Nicosia. Il 20 luglio a Cipro c’è chi piange e chi festeggia. I greci fanno suonare le sirene alle 5,30 del mattino per ricordare l’invasione turca del 1974 delle coste a nord e vanno sulle tombe a commemorare i morti. I turchi disseminano le città di bandierine con su la mezzaluna e portano i bambini a vedere la parata militare con i poliziotti che si sdraiano sulle moto in corsa e fanno gli addominali. Nella parte Nord dell’isola è la giornata della Pace e della Libertà, una festa nazionale. Ma per il resto del mondo la data ricorda un’invasione e un’occupazione illegale che dura tuttora.
Quest’anno, però, molto è cambiato. Il presidente della Repubblica Turca di Cipro Nord, Mustafa Akinci, eletto lo scorso aprile, ha ammesso per la prima volta che l’operazione militare di 41 anni fa, in risposta al colpo di Stato che depose l’allora Capo di Stato Makarios, non fu un’operazione di pace: «Non c’è dubbio che possiamo chiamarla guerra - ha spiegato domenica prima dell’inizio dei festeggiamenti -. E che oltre alla grande sofferenza dei turchi ciprioti negli anni ‘50 e ‘60, c’è stata anche quella dei greci dopo la tragedia del 1974 causata dalla giunta greca». Parole molto apprezzate dall’omologo greco Nicos Anastasiades che dice: «Dobbiamo guarire le ferite e far sbiadire le cicatrici».
«La nostra proposta è stata accolta con un silenzio assordante. Più precisamente, l’Eurogruppo e la troika hanno continuato a far credere ai media del mondo che le autorità greche non avevano proposte credibili e innovative da offrire».
Corriere della Sera, 21 luglio 2015 (m.p.r.)
Il 12 luglio, il summit dell’eurozona ha imposto le condizioni della resa al primo ministro greco Alexis Tsipras, che, terrorizzato dalle alternative, le ha accettate tutte. Una di queste condizioni riguardava la cessione dei restanti beni pubblici della Grecia. I leader europei hanno chiesto che i beni pubblici greci siano trasferiti in un fondo equivalente al Treuhand - un’agenzia deputata alla svendita simile a quella usata dopo la caduta del muro di Berlino per privatizzare velocemente, con grandi perdite finanziarie e con effetti devastanti sull’occupazione, tutto il patrimonio pubblico della Germania dell’Est che stava scomparendo. Il Treuhand greco sarebbe situato - udite udite - a Lussemburgo, e sarebbe gestito da un gruppo supervisionato dal ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, autore del modello. Dovrebbe completare la svendita entro tre anni. Tuttavia, mentre il lavoro del Treuhand originale era accompagnato da un massiccio investimento della Germania dell’Ovest in infrastrutture e trasferimenti sociali su larga scala verso la Germania dell’Est, il popolo greco non riceverà nessun beneficio di alcun genere.
Yanis Varoufakis è l'ex ministro delle Finanze della Grecia
Il testo originale dell'articolo è stato pubblicato da www.project-syndicate.org
L'estrema gravità di una situazione nella quale la smania politica della coppia Merkel/Schäuble di sconfiggere, con Alexis Tsipras, la possibilità di un'Europa diversa da quella a trazione tedesca, e l'ignavia delle socialdemocrazie europee hanno gettato il nostro continente nelle macerie del sogno federalista, il preannuncio di un riemergere dei fantasmi del più feroce passato.
Il manifesto, 21 luglio 2015
Gli «accordi» del 13 luglio a Bruxelles tra l’unione europea e la Grecia segnano la fine di un’epoca? Sì, ma certamente non nel senso indicato dal comunicato conclusivo del «vertice». In effetti gli «accordi» sono fondamentalmente inapplicabili e tuttavia costituiscono una forzatura altrettanto violenta, e ancor più conflittuale, di quanto è già avvenuto negli ultimi cinque anni. Si è parlato di diktat e questa drammatizzazione è basata su fatti concreti.
Le proposte con le quali Alexis Tsipras è arrivato a Bruxelles erano in contraddizione con il risultato del referendum, ma facevano ancora parte di un progetto sul quale aveva l’iniziativa per potere sperare di sviluppare una politica nell’interesse del suo popolo. I suoi «interlocutori» si sono impegnati a far fallire questo tentativo. Il risultato è un anti-piano senza alcuna razionalità economica, che assomiglia a un salasso e a un saccheggio dell’economia nazionale.
Peggio ancora, le misure di «messa sotto tutela» istituiscono un protettorato nell’Unione Europea.
La Grecia non è più sovrana: non nel senso di una sovranità condivisa, che implicherebbe un progresso verso il federalismo europeo, ma nel senso di un assoggettamento al potere del Padrone. Di quale «Padrone» si tratta? Per descrivere il regime che governa oggi l’Europa, il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha parlato di «federalismo esecutivo postdemocratico». Ma questo «esecutivo» è occulto e informale. La Commissione ha ceduto il potere all’Eurogruppo, che non dipende da alcun trattato e non obbedisce a nessuna legge. Il suo presidente si limita a essere il portavoce dello Stato più potente.
Questo significa che il nuovo regime non è altro che la maschera dell’imperialismo tedesco?
L’egemonia è senz’altro reale, certo, ma è esposta a numerose contestazioni, tra cui quella della Bce. Prosciugando la liquidità di emergenza, la Bce ha svolto un ruolo determinante, «terroristico», per piegare Atene. Questo non significa tuttavia che la concertazione tra Berlino e Francoforte funzioni sempre, né che gli interessi e le ideologie siano identiche. Questa divisione duratura nell’«esecutivo» europeo fa parte della sua costituzione materiale.
Come ne fanno parte le divergenze tra governo francese e tedesco. È importante capire ciò che li ha separati, senza naturalmente prendere per oro colato le loro giustificazioni. Per quanto riguarda i tedeschi, le ragioni politiche della loro «intransigenza» sono state più rilevanti di quelle economiche. I due schemi del Bundesfinanzministerium: uscita «provvisoria» della Grecia dall’euro, o espropriazione delle sue risorse nazionali, erano in fondo equivalenti, se si considera che l’obiettivo ultimo era (e resta) la caduta di Syriza.
Sul lato francese si era convinti che l’unica maniera per far passare l’aumento dell’austerità tra la popolazione greca era quella di scaricarlo su Syriza. Dopo tutto lo stesso Hollande ha una certa esperienza nel tradimento delle promesse elettorali… Ma la chiave è la preoccupazione evidenziata da Varoufakis: resistere al modo in cui la Germania si è servita della situazione greca per «disciplinare la Francia». Si può dire che, nella notte fatidica, Hollande abbia «vinto» sul mantenimento della Grecia nell’euro, ma abbia «perso» sulle sue condizioni. Quando si conoscerà il seguito di questa vicenda, è probabile che la sua vittoria non lo porterà lontano…
Queste trattative sulle spalle dei greci non hanno evidentemente risolto nessuno dei problemi che sono alla radice della crisi. Anzi, li hanno aggravati.
Il debito europeo accumulato, quello pubblico e soprattutto quello privato, rimane incontrollabile. Volerlo fissare in Grecia non serve ad altro che a farlo aumentare, mantenendo l’insicurezza della moneta comune.
Qualsiasi soluzione si scontra con un problema ancora più preoccupante per il futuro dell’Europa: l’aumento delle diseguaglianze e la loro trasformazione in rapporti di dominio. Un abisso si è allargato in un’«Unione» il cui progetto associava la riduzione delle inimicizie secolari con l’apertura di una prospettiva di prosperità e di complementarità tra i popoli.
Il 13 luglio ha evidenziato soprattutto la gravità del problema democratico in Europa, e della mancanza di legittimità che esso induce. Il più serio degli argomenti sollevati contro le richieste greche è quello che ha ribadito che la «volontà di un solo popolo» non può prevalere su quella degli altri. È incontestabile, ma non ha senso senza un contradditorio al quale tutti i cittadini europei siano invitati a partecipare insieme. La tecnostruttura e le classi politiche dei differenti paesi non vogliono nemmeno sentirne parlare.
Il malessere e la collera generati da questo spostamento di potere verso le istituzioni sovranazionali e gli organismi occulti continueranno così ad aumentare. In «compenso» si è messo in moto un dispositivo inquietante: i contribuenti dei diversi paesi sono stati martellati dall’idea che non smetteranno di «pagare per i greci» e che lo faranno di tasca loro. Questa propaganda genera un potente populismo «di centro» che alimenta le passioni xenofobe in tutto il continente. Sarà l’estrema destra a capitalizzarne i frutti.
In questa situazione, Syriza si trova di fronte a un dilemma terribile. Il memorandum è passato al Parlamento greco perché i vecchi partiti di governo hanno votato a favore, ma con una forte minoranza di oppositori, tra i quali ci sono una trentina di deputati di Syriza. Assumendosi le sue responsabilità, il primo ministro ha dichiarato di «non credere» nelle virtù del piano di Bruxelles, ma che bisognava accettarlo per evitare un «disastro». Ci sono già stati scioperi e manifestazioni. La crisi è aperta e continuerà.
Il principale appoggio «esterno» di cui dispone al momento Tsipras è giunto paradossalmente dal Fondo Monetario Internazionale. Pubblicando la sua analisi sull’insostenibilità del debito greco, chiedendo agli europei di «alleggerirlo», ha avviato una sorta di rinegoziazione strisciante. Ma Schäuble ha subito rilanciato l’idea di una «Grexit temporanea», che ha come posta la stessa appartenenza della Grecia all’Unione Europea.
La situazione interna è quella determinante. Da anni, la società greca si è difesa contro l’impoverimento e la disperazione sviluppando straordinarie lotte e molteplici forme di solidarietà. Ora è esausta, divisa secondo linee che possono divergere brutalmente.
Molto dipenderà dal modo in cui sarà percepita l’azione di governo: come «tradimento» o come «resistenza». È fondamentale che Tsipras abbia perseverato nella decisione di dire la verità. Ha dovuto però fare un rimpasto di governo e annunciare la possibilità di elezioni anticipate, che si presentano come altamente rischiose.
Soggetta a simili tensioni, Syriza resterà unita?
La spinta verso implosione viene dall’esterno, ma anche dai «marxisti» che hanno sempre visto nella Grexit un’occasione da cogliere. Pur legittima, ci sembra che la contestazione non dovrebbe portare a fare il gioco dell’avversario, pretendendo di monopolizzare la potenza espressa dal «No» del 5 luglio, che costituisce la forza del movimento. O l’unità tiene, e allora la dialettica tra attuazione dell’«accordo» e resistenza potrà svilupparsi in forme inedite, in cui un ruolo fondamentale dovrà essere svolto dalla mobilitazione sociale. Oppure cederà, seppellendo la speranza era nata in Grecia, in Europa e nel mondo.
Aggiungiamo solo un’ultima battuta.
Tsipras lo ha detto chiaramente: la soluzione che abbiamo dovuto scegliere non era la migliore, è stata solo quella meno disastrosa per la Grecia e per l’Europa. Questo impegno al servizio dell’interesse comune ci assegna grandi responsabilità. Fino ad oggi, bisogna pur dirlo chiaramente, il nostro sostegno non è stato all’altezza della situazione. Ma la «lunga marcia» per l’Europa solidale e democratica non è finita il 13 luglio 2015. Continuerà anche in Grecia, mentre altri movimenti carichi di speranza ne prenderanno il testimone. L’unione fa la forza.
Il presente testo sarà pubblicato dal quotidiano Liberation in Francia e dal giornale Der Freitag in Germania. Una versione più ampia si può leggere nel sito di Open Democracy.
Traduzione di Roberto Ciccarelli
L'Unione europea ha due tare d'origine: il mercantilismo, la barriera contro il socialismo reale. Il grande merito della Grecia di Tsipras è di averlo reso trasparente. Ora il re è nudo.
Il manifesto, 19 luglio 2015
Il collante di carattere mercantile, naturalmente trovò ragione di farsi più forte quando, in un’altra metà dell’Europa, venne a consolidarsi l’influenza politica ed economica dell’Unione sovietica. Dunque da una parte la sfida del libero mercato che attraverso gli accordi europei veniva a consolidarsi; dall’altra il blocco dell’economia collettivistica d’impronta e guida sovietica.
Una impostazione invece che fosse europea ma di carattere politico, e che in prospettiva avesse un’unione di tipo confederale, allora non ci fu, anche se nei progetti dei padri ispiratori era stata molto forte. Allora, quello non sembrava un problema, né politico né ideologico. Si deve anche ricordare che i padri avevano tutti un’impostazione ideologico-politica di stampo liberale, e dunque un progetto europeo che andasse avanti in quel modo, era ritenuto soddisfacente. Punto essenziale fu perciò nel dopoguerra quello di rendere sempre più forte un rapporto di carattere mercantile, che servisse da antidoto a guerre future. E che si contrapponesse soprattutto alla politica di socialismo reale che permeava l’altra metà del continente. Diciamo, per semplificare la rappresentazione di questa situazione nei rapporti internazionali, che la parte liberale guardava agli Stati Uniti come fonte d’ispirazione politica, ideologica e di scambi; e i paesi dell’Europa orientale, invece, guardavano verso l’Unione sovietica. Naturalmente, sia gli uni che gli altri, subivano abbondantemente i condizionamenti dei rispettivi punti di riferimento.
Date queste premesse fortemente polarizzate, di unione politica dell’Europa, date le contingenze internazionali e il punto di partenza, non si è parlato più. Anzi, sono cresciute generazioni di superburocrati della Ue, ai quali sono stati affidati i posti al vertice dell’Unione europea. I poteri di questi superburocrati, mediante decisioni formali promosse da essi medesimi negli organi che «occupavano» (il verbo non è improprio, perché eletti essi non lo sono stati mai), sono cresciuti a dismisura. Si è lasciato che governassero l’intero continente, mediante regolamenti imposti al di fuori di ogni procedura democratica (lo ha ribadito Yanis Varoufakis venerdì su Die Zeit). La struttura della Ue ha acquistato sempre più potere, nessuno ha più pensato di metterne in discussione le lacune di democrazia nel suo funzionamento. Nessuno ci ha pensato più. Naturalmente i vertici non democratici dell’Unione hanno preteso sempre più potere; al loro interno si sono imposti i voleri degli stati economicamente più potenti, finche si è arrivati al punto attuale di rottura, in cui non si può più neppure parlare di «stati che contano»: chi conta è solo la Germania. Che attraverso la formazione mentale di molti suoi dirigenti si tira dietro anche difetti antichi.
È naturale che una impostazione di potere del genere cui si è accennato, dopo il genocidio e lo strazio della seconda guerra mondiale dovesse sembrare un grande passo avanti. Sembrò una strada di pace, e sembrò uno strumento utile da non lasciarsi sfuggire. C’erano enormi problemi pratici di nuova edificazione degli scambi che nessuno era stato capace di risolvere altrimenti; c’era la possibilità di costruire un mercato di dimensioni continentali. Forse non c’erano ancora gli strumenti, e la mentalità, per mirare a prospettive ideali ampiamente democratiche; era più semplice solleticando interessi meno ampi, sotto la guida di apparati falsamente democratici.
Finché non ci si è accorti, all’improvviso, che da un piccolo paese, con un reddito complessivo di poco conto, con una disoccupazione immensa, con un’economia fatta di piroscafi e di attività tutte minori, insignificanti, l’intero impianto europeo veniva messo in discussione. Quello stato, dopo avere subìto una dittatura atroce, afferma sempre più il valore della democrazia e del fare politica (il che vuol dire anche avere dei parlamentari che non votano tutti allo stesso modo, come s’usa da qualche altra parte), e dice con forza che nella Ue ci vuole stare, ma a condizioni che diventi democratica. Occorre avere pazienza per i debiti; ma l’Europa deve invece incominciare a discutere subito della democrazia al suo interno. E un continente intero non può essere dominato da una superpotenza.
«Da gennaio la paura dello straniero è cresciuta di nove punti, dal 33 al 42% Eppure in maggioranza condanniamo le Regioni, i Comuni e gli Stati europei che rifiutano o respingono i profughi Ecco le contraddizioni del Paese».
La Repubblica, 18 luglio 2015
Treviso, in particolare, è divenuta, negli ultimi vent’anni, tra le province con il maggior tasso di immigrati, come molte altre aree padane, o meglio, pedemontane. Costellate di piccole e piccolissime imprese artigiane. Dove la manodopera non è certo italiana. Visto che i nostri giovani, i nostri figli, se ne vanno in massa, dall’Italia. Ma non per lavorare in fabbrica…
Per questo non debbono sorprendere le proteste suscitate in Italia. Riflettono il disagio nei confronti dello “straniero”. L’inquietudine prodotta dalla globalizzazione, di cui l’immigrazione è un riflesso. Tra i più visibili e significativi: perché impatta sul nostro mondo, sulla nostra vita quotidiana. Così, se Lampedusa è divenuta la porta dei disperati in fuga verso l’Italia, l’Italia, tutta, è divenuta la Lampedusa d’Europa. “Recintata” in alcuni confini sensibili. Come quelli francesi. Controllati, a loro volta, dalla Germania e, ancor più, dalla Gran Bretagna.
Per questo motivo sorprende un poco l’orientamento degli italiani, che, in maggioranza, condannano le Regioni e i Comuni che rifiutano di accogliere una quota di profughi. E, in misura ancor più ampia, deprecano i Paesi europei che chiudono le frontie- re. Indisponibili, anch’essi, ad accettare la loro parte di immigrati.
Anche se, a loro volta, reagiscono, quando arrivano e si insediano vicino alla propria casa. Ma questo atteggiamento, in fondo, conferma la (nostra) sensibilità verso le ragioni – sociali e umanitarie - dell’immigrazione. La nostra attenzione verso i diritti degli immigrati e, ancor più, dei loro figli, ai quali gran parte degli italiani concederebbe volentieri la cittadinanza. Mentre risulta assai minore la disponibilità degli italiani ad accettarne i costi. Quando ci riguardano direttamente.
Tuttavia, lo ripeto, non si tratta di una “sindrome italiana”. Perché colpisce l’intera Europa. Francia e Gran Bretagna per prime. Dove il Fn di Marine Le Pen e l’Ukip di Nigel Farage hanno allargato sensibilmente i loro consensi, associando il sentimento anti-europeo alla paura dello straniero. All’avversione nei confronti dell’euro. E degli immigrati. Quanto alla Germania, Angela Merkel, nei giorni scorsi, ha “fatto piangere” una ragazza palestinese, giunta da qualche anno in Germania e preoccupata per il futuro proprio e dei familiari. Le ha, infatti, spiegato, con la consueta franchezza: «Non possiamo dire “potete venire tutti”, perché non saremmo in grado di farcela e alcuni, poi, dovrebbero tornare indietro». Oppure restare ai confini. Dell’Unione – e, prima ancora, della moneta - Europea. Come i greci. E, in fondo, anche gli italiani. Vicini alla Grecia. Di poco a Nord dell’Africa. Ma (sempre più) a Sud della Germania.
Mentre per tutto il convegno l'atmosfera era stata equilibrata, “quando gli economisti tedeschi presero la parola nella sessione finale, un tono completamente diverso prevalse nella sala. Dietro le teorie economiche e dietro i numeri venne un messaggio morale: i tedeschi erano gli onesti gonzi e i greci corrotti inaffidabili e incompetenti. Ambedue le parti erano ridotte a caricature di se stesse: questa storia l'abbiamo sentita durante tutte le trattative, ma in quella stanza era chiaro quanto grande fosse il risentimento che plasma le opinioni degli economisti tedeschi”.
Per chi, come me, in questo momento sta in Grecia, è quasi surreale la rabbia che traspira dai media tedeschi nei confronti di Atene: soggiornando in un paese che è costretto a vendersi tutto, persino le isole, leggere che sono i greci che stanno derubando i tedeschi sembra di sognare a occhi aperti. Rendersi conto del vittimismo tedesco è forse l'aspetto più preoccupante nell'attuale vicenda europea. Semplicemente perché, dopo 70 anni, ripropone in Europa una questione tedesca che sembrava essere stata risolta per sempre. E forse gli storici ricorderanno il luglio 2015 non solo come il mese in cui fu affossato il progetto europeo, ma soprattutto come il momento in cui riemerse con forza la questione tedesca, dove l'aggettivo “tedesco” non riguarda i singoli cittadini della Germania, ma designa lo Stato e il governo politico ed economico tedesco, la classe dominante tedesca. Esattamente come, quando si parla di “imperialismo americano”, non si attribuiscono certo mire imperialistiche a una ragazza madre di un ghetto urbano statunitense.
E uno dei pochi motivi di gratitudine che avevamo nei confronti dell'imperialismo americano era che, semplicemente grazie alle loro dimensioni schiaccianti, gli Stati uniti avevano costretto sia le élites francesi, sia quelle tedesche a rendersi conto di “non fare il peso”, di essere gattini in un mondo di elefanti, e avevano così liberato noi europei dall'insopportabile prospettiva di altri tre secoli di guerre franco-tedesche. Ricordiamo che la Germania unita è una costruzione statale recentissima nel panorama europeo, persino più giovane della stessa Italia unita. E fin dalla sua riunificazione nel 1866, la Germania ha posto all'Europa un “problema tedesco”: in 79 anni, prima di essere ridivisa di nuovo, aveva scatenato due guerre europee (con l'Austria nel 1866 e con la Francia nel 1870) e due guerre mondiali (nel 1914 e nel 1939): una media di una guerra ogni 19 anni; solo lo Stato d'Israele (anch'esso una creazione recentissima) si sta dando da fare per battere questo record, con cinque guerre e varie guerricciole in 66 anni: a confronto, gli Stati uniti stanno a 11-12 guerre (a seconda se si considerino due guerre separate oppure la stessa guerra l'invasione dell'Iraq e quella dell'Afghanistan) in 241 anni, una guerra ogni 20-21 anni. Tanto che dopo la seconda guerra mondiale, quando la Germania fu divisa in due, molti condivisero la battuta che viene attribuita allo scrittore francese François Mauriac: “Amo talmente tanto la Germania che sono felice che ce ne siano due”.
Quasi a confermare le parole di Mauriac, appena dopo la riunificazione nel 1989, alcuni segnali avevano suscitato un po' d'inquietudine: il ruolo della nuova Germania unita nel favorire la dissoluzione della Jugoslavia e quindi nel suscitare il susseguente conflitto; la fretta nell'annettere all'Unione europea i paesi dell'Est, una fretta che ha provocato non pochi scompensi e problemi di dissonanza politica; una certa megalomania imperiale nei piani di ricostruzione di Berlino capitale. Vi si riconosceva il senso di una nuova assertività politica, anche se questi segnali potevano essere considerati errori d'inesperienza, prodotti da un'euforia che si sperava transitoria.
Né vale la pena appellarsi alla memoria collettiva. Innanzitutto è dubbio che esista qualcosa chiamato memoria collettiva. Ma se esistesse, sarebbe una memoria piena di amnesie, come dimostra il fatto che, nonostante Hiroshima e Nagasaki, più della metà dei giovani nipponici (il 52 % esattamente) ignora che vi sia mai stato un conflitto tra Giappone e Stati uniti. Il modo in cui gli italiani trattano gli immigrati è totalmente immemore delle umiliazioni, discriminazioni, persino dei linciaggi subiti dagli immigrati italiani nell'ultimo secolo e mezzo (e sono stati complessivamente decine di milioni). Anche il modo in cui gli israeliani abusano del proprio potere militare sembra incompatibile con la memoria delle angherie subite per millenni dal popoloebraico.
Assistiamo qui a un ennesimo esempio del fenomeno descritto all'inizio: vienedescritto come strumento dell'oppressione e umiliazione subite dai tedeschiquell'euro che in realtà si è rivelato per la Germania il suo più importantestrumento di dominio, controllo e sopraffazione. È l'euro che ha permesso lametamorfosi del progetto europeo dal perseguimento di una Germania europeaall'instaurazione (destinata al fallimento) di un'Europa tedesca.
Innanzitutto perché nel XX secolo il progetto di unificazione europea ha presoa ricalcare in modo sempre più pedissequo il processo di unificazione tedescanel XIX secolo: primo passo un’unione doganale col Mercato comune europeo,sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca,ognuno con diritto di veto. Poi una nuova unione doganale come quella stabilitanel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli stati membrinon avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 statidella Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un parlamentocomune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale cherappresentava gli stati: per continuare il paragone, il Consiglio federale eral’equivalente della Commissione europea, mentre il Reichstag corrispondevaall’Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollvereincorrispondeva all’Europa a due velocità, con l’Eurozona dei 17 rispettoall’Unione europea dei 27 membri. La similitudine finisce qui perché, dopo solicinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia einglobata nell’impero tedesco. Ma in realtà non finisce qui, perché in Europala Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che avevaavuto la Prussia nell'unificazione della Germania.
Ed è altrettanto naturale che ogni soggetto economico e politico del pianetacerchi di sfruttare a proprio vantaggio le circostanze che si presentano. E cheperciò la crisi economica sia stata vista come un'opportunità (e usata cometale) per perseguire i propri scopi politici e finanziari. Così i poterifinanziari di tutto il pianeta hanno sfruttato (con successo) la crisi persottrarre ai lavoratori conquiste che avevano richiesto secoli di lotta peressere ottenute. Così la Cina ha sfruttato la recessione atlantica peraffermare definitivamente il proprio status di officina del mondo. Così laGermania ha usato la crisi per sottrarre alla Francia una bella fetta disovranità nazionale, con l'ironico risultato che l'euro pensato per imbrigliareBerlino ha finito per imprigionare Parigi (in questo scontro la Grecia è soloun birillo sul tavolo da biliardo). Ma, appunto, il problema è definire ilsoggetto.
Ed è chiaro che, almeno dalla riunificazione in poi, la classe dominantetedesca ha pensato sempre meno in termini di Europa e sempre più in termini diGermania. Tanto che, a tutt'oggi, come scriveva sul Financial TimesWolfgang Münchau, l'euro ha funzionato bene praticamente per la sola Germania(in misura minore per l'Austria e l'Olanda, anche se adesso l'Olanda è incrisi). Ma l'euro è stato disastroso per l'Italia; sta rivelandosi letale perla stessa Francia; la Finlandia è in piena recessione; la Spagna e ilPortogallo sono più poveri di sette anni fa; per la Grecia non ne parliamo.Ancora una volta la narrazione prevalente in Germania è il contrario dellarealtà: l'euro viene visto come un regime di cui Berlino deve sopportare tuttii costi, da buona formica nordica che paga per tutte le cicale meridionali.Mentre è l'euro ad aver garantito la possibilità di esportate i prodottitedeschi nell'eurozona: un ritorno al marco, e la sua conseguenterivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nelmondo.
Ed è questa la maggiore responsabilità storica delle élites tedesche: quella di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che nulla ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti. Per cui assistiamo a una commedia del potere, al gioco delle parti di una classe dominante che si dice costretta a esigere dallaGrecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori diun'opinione pubblica che questa stessa classe dominante ha plasmato nellostampo più reazionario; che è costretta a esercitare una dittatura delcapitalismo per ragioni democratiche, perché altrimenti perderebbe ilconsenso popolare. Il risultato è l'evoluzione della Spd tedesca che, dopo avercacciato Sarrazin, adotta oggi con il socialdemocratico vicepremier Sigmar Gabriel tutta la visione del mondo di Sarrazin, con tutte le sue conseguenze politiche.
(17 luglio 2015)
«La Repubblica, 18 luglio 2015
SUL recente referendum greco, il Movimento 5Stelle ha sfoderato una inedita retorica populista, distinguendosi a fatica dalla Lega di Matteo Salvini, anti-Europea radicale. Sentire i pentastellati evocare la “sovranità” e il “popolo” desta sorpresa. Il movimento di Beppe Grillo ha infatti sempre preferito parlare di “gente” e “cittadini” evitando l’uso di una categoria squisitamente politica come “ popolo”. Il blog di Beppe Grillo ha parlato del diritto della “popolazione” greca di esprimersi col voto. “Popolazione” è un termine generico, molto diverso da “popolo”. Disquisire sull’uso dei termini non é una questione di lana caprina, ma una via utile per capire meglio il carattere del movimento grillino, e soprattutto la ragione del suo stabile successo elettorale e d’opinione.
Il M5S è figlio del declino di legittimità dei partiti politici e della piaga della corruzione, mai rimarginata dal tempo di tangentopoli, e che ora purtroppo sta coinvolgendo pesantemente il Pd. Corruzione e disfunzionalità della classe politica sono tradizionalmente imparentate, e il M5S si è imposto con la richiesta di più competenza (ricordiamo la scelta dei candidati nelle elezioni comunali di Parma attraverso curriculum vitae) e di lotta alla corruzione (di rottamazione ha parlato prima Grillo di Renzi). Due richieste che stanno oltre le identità partigiane e che propongo di identificarle con il gentismo.
In uno dei primi e più validi libri sul grillismo, Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini hanno a ragion veduta avuto riserve a classificarlo come un movimento populista. Non basta una retorica polarizzante per fare un movimento populista. Lo schema “molti” contro “pochi” serve a unificare un movimento intorno a un tema semplificante. A volte i molti sono i senza potere (come in Occupy Wall Street), altre volte sono le persone ordinarie che non esercitano funzioni politiche e sono gente comune: questo é il caso del M5S. La denuncia della cattiva politica e della casta, sorta a ridosso delle varie tangentopoli, ha assorbito il linguaggio giustizialista, portandolo prima in piazza e poi nell’urna. Questo è l’argomento che ha unificato i seguaci di Grillo fin dall’inizio. Ma, contrariamente ai movimenti di opinione (come Occupy Wall Street OWS), il M5S non ha rinunciato alla battaglia elettorale; ha voluto entrare nelle istituzioni. Ma senza diventare partito e senza quindi prendere la strada del populismo vero e proprio.
Nonostante la sua partecipazione alla politica elettorale, infatti, il M5S non si è identificato con un leader. Grillo non è un leader populista, nonostante la sua retorica populista. E la ragione sta nel fatto che egli (insieme a Casaleggio) non si è mai candidato (non importa qui esaminarne le ragioni) e quindi non ha goduto del consenso plebiscitario dell’urna, lo strumento che, invece, ogni leader populista vuole per sancire l’unità con il suo popolo.
Dunque, il M5S ha rinunciato ad essere solo movimento di opinione ma, nonostante questo, non è mai giunto ad essere populista, perché i suoi capi sono restati nella sfera dell’opinione. Ció comporta che i rappresentanti del M5S parlano ciascuno per se, poiché il loro movimento non si è fatto partito; e anche se i capi dell’opinione intervengono quotidianamente, redarguendo, dando ordini, minacciando, i rappresentanti del M5S sono comunque lasciati a se stessi, e la sola disciplina che hanno è quella che viene dal condivide l’opinione fondatrice: quella che li ha portati ad aderire al movimento, ovvero l’attacco alla corruzione e alla casta politica.
È quindi a questa opinione unificante che occorre prestare attenzione per capire la persistenza di M5S nel quadro politico parlamentare. L’opinione contro la corruzione e chi la pratica avendone un ritorno in potere e riconoscimento — la casta — configura la più basilare delle reazioni dei cittadini contro un establishment politico. La democrazia ha sempre al suo interno una diffidenza verso chi esercita il potere. Si tratta di una reazione basilare, capace di unire indistintamente tutti. Questo è ciò che si intende per gentismo: reazione della gente comune contro gli adepti, dei cittadini ordinari contro coloro che svolgono una funzione di direzione politica. La gente non è sotto i riflettori del pubblico, ma è il pubblico. La gente è composta dai cittadini dei sondaggi — è il tribunale supremo. È l’insieme generico dei cittadini che stanno fuori dalle istituzioni. Questo indistinto gentismo è insieme il popolo e l’ideologia del M5S. E infatti Grillo preferisce usare il termine “gente” e “cittadini” invece di “popolo”.
Questo spiega molte cose: per esempio l’impossibilità di identificarlo col populismo, e poi la sua resistenza nel tempo — perché il suo alimento (la corruzione) persiste. È orizzontalismo come voce di gente comune, a volte poco informata, a volte molto pressapochista, a volte sommaria, e però mai unificata sotto un’ideologia o una leadership-guida. L’attrazione dell’elettorato si spiega con questo gentismo, una genericità che fa sentire la gente identifica a coloro che entrano in lista, simili ai generici “noi” nel senso comune, nel semplicismo delle opinioni basilari.
Questa presenza destrutturata spiega quanto poco incisivi possono essere i grillini una volta eletti. Senza struttura di partito restano quel che sono: eterni apprendisti. Ma questo fa anche la loro fortuna agli occhi della gente. Con una struttura partitica i grillini diventerebbero come tutti gli altri, e a quel punto il gentismo gli si ritorcerebbe contro. È l’anti-partito che dà loro identità quindi, più che l’anti-politica. E il web può consentire loro di essere come un movimento politico (presentarsi alle elezioni) senza diventare partito politico. Qui sta anche la sua differenza rispetto ai populisti (certamente alla Lega di Salvini) che sono strutturati e rischiano più del M5S di prendere tutti i difetti della casta, come é del resto successo alla Lega di Bossi.
Nell'intervista di Philip Olterman il duro atto d’accusa del grande filosofo alla cancelliera e al ministro Schäuble “In una notte sola si sono giocati tutto il capitale politico che la migliore Germania si era costruita nel corso degli ultimi cinquant’anni».
La Repubblica, 18 luglio 2015
«L’accordo sul debito greco annunciato lunedì è dannoso sia come risultato che per il modo con cui è stato raggiunto. Primo, l’esito dei colloqui è sconsiderato: anche considerando le condizioni capestro dell’accordo come la giusta linea d’azione, non ci si può aspettare che queste riforme siano attuate da un governo che, per sua ammissione, non crede nei termini dell’accordo. Secondo, l’esito dell’accordo non ha senso in termini economici a causa della combinazione tossica di necessarie riforme strutturali a livello istituzionale ed economico con imposizioni neoliberaliste, che scoraggeranno totalmente una popolazione greca allo stremo, e uccideranno qualunque impeto alla crescita. Terzo, il risultato dell’accordo significa che un Consiglio europeo impotente dichiara efficacemente il suo fallimento politico: la relegazione de facto di uno Stato membro allo status di protettorato contraddice apertamente i principi democratici dell’Unione europea. Infine, tale risultato è infausto in quanto costringere il governo greco ad accettare un fondo di privatizzazioni eminentemente simbolico e discutibile da un punto di vista economico non può che essere inteso come una punizione contro il governo di sinistra. È difficile fare più danni di così. Eppure il governo tedesco ha fatto questo quando il ministro delle Finanze Schäuble ha minacciato l’uscita della Grecia dall’euro, rivelandosi quindi spudoratamente come il supremo rigorista europeo. In quell’occasione, il governo tedesco ha per la prima volta affermato manifestamente la sua egemonia in Europa — è comunque così che è stato percepito nel resto d’Europa, e questa percezione definisce la realtà che conta. Temo che il governo tedesco, compresa la sua fazione socialdemocratica, si sia giocato in una notte tutto il capitale politico che una Germania migliore aveva accumulato in mezzo secolo — e per “migliore” intendo una Germania caratterizzata da una maggiore sensibilità politica e mentalità post- nazionalista».
Quando, il mese scorso, Tsipras ha indetto il referendum, molti altri politici europei lo hanno accusato di tradimento. A sua volta, la cancelliera tedesca è stata accusata di aver ricattato la Grecia. Secondo lei, chi è più colpevole del deterioramento della situazione?
«Non sono sicuro delle vere intenzioni di Alexis Tsipras, ma dobbiamo riconoscere un semplice fatto: per permettere alla Grecia di rimettersi in piedi, devono essere ristrutturati i debiti che l’Fondo monetario internazionale ha ritenuto “altamente insostenibili”. Malgrado ciò, sia Bruxelles che Berlino, sin dall’inizio, hanno persistentemente negato al premier greco l’opportunità di negoziare una ristrutturazione del debito. Alla fine, per superare questo muro di resistenze dei creditori, Tsipras ha cercato di rafforzare la sua posizione con un referendum, incassando un consenso interno superiore alle aspettative. Questa legittimazione rinnovata ha costretto la sua controparte a cercare un compromesso o sfruttare la situazione di emergenza della Grecia assumendo il ruolo, ancora più di prima, di rigorista. Sappiamo come è andata a finire».
L’attuale crisi europea è un problema finanziario, politico o morale?
«La crisi attuale è dovuta sia a cause economiche che al fallimento politico. La crisi del debito sovrano greco emersa dalla crisi delle banche affondava le sue radici nelle condizioni non ottimali di un’unione monetaria composta da parti eterogenee. Senza una comune politica economica e finanziaria, le economie nazionali di Stati membri pseudo-sovrani continueranno ad andare alla deriva in termini di produttività. Nessuna comunità politica può sostenere una tale tensione, nel lungo termine. Al contempo, concentrandosi sull’elusione del conflitto aperto, le istituzioni dell’Ue impediscono le necessarie iniziative politiche per espandere l’unione monetaria in unione politica. Solo i leader di governo riuniti nel Consiglio europeo sono in condizioni di agire, ma sono esattamente loro a non poterlo fare nell’interesse di una comunità europea coesa, perché pensano al loro elettorato nazionale. Siamo bloccati in una trappola politica».
In passato, Wolfgang Streeck ha ammonito che l’ideale europeo è la radice della crisi attuale, non il rimedio a questa: l’Europa, ha avvertito, non ha salvato, ma abolito, la democrazia. Molti europei a sinistra sentono che le vicende attuali confermano la critica di Streeck del progetto europeo. Quale è la sua posizione riguardo alle loro preoccupazioni?
«A parte la sua previsione di un’imminente fine del capitalismo, concordo ampiamente con l’analisi di Streeck. Nel corso della crisi, l’esecutivo europeo ha guadagnato sempre più autorità. Le decisioni chiave sono prese dal consiglio, dalla Commissione e dalla Bce — in altre parole proprio dalle istituzioni che non sono abbastanza legittimate per prendere tali decisioni o che non hanno alcuna base democratica. Io e Streeck conveniamo anche sull’idea che questa esautorazione tecnocratica della democrazia sia il risultato di un modello neoliberalista di politiche di deregolamentazione dei mercati. L’equilibrio tra politica e mercato è andato fuori sincrono, a spese dello stato sociale. A dividerci sono le conseguenze di questa situazione difficile. Io non capisco come un ritorno agli Stati- nazione da gestire come grandi società di capitali in un mercato globale possa contrastare la tendenza alla de-democratizzazione e alla crescente diseguaglianza sociale, a cui, appunto, assistiamo anche in Gran Bretagna. Tali tendenze possono essere contrastate, semmai, solo con un cambio di orientamento politico, portato avanti dalle maggioranze democratiche in un “nucleo europeo” più fortemente integrato. L’unione monetaria deve acquisire la capacità di operare a livello sovranazionale. Alla luce del caotico processo politico innescato dalla crisi greca non possiamo più permetterci di ignorare i limiti del metodo attuale di compromesso intergovernativo».
© The Guardian Traduzione di Ettore C. Iannelli
La pessima socialdemocrazia tedesca non smette di stupire. L’ex ministro delle finanze di grande coalizione, nonché sfidante – si fa per dire - della Merkel nelle ultime elezioni, in una intervista al Bild ha dichiarato che non bisogna dare altri miliardi alla Grecia e che ha ragione Schäuble sulla uscita temporanea della Grecia dalla Ue, peraltro non prevista dai Trattati. Potrebbe essere una delle tante dichiarazioni stravaganti se non facesse presa anche in ambienti inaspettati. Come si sa in questi giorni la Merkel ha perso molto appeal. Non è solo Habermas a criticarla duramente. Ma l’applauso oceanico ricevuto da Schäuble da parte del Bundestag, mostra dove vada il pendolo delle preferenze in Germania. A quest’ultimo viene riconosciuta una maggiore coerenza e combattività nella difesa degli interessi nazionali. E’ il senso profondo ma evidente del report cosiddetto dei cinque presidenti, Tusk, Djissembloim, Draghi, Juncker e Schulz sulla riforma della Ue comparso a fine giugno, ove la fuoriuscita della Grecia e di altri paesi che non tengono il passo di una Ue a supertrazione tedesca, è vista non come un accidente ma una eventualità da favorire.
Il guaio è che la convinzione sulle buone ragioni di Schäuble nel proporre una Grexit, è diffusa anche tra la sinistra nel nostro paese. Si baserebbe sull’assioma che nessuna salvezza è possibile dentro questa Europa e con questa moneta unica. Si dovrebbe farla finita con “l’europeismo del dovere essere” e assumere il rude ma realistico punto di vista di Schäuble per cui per la Grecia, ma non solo, sarebbe meglio fare fagotto. Per un po’, se crede, o per sempre, meglio ancora.
Contemporaneamente si parla della necessità di adottare un piano B. Ne ha parlato Varoufakis nella ormai famosa intervista a Newstateman, salvo riconoscere che tale piano non esisteva e che comunque non c’erano le condizioni per metterlo in opera. E’ la sorte di molti piani B, che sulla carta sembrano affidabili, ma che trascurano, proprio perché ipotetici, il problema essenziale degli strumenti concreti per la loro implementazione, nei modi e nei tempi necessari alla loro riuscita. Tuttavia si dice piano B perché si suppone che esso sia la soluzione di riserva qualora le rivendicazioni principali, diciamo il piano A, non avadano in porto. In sindacalese si direbbe più semplicemente “il punto di caduta” oppure “la via d’uscita dall’impasse”. Da questo punto di vista, pur con tutti i limiti intrinseci, un piano B va sempre pensato quando si va a discutere con avversari agguerriti per evitare di rimanere tra l’uscio e il muro.
Ma nella discussione che vedo e sento in queste ultime ore, su cui molti fondano le loro asperrime, quanto ingenerose e spesso infondate, critiche a Tsipras, la questione ha preso un’altra piega. Il piano B diventa di fatto il piano A. Ovvero i greci avrebbero dovuto fin dall’inizio proporsi un’uscita unilaterale della Grecia dall’Eurozona. In questo quadro Schäuble diventerebbe paradossalmente un potenziale alleato.
Importerebbe poco o nulla che ripetuti sondaggi indicano la preferenza del popolo greco a rimanere nell’euro. Si sa, il popolo è un po’ bue e non capisce le gioie delle varie monete collaterali e sostitutive (dibattito in sé degnissimo, ma che andrebbe fatto veramente, senza l’angoscia degli ultimatum e per un’area più ampia che non quella di un solo stato). Né è rilevante che Tsipras abbia detto che nei suoi contatti internazionali con le massime potenze, non ne ha trovata una realmente disponibile ad aiutare la Grecia in caso di fuoriuscita dall’euro. Infatti gli Usa hanno interessi geostrategici che la Grecia permanga nella Ue, mentre la Cina ne ha di tipo economico e la Russia non può largheggiare di questi tempi.
L’accordo non è bello. Il primo ad averlo detto è stato Tsipras, che ne ha denunciato i pericoli recessivi. Ma non sarebbe migliorato imbroccando la strada indicata dall’avversario. Non si può del resto tacere che questa intesa ha posto sul tavolo la questione della insostenibilità del debito greco. Può essere anche ambivalente il richiamo del Fmi sulla necessità del taglio del debito: ma in primo luogo essa spacca il fronte della Troika e questo è un merito non casuale della tenacia del governo greco. Per i greci e Syriza si apre una nuova fase. Elezioni anticipate o meno la nostra solidarietà non può venire meno. Specie per chi vuole costruire una nuova Sinistra.
«“La gente protesta, scende in strada”. “Nei bar si dice che Tsipras ha tradito.” E’ comprensibile, ma per questo per vincere ci vogliono i partiti e non i bar: proprio nei momenti drammatici è indispensabile un soggetto consapevole, unito da una comune cultura politica, da un rapporto vero con le rispettive comunità, e non un agglomerato emotivo».
Il manifesto, 17 luglio 2015 (m.p.r.)
Tutti si ricordano la famosa frase pronunciata da Ramsey McDonald, primo presidente del consiglio di un governo laburista in Gran Bretagna nel 1931, nel pieno dell’altra grande crisi economica mondiale: «Credevo che il peggio fosse stare all’opposizione senza il potere di cambiare le cose, ora mi sono accorto che è peggio ancora stare al governo e non aver ugualmente potere». Pochi ricordano forse quello che avvenne dopo, quando McDonald decise di rompere con il proprio partito le cui rivendicazioni non era in grado di soddisfare e di dar vita ad un pessimo governo di unità nazionale.
Ebbene, nella tristissima serata che tutti abbiamo trascorso ieri notte attaccati alla televisione per seguire quanto accadeva ad Atene, su piazza Sintagma e dentro il palazzo del Parlamento che vi si affaccia, abbiamo, almeno molti di noi, tirato un sospiro di sollievo: non solo — lo sapevamo già prima — Tsipras non è Ramsey McDonald, anche se ha dovuto sperimentare una analoga impotenza — ma, quel che più conta, la rottura con il suo partito non è avvenuta. Sia i 40 deputati di Syriza che hanno votato contro il memorandum, sia i 109 membri del Comitato centrale che hanno espresso analoga opposizione, hanno ribadito che questo non comporta sfiducia nei confronti del governo. Un’altra bella prova della maturità di Siryza. Se questa unità reggerà anche nelle difficilissime settimane che ci aspettano, il peggio potrà forse essere evitato.
Io la penso così. Ma sono molto confortata nel riscontrare che la grande maggioranza di coloro che stanno cercando di costruire in Italia un nuovo soggetto politico unitario la pensa in modo analogo. A qualchecosa la lunga storia della nostra sinistra - primo fra tutti il “genoma Gramsci” - ci è pur servita !
«È un grande problema di filosofia del diritto. E, tuttavia, la psicoanalisi mostra come in tutti i processi di crescita della vita individuale e collettiva l’applicazione (inumana) della Legge che non sa fare posto all’eccezione genera solo mostri».
La Repubblica, 17 luglio 2015 (m.p.r.)
Ne La vita è bella il protagonista, un indimenticabile Roberto Benigni, custodisce il sogno del figlio proteggendolo dalle atrocità del campo di sterminio. Trasfigura l’orrore in un gioco a premi; il bambino crede alla parola del padre, non la mette in dubbio, accoglie il trasferimento al campo come una vacanza un po’ strana, ma eccitante. Il velo della parola paterna ricopre il reale terrificante della morte e della distruzione. La posta in gioco è alta: quanta verità può sopportare un essere umano? E, ancora di più, quanta verità può sopportare un bambino?
«Il problema non sono immaginarie tentazioni di un nuovo imperialismo tedesco, bensì il dogmatismo di Berlino, l’ossessiva convinzione che qualsiasi debitore debba sempre ripagare tutto a ogni prezzo, anche a costo della propria sopravvivenza».
La Repubblica, 17 luglio 2015 (m.p.r.)
Berlino. Sono giorni difficili per tutti. Per questo vorrei cominciare prendendo le distanze da certi attacchi e pregiudizi contro la Germania. Non dobbiamo dimenticare che sul tema del terzo pacchetto d’aiuti alla Grecia, Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble non sono soli. Una maggioranza di paesi dell’eurozona è dalla parte della Germania: Irlanda, Portogallo, Spagna, i Baltici e altri. Sarebbe stato saggio, certo, se Merkel avesse lasciato a un non tedesco l’annuncio dell’accordo. Non è una cosa buona se gli europei a ogni occasione sfoderano sentimenti antitedeschi di natura populista, se non razzista. Cari amici europei, volete spiegarmi quando parlate di “Quarto Reich” o simili che cosa Merkel o Schaeuble avrebbero in comune con Hitler? Tutti, noi stessi e il resto d’Europa, dovremmo fare attenzione all’igiene delle parole.
«Si può e si deve discutere per capire se si poteva ottenere di più a Bruxelles, ma viste la sproporzione delle forze in campo e ciò che era in gioco, adesso si può dire che Tsipras ha, momentaneamente, salvato il paese dalla catastrofe».
Il manifesto, 17 luglio 2015 (m.p.r.)
Potremmo rubare a Woody Allen uno dei suoi fulminanti paradossi e prestarlo a Alexis Tsipras: «Messa l’umanità di fronte a un bivio, da una parte la strada che porta alla disperazione e allo sconforto più assoluto e dall’altra la strada che porta alla totale estinzione, preghiamo che il cielo ci dia la saggezza di fare la scelta giusta». Perché la notte di Atene è passata, ma il voto favorevole che ha dato via libera al piano concordato in Europa, ha il sapore amaro raccontato dai volti dei parlamentari, soprattutto quelli del partito di maggioranza, Syriza, che esce lacerato, diviso, da questo passaggio strettissimo, inevitabile al punto in cui era arrivata la trattativa a Bruxelles e considerato il bivio drammatico che il presidente del consiglio greco aveva di fronte.
Al tempo stesso il leader dovrà misurarsi con la minoranza di Syriza, un partito diviso, come ha mostrato chiaramente il voto della direzione e di un gruppo di parlamentari. La minoranza, dopo il voto di ieri notte, assicura che non toglierà la fiducia al governo, ma già il “no” parlamentare è stato in qualche modo un voto di “sfiducia”. Si arriverà ad una scissione con la nascita di un nuovo partito di sinistra? Ne è anticipazione il comportamento dell’ex ministro Varoufakis e degli altri che, d’accordo con lui, declinano ogni responsabilità in questa vicenda?
Il manifesto, 16 luglio 2015 (m.p.r)
James K. Galbraith, amico e «consigliere» dell’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, riflette sul fallimento della politica riformista di Syriza e sulla lezione che questo rappresenta per la sinistra europea.
Come giudica l’accordo raggiunto tra Grecia e Ue?
Non è un accordo. È un brutale colpo di stato ottenuto con metodi mafiosi. Lo stesso Tsipras ha ammesso che ha firmato solo perché si è trovato con un coltello alla gola.
Che alternative aveva il governo greco?
Dentro l’eurozona, nessuna. L’unica alternativa era l’uscita dall’euro.
Tsipras ha difeso la sua decisione sostenendo che un’uscita unilaterale dall’eurozona avrebbe avuto conseguenze ancora più serie sul paese.
È una decisione che spetta a lui, e capisco perché possa pensarla così. Ma ritengo che sia male informato.
Quindi lei ritiene che a questo punto un’uscita dall’euro sarebbe la scelta migliore per la Grecia?
È ovvio che un’uscita avrebbe dei costi significativi. Ma se fossi un membro del parlamento greco sarei al fianco di Varoufakis e voterei anch’io «no» a questo accordo.
In quanto consigliere ed amico stretto di Varoufakis lei ha seguito i negoziati molto da vicino. Ritiene che una strategia diversa da parte della Grecia avrebbe potuto determinare un esito migliore?
A un certo punto nel corso dei negoziati è diventato evidente che la troika non aveva nessuna intenzione di trattare e non avrebbe accettato niente all’infuori di una riproposizione del vecchio Memorandum. La Grecia ha senz’altro sottovalutato con chi aveva a che fare. Prendiamo Schäuble: subito dopo la vittoria di Syriza dichiarò che «le elezioni non fanno alcuna differenza». Molti al tempo pensavano che scherzasse. E invece ha mantenuto quella linea fino alla fine. In quelle condizioni, l’unica cosa che poteva fare la Grecia era costringere l’avversario a venire allo scoperto, smascherandolo. E ci è riuscita.
Lei è stato molto critico nei confronti del comportamento tenuto dalla Bce.
Certamente. La scelta della Bce di assumere il ruolo di “scagnozzo” dei creditori – sottoponendo la Grecia a una lenta asfissia finanziaria che ha destabilizzato l’economia e messo in ginocchio il sistema bancario – è stato un atto di brutalità inaudita, senza precedenti, che solleva moltissimi dubbi sull’integrità di quell’istituzione. La pressione esercitata dalla Bce è il motivo principale per cui Tsipras è stato costretto ad accettare le condizioni imposte dalla troika.
Ritiene che il governo greco sia stato ingenuo nel cercare fino alla fine di giungere a un «compromesso onorevole», quando evidentemente la controparte non aveva nessuna intenzione di scendere a compromessi, al punto di arrivare addirittura a minacciare il Grexit?
No, non credo. Il governo greco ha fatto l’unica cosa che poteva fare, visto che non aveva altre carte da giocarsi: presentare le proprie argomentazioni nella maniera più chiara e logica possibile, sperando che la ragione e il buon senso avessero qualche effetto sulla controparte. Penso che questa strategia abbia avuto un impatto enorme sull’opinione pubblica europea. Purtroppo non ha influito minimamente sui rapporti di forza in seno all’Europa. Non è stata una strategia ingenua: è stata una strategia dettata dallo squilibrio di forze in campo.
Ritiene che la Grecia avrebbe dovuto giocarsi la carta del «Grexit» fin dal principio?
Non è detto che questo avrebbe rafforzato la posizione negoziale di Syriza. Primo, avrebbe voluto dire tradire il mandato elettorale di Syriza. Secondo, bisogna tenere presente che era chiaro fin dall’inizio che una parte dell’establishment tedesco vedeva di buon occhio il Grexit. Dunque non c’è motivo di ritenere che minacciare esplicitamente l’uscita avrebbe migliorato la posizione di Syriza o costretto gli europei a più miti consigli.
Il punto è che quello di Syriza è stato un test: vedere se una strategia basata su argomentazioni logiche, sulla ragione e sui fatti – tesa a dimostrare l’evidente fallimento delle politiche economiche perseguite finora – poteva prevalere all’interno dell’eurozona, alla luce delle posizioni politiche ed ideologiche degli altri partner. Questo è quello che ha cercato di fare Tsipras, con le uniche armi a sua disposizione: il buon senso e la ragione. Ma quelle armi non hanno avuto effetto. Questo deve indurci a fare una riflessione molto profonda su quello che è diventata l’Europa.
Quale pensa che sia la lezione che gli altri movimenti e partiti della sinistra in Europa dovrebbero trarre dalla vicenda di Syriza?
Tutta la strategia di Syriza era basata su un’incognita: può un paese che ha pagato sulla propria pelle il drammatico fallimento delle politiche europee sperare di cambiare quelle politiche all’interno della cornice dell’eurozona? Bene, penso che la risposta a quella domanda sia evidente a tutti.
Non ritiene che una strategia improntata alla riforma dell’Ue e dell’eurozona avrebbe qualche speranza di successo in più se a portarla avanti fosse un partito politico alla guida di un paese economicamente e politicamente più rilevante come, per esempio, la Spagna?
Sta all’elettorato spagnolo decidere se tentare la strada greca o meno. Al loro posto, io non sceglierei quella strada. Non penso che sarebbe una posizione facile da vendere agli elettori, alla luce della vicenda greca. Anche perché ormai la posizione dei creditori la conosciamo bene, ed è incredibilmente rigida: niente taglio del debito e nessuna deviazione dalle politiche di austerità estrema che abbiamo visto finora.
Come reagirebbe l’establishment europeo alla vittoria di un partito come Syriza in un altro paese della periferia, secondo lei?
Assisteremmo alla stessa semi-automatica sequenza di eventi a cui abbiamo assistito in Grecia: per prima cosa le banche del Nord comincerebbero a tagliare le linee di credito alle banche del Sud. A quel punto dovrebbe intervenire la Bce con la liquidità di emergenza. Questo spingerebbe la gente a portare i capitali fuori dal paese, e in poco tempo il governo si ritroverebbe a gestire una crisi bancaria. Va da sé che se questo avvenisse in un paese come la Spagna o l’Italia, avrebbe ripercussioni infinitamente più gravi di quello a cui abbiamo assistito in Grecia.
Qualunque partito di sinistra che aspiri a governare un paese europeo deve essere preparato a questo.
«Come non vedere che attraverso la questione greca si è voluto risolvere proprio la questione Bruxelles, annunciando con inusitata durezza quale Europa politica ci attende per quanto riguarda leadership, forze politiche, contenuti?». La Repubblica, 16 luglio 2015
Abbandoniamo ipocrisie e luoghi comuni. Onorevole compromesso, né vincitori né vinti, ora è il momento della crescita, risolta la questione greca ora vi è la questione Bruxelles, serve più Europa politica. Come non vedere che attraverso la questione greca si è voluto risolvere proprio la questione Bruxelles, annunciando con inusitata durezza quale Europa politica ci attende per quanto riguarda leadership, forze politiche, contenuti? Sull’indubbia supremazia tedesca è inutile insistere, se non per sottolineare quanto sia debole la tesi dell’importante mediazione di Hollande. Che altro poteva essere chiesto alla Grecia dopo tutto quello che le era stato imposto? E che altro poteva avvenire dopo la riduzione della Grecia a protettorato, come ha ben scritto Lucio Caracciolo?
La verità è che questa vicenda ha certificato anche la dissoluzione della socialdemocrazia europea. Nel vuoto così lasciato, da tempo hanno cominciato ad insediarsi i populismi antieuropeisti, ai quali i partiti socialisti o socialdemocratici non sono stati capaci di contrapporre alcuna plausibile strategia. L’ultimo spettacolo offerto dal partito socialdemocratico tedesco, attraverso le prese di posizione del suo vice-cancelliere e del presidente del Parlamento europeo, è a dir poco imbarazzante. Ma l’allineamento degli altri partiti dell’Internazionale socialista, a cominciare dalla Francia e dall’Italia, è stato nella sostanza così totale da rendere ormai indistinguibili i loro programmi da quelli degli schieramenti conservatori. Con le ultime, unanimi decisioni di Bruxelles siamo entrati palesemente nell’area del partito unico europeo.
Ma questo non basta per sventare i rischi dei populismi montanti. Se l’Unione ha deciso di costruirsi come una organizzazione senza popolo, non vuol dire che il popolo sia cancellato. Con due effetti. I popoli si prendono le loro rivincite affidandosi a chi ne evoca una autonomia insidiata da Bruxelles. E si manifestano fenomeni di rinazionalizzazione, già ben analizzati da Wolfgang Streek, che hanno altrettanto potenziale distruttivo. Non si può condannare il nazionalismo della decisione di Tsypras di indire un referendum, e poi distogliere lo sguardo da una politica tedesca condizionata evidentemente dalle dinamiche interne a questo Stato. Se, poi, si voleva colpire Tsypras per educare Podemos, si tratta davvero di una strategia senza sbocco o più precisamente di una strategia che, infiacchendo la democrazia, favorirà una sostanziale disgregazione dell’Europa.
La questione della necessaria legittimazione dell’Unione europea attraverso meccanismi diversi da quelli puramente economici era stata ben colta nel giugno del 1999, quando il Consiglio dell’Unione europea decise di mettere in cantiere una Carta dei diritti fondamentali. Si giustificò questa iniziativa sottolineando esplicitamente che “ la tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità”. Non è un richiamo nostalgico. Quelle parole coglievano un punto nevralgico per lo sviluppo dell’Unione, essendo divenuto evidente che, per ottenere piena legittimazione da parte dei cittadini, all’integrazione economica e monetaria doveva essere affiancata, come passaggio ineludibile, l’integrazione attraverso i diritti. La Carta dei diritti fondamentali ha oggi lo stesso valore giuridico dei trattati, ma è stata cancellata dal quadro istituzionale europeo, sopraffatta dalla logica economica. Allo storico deficit di democrazia dell’Unione europea si è affiancato così un sempre più distruttivo deficit di legittimazione, che sconfina ormai nell’illegalità.
Non è arbitrario, allora, prevedere che il “più politica”, continuamente invocato, altro non possa essere che l’istituzionalizzazione e la formalizzazione delle logiche anche violente che hanno caratterizzato l’ultima fase, con un esercizio impietoso del potere che ha prodotto esclusione delle persone e espropriazione dei diritti. Sempre più lontani dalle parole del Preambolo della Carta dei diritti dove si afferma che l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”. E sempre più vicini ad una stretta istituzionale che, modificando i trattati, intende costruire il “fiscal compact” come essenziale punto di riferimento.
L’Europa sociale, l’Europa del vivere in dignità e diritti, è dunque irrimediabilmente perduta? La domanda è legittima, e le risposte inclinano verso il pessimismo. Ma una conclusione così sconsolata – non per i sentimenti personali, ma per le sorti della democrazia – dovrebbe essere misurata attraverso una analisi che parta da una domanda diversa. Oltre al nuovo partito unico del rigore e ai diversi populismi si scorgono forze che possano riprendere il cammino dei diritti sociali non come rivendicazione egoistica contro “l’idraulico polacco”, ma come possibilità concreta di una azione statuale e sovranazionale che metta a frutto le analisi di tanti economisti e giuristi che hanno mostrato la forza distruttiva delle politiche finora seguite? Si consoliderà questa consapevolezza culturale, si tradurrà in iniziative concrete? Non dimentichiamo che la guerra fredda venne combattuta mostrando concretamente la superiorità di una democrazia innervata dai diritti delle persone. Non dovrebbe essere questo il modello da seguire nel nuovo conflitto con il totalitarismo economico?
Una visione ragionevole e laicamente distaccata del dramma greco (e della tragedia europea) riporta l'accento sulla questione centrale: con quali forze e con quali alleanze si può provare a costruire un'altra Europa e scalzarne il poderoso gruppo di potere che occupa l'UE? Dalla lista di discussione di "L'altra Europa con Tsipras", 14 luglio 2015
I negoziatori del 12 luglio sono entrati nella sala della riunione in grisaglie e ne sono usciti con il volto di Dracula. Un volto che ossessionerà tutti i cittadini europei, mano a mano che si renderanno conto di quel che è accaduto; ma che da oggi ossessionerà anche i loro governanti: perché non aver difeso la Grecia di Tsipras oggi, ed essersi anzi uniti al drappello sempre più folto di coloro che ne hanno diretto il waterboarding, li espone, domani, alla prospettiva di trattamento analogo. Non solo non potranno più permettersi di proporre un cambio di rotta, ma dovranno sottostare alle pretese ogni giorno più esose di chi guida la danza dell’austerity. Con il 2016 entra in vigore il fiscal compact, cioè l’obbligo di cominciare a rientrare dal proprio debito. Nessuno ci pensava o ne parlava più; ma ora quel patto potrà essere richiamato in sevizio e scombussolare piani e bilanci di tutti gli Stati: non solo quelli già a rischio, come Italia, Spagna e Portogallo; ma anche Francia, Olanda o Finlandia, che non stanno molto meglio. I birilli di questo bowling rischiano di cadere uno dopo l’altro, e di coinvolgere, prima di quanto si possa pensare, anche la Germania.
Attaccare oggi Tsipras dopo averlo sostenuto ed esaltato fino a ieri è un po’ gaglioffo; specie se a farlo sono dei politici italiani. Innanzitutto perché da qui è difficile avere un quadro esauriente della situazione greca. Poi, perché, dopo averne condiviso l’operato, bisognerebbe mettersi “nei panni” di Tsipras, cioè di fronte alle alternative tra cui ha dovuto fare le sue scelte. Ma soprattutto perché, subito dopo, bisognerebbe ritornare nei nostri, di panni: di chi cioè ha dissipato il patrimonio della sinistra più forte d’Europa (non che non fosse da liquidare) senza aver saputo sostituirvi niente che non sia l’eterna riproposizione della propria inconsistenza. Ma se è sbagliato voltare le spalle a Tsipras in questo difficile passaggio, non per questo diventa necessario appiattirsi sulle sue posizioni. Si dovrebbe guardare la vicenda greca con quel tanto di distacco che ci è possibile per ricavarne fin da ora degli insegnamenti.
Innanzitutto l’inconsistenza intellettuale e la malafede dei negoziatori sia dell’eurogruppo che del Consiglio, già evidenziate più volte da Varoufakis, si proiettano su tutto l’establishment europeo di cui sono espressione. Una classe dirigente che manda a fondo la Grecia pensando di ricavare 50 miliardi da asset che possono essere svenduti al massimo a 7 (la favola delle privatizzazioni per pagare i debiti…), di normare l’orario di apertura delle farmacie, o di riscrivere la procedura civile in una settimana, non ha futuro. Persino il FMI giudica quelle proposte irrealizzabili. Il che lascia aperta la partita. E non dimentichiamo che si tratta degli stessi governi che hanno rifiutato di farsi carico di alcune decine di migliaia di profughi. Un’alternativa - sociale, politica e culturale - a questi esiti mostruosi deve tenerne conto: l’Unione europea potrebbe dissolversi in pochi anni.
In secondo luogo è apparsa in tutta la sua inconsistenza l’opzione di un’uscita dall’euro come alternativa alle politiche germanocentriche dell’austerity. Le scelte di Tsipras, e gli stessi rilievi critici di Varoufakis nei suoi confronti, hanno messo in luce la drammaticità, per l’intera popolazione, ma anche le difficoltà tecniche, mai prese in considerazione, di quell’opzione: soprattutto se fatta in maniera non concordata. Ma andrebbe presa in considerazione anche l’impossibilità di recuperare competitività con la svalutazione se una scelta del genere dovesse coinvolgere, anche in tempi diversi, un numero elevato di Stati membri. Ancora più insensata e grottesca appare quindi la proposta di un referendum sull’uscita dall’euro: nel tempo che separa il suo lancio dalla sua eventuale realizzazione le banche verrebbero svuotate, paralizzando per mesi l’intero paese. Eppure la politica, oggi, si nutre in buona parte di queste due cose: di “ce lo chiede l’Europa” e di promesse di un ritorno a “come si era prima” dell’euro.
In terzo luogo l’esito pesantissimo del negoziato che ha tenuto impegnato il Governo greco è dovuto anche alla mancanza di un “piano B” che contemplasse, in qualche forma, l’introduzione di una moneta parallela all’euro. Su questo punto ha ragione Varoufakis (che d’altronde l’aveva prospettato in alcuni suoi scritti). Ma anche questa non è cosa realizzabile in una settimana: avrebbe dovuto essere predisposta fin dal giorno della vittoria elettorale, e studiato prima ancora. Syriza non ha avuto né tempo né modo per farlo. Ma una discussione sulle diverse versioni correnti di questa proposta e sulle forme di un suo eventuale utilizzo andrebbe sviluppata con maggiore impegno. Anche perché è parte integrante non solo di un programma di politiche alternative alla subalternità all’ attuale governance europea, ma anche di una strategia generale di riduzione del potere dell’alta finanza sulle vite di tutti.
Quarto: il vero regista di questa resa dei conti con Syriza e con la Grecia non è stato Schaeuble ma Draghi, come peraltro conferma il FMI. Sua è la lettera scritta con Trichet per varare il governo Monti, le cui misure i memoranda della Trojka ricalcano fedelmente e che oggi vengono riproposte in forma aggravata; sua è la scelta di escludere la Grecia dal quantitative easing e dalle altre misure di sostegno alle banche; sua la decisione di bloccare i fondi Ela (cioè di costringere le banche greche a chiudere) mettendo Tsipras con le spalle al muro. Il suo è stato il comportamento di chi tiene ferma la vittima per permettere agli altri di colpirla meglio. Schaeuble non avrebbe avuto un potere incontrastato nel negoziato se Draghi non avesse tenuto “bloccato” l’avversario. Una strategia alternativa deve quindi prospettare una diversa governance della BCE. Chiedere la fine della sua indipendenza non basta: significa consegnarla nelle mani del Consiglio, o dei singoli governi. Meglio allora, in attesa di un “governo europeo”, espressione di quell’unità politica da cui ci si sta in realtà allontanando a passi da gigante, che Banca centrale e politica monetaria vengano sottoposti al Parlamento europeo: che comunque potrebbe esercitare – adeguatamente attrezzato, e in regime di trasparenza che oggi non c’è - solo funzioni di indirizzo e di controllo. E’ una prospettiva – che può tradursi in una campagna, lanciata per ora in termini non sufficientemente chiari - che richiede anch’essa di essere discussa per tempo. Comunque sia, l’obiettivo della ristrutturazione o del taglio del debito è imprescindibile.
Infine, sarebbe sbagliato promuovere, come in parte si fa, un risentimento antitedesco da contrapporre al nazionalismo che ha guidato il negoziato con Tsipras e Varoufakis, condotto fin dall’inizio all’insegna di una menzogna (“non permetteremo ai greci di spassarsela a nostre spese”…); ma condizionato soprattutto dalla volontà di molcire e aizzare l’elettorato delle maggioranze in carica. La Germania non è un monolite, anche se i vantaggi usurari che ha ricavato dall’euro (un tema su cui la pubblicistica mainstream tace) sono in parte ricaduti su tutta la sua popolazione. E’ anch’essa un paese diviso in classi, su cui le politiche europee hanno inciso e incideranno sempre più in modo differente. A guadagnarci, da un’Europa e da un euro germanocentrici, non è stata tanto “la Germania”, quanto la finanza internazionale e le multinazionali al cui servizio si è posto il suo governo. La possibilità di far saltare quelle politiche riposa anche sulla possibilità che anche lì si apra una frattura lungo frontiere sociali e di classe. Che non ha bisogno, però, della demonizzazione del popolo tedesco (e meno che mai di richiami al suo passato nazista), ma di una sempre più chiara identificazione degli interessi in gioco: che sono gli stessi in Germania, in Italia, e in tutto il resto dell’Europa.
Il Parlamento vota, La Grecia resta in Europa e il collasso è evitato, ma il cappio bipartisan dell'UE delle banche resta stretto al collo.
La Repubblica, 16 luglio 2015
IL DRAMMA DI SYRIZA
Un “no” al pacchetto avrebbe portato Atene dritta dritta alle elezioni e verso il baratro della Grexit. Il sì regala invece al premier una piccola boccata d’ossigeno. Nelle prossime ore dovrà affrontare un rimpasto di governo e decidere se tirare dritto con un esecutivo di minoranza o lasciare spazio a uno di unità nazionale. L’ok in Parlamento sblocca però i prestiti necessari per pagare la Bce – lunedì scade una rata da 3,5 miliardi - e l’Fmi (2 miliardi) e per allentare il cappio dei controlli sui capitali.
Le ultime drammatiche ore lasciano a Tsipras un’eredità pesantissima: Syriza è stata ieri sul punto di andare a pezzi. E solo un tesissimo confronto prima del dibattito - “o state con me o domani potrei non essere più primo Ministro”, ha minacciato - è riuscito a tenere insieme, per ora, i cocci di quel che resta del partito che sei mesi fa ha stravinto le elezioni con il 36,3%.
La via crucis del presidente del consiglio è iniziata di prima mattina con la città presidiata da migliaia di poliziotti e la conferma delle dimissioni di Nadia Valavani, viceministro dell’Economia. Uno strappo doloroso non solo perché è la mente del programma fiscale dell’esecutivo, ma soprattutto perché è sua amica da una vita. Il sassolino della Valavani si è ingrossato nel pomeriggio fino a diventare una valanga. Alle 15 ben 107 membri del Comitato centrale (su 201) hanno firmato un documento chiedendo l’immediata convocazione del massimo organo di Syriza: «L’intesa non rispecchia i valori della sinistra», il titolo lapidario. «E’ come il trattato di Versailles», ha tuonato Varoufakis. Subito dopo ha fatto outing il segretario Tassos Koronakis: «Il governo deve dimettersi. Andiamo a elezioni in novembre».
L’ASSALTO ALLA BANCA CENTRALE
A tre ore dall’inizio del dibattito, tra i leader del partito volavano gli stracci. zNon appoggerò un memorandum che uccide la Grecia - ha assicurato Panagiotis Lafazanis, leader della minoranza di Piattaforma di sinistra - . Ci sono alternative». Quali? Secondo Kathimerini, le avrebbe squadernate alla vigilia durante un summit segreto della corrente: l’irruzione con la polizia nella zecca di Holargos per mettere la mani sui 22 miliardi di riserve della Banca di Grecia e usarle per pagare stipendi e pensioni. In attesa, ovvio, di tornare alla dracma.
Quando alle 16 è iniziato il gruppo parlamentare, l’atmosfera - malgrado il bacio tra Tsipras e Konstantopoulou e l’applauso scrosciante all’ingresso del premier - era da psicodramma. «Votiamo contro le riforme ma sosteniamo il governo », è stato il mantra contraddittorio dei ribelli. «Chi non sta con noi, vota come Schaeuble», li ha minacciati il primo ministro. Tutti gli hanno assicurato di non voler far cadere l’esecutivo, sciogliendo un po’ la tensione. Ma tutti - con logica un po’ contorta - sono rimasti sulle loro posizioni. Konstantopoulou, dopo il bacio di Giuda, ha cercato in ogni modo di rimandare il voto per superare la mezzanotte, orario da Cenerentola entro cui – come da ultimatum della ex Troika – era necessario dare l’ok al provvedimento.
Il dibattito in aula è stato surreale. Con mezza opposizione ad attaccare la maggioranza e mezza opposizione a difenderla e con tutti a prendere le distanze dalle riforme, salvo poi chiedere di votarle. «Questa decisione mi peserà sul cuore per tutta la vita» ha detto il ministro delle finanze Euclid Tsakalotos. «Non difendo il provvedimento, ma la necessità di approvarlo«, ha detto mesto per Syriza Dimitris Vitsas. Obiettivo: non lasciare impronte digitali sul memorandum lacrime e sangue che sconfessa tutte le promesse elettorali del partito. I leader di Nd e To Potami non hanno parlato per accorciare i tempi e provare a chiudere prima di mezzanotte.
COSA ACCADE ORA
Cosa succederà dopo lo strappo di ieri? Il piano del premier è chiaro: tirare dritto con la maggioranza attuale tra quel che resta del suo partito e Anel cercando di volta in volta in aula i voti (ovviamente della minoranza). Nelle prossime ore sarà comunque necessario un rimpasto del governo per rimpiazzare i ministri dimissionari mentre il Comitato centrale potrebbe chiedere l’espulsione dal Parlamento dei ribelli. L’esecutivo di minoranza avrebbe davanti un mese di navigazione: il tempo di dire sì alle richieste della Troika, ratificare il compromesso, incassare gli aiuti, riaprire le banche e probabilmente- portare il paese a elezioni.
L’alternativa è prendere atto che in aula si è creata una nuova maggioranza, piuttosto robusta, che va dal centrodestra di Nea Demokratia ai socialisti del Pasok fino al centro riformista di To Potami e alle colombe di Syriza. Ue, Bce e Fmi spingono da tempo per arrivare a una soluzione di questo tipo. Alla guida di questo governo non ci sarebbe però Tsipras: «Non sono un uomo per tutte le stagioni – ha ribadito negli ultimi giorni –. Se nell’esecutivo entreranno altri partiti, non sarò io a guidarlo». Il timore, giustificato, è trovarsi a governare la Grecia con gli uomini e i partiti che l’hanno portata nel baratro. L’ultima beffa dopo la giornata amarissima di ieri.
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Il Garantista, 15 luglio 2015
Persino Varoufakis, che finora aveva tenuto un profilo di grande solidarietà verso Tsipras, parte lancia in resta con argomenti non sempre comprensibili. Esisteva o no un piano B, basato su una simulazione di una fuoriuscita della Grecia dall’euro? In una intervista, quella rilasciata qualche giorno fa a newstatesman.com, l’ex ministro delle finanze ha rivelato che le divergenze nel gruppo dirigente di Syriza sono diventate evidenti subito dopo l’esito straordinario del referendum di domenica. In sostanza la contesa era attorno al modo migliore per utilizzate la nuova forza che il 61% dei No aveva conferito alla delegazione greca. Varoufakis chiedeva di reagire in modo aggressivo alla chiusura delle banche, ponendo sotto controllo la banca nazionale greca e agendo sui bond. Tuttavia lo stesso Varoufakis ammette che non era sua intenzione spingere le cose fino in fondo. La maggioranza dei presenti a quella riunione non fu d’accordo, con la motivazione, sostenuta a quanto pare in particolare da Tsipras, che per assumere quelle misure bisognava avere una capacità e una strumentazione di governo che lo stato ellenico non possiede. In sostanza per minacciare la Grexit bisogna avere poi la determinazione di operarla, se gli altri vengono a “vedere”. Altrimenti diventa un’arma spuntata. Del resto, come pure sia Tsipras che Varoufakis, hanno più volte detto, la Grexit era nelle mani dei loro avversari. In particolare dei tedeschi.
Non c’è bisogno di avere notizie di soppiatto della lunga trattativa notturna per saperlo. A fine giugno è comparso un documento ufficiale, detto dei “cinque presidenti”, perché firmato da Tusk, da Dijsselbloem, da Draghi, da Juncker e da Schulz. In quel documento vengono tracciate le linee di sviluppo della Ue per i prossimi anni. Un documento definito irritante persino da Fabrizio Saccomanni, ex ministro della nostra Repubblica e ex direttore di Bankitalia, per i tempi previsti e per i contenuti. Chiunque lo legga si accorge immediatamente che non vi è alcuna volontà di cambiare il ruolino di marcia e la struttura di questa Ue. L’ottica rimarrebbe sempre quella di un’Europa a chiara dominanza tedesca, neppure più carolingia – visto il declino della Francia -, che sconterebbe come effetti collaterali, se non proprio desiderati certamente non ostacolati, la fuoriuscita di alcuni paesi, in primo luogo della Grecia. L’idea, alquanto balzana, saltata fuori nelle ultime fasi della trattativa e in contraddizione con la lettera degli stessi trattati, di una uscita a tempo, per 5 anni, della Grecia dalla Ue trova in realtà in quel documento, in quell’humus politico culturale le sue radici di fondo.
Del resto il mandato che Tsipras aveva, come egli stesso ha sottolineato più volte, confermato dallo stesso Referendum, non era certo quello di uscire dall’Eurozona. In realtà i famosi piani B sono più esercitazioni astratte che non reali alternative, specialmente in questo campo. Conosco diverse ipotesi. Menti eccellenti di economisti si scontrano da tempo se sia possibile e utile o meno uscire dall’euro per un paese come la Grecia, ma anche per l’Italia o altri che si trovano in costante difficoltà. Ma nessuno onestamente può dire cosa succederebbe realmente in quel caso. Nessuno potrebbe essere sicuro che i vantaggi compenserebbero le immediate conseguenze negative. Oltre tutto, un conto è progettare la fuoriuscita dall’euro di un paese solo, un altro e farlo assieme ad un gruppo di paesi tra i quali si sia stabilito in anticipo un sistema di relazioni politiche, economiche e commerciali, tali da reggere l’urto e tutte le possibili mosse speculative. Ma questa condizione non c’era e non c’è. Anzi si dovrebbe riflettere amaramente e seriamente sulla scarsa solidarietà mostrata nei confronti del popoli greco da altri popoli che pure non sguazzano nei privilegi. Il che costituisce un’altra lezione che emerge da questa vicenda.
I tedeschi hanno guidato persino con crudeltà lo schieramento dei 18 paesi contro la Grecia. Ma sarebbe sbagliato prendersela solo con loro. Si è realizzato un intreccio di convenienze, vere o supposte poco importa, che hanno eretto un muro davanti alle proposte, anche le più compromissorie, avanzate dai greci. Le socialdemocrazie, con alla testa la forte Spd, hanno dato un potente contributo e cementificare quel muro. Sigmar Gabriel è riuscito persino a scavalcare a destra la Merkel. Ma non si può tacere dei paesi baltici, e anche di quelli mediterranei che non volevano concedere alla Grecia ciò che a loro non era stato dato, oppure e nello stesso tempo, temevano che la vittoria greca si propalasse anche nei loro paesi nelle imminenti elezioni, come quelle spagnole. Più che un contagio finanziario – inevitabile – di una Grexit, questi paesi temevano un contagio politico che portasse le politiche alternative al neoliberismo sulla plancia di comando. Anche i sindacati europei hanno taciuto, almeno fin quando hanno potuto. Poi, per evitare la vergogna totale, hanno fatto sentire flebilmente la loro voce. A giochi fatti.
La realtà è che le politiche neoliberiste, specialmente nella versione tedesca, sono incompatibili con l’idea di un’Europa unita politicamente su basi federali. La loro affermazione non fa che avvicinare l’implosione dell’Unione europea. Questo non significa che si possa pensare o fare un’Europa senza la Germania, come proponeva a suo tempo George Soros, ma che per fare un’Europa che si avvicini in qualche modo al sogno di Ventotene bisogna sconfiggere le politiche della Merkel. Questo in fondo era il messaggio che Pablo Iglesias di Podemos aveva lanciato in primo luogo ad Alexis Tsipras, durante il dibattito nel Parlamento europeo.
Non c’è dubbio che gli arretramenti e le imposizioni subite dai greci nel testo dell’accordo siano gravi. Nessuno le può sottovalutare. In primo luogo Tsipras che ha già dichiarato che le misure previste potranno avere effetti recessivi. In affetti così inevitabilmente sarà visto gli interventi sulle pensioni, sul mercato del lavoro, sulle privatizzazioni, sulla presenza invadente della Troika nel processo decisionale interno alla Grecia. Si tratta di punti dolenti, che toccano corde sensibilissime sul versante dei diritti sociali e su quello della sovranità nazionale. Gli scioperi già proclamati in queste ore in Grecia lo segnalano con evidenza. Tsipras apre una scommessa: quella di puntare sui finanziamenti previsti per rilanciare l’economia interna. Il che non potrà che avvenire se non su nuove basi e con nuovi obiettivi. L’esito è incerto e dipenderà dal sostegno concreto che riceverà in patria e in Europa.
Tuttavia non si tratta di una scommessa campata per aria. Con l’accordo viene infatti stabilito il ritorno alla liquidità delle banche, anche se i tempi di Draghi non sono della dovuta sollecitudine. L’ammontare del finanziamento che verrà dal Meccanismo europeo di stabilità, che si colloca tra 82 e 86 miliardi di euro, spezza la logica del gocciolamento o di un pacchetto di briciole per volta. Ancora più importante è il riconoscimento della necessità di ridiscutere il debito greco – di cui viene riconosciuta la insostenibilità – seppure non attraverso nuovi tagli, ma con il prolungamento consistente dei tempi di pagamento. Infine l’accordo fa riferimento al finanziamento dell’attività economica per 35 miliardi.
Nell’immediato Tsipras è chiamato a superare una difficoltà non da poco. La sua maggioranza parlamentare non esiste più. La destra di Anel ha detto che non sosterrà il governo, l’opposizione interna a Syriza sembra crescere, anche se non sappiamo se dalle parole si passi poi a voti negativi. Nello stesso tempo la trasformazione del governo di sinistra, con il supporto politicamente non inquinante di Anel, in una sorta di governo di unità nazionale nel quale si stabilizzi la presenza nel governo di quelle forze che sono state le responsabili del disastro economico greco, non solo non sarebbe una proposta allettante, ma sarebbe una rivincita per le elite europee, dopo il fallimento del colpo di stato bianco sventato dal referendum. D’altro canto Tsipras ha buone carte per giocare questa partita politica, non ultima, come del resto gli consiglia Paul Krugman, quella di prendere atto dello sfaldamento della sua maggioranza e andare a nuove elezioni. Le possibilità che le possa rivincere restano alte. In ogni caso sarebbe un atto di coraggio e di trasparenza politica.
Il vero problema però resta. Si chiama Europa. Ha dato il peggio di sé, ha disvelato la pochezza della propria natura e lo squallore delle sue classi dirigenti, problemi che vanno ben al di là di una moneta unica nata prematuramente in un zona monetaria non ottimale. La via fin qui seguita in tanti decenni: la progressiva integrazione economica avrebbe creato le basi per un processo di unità politica si è rovesciata nel suo contrario. La politica è diventata un’arma per impedire la soluzione di un problema economico di modesta entità quale era il debito greco. La domanda allora è: c’è spazio in questa Ue per un governo che pratichi politiche anticicliche di tipo sociale? Dalla grande questione politica dell’Europa bisogna quindi ripartire.
E non è solo la dinamica populista a riprendere forza. Ben più pericoloso è l’impatto dell’“arroganza” tedesca sulle opinioni pubbliche dei vari Paesi. La drammatizzazione messa in scena in queste ultime settimane, quella di un Paese con pensionati disperati di fronte a banche chiuse — e di peggio vedremo in futuro quando la nuova, massiccia, dose di austerità, degna di cerusici impazziti in frenesia da salasso, avrà prodotto il suo effetto — rimette in circolo i peggiori cliché sulle nazioni. Peraltro il meccanismo era già stato attivato: da tempo l’opinione pubblica del Nord Europa, e soprattutto tedesca, veniva nutrita da una visione del lato Sud del continente come una landa di fannulloni, scansafatiche e truffaldini. E non c’è dubbio che Angela Merkel dovrà giustificarsi di fronte a quell’opinione pubblica, inferocita nei confronti dei pigri mediterranei, per l’ennesimo “regalo” fatto loro (quando invece tutti i soldi prestati sono tornati a casa: ma questo, nessuno lo dice, ovviamente). Ma così come i “rigoristi” nordici trattano coloro che non seguono le loro ricette con infastidita sufficienza mista ad irritazione, altrettanto gli euroscettici cementano la loro ostilità all’Unione Europea sulla base di stereotipi nazionali, a incominciare dal tedesco cattivo, rigido e punitivo.
Il disastro di questi giorni sta tutto qui: nel riemergere di visioni dei vari Paesi fondate su pulsioni emotive e irrazionali; di interpretazioni delle dinamiche comunitarie su basi esclusivamente nazionaliste. Certo che l’atteggiamento del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble è stato quasi provocatorio, ma questa sua pur legittima posizione si è tramutata nell’immagine della Germania aggressiva e violenta. Il virus nazionalista viene da lontano ed è molto più potente delle infatuazioni peroniste dei descamisados nostrani o spagnoli. È sui sentimenti di chiusura nazionale e di ostilità all’altro che Marine Le Pen e compagnia lanciano la loro sfida anti- europea. La sconfitta del loro cavaliere solitario ateniese, ancorché politicamente agli antipodi, stimola propositi di rivalsa contro le nazioni potenti e arroganti. Altro che bagno di realtà.
Sono bastati pochi anni e l’Unione Europea ha acquisito centralità nel conflitto politico. Con un paradosso: che nessuno difende convintamente la costruzione europea: quando va bene, la si accetta passivamente, come un dato di fatto. Invece si mobilitano gli oppositori, e mietono successi. Ulteriore paradosso: Syriza e il suo leader non hanno mai detto di voler abbandonare l’euro o la Ue, contrariamente a tanti altri partiti oggi anche al governo in Finlandia e in Danimarca (lasciando poi a latere le ambiguità dei conservatori britannici). Eppure sono stati additati come i nemici dell’Unione. Piuttosto sono stati pasticcioni e ingenui; e infine, con il referendum, autolesionisti. Ma mai anti- europei, semmai favorevoli come tanti ad una Unione diversa. E sono disposti a tutto pur di rimanere nell’euro, cioè a sentirsi europei. I nazional-populisti di estrema destra utilizzano tutt’altre categorie interpretative, imperniate sul recupero di sovranità nazionale — che ha come corollario l’uscita dall’euro — sul rimarcare i confini, sulla esaltazione delle differenze, sulla negazione di finalità e destini comuni e solidali. Le vicende di questi giorni forniscono argomenti ad abundantiam per riattivare nel profondo delle coscienze collettive dei Paesi europei sentimenti ostili degli uni contro gli altri. I populisti di ogni specie, e principalmente quelli di ispirazione nazionalista, che sono di gran lunga la maggioranza, sono i veri beneficiari dell’accordo di domenica scorsa. Possono stigmatizzare la prepotenza dei forti verso i deboli, attuata grazie alle regole comunitarie, e invocare quindi il ripristino di quelle prerogative esclusive sottratte a ciascun popolo dalle euroburocrazie bruxellesi.
Oggi il primo voto sulle riforme draconiane imposte dall’Europa ad Atene. Syriza si frantuma e il governo otterrà il sì all’accordo solo grazie al voto delle opposizioni. Dopo questo verdetto il panorama politico del Paese cambierà per sempre. Il premier: “Non ho interesse ad andare ad elezioni anticipate, ma non guiderò un nuovo esecutivo con altri partiti” “Con la dracma i poveri diventano più poveri e i ricchi più ricchi”.
La Repubblica, 15 luglio 2015
«La Grecia aveva davanti due scelte: l’intesa, o l’addio all’euro. Il compromesso non piace nemmeno a me, ma non fuggo davanti alle responsabilità. L’alternativa era il ritorno alla dracma, guarda caso quello che vuole Schaeuble. E io ho firmato». Alexis Tsipras è sceso in campo ieri sera – alla vigilia del primo delicatissimo voto in Parlamento sulle riforme – a difendere con orgoglio l’accordo con Ue, Bce e Fmi. «Lunedì è stato un brutto giorno per l’Europa – ha ammesso - . I più forti hanno schiacciato i più deboli. Le riforme che ho firmato sono dure, ma migliori dell’ultimatum del 25 luglio. Non taglieremo pensioni e stipendi, rinegozieremo il debito dal 2022 e riceviamo 82 miliardi nei prossimi tre anni. L’unico modo per salvare le banche e i depositi dei greci». La rivolta in Syriza? «Farò di tutto per tenere il partito unito. Ma ognuno deciderà in coscienza se tenere in piedi il governo di sinistra o farlo cadere, come in Europa si augurano in tanti». Alternative all’euro non ce n’erano: «Sono Stato in America, Russia e Cina, ma nessuno m’ha detto torna alla dracma e ti aiuteremo – ha detto - . E tornare alla dracma significa far diventare più poveri i poveri e più ricchi i ricchi ».
La difficilissima strada per tenere Atene nell’Eurozona inizia oggi con l’esame della tenuta della maggioranza. Il governo deve approvare entro stasera un primo pacchetto delle durissime riforme imposte dai creditori: l’aumento dell’Iva (latte, pasta e pane passeranno dal 13 al 23%), la riforma previdenziale con lo stop nel 2022 alla pensione anticipate e l’addio alle agevolazioni fiscali per le isole. I falchi del nord, per evitare equivoci, hanno preteso che l’elenco fosse preciso nei minimi dettagli, compreso l’aumento delle aliquote su preservativi, assorbenti e funerali.
L’ala radicale di Syriza è pronta a dare battaglia e votare “no”, arrivando alla resa dei conti. Il Big Bang del partito non sarà indolore. Tsipras è intenzionato a chiedere le dimissioni di tutti i deputati che si metteranno di traverso: «Non lo posso fare io direttamente, ma ci sono organi in grado di imporlo », ha spiegato sibillino. La pattuglia dei ribelli, secondo le indiscrezioni, sarebbe tra i 30 e i 40 deputati. Il loro portabandiera sarà con ogni probabilità Yanis Varoufakis («bravo economista ma ha fatto anche molti errori», ha ironizzato il premier). Contro si schiererà pure la Piattaforma della sinistra: «Non diventeremo una colonia tedesca» ha detto Panagiotis Lafazanis, leader della corrente e ministro dell’energia. Il viceministro dell’economia Nadia Valavani ha annunciato le dimissioni, in polemica sul maxi- fondo per le privatizzazioni. La scissione di Syriza pare a questo punto quasi inevitabile.
A rischio per Tsipras è pure l’appoggio dei 13 deputati di Anel. La posizione loro leader il ministro della difesa Panos Kammenos – è indecifrabile: «A Bruxelles si è consumato un colpo di Stato» ha accusato senza mezzi termini. Salvo poi ammettere con un triplo carpiato che in aula «appoggerà le misure concordate davanti al Presidente della Repubblica». Quali, non si sa. In soccorso al premier dovrebbe arrivare invece compatta ( salvo i comunisti del Kke e Alba Dorata) tutta l’opposizione. Nea Demokratia, To Potami e il Pasok porteranno in dote 106 seggi su 300. E per far passare questo primo pacchetto di riforme, al governo basterà in- cassare il “sì” di 45 dei 149 deputati di Syriza, anche al netto della defezione di Anel. Obiettivo, in teoria, ampiamente alla portata.
Il via libera però arriverà grazie a una maggioranza “ anomala”, diversa da quella del Governo che ha giurato davanti al Presidente della Repubblica lo scorso febbraio. E Tsipras dovrà a quel punto decidere che fare: andare avanti con un governo di minoranza cercando volta per volta in aula i voti per le riforme per poi andare a elezioni, dare le dimissioni per far decollare un governo di unità nazionale («non sarei premier se nell’esecutivo entrano altri partiti ») o andare a elezioni. «La mia priorità è arrivare all’accordo. Grexit non è ancora scongiurata. Poi, quando l’avremo firmato, vedremo se la maggioranza c’è ancora. Io non ho nessun interesse ad andare a elezioni ».
Il voto di oggi cambierà con ogni probabilità per sempre lo scenario politico interno della Grecia. Il cammino per sbloccare gli aiuti è solo all’inizio. Atene deve votare altre leggi draconiane mercoledì prossimo ( la riforma sulla giustizia civile e altre norme su pensioni e banche). E solo dopo il doppio voto partiranno le trattative per sbloccare gli aiuti. La speranza è quella di convincere intanto la Bce ad aumentare i finanziamenti per riaprire le banche – «ci vorrà tempo, non so dire quando» - e ammorbidire i controlli dei capitali. La via crucis, insomma, è destinata a continuare. Berlino ha messo l’asticella altissima. Apposta, dicono in molti. Se la Grecia non riuscirà a scavalcarla, a innescare il detonatore della Grexit sarà stata lei.
Tra ipotesi di rimpasto e di elezioni anticipate, le strade in salita di Alexis Tsipras.
Una nuova consultazione elettorale a novembre - in concomitanza con quella spagnola - potrebbe dimostrarsi una via d’uscita realistica ed efficace, per rispondere, uniti, a chi continua a difendere e ad imporre solo l’Europa dei mercati». Il manifesto, 15 luglio 2015
Nessun tipo di accordo, suggerito o meglio imposto, può riuscire a far prevalere, in Grecia, un ritorno a soluzioni di tipo tecnico, o peggio ancora, a maggioranze bocciate dagli elettori. È altrettanto chiaro che in questo momento una parta consistente di Syriza non ritiene che le condizioni imposte dai creditori debbano essere considerate compatibili con quanto promesso in campagna elettorale agli elettori, con il programma presentato a Salonicco dieci mesi fa. L’esecutivo guidato da Alexis Tsipras dovrà quindi prendere a breve importanti decisioni: un rimpasto è ritenuto più che probabile ed il portavoce di Syriza in parlamento, Nikos Filis, ha già chiesto le dimissioni dei deputati che hanno espresso la loro contrarietà, nella votazione di venerdì scorso, sul pacchetto di proposte con cui la Grecia si è presentata a Bruxelles.
Il governo di sinistra greco si trovava già sotto pressione. Aveva constatato l’assoluta irremovibilità di Berlino e dei suoi «paesi satelliti» e ha principalmente mirato ad evitare la trappola del Grexit tesa da tempo e resa evidentissima da Schauble domenica a Bruxelles. Nessuno può prevedere con certezza che strada deciderà di seguire il quarantunenne leader geco.
Chi conosce Alexis Tsipras, tuttavia, può presupporre che non si lascerà logorare, come desidererebbero, invece, i suoi avversari politici, esterni ed interni. «Prometto che lotteremo contro i poteri costituiti e gli oligarchi, che ci sarà un equa distribuzione dei sacrifici», ha dichiarato subito dopo la riunione fiume del Consiglio Europeo. Le strade realisticamente percorribili, almeno al momento, sono due: la prima, è provare a ricompattare la maggioranza, chiedendo ai parlamentari che, pur ragionevolmente hanno espresso il loro dissenso, di rispettare il codice etico del partito e quindi di dimettersi. In questo caso il governo dovrebbe valutare le reali possibilità — per quanto limitate — di mettere in atto, in tempi relativamente brevi, alcune misure a sostegno dell’economia. Capire quanti degli ottanta e passa miliardi promessi dall’Europa potranno arrivare realmente ai cittadini greci, per controbilanciare la recessione che andranno a creare gli aumenti dell’Iva, del contributo sanitario sulle pensioni e una serie di privatizzazioni che potrebbe creare ulteriore disoccupazione. Se Tsipras, tuttavia, nei prossimi giorni dovesse constatare che la prosecuzione di una efficace e coerente azione di governo è pressoché impossibile, la via obbligata sarebbe quella del ricorso ad elezioni anticipate.
Il ministro del lavoro Panos Skourletis ha già fatto riferimenti alla possibilità che si vada alle urne entro l’anno. E a quel punto, malgrado le pressioni, la situazione di forte mancanza di liquidità in cui è stata spinta la Grecia e la logica del «pensiero unico» come risposta alla crisi, Syriza si riconfermerebbe primo partito del paese. Tutti sanno, infatti, che il centrodestra è privo di un leader (Samaràs, tra l’altro si è appena dimesso) che il Pasok è al suo minimo storico — intorno al 3,5% — e che il nuovo partito centrista To Potami (il Fiume), oltre a non superare il 6% nelle intenzioni di voto, è ritenuto molto vicino ai gruppi imprenditoriali greci che hanno ostacolato in ogni modo l’ascesa di Syriza. Alexis Tsipras è riuscito a comprendere la profonda richiesta di cambiamento che proveniva dalla società greca, ed ha cercato, in ogni modo, di ridare dignità alla politica. Germania, Olanda, Finlandia, repubbliche Baltiche hanno imposto misure e sacrifici mai richiesti a nessun altro paese. Malgrado ciò la Coalizione della Sinistra Radicale ellenica rimane l’unica forza politica in grado di fornire una risposta convincente a chi chiede che la Grecia non diventi il paese del lavorio senza diritti e della produzione sottopagata a vantaggio del Nord Europa. La patria, cioè, del neoliberismo selvaggio. Una nuova consultazione elettorale a novembre — in concomitanza con quella spagnola — potrebbe dimostrarsi una via d’uscita realistica ed efficace, per rispondere, uniti, a chi continua a difendere e ad imporre solo l’Europa dei mercati.
Difficile pensare che esistesse una terza possibilità. Difficile pensare che Tsipras avesse potuto ottenere di più se l'obiettivo dei falchi era quello di cacciare Tsipras e la Grecia, e quello dei socialdemocratici di impedire l'infezione Tsipras nelle loro terre. Dalla lista di discussione di "L'altra Europa con Tsipras", 14 luglio 2015
E come era prevedibile fin dall’inizio il governo Tsipras ha scelto la via del negoziato con le Istituzioni. Qui un primo dato da analizzare. Per mesi abbiamo assistito ad una disinformazione di massa che ha dipinto il leader ellenico come un “nazionalista”, un “populista” e soprattutto un euroscettico.
Il referendum era sull’accettare o meno le politiche di austerity e in tale scenario Tsipras è sempre stato chiaro: vogliamo far cambiare rotta a Bruxelles, costruire un’altra Europa, senza abbandonare moneta unica ed eurozona. Una prospettiva fortemente europeista che i media nostrani hanno “coperto” facendo improbi parallelismi tra il premier greco e il blocco xenofono capeggiato da Marine Le Pen e Matteo Salvini.
La Grexit era un’opzione da scongiurare, almeno per il governo Tsipras che in questi 5 mesi di dura trattativa con le Istituzioni ha cercato di trovare una mediazione senza che venisse calpestata la dignità del popolo greco. Il referendum del 5 luglio è diventato così una lezione di democrazia e di sovranità popolare contro quel che il sociologo Luciano Gallino ha definito il “colpo di Stato della Troika”. Tentativo sventato.
Dopo quel 5 luglio, l’Eurogruppo ha strangolato la Grecia negando il prestito ponte di 7 miliardi di euro, il che si è tradotto in fine della liquidità per Atene. Da lunedì il rischio di bancarotta. Scenari inquietanti e, appunto, di rottura con l’Unione Europea. Per andare dove? Sotto l’egemonia dei capitali russi e cinesi? Senza dimenticare un altro particolare: la Grecia è un Paese Nato. Persino Costas Lapavitsas, economista greco di riferimento per molti No Euro, ha dichiarato: “Ora non possiamo gestire una Grexit”.
L’opzione non è mai stata presa seriamente in considerazione da Tsipras che, alla fine, ha ingoiato la cicuta presentando un piano di 12 miliardi di euro che accontenta alcune importanti richieste dell’Unione Europea.: “Non sto svendendo il Paese. Sono misure dolorose e lontane dalle promesse della campagna elettorale, ma è il meglio che si potesse fare”, le sue parole in Parlamento. Per qualcuno è la capitolazione totale, per altri il piano sarebbe identico all’ultimatum proposto il 26 giugno dalle Istituzioni, quello che avrebbe portato come reazione al referendum del 5 luglio. Quindi Tsipras avrebbe tradito quell’OXI.
Nel dettaglio, i bocconi amari da ingoiare per il governo ellenico sono la riforma pensionistica (si andrà in pensione a 67 anni dal 2022), lo sconto del 30 per cento sulle aliquote IVA sulle isole e, soprattutto, le insopportabili privatizzazioni di porti e aeroporti regionali. Grandi concessioni e cedimenti. Dall’altro non ci sono tagli orizzontali sui salari, si mantiene IVA bassa sui generi di prima necessità e sulla cultura, diminuiscono le spese militari e non si concedono competenze alla Troika sui licenziamenti e sulla contrattazione collettiva del lavoro.
Ma per capire, fino in fondo, la mediazione di Tsipras dobbiamo soffermarci su un aspetto: Syriza ha sempre considerato la ristrutturazione del debito come cardine. La rivendicazione principale. E da questo punto di vista si ottiene un piccolo successo, soprattutto simbolico. Come scrive il collega Alessandro Gilioli sull’Espresso.it: “Le precedenti condizioni dei creditori erano legate all'erogazione dell'ultima tranche di aiuti del secondo memorandum, quindi poco più di 7 miliardi, mentre queste proposte sono la contropartita per un piano di tre anni (fino a metà del 2018) e valgono un prestito di 53,5 miliardi. È una differenza notevole e somiglia a ciò che ripeteva Tsipras: basta con questo stillicidio ogni tre mesi di scadenze e prestiti (quindi ricatti), dateci tempo”. Uno spiraglio. E un precedente. Nessuno finora era riuscito minimamente a rinegoziare il debito. Inoltre Tsipras ha avuto il merito di aver rilanciato il primato della politica sul dominio della finanza.
In Italia? Tra isterismi e disinformazione, un minuto prima, manco dopo, l’accordo si scatenano i commenti. Una maggioranza anti-Tsipras. Un fronte unico, dalla destra liberista ai renziani e alla sinistra-sinistra: ha ceduto alla Troika.
Intanto ci voleva l’arrivo al potere di questo greco per far discutere finalmente il Parlamento di Strasburgo di effetti dell'austerity, ristrutturazione del debito, conferenza di Londra del 1953 e rapporto Paesi creditori-debitori. Si è parlato, tardivamente, del destino dell'Europa, di diritti e sovranità popolare. Di democrazia. Già dimenticato? Questo Paese di 9 milioni di abitanti, isolato all’interno dell’Eurogruppo, sta aprendo una breccia. Da solo era ovvio non potesse vincere le Istituzioni e riformare l’Europa. Davide ha resistito fin troppo contro Golia. Ha preso tempo. Ai movimenti sociali e magari a Podemos (in Spagna si voterà a novembre), Sinn Fein etc continuare il lavoro iniziato dai greci.
Per il resto, sembra che i mal di pancia all’interno della minoranza di Syriza stiano rientrando e i parlamentari voteranno il piano di Tsipras, a malincuore. Sapendo delle concessioni alla Troika. Ma passare all’opposizione del primo governo di sinistra (radicale) in Europa, e in Grecia, al primo ostacolo, è stato ritenuto inopportuno. “Mi trovo di fronte a una scelta difficile: far cadere questo governo o accettare proposte che sono simili a quelle dei vecchi memorandum?” si domandava Vassilis Primikiris, uno dei leader della minoranza interna. Hanno preferito, a parte qualche eccezione, la prima opzione. Di certo, la partita non è chiusa. A Tsipras il compito di riconvincere il popolo dell’OXI, in piazza Syntagma a protestare per il piano, e gli scettici.
(11 luglio 2015)
«Se Tsipras rifiuta di piegarsi al ricatto la Grecia esce dall'euro e collassa; se accetta il progetto di Europa politica va letteralmente in frantumi». Queste le alternative tra cui ha dovuto scegliere. Dalla lista di discussione di "L'altra Europa con Tsipras", 14 luglio 2015
La situazione è fluida, in continua evoluzione. Domenica, di fronte all'irrigidimento dei falchi di Berlino, si apriva uno scenario assurdo e tragico. Ieri un'altra svolta, con un accordo ancora incerto, e dalle conseguenze pesantissime.
Pare evidente che l'obiettivo di alcuni Stati europei, con la Germania in testa, sia quello di far fuori il governo di Syriza, imponendogli condizioni di fatto inaccettabili. Così se Tsipras rifiuta di piegarsi al ricatto (come sembrava sino a domenica, appunto), la Grecia esce dall'euro e collassa; se accetta, salta la sua maggioranza e si torna a improbabili governi di unità nazionale, privi di mandato popolare e telecomandati dai tecnocrati di Bruxelles e dal governo tedesco. E il progetto di Europa politica va letteralmente in frantumi.
Poco o nulla sembra contare l'esito del recente referendum, che ha dato un segnale forte di sostegno alla politica di Syriza. Nulla anche la convergenza di quasi tutto il parlamento ellenico su un piano doloroso e ragionevole di riforme, che potessero rispondere - in modo dignitoso e accettabile - alle richieste della Troika. Nulla, infine, o comunque molto poco, le pressioni internazionali, le spinte di Washington per un compromesso plausibile, le linee politiche moderatamente divergenti rispetto alla rigidità tedesca di Francia e Italia (ancora una volta, ahimè, del tutto marginale).
Si è deciso di dare una lezione a Syriza e ai Greci, in modo che anche gli Spagnoli non si facciano illusioni, e palesando una volta di più che nessuno può mettere in discussione i dogmi dell'iperliberismo globale, dell'austerità che soffoca l'economia reale e della tecnocrazia che procede con il pilota automatico, e che ormai può fare tranquillamente a meno della democrazia. Parola antica, che proprio in Grecia nacque millenni fa, ma che per questi banditi in doppiopetto che reggono sciaguratamente le sorti dell'Europa ha ormai fatto il suo tempo. Il popolo non è più sovrano, non può scegliere il suo destino dentro un progetto ampio e solidale. Può solo decidere, eventualmente, di morire di stenti con gran dignità.
Il documento proposto dall'Eurogruppo è tremendo, pesantemente peggiorativo della proposta di compromesso di Syriza, con l'imposizione della revoca di tutte le misure "sociali" finora varate dal governo, l'istituzione di un fondo di garanzia da 50 miliardi di euro nel quale i Greci dovrebbero "conferire" i loro beni pubblici e culturali, e poi privatizzazioni, tagli, tasse e il ritorno ai licenziamenti collettivi, al memorandum e alla Troika ad Atene, con un governo di fatto commissariato.
Tutto e subito. In un Paese ormai in ginocchio, che dal 2009 (quando è iniziata la tutela tecnocratica) ha visto i salari ridotti del 37%, le pensioni fino al 48%, gli impiegati statali del 30% (300 mila licenziati su 900 mila!), i consumi del 33%, il reddito complessivo del 25% circa; la disoccupazione aumentare al 27% e il debito pubblico al 182% del PIL. Dati che ormai conosciamo a memoria. E soprattutto, il 90% dei fondi e dei prestiti in arrivo dall'Unione Europea finiti a ripagare interessi sul debito e a sostenere le banche private. Solo un 10% scarso ha dato beneficio ai cittadini ellenici. La fotografia di un disastro. Che sia imbecillità, inettitudine, ferocia o sadismo, di sicuro è un fallimento colossale del dogmatismo liberista che parla di austerità, ma in realtà atrofizza l'economia, desertifica la società e impoverisce il popolo, tutelando soltanto una ristrettissima fascia di privilegio e non ponendo alcun argine al capitalismo finanziario.
Stupisce questo comportamento così ottuso da parte del governo della Germania. Davvero la Storia non insegna nulla? Possibile che non si riesca a evitare di finire nel baratro? Sempre più persone pensano che se questa è l'Europa, è meglio rinunciarvi. I rischi sono enormi. Non comprenderlo è stupido e criminale.
Detto questo, un pensiero anche a chi biasima Tsipras per essersi arreso al ricatto, a chi vuole insegnare ai Greci da (molto) lontano cosa fare e come agire, a chi vuol fare la rivoluzione con la vita e la disperazione degli altri (come un Di Maio qualsiasi, turista per caso ad Atene). Avranno mai riflettuto, costoro, su cosa significhi avere la responsabilità di governare un Paese? Avranno tutti gli elementi per dire che il governo greco poteva agire diversamente? Hanno valutato attentamente cosa significhi avere le banche chiuse, l'economia al collasso e lo Stato in default? Hanno contezza di quanto fossero "concrete" le alternative vagheggiatedi un sostegno di Putin, della Cina o magari pure dei Marziani?
La questione è semplice: Syriza non può reggere da sola l'assalto del fondamentalismo liberista. La battaglia contro l'Europa dei tecnocrati non può essere delegata soltanto ai Greci. Deve vederci tutti impegnati. Ovunque. Occorrono organizzazione, mobilitazione, forza e la capacità di far comprendere che un'Altra Europa è non solo possibile, ma anche, e sempre più, necessaria! Se si vuole cambiare questa Unione, dare una possibilità alla speranza, alla giustizia e alla solidarietà, il tempo è ora.
Come si diceva in un'epoca migliore, al lavoro e alla lotta!
«Che questa economia uccide l’ho detto nella esortazione apostolica Evangelii gaudium e nell’enciclica Laudato si’. Ho sentito le critiche arrivate dagli Stati Uniti: ogni critica deve essere recepita e studiata e poi bisogna fare un dialogo. Adesso andrò negli Usa, devo studiare». La Repubblica, 14 luglio 2015 (m.p.r.)
A bordo del volo Asuncion-Roma. La situazione della Grecia, la valorizzazione della classe media, la nuova Chiesa di Francesco a cui piacciono i movimenti popolari ma non per questo opta per la strada dell’anarchia. Sono i temi principali di cui ha parlato il Papa sul volo di ritorno dalla sua visita di 8 giorni in America Latina. Oltre a spiegare i venti di pace fra Cuba e Usa (suo prossimo viaggio) il Pontefice ha anche parlato del regalo del presidente boliviano Evo Morales, la scultura di un Cristo sopra unafalce e martello. In piedi, per oltre un’ora Jorge Mario Bergoglio ha risposto al fuoco di fila di domande dei giornalisti che lo hanno seguito in Ecuador, Bolivia e Paraguay.