel 2007, quando oltre il 50% degli italiani definisce l’immigrazione un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. Mentre il 37% la percepisce come una minaccia all’occupazione.
Il timing non è casuale. In quegli anni – come al passaggio del 2000 – si era in piena campagna elettorale. E l’immigrazione ne divenne una bandiera. Agitata dalla Lega. Ma anche da Forza Italia, An, Pdl. In generale, dalla Destra. E amplificata dai media. Oggi la storia si ripete, perché siamo in clima di campagna elettorale permanente. E perché le tensioni e i conflitti in Medio- Oriente, nel Nord Africa – e nell’Africa in generale – hanno moltiplicato gli sbarchi.
Alimentando i flussi che attraversano l’Italia. D’altra parte, non bisogna pensare che l’immigrazione preoccupi solo o in particolare gli italiani. Dal sondaggio condotto lo scorso gennaio dall’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (curato da Demos, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis) emerge, infatti, come l’immigrazione sia ritenuta un problema prioritario soprattutto e anzitutto in Germania e in Gran Bretagna. Molto meno in Francia, Italia, Spagna e Polonia. Dove prevalgono, invece, le preoccupazioni relative all’economia e alla disoccupazione. Così, l’accoglienza smette di essere considerata una virtù proprio nelle destinazioni privilegiate da profughi e migranti. Dove maggiori sono le possibilità di lavoro. Dove vi sono già altre comunità di migranti, insediate da tempo.

Per questo non debbono sorprendere le proteste suscitate in Italia. Riflettono il disagio nei confronti dello “straniero”. L’inquietudine prodotta dalla globalizzazione, di cui l’immigrazione è un riflesso. Tra i più visibili e significativi: perché impatta sul nostro mondo, sulla nostra vita quotidiana. Così, se Lampedusa è divenuta la porta dei disperati in fuga verso l’Italia, l’Italia, tutta, è divenuta la Lampedusa d’Europa. “Recintata” in alcuni confini sensibili. Come quelli francesi. Controllati, a loro volta, dalla Germania e, ancor più, dalla Gran Bretagna.

Per questo motivo sorprende un poco l’orientamento degli italiani, che, in maggioranza, condannano le Regioni e i Comuni che rifiutano di accogliere una quota di profughi. E, in misura ancor più ampia, deprecano i Paesi europei che chiudono le frontie- re. Indisponibili, anch’essi, ad accettare la loro parte di immigrati.

Anche se, a loro volta, reagiscono, quando arrivano e si insediano vicino alla propria casa. Ma questo atteggiamento, in fondo, conferma la (nostra) sensibilità verso le ragioni – sociali e umanitarie - dell’immigrazione. La nostra attenzione verso i diritti degli immigrati e, ancor più, dei loro figli, ai quali gran parte degli italiani concederebbe volentieri la cittadinanza. Mentre risulta assai minore la disponibilità degli italiani ad accettarne i costi. Quando ci riguardano direttamente.

Anche per questo gli immigrati condizionano le nostre percezioni e i nostri sentimenti. E costituiscono un argomento sensibile, sul piano politico. Utilizzato, in particolare, da alcuni partiti e leader. Soprattutto della Destra. Popolare e populista. In Italia, i piani di accoglienza del governo, infatti, incontrano l’opposizione soprattutto (ma non solo) di sindaci e governatori leghisti e di centrodestra (come Maroni e Zaia). E, sul piano sociale, fra gli elettori della Lega e, in misura minore, di Forza Italia. Molto meno nella base del M5s, che, com’è noto, risulta trasversale, sul piano degli orientamenti politici e di valore.

Tuttavia, lo ripeto, non si tratta di una “sindrome italiana”. Perché colpisce l’intera Europa. Francia e Gran Bretagna per prime. Dove il Fn di Marine Le Pen e l’Ukip di Nigel Farage hanno allargato sensibilmente i loro consensi, associando il sentimento anti-europeo alla paura dello straniero. All’avversione nei confronti dell’euro. E degli immigrati. Quanto alla Germania, Angela Merkel, nei giorni scorsi, ha “fatto piangere” una ragazza palestinese, giunta da qualche anno in Germania e preoccupata per il futuro proprio e dei familiari. Le ha, infatti, spiegato, con la consueta franchezza: «Non possiamo dire “potete venire tutti”, perché non saremmo in grado di farcela e alcuni, poi, dovrebbero tornare indietro». Oppure restare ai confini. Dell’Unione – e, prima ancora, della moneta - Europea. Come i greci. E, in fondo, anche gli italiani. Vicini alla Grecia. Di poco a Nord dell’Africa. Ma (sempre più) a Sud della Germania.

«La maggiore responsabilità storica delle élites tedesche: quella di aver imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà». Micromega online, 10 luglio 2015
Uno dei più frequenti, e stupefacenti, fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell'insicurezza, vittime dell'ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell'invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere.
Vittime si sentono i tedeschi delle sanguisughe greche che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. Perché non c'è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l'alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell'Europa del nord: è assai istruttivo il rendiconto che Jacob Soll ha pubblicato sul New York Times di un convegno di economia tenutosi a Monaco di Baviera all'inizio di luglio, convegno a cui partecipavano nomi tedeschi di rilievo come Hans-Werner Sinn, Clemens Fuest, Henrik Enderlein, Daniel Gros.

Mentre per tutto il convegno l'atmosfera era stata equilibrata, “quando gli economisti tedeschi presero la parola nella sessione finale, un tono completamente diverso prevalse nella sala. Dietro le teorie economiche e dietro i numeri venne un messaggio morale: i tedeschi erano gli onesti gonzi e i greci corrotti inaffidabili e incompetenti. Ambedue le parti erano ridotte a caricature di se stesse: questa storia l'abbiamo sentita durante tutte le trattative, ma in quella stanza era chiaro quanto grande fosse il risentimento che plasma le opinioni degli economisti tedeschi”.

Per chi, come me, in questo momento sta in Grecia, è quasi surreale la rabbia che traspira dai media tedeschi nei confronti di Atene: soggiornando in un paese che è costretto a vendersi tutto, persino le isole, leggere che sono i greci che stanno derubando i tedeschi sembra di sognare a occhi aperti. Rendersi conto del vittimismo tedesco è forse l'aspetto più preoccupante nell'attuale vicenda europea. Semplicemente perché, dopo 70 anni, ripropone in Europa una questione tedesca che sembrava essere stata risolta per sempre. E forse gli storici ricorderanno il luglio 2015 non solo come il mese in cui fu affossato il progetto europeo, ma soprattutto come il momento in cui riemerse con forza la questione tedesca, dove l'aggettivo “tedesco” non riguarda i singoli cittadini della Germania, ma designa lo Stato e il governo politico ed economico tedesco, la classe dominante tedesca. Esattamente come, quando si parla di “imperialismo americano”, non si attribuiscono certo mire imperialistiche a una ragazza madre di un ghetto urbano statunitense.

E uno dei pochi motivi di gratitudine che avevamo nei confronti dell'imperialismo americano era che, semplicemente grazie alle loro dimensioni schiaccianti, gli Stati uniti avevano costretto sia le élites francesi, sia quelle tedesche a rendersi conto di “non fare il peso”, di essere gattini in un mondo di elefanti, e avevano così liberato noi europei dall'insopportabile prospettiva di altri tre secoli di guerre franco-tedesche. Ricordiamo che la Germania unita è una costruzione statale recentissima nel panorama europeo, persino più giovane della stessa Italia unita. E fin dalla sua riunificazione nel 1866, la Germania ha posto all'Europa un “problema tedesco”: in 79 anni, prima di essere ridivisa di nuovo, aveva scatenato due guerre europee (con l'Austria nel 1866 e con la Francia nel 1870) e due guerre mondiali (nel 1914 e nel 1939): una media di una guerra ogni 19 anni; solo lo Stato d'Israele (anch'esso una creazione recentissima) si sta dando da fare per battere questo record, con cinque guerre e varie guerricciole in 66 anni: a confronto, gli Stati uniti stanno a 11-12 guerre (a seconda se si considerino due guerre separate oppure la stessa guerra l'invasione dell'Iraq e quella dell'Afghanistan) in 241 anni, una guerra ogni 20-21 anni. Tanto che dopo la seconda guerra mondiale, quando la Germania fu divisa in due, molti condivisero la battuta che viene attribuita allo scrittore francese François Mauriac: “Amo talmente tanto la Germania che sono felice che ce ne siano due”.

Quasi a confermare le parole di Mauriac, appena dopo la riunificazione nel 1989, alcuni segnali avevano suscitato un po' d'inquietudine: il ruolo della nuova Germania unita nel favorire la dissoluzione della Jugoslavia e quindi nel suscitare il susseguente conflitto; la fretta nell'annettere all'Unione europea i paesi dell'Est, una fretta che ha provocato non pochi scompensi e problemi di dissonanza politica; una certa megalomania imperiale nei piani di ricostruzione di Berlino capitale. Vi si riconosceva il senso di una nuova assertività politica, anche se questi segnali potevano essere considerati errori d'inesperienza, prodotti da un'euforia che si sperava transitoria.

Né vale la pena appellarsi alla memoria collettiva. Innanzitutto è dubbio che esista qualcosa chiamato memoria collettiva. Ma se esistesse, sarebbe una memoria piena di amnesie, come dimostra il fatto che, nonostante Hiroshima e Nagasaki, più della metà dei giovani nipponici (il 52 % esattamente) ignora che vi sia mai stato un conflitto tra Giappone e Stati uniti. Il modo in cui gli italiani trattano gli immigrati è totalmente immemore delle umiliazioni, discriminazioni, persino dei linciaggi subiti dagli immigrati italiani nell'ultimo secolo e mezzo (e sono stati complessivamente decine di milioni). Anche il modo in cui gli israeliani abusano del proprio potere militare sembra incompatibile con la memoria delle angherie subite per millenni dal popoloebraico.


Perciò quando si parla di questione tedesca, non è in giocoun ipotetico, improbabile carattere etnico collettivo di supposta “teutonica”arroganza autoritaria, bensì di un atteggiamento proprio della classe dominanteche sembra discendere in linea diretta dagli Junker prussiani perché, comeloro, accompagna con una violenta svolta conservatrice ogni sua spintaespansionistica. E bisogna spazzare dal tavolo il paragone con il Terzo Reich,perché proprio l'enormità delle devastazioni prodotte dal nazismo, e dunqueproprio l'improponibilità del confronto, in un certo senso “assolve” laGermania attuale da ogni responsabilità. Più utile sarebbe ricordare laGermania bismarkiana e guglielmina. Innanzitutto perché proprioquell'esperienza ha plasmato la nascita dell'euro.
Vale la pena ricordare che una moneta unica europea (primail Serpente monetario europeo – Sme – poi l'Ecu, infine l'euro) fu lacondizione che il presidente francese François Mitterrand impose peracconsentire alla riunificazione tedesca, come strumento per imbrigliare lostrapotere prevedibile di una Germania unita. L'euro fu quindi vissuto dallaclasse dominante tedesca come l'ultimo diktat esercitato dalle potenzevincitrici mezzo secolo dopo la disfatta della seconda guerra mondiale. Ancoratre anni fa l'ex socialdemocratico, ed ex membro del Direttorio della DeutscheBundesbank, Thilo Sarrazin scriveva un libro dal titolo significativo: Europabraucht den Euro nicht. Wie uns Wunschendenken in die Krise gefürt hat(Deutsche Verlags-Anstalt), (“L’Europa non ha bisogno dell’euro: come i nostripii desideri politici ci hanno condotto alla crisi”). Sarrazin scrivevaesplicitamente che la Germania si è lasciata trascinare “nell’euro e nell’unitàeuropea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale” (dieKriegsschuld: in tedesco “colpa” e “debito” sono espressi dallo stessovocabolo: die Schuld): “I fautori (dell’euro e degli eurobonds) sonospinti dal riflesso squisitamente tedesco per cui la penitenza per l’olocaustoe la guerra mondiale è davvero conclusa solo quando noi affidiamo tutti inostri averi e il nostro denaro in mani europee”.

Assistiamo qui a un ennesimo esempio del fenomeno descritto all'inizio: vienedescritto come strumento dell'oppressione e umiliazione subite dai tedeschiquell'euro che in realtà si è rivelato per la Germania il suo più importantestrumento di dominio, controllo e sopraffazione. È l'euro che ha permesso lametamorfosi del progetto europeo dal perseguimento di una Germania europeaall'instaurazione (destinata al fallimento) di un'Europa tedesca.

Innanzitutto perché nel XX secolo il progetto di unificazione europea ha presoa ricalcare in modo sempre più pedissequo il processo di unificazione tedescanel XIX secolo: primo passo un’unione doganale col Mercato comune europeo,sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca,ognuno con diritto di veto. Poi una nuova unione doganale come quella stabilitanel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli stati membrinon avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 statidella Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un parlamentocomune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale cherappresentava gli stati: per continuare il paragone, il Consiglio federale eral’equivalente della Commissione europea, mentre il Reichstag corrispondevaall’Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollvereincorrispondeva all’Europa a due velocità, con l’Eurozona dei 17 rispettoall’Unione europea dei 27 membri. La similitudine finisce qui perché, dopo solicinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia einglobata nell’impero tedesco. Ma in realtà non finisce qui, perché in Europala Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che avevaavuto la Prussia nell'unificazione della Germania.

Naturalmente la deriva antidemocratica, francamenteautoritaria, del progetto euro non può essere ascritta alla sola Germania: lasua data d'inizio va cercata nel referendum sulla Costituzione europea bocciatonel 2005 dai francesi e dagli olandesi. Fu a partire da allora che si allontanòla prospettiva di un'unione politica e quindi di un possibile controllodemocratico sulle scelte di Bruxelles.

Ed è altrettanto naturale che ogni soggetto economico e politico del pianetacerchi di sfruttare a proprio vantaggio le circostanze che si presentano. E cheperciò la crisi economica sia stata vista come un'opportunità (e usata cometale) per perseguire i propri scopi politici e finanziari. Così i poterifinanziari di tutto il pianeta hanno sfruttato (con successo) la crisi persottrarre ai lavoratori conquiste che avevano richiesto secoli di lotta peressere ottenute. Così la Cina ha sfruttato la recessione atlantica peraffermare definitivamente il proprio status di officina del mondo. Così laGermania ha usato la crisi per sottrarre alla Francia una bella fetta disovranità nazionale, con l'ironico risultato che l'euro pensato per imbrigliareBerlino ha finito per imprigionare Parigi (in questo scontro la Grecia è soloun birillo sul tavolo da biliardo). Ma, appunto, il problema è definire ilsoggetto.

Ed è chiaro che, almeno dalla riunificazione in poi, la classe dominantetedesca ha pensato sempre meno in termini di Europa e sempre più in termini diGermania. Tanto che, a tutt'oggi, come scriveva sul Financial TimesWolfgang Münchau, l'euro ha funzionato bene praticamente per la sola Germania(in misura minore per l'Austria e l'Olanda, anche se adesso l'Olanda è incrisi). Ma l'euro è stato disastroso per l'Italia; sta rivelandosi letale perla stessa Francia; la Finlandia è in piena recessione; la Spagna e ilPortogallo sono più poveri di sette anni fa; per la Grecia non ne parliamo.Ancora una volta la narrazione prevalente in Germania è il contrario dellarealtà: l'euro viene visto come un regime di cui Berlino deve sopportare tuttii costi, da buona formica nordica che paga per tutte le cicale meridionali.Mentre è l'euro ad aver garantito la possibilità di esportate i prodottitedeschi nell'eurozona: un ritorno al marco, e la sua conseguenterivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nelmondo.

Ed è questa la maggiore responsabilità storica delle élites tedesche: quella di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che nulla ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti. Per cui assistiamo a una commedia del potere, al gioco delle parti di una classe dominante che si dice costretta a esigere dallaGrecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori diun'opinione pubblica che questa stessa classe dominante ha plasmato nellostampo più reazionario; che è costretta a esercitare una dittatura delcapitalismo per ragioni democratiche, perché altrimenti perderebbe ilconsenso popolare. Il risultato è l'evoluzione della Spd tedesca che, dopo avercacciato Sarrazin, adotta oggi con il socialdemocratico vicepremier Sigmar Gabriel tutta la visione del mondo di Sarrazin, con tutte le sue conseguenze politiche.

Quanto sia distante la narrazione che la Germania racconta ase stessa della crisi greca e della gestione da parte della Trojka, risultalampante dalla vicenda dei panettieri greci. A prima vista può sembrareridicolo che in un disastro economico come quello greco, i paesi creditori siostinino a esigere misure urgenti come la liberalizzazione della vendita delpane non solo presso i fornai ma perché no anche nei saloni di bellezza, e checonsiderino l'equiparazione dell'Iva sul pane nelle panetterie e neisupermercati (che finora pagavano di più per salvaguardare il piccolocommercio). Ma il ridicolo si trasforma in grottesco quando la Trojka impone inmodo ultimativo il diktat sul peso delle pagnotte: finora nei negozi greci sivendevano forme o da un chilo o da mezzo. Ora sarà obbligatorio venderne inpezzature diverse e graduali.
Ma che gliene può fregare ai creditori del peso della pagnotta greca? Quattroanni fa avevo iniziato un editoriale del manifesto con una frase chemi provocò indignate reazioni da parte dei miei amici tedeschi: “Dove non eragiunta la Wehrmacht, è arrivata la Bundesbank” (mi riferivo per esempio aLisbona e a Madrid). Rispetto ad allora, c'è da aggiungere che neanche igenerali prussiani si sarebbero mai sognati di legiferare sulla pezzatura dellepagnotte in terra d'occupazione.

(17 luglio 2015)

«La Repubblica, 18 luglio 2015

SUL recente referendum greco, il Movimento 5Stelle ha sfoderato una inedita retorica populista, distinguendosi a fatica dalla Lega di Matteo Salvini, anti-Europea radicale. Sentire i pentastellati evocare la “sovranità” e il “popolo” desta sorpresa. Il movimento di Beppe Grillo ha infatti sempre preferito parlare di “gente” e “cittadini” evitando l’uso di una categoria squisitamente politica come “ popolo”. Il blog di Beppe Grillo ha parlato del diritto della “popolazione” greca di esprimersi col voto. “Popolazione” è un termine generico, molto diverso da “popolo”. Disquisire sull’uso dei termini non é una questione di lana caprina, ma una via utile per capire meglio il carattere del movimento grillino, e soprattutto la ragione del suo stabile successo elettorale e d’opinione.

Il M5S è figlio del declino di legittimità dei partiti politici e della piaga della corruzione, mai rimarginata dal tempo di tangentopoli, e che ora purtroppo sta coinvolgendo pesantemente il Pd. Corruzione e disfunzionalità della classe politica sono tradizionalmente imparentate, e il M5S si è imposto con la richiesta di più competenza (ricordiamo la scelta dei candidati nelle elezioni comunali di Parma attraverso curriculum vitae) e di lotta alla corruzione (di rottamazione ha parlato prima Grillo di Renzi). Due richieste che stanno oltre le identità partigiane e che propongo di identificarle con il gentismo.

In uno dei primi e più validi libri sul grillismo, Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini hanno a ragion veduta avuto riserve a classificarlo come un movimento populista. Non basta una retorica polarizzante per fare un movimento populista. Lo schema “molti” contro “pochi” serve a unificare un movimento intorno a un tema semplificante. A volte i molti sono i senza potere (come in Occupy Wall Street), altre volte sono le persone ordinarie che non esercitano funzioni politiche e sono gente comune: questo é il caso del M5S. La denuncia della cattiva politica e della casta, sorta a ridosso delle varie tangentopoli, ha assorbito il linguaggio giustizialista, portandolo prima in piazza e poi nell’urna. Questo è l’argomento che ha unificato i seguaci di Grillo fin dall’inizio. Ma, contrariamente ai movimenti di opinione (come Occupy Wall Street OWS), il M5S non ha rinunciato alla battaglia elettorale; ha voluto entrare nelle istituzioni. Ma senza diventare partito e senza quindi prendere la strada del populismo vero e proprio.

Nonostante la sua partecipazione alla politica elettorale, infatti, il M5S non si è identificato con un leader. Grillo non è un leader populista, nonostante la sua retorica populista. E la ragione sta nel fatto che egli (insieme a Casaleggio) non si è mai candidato (non importa qui esaminarne le ragioni) e quindi non ha goduto del consenso plebiscitario dell’urna, lo strumento che, invece, ogni leader populista vuole per sancire l’unità con il suo popolo.

Dunque, il M5S ha rinunciato ad essere solo movimento di opinione ma, nonostante questo, non è mai giunto ad essere populista, perché i suoi capi sono restati nella sfera dell’opinione. Ció comporta che i rappresentanti del M5S parlano ciascuno per se, poiché il loro movimento non si è fatto partito; e anche se i capi dell’opinione intervengono quotidianamente, redarguendo, dando ordini, minacciando, i rappresentanti del M5S sono comunque lasciati a se stessi, e la sola disciplina che hanno è quella che viene dal condivide l’opinione fondatrice: quella che li ha portati ad aderire al movimento, ovvero l’attacco alla corruzione e alla casta politica.

È quindi a questa opinione unificante che occorre prestare attenzione per capire la persistenza di M5S nel quadro politico parlamentare. L’opinione contro la corruzione e chi la pratica avendone un ritorno in potere e riconoscimento — la casta — configura la più basilare delle reazioni dei cittadini contro un establishment politico. La democrazia ha sempre al suo interno una diffidenza verso chi esercita il potere. Si tratta di una reazione basilare, capace di unire indistintamente tutti. Questo è ciò che si intende per gentismo: reazione della gente comune contro gli adepti, dei cittadini ordinari contro coloro che svolgono una funzione di direzione politica. La gente non è sotto i riflettori del pubblico, ma è il pubblico. La gente è composta dai cittadini dei sondaggi — è il tribunale supremo. È l’insieme generico dei cittadini che stanno fuori dalle istituzioni. Questo indistinto gentismo è insieme il popolo e l’ideologia del M5S. E infatti Grillo preferisce usare il termine “gente” e “cittadini” invece di “popolo”.

Questo spiega molte cose: per esempio l’impossibilità di identificarlo col populismo, e poi la sua resistenza nel tempo — perché il suo alimento (la corruzione) persiste. È orizzontalismo come voce di gente comune, a volte poco informata, a volte molto pressapochista, a volte sommaria, e però mai unificata sotto un’ideologia o una leadership-guida. L’attrazione dell’elettorato si spiega con questo gentismo, una genericità che fa sentire la gente identifica a coloro che entrano in lista, simili ai generici “noi” nel senso comune, nel semplicismo delle opinioni basilari.

Questa presenza destrutturata spiega quanto poco incisivi possono essere i grillini una volta eletti. Senza struttura di partito restano quel che sono: eterni apprendisti. Ma questo fa anche la loro fortuna agli occhi della gente. Con una struttura partitica i grillini diventerebbero come tutti gli altri, e a quel punto il gentismo gli si ritorcerebbe contro. È l’anti-partito che dà loro identità quindi, più che l’anti-politica. E il web può consentire loro di essere come un movimento politico (presentarsi alle elezioni) senza diventare partito politico. Qui sta anche la sua differenza rispetto ai populisti (certamente alla Lega di Salvini) che sono strutturati e rischiano più del M5S di prendere tutti i difetti della casta, come é del resto successo alla Lega di Bossi.

Nell'intervista di Philip Olterman il duro atto d’accusa del grande filosofo alla cancelliera e al ministro Schäuble “In una notte sola si sono giocati tutto il capitale politico che la migliore Germania si era costruita nel corso degli ultimi cinquant’anni».

La Repubblica, 18 luglio 2015
«L’accordo sul debito greco annunciato lunedì è dannoso sia come risultato che per il modo con cui è stato raggiunto. Primo, l’esito dei colloqui è sconsiderato: anche considerando le condizioni capestro dell’accordo come la giusta linea d’azione, non ci si può aspettare che queste riforme siano attuate da un governo che, per sua ammissione, non crede nei termini dell’accordo. Secondo, l’esito dell’accordo non ha senso in termini economici a causa della combinazione tossica di necessarie riforme strutturali a livello istituzionale ed economico con imposizioni neoliberaliste, che scoraggeranno totalmente una popolazione greca allo stremo, e uccideranno qualunque impeto alla crescita. Terzo, il risultato dell’accordo significa che un Consiglio europeo impotente dichiara efficacemente il suo fallimento politico: la relegazione de facto di uno Stato membro allo status di protettorato contraddice apertamente i principi democratici dell’Unione europea. Infine, tale risultato è infausto in quanto costringere il governo greco ad accettare un fondo di privatizzazioni eminentemente simbolico e discutibile da un punto di vista economico non può che essere inteso come una punizione contro il governo di sinistra. È difficile fare più danni di così. Eppure il governo tedesco ha fatto questo quando il ministro delle Finanze Schäuble ha minacciato l’uscita della Grecia dall’euro, rivelandosi quindi spudoratamente come il supremo rigorista europeo. In quell’occasione, il governo tedesco ha per la prima volta affermato manifestamente la sua egemonia in Europa — è comunque così che è stato percepito nel resto d’Europa, e questa percezione definisce la realtà che conta. Temo che il governo tedesco, compresa la sua fazione socialdemocratica, si sia giocato in una notte tutto il capitale politico che una Germania migliore aveva accumulato in mezzo secolo — e per “migliore” intendo una Germania caratterizzata da una maggiore sensibilità politica e mentalità post- nazionalista».

Quando, il mese scorso, Tsipras ha indetto il referendum, molti altri politici europei lo hanno accusato di tradimento. A sua volta, la cancelliera tedesca è stata accusata di aver ricattato la Grecia. Secondo lei, chi è più colpevole del deterioramento della situazione?

«Non sono sicuro delle vere intenzioni di Alexis Tsipras, ma dobbiamo riconoscere un semplice fatto: per permettere alla Grecia di rimettersi in piedi, devono essere ristrutturati i debiti che l’Fondo monetario internazionale ha ritenuto “altamente insostenibili”. Malgrado ciò, sia Bruxelles che Berlino, sin dall’inizio, hanno persistentemente negato al premier greco l’opportunità di negoziare una ristrutturazione del debito. Alla fine, per superare questo muro di resistenze dei creditori, Tsipras ha cercato di rafforzare la sua posizione con un referendum, incassando un consenso interno superiore alle aspettative. Questa legittimazione rinnovata ha costretto la sua controparte a cercare un compromesso o sfruttare la situazione di emergenza della Grecia assumendo il ruolo, ancora più di prima, di rigorista. Sappiamo come è andata a finire».

L’attuale crisi europea è un problema finanziario, politico o morale?

«La crisi attuale è dovuta sia a cause economiche che al fallimento politico. La crisi del debito sovrano greco emersa dalla crisi delle banche affondava le sue radici nelle condizioni non ottimali di un’unione monetaria composta da parti eterogenee. Senza una comune politica economica e finanziaria, le economie nazionali di Stati membri pseudo-sovrani continueranno ad andare alla deriva in termini di produttività. Nessuna comunità politica può sostenere una tale tensione, nel lungo termine. Al contempo, concentrandosi sull’elusione del conflitto aperto, le istituzioni dell’Ue impediscono le necessarie iniziative politiche per espandere l’unione monetaria in unione politica. Solo i leader di governo riuniti nel Consiglio europeo sono in condizioni di agire, ma sono esattamente loro a non poterlo fare nell’interesse di una comunità europea coesa, perché pensano al loro elettorato nazionale. Siamo bloccati in una trappola politica».

In passato, Wolfgang Streeck ha ammonito che l’ideale europeo è la radice della crisi attuale, non il rimedio a questa: l’Europa, ha avvertito, non ha salvato, ma abolito, la democrazia. Molti europei a sinistra sentono che le vicende attuali confermano la critica di Streeck del progetto europeo. Quale è la sua posizione riguardo alle loro preoccupazioni?

«A parte la sua previsione di un’imminente fine del capitalismo, concordo ampiamente con l’analisi di Streeck. Nel corso della crisi, l’esecutivo europeo ha guadagnato sempre più autorità. Le decisioni chiave sono prese dal consiglio, dalla Commissione e dalla Bce — in altre parole proprio dalle istituzioni che non sono abbastanza legittimate per prendere tali decisioni o che non hanno alcuna base democratica. Io e Streeck conveniamo anche sull’idea che questa esautorazione tecnocratica della democrazia sia il risultato di un modello neoliberalista di politiche di deregolamentazione dei mercati. L’equilibrio tra politica e mercato è andato fuori sincrono, a spese dello stato sociale. A dividerci sono le conseguenze di questa situazione difficile. Io non capisco come un ritorno agli Stati- nazione da gestire come grandi società di capitali in un mercato globale possa contrastare la tendenza alla de-democratizzazione e alla crescente diseguaglianza sociale, a cui, appunto, assistiamo anche in Gran Bretagna. Tali tendenze possono essere contrastate, semmai, solo con un cambio di orientamento politico, portato avanti dalle maggioranze democratiche in un “nucleo europeo” più fortemente integrato. L’unione monetaria deve acquisire la capacità di operare a livello sovranazionale. Alla luce del caotico processo politico innescato dalla crisi greca non possiamo più permetterci di ignorare i limiti del metodo attuale di compromesso intergovernativo».

© The Guardian Traduzione di Ettore C. Iannelli

Sulle stupidaggini maliziose (o sprovvedute ) della destra (e della sinistra) a proposito di "piani A" e piani B". Sullo sfondo del neonazionalismo tedesco e del tradimento della socialdemocrazia europea. Il manifesto, 18 luglio 2015

La pessima socialdemocrazia tedesca non smette di stupire. L’ex ministro delle finanze di grande coalizione, nonché sfidante – si fa per dire - della Merkel nelle ultime elezioni, in una intervista al Bild ha dichiarato che non bisogna dare altri miliardi alla Grecia e che ha ragione Schäuble sulla uscita temporanea della Grecia dalla Ue, peraltro non prevista dai Trattati. Potrebbe essere una delle tante dichiarazioni stravaganti se non facesse presa anche in ambienti inaspettati. Come si sa in questi giorni la Merkel ha perso molto appeal. Non è solo Habermas a criticarla duramente. Ma l’applauso oceanico ricevuto da Schäuble da parte del Bundestag, mostra dove vada il pendolo delle preferenze in Germania. A quest’ultimo viene riconosciuta una maggiore coerenza e combattività nella difesa degli interessi nazionali. E’ il senso profondo ma evidente del report cosiddetto dei cinque presidenti, Tusk, Djissembloim, Draghi, Juncker e Schulz sulla riforma della Ue comparso a fine giugno, ove la fuoriuscita della Grecia e di altri paesi che non tengono il passo di una Ue a supertrazione tedesca, è vista non come un accidente ma una eventualità da favorire.

Il guaio è che la convinzione sulle buone ragioni di Schäuble nel proporre una Grexit, è diffusa anche tra la sinistra nel nostro paese. Si baserebbe sull’assioma che nessuna salvezza è possibile dentro questa Europa e con questa moneta unica. Si dovrebbe farla finita con “l’europeismo del dovere essere” e assumere il rude ma realistico punto di vista di Schäuble per cui per la Grecia, ma non solo, sarebbe meglio fare fagotto. Per un po’, se crede, o per sempre, meglio ancora.

Contemporaneamente si parla della necessità di adottare un piano B. Ne ha parlato Varoufakis nella ormai famosa intervista a Newstateman, salvo riconoscere che tale piano non esisteva e che comunque non c’erano le condizioni per metterlo in opera. E’ la sorte di molti piani B, che sulla carta sembrano affidabili, ma che trascurano, proprio perché ipotetici, il problema essenziale degli strumenti concreti per la loro implementazione, nei modi e nei tempi necessari alla loro riuscita. Tuttavia si dice piano B perché si suppone che esso sia la soluzione di riserva qualora le rivendicazioni principali, diciamo il piano A, non avadano in porto. In sindacalese si direbbe più semplicemente “il punto di caduta” oppure “la via d’uscita dall’impasse”. Da questo punto di vista, pur con tutti i limiti intrinseci, un piano B va sempre pensato quando si va a discutere con avversari agguerriti per evitare di rimanere tra l’uscio e il muro.

Ma nella discussione che vedo e sento in queste ultime ore, su cui molti fondano le loro asperrime, quanto ingenerose e spesso infondate, critiche a Tsipras, la questione ha preso un’altra piega. Il piano B diventa di fatto il piano A. Ovvero i greci avrebbero dovuto fin dall’inizio proporsi un’uscita unilaterale della Grecia dall’Eurozona. In questo quadro Schäuble diventerebbe paradossalmente un potenziale alleato.

Importerebbe poco o nulla che ripetuti sondaggi indicano la preferenza del popolo greco a rimanere nell’euro. Si sa, il popolo è un po’ bue e non capisce le gioie delle varie monete collaterali e sostitutive (dibattito in sé degnissimo, ma che andrebbe fatto veramente, senza l’angoscia degli ultimatum e per un’area più ampia che non quella di un solo stato). Né è rilevante che Tsipras abbia detto che nei suoi contatti internazionali con le massime potenze, non ne ha trovata una realmente disponibile ad aiutare la Grecia in caso di fuoriuscita dall’euro. Infatti gli Usa hanno interessi geostrategici che la Grecia permanga nella Ue, mentre la Cina ne ha di tipo economico e la Russia non può largheggiare di questi tempi.

Si sa, Tsipras può anche mentire. Non avrebbero peso considerazioni come quelle che sviluppa, ad esempio, Ghiorgos Anandranistakis su Avghi secondo cui uscire dalla Ue non risolverebbe i problemi nè nel breve né nel più lungo periodo, dal momento che “la parità della nuova valuta non viene unilateralmente stabilita dalla Grecia, ma viene fissata dai mercati internazionali” con conseguenze facilmente immaginabili. Né si può fare come ha detto Schäuble per cui la Grecia pagherebbe i lavoratori con degli improbabili “I owe you ”, mentre i creditori continuerebbero a essere ripagati in Euro.

L’accordo non è bello. Il primo ad averlo detto è stato Tsipras, che ne ha denunciato i pericoli recessivi. Ma non sarebbe migliorato imbroccando la strada indicata dall’avversario. Non si può del resto tacere che questa intesa ha posto sul tavolo la questione della insostenibilità del debito greco. Può essere anche ambivalente il richiamo del Fmi sulla necessità del taglio del debito: ma in primo luogo essa spacca il fronte della Troika e questo è un merito non casuale della tenacia del governo greco. Per i greci e Syriza si apre una nuova fase. Elezioni anticipate o meno la nostra solidarietà non può venire meno. Specie per chi vuole costruire una nuova Sinistra.

«“La gente pro­te­sta, scende in strada”. “Nei bar si dice che Tsi­pras ha tra­dito.” E’ com­pren­si­bile, ma per que­sto per vin­cere ci vogliono i par­titi e non i bar: pro­prio nei momenti dram­ma­tici è indi­spen­sa­bile un sog­getto con­sa­pe­vole, unito da una comune cul­tura poli­tica, da un rap­porto vero con le rispet­tive comu­nità, e non un agglo­me­rato emo­tivo».

Il manifesto, 17 luglio 2015 (m.p.r.)

Tutti si ricor­dano la famosa frase pro­nun­ciata da Ram­sey McDo­nald, primo pre­si­dente del con­si­glio di un governo labu­ri­sta in Gran Bre­ta­gna nel 1931, nel pieno dell’altra grande crisi eco­no­mica mon­diale: «Cre­devo che il peg­gio fosse stare all’opposizione senza il potere di cam­biare le cose, ora mi sono accorto che è peg­gio ancora stare al governo e non aver ugual­mente potere». Pochi ricor­dano forse quello che avvenne dopo, quando McDo­nald decise di rom­pere con il pro­prio par­tito le cui riven­di­ca­zioni non era in grado di sod­di­sfare e di dar vita ad un pes­simo governo di unità nazionale.

Ebbene, nella tri­stis­sima serata che tutti abbiamo tra­scorso ieri notte attac­cati alla tele­vi­sione per seguire quanto acca­deva ad Atene, su piazza Sin­tagma e den­tro il palazzo del Par­la­mento che vi si affac­cia, abbiamo, almeno molti di noi, tirato un sospiro di sol­lievo: non solo — lo sape­vamo già prima — Tsi­pras non è Ram­sey McDo­nald, anche se ha dovuto spe­ri­men­tare una ana­loga impo­tenza — ma, quel che più conta, la rot­tura con il suo par­tito non è avve­nuta. Sia i 40 depu­tati di Syriza che hanno votato con­tro il memo­ran­dum, sia i 109 mem­bri del Comi­tato cen­trale che hanno espresso ana­loga oppo­si­zione, hanno riba­dito che que­sto non com­porta sfi­du­cia nei con­fronti del governo. Un’altra bella prova della matu­rità di Siryza. Se que­sta unità reg­gerà anche nelle dif­fi­ci­lis­sime set­ti­mane che ci aspet­tano, il peg­gio potrà forse essere evi­tato.

La scelta del che fare a fronte di un ricatto tanto arro­gante da non esser stato nem­meno imma­gi­nato è stata per Atene molto ardua, ed è com­pren­si­bile che abbia sol­le­vato un con­fronto così accesso, anzi dram­ma­tico. Tsi­pras, come sap­piamo, ha respinto l’ipotesi di un’uscita dall’eurozona, e ha scelto di cor­rere i rischi dell’accordo leo­nino che gli è stato impo­sto per gua­da­gnare tempo - e man­te­nere una col­lo­ca­zione di governo - due fat­tori che aiu­tano ad affron­tare una situa­zione molto dif­fi­cile , ma meno dif­fi­cile di quella che si sarebbe creata, subito, ove le ban­che fos­sero rima­ste chiuse senza liquido, sti­pendi non paga­bili, blocco dei ser­vizi pub­blici, impor­ta­zioni impos­si­bili in un paese che senza com­prare all’estero il car­bu­rante per i pro­pri pesche­recci non è in grado nem­meno di pescare il pro­prio pesce . Dif­fi­cile e peri­co­losa: quando una crisi diventa così grave può acca­dere di tutto. Da parte dell’avversario, ma anche - la sto­ria ce lo inse­gna - per le ten­ta­zioni auto­ri­ta­rie cui si potrebbe cedere per con­trol­lare le ine­vi­ta­bili pro­te­ste.
Adesso, se non ci saranno lace­ra­zioni nel corpo di Syriza, sarà pos­si­bile lavo­rare per ridurre al minimo, e comun­que per distri­buire più equa­mente il peso delle misure impo­ste. Con­tando anche sull’estrema con­fu­sione che regna nel campo delle “isti­tu­zioni” UE: che non sono Maci­ste, ma una lea­der­ship sem­pre più con­fusa e sem­pre meno cre­di­bile. Basti pen­sare alla esi­la­rante uscita del Fondo mone­ta­rio, che dopo aver par­te­ci­pato ai nego­ziati con la inef­fa­bile signora Lagarde, manda adesso a dire che quell’accordo è ridi­colo, non potrà mai esser rea­liz­zato, per­chè la Gre­cia non potrà mai pagare un debito che negli anni, dopo le amo­re­voli cure dei dot­tori di Bru­xel­les, è pas­sato dal 127 % del PIL all’inizio della crisi al 176 % di oggi, al pre­ve­di­bile 200 % nel pros­simo futuro. Degli 82 miliardi che ora sono stati con­cessi ad Atene solo il 35 % andrà all’economia reale, il resto a ripa­gare debiti già con­tratti e a rifi­nan­ziare le ban­che, così come del resto è acca­duto dal 2010, quando dei 226,7 miliardi elar­giti allora ne andò solo l’11,7%.
Anche sul piano poli­tico va ben sot­to­li­neato che da que­sta vicenda la lea­der­ship euro­pea è uscita malis­simo. Anche in Ger­ma­nia: basta scor­rere la stampa tede­sca più auto­re­vole per sapere con quanta asprezza viene giu­di­cato l’operato del pro­prio governo: ” Il governo tede­sco ha distrutto in un wee­kend sette decenni di diplo­ma­zia” - ha scritto il set­ti­ma­nale Spie­gel e la auto­re­vo­lis­sima Sud­deu­tsche Zei­tung ha titolato:“La signora Mer­kel‚il nuovo nemico dell’Europa”. Per non par­lare di come in que­ste set­ti­mane si siano mol­ti­pli­cate le voci, anche isti­tu­zio­nali, di chi dice che biso­gna andar­sene dall’UE.
Tsi­pras ha invece deciso di non abban­do­nare il campo di bat­ta­glia. Poteva deci­dere di lasciar per­dere e cedere a chi sug­ge­riva di imboc­care la strada di uno sbri­cio­la­mento che avrebbe in realtà lasciato ancor più privi di forza rispetto alla finanza glo­bale i sin­goli paesi. Può darsi che per otte­nere que­sta diversa Europa sia neces­sa­rio ricor­rere anche a que­sta scelta, ma assurdo è pen­sare che dia più forza, ad Atene ma anche a tutti noi, che la Gre­cia, la più debole, imboc­chi que­sta strada da sola. Gre­xit, oggi, diven­te­rebbe solo la pate­tica vicenda di un pic­colo paese mar­gi­nale, la vit­to­ria, per l’appunto, di Scheu­bele.
Altra cosa è che a met­tere in discus­sione l’eurozona sia uno schie­ra­mento più forte, almeno i paesi medi­ter­ra­nei, sulla base di un chiaro pro­getto di lotta e di reci­proca soli­da­rietà. Que­sto fronte oggi non c’è e noi ita­liani pos­siamo solo ver­go­gnarci per­chè il nostro pre­si­dente del Con­si­glio, che avrebbe potuto, e dovuto, avere un ruolo di primo piano da svol­gere in que­sta situa­zione, ha messo, pau­roso, la testa sotto la sab­bia. Tocca anche a noi costruire un piano B, ma non solo per la Gre­cia.
Torna in primo piano il famoso con­cetto di “rap­porti di forza”, un ter­mine che sem­bra spa­rito dal voca­bo­la­rio della sini­stra, sic­chè quanto accade ad Atene c’è chi lo rap­pre­senta come l’antico dilemma fra riforme o rivo­lu­zione. Quasi che sia pos­si­bile - scrive con la tra­di­zio­nale voca­zione al richiamo teo­rico tede­sco Blo­kupy su Neues Deu­tschland - con­si­de­rare la Gre­cia come un secolo fa la Rus­sia: l‘anello più debole del capi­ta­li­smo da cui si sarebbe potuti par­tire. Lenin, del resto, quando disse que­sta frase, non sapeva che la rivo­lu­zione tede­sca sarebbe fal­lita.
Oggi, comun­que, noi sap­piamo che di un pro­cesso rivo­lu­zio­na­rio capace di soste­nere la rot­tura even­tuale della Gre­cia in Europa non c’è nem­meno l’odore. Non è rivo­lu­zio­na­rio sbat­tere comun­que la testa con­tro il muro senza valu­tare se si rompe la testa o si sbri­ciola il muro. Pre­ser­vare la testa non è un atto di viltà, ma di intel­li­genza. Almeno se si intende com­bat­tere ancora e non solo costruire un monu­mento ai mar­tiri.
“La gente pro­te­sta, scende in strada” - ci dicono anche nostri con­na­zio­nali che sono in Grecia.“Nei bar si dice che Tsi­pras ha tra­dito.” E’ com­pren­si­bile, ma per que­sto per vin­cere ci vogliono i par­titi e non i bar: pro­prio nei momenti dram­ma­tici è indi­spen­sa­bile un sog­getto con­sa­pe­vole, unito da una comune cul­tura poli­tica, da un rap­porto vero con le rispet­tive comu­nità, e non un agglo­me­rato emo­tivo. Per costruire l’egemonia neces­sa­ria ad affron­tare situa­zioni com­plesse, con lotte mirate e non solo con la mol­ti­pli­ca­zione delle pro­te­ste.
E’ vero che lasciare solo alla poli­tica - par­titi e isti­tu­zioni - il potere di deci­dere può esser peri­co­loso, e lo è stato tante volte in pas­sato. Per que­sto sono utili movi­menti e forme dirette di espres­sione della società civile e spe­riamo che ce ne siano in Greci a pun­go­lare, anche con­te­stan­dole, le deci­sioni che ver­ranno prese. Ma la pro­te­sta indif­fe­ren­ziata di quello che ora viene chia­mato “il basso” che si con­trap­pone all’”alto”, per usare un con­cetto che oggi va di moda, non basta. E infatti, fin’ora, il 99%, seb­bene sia una così grande mag­gio­ranza di sof­fe­renti, non vince. Occorre di più.

Io la penso così. Ma sono molto con­for­tata nel riscon­trare che la grande mag­gio­ranza di coloro che stanno cer­cando di costruire in Ita­lia un nuovo sog­getto poli­tico uni­ta­rio la pensa in modo ana­logo. A qual­che­cosa la lunga sto­ria della nostra sini­stra - primo fra tutti il “genoma Gram­sci” - ci è pur servita !

«È un grande problema di filosofia del diritto. E, tuttavia, la psicoanalisi mostra come in tutti i processi di crescita della vita individuale e collettiva l’applicazione (inumana) della Legge che non sa fare posto all’eccezione genera solo mostri».

La Repubblica, 17 luglio 2015 (m.p.r.)

Ne La vita è bella il protagonista, un indimenticabile Roberto Benigni, custodisce il sogno del figlio proteggendolo dalle atrocità del campo di sterminio. Trasfigura l’orrore in un gioco a premi; il bambino crede alla parola del padre, non la mette in dubbio, accoglie il trasferimento al campo come una vacanza un po’ strana, ma eccitante. Il velo della parola paterna ricopre il reale terrificante della morte e della distruzione. La posta in gioco è alta: quanta verità può sopportare un essere umano? E, ancora di più, quanta verità può sopportare un bambino?

Nel video che riprende la cancelliera Angela Merkel impegnata in una conversazione con un gruppo di giovani colpisce innanzitutto il volto della sua interlocutrice. È quello di una ragazzina palestinese che la guarda con occhi scuri spalancati come se si trovasse di fronte ad un Gigante buono al quale affidare le proprie speranze di salvezza. Racconta così al Gigante di aver studiato tedesco e inglese, di essersi impegnata insieme alla sua famiglia per rendere possibile una vita degna per poi confessarle senza veli la propria angoscia: cosa ci accadrà se a mio padre, come sembra, non verrà rinnovato il permesso di soggiorno? Come in molte fiabe la ragazzina affida a chi ha potere il suo voto disperato nella speranza che venga preso in considerazione. Ma la Merkel dimostra di non credere alla fiabe. Il tono della sua comunicazione si raffredda e cambia immediatamente registro: convoca la spietatezza del reale. «Non possiamo accogliervi tutti, siete in troppi!». Il voto di speranza viene rispedito al mittente. E la ragazzina, delusa, crolla tra le lacrime.

Nella sua risposta il Gigante non sceglie la via del cuore. Non pensa di velare l’orrore del reale. Risponde come fosse di fronte ad una interpellanza parlamentare. Non mente, non nutre fantasie di accoglienza, non fa demagogia, non evita il carattere necessariamente scabroso e deludente della sua risposta. Il Gigante non protegge, come accade nelle fiabe, dalla minaccia del reale, ma evoca questa minaccia come semplicemente immodificabile. Chi potrebbe darle torto? Non si possono accogliere tutti. Questo è il punto più sensibile di tutta la scena: la ragazzina invoca il sogno di una vita libera e degna. Il Gigante la stronca appellandosi al carattere oggettivo della realtà.
Impossibile non pensare qui alla vicenda greca e alla posizione di Tsipras, ma, più, in generale quella di chi coltiva una idea di Europa che non si riduce all’applicazione arida di una Legge impersonale. Nella sua prima risposta alla ragazzina palestinese Merkel evoca precisamente questo volto della Legge; quello che non sa fare eccezioni, che stabilisce un rapporto diretto e immodificabile tra l’infrazione e il suo castigo; che schiaccia il diritto del particolare sotto l’impero necessario dell’universale. D’altra parte, replicherebbe il Gigante, se l’eccezione diventasse la regola non vi sarebbe più alcuna possibilità della Legge. Come darle torto. È un grande problema di filosofia del diritto. E, tuttavia, la psicoanalisi mostra come in tutti i processi di crescita della vita individuale e collettiva l’applicazione (inumana) della Legge che non sa fare posto all’eccezione genera solo mostri. Lo sappiamo: il genitore che diventa un incubo per i suoi figli è quello che si identifica integralmente alla Legge rifiutando ogni sconto nella sua applicazione. Il genitore che diventa un incubo è quello che non sa ridurre il debito, ma che lo invoca in ogni occasione per far sorgere nel figlio il peso della colpa.
Se riguardiamo ancora la conversazione tra il Gigante e la bambina non possiamo non chiederci: nel rapporto tra le generazioni è davvero questo il compito primo della parola dell’adulto? Quello di ricordare alle nuove generazioni il carattere spietatamente immodificabile della realtà? La parola di un adulto che si rivolge ad un giovane che ha dato, come quella ragazzina, prova di impegno non dovrebbe innanzitutto valorizzare il significato di quella prova? Non dovrebbe alimentare la potenza del sogno, dell’impresa, dello slancio, della possibilità del cambiamento.
È solo il pianto realissimo della ragazzina che sveglia il Gigante dal sonno di una Legge che non conosce il sogno dell’eccezione. Il Gigante allora le si avvicina, prova a consolarla, la rincuora sinceramente. Le dice che la «situazione è difficile», ma che lei è stata brava. Bisognerebbe sempre ricordare ai Giganti che se il mondo non è un sogno, il mondo senza sogno deprime e muore.
«Il problema non sono immaginarie tentazioni di un nuovo imperialismo tedesco, bensì il dogmatismo di Berlino, l’ossessiva convinzione che qualsiasi debitore debba sempre ripagare tutto a ogni prezzo, anche a costo della propria sopravvivenza».

La Repubblica, 17 luglio 2015 (m.p.r.)

Berlino. Sono giorni difficili per tutti. Per questo vorrei cominciare prendendo le distanze da certi attacchi e pregiudizi contro la Germania. Non dobbiamo dimenticare che sul tema del terzo pacchetto d’aiuti alla Grecia, Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble non sono soli. Una maggioranza di paesi dell’eurozona è dalla parte della Germania: Irlanda, Portogallo, Spagna, i Baltici e altri. Sarebbe stato saggio, certo, se Merkel avesse lasciato a un non tedesco l’annuncio dell’accordo. Non è una cosa buona se gli europei a ogni occasione sfoderano sentimenti antitedeschi di natura populista, se non razzista. Cari amici europei, volete spiegarmi quando parlate di “Quarto Reich” o simili che cosa Merkel o Schaeuble avrebbero in comune con Hitler? Tutti, noi stessi e il resto d’Europa, dovremmo fare attenzione all’igiene delle parole.

D’altra parte io ritengo che il terzo pacchetto d’aiuti fallirà come i primi due pacchetti. Perché nella migliore delle ipotesi potrà aiutare i greci a ripagare una parte del loro debito, già definito «insostenibile» dal Fmi. Sarebbe stato molto meglio ammettere che la politica dell’austerity è fallita e che la Grecia ha invece bisogno urgente di investimenti per la crescita.

Veniamo qui al problema di fondo: Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble non vogliono dire la verità ai loro elettori. E cioè che la Grecia non è in grado di pagare i suoi debiti, né presenti né futuri. Su questo almeno ha ragione Tsipras: questi cosiddetti “aiuti” son servono. Il vertice tedesco rimane prigioniero del proprio dogmatismo della stabilità monetaria. Il problema non sono immaginarie tentazioni di un nuovo imperialismo tedesco, bensì il dogmatismo di Berlino, l’ossessiva convinzione che qualsiasi debitore debba sempre ripagare tutto a ogni prezzo, anche a costo della propria sopravvivenza. C’e un ’altra scuola di pensiero, quella di economisti come Piketty, Krugman o Stiglitz, qui quasi mai citata: solo un’economia che cresce può produrre il surplus necessario per ripagare debiti.
Sta qui il paradosso tragicomico del rifiuto di Merkel di dire la verità agli elettori tedeschi. I quali già conoscono già il segreto: tutti i soldi dati ai greci non torneranno. La spiegazione più probabile di questo paradosso è che agli elettori tedeschi piace ascoltare bugie. Infatti la popolarità della cancelliera non ha sofferto, quella di Schaeuble è all’apice. Nell’animo collettivo, tanti tedeschi vorrebbero la Grexit, ma poiché nessuno li informa su cosa ciò significherebbe per l’euro e l’economia mondiale non si ribellano. E intanto chiudono gli occhi davanti a un trasferimento di risorse che non viene chiamato col suo nome, eppure è tale: una montagna di soldi a un partner in fallimento. E siccome avviene senza unione politica europea, sarà inutile. Riproduce solo la contraddizione originale dell’euro.
Al tempo stesso, l’élite e gli elettori in Germania sottovalutano la minaccia dei vari populismi. Solo un esempio: che succederà se in Spagna Podemos vincerà le elezioni? Imiterà Tsipras? Di fronte a svolte del genere in un grande paese l’autoinganno tedesco potrebbe rivelarsi fatale. Intanto il tempo stringe: bene farebbe Berlino a negoziare con gli altri europei sulle politiche di crescita, adesso che non vediamo populisti al potere a Parigi o a Roma.
Merkel e Schaeuble dovrebbero trovare la forza di ammettere che la loro politica del rigore è sbagliata. È giusto dire ai greci che avranno aiuti solo in cambio di riforme concrete e provabili. Ma è assurdo aspettarsi rimborsi del debito facendo finta di non vedere la povertà e la disoccupazione giovanile che aumentano di continuo, in Grecia ma anche altrove, e nutrono rabbia ostilità e pregiudizi. Se la Germania crede che il suo modello, peraltro storicamente ambivalente, possano funzionare ovunque, potrà aspettare fino alla prossima età della pietra.
«Si può e si deve discu­tere per capire se si poteva otte­nere di più a Bru­xel­les, ma viste la spro­por­zione delle forze in campo e ciò che era in gioco, adesso si può dire che Tsi­pras ha, momen­ta­nea­mente, sal­vato il paese dalla cata­strofe».

Il manifesto, 17 luglio 2015 (m.p.r.)

Potremmo rubare a Woody Allen uno dei suoi ful­mi­nanti para­dossi e pre­starlo a Ale­xis Tsi­pras: «Messa l’umanità di fronte a un bivio, da una parte la strada che porta alla dispe­ra­zione e allo scon­forto più asso­luto e dall’altra la strada che porta alla totale estin­zione, pre­ghiamo che il cielo ci dia la sag­gezza di fare la scelta giu­sta». Per­ché la notte di Atene è pas­sata, ma il voto favo­re­vole che ha dato via libera al piano con­cor­dato in Europa, ha il sapore amaro rac­con­tato dai volti dei par­la­men­tari, soprat­tutto quelli del par­tito di mag­gio­ranza, Syriza, che esce lace­rato, diviso, da que­sto pas­sag­gio stret­tis­simo, ine­vi­ta­bile al punto in cui era arri­vata la trat­ta­tiva a Bru­xel­les e con­si­de­rato il bivio dram­ma­tico che il pre­si­dente del con­si­glio greco aveva di fronte.

Niente sor­risi, niente applausi, solo ten­sione e, forse, un ran­core poli­tico che potrebbe por­tare ulte­riori divi­sioni. «Que­sta lotta un giorno darà i suoi frutti», ha detto Tsi­pras pren­dendo la parola in aula nel suo sof­ferto discorso al par­la­mento. Ma nes­suno è pro­feta in patria, spe­cial­mente se ha da pro­met­tere sacri­fici e dignità che, come è evi­dente, non ser­vono a com­prare il pane. Lo sa bene Tsi­pras, lea­der discusso ormai, che non veste più i panni dell’eroe greco, per­ché parte dei suoi e del popolo potreb­bero vol­tar­gli le spalle. Lui ha scelto di met­tersi com­ple­ta­mente in gioco, sapendo che anche vin­cendo, il prezzo da pagare, poli­tico e per­so­nale, sarebbe stato, anzi è, duris­simo. Sapeva di chie­dere un refe­ren­dum, non più con­tro i duri delle potenze euro­pee, ma su di sé. Ora che il dado è tratto, diventa più dif­fi­cile il cam­mino da per­cor­rere. Per­ché dovrà fron­teg­giare situa­zioni diverse, sapendo che pur avendo otte­nuto un largo con­senso in Par­la­mento, non ha più die­tro di sé un eser­cito com­patto, pronto a seguirlo a tutti i costi. E’ pro­ba­bile un rim­pa­sto di governo, si parla di ele­zioni in autunno.
Intanto il nuovo pac­chetto di riforme è un campo minato. Innan­zi­tutto dall’Europa, un cer­bero pronto a sbra­nare Tsi­pras se il piano con­cor­dato non verrà appli­cato nei tempi e nelle moda­lità pre­vi­ste. Eppure, para­dos­sal­mente, la Gre­cia può tro­vare un “soste­gno” pro­prio in uno dei com­po­nenti della Troika, il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale che improv­vi­sa­mente rin­sa­vi­sce e “sostiene” il lea­der greco affer­mando la neces­sità di un forte un taglio al debito, e in ogni caso chiede agli inter­lo­cu­tori isti­tu­zio­nali un suo allun­ga­mento tren­ten­nale. Inol­tre la Gre­cia potrebbe con­tare sull’appoggio di Fran­cia e Ita­lia (anche se in modo subal­terno), a loro volta inte­res­sate a tro­vare un accordo per non essere il pros­simo tar­get di Ber­lino. E’ più dura la situa­zione che Tsi­pras dovrà fron­teg­giare nel pro­prio paese. Gli scon­tri di piazza, voluti e orga­niz­zati da una mino­ranza di anar­chici, potreb­bero essere solo un assag­gio di quel che avverrà nei pros­simi mesi, se la vita di ogni giorno dei greci non miglio­rerà. Per un par­tito di sini­stra sarebbe grave dover usare la forza nei con­fronti degli oppo­si­tori. Però il rischio c’è ed è fortissimo.

Al tempo stesso il lea­der dovrà misu­rarsi con la mino­ranza di Syriza, un par­tito diviso, come ha mostrato chia­ra­mente il voto della dire­zione e di un gruppo di par­la­men­tari. La mino­ranza, dopo il voto di ieri notte, assi­cura che non toglierà la fidu­cia al governo, ma già il “no” par­la­men­tare è stato in qual­che modo un voto di “sfi­du­cia”. Si arri­verà ad una scis­sione con la nascita di un nuovo par­tito di sini­stra? Ne è anti­ci­pa­zione il com­por­ta­mento dell’ex mini­stro Varou­fa­kis e degli altri che, d’accordo con lui, decli­nano ogni respon­sa­bi­lità in que­sta vicenda?

Chi vuole attri­buire a Tsi­pras ogni “colpa”, non può dimen­ti­care che ha dovuto fron­teg­giare strut­ture, donne, uomini, paesi, con un potere enor­me­mente più grande di lui. Si può e si deve discu­tere per capire se si poteva otte­nere di più a Bru­xel­les, ma viste la spro­por­zione delle forze in campo e ciò che era in gioco, adesso si può dire che Tsi­pras ha, momen­ta­nea­mente, sal­vato il paese dalla cata­strofe.
Un risvolto della meda­glia comun­que c’è: la Gre­cia ha messo in evi­denza che l’Europa, come il re, è nuda. Che ognuno pensa a pro­pri inte­ressi. E che altri inte­ressi — ben più con­creti, quelli sui debiti — ven­gono trat­tati estor­cendo inte­ressi sugli inte­ressi: le san­gui­su­ghe sareb­bero meno ingorde.
Ora andrebbe soste­nuta l’idea di chi pro­pone di orga­niz­zare una Con­fe­renza Inter­na­zio­nale sul debito in Europa. Sarebbe solo uno di tanti pro­blemi emersi in que­ste set­ti­mane, però estre­ma­mente impor­tante. Anche per l’Italia. Ma qual­cuno dovrebbe dirlo a Renzi.

Il manifesto, 16 luglio 2015 (m.p.r)

James K. Gal­braith, amico e «con­si­gliere» dell’ex mini­stro delle Finanze greco Yanis Varou­fa­kis, riflette sul fal­li­mento della poli­tica rifor­mi­sta di Syriza e sulla lezione che que­sto rap­pre­senta per la sini­stra europea.

Come giu­dica l’accordo rag­giunto tra Gre­cia e Ue?
Non è un accordo. È un bru­tale colpo di stato otte­nuto con metodi mafiosi. Lo stesso Tsi­pras ha ammesso che ha fir­mato solo per­ché si è tro­vato con un col­tello alla gola.

Che alter­na­tive aveva il governo greco?
Den­tro l’eurozona, nes­suna. L’unica alter­na­tiva era l’uscita dall’euro.

Tsi­pras ha difeso la sua deci­sione soste­nendo che un’uscita uni­la­te­rale dall’eurozona avrebbe avuto con­se­guenze ancora più serie sul paese.
È una deci­sione che spetta a lui, e capi­sco per­ché possa pen­sarla così. Ma ritengo che sia male informato.

Quindi lei ritiene che a que­sto punto un’uscita dall’euro sarebbe la scelta migliore per la Grecia?
È ovvio che un’uscita avrebbe dei costi signi­fi­ca­tivi. Ma se fossi un mem­bro del par­la­mento greco sarei al fianco di Varou­fa­kis e vote­rei anch’io «no» a que­sto accordo.

In quanto con­si­gliere ed amico stretto di Varou­fa­kis lei ha seguito i nego­ziati molto da vicino. Ritiene che una stra­te­gia diversa da parte della Gre­cia avrebbe potuto deter­mi­nare un esito migliore?
A un certo punto nel corso dei nego­ziati è diven­tato evi­dente che la troika non aveva nes­suna inten­zione di trat­tare e non avrebbe accet­tato niente all’infuori di una ripro­po­si­zione del vec­chio Memo­ran­dum. La Gre­cia ha senz’altro sot­to­va­lu­tato con chi aveva a che fare. Pren­diamo Schäu­ble: subito dopo la vit­to­ria di Syriza dichiarò che «le ele­zioni non fanno alcuna dif­fe­renza». Molti al tempo pen­sa­vano che scher­zasse. E invece ha man­te­nuto quella linea fino alla fine. In quelle con­di­zioni, l’unica cosa che poteva fare la Gre­cia era costrin­gere l’avversario a venire allo sco­perto, sma­sche­ran­dolo. E ci è riuscita.

Lei è stato molto cri­tico nei con­fronti del com­por­ta­mento tenuto dalla Bce.
Cer­ta­mente. La scelta della Bce di assu­mere il ruolo di “sca­gnozzo” dei cre­di­tori – sot­to­po­nendo la Gre­cia a una lenta asfis­sia finan­zia­ria che ha desta­bi­liz­zato l’economia e messo in ginoc­chio il sistema ban­ca­rio – è stato un atto di bru­ta­lità inau­dita, senza pre­ce­denti, che sol­leva mol­tis­simi dubbi sull’integrità di quell’istituzione. La pres­sione eser­ci­tata dalla Bce è il motivo prin­ci­pale per cui Tsi­pras è stato costretto ad accet­tare le con­di­zioni impo­ste dalla troika.

Ritiene che il governo greco sia stato inge­nuo nel cer­care fino alla fine di giun­gere a un «com­pro­messo ono­re­vole», quando evi­den­te­mente la con­tro­parte non aveva nes­suna inten­zione di scen­dere a com­pro­messi, al punto di arri­vare addi­rit­tura a minac­ciare il Grexit?
No, non credo. Il governo greco ha fatto l’unica cosa che poteva fare, visto che non aveva altre carte da gio­carsi: pre­sen­tare le pro­prie argo­men­ta­zioni nella maniera più chiara e logica pos­si­bile, spe­rando che la ragione e il buon senso aves­sero qual­che effetto sulla con­tro­parte. Penso che que­sta stra­te­gia abbia avuto un impatto enorme sull’opinione pub­blica euro­pea. Pur­troppo non ha influito mini­ma­mente sui rap­porti di forza in seno all’Europa. Non è stata una stra­te­gia inge­nua: è stata una stra­te­gia det­tata dallo squi­li­brio di forze in campo.

Ritiene che la Gre­cia avrebbe dovuto gio­carsi la carta del «Gre­xit» fin dal principio?
Non è detto che que­sto avrebbe raf­for­zato la posi­zione nego­ziale di Syriza. Primo, avrebbe voluto dire tra­dire il man­dato elet­to­rale di Syriza. Secondo, biso­gna tenere pre­sente che era chiaro fin dall’inizio che una parte dell’establishment tede­sco vedeva di buon occhio il Gre­xit. Dun­que non c’è motivo di rite­nere che minac­ciare espli­ci­ta­mente l’uscita avrebbe miglio­rato la posi­zione di Syriza o costretto gli euro­pei a più miti con­si­gli.
Il punto è che quello di Syriza è stato un test: vedere se una stra­te­gia basata su argo­men­ta­zioni logi­che, sulla ragione e sui fatti – tesa a dimo­strare l’evidente fal­li­mento delle poli­ti­che eco­no­mi­che per­se­guite finora – poteva pre­va­lere all’interno dell’eurozona, alla luce delle posi­zioni poli­ti­che ed ideo­lo­gi­che degli altri part­ner. Que­sto è quello che ha cer­cato di fare Tsi­pras, con le uni­che armi a sua dispo­si­zione: il buon senso e la ragione. Ma quelle armi non hanno avuto effetto. Que­sto deve indurci a fare una rifles­sione molto pro­fonda su quello che è diven­tata l’Europa.

Quale pensa che sia la lezione che gli altri movi­menti e par­titi della sini­stra in Europa dovreb­bero trarre dalla vicenda di Syriza?
Tutta la stra­te­gia di Syriza era basata su un’incognita: può un paese che ha pagato sulla pro­pria pelle il dram­ma­tico fal­li­mento delle poli­ti­che euro­pee spe­rare di cam­biare quelle poli­ti­che all’interno della cor­nice dell’eurozona? Bene, penso che la rispo­sta a quella domanda sia evi­dente a tutti.

Non ritiene che una stra­te­gia impron­tata alla riforma dell’Ue e dell’eurozona avrebbe qual­che spe­ranza di suc­cesso in più se a por­tarla avanti fosse un par­tito poli­tico alla guida di un paese eco­no­mi­ca­mente e poli­ti­ca­mente più rile­vante come, per esem­pio, la Spagna?
Sta all’elettorato spa­gnolo deci­dere se ten­tare la strada greca o meno. Al loro posto, io non sce­glie­rei quella strada. Non penso che sarebbe una posi­zione facile da ven­dere agli elet­tori, alla luce della vicenda greca. Anche per­ché ormai la posi­zione dei cre­di­tori la cono­sciamo bene, ed è incre­di­bil­mente rigida: niente taglio del debito e nes­suna devia­zione dalle poli­ti­che di auste­rità estrema che abbiamo visto finora.

Come rea­gi­rebbe l’esta­blish­ment euro­peo alla vit­to­ria di un par­tito come Syriza in un altro paese della peri­fe­ria, secondo lei?
Assi­ste­remmo alla stessa semi-automatica sequenza di eventi a cui abbiamo assi­stito in Gre­cia: per prima cosa le ban­che del Nord comin­ce­reb­bero a tagliare le linee di cre­dito alle ban­che del Sud. A quel punto dovrebbe inter­ve­nire la Bce con la liqui­dità di emer­genza. Que­sto spin­ge­rebbe la gente a por­tare i capi­tali fuori dal paese, e in poco tempo il governo si ritro­ve­rebbe a gestire una crisi ban­ca­ria. Va da sé che se que­sto avve­nisse in un paese come la Spa­gna o l’Italia, avrebbe riper­cus­sioni infi­ni­ta­mente più gravi di quello a cui abbiamo assi­stito in Grecia.

Qua­lun­que par­tito di sini­stra che aspiri a gover­nare un paese euro­peo deve essere pre­pa­rato a questo.

«Come non vedere che attraverso la questione greca si è voluto risolvere proprio la questione Bruxelles, annunciando con inusitata durezza quale Europa politica ci attende per quanto riguarda leadership, forze politiche, contenuti?». La Repubblica, 16 luglio 2015

NON mi riconosco nell’Europa nata tra il 12 e il 13 luglio. Sembra che l’Unione abbia abbandonato l’ambizione di costruire il suo popolo. Di questo dovrebbero essere consapevoli soprattutto quelli che hanno molto investito nell’Europa unita come grande progetto politico, e che oggi solo partendo da queste amare considerazioni realistiche possono ancora coltivare un’estrema speranza di riacchiappare un filo che appare ormai spezzato.

Abbandoniamo ipocrisie e luoghi comuni. Onorevole compromesso, né vincitori né vinti, ora è il momento della crescita, risolta la questione greca ora vi è la questione Bruxelles, serve più Europa politica. Come non vedere che attraverso la questione greca si è voluto risolvere proprio la questione Bruxelles, annunciando con inusitata durezza quale Europa politica ci attende per quanto riguarda leadership, forze politiche, contenuti? Sull’indubbia supremazia tedesca è inutile insistere, se non per sottolineare quanto sia debole la tesi dell’importante mediazione di Hollande. Che altro poteva essere chiesto alla Grecia dopo tutto quello che le era stato imposto? E che altro poteva avvenire dopo la riduzione della Grecia a protettorato, come ha ben scritto Lucio Caracciolo?

La verità è che questa vicenda ha certificato anche la dissoluzione della socialdemocrazia europea. Nel vuoto così lasciato, da tempo hanno cominciato ad insediarsi i populismi antieuropeisti, ai quali i partiti socialisti o socialdemocratici non sono stati capaci di contrapporre alcuna plausibile strategia. L’ultimo spettacolo offerto dal partito socialdemocratico tedesco, attraverso le prese di posizione del suo vice-cancelliere e del presidente del Parlamento europeo, è a dir poco imbarazzante. Ma l’allineamento degli altri partiti dell’Internazionale socialista, a cominciare dalla Francia e dall’Italia, è stato nella sostanza così totale da rendere ormai indistinguibili i loro programmi da quelli degli schieramenti conservatori. Con le ultime, unanimi decisioni di Bruxelles siamo entrati palesemente nell’area del partito unico europeo.

Ma questo non basta per sventare i rischi dei populismi montanti. Se l’Unione ha deciso di costruirsi come una organizzazione senza popolo, non vuol dire che il popolo sia cancellato. Con due effetti. I popoli si prendono le loro rivincite affidandosi a chi ne evoca una autonomia insidiata da Bruxelles. E si manifestano fenomeni di rinazionalizzazione, già ben analizzati da Wolfgang Streek, che hanno altrettanto potenziale distruttivo. Non si può condannare il nazionalismo della decisione di Tsypras di indire un referendum, e poi distogliere lo sguardo da una politica tedesca condizionata evidentemente dalle dinamiche interne a questo Stato. Se, poi, si voleva colpire Tsypras per educare Podemos, si tratta davvero di una strategia senza sbocco o più precisamente di una strategia che, infiacchendo la democrazia, favorirà una sostanziale disgregazione dell’Europa.

La questione della necessaria legittimazione dell’Unione europea attraverso meccanismi diversi da quelli puramente economici era stata ben colta nel giugno del 1999, quando il Consiglio dell’Unione europea decise di mettere in cantiere una Carta dei diritti fondamentali. Si giustificò questa iniziativa sottolineando esplicitamente che “ la tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità”. Non è un richiamo nostalgico. Quelle parole coglievano un punto nevralgico per lo sviluppo dell’Unione, essendo divenuto evidente che, per ottenere piena legittimazione da parte dei cittadini, all’integrazione economica e monetaria doveva essere affiancata, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. La Carta dei diritti fondamentali ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, ma è stata cancellata dal quadro istituzionale europeo, sopraffatta dalla logica economica. Allo storico deficit di democrazia dell’Unione europea si è affiancato così un sempre più distruttivo deficit di legittimazione, che sconfina ormai nell’illegalità.

Non è arbitrario, allora, prevedere che il “più politica”, continuamente invocato, altro non possa essere che l’istituzionalizzazione e la formalizzazione delle logiche anche violente che hanno caratterizzato l’ultima fase, con un esercizio impietoso del potere che ha prodotto esclusione delle persone e espropriazione dei diritti. Sempre più lontani dalle parole del Preambolo della Carta dei diritti dove si afferma che l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”. E sempre più vicini ad una stretta istituzionale che, modificando i trattati, intende costruire il “fiscal compact” come essenziale punto di riferimento.

L’Europa sociale, l’Europa del vivere in dignità e diritti, è dunque irrimediabilmente perduta? La domanda è legittima, e le risposte inclinano verso il pessimismo. Ma una conclusione così sconsolata – non per i sentimenti personali, ma per le sorti della democrazia – dovrebbe essere misurata attraverso una analisi che parta da una domanda diversa. Oltre al nuovo partito unico del rigore e ai diversi populismi si scorgono forze che possano riprendere il cammino dei diritti sociali non come rivendicazione egoistica contro “l’idraulico polacco”, ma come possibilità concreta di una azione statuale e sovranazionale che metta a frutto le analisi di tanti economisti e giuristi che hanno mostrato la forza distruttiva delle politiche finora seguite? Si consoliderà questa consapevolezza culturale, si tradurrà in iniziative concrete? Non dimentichiamo che la guerra fredda venne combattuta mostrando concretamente la superiorità di una democrazia innervata dai diritti delle persone. Non dovrebbe essere questo il modello da seguire nel nuovo conflitto con il totalitarismo economico?

Una visione ragionevole e laicamente distaccata del dramma greco (e della tragedia europea) riporta l'accento sulla questione centrale: con quali forze e con quali alleanze si può provare a costruire un'altra Europa e scalzarne il poderoso gruppo di potere che occupa l'UE? Dalla lista di discussione di "L'altra Europa con Tsipras", 14 luglio 2015

I negoziatori del 12 luglio sono entrati nella sala della riunione in grisaglie e ne sono usciti con il volto di Dracula. Un volto che ossessionerà tutti i cittadini europei, mano a mano che si renderanno conto di quel che è accaduto; ma che da oggi ossessionerà anche i loro governanti: perché non aver difeso la Grecia di Tsipras oggi, ed essersi anzi uniti al drappello sempre più folto di coloro che ne hanno diretto il waterboarding, li espone, domani, alla prospettiva di trattamento analogo. Non solo non potranno più permettersi di proporre un cambio di rotta, ma dovranno sottostare alle pretese ogni giorno più esose di chi guida la danza dell’austerity. Con il 2016 entra in vigore il fiscal compact, cioè l’obbligo di cominciare a rientrare dal proprio debito. Nessuno ci pensava o ne parlava più; ma ora quel patto potrà essere richiamato in sevizio e scombussolare piani e bilanci di tutti gli Stati: non solo quelli già a rischio, come Italia, Spagna e Portogallo; ma anche Francia, Olanda o Finlandia, che non stanno molto meglio. I birilli di questo bowling rischiano di cadere uno dopo l’altro, e di coinvolgere, prima di quanto si possa pensare, anche la Germania.

Attaccare oggi Tsipras dopo averlo sostenuto ed esaltato fino a ieri è un po’ gaglioffo; specie se a farlo sono dei politici italiani. Innanzitutto perché da qui è difficile avere un quadro esauriente della situazione greca. Poi, perché, dopo averne condiviso l’operato, bisognerebbe mettersi “nei panni” di Tsipras, cioè di fronte alle alternative tra cui ha dovuto fare le sue scelte. Ma soprattutto perché, subito dopo, bisognerebbe ritornare nei nostri, di panni: di chi cioè ha dissipato il patrimonio della sinistra più forte d’Europa (non che non fosse da liquidare) senza aver saputo sostituirvi niente che non sia l’eterna riproposizione della propria inconsistenza. Ma se è sbagliato voltare le spalle a Tsipras in questo difficile passaggio, non per questo diventa necessario appiattirsi sulle sue posizioni. Si dovrebbe guardare la vicenda greca con quel tanto di distacco che ci è possibile per ricavarne fin da ora degli insegnamenti.

Innanzitutto l’inconsistenza intellettuale e la malafede dei negoziatori sia dell’eurogruppo che del Consiglio, già evidenziate più volte da Varoufakis, si proiettano su tutto l’establishment europeo di cui sono espressione. Una classe dirigente che manda a fondo la Grecia pensando di ricavare 50 miliardi da asset che possono essere svenduti al massimo a 7 (la favola delle privatizzazioni per pagare i debiti…), di normare l’orario di apertura delle farmacie, o di riscrivere la procedura civile in una settimana, non ha futuro. Persino il FMI giudica quelle proposte irrealizzabili. Il che lascia aperta la partita. E non dimentichiamo che si tratta degli stessi governi che hanno rifiutato di farsi carico di alcune decine di migliaia di profughi. Un’alternativa - sociale, politica e culturale - a questi esiti mostruosi deve tenerne conto: l’Unione europea potrebbe dissolversi in pochi anni.

In secondo luogo è apparsa in tutta la sua inconsistenza l’opzione di un’uscita dall’euro come alternativa alle politiche germanocentriche dell’austerity. Le scelte di Tsipras, e gli stessi rilievi critici di Varoufakis nei suoi confronti, hanno messo in luce la drammaticità, per l’intera popolazione, ma anche le difficoltà tecniche, mai prese in considerazione, di quell’opzione: soprattutto se fatta in maniera non concordata. Ma andrebbe presa in considerazione anche l’impossibilità di recuperare competitività con la svalutazione se una scelta del genere dovesse coinvolgere, anche in tempi diversi, un numero elevato di Stati membri. Ancora più insensata e grottesca appare quindi la proposta di un referendum sull’uscita dall’euro: nel tempo che separa il suo lancio dalla sua eventuale realizzazione le banche verrebbero svuotate, paralizzando per mesi l’intero paese. Eppure la politica, oggi, si nutre in buona parte di queste due cose: di “ce lo chiede l’Europa” e di promesse di un ritorno a “come si era prima” dell’euro.

In terzo luogo l’esito pesantissimo del negoziato che ha tenuto impegnato il Governo greco è dovuto anche alla mancanza di un “piano B” che contemplasse, in qualche forma, l’introduzione di una moneta parallela all’euro. Su questo punto ha ragione Varoufakis (che d’altronde l’aveva prospettato in alcuni suoi scritti). Ma anche questa non è cosa realizzabile in una settimana: avrebbe dovuto essere predisposta fin dal giorno della vittoria elettorale, e studiato prima ancora. Syriza non ha avuto né tempo né modo per farlo. Ma una discussione sulle diverse versioni correnti di questa proposta e sulle forme di un suo eventuale utilizzo andrebbe sviluppata con maggiore impegno. Anche perché è parte integrante non solo di un programma di politiche alternative alla subalternità all’ attuale governance europea, ma anche di una strategia generale di riduzione del potere dell’alta finanza sulle vite di tutti.

Quarto: il vero regista di questa resa dei conti con Syriza e con la Grecia non è stato Schaeuble ma Draghi, come peraltro conferma il FMI. Sua è la lettera scritta con Trichet per varare il governo Monti, le cui misure i memoranda della Trojka ricalcano fedelmente e che oggi vengono riproposte in forma aggravata; sua è la scelta di escludere la Grecia dal quantitative easing e dalle altre misure di sostegno alle banche; sua la decisione di bloccare i fondi Ela (cioè di costringere le banche greche a chiudere) mettendo Tsipras con le spalle al muro. Il suo è stato il comportamento di chi tiene ferma la vittima per permettere agli altri di colpirla meglio. Schaeuble non avrebbe avuto un potere incontrastato nel negoziato se Draghi non avesse tenuto “bloccato” l’avversario. Una strategia alternativa deve quindi prospettare una diversa governance della BCE. Chiedere la fine della sua indipendenza non basta: significa consegnarla nelle mani del Consiglio, o dei singoli governi. Meglio allora, in attesa di un “governo europeo”, espressione di quell’unità politica da cui ci si sta in realtà allontanando a passi da gigante, che Banca centrale e politica monetaria vengano sottoposti al Parlamento europeo: che comunque potrebbe esercitare – adeguatamente attrezzato, e in regime di trasparenza che oggi non c’è - solo funzioni di indirizzo e di controllo. E’ una prospettiva – che può tradursi in una campagna, lanciata per ora in termini non sufficientemente chiari - che richiede anch’essa di essere discussa per tempo. Comunque sia, l’obiettivo della ristrutturazione o del taglio del debito è imprescindibile.

Infine, sarebbe sbagliato promuovere, come in parte si fa, un risentimento antitedesco da contrapporre al nazionalismo che ha guidato il negoziato con Tsipras e Varoufakis, condotto fin dall’inizio all’insegna di una menzogna (“non permetteremo ai greci di spassarsela a nostre spese”…); ma condizionato soprattutto dalla volontà di molcire e aizzare l’elettorato delle maggioranze in carica. La Germania non è un monolite, anche se i vantaggi usurari che ha ricavato dall’euro (un tema su cui la pubblicistica mainstream tace) sono in parte ricaduti su tutta la sua popolazione. E’ anch’essa un paese diviso in classi, su cui le politiche europee hanno inciso e incideranno sempre più in modo differente. A guadagnarci, da un’Europa e da un euro germanocentrici, non è stata tanto “la Germania”, quanto la finanza internazionale e le multinazionali al cui servizio si è posto il suo governo. La possibilità di far saltare quelle politiche riposa anche sulla possibilità che anche lì si apra una frattura lungo frontiere sociali e di classe. Che non ha bisogno, però, della demonizzazione del popolo tedesco (e meno che mai di richiami al suo passato nazista), ma di una sempre più chiara identificazione degli interessi in gioco: che sono gli stessi in Germania, in Italia, e in tutto il resto dell’Europa.

Il Parlamento vota, La Grecia resta in Europa e il collasso è evitato, ma il cappio bipartisan dell'UE delle banche resta stretto al collo.

La Repubblica, 16 luglio 2015

Syriza in rivolta. Il Parlamento blindato dalla polizia. Migliaia di persone in Syntagma a manifestare contro il Governo. Poi, alla sera, persino i botti sordi delle molotov e l’odore acre di lacrimogeni, come ai tempi di Nea Demokratia. E’ stata una vittoria amarissima quella che Alexis Tsipras – salvo improbabili sorprese dell’ultima ora- si è portato a casa ieri. Il pacchetto di riforme da 3,1 miliardi necessario a sbloccare gli 83 miliardi di aiuti di Ue, Bce e Fmi e a salvare il paese dal default era ancora in discussione in aula a tarda sera. Il via libera però appariva scontato. Il partito del presidente del Consiglio – assente a sorpresa durante il dibattito - si è presentato alla chiama in ordine sparso dopo una giornata ad altissima tensione. Una quarantina di deputati - tra cui la presidente della Camera Zoe Konstantopoulou e Yanis Varoufakis – erano pronti a dire “no”. Non abbastanza, però, per far deragliare il provvedimento, visto che l’opposizione di Nd, Pasok e To Potami ha schierato i suoi 106 voti (su 300) a fianco di Tsipras, cui bastava l’ok di 45 dei 149 deputati di Syriza per saltare questo primo ostacolo.

IL DRAMMA DI SYRIZA

Un “no” al pacchetto avrebbe portato Atene dritta dritta alle elezioni e verso il baratro della Grexit. Il sì regala invece al premier una piccola boccata d’ossigeno. Nelle prossime ore dovrà affrontare un rimpasto di governo e decidere se tirare dritto con un esecutivo di minoranza o lasciare spazio a uno di unità nazionale. L’ok in Parlamento sblocca però i prestiti necessari per pagare la Bce – lunedì scade una rata da 3,5 miliardi - e l’Fmi (2 miliardi) e per allentare il cappio dei controlli sui capitali.

Le ultime drammatiche ore lasciano a Tsipras un’eredità pesantissima: Syriza è stata ieri sul punto di andare a pezzi. E solo un tesissimo confronto prima del dibattito - “o state con me o domani potrei non essere più primo Ministro”, ha minacciato - è riuscito a tenere insieme, per ora, i cocci di quel che resta del partito che sei mesi fa ha stravinto le elezioni con il 36,3%.

La via crucis del presidente del consiglio è iniziata di prima mattina con la città presidiata da migliaia di poliziotti e la conferma delle dimissioni di Nadia Valavani, viceministro dell’Economia. Uno strappo doloroso non solo perché è la mente del programma fiscale dell’esecutivo, ma soprattutto perché è sua amica da una vita. Il sassolino della Valavani si è ingrossato nel pomeriggio fino a diventare una valanga. Alle 15 ben 107 membri del Comitato centrale (su 201) hanno firmato un documento chiedendo l’immediata convocazione del massimo organo di Syriza: «L’intesa non rispecchia i valori della sinistra», il titolo lapidario. «E’ come il trattato di Versailles», ha tuonato Varoufakis. Subito dopo ha fatto outing il segretario Tassos Koronakis: «Il governo deve dimettersi. Andiamo a elezioni in novembre».

L’ASSALTO ALLA BANCA CENTRALE

A tre ore dall’inizio del dibattito, tra i leader del partito volavano gli stracci. zNon appoggerò un memorandum che uccide la Grecia - ha assicurato Panagiotis Lafazanis, leader della minoranza di Piattaforma di sinistra - . Ci sono alternative». Quali? Secondo Kathimerini, le avrebbe squadernate alla vigilia durante un summit segreto della corrente: l’irruzione con la polizia nella zecca di Holargos per mettere la mani sui 22 miliardi di riserve della Banca di Grecia e usarle per pagare stipendi e pensioni. In attesa, ovvio, di tornare alla dracma.

Quando alle 16 è iniziato il gruppo parlamentare, l’atmosfera - malgrado il bacio tra Tsipras e Konstantopoulou e l’applauso scrosciante all’ingresso del premier - era da psicodramma. «Votiamo contro le riforme ma sosteniamo il governo », è stato il mantra contraddittorio dei ribelli. «Chi non sta con noi, vota come Schaeuble», li ha minacciati il primo ministro. Tutti gli hanno assicurato di non voler far cadere l’esecutivo, sciogliendo un po’ la tensione. Ma tutti - con logica un po’ contorta - sono rimasti sulle loro posizioni. Konstantopoulou, dopo il bacio di Giuda, ha cercato in ogni modo di rimandare il voto per superare la mezzanotte, orario da Cenerentola entro cui – come da ultimatum della ex Troika – era necessario dare l’ok al provvedimento.

Il dibattito in aula è stato surreale. Con mezza opposizione ad attaccare la maggioranza e mezza opposizione a difenderla e con tutti a prendere le distanze dalle riforme, salvo poi chiedere di votarle. «Questa decisione mi peserà sul cuore per tutta la vita» ha detto il ministro delle finanze Euclid Tsakalotos. «Non difendo il provvedimento, ma la necessità di approvarlo«, ha detto mesto per Syriza Dimitris Vitsas. Obiettivo: non lasciare impronte digitali sul memorandum lacrime e sangue che sconfessa tutte le promesse elettorali del partito. I leader di Nd e To Potami non hanno parlato per accorciare i tempi e provare a chiudere prima di mezzanotte.

COSA ACCADE ORA

Cosa succederà dopo lo strappo di ieri? Il piano del premier è chiaro: tirare dritto con la maggioranza attuale tra quel che resta del suo partito e Anel cercando di volta in volta in aula i voti (ovviamente della minoranza). Nelle prossime ore sarà comunque necessario un rimpasto del governo per rimpiazzare i ministri dimissionari mentre il Comitato centrale potrebbe chiedere l’espulsione dal Parlamento dei ribelli. L’esecutivo di minoranza avrebbe davanti un mese di navigazione: il tempo di dire sì alle richieste della Troika, ratificare il compromesso, incassare gli aiuti, riaprire le banche e probabilmente- portare il paese a elezioni.

L’alternativa è prendere atto che in aula si è creata una nuova maggioranza, piuttosto robusta, che va dal centrodestra di Nea Demokratia ai socialisti del Pasok fino al centro riformista di To Potami e alle colombe di Syriza. Ue, Bce e Fmi spingono da tempo per arrivare a una soluzione di questo tipo. Alla guida di questo governo non ci sarebbe però Tsipras: «Non sono un uomo per tutte le stagioni – ha ribadito negli ultimi giorni –. Se nell’esecutivo entreranno altri partiti, non sarò io a guidarlo». Il timore, giustificato, è trovarsi a governare la Grecia con gli uomini e i partiti che l’hanno portata nel baratro. L’ultima beffa dopo la giornata amarissima di ieri.

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Il Garantista, 15 luglio 2015

Pare che ad Alexis Tsipras non venga risparmiato proprio nulla. Non è bastato il clima oppressivo ed offensivo con cui si sono svolte le ultime fasi drammatiche dell’Eurosummit, che hanno spinto il leader greco a togliersi la giacca e a gettarla sul tavolo, in spregio alle loro incontenibili richieste. Ora si apre la difficile fase della discussione in patria e nel suo partito e i toni non paiono concilianti.

Persino Varoufakis, che finora aveva tenuto un profilo di grande solidarietà verso Tsipras, parte lancia in resta con argomenti non sempre comprensibili. Esisteva o no un piano B, basato su una simulazione di una fuoriuscita della Grecia dall’euro? In una intervista, quella rilasciata qualche giorno fa a newstatesman.com, l’ex ministro delle finanze ha rivelato che le divergenze nel gruppo dirigente di Syriza sono diventate evidenti subito dopo l’esito straordinario del referendum di domenica. In sostanza la contesa era attorno al modo migliore per utilizzate la nuova forza che il 61% dei No aveva conferito alla delegazione greca. Varoufakis chiedeva di reagire in modo aggressivo alla chiusura delle banche, ponendo sotto controllo la banca nazionale greca e agendo sui bond. Tuttavia lo stesso Varoufakis ammette che non era sua intenzione spingere le cose fino in fondo. La maggioranza dei presenti a quella riunione non fu d’accordo, con la motivazione, sostenuta a quanto pare in particolare da Tsipras, che per assumere quelle misure bisognava avere una capacità e una strumentazione di governo che lo stato ellenico non possiede. In sostanza per minacciare la Grexit bisogna avere poi la determinazione di operarla, se gli altri vengono a “vedere”. Altrimenti diventa un’arma spuntata. Del resto, come pure sia Tsipras che Varoufakis, hanno più volte detto, la Grexit era nelle mani dei loro avversari. In particolare dei tedeschi.

Non c’è bisogno di avere notizie di soppiatto della lunga trattativa notturna per saperlo. A fine giugno è comparso un documento ufficiale, detto dei “cinque presidenti”, perché firmato da Tusk, da Dijsselbloem, da Draghi, da Juncker e da Schulz. In quel documento vengono tracciate le linee di sviluppo della Ue per i prossimi anni. Un documento definito irritante persino da Fabrizio Saccomanni, ex ministro della nostra Repubblica e ex direttore di Bankitalia, per i tempi previsti e per i contenuti. Chiunque lo legga si accorge immediatamente che non vi è alcuna volontà di cambiare il ruolino di marcia e la struttura di questa Ue. L’ottica rimarrebbe sempre quella di un’Europa a chiara dominanza tedesca, neppure più carolingia – visto il declino della Francia -, che sconterebbe come effetti collaterali, se non proprio desiderati certamente non ostacolati, la fuoriuscita di alcuni paesi, in primo luogo della Grecia. L’idea, alquanto balzana, saltata fuori nelle ultime fasi della trattativa e in contraddizione con la lettera degli stessi trattati, di una uscita a tempo, per 5 anni, della Grecia dalla Ue trova in realtà in quel documento, in quell’humus politico culturale le sue radici di fondo.

Del resto il mandato che Tsipras aveva, come egli stesso ha sottolineato più volte, confermato dallo stesso Referendum, non era certo quello di uscire dall’Eurozona. In realtà i famosi piani B sono più esercitazioni astratte che non reali alternative, specialmente in questo campo. Conosco diverse ipotesi. Menti eccellenti di economisti si scontrano da tempo se sia possibile e utile o meno uscire dall’euro per un paese come la Grecia, ma anche per l’Italia o altri che si trovano in costante difficoltà. Ma nessuno onestamente può dire cosa succederebbe realmente in quel caso. Nessuno potrebbe essere sicuro che i vantaggi compenserebbero le immediate conseguenze negative. Oltre tutto, un conto è progettare la fuoriuscita dall’euro di un paese solo, un altro e farlo assieme ad un gruppo di paesi tra i quali si sia stabilito in anticipo un sistema di relazioni politiche, economiche e commerciali, tali da reggere l’urto e tutte le possibili mosse speculative. Ma questa condizione non c’era e non c’è. Anzi si dovrebbe riflettere amaramente e seriamente sulla scarsa solidarietà mostrata nei confronti del popoli greco da altri popoli che pure non sguazzano nei privilegi. Il che costituisce un’altra lezione che emerge da questa vicenda.

I tedeschi hanno guidato persino con crudeltà lo schieramento dei 18 paesi contro la Grecia. Ma sarebbe sbagliato prendersela solo con loro. Si è realizzato un intreccio di convenienze, vere o supposte poco importa, che hanno eretto un muro davanti alle proposte, anche le più compromissorie, avanzate dai greci. Le socialdemocrazie, con alla testa la forte Spd, hanno dato un potente contributo e cementificare quel muro. Sigmar Gabriel è riuscito persino a scavalcare a destra la Merkel. Ma non si può tacere dei paesi baltici, e anche di quelli mediterranei che non volevano concedere alla Grecia ciò che a loro non era stato dato, oppure e nello stesso tempo, temevano che la vittoria greca si propalasse anche nei loro paesi nelle imminenti elezioni, come quelle spagnole. Più che un contagio finanziario – inevitabile – di una Grexit, questi paesi temevano un contagio politico che portasse le politiche alternative al neoliberismo sulla plancia di comando. Anche i sindacati europei hanno taciuto, almeno fin quando hanno potuto. Poi, per evitare la vergogna totale, hanno fatto sentire flebilmente la loro voce. A giochi fatti.

La realtà è che le politiche neoliberiste, specialmente nella versione tedesca, sono incompatibili con l’idea di un’Europa unita politicamente su basi federali. La loro affermazione non fa che avvicinare l’implosione dell’Unione europea. Questo non significa che si possa pensare o fare un’Europa senza la Germania, come proponeva a suo tempo George Soros, ma che per fare un’Europa che si avvicini in qualche modo al sogno di Ventotene bisogna sconfiggere le politiche della Merkel. Questo in fondo era il messaggio che Pablo Iglesias di Podemos aveva lanciato in primo luogo ad Alexis Tsipras, durante il dibattito nel Parlamento europeo.

Non c’è dubbio che gli arretramenti e le imposizioni subite dai greci nel testo dell’accordo siano gravi. Nessuno le può sottovalutare. In primo luogo Tsipras che ha già dichiarato che le misure previste potranno avere effetti recessivi. In affetti così inevitabilmente sarà visto gli interventi sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sulle privatizzazioni, sulla presenza invadente della Troika nel processo decisionale interno alla Grecia. Si tratta di punti dolenti, che toccano corde sensibilissime sul versante dei diritti sociali e su quello della sovranità nazionale. Gli scioperi già proclamati in queste ore in Grecia lo segnalano con evidenza. Tsipras apre una scommessa: quella di puntare sui finanziamenti previsti per rilanciare l’economia interna. Il che non potrà che avvenire se non su nuove basi e con nuovi obiettivi. L’esito è incerto e dipenderà dal sostegno concreto che riceverà in patria e in Europa.

Tuttavia non si tratta di una scommessa campata per aria. Con l’accordo viene infatti stabilito il ritorno alla liquidità delle banche, anche se i tempi di Draghi non sono della dovuta sollecitudine. L’ammontare del finanziamento che verrà dal Meccanismo europeo di stabilità, che si colloca tra 82 e 86 miliardi di euro, spezza la logica del gocciolamento o di un pacchetto di briciole per volta. Ancora più importante è il riconoscimento della necessità di ridiscutere il debito greco – di cui viene riconosciuta la insostenibilità – seppure non attraverso nuovi tagli, ma con il prolungamento consistente dei tempi di pagamento. Infine l’accordo fa riferimento al finanziamento dell’attività economica per 35 miliardi.

Nell’immediato Tsipras è chiamato a superare una difficoltà non da poco. La sua maggioranza parlamentare non esiste più. La destra di Anel ha detto che non sosterrà il governo, l’opposizione interna a Syriza sembra crescere, anche se non sappiamo se dalle parole si passi poi a voti negativi. Nello stesso tempo la trasformazione del governo di sinistra, con il supporto politicamente non inquinante di Anel, in una sorta di governo di unità nazionale nel quale si stabilizzi la presenza nel governo di quelle forze che sono state le responsabili del disastro economico greco, non solo non sarebbe una proposta allettante, ma sarebbe una rivincita per le elite europee, dopo il fallimento del colpo di stato bianco sventato dal referendum. D’altro canto Tsipras ha buone carte per giocare questa partita politica, non ultima, come del resto gli consiglia Paul Krugman, quella di prendere atto dello sfaldamento della sua maggioranza e andare a nuove elezioni. Le possibilità che le possa rivincere restano alte. In ogni caso sarebbe un atto di coraggio e di trasparenza politica.

Il vero problema però resta. Si chiama Europa. Ha dato il peggio di sé, ha disvelato la pochezza della propria natura e lo squallore delle sue classi dirigenti, problemi che vanno ben al di là di una moneta unica nata prematuramente in un zona monetaria non ottimale. La via fin qui seguita in tanti decenni: la progressiva integrazione economica avrebbe creato le basi per un processo di unità politica si è rovesciata nel suo contrario. La politica è diventata un’arma per impedire la soluzione di un problema economico di modesta entità quale era il debito greco. La domanda allora è: c’è spazio in questa Ue per un governo che pratichi politiche anticicliche di tipo sociale? Dalla grande questione politica dell’Europa bisogna quindi ripartire.

La feroce repressione che i falchi europei , con la complicità delle ex socialdemocrazie, ha compiuto nei confronti della Grecia di Tsipras porta acqua abbondante al mulino del populismo xenofobo e antieuropeo. La Repubblica, 15 luglio 2015
IL CORO unanime che vede nella capitolazione di Alexis Tsipras la sconfitta dei populisti si basa sul presupposto che la vittoria della Germania e dei suoi alleati, imponendo misure giugulatorie alla Grecia, ben più pesanti di quelle offerte alla vigilia del referendum, obblighi ad un bagno di realtà gli anti-euro e gli euroscettici. Tutto il contrario. Quanto è successo in questo fine settimana a Bruxelles alimenta invece sentimenti antagonisti a tutto quanto “scenda” dall’Unione Europea. Lo schema classico del populismo, la sua contrapposizione netta tra chi è forte e chi debole, tra chi ha potere e chi ne è privo, tra l’ establishment e la gente qualunque, è rinvigorito dall’umiliazione alla quale è stata sottoposta la Grecia.

E non è solo la dinamica populista a riprendere forza. Ben più pericoloso è l’impatto dell’“arroganza” tedesca sulle opinioni pubbliche dei vari Paesi. La drammatizzazione messa in scena in queste ultime settimane, quella di un Paese con pensionati disperati di fronte a banche chiuse — e di peggio vedremo in futuro quando la nuova, massiccia, dose di austerità, degna di cerusici impazziti in frenesia da salasso, avrà prodotto il suo effetto — rimette in circolo i peggiori cliché sulle nazioni. Peraltro il meccanismo era già stato attivato: da tempo l’opinione pubblica del Nord Europa, e soprattutto tedesca, veniva nutrita da una visione del lato Sud del continente come una landa di fannulloni, scansafatiche e truffaldini. E non c’è dubbio che Angela Merkel dovrà giustificarsi di fronte a quell’opinione pubblica, inferocita nei confronti dei pigri mediterranei, per l’ennesimo “regalo” fatto loro (quando invece tutti i soldi prestati sono tornati a casa: ma questo, nessuno lo dice, ovviamente). Ma così come i “rigoristi” nordici trattano coloro che non seguono le loro ricette con infastidita sufficienza mista ad irritazione, altrettanto gli euroscettici cementano la loro ostilità all’Unione Europea sulla base di stereotipi nazionali, a incominciare dal tedesco cattivo, rigido e punitivo.

Il disastro di questi giorni sta tutto qui: nel riemergere di visioni dei vari Paesi fondate su pulsioni emotive e irrazionali; di interpretazioni delle dinamiche comunitarie su basi esclusivamente nazionaliste. Certo che l’atteggiamento del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble è stato quasi provocatorio, ma questa sua pur legittima posizione si è tramutata nell’immagine della Germania aggressiva e violenta. Il virus nazionalista viene da lontano ed è molto più potente delle infatuazioni peroniste dei descamisados nostrani o spagnoli. È sui sentimenti di chiusura nazionale e di ostilità all’altro che Marine Le Pen e compagnia lanciano la loro sfida anti- europea. La sconfitta del loro cavaliere solitario ateniese, ancorché politicamente agli antipodi, stimola propositi di rivalsa contro le nazioni potenti e arroganti. Altro che bagno di realtà.

Sono bastati pochi anni e l’Unione Europea ha acquisito centralità nel conflitto politico. Con un paradosso: che nessuno difende convintamente la costruzione europea: quando va bene, la si accetta passivamente, come un dato di fatto. Invece si mobilitano gli oppositori, e mietono successi. Ulteriore paradosso: Syriza e il suo leader non hanno mai detto di voler abbandonare l’euro o la Ue, contrariamente a tanti altri partiti oggi anche al governo in Finlandia e in Danimarca (lasciando poi a latere le ambiguità dei conservatori britannici). Eppure sono stati additati come i nemici dell’Unione. Piuttosto sono stati pasticcioni e ingenui; e infine, con il referendum, autolesionisti. Ma mai anti- europei, semmai favorevoli come tanti ad una Unione diversa. E sono disposti a tutto pur di rimanere nell’euro, cioè a sentirsi europei. I nazional-populisti di estrema destra utilizzano tutt’altre categorie interpretative, imperniate sul recupero di sovranità nazionale — che ha come corollario l’uscita dall’euro — sul rimarcare i confini, sulla esaltazione delle differenze, sulla negazione di finalità e destini comuni e solidali. Le vicende di questi giorni forniscono argomenti ad abundantiam per riattivare nel profondo delle coscienze collettive dei Paesi europei sentimenti ostili degli uni contro gli altri. I populisti di ogni specie, e principalmente quelli di ispirazione nazionalista, che sono di gran lunga la maggioranza, sono i veri beneficiari dell’accordo di domenica scorsa. Possono stigmatizzare la prepotenza dei forti verso i deboli, attuata grazie alle regole comunitarie, e invocare quindi il ripristino di quelle prerogative esclusive sottratte a ciascun popolo dalle euroburocrazie bruxellesi.

Il Manifesto di Ventotene di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, testo fondante della costruzione europea, partiva da una considerazione: i nazionalismi sono all’origine di ogni guerra. E solo una federazione degli Stati europei avrebbe abbattuto gli egoismi di ciascun Paese. Il cammino sghembo e incerto della costruzione europea li sta invece riattivando.
Oggi il primo voto sulle riforme draconiane imposte dall’Europa ad Atene. Syriza si frantuma e il governo otterrà il sì all’accordo solo grazie al voto delle opposizioni. Dopo questo verdetto il panorama politico del Paese cambierà per sempre. Il premier: “Non ho interesse ad andare ad elezioni anticipate, ma non guiderò un nuovo esecutivo con altri partiti” “Con la dracma i poveri diventano più poveri e i ricchi più ricchi”.

La Repubblica, 15 luglio 2015

«La Grecia aveva davanti due scelte: l’intesa, o l’addio all’euro. Il compromesso non piace nemmeno a me, ma non fuggo davanti alle responsabilità. L’alternativa era il ritorno alla dracma, guarda caso quello che vuole Schaeuble. E io ho firmato». Alexis Tsipras è sceso in campo ieri sera – alla vigilia del primo delicatissimo voto in Parlamento sulle riforme – a difendere con orgoglio l’accordo con Ue, Bce e Fmi. «Lunedì è stato un brutto giorno per l’Europa – ha ammesso - . I più forti hanno schiacciato i più deboli. Le riforme che ho firmato sono dure, ma migliori dell’ultimatum del 25 luglio. Non taglieremo pensioni e stipendi, rinegozieremo il debito dal 2022 e riceviamo 82 miliardi nei prossimi tre anni. L’unico modo per salvare le banche e i depositi dei greci». La rivolta in Syriza? «Farò di tutto per tenere il partito unito. Ma ognuno deciderà in coscienza se tenere in piedi il governo di sinistra o farlo cadere, come in Europa si augurano in tanti». Alternative all’euro non ce n’erano: «Sono Stato in America, Russia e Cina, ma nessuno m’ha detto torna alla dracma e ti aiuteremo – ha detto - . E tornare alla dracma significa far diventare più poveri i poveri e più ricchi i ricchi ».

La difficilissima strada per tenere Atene nell’Eurozona inizia oggi con l’esame della tenuta della maggioranza. Il governo deve approvare entro stasera un primo pacchetto delle durissime riforme imposte dai creditori: l’aumento dell’Iva (latte, pasta e pane passeranno dal 13 al 23%), la riforma previdenziale con lo stop nel 2022 alla pensione anticipate e l’addio alle agevolazioni fiscali per le isole. I falchi del nord, per evitare equivoci, hanno preteso che l’elenco fosse preciso nei minimi dettagli, compreso l’aumento delle aliquote su preservativi, assorbenti e funerali.

L’ala radicale di Syriza è pronta a dare battaglia e votare “no”, arrivando alla resa dei conti. Il Big Bang del partito non sarà indolore. Tsipras è intenzionato a chiedere le dimissioni di tutti i deputati che si metteranno di traverso: «Non lo posso fare io direttamente, ma ci sono organi in grado di imporlo », ha spiegato sibillino. La pattuglia dei ribelli, secondo le indiscrezioni, sarebbe tra i 30 e i 40 deputati. Il loro portabandiera sarà con ogni probabilità Yanis Varoufakis («bravo economista ma ha fatto anche molti errori», ha ironizzato il premier). Contro si schiererà pure la Piattaforma della sinistra: «Non diventeremo una colonia tedesca» ha detto Panagiotis Lafazanis, leader della corrente e ministro dell’energia. Il viceministro dell’economia Nadia Valavani ha annunciato le dimissioni, in polemica sul maxi- fondo per le privatizzazioni. La scissione di Syriza pare a questo punto quasi inevitabile.

A rischio per Tsipras è pure l’appoggio dei 13 deputati di Anel. La posizione loro leader il ministro della difesa Panos Kammenos – è indecifrabile: «A Bruxelles si è consumato un colpo di Stato» ha accusato senza mezzi termini. Salvo poi ammettere con un triplo carpiato che in aula «appoggerà le misure concordate davanti al Presidente della Repubblica». Quali, non si sa. In soccorso al premier dovrebbe arrivare invece compatta ( salvo i comunisti del Kke e Alba Dorata) tutta l’opposizione. Nea Demokratia, To Potami e il Pasok porteranno in dote 106 seggi su 300. E per far passare questo primo pacchetto di riforme, al governo basterà in- cassare il “sì” di 45 dei 149 deputati di Syriza, anche al netto della defezione di Anel. Obiettivo, in teoria, ampiamente alla portata.

Il via libera però arriverà grazie a una maggioranza “ anomala”, diversa da quella del Governo che ha giurato davanti al Presidente della Repubblica lo scorso febbraio. E Tsipras dovrà a quel punto decidere che fare: andare avanti con un governo di minoranza cercando volta per volta in aula i voti per le riforme per poi andare a elezioni, dare le dimissioni per far decollare un governo di unità nazionale («non sarei premier se nell’esecutivo entrano altri partiti ») o andare a elezioni. «La mia priorità è arrivare all’accordo. Grexit non è ancora scongiurata. Poi, quando l’avremo firmato, vedremo se la maggioranza c’è ancora. Io non ho nessun interesse ad andare a elezioni ».

Il voto di oggi cambierà con ogni probabilità per sempre lo scenario politico interno della Grecia. Il cammino per sbloccare gli aiuti è solo all’inizio. Atene deve votare altre leggi draconiane mercoledì prossimo ( la riforma sulla giustizia civile e altre norme su pensioni e banche). E solo dopo il doppio voto partiranno le trattative per sbloccare gli aiuti. La speranza è quella di convincere intanto la Bce ad aumentare i finanziamenti per riaprire le banche – «ci vorrà tempo, non so dire quando» - e ammorbidire i controlli dei capitali. La via crucis, insomma, è destinata a continuare. Berlino ha messo l’asticella altissima. Apposta, dicono in molti. Se la Grecia non riuscirà a scavalcarla, a innescare il detonatore della Grexit sarà stata lei.

Tra ipotesi di rimpasto e di elezioni anticipate, le strade in salita di Alexis Tsipras.

Una nuova con­sul­ta­zione elet­to­rale a novem­bre - in con­co­mi­tanza con quella spa­gnola - potrebbe dimo­strarsi una via d’uscita rea­li­stica ed effi­cace, per rispon­dere, uniti, a chi con­ti­nua a difen­dere e ad imporre solo l’Europa dei mercati». Il manifesto, 15 luglio 2015

Nes­sun tipo di accordo, sug­ge­rito o meglio impo­sto, può riu­scire a far pre­va­lere, in Gre­cia, un ritorno a solu­zioni di tipo tec­nico, o peg­gio ancora, a mag­gio­ranze boc­ciate dagli elet­tori. È altret­tanto chiaro che in que­sto momento una parta con­si­stente di Syriza non ritiene che le con­di­zioni impo­ste dai cre­di­tori deb­bano essere con­si­de­rate com­pa­ti­bili con quanto pro­messo in cam­pa­gna elet­to­rale agli elet­tori, con il pro­gramma pre­sen­tato a Salo­nicco dieci mesi fa. L’esecutivo gui­dato da Ale­xis Tsi­pras dovrà quindi pren­dere a breve impor­tanti deci­sioni: un rim­pa­sto è rite­nuto più che pro­ba­bile ed il por­ta­voce di Syriza in par­la­mento, Nikos Filis, ha già chie­sto le dimis­sioni dei depu­tati che hanno espresso la loro con­tra­rietà, nella vota­zione di venerdì scorso, sul pac­chetto di pro­po­ste con cui la Gre­cia si è pre­sen­tata a Bruxelles.

Il governo di sini­stra greco si tro­vava già sotto pres­sione. Aveva con­sta­tato l’assoluta irre­mo­vi­bi­lità di Ber­lino e dei suoi «paesi satel­liti» e ha prin­ci­pal­mente mirato ad evi­tare la trap­pola del Gre­xit tesa da tempo e resa evi­den­tis­sima da Schau­ble dome­nica a Bru­xel­les. Nes­suno può pre­ve­dere con cer­tezza che strada deci­derà di seguire il qua­ran­tu­nenne lea­der geco.

Chi cono­sce Ale­xis Tsi­pras, tut­ta­via, può pre­sup­porre che non si lascerà logo­rare, come desi­de­re­reb­bero, invece, i suoi avver­sari poli­tici, esterni ed interni. «Pro­metto che lot­te­remo con­tro i poteri costi­tuiti e gli oli­gar­chi, che ci sarà un equa distri­bu­zione dei sacri­fici», ha dichia­rato subito dopo la riu­nione fiume del Con­si­glio Euro­peo. Le strade rea­li­sti­ca­mente per­cor­ri­bili, almeno al momento, sono due: la prima, è pro­vare a ricom­pat­tare la mag­gio­ranza, chie­dendo ai par­la­men­tari che, pur ragio­ne­vol­mente hanno espresso il loro dis­senso, di rispet­tare il codice etico del par­tito e quindi di dimet­tersi. In que­sto caso il governo dovrebbe valu­tare le reali pos­si­bi­lità — per quanto limi­tate — di met­tere in atto, in tempi rela­ti­va­mente brevi, alcune misure a soste­gno dell’economia. Capire quanti degli ottanta e passa miliardi pro­messi dall’Europa potranno arri­vare real­mente ai cit­ta­dini greci, per con­tro­bi­lan­ciare la reces­sione che andranno a creare gli aumenti dell’Iva, del con­tri­buto sani­ta­rio sulle pen­sioni e una serie di pri­va­tiz­za­zioni che potrebbe creare ulte­riore disoc­cu­pa­zione. Se Tsi­pras, tut­ta­via, nei pros­simi giorni dovesse con­sta­tare che la pro­se­cu­zione di una effi­cace e coe­rente azione di governo è pres­so­ché impos­si­bile, la via obbli­gata sarebbe quella del ricorso ad ele­zioni anticipate.

Il mini­stro del lavoro Panos Skour­le­tis ha già fatto rife­ri­menti alla pos­si­bi­lità che si vada alle urne entro l’anno. E a quel punto, mal­grado le pres­sioni, la situa­zione di forte man­canza di liqui­dità in cui è stata spinta la Gre­cia e la logica del «pen­siero unico» come rispo­sta alla crisi, Syriza si ricon­fer­me­rebbe primo par­tito del paese. Tutti sanno, infatti, che il cen­tro­de­stra è privo di un lea­der (Sama­ràs, tra l’altro si è appena dimesso) che il Pasok è al suo minimo sto­rico — intorno al 3,5% — e che il nuovo par­tito cen­tri­sta To Potami (il Fiume), oltre a non supe­rare il 6% nelle inten­zioni di voto, è rite­nuto molto vicino ai gruppi impren­di­to­riali greci che hanno osta­co­lato in ogni modo l’ascesa di Syriza. Ale­xis Tsi­pras è riu­scito a com­pren­dere la pro­fonda richie­sta di cam­bia­mento che pro­ve­niva dalla società greca, ed ha cer­cato, in ogni modo, di ridare dignità alla poli­tica. Ger­ma­nia, Olanda, Fin­lan­dia, repub­bli­che Bal­ti­che hanno impo­sto misure e sacri­fici mai richie­sti a nes­sun altro paese. Mal­grado ciò la Coa­li­zione della Sini­stra Radi­cale elle­nica rimane l’unica forza poli­tica in grado di for­nire una rispo­sta con­vin­cente a chi chiede che la Gre­cia non diventi il paese del lavo­rio senza diritti e della pro­du­zione sot­to­pa­gata a van­tag­gio del Nord Europa. La patria, cioè, del neo­li­be­ri­smo sel­vag­gio. Una nuova con­sul­ta­zione elet­to­rale a novem­bre — in con­co­mi­tanza con quella spa­gnola — potrebbe dimo­strarsi una via d’uscita rea­li­stica ed effi­cace, per rispon­dere, uniti, a chi con­ti­nua a difen­dere e ad imporre solo l’Europa dei mercati.

Difficile pensare che esistesse una terza possibilità. Difficile pensare che Tsipras avesse potuto ottenere di più se l'obiettivo dei falchi era quello di cacciare Tsipras e la Grecia, e quello dei socialdemocratici di impedire l'infezione Tsipras nelle loro terre. Dalla lista di discussione di "L'altra Europa con Tsipras", 14 luglio 2015

E come era prevedibile fin dall’inizio il governo Tsipras ha scelto la via del negoziato con le Istituzioni. Qui un primo dato da analizzare. Per mesi abbiamo assistito ad una disinformazione di massa che ha dipinto il leader ellenico come un “nazionalista”, un “populista” e soprattutto un euroscettico.

Lo stesso Matteo Renzi spiegava il 4 luglio, giorno precedente al referendum in Grecia, come la consultazione fosse tra euro e dracma. La vittoria dell’OXI, del NO, avrebbe significato la fuoriuscita dalla moneta unica e il ritorno della dracma. Niente di più falso, a dimostrarlo la cronaca di queste ore.

Il referendum era sull’accettare o meno le politiche di austerity e in tale scenario Tsipras è sempre stato chiaro: vogliamo far cambiare rotta a Bruxelles, costruire un’altra Europa, senza abbandonare moneta unica ed eurozona. Una prospettiva fortemente europeista che i media nostrani hanno “coperto” facendo improbi parallelismi tra il premier greco e il blocco xenofono capeggiato da Marine Le Pen e Matteo Salvini.

La Grexit era un’opzione da scongiurare, almeno per il governo Tsipras che in questi 5 mesi di dura trattativa con le Istituzioni ha cercato di trovare una mediazione senza che venisse calpestata la dignità del popolo greco. Il referendum del 5 luglio è diventato così una lezione di democrazia e di sovranità popolare contro quel che il sociologo Luciano Gallino ha definito il “colpo di Stato della Troika”. Tentativo sventato.

Dopo quel 5 luglio, l’Eurogruppo ha strangolato la Grecia negando il prestito ponte di 7 miliardi di euro, il che si è tradotto in fine della liquidità per Atene. Da lunedì il rischio di bancarotta. Scenari inquietanti e, appunto, di rottura con l’Unione Europea. Per andare dove? Sotto l’egemonia dei capitali russi e cinesi? Senza dimenticare un altro particolare: la Grecia è un Paese Nato. Persino Costas Lapavitsas, economista greco di riferimento per molti No Euro, ha dichiarato: “Ora non possiamo gestire una Grexit”.

L’opzione non è mai stata presa seriamente in considerazione da Tsipras che, alla fine, ha ingoiato la cicuta presentando un piano di 12 miliardi di euro che accontenta alcune importanti richieste dell’Unione Europea.: “Non sto svendendo il Paese. Sono misure dolorose e lontane dalle promesse della campagna elettorale, ma è il meglio che si potesse fare”, le sue parole in Parlamento. Per qualcuno è la capitolazione totale, per altri il piano sarebbe identico all’ultimatum proposto il 26 giugno dalle Istituzioni, quello che avrebbe portato come reazione al referendum del 5 luglio. Quindi Tsipras avrebbe tradito quell’OXI.

Nel dettaglio, i bocconi amari da ingoiare per il governo ellenico sono la riforma pensionistica (si andrà in pensione a 67 anni dal 2022), lo sconto del 30 per cento sulle aliquote IVA sulle isole e, soprattutto, le insopportabili privatizzazioni di porti e aeroporti regionali. Grandi concessioni e cedimenti. Dall’altro non ci sono tagli orizzontali sui salari, si mantiene IVA bassa sui generi di prima necessità e sulla cultura, diminuiscono le spese militari e non si concedono competenze alla Troika sui licenziamenti e sulla contrattazione collettiva del lavoro.

Ma per capire, fino in fondo, la mediazione di Tsipras dobbiamo soffermarci su un aspetto: Syriza ha sempre considerato la ristrutturazione del debito come cardine. La rivendicazione principale. E da questo punto di vista si ottiene un piccolo successo, soprattutto simbolico. Come scrive il collega Alessandro Gilioli sull’Espresso.it: “Le precedenti condizioni dei creditori erano legate all'erogazione dell'ultima tranche di aiuti del secondo memorandum, quindi poco più di 7 miliardi, mentre queste proposte sono la contropartita per un piano di tre anni (fino a metà del 2018) e valgono un prestito di 53,5 miliardi. È una differenza notevole e somiglia a ciò che ripeteva Tsipras: basta con questo stillicidio ogni tre mesi di scadenze e prestiti (quindi ricatti), dateci tempo”. Uno spiraglio. E un precedente. Nessuno finora era riuscito minimamente a rinegoziare il debito. Inoltre Tsipras ha avuto il merito di aver rilanciato il primato della politica sul dominio della finanza.

In Italia? Tra isterismi e disinformazione, un minuto prima, manco dopo, l’accordo si scatenano i commenti. Una maggioranza anti-Tsipras. Un fronte unico, dalla destra liberista ai renziani e alla sinistra-sinistra: ha ceduto alla Troika.

Intanto ci voleva l’arrivo al potere di questo greco per far discutere finalmente il Parlamento di Strasburgo di effetti dell'austerity, ristrutturazione del debito, conferenza di Londra del 1953 e rapporto Paesi creditori-debitori. Si è parlato, tardivamente, del destino dell'Europa, di diritti e sovranità popolare. Di democrazia. Già dimenticato? Questo Paese di 9 milioni di abitanti, isolato all’interno dell’Eurogruppo, sta aprendo una breccia. Da solo era ovvio non potesse vincere le Istituzioni e riformare l’Europa. Davide ha resistito fin troppo contro Golia. Ha preso tempo. Ai movimenti sociali e magari a Podemos (in Spagna si voterà a novembre), Sinn Fein etc continuare il lavoro iniziato dai greci.

Per il resto, sembra che i mal di pancia all’interno della minoranza di Syriza stiano rientrando e i parlamentari voteranno il piano di Tsipras, a malincuore. Sapendo delle concessioni alla Troika. Ma passare all’opposizione del primo governo di sinistra (radicale) in Europa, e in Grecia, al primo ostacolo, è stato ritenuto inopportuno. “Mi trovo di fronte a una scelta difficile: far cadere questo governo o accettare proposte che sono simili a quelle dei vecchi memorandum?” si domandava Vassilis Primikiris, uno dei leader della minoranza interna. Hanno preferito, a parte qualche eccezione, la prima opzione. Di certo, la partita non è chiusa. A Tsipras il compito di riconvincere il popolo dell’OXI, in piazza Syntagma a protestare per il piano, e gli scettici.

(11 luglio 2015)

«Se Tsipras rifiuta di piegarsi al ricatto la Grecia esce dall'euro e collassa; se accetta il progetto di Europa politica va letteralmente in frantumi». Queste le alternative tra cui ha dovuto scegliere. Dalla lista di discussione di "L'altra Europa con Tsipras", 14 luglio 2015

Le condizioni "umilianti e disastrose" - come giustamente sono state definite ad Atene - che la Troika ha imposto alla Grecia rappresentano un atto sconsiderato, che rischia di portare alla fame un popolo intero e nel contempo di far saltare per aria l'Unione Europea.

La situazione è fluida, in continua evoluzione. Domenica, di fronte all'irrigidimento dei falchi di Berlino, si apriva uno scenario assurdo e tragico. Ieri un'altra svolta, con un accordo ancora incerto, e dalle conseguenze pesantissime.

Pare evidente che l'obiettivo di alcuni Stati europei, con la Germania in testa, sia quello di far fuori il governo di Syriza, imponendogli condizioni di fatto inaccettabili. Così se Tsipras rifiuta di piegarsi al ricatto (come sembrava sino a domenica, appunto), la Grecia esce dall'euro e collassa; se accetta, salta la sua maggioranza e si torna a improbabili governi di unità nazionale, privi di mandato popolare e telecomandati dai tecnocrati di Bruxelles e dal governo tedesco. E il progetto di Europa politica va letteralmente in frantumi.

Poco o nulla sembra contare l'esito del recente referendum, che ha dato un segnale forte di sostegno alla politica di Syriza. Nulla anche la convergenza di quasi tutto il parlamento ellenico su un piano doloroso e ragionevole di riforme, che potessero rispondere - in modo dignitoso e accettabile - alle richieste della Troika. Nulla, infine, o comunque molto poco, le pressioni internazionali, le spinte di Washington per un compromesso plausibile, le linee politiche moderatamente divergenti rispetto alla rigidità tedesca di Francia e Italia (ancora una volta, ahimè, del tutto marginale).

Si è deciso di dare una lezione a Syriza e ai Greci, in modo che anche gli Spagnoli non si facciano illusioni, e palesando una volta di più che nessuno può mettere in discussione i dogmi dell'iperliberismo globale, dell'austerità che soffoca l'economia reale e della tecnocrazia che procede con il pilota automatico, e che ormai può fare tranquillamente a meno della democrazia. Parola antica, che proprio in Grecia nacque millenni fa, ma che per questi banditi in doppiopetto che reggono sciaguratamente le sorti dell'Europa ha ormai fatto il suo tempo. Il popolo non è più sovrano, non può scegliere il suo destino dentro un progetto ampio e solidale. Può solo decidere, eventualmente, di morire di stenti con gran dignità.

Il documento proposto dall'Eurogruppo è tremendo, pesantemente peggiorativo della proposta di compromesso di Syriza, con l'imposizione della revoca di tutte le misure "sociali" finora varate dal governo, l'istituzione di un fondo di garanzia da 50 miliardi di euro nel quale i Greci dovrebbero "conferire" i loro beni pubblici e culturali, e poi privatizzazioni, tagli, tasse e il ritorno ai licenziamenti collettivi, al memorandum e alla Troika ad Atene, con un governo di fatto commissariato.

Tutto e subito. In un Paese ormai in ginocchio, che dal 2009 (quando è iniziata la tutela tecnocratica) ha visto i salari ridotti del 37%, le pensioni fino al 48%, gli impiegati statali del 30% (300 mila licenziati su 900 mila!), i consumi del 33%, il reddito complessivo del 25% circa; la disoccupazione aumentare al 27% e il debito pubblico al 182% del PIL. Dati che ormai conosciamo a memoria. E soprattutto, il 90% dei fondi e dei prestiti in arrivo dall'Unione Europea finiti a ripagare interessi sul debito e a sostenere le banche private. Solo un 10% scarso ha dato beneficio ai cittadini ellenici. La fotografia di un disastro. Che sia imbecillità, inettitudine, ferocia o sadismo, di sicuro è un fallimento colossale del dogmatismo liberista che parla di austerità, ma in realtà atrofizza l'economia, desertifica la società e impoverisce il popolo, tutelando soltanto una ristrettissima fascia di privilegio e non ponendo alcun argine al capitalismo finanziario.

Stupisce questo comportamento così ottuso da parte del governo della Germania. Davvero la Storia non insegna nulla? Possibile che non si riesca a evitare di finire nel baratro? Sempre più persone pensano che se questa è l'Europa, è meglio rinunciarvi. I rischi sono enormi. Non comprenderlo è stupido e criminale.

Detto questo, un pensiero anche a chi biasima Tsipras per essersi arreso al ricatto, a chi vuole insegnare ai Greci da (molto) lontano cosa fare e come agire, a chi vuol fare la rivoluzione con la vita e la disperazione degli altri (come un Di Maio qualsiasi, turista per caso ad Atene). Avranno mai riflettuto, costoro, su cosa significhi avere la responsabilità di governare un Paese? Avranno tutti gli elementi per dire che il governo greco poteva agire diversamente? Hanno valutato attentamente cosa significhi avere le banche chiuse, l'economia al collasso e lo Stato in default? Hanno contezza di quanto fossero "concrete" le alternative vagheggiatedi un sostegno di Putin, della Cina o magari pure dei Marziani?

La questione è semplice: Syriza non può reggere da sola l'assalto del fondamentalismo liberista. La battaglia contro l'Europa dei tecnocrati non può essere delegata soltanto ai Greci. Deve vederci tutti impegnati. Ovunque. Occorrono organizzazione, mobilitazione, forza e la capacità di far comprendere che un'Altra Europa è non solo possibile, ma anche, e sempre più, necessaria! Se si vuole cambiare questa Unione, dare una possibilità alla speranza, alla giustizia e alla solidarietà, il tempo è ora.

Come si diceva in un'epoca migliore, al lavoro e alla lotta!

«Che questa economia uccide l’ho detto nella esortazione apostolica Evangelii gaudium e nell’enciclica Laudato si’. Ho sentito le critiche arrivate dagli Stati Uniti: ogni critica deve essere recepita e studiata e poi bisogna fare un dialogo. Adesso andrò negli Usa, devo studiare». La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)

A bordo del volo Asuncion-Roma. La situazione della Grecia, la valorizzazione della classe media, la nuova Chiesa di Francesco a cui piacciono i movimenti popolari ma non per questo opta per la strada dell’anarchia. Sono i temi principali di cui ha parlato il Papa sul volo di ritorno dalla sua visita di 8 giorni in America Latina. Oltre a spiegare i venti di pace fra Cuba e Usa (suo prossimo viaggio) il Pontefice ha anche parlato del regalo del presidente boliviano Evo Morales, la scultura di un Cristo sopra unafalce e martello. In piedi, per oltre un’ora Jorge Mario Bergoglio ha risposto al fuoco di fila di domande dei giornalisti che lo hanno seguito in Ecuador, Bolivia e Paraguay.

Santità, in Europa c’è il caso della Grecia. Che cosa ne pensa?
«Certamente sarebbe semplice dire: la colpa è soltanto di questa parte. I governanti greci che hanno portato avanti questa situazione di debito internazionale hanno una responsabilità. Col nuovo governo greco si è cominciata una revisione un po’ giusta. Io mi auguro che trovino una strada per risolvere il problema greco e anche una strada di sorveglianza perché altri Paesi non cadano nello stesso problema».
Lei ha detto che questo sistema economico spesso impone profitto a tutti i costi. Ciò è percepito dagli statunitensi come una critica al loro modo di vivere. Come risponde?
«Che questa economia uccide l’ho detto nella esortazione apostolica Evangelii gaudium e nell’enciclica Laudato si’. Ho sentito le critiche arrivate dagli Stati Uniti: ogni critica deve essere recepita e studiata e poi bisogna fare un dialogo. Adesso andrò negli Usa, devo studiare».
Nel discorso ai movimenti popolari in Bolivia lei ha parlato del nuovo colonialismo, dell’idolatria del denaro e dell’imposizione dell’austerità ai poveri.
«I movimenti che si organizzano tra loro lo fanno non solo per fare una protesta. Sono tanti, persone che non si sentono rappresentate dai sindacati perché dicono che sono diventati una corporazione e non lottano per i diritti dei più poveri. La Chiesa non può essere indifferente, ha una dottrina sociale. La Chiesa non fa un’opzione per la strada dell’anarchia, questi lavorano, fanno lavori con gli scarti, con le cose che avanzano».
Tanti messaggi forti per i poveri e anche tanti messaggi severi per i ricchi e i potenti. Ma abbiamo sentito pochissimi messaggi per la classe media, per la gente che lavora, paga le tasse, la gente normale. Perché?
«Grazie tante. È uno sbaglio da parte mia. La classe media diventa sempre più piccola e la polarizzazione tra ricchi e poveri è grande. La gente comune, semplice, l’operaio, hanno un grande valore. Credo che lei mi dica un cosa che devo fare».
A proposito della mediazione tra Cuba e Usa: lei pensa che si possa fare qualcosa anche altrove?
«Non è stata una mediazione. C’era un desiderio da entrambe le parti. Mi auguro che vada avanti, noi siamo sempre disposti ad aiutare. Tutti e due guadagnano in pace, amicizia».
Che cosa ha provato quando il presidente Morales le ha regalato il Crocifisso con la falce e martello?
«Curioso, io non sapevo che padre Luis Espinal (il gesuita torturato e ucciso in Bolivia nel 1980) fosse scultore. Si può qualificare il genere nell’arte di protesta. Espinal era un entusiasta dell’analisi marxista, gli è venuta questa opera, era un uomo speciale con tanta genialità. Quest’opera per me non è stata un’offesa. Ho lasciato le decorazioni che il presidente Morales ha voluto darmi. Invece il Cristo di legno lo porto con me».
Qual è il segreto della sua energia vista in questi giorni?
«Qual è la sua droga? Quella era la vera domanda. Il mate mi aiuta, ma non ho assaggiato la coca, questo sia chiaro!».
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