«Dopo l'austerity le riforme strutturali . L’"austerità espansiv" elaborata da Alesina e sposata dalle istituzioni europee è fallita. Ma ora, senza autocritica, gli stessi economisti che ci hanno portato al disastro preparano un’altrettanto tragica "fase due"».
Il manifesto, 4 settembre 2014
Una decina di giorni fa, Giavazzi e Tabellini, sodali di Alesina nel sostegno alla linea dell’«austerità espansiva», hanno pubblicato su Vox, la rivista on line di un importante centro di ricerche economiche inglesi, un pezzo in cui si legge che «la principale sfida che l’Eurozona oggi ha di fronte è la carenza di domanda aggregata». Per due economisti, che avevano in modo inossidabile difeso le misure di austerità, è un cambiamento non da poco. La novità è l’accento su problemi di domanda. Anche se esplicitamente non lo ammettono, è ovvio che il punto di partenza è il riconoscimento del fallimento del presunto ruolo espansivo delle misure di austerità, contrariamente a come era stato orgogliosamente annunciato.
È su come uscirne che tornano a dividersi. Possiamo disegnare una mappa delle posizioni. A un estremo stanno Giavazzi e Tabellini con una proposta liberista radicale di sgravi fiscali e di deficit. Al centro Draghi, che rifiuta i deficit e propone come misura principale lo stimolo monetario. E all’altro estremo Schäuble con Weidman; contrari sia ai deficit che alle misure monetarie.
Vediamo le ricette. Giavazzi e Alesina avevano cominciato tempo fa sul Corriere della Sera proponendo un taglio del cuneo fiscale di quaranta miliardi (Renzi ne ha tagliati otto). Su Vox, Giavazzi e Tabellini sono arrivati a ottanta miliardi di sgravi fiscali (6% del Pil), da recuperare con tagli di spese in tre-quattro anni, sforando quindi il parametro del deficit in misura consistente. Una rivoluzione (altro che i quattro miliardi di nuove risorse previste dallo Sblocca-Italia: lo 0,25% del Pil). Sul Corriere pochi giorni fa non hanno fatto cifre; ma questa è la loro proposta.
Le conseguenze sono ovvie. L’aspetto paradossale della situazione è che la misura che ha maggiori probabilità di innescare quantomeno spunti di ripresa, rispetto alle altre, è quella di Giavazzi e Tabellini, che è anche quella con il più duro segno di classe. Politica che inizia con sgravi per metter potere d’acquisto soprattutto nelle mani di ceti abbienti e continuerebbe, nei tre-quattro anni successivi, o più, per recuperare tutto lo sgravio a spese dei ceti medio-bassi: i tagli di spesa per l’appunto, con l’esito di un’esplosione della disuguaglianza.
La ricetta è completata dalle «riforme strutturali» del mercato del lavoro, che dovrebbero evidentemente garantire che l’aumento di domanda, gestito dai redditi medio-alti, che eventualmente seguisse non intaccasse la Grande Moderazione salariale attraverso una riduzione della precarietà del lavoro; che va invece garantita, anzi approfondita.
Su questo punto non c’è differenza con Draghi, che nel discorso di Jackson Hole ribadisce la sua nota insistenza sulle «riforme di struttura», cioè l’aumento della flessibilità del lavoro, in tutti i sensi, come chiave della ripresa. Riportando l’esempio di Grecia e Spagna, come i paesi che, grazie a queste «riforme», si sarebbero lasciati dietro la recessione, il che com’è noto è semplicemente un’interpretazione pretestuosa dei fatti.
Peraltro, è fin dal gennaio 2012 nell’intervista al Wall Street Journal che Draghi si è fatto paladino di una linea di compressione sociale, nei due lati di riduzione della copertura del welfare e delle difese contrattuali dei lavoratori. Quest’ultimo motivo, costante e ripetuto, sembra assumere oggi un nuovo significato: cioè la riduzione drastica delle difese contrattuali pare essere diventata la condizione ‘politica’ dell’abbandono delle politiche di austerità.
A Jackson Hole Draghi ha aperto uno spiraglio agli sgravi fiscali, per quanto molto più moderato di Giavazzi e Tabellini, ma che comunque gli ha guadagnato i rabbuffi della Merkel. Gli sgravi fiscali, pure utili, devono essere compensati da tagli di spese. Niente sforamento del deficit. Per Draghi, invece, lo stimolo espansivo deve venire dall’annunciata politica monetaria. Di cui ha già messo in opera una prima tranche, ma con scarsi risultati. E con il rischio che una fase molto più decisa possa innescare una bolla edilizia molto più che una ripresa industriale.
Anche Schäuble e Weidman ovviamente partono da una carenza di domanda. Ma si preoccupano che vengano rispettati alcuni tabù. Che non si restituiscano spazi di autonomia alle politiche fiscali dei paesi in deficit, allentando la pressione sui loro bilanci. Che le misure di rilancio non siano monetarie; cioè che la plancia di comando non sia a Francoforte, ma a Berlino. Da cui l’idea che l’unico stimolo all’economia europea debba venire dalla crescita della domanda interna tedesca, via aumento dei salari dei lavoratori tedeschi. Naturalmente per gli altri paesi vale sempre la linea della «svalutazione interna», via «riforme strutturali». Ribadendo la linea della subordinazione gerarchica degli altri paesi al neo-mercantilismo tedesco; linea di «imperialismo intra-europeo», mai seriamente contrastata dall’Spd.
Non è da escludere che, fallendo altre misure, passi alla fine quella di Giavazzi e Tabellini. Ma una cosa, dal fatale 2010, rimane immutata: che l’uscita da questa crisi debba avvenire in direzione opposta a quella presa dall’uscita rooseveltiana dalla crisi del 1929: maggiore difesa dei lavoratori (i sindacati si svilupparono impetuosamente dopo il Wagner Act del 1935) e sostegno alla domanda sia con programmi mirati che, in generale, con l’aumento della spesa pubblica e del deficit come strumento redistributivo verso i redditi medio-bassi. Ma che, invece, giocando sull’indebolimento sia dei gruppi sociali che delle loro organizzazioni dovuto alla crisi, giunga alla massima revoca possibile delle concessioni, strappate in quella congiuntura, compatibile con il mantenimento di un quadro democratico (ma non vale per tutti; vedi Marchionne, o JpMorgan).
La morale è che i liberisti sono temibili quando sostengono l’austerità, ma lo sono ancora di più quando propongono il rilancio.
«Una nube tossica ha avvolto l'Italia, togliendo lucidità ad ampi strati della società. Servono con urgenza riforme: un elenco dei dieci interventi per il Paese e i suoi cittadini nel commento di Roberto Mancini. Dai diritti ai lavoratori al credito alle imprese, a interventi sulle politiche sociali; dal tema del conflitto di interessi, all'indipendenza della magistratura».
Altraeconomia.it, 4 settembre 2014 (m.p.r.)
Gli anni della menzogna. I vent’anni da Berlusconi a Renzi. In tale periodo l’Italia è stata avvolta in un’oscura nube tossica che ha tolto lucidità ad ampi strati della società. In questa situazione può essere utile un promemoria sulle riforme vere che sarebbero urgenti. Ricordando, intanto, che le cosiddette “riforme” del governo Renzi si inseriscono nel quadro del doppio errore mortale dell’Unione europea, risalente alla fine degli anni 70. L’errore sta nell’aver risposto alla globalizzazione in modo nevrotico e stolto: da una parte rilanciando i nazionalismi dei Paesi più forti e dall’altra identificandosi con la volontà dei Mercati. Il contrario esatto di quello che serviva. L’intreccio di nazionalismi e neoliberismo è stato ed è micidiale. In tale scenario i governi e i partiti italiani non potevano che fare del loro peggio.
Le perle di Renzi sono, nell’ordine: una riforma costituzionale che stravolge in senso oligarchico la funzione del Senato e quella delle Province con il pretesto di un finto risparmio e soprattutto di una maggiore “governabilità”; una legge elettorale che riduce ulteriormente la possibilità che la volontà dei cittadini abbia rappresentanza reale; una riforma del mercato del lavoro che coltiva la precarizzazione sopprimendo tutele e diritti; una riforma della pubblica amministrazione tutta incentrata sulla mobilità dei dipendenti e sul maggiore ricorso alle procedure on line; una riforma della scuola che si risolverà nell’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti; una riforma fiscale che si traduce nell’invio del modello 730 precompilato a casa. Le riforme autentiche sono ben diverse.
Qui mi limito a elencare le dieci principali:
1) un piano globale per l’economia nazionale che garantisca i diritti ai lavoratori, riapra il credito alle imprese e promuova la rilocalizzazione favorendo le attività tipiche dei nostri territori (dalla cultura al turismo, dal tessile all’alimentare e così via). Il governo dovrebbe sostenere le imprese disposte a praticare un’economia sana attraverso le leve della defiscalizzazione, del credito agevolato, degli appalti pubblici e della collaborazione delle università nel campo della ricerca scientifica necessaria a un’economia avanzata. A ciò si aggiungerà la riforma fiscale in senso proporzionale e patrimoniale. La direzione di fondo della riforma dell’economia nazionale dovrà delinearsi nel passaggio dalla logica della crescita alla logica dell’armonizzazione, dall’economia dello sviluppo all’economia della cura;
2) una riforma della politica sociale e dei diritti che porti a misure strutturali tanto per sostenere i singoli e le famiglie colpiti dalla diffusione dolosa della povertà a causa della conduzione liberista dell’economia, quanto per dare una risposta di dignità alla condizione dei migranti, dei profughi, dei detenuti e di quanti sono marginalizzati o respinti;
3) una riforma che tuteli l’indipendenza della magistratura e dia impulso sistematico alla lotta contro le mafie;
4) una riforma che affronti il conflitto di interessi e ridisegni la normativa che regola la proprietà dei media; 5) una riforma che tuteli radicalmente i diritti delle donne e assicuri i diritti civili di chiunque, senza discriminazioni dovute alle preferenze sessuali;
6) una riforma della sanità pubblica che risponda alle esigenze dei territori e ne elevi la qualità da Nord a Sud;
7) una riforma della scuola e dell’università che dia impulso alle dinamiche interculturali e interdisciplinari e che consideri gli studenti protagonisti, assicurando nel contempo ai docenti le migliori condizioni per unire didattica e ricerca (provvedendo al tempo stesso alla manutenzione sistematica degli edifici);
8) una riforma che porti alla gestione sapiente dell’assetto idrogeologico del Paese e che tuteli l’ambiente;
9) un nuovo orientamento della politica estera che -in modo diretto e in modo indiretto, cioè a livello dell’Unione europea- costruisca un quadro di relazioni solidali, di cooperazione e di disarmo dal Mediterraneo a ogni area del mondo;
10) una riforma che fissi le regole vincolanti per la democrazia interna nei partiti o nei movimenti politici e cancelli privilegi e immunità per chi ha cariche pubbliche, introducendo sia limiti temporali di esercizio che percorsi di formazione.
Prima di trovare un governo pronto a fare queste riforme si dovranno trovare molti, nelle istituzioni e nella società, che siano disposti non a “metterci la faccia”, ma a metterci la testa. A metterla fuori dalla nube tossica che spegne l’intelligenza politica.
Analisi che compone in un quadro le minacce alla sopravvivenza della civiltà umana, e una proposta politica convincente: manifesto per chi voglia concorrere alla costruzione di un futuro migliore. Il manifesto, 3 settembre 2014 (testo integrale)
Viviamo ormai da tempo in stato di guerra: l’Italia – ma non è certo un’eccezione – è già impegnata con diverse modalità, tutte contrabbandate come “missioni di pace”, su una decina di fronti. Ma questi interventi, che non sono mai guerre dichiarate, alimentano un meccanismo irreversibile: si armano o sostengono Stati o fazioni per combatterne altri o altre, che poi si rivoltano contro chi le ha armate in un alternarsi continuo dei fronti che non fa che allargarli. Dal conflitto israelo-palestinese alla guerra tra Iraq e Iran, dalla Somalia all’ex Jugoslavia, dalle due guerre contro l’Iraq all’Afghanistan, e poi all’Algeria, alla Libia, alla Siria e di nuovo all’Iraq, e poi in Ucraina, l’establishment dell’Occidente ha ormai perso il controllo delle forze che ha scatenato. E’ difficile riconoscere coerenza a scelte (ciascuna delle quali ha o ha avuto una sua “logica”) che messe in fila testimoniano la mancanza di una visione strategica. Il soffocamento o la degenerazione di molti processi nati da rivolte popolari contro miseria e dittature sono il risultato di una mancanza di alternative alla diffusione del caos che la “democrazia occidentale” - ormai identificata con il dominio feroce dei “mercati”, cioè con una competitività universale - non è più in grado di prospettare e che le forze antagoniste a questo sistema non sono ancora capaci di proporre.
Entrambi quei trend sono destinati a produrre un crescendo continuo di profughi, sia ambientali che in fuga da guerre e miseria, destinati a sconvolgere la geopolitica planetaria. Già ora, e da anni, paesi come Pakistan, Siria, Giordania, Libano, Iraq, Turchia, Tunisia, sono costretti a ospitare milioni di profughi, molti dei quali si riversano poi - e si riverseranno sempre più, a milioni e non a decine di migliaia - in Europa. Pensare di affrontare questi flussi con politiche di respingimento è non solo criminale, ma del tutto irrealistico. Ma avere milioni di nuovi arrivati da “ospitare”, con cui convivere per molto tempo o per sempre, a cui trovare un’occupazione, evitando di innescare in tutto il paese focolai di infezione razzista (e di reclutamento per milizie del terrore) rende addirittura risibili le politiche economiche e sociali di cui dibattono i nostri governi, tutte calibrate sui decimi di punto di PIL. E’ un dato che dovrebbe in realtà ridefinire in tutta Europa le politiche relative a scuola, sanità, abitazione, lavoro e cultura: i temi su cui noi stiamo riflettendo, mobilitandoci o cercando di lottare.
Molti di quei focolai accesi dalle strategie, o dalla mancanza di strategia, dell’Occidente nel corso degli ultimi decenni (Ucraina, Medio Oriente e Maghreb), poi trasformatisi in incendi, rischiano anche di interrompere l’approvvigionamento energetico dell’economia europea. Le conseguenze potrebbero essere deflagranti sia per la produzione che per le condizioni di vita e la mobilità. Ma anche in questo caso la governance europea non va più in là del giorno per giorno.
Di fronte a scenari come questi si evidenzia tutta la miopia delle politiche dell’Unione messe in atto con l’austerity, il fiscal compact, gli accordi come TTIP e TISA, l’eterna melina sul coordinamento delle politiche degli Stati membri. Qui tuttavia una strategia chiaramente perseguita c’è: mettere la finanza pubblica con le spalle al muro: non per “liberalizzare”, ma per privatizzare tutto l’esistente: imprese e servizi pubblici, beni comuni, territorio, ma anche esistenze individuali e percorsi di vita; mettere con le spalle al muro il lavoro, per privarlo di tutti i diritti acquisiti in due secoli di lotta di classe; instaurare il dominio di una competitività universale: non, ovviamente, tra pari, ma dove i più forti siano liberi di schiacciare i più deboli. Tuttavia anche in questo caso gli effetti vanno al di là del previsto: sono le stesse “teste pensanti” dell’establishment ad ammettere, anno dopo anno, che i risultati non sono quelli che si attendevano. Soprattutto ora che vengono al pettine contemporaneamente molti di quei nodi: deflazione, deindustrializzazione, disoccupazione, dipendenza energetica, guerre senza sbocco, disastri climatici, profughi. Ma non hanno vere alternative; e mettere toppe da una parte - cosa in cui Mario Draghi è maestro – non fa che aprire falle da un’altra.
Dunque un “piano B” non esiste. Dobbiamo lavorarci noi e questo deve essere l’orizzonte politico, e prima ancora culturale, di qualsiasi iniziativa, anche la più minuta, di cui ci occupiamo. Non lasciamoci scoraggiare dalla sproporzione delle forze e delle risorse: in sintonia con noi ci sono altre migliaia di organizzazioni sparse per il mondo (e forse un passo importante per cominciare a coordinarci a livello europeo è stato fatto con la lista L’altra Europa; e non è né il primo né l’unico); e poi, ci sono milioni o miliardi di esseri umani che hanno bisogno di trovare in nuove pratiche e nuove elaborazioni un punto di riferimento per sottrarsi a quel “caos prossimo venturo” di cui già sono vittime. La radicalità di un movimento, di un programma, di un’organizzazione, cioè la loro capacità di misurarsi con lo stato di cose in essere, si misura su questo sfondo: si tratta di sviluppare a trecentosessanta gradi il conflitto con il pensiero unico e con la cultura e la pratica della competitività universale e le sue molteplici applicazioni, per promuovere al loro posto le condizioni di una convivenza pacifica, egualitaria, democratica e solidale tra gli umani e con la natura.
E’ stata la globalizzazione a spalancare le porte alla competitività universale. Noi dobbiamo pensare e praticare nell’agire quotidiano alternative che valorizzino i benefici dell’unificazione del pianeta in un’unica rete di rapporti di interdipendenza e di connettività, ma in condizioni che non facciano più dipendere la sopravvivenza di alcuni dalla morte di altri, il reddito di alcuni dalla miseria altrui, il successo di un’azienda dalla rovina dei concorrenti, il mantenimento o la “conquista” di un lavoro dall’espulsione di chi ne resta escluso, la “ricchezza delle nazioni” (il PIL!) dalla miseria delle rispettive popolazioni.
Queste alternative riconducono tutte alla riterritorializzazione dei processi economici: non al protezionismo, che non è più praticabile senza subire ritorsioni devastanti; non al confino in ambiti economici chiusi con il ritorno a valute nazionali in competizione tra loro; non alla ferocia di identità etniche e culturali fittizie che ci mettono in guerra con chiunque non le condivida; bensì alla promozione ovunque possibile – e certamente non in tutti i campi e per tutti i bisogni - di rapporti quanto più stretti, diretti e programmati tra produttori e consumatori di uno stesso territorio, ridimensionando a misura dei territori di riferimento, ovunque possibile, impianti, aziende, reti commerciali e il loro governo. La trasferibilità del know-how a livello planetario ormai lo consente per molti processi, a partire dalla generazione energetica; il recupero dei materiali di scarto ci può rendere più indipendenti dall’approvvigionamento di materie prime; i servizi pubblici locali riportati alla loro missione originaria possono connettere un governo democratico e partecipato della domanda (di energia, alimenti, trasporto, di gestione del territorio, di cura delle persone, di promozione della cultura, dell’istruzione, dell’integrazione sociale) con misure di sostegno all’occupazione, di conversione ecologica delle attività produttive, di risanamento del territorio e del costruito. Si può così costruire, dentro il villaggio globale creato dalla circolazione dell’informazione e dall’interconnessione delle esistenze di tutti, le basi materiali di una vita di comunità ricca di relazioni. Una strada che è la base irrinunciabile di un progetto politico alternativo per Europa e per il mondo intero; che va imboccata e seguita in ogni situazione in forme differenti e specifiche; ma tutte insieme possono fornire dei modelli a chi decide di imboccarla.
«Il recupero di un potere contrattuale nel settore pubblico può realizzarsi solo ricostruendo un nesso forte tra ruolo del lavoro, ruolo dell’intervento pubblico e rapporto con la cittadinanza».
Il manifesto, 3 settembre 2014
Oltre a annunci generici, frutto più di un’ansia di dimostrare che «le riforme strutturali stanno partendo» piuttosto che di una reale volontà di intervenire sui nodi di fondo che impediscono alla Pubblica Amministrazione di svolgere un ruolo di volano per una nuova qualità dello sviluppo e socialmente efficace.
Quello che, invece, è rimasto maggiormente in ombra è come il sindacato ha affrontato, e in specifico la Funzione Pubblica Cgil, tale situazione. Al di là di alcune dichiarazioni di formale contrasto, in realtà siamo di fronte a una posizione di passiva rassegnazione all’impianto di tale controriforma della Pubblica Amministrazione. Che sta accelerando alcuni processi negativi che erano in corso già da tempo all’interno della Fp Cgil e che il processo di «riorganizzazione» interna derivante dal dimezzamento delle agibilità sindacali sta ulteriormente rafforzando. Per dirla in breve, non si può non vedere come venga avanti e rischi di diventare strutturale una mutazione del modello sindacale che si compone di chiusura autoreferenziale, restringimento del proprio ruolo e orizzonte di iniziativa e anche della propria democrazia interna. Non volendo essere generico e riferendomi in specifico all’esperienza della Fp Cgil, mi interessa evidenziare almeno tre questioni che disegnano fatti e scenari che, almeno per me, generano un dato di seria inquietudine.
Il primo è che, nei fatti, la Fp Cgil sta attuando scelte che rischiano, se non di farla ritrarre, perlomeno di rendere molto più evanescente il proprio impegno nel variegato e importante movimento per l’acqua pubblica. Ciò non solo è sbagliato in sé, perché così si svaluta quella che io ritengo essere stata una delle esperienze più feconde di questi ultimi anni di relazione tra esperienza sindacale e realtà dei movimenti e della cittadinanza attiva, ma lo si fa proprio in un momento in cui il governo – già con lo «SbloccaItalia» e in ogni caso con la prossima legge di stabilità — si appresta a dare un colpo mortale all’esito referendario di 3 anni fa, aprendo un ciclo di fortissime privatizzazioni dei servizi pubblici locali, per cui le aziende pubbliche partecipate dovrebbero ridursi dalle attuali 8000 a circa 1000.
Il secondo è che si dà una lettura assai riduttiva e alla fine inefficace del proprio ruolo contrattuale e della necessità di salvaguardarlo. Bisognerebbe interrogarsi seriamente sul perché ci si trova in un quadro per cui i lavoratori pubblici hanno i propri contratti nazionali bloccati da 5 anni e, come dice esplicitamente il Def e nonostante le smentite agostane di qualche ministro, vedranno questa situazione prolungarsi anche nei prossimi 2–3 anni. Non basta dire che ciò è il prodotto della linea dell’austerità che ci proviene dall’Europa e cui aderisce anche questo governo, al di là delle schermaglie tattiche e comunicative di Renzi. In realtà, in questi anni, la stessa Fp Cgil, e tutta la Cgil, non ha colto e si è mostrata subalterna a quest’attacco, ha subito la campagna di delegittimazione del lavoro pubblico, portata avanti almeno dai tempi del ministro Brunetta, non ha reagito sufficientemente all’operazione costruita di contrapporre lavoro privato e lavoro pubblico, e quest’ultimo ai cittadini.
Ora, con le scelte che si stanno compiendo, si continua e si approfondisce quest’errore. Si prosegue nel non rendersi conto che il recupero di un potere contrattuale nel settore pubblico può realizzarsi solo ricostruendo un nesso forte tra ruolo del lavoro, ruolo dell’intervento pubblico e rapporto con la cittadinanza, come nel passato la Fp Cgil ha saputo fare, negli anni ’90 legando fortemente l’idea della contrattazione con quella di un reale processo riformatore della Pubblica Amministrazione, e negli anni più recenti, teorizzando il tema fondante del rapporto tra valorizzazione del lavoro pubblico, affermazione dei beni comuni e espansione della partecipazione dei cittadini. Si ripiega su un’idea neocorporativa di modello di tutela e rappresentanza dei lavoratori pubblici, che lascia per strada un’idea di sindacato come soggetto generale per approdare a una cultura sindacale maggiormente simile all’associazione di interessi, destinata peraltro a non avere sbocchi con le attuali compatibilità politiche ed economiche e, invece, ad approfondire la crisi di rappresentanza della Cgil.
Infine — terzo punto inquietante — non posso sottacere che, anche nel processo riorganizzativo interno che è in corso a seguito del dimezzamento dei distacchi e dei permessi sindacali, si dà perlomeno l’impressione di mettere da parte voci che hanno espresso critiche e dissenso sulle scelte e sugli ultimi esiti congressuali compiuti dalla maggioranza della Fp Cgil e della Cgil. Stanno diventando ormai troppi i casi in cui il dissenso interno viene regolato per via amministrativa-burocratica, anziché con una discussione e una riflessione strategica di cui la Cgil ha sempre più bisogno, e di cui una sua riforma democratica è parte essenziale.
Una cartina al tornasole di tutt’e tre questi dati negativi è probabilmente rappresentata anche dal fatto che il sottoscritto, che ha rappresentato la Fp Cgil Nazionale all’interno del Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua sin dalla sua nascita e che ha lavorato in questi ultimi dieci anni all’interno della Fp Cgil Nazionale sui temi dei beni comuni e del Welfare, viene coinvolto, per scelta del sindacato a seguito del processo riorganizzativo interno, nella perdita della propria agibilità e incarico sindacale a tempo pieno, rientrando nel proprio posto di lavoro originario al comune di Ferrara.
Ovviamente ciò non mi impedirà, anzi, di provare a dare il mio contributo all’iniziativa e alla riflessione strategica di cui ritengo la Cgil abbia necessità e su cui mi auguro che in diversi vogliano cimentarsi. Per quanto mi riguarda, ora lo farò come semplice iscritto alla Fp Cgil, attivista del movimento per l’acqua, militante politico interessato alla costruzione di una soggettività politica nuova per la sinistra italiana.
Un’analisi freddamente tecnica: «Si tratta di un’operazione tesa a “blindare” alcune opere (“sono state approvate dal Cipe...”) per consentire poi la totale discrezionalità politica nel loro finanziamento e nella loro realizzazione».
Il Fatto Quotidiano, 3 set. 2014
Il documento approvato dal Consiglio dei ministri venerdì contiene troppo cemento per gli ambientalisti e troppo poco per i costruttori: ma queste due reazioni erano prevedibili qualunque fosse stato il contenuto del provvedimento. Si tratta di un infinito elenco di opere, utili e meno utili, con uno strettissimo scadenzario di “cantierabilità”: alcune entro il 31 dicembre 2014, altre entro il 30 giugno 2015, altre entro il 31 agosto 2015.
Dopo queste date, i soldi andranno altrove. L’origine di questo elenco è tragica: si tratta di opere approvate dal Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) in molti anni, ma senza alcuna definizione di priorità, senza reale allocazione di fondi, e con analisi economiche e finanziarie (sempre positive!) imbarazzanti. Si tratta cioè di un’operazione tesa a “blindare” alcune opere (“sono state approvate dal Cipe...”) per consentire poi la totale discrezionalità politica nel loro finanziamento e nella loro realizzazione.
Uno degli effetti certi di questo approccio è quello dei “cantieri infiniti” (o “stop and go”): se ci sono soldi, e l’opera è approvata dal Cipe, si può partire con una bella inaugurazione del cantiere. Gli obiettivi di visibilità sono ottenuti, le imprese costruttrici sono contente, come pure gli enti locali interessati. Poi i soldi vengano a mancare, i costi si gonfiano (fino a tre-quattro volte, vedi l’Alta Velocità), i cantieri non si possono certo chiudere, e comunque i costruttori devono essere giustamente risarciti per lo “stop and go”. Dopo un po’, con qualche nuovo soldo, si ricomincia. Data l’assoluta scarsità di risorse fresche, se davvero anche una parte limitata delle opere divenisse cantierabile alle scadenze previste “in ordine sparso” diventerebbe impossibile. C’è da credere dunque che nei mesi a venire si procederà a una selezione delle opere in funzione della loro utilità. Nel frattempo, tutti i padrini politici delle opere potranno continuare a dichiarare che la loro “figlioccia” è compresa nell’elenco. In inglese le opere politicamente patrocinate si chiamano “pet projects”. Ai keynesiani puri anche i cantieri inutili vanno bene (“scavar buche e riempirle”), ma forse è meglio scavare buche utili e che diano lavoro a un sacco di gente. Cosa che, per euro speso, le grandi opere comprese in quell’elenco certo non fanno.
«Costretto a tenere la propria attenzione e quella del governo fissa sul pubblico, rischia di ripetere il paradigma che ha imputato ai suoi avversari: il dire di fare piuttosto del fare».
La Repubblica, 3 settembre 2014
La democrazia del pubblico è tutt’uno con la persona del leader, con la forza attrattiva della sua immagine e del suo linguaggio accattivante, che parla alle emozioni. Essa è in grado di rafforzare, integrare e perfino alterare il verdetto delle urne: tra un’elezione e l’altra l’audience tiene in mano il testimone della rappresentanza e detta il corso e il passo del leader, la direzione e la velocità del suo cammino. Su questa simbiotica relazione tra il pubblico e il leader si incardina la “democrazia personale” della quale alcune domeniche fa ci parlava Eugenio Scalfari su Repubblica. Un ibrido che, Secondo Ilvo Diamanti, tiene insieme come in un patchwork forme d’essere della politica che sono diverse, piegate ora sul ruolo del partito ora su quello del leader. Sulla difficoltà a tenere il partito separato dal leader si gioca il rebus della politica italiana.
Vediamo di esplorare la relazione simbiotica del leader e dell’audience, il cuore di questa democrazia ibrida. Le parole di Renzi hanno conquistato il pubblico ben oltre l’investitura elettorale (che del resto non c’è stata, almeno in relazione al governo nazionale). Lo hanno fatto con prevedibile efficacia poiché la condizione economica del paese é da anni così critica da non lasciare larghi margini alle sottili spiegazioni, alle analisi complesse, al discorso articolato, tutte cose che appartengono alla democrazia dei partiti. La terminologia di Renzi é stata ed è da questo punto di vista adatta a questo tempo. La prima coppia di concetti che ha immesso nell’opinione parla di velocità e di movimento, facili
Da comprendere per chi si trova a patire la stagnazione economica. Scriveva cartesio nel Discorso sul metodo che il viandante che si trovi in un bosco senza bussola e in una notte senza luna farà bene a non restare paralizzato ma ad andare, poiché da qualche parte prima o poi arriverà. Si tratta comunque di un andare senza piani di lungo periodo perché è il presente che detta le sue regole. La seconda coppia di concetti della terminologia renziana parla di rottamazione e di eliminazione delle rendite di posizione,
Idee di immediata comprensione poiché la condizione di stagnazione spinge chi vive in condizioni positive o non proprio negative a voler preservare il proprio stato. Chi ha bisogno di cambiare è chi vive una condizione di difficoltà. La terza coppia di concetti che renzi ha immesso nell’audience riguarda infine il dualismo generazionale, pilastro del suo messaggio politico.
Sembra che la dissipazione della politica come progettualità del futuro, che la crisi della democrazia dei partiti ha lasciato, abbia trovato un rimedio fuori dalle categorie sociali. Espulso dalla politica, il futuro ha fatto il suo ingresso nel rapporto tra le generazioni, tra gli italiani di ieri e quelli di oggi (più che quelli di domani); un futuro prossimo, conflittuale e atto a nutrire ingiusti sentimenti divisivi come il risentimento e la volontà punitiva per chi non è più protagonista. Le rappresentazioni sociali e mediatiche hanno accolto con favore questa terminologia, e sviato con successo il luogo del conflitto dalle relazioni sociali o di classe a quelle generazionali o naturali. L’audience che vive in simbiosi con Renzi ha adottato questo canovaccio di narrazioni che iscrive l’agire politico nel ciclo biologico del “corso della vita”: è il turnover naturale a dettare il movimento politico.
Se non che, le difficoltà a realizzare questo piano che abbiamo constatato in questi giorni (e che Renzi ha immediatamente registrato con l’aggiustamento della velocità: dalla “corsa veloce” al “passo dopo passo”) possono rischiare di far deragliare la democrazia dell’audience anche a causa della debolezza insita nel partito ibrido. Ora, l’audience può indubbiamente dare legittimità emotivamente forte alla persona del leader. Può, come è successo a renzi, determinare l’ingresso prorompente del leader nella politica, ma non riesce a garantire stabilità nel tempo. Vi è di più. Le parole che hanno lanciato la leadership di Renzi sono entrate ormai nel linguaggio ordinario. Il rischio è che il leader non riesca a stare al passo delle sue stesse parole, costretto a riconoscere che il principio di realtà non si rottama, pone dei veti non raggirabili, ha una complessità che resiste alle semplificazioni.
Insomma, il rischio è che sia proprio la simbiosi di leader e audience a logorare il leader. Il quale, costretto a tenere la propria attenzione e quella del governo fissa sul pubblico e le sue emozioni, rischia di ripetere il paradigma che ha imputato ai suoi avversari di ieri: il dire di fare piuttosto che il fare. Nei tempi critici, la strategia plebiscitaria può dunque essere un problema non da poco – soprattutto se a controbilanciarla non c’è un partito autonomo dal leader, dotato di una sua credibilità e capace di riflessione critica.
Una fondata critica della leader italiana de "L'altra Europa con Tsipras" alle politiche dominanti. Non basta dire che si è sbagliato, come hanno fatto Hollande e Padan, «occorre un cambio radicale di paradigma, se è vero che sono le idee di fondo sull’austerità, fossilizzatesi ormai in ideologia, ad aver prodotto questi sbagli».
Il manifesto, 30 agosto 2014
È certamente un buon segno che la riunione informale dei ministri per gli affari europei, incentrata sul funzionamento dell’Ue dopo le elezioni del 25 maggio, abbia aperto le porte al Parlamento europeo, e soprattutto alla Commissione affari costituzionali, giacché è proprio nell’assenza di una vera costituzione europea - tuttora latitante, a cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e della Carta dei diritti - che si riassume l’essenza della crisi che attraversiamo.
La timida apertura all’unione politica, contenuta nel rapporto stilato nel 2012 dai «quattro presidenti» – Commissione, Bce, Consiglio europeo ed Eurogruppo (il Parlamento fu malauguratamente escluso) – pare già evaporata, e i mali dell’Ue continuano immutati, a cominciare dalla teoria delle «case nazionali» da mettere in ordine prima di rifondare l’Europa nel senso solidale chiesto dai cittadini.
Impressionante è la sottovalutazione del messaggio venuto dalle ultime elezioni europee, mai sottoposto a una seria analisi autocritica. Il giudizio fu evasivo già nella risoluzione del Consiglio europeo di giugno, quando si parlò di crescente «disincanto», una parola che significa tutto e niente. Appena due mesi son passati, e i disincantati vengono oggi bollati come populisti e estremisti. I due aggettivi sono abusivamente proposti come sinonimi, refrattari a ogni distinguo fra eurocritici ed euro-ostili, ignari di quel che chiede la maggioranza dei cittadini: non meno Europa, ma un’Europa più democratica, più solidale, più giusta socialmente.
Speravo in un semestre italiano capace di imprimere una svolta in questo campo. Dopo la crisi governativa in Francia e le ammissioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan («Abbiamo sbagliato tutti sulle previsioni di crescita», ha detto il 17 agosto alla Bbc), è necessario riconoscere che, per quanto riguarda l’austerità, non bastano parametri un po’ più flessibili. Occorre un cambio radicale di paradigma, se è vero che sono le idee di fondo sull’austerità, fossilizzatesi ormai in ideologia, ad aver prodotto questi sbagli.
Chiunque prenda sul serio il malessere dilagante in Europa non può non comprendere che è venuta l’ora di far partecipare i cittadini al governo della crisi (lo prescrive, tra l’altro, l’art. 11 del Trattato di Lisbona). Non ci si può limitare a rendere le istituzioni più celeri, né si può minacciare tagli a programmi come Erasmus, sollevando le giuste proteste di tanti giovani. Abbiamo di fronte problemi gravi con cui confrontarci, che richiedono trasparenza e democrazia, a cominciare dalle trattative sul partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). La presidenza italiana chiede, giustamente, che sia declassificato il mandato negoziale della Commissione, ma non basta: il Parlamento europeo –i cittadini, ancora una volta – deve avere accesso a tutti documenti nelle varie fasi del negoziato. Non può essere messo al corrente a trattato concluso, quando gli verrà chiesto di dare il cosiddetto parere conforme.
Preoccupa l’insidioso ritorno dei nazionalismi e delle intese intergovernative. Ai mali di una Commissione prigioniera della tensione e dello squilibrio creatosi fra Stati più o meno potenti dell’Unione, alla sfiducia degli elettori, si risponde creando nuove burocrazie, non europee, ma nazionali. Parimenti, si invita a non approfondire l’integrazione: l’Unione «dovrebbe astenersi dall’intervenire quando gli Stati membri possono raggiungere meglio gli obiettivi». Come si spiega allora l’invito di Mario Draghi a cedere sovranità sulle riforme strutturali? O si sbagliava il Consiglio, o si sbaglia Draghi, o le parole non significano nulla. In effetti non significano nulla, se non si spiega verso quali poteri sovranazionali, e democraticamente legittimati, si trasferiscono le sovranità.
A giugno si parlava di lotta all’evasione, alla frode fiscale, alla corruzione, alla violazione dei dati personali, al restringimento dei diritti: tutti temi assenti nei documenti di oggi. Si promettevano risposte comuni alla sfida della migrazione, tra cui «forti politiche dell’asilo», ma il proposito sembra dimenticato, mentre rimane l’ambiguità sui migranti irregolari (i profughi da zone di guerra sono sempre e per definizione «irregolari»). Non una parola sulla necessità di una politica pensata a fondo sul Mediterraneo e sui rapporti con la Russia. Resta la promessa di un comune piano d’investimenti nell’economia reale, pari a 300 miliardi di euro su 3 anni: una sorta di New Deal che Juncker ha esposto al Parlamento europeo, favorito in questo dai governi di Italia e Francia (è quanto va chiedendo l’Iniziativa cittadina che porta lo stesso nome: New Deal for Europe). Con che mezzi lo si voglia attuare non è chiaro - mentre l’Iniziativa cittadina chiede una duplice tassa comunitaria sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica – ma appoggiarlo sarebbe già un primo passo.
«Caro Ministro Lupi, nel suo approccio alla riforma urbanistica lei dimentica che secondo la Costituzione i fini sociali della proprietà prevalgono sugli interessi particolari del proprietario». Lettera aperta di un amministratore sul disegno di legge ministeriale.
La Provincia di Como, 29 agosto 2014
Caro Ministro, sembra giunto il momento perché la legge urbanistica del 1942 vada in pensione. Il ministero ha reso disponibile la bozza di un nuovo testo, frutto del lavoro coordinato della Sua segreteria, e di esperti da Lei nominati. Si tratta di un gesto apprezzabile.
Tuttavia, va detto che accanto a elementi di sicuro interesse come il riallineamento delle leggi regionali all'interno di un più solido telaio normativo, due elementi rischiano di pregiudicare la già difficile opera di pianificazione degli enti locali: la retorica della tecnica di scrittura utilizzata e il regime di straordinario favore per la proprietà privata. La prima si tradurrà in un incremento dei già frequenti contenziosi, la seconda nega alle fondamenta il principio contenuto nell'art. 42 della Costituzione, secondo cui i fini sociali della proprietà prevalgono sugli interessi particolari del proprietario.
Affermare che le volumetrie create dagli strumenti urbanistici non decadono al decadere del piano che le crea, significa impedire alla collettività di decidere il proprio futuro, anche quando questo futuro dovesse consistere in minori metri cubi di edificato. Esentare dalla fiscalità gli immobili destinati alla vendita o alla rivendita che non siano utilizzati può avere un senso in un'ottica di leva per il recupero, ma non può valere quale regola generale, perché se così fosse significherebbe ignorare che i servizi pubblici di cui immobili inutilizzati godono sono pagati dai cittadini che non hanno nulla da mettere sul mercato.
Stupisce poi leggere che il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento. Siamo tutti d'accordo nell'affermare che la programmazione si fa, anche, con la proprietà, ma ciò non significa sottrarre alle amministrazioni il ruolo di decisori. Eravamo convinti che scopo del governo del territorio fosse la corretta pianificazione, non la tutela di alcuni, pur importanti, interessi.
E infine, tante novità ma nessuna reale semplificazione delle procedure. Oggi sono le amministrazioni che chiedono più semplicità. Lo fanno perché a contatto tutti i giorni con una realtà economica che chiede rapidità e certezza nelle decisioni. Potenziare i processi di coinvolgimento, semplificare i processi decisionali, questa è la sfida che chiediamo venga affrontata.
Mi permetta di riferirLe il mio convincimento a proposito del senso del servizio nelle pubbliche amministrazioni: se questo è il destino della pianificazione urbanistica, se il futuro ci riserva faticose contrattazioni con i privati all'interno di procedure obsolete, sarà difficile per chi non fa della politica la propria ragione di vita trovare motivazioni che giustifichino un'importante sottrazione di tempo ed energie alla vita privata e alle professioni.
Per ora l'unica differenza sostanziale tra i due, oltre all'età e alla base elettorale, è che il giovanotto è incensurato.
Attac Italia online, 29 agosto 2014
Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato s rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più.
Questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa: entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%.
Se non accetteranno il diktat, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi!
Come già Berlusconi, anche Renzi si mette la foglia di fico di non nominare l’acqua fra i servizi da consegnare ai capitali finanziari; ma, a parte il fatto che il referendum non riguardava solo l’acqua, bensì tutti i servizi pubblici locali, è evidente l’effetto domino del provvedimento, sia sulle società multiutility che già oggi gestiscono più servizi (acqua compresa), sia su tutti gli enti locali che verrebbero inevitabilmente spinti a privatizzare tutto, anche per poter usufruire delle somme derivanti dalla cessione di quote, che il Governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità.
Nel pieno della crisi sistemica, ecco dunque il cambio di verso dello scattante premier: non più l’obsoleta privatizzazione dei servizi pubblici locali, bensì la loro diretta consegna agli interessi dei grandi capitali finanziari, che da tempo attendono di poter avviare un nuovo ciclo di accumulazione, attraverso “mercati” redditizi e sicuri (si può vivere senza beni essenziali?) e gestiti in condizione di monopolio assoluto (per un solo territorio vi è un solo acquedotto, un solo servizio rifiuti).
Da queste norme, traspare in tutta evidenza l’idea non tanto dell’eliminazione del “pubblico” –quello è bene che rimanga, altrimenti chi potrebbe organizzare il controllo sociale autoritario delle comunità?- bensì della sua trasformazione da erogatore di servizi e garante di diritti, con un’eminente funzione pubblica e sociale, in veicolo per l’espansione della sfera d’influenza degli interessi finanziari sulla società.
Naturalmente, è ancora una volta la Cassa Depositi e Prestiti ad essere utilizzata per questo enorme disegno di espropriazione dei beni comuni: come già per la dismissione del patrimonio pubblico degli enti locali, è già allo studio un apposito fondo per finanziare anche la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Emerge, oggi più che mai, la necessità di una nuova, ampia e inclusiva mobilitazione sociale, che deve assumere la riappropriazione della funzione pubblica e sociale dell’ente locale come obiettivo di tutti i movimenti in lotta per l’acqua e i beni comuni, e di una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti.
E, poiché il disegno di espropriazione dei servizi pubblici locali viene portato avanti con il pieno consenso dell'Anci, espresso a più riprese dal suo Presidente Piero Fassino, una domanda sorge spontanea: non è il momento per i molti Sindaci che ancora non hanno abdicato al proprio ruolo di primi garanti della democrazia di prossimità per le comunità locali, di iniziare a ragionare su un'aggregazione alternativa degli enti locali, fuori e contro un Anci al servizio dei poteri forti?
«La transizione egemonica mondiale e la resistenza ad essa degli Usa rendono più instabili le condizioni dei paesi di confine fra Est e Ovest: in Europa, un tempo i Balcani, oggi l’Ucraina; nel Medio Oriente tutti i paesi, nessuno escluso».
Il manifesto, 28 agosto 2014
Non c’è che dire: papa Borgoglio gode di un lungo momento di grazia nell’opinione pubblica mondiale. Ogni cosa che dice diventa di riferimento anche in ambito non confessionale. Ne sia esempio la sua recente dichiarazione sull’esistenza nel mondo contemporaneo di una terza guerra mondiale “a pezzetti”. Il Papa non è un analista politico e quindi non si può pretendere da lui l’esattezza della definizione, ma è un fatto che essa ha sfondato anche nel campo della sinistra che pensa di interpretare così le varie guerre guerreggiate sanguinosamente in corso, dall’Ucraina al MedioOriente. D’altro canto, vista la mancanza di profondità nella ricerca analitica e di pensieri lunghi nel campo della sinistra non deve stupire né infastidire questa supplenza pontificia.
Resta da domandarsi se le cose stanno proprio così. Se il papa ci ha preso oppure no. Propenderei, con tutto il rispetto e - perché no - anche ammirazione, per il no. Per quanto molteplici siano i conflitti in corso, non credo che si possa parlare di una terza guerra mondiale seppure a macchia di leopardo e a bassa intensità. Siamo piuttosto di fronte – ma ogni definizione è per necessità, come diceva il grande filosofo, una limitazione – ad una guerra civile prolungata senza frontiere, ove entrano in gioco una molteplicità di soggetti dai contorni imprecisi.
Per spiegarmi devo riprendere per sommi capi un punto che ritengo cruciale nell’analisi della crisi economica tutt’ora in corso – per l’Europa molto peggiore di quella degli anni Trenta – e che viene però o sottaciuto o negato. La crisi è trasformazione, non crollo. Anzi una grande trasformazione, per parafrasare Polanyi. Questa crisi si colloca e rimarca l’avvento di una grande transizione egemonica mondiale, ove il baricentro del potere, economico in primo luogo, si sposta da ovet ad est, dall’Atlantico al Pacifico. Non è la prima volta che nella storia dell’umanità avvengono passaggi così cruciali, come ci ha insegnato Fernand Braudel e la sua scuola. Questo è uno di quelli.
In questa crisi è maturato il sorpasso nel primato mondiale delle nazioni tra la Cina e gli Stati Uniti d’America. Qualche dato snocciolato in breve aiuta a valutare la portata del fenomeno. Tra il 2000 e il 2008, il commercio internazionale della Cina è quadruplicato. Le esportazioni sono aumentate del 474 per cento e del 403 per cento delle sue importazioni. Al contrario gli Stati Uniti hanno perso la loro posizione di prima potenza commerciale del mondo, una leadership che detenevano da un secolo. Prima della crisi finanziaria globale del 2008, gli Stati Uniti erano il principale partner commerciale di 127 paesi nel mondo, la Cina lo era solo per un po’ meno di 70 paesi. Oggi, Pechino è diventata il principale partner commerciale di 124 stati, mentre Washington lo è solo di circa 70 paesi. Su questa base la Cina pensa di potere imporre prima o poi la propria moneta quale riferimento per le transazioni internazionali scalzando definitivamente il primato del dollaro.
D’altro canto non vi è dubbio che la Cina ha saputo reagire prima e meglio agli effetti della crisi mondiale. Lo ha fatto in virtù di un sistema fortemente centralizzato che attua un fermo controllo sui movimenti dei capitali. Non mancano, anzi sono in crescita, le tensioni e i conflitti sociali nell’universo cinese, ma anche le imminenti celebrazioni di Deng Hsiao Ping - con una megaproduzione televisiva tale da fare impallidire i tormentoni americani – sembrano configurare l’era comunista come una parentesi fruttuosa tra una società ancora largamente precapitalista ed una a capitalismo sviluppato proiettata nella globalizzazione con e grazie ad un forte intervento e controllo statali. In più la Cina ha saputo muoversi sullo scacchiere mondiale con un’attenzione particolare ai grandi fattori economici che possono cambiare d’un colpo solo la geoeconomia e la geopolitica del globo terrestre. Non mi riferisco soltanto alla preveggente penetrazione cinese in Africa, ma anche al recente accordo con la Russia sulle forniture di gas e al progetto con gli altri Brics di dare vita ad una sorta di banca mondiale alternativa a quella attuale.
Il ruolo migliore che la presidenza Obama poteva assumersi di fronte alla storia per non lasciare un cattivo ricordo di sé, era quello di fare in modo che questo inevitabile trapasso di primato avvenisse nel modo più pacifico possibile. Naturalmente era una speranza assai fragile e gli avvenimenti successivi l’hanno facilmente contraddetta.
Sul piano geoeconomico e geopolitico gli Usa si muovono con decisione tentando di contenere la Cina e i Brics attraverso accordi capestro economico commerciali, fra cui il famigerato TTIP, che riguarda direttamente l’Europa; il TPA (trans pacific agreement) che però il Giappone mostra di non gradire; il meno noto TISA (trade in services agreement). Gli ultimi due sono in diretta funzione anticinese e antiBrics, il primo cerca di togliere sul nascere all’Europa ogni illusione di potere giocare un ruolo autonomo in questo processo di transizione egemonica mondiale.
Gli Usa hanno perso il primato economico, ma non certo quello militare. Sono teoricamente in grado di vincere qualunque guerra, ma non più di sostenerla economicamente. E di guerre lampo non se ne sono viste, tranne che nella sceneggiata di Granada. La differenza con il passato non è piccola. Anche con quello recente della guerra preventiva e infinita dei Bush e dei Clinton, quella semplificata con l’esempio dell’uccisione preventiva dell’orso – che ricorda quello che vorrebbe fare la Lega Nord nei confronti dell’orsa “anomala” di Pinzolo – raccomandata da Robert Kagan. Ecco allora che gli strateghi statunitensi rovistano nel passato. Nell’autorevole Foreign Affairs di luglio/agosto 2014, Jack Divine – 32 anni nella Cia – annota che: “ L'esperienza degli USA in Cile nei primi anni '70 ha offerto una serie di lezioni su come portare avanti buone azioni segrete e su come evitarne di cattive. Alcune di queste lezioni sono state imparate, ma troppe di queste no” quindi, continua Divine, gli Usa si lasciano alle spalle le grandi azioni militari in Afghanistan e Iraq ed entrano in un nuovo periodo “nel quale le azioni segrete diventeranno davvero cruciali in luoghi come Iran, Pakistan, Syria e Ucraina.” Appunto.
Sembra che Renzi abbia frenato lo slancio con cui la ministra Giannini, sbilanciandosi molto nel parlare alla non disinteressata platea di Cl, aveva promesso più soldi alle scuole paritarie come parte importante della riforma della scuola in cantiere (ormai non c’è governo che non ne faccia una, con risultati non sempre apprezzabili).
Ma la Giannini ha fatto di più che promettere maggiori fondi. Ha infatti affermato che occorre superare «le posizioni ideologiche» per quanto riguarda la distinzione scuola pubblica/scuola paritaria, e di conseguenza i relativi finanziamenti, per «guardare solo alla qualità». Le ha dato successivamente manforte il sottosegretario Toccafondi, che ha spiegato: «Per troppo tempo in questo Paese si è detto che la scuola era pubblica o privata. La scuola è tutta pubblica e si divide in statale e non statale».
Il riconoscimento di statuto pubblico alle scuole paritarie ha già fatto danni nelle scuole dell’infanzia, nella misura in cui un comune non si sente più in obbligo di fornire il servizio se in un determinato quartiere c’è già una scuola paritaria; anche se questa, come capita per lo più, è di tipo confessionale e non risponde agli orientamenti culturali dei genitori. Era questo il motivo del referendum bolognese, fallito per scarsa affluenza e per il timore, alimentato dall’amministrazione, che senza le scuole paritarie molti bambini non avrebbero avuto posto – appunto perché i finanziamenti erano stati dirottati lì.

Ancora un primato negativo. «Informazione . Una concordia asfissiante. Dall’inizio delle larghe intese, la stampa e la tv italiane hanno cambiato pelle acconciandosi alla funzione assai poco onorevole del portavoce zelante delle verità del governo». il manifesto, 27 agosto 2014
Siamo proprio sicuri che lo stato (desolante) dell’informazione politica in Italia rientri nella normalità, che assegna alla «struttura materiale dell’ideologia» la funzione di proteggere e consolidare l’establishment? Fosse così, non ci rassegneremmo, ma nemmeno avremmo la percezione di una situazione patologica.
In tutti i paesi del mondo, sotto qualsiasi regime, la «grande stampa» aiuta il potere. Riconoscerlo non implica equiparare sistemi totalitari e pluralistici. Né ignorare la rilevanza dei diritti di libertà e l’importanza della funzione svolta, nei sistemi pluralistici, dalla stampa indipendente e di opposizione. Resta che ovunque tra stampa e potere intercorrono rapporti di mutuo soccorso. Che il mondo dell’informazione è dappertutto contiguo ai luoghi del potere economico e politico. Che spesso il confine tra informazione e propaganda è labile e di difficile demarcazione. Ma c’è un ma.
O un limite, se si preferisce. Di norma la cooperazione tra stampa e potere non impedisce agli organi di informazione di operare anche come fattori costitutivi dell’opinione pubblica e suoi portavoce. Né preclude alla grande stampa una funzione di controllo e di stimolo – talora di denuncia – nei confronti delle altre istanze del potere. Si pensi, per esempio, al giornalismo d’inchiesta, ancora vivo in Germania e nel mondo anglosassone, e non appannaggio delle testate di opposizione.
Cooperazione e critica: in questo binomio contraddittorio si condensa la relazione tradizionale tra stampa e potere in democrazia. Il che vale a preservare una qualche funzione terza dell’informazione anche in tempi di pensiero unico imperante. Accade lo stesso oggi in Italia? Si può dire che anche nel nostro paese le maggiori testate della carta stampata e del giornalismo televisivo pubblico e privato mantengono un equilibrio tra prossimità e alterità al potere che permetta loro di assolvere almeno in parte il compito di informare senza troppo deformare?
Decisamente no. Da tempo – almeno dall’inizio dell’infausta stagione delle larghe intese, più probabilmente da quando la crisi economica imperversa – la stampa italiana (fatte le debite eccezioni) ha cambiato registro. Se ancora all’epoca della rissa bipolare tra centrosinistra e destra era possibile imbattersi in qualche analisi spregiudicata e cogliere frammenti di verità tra le righe di commenti o resoconti (purché, beninteso, non si trattasse della santa alleanza con gli Stati uniti e delle guerre scatenate nel nome della democrazia <CW-17>e dei diritti umani), oggi regna invece un’asfissiante concordia. Intorno ai feticci della governance neoliberale – le “riforme” in primis, evocate ossessivamente come una panacea per tutti i mali. Intorno alle figure che la incarnano – dal capo dello Stato al presidente del Consiglio in carica, passando per il presidente della Bce. Intorno alle politiche per mezzo delle quali viene compiendosi la metamorfosi americanista della società, il suo rapido regredire verso assetti postdemocratici, autoritari e oligarchici.
Documentarlo sarebbe sin troppo agevole. Basti un banale esperimento. L’attuale premier si è accreditato come l’uomo del cambiamento e, appunto, delle riforme. È un ruolo che sta a pennello a un yuppie della politica, venuto su col logo del rottamatore. Ma questa è una scelta d’immagine, è la sua autorappresentazione. Non dovrebbe costituire il contenuto dell’informazione, la quale avrebbe invece il dovere di entrare nel merito delle sedicenti riforme, parola magica che da vent’anni designa i misfatti dei governi nel nome del risanamento. Bene, provate a vedere che succede in proposito, se mai un giornalista, intervistando Renzi o commentandone le debordanti dichiarazioni in schietto stile nientalista, si prende la briga di discutere il criterio in base al quale un provvedimento può definirsi “riforma” e si distingue da un altro che non ne è degno.
Riforme erano dette anche quelle del fascismo, che di cose ne cambiò effettivamente molte e in profondità. Non sarebbe allora il caso di costringere chi governa a uscire dalla propaganda e a dichiarare i propri reali intendimenti? Non sarebbe un gesto di rispetto verso lettori e telespettatori incalzarlo, fargli presenti i costi sociali delle sue decisioni oltre che i loro vantati benefici? Non sarebbe questa un’elementare clausola di dignità per chi, facendo il giornalista, non dovrebbe accettare di degradarsi a velinaro, a supino amplificatore della voce del padrone di turno?
Ma, parole magiche a parte, il discorso ha una portata ben più vasta. E i possibili esempi si sprecano.
È mai possibile che nessuno trovi da ridire quando un membro del governo o del Pd recita la giaculatoria del «40 per cento degli italiani che ci chiedono le riforme»? È decente fingere di non ricordare che in maggio si votò per le europee con la fondata paura della marea fascista, e che a nessun elettore italiano venne in mente allora di concedere al governo cambiali in bianco per sfasciare la Costituzione, fare nuovamente cassa con le pensioni o stravolgere lo stato giuridico del pubblico impiego?
Un caso paradigmatico è l’evasione fiscale. Giornali e telegiornali ne parlano, inevitabilmente, quando la Corte dei conti o l’Agenzia delle entrate dirama le solite scandalose cifre che non hanno eguali al mondo. Per la cronaca siamo poco sotto i 190 miliardi di euro sottratti ogni anno alle finanze pubbliche. Visto che i numeri hanno una loro oggettività, il dato dovrebbe dominare la pagina economica. All’opinione pubblica – ammesso che in Italia ne esista ancora una – sarebbe doveroso spiegare quali nessi sussistono tra questo gigantesco ammanco e la drammatica fame di risorse nei bilanci delle pubbliche amministrazioni e delle famiglie dei lavoratori dipendenti. Si dovrebbe chiarire come non sia casuale che, vantando questo record, l’Italia sia anche in cima alle classifiche del debito pubblico, della disoccupazione e della pressione fiscale sul lavoro. Niente di niente, invece. Il tema è tabù. I cittadini debbono restare inerti sotto il bombardamento della narrazione ufficiale della crisi.
E così via esemplificando. Nel Mediterraneo si consuma ogni giorno la strage dei migranti.
C’è mai qualcuno che, commentando gli spropositi di un ministro o del leghista di turno, rammenti che i migranti non chiedono benevolenza: esercitano un diritto inviolabile? Che a quanti di loro fuggono da guerre e persecuzioni nessuno può legittimamente rifiutare asilo? E che gli Stati che non li accolgono violano norme fondamentali del diritto internazionale? Quanto al terrorismo, largo alle strumentalizzazioni di chi blocca sul nascere ogni discussione al riguardo. Non sia mai che ci si interroghi sulle responsabilità occidentali nella catastrofe mediorientale. E che, di terrorista in terrorista, a qualcuno venga in mente di chiedere conto anche a Netanyahu. Francamente dispiace che la recente polemica tra Grillo e il Tg1 sia stata liquidata anche a sinistra come l’ennesima aggressione di un energumeno. I modi offendono, ma la sostanza resta e meriterebbe ben altra considerazione.
Sotto la cappa del potere finanziario transnazionale, amministrato dalla tecno-burocrazia europea e dai suoi proconsoli nostrani, il giornalismo italiano ha perlopiù mutato pelle, acconciandosi alla funzione assai poco onorevole del portavoce zelante. Che divulga e accredita le verità dispensate dall’alto, e con ciò impedisce la formazione di un’opinione pubblica documentata e critica. E non si creda che il riferimento al quadro dei poteri dominanti attesti un nesso cogente. Non vi è alcuna necessità in tale connessione, né vi opera una forza incoercibile. Sono in gioco, al contrario, la libera scelta di ciascuno e la sua responsabilità intellettuale e morale. La patologia di un giornalismo asservito è parte integrante della più grave questione all’ordine del giorno, quella del proliferare delle caste e della corruzione in esse dilagante
Rimettere i diritti del lavoratore al mercato, come vorrebbero Draghi e Renzi, non significa solo cancellare di colpo più di un secolo di storia, ma anche scardinare in larga misura l’architettura della prima parte della Costituzione.
Il manifesto, 26 agosto 2014
Mentre il padre certificava alla storia il giudizio sulla sua prole, altrove si chiariva la vera posta in gioco. Nella riunione dei banchieri centrali a Jackson Hole il 22 agosto, si è discusso di mercato del lavoro. Draghi, per il quale Renzi ha espresso apprezzamento e condivisione, ha ribadito la sua pressante richiesta di riforme strutturali. Quali? In sintesi, la filosofia della riforma auspicata è questa: dalla crisi si esce rimettendo i diritti dei lavoratori al mercato. Ogni tutela è sinonimo di dannosa rigidità.
È ad esempio illuminante il passaggio del discorso nel quale Draghi traccia un parallelo tra Spagna e Irlanda. Quest’ultimo paese avrebbe meglio contrastato la crescita della disoccupazione consentendo - tra l’altro - una più ampia possibilità di comprimere i salari (in inglese elegante, downward wage adjustment) sin dal 2008. In breve, lavorare affamati. L’Italia possiamo vederla in trasparenza dietro la Spagna. Persino la Yellen, capo della Federal Reserve USA, sembra più attenta ai risvolti sociali, quando nello stesso simposio si chiede se la crisi non abbia prodotto danni strutturali sul mercato del lavoro, e indica nel sottoimpiego un elemento di perdurante rischio per l’economia statunitense.
Rimettere i diritti del lavoratore al mercato non significa solo cancellare di colpo più di un secolo di storia, ma anche scardinare in larga misura l’architettura della prima parte della Costituzione. Non spetta a Draghi e alla BCE verificare se, in che misura e con quali modalità un downward wage adjustment sia compatibile con gli artt. 35, 36 e 37 della Costituzione italiana. Né spetta a loro valutare quali effetti collaterali un indebolimento delle garanzie per il lavoro comporterebbe per il diritto di formare una famiglia, di avere dei figli, o una casa. O ancora per l’istruzione o la salute. Ma a chi fa politica in Italia spetta, eccome.
Preoccupano consensi e plausi acriticamente espressi. Soprattutto perché in prospettiva l’attacco alla parte I della Costituzione può non venire solo da qui. Non tanto per i rumors sulle pensioni, per i quali vogliamo al momento credere alle smentite governative, quanto per i venti di guerra che vengono dal Mediterraneo. Alfano comunica che riferirà in parlamento sul califfato Isis, ma che non dirà nulla di italiani che abbiano aderito alle formazioni armate, come è accaduto in GB. Forse si vuole prevenire un effetto di imitazione. Ma la formula utilizzata, mancando una smentita netta, fa pensare che italiani possono ben esservi. E rende realistico e attuale il timore di trovarci con il terrorismo in casa.
Se questo scenario dovesse consolidarsi, sarebbe facile prevedere nuove tensioni sulla prima parte della Costituzione. Non sui rapporti economici e sui nuovi diritti, tipicamente introdotti nelle costituzioni del secondo dopoguerra, ma su diritti e libertà che ritenevamo ormai definitivamente scritti nel costituzionalismo moderno dalla rivoluzione francese in poi, dalla libertà personale al diritto di difesa. Gli Stati Uniti ne hanno di recente fatto l’esperienza con il Patriot Act. E possiamo per noi ricordare – in forma minore – gli anni delle Brigate rosse.
Stiamo dunque vivendo una fase in cui si intravedono, in atto o in prospettiva, rischi per tutto il tessuto di libertà e diritti, vecchi e nuovi. Se ne può uscire in due modi: con più democrazia, o meno democrazia. E in questo possono trovare spiegazione riforme apparentemente insensate.
La storia dimostra che sono i parlamenti, e non i governi, a dare voce e vita ai diritti e alle libertà dei cittadini. Purché, ovviamente, siano rappresentativi. È questa loro peculiare natura che li legittima a tale compito, formalmente e sostanzialmente. Comprimere la rappresentatività del parlamento significa indebolire il primo difensore istituzionale di diritti e libertà. Ed ecco che, tra liste bloccate, camere non elettive, e dominanza degli esecutivi sui lavori parlamentari, il cerchio si chiude. È la risposta di chi vuole affrontare la crisi con meno democrazia. E non vale come smentita il richiamo di Calderoli al referendum sul modello svizzero, peraltro anche tecnicamente inesatto e comunque rinviato, quanto a condizioni ed effetti, a una successiva e diversa legge costituzionale (art. 71, u. co, testo aula).
Le crisi ci sono, e non possiamo ignorarle. Spetta alla sinistra – che vede contestata la sua stessa ragion d’essere - avanzare progetti alternativi, se ne ha. Il pericolo è la mancanza di idee più che l’arrogante giovanilismo di Renzi. Al costituzionalista spetta ribadire che il cuore di ogni costituzione è nelle libertà e nei diritti. Ad essi deve rimanere servente l’organizzazione dei poteri, e l’asse principale di ogni indirizzo politico. Questo non dovrebbe mai essere dimenticato dai governati, e in specie dai governanti. Diversamente, si può solo entrare di diritto nel club della concezione escrementizia delle istituzioni
l problema, come al solito, è adoperare ogni strumento in modo appropriato e adatto al bisogno che può soddisfare: come una spada non è un aratro, così un quotidiano non è una rivista, sfogliare un libro non è leggere una e-mail, una mailing list non è come un portale, facebook non è tweet.
Comune.info.net, 25 agosto 2014
Ignacio Ramonet (già direttore di Le Monde Diplomatique e autore di L’esplosione del giornalismo, Intramoenia e Democraziakmzero) afferma che internet ha avuto sul mondo dell’ informazione lo stesso effetto del meteorite che colpì la terra provocando l’estinzione dei dinosauri (la carta stampata) senza però essere compensata dalla speciazione di esseri viventi più evoluti.
I media digitali si diffondono grazie agli smartphone con cui siamo istantaneamente connessi, ma l’effetto è un frastuono che non migliora le relazioni umane. Uno dei tanti casi in cui quantità e qualità non coincidono. Il giornalismo di inchiesta sparisce mentre emergono nuove forme di accentramento e concentrazione attorno ai siti di vecchi e nuovi branddell’informazione: il NYT, The Guardian, Huffington Post, per dirne alcuni. Da noi, la solita Repubblica e il nuovo Fatto Quotidiano.
Eppure le potenzialità democratiche della rete sono enormi. Lo abbiamo visto da Seattle a Gezy Park, da Occupy Wall Street alle primavere arabe, dal partito dei pirati di Berlino a Podemos. Senza i “giornalisti di strada” del Centro Media di Genova non avremmo mai saputo del “massacro messicano” in corso alla Diaz nel 2001.
I social network creano reti includenti e interattive, conviviali, senza apparenti mediazioni. Producono linguaggi e appartenenze sociali. Aiutano l’organizzazione di campagne, eventi, mobilitazioni. La sitografia dell’autoproduzione comunitaria delle notizie (gratuita e senza editori) è vastissima. Ecco alcuni esempi random: comune-info.net, dirittiglobali.it, eddyburg.it, redattoresociale.it, lavoroculturale.org, cronachediordinariorazzismo.org, globalproject.info, dinamopress.it, sbilanciamoci.info, comedonchisciotte.org, articolo21.org, eco-magazine.info… oltre agli internazionali: zetanet.com, rebellion.co.uk, diagonalperiodico.net. Ma nel mondo delle buone pratiche resistono anche baluardi di carta come Altreconomia e Aam Terra Nuova e una galassia di periodici locali come Altrapagina in Umbria. Marco Geronimi Stoll ha scritto un manuale, Smarketing (edizioni Altreconomia), per consigliare ai “partigiani della comunicazione” (piccole Ong, comitati, associazioni, ecc.) come essere se stessi per bene comunicare usando canali ecologici, economici, etici.
L'irresponsabile cecità delle politiche del Primo mondo hanno condotto all'attuale trionfo della barbarie. Ma «se non si vuole ricadere in una strategia che combatte la ferocia con altra ferocia converrà abbandonare per i seguaci e le milizie del califfato l’abusata categoria di "terrorismo"». Il manifesto, 24 agosto 2014
Gli esponenti del M5S sembrano possedere un talento, quasi innato, nel ridurre a sciocchezza anche il più serio dei problemi. La vecchia retorica del “pane al pane e vino al vino” finisce col sacrificare la chiarezza a quella banalità rozza e scurrile che spiana la strada alla peggior propaganda “occidentalista”, e all’interessata incomprensione delle scelte politiche e strategiche che hanno condotto il Vicino Oriente all’attuale disastro. Eppure, qualche elemento abbastanza chiaro poteva essere messo in campo per cominciare a ragionare con la testa.
La situazione è imbarazzante. L’Occidente si trova a dover ricorrere a quanti fino a ieri figuravano tra le peggiori canaglie, il siriano Assad o l’Iran quasi atomico degli ayatollah per far fronte all’ultimissimo “nemico pubblico n 1″. Il risiko continua e tira in ballo i kurdi, che certamente navigano su un mare di petrolio e brigano per la propria indipendenza, ma sono pur sempre in prima linea e si sono fatti le ossa contro una lunga storia di oppressione che li preserva da incombenti rischi di oscurantismo, rendendoli interlocutori non solo dell’Occidente ma, forse, anche di una più generale e condivisa razionalità politica.
Tuttavia, se non si vuole ricadere in una strategia che combatte la ferocia con altra ferocia converrà abbandonare per i seguaci e le milizie del califfato l’abusata categoria di “terrorismo”. Quella sulla base della quale tutti i regimi dittatoriali, come la Siria di Assad, l’Iran o l’Egitto dei generali, perseguitano e massacrano i propri oppositori e l’Occidente si sottrae alle stesse regole e ai limiti di legittimità che pure si è dato. L’Isis, aldilà dai metodi terrorifici che impiega, non ha nulla in comune con una formazione terroristica. Si tratta di uno stato, o embrione di stato, che dispone di un governo e di un esercito ben organizzato, che controlla un territorio e che l’attuale fase espansiva preserva, almeno per il momento, da conflitti e contraddizioni interne, esercitando una formidabile attrattiva sulla grande massa dei “perdenti”. Un embrione di stato che dispone di relazioni internazionali e alleanze, a cominciare dalle petromonarchie del golfo, il cui torbido ruolo è circondato, come del resto le politiche assolutistiche che le governano, dal più assoluto silenzio degli Stati uniti. Un’entità quale il califfato di Al-Baghdadi non può che essere oggetto di una guerra convenzionale, nel rispetto di quello ius in bello, che l’ideologia e la pratica dell’ “antiterrorismo” hanno invece di fatto accantonato. Piaccia o non piaccia, la guerra è in pieno svolgimento ed è con questo che bisogna confrontarsi, senza cullarsi nella speranza di iniziative diplomatiche del tutto al di fuori dall’orizzonte presente. Senza perdere però la consapevolezza che l’intervento dell’Occidente in quell’area non ha prodotto fino ad oggi che una escalation della violenza e una destabilizzazione senza rimedio. Armi ai curdi? Finché le potenze sunnite del Golfo continueranno ad armare l’Isis forse è un’opzione non irragionevole. Altrimenti gli Usa dovrebbero costringere, con le buone o con le cattive, i sauditi e gli emiri a tagliare quel canale di rifornimento. In fondo il dottor Frankenstein ce lo dovrebbe questo tardivo atto di riparazione.
«Dalla crisi europea si può uscire trasformando la coscienza dei propri limiti in coscienza consapevole, non frammentaria e indistinta ma nitida, sintetica, meticolosamente attenta alla realtà dei fatti e agli effetti che su di essa hanno dottrine economiche ormai fossilizzate».
La Stampa, 23 agosto 2014
Caro direttore, poco più di un mese e mezzo di lavori al Parlamento europeo sono un tempo breve, se si vogliono conoscere sino in fondo i meccanismi di funzionamento dell’Unione e soprattutto se si prova a immaginare quale possa essere la via per uscire – con una visione che sia operosa oltre che intellettualmente precisa – dallo stato di prostrazione, di apatia, di regressione nazionalista in cui versa oggi il progetto di unificazione. Ma fin da ora alcune cose importanti si possono dire.
Primo: come dalla malinconia – e qui è in questione la speciale malinconia che paralizza l’Europa – non si può uscire che dall’alto, cioè facendo nascere dall’umor nero nuova sapienza e conoscenza, anche dalla crisi europea si può uscire trasformando la coscienza dei propri limiti in coscienza non inconsapevole ma consapevole, non frammentaria e indistinta ma nitida, sintetica, meticolosamente attenta alla realtà dei fatti e agli effetti che su di essa hanno dottrine economiche ormai fossilizzate. Questo intendevano Marx e Engels, quando denunciavano la «falsa coscienza» di chi ignora le «vere forze motrici» degli avvenimenti storici, e al loro posto «immagina forze motrici apparenti o false, nate da un processo puramente intellettuale» che presto degenera in ideologia avendo perso il rapporto con la realtà.
La seconda cosa che l’apprendista eurodeputato apprende quasi subito, operando nell’istituzione più democratica dell’Unione, è il potere effettivo che il Parlamento detiene: molto più vasto e determinante di quanto credano tanti politici, osservatori, e anche elettori. Una delle idee più diffuse ad esempio è che il Parlamento europeo sia una costosissima e inutile macchina. Dispendiosa certo lo è, non fosse altro per l’assurda sua doppia sede a Bruxelles e a Strasburgo. Ma inutile non lo è per niente. Non lo era neppure nel ‘79, quando per la prima volta l’assemblea fu eletta a suffragio universale ma restava un organo solo consultivo. Oggi i suoi poteri sono molto ampli, anche se pochi lo sanno, oppure lo sanno e lo nascondono a se stessi e ai cittadini. Nel corso degli ultimi decenni i parlamentari hanno acquisito poteri legislativi veri, anche se manca, al momento, un’autentica agorà europea che li faccia conoscere ai cittadini e dia loro il senso che lì si parla di loro e delle loro vite.
Il terzo insegnamento discende dal secondo, e non è affatto lusinghiero per i deputati europei. Le maggioranze parlamentari che si formano a Bruxelles conoscono perfettamente i propri poteri, ma il più delle volte semplicemente non li usano, e ben di rado ne reclamano di nuovi. I fatti parlano chiaro: il Parlamento ha mancato di esercitare il proprio controllo sulla trojka, sul Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF), sul Meccanismo europeo di stabilità (ESM). Rischia di mancare il controllo anche sull’unione bancaria. Ha protestato per pochi mesi sulla diminuzione delle risorse proprie dell’Unione, per poi ricadere nel silenzio. Non ha alzato la voce contro politiche di austerità che hanno messo in ginocchio paesi come la Grecia, né ha combattuto il Patto di bilancio (fiscal compact) approvato il 2 marzo 2012 da 25 stati membri. Non ha inarcato neanche il sopracciglio, quando nel dicembre 2012 Van Rompuy presentò il rapporto «dei quattro Presidenti» sul futuro dell’unione economica (Banca centrale, Commissione, Consiglio europeo, Eurogruppo). Scandalosa l’esclusione supinamente accettata dal quinto personaggio: il presidente del Parlamento europeo. Le stesse parole pronunciate il 7 agosto da Mario Draghi (“è giunto il tempo di cedere la sovranità a livello europeo anche per quanto riguarda le riforme strutturali») sono state accolte con muta deferenza. Eppure una replica era possibile, e indispensabile: «Cedere la sovranità verso chi, caro Presidente della Banca centrale? verso quale governo europeo federale e democraticamente legittimato?».
Quarto punto: oggi si tratta di metter fine, e con un gesto volitivo forte, alla falsa coscienza che affligge tanti eurodeputati, di destra come di sinistra. L’idea che questi ultimi si fanno del futuro della propria istituzione è al tempo stesso attendista, remissiva, e del tutto infruttuosa. Sono molti i poteri che il Parlamento deve ancora conquistarsi (a cominciare dal potere impositivo, poiché se è vera la massima «no taxation without representation», è altrettanto vero che «no representation without taxation»), ma questi progressi il Parlamento aspetta che siano gli Stati-nazione e il Consiglio dei ministri a concederli di buona grazia e spontaneamente.
Non lo faranno mai, e dunque dai governi c’è poco da aspettarsi: non si trasformeranno mai in tacchini alla vigilia di Natale. Spetta al Parlamento conquistarsi i poteri di cui ha bisogno per estendere la democrazia europea, e il prestigio presso i cittadini che possiede solo in parte. Per frenare il ritorno dei nazionalismi, e realizzare il sogno di Willy Brandt trasformandosi in una assemblea costituente permanente.
«Comuni sono oggetto delle brame di chi governa la spending review perché i sevizi locali sono obiettivo di un saccheggio messo in moto da un capitalismo non più in grado di garantire margini adeguati con l’investimento nell’industria». Il manifesto, 23 agosto 2014
Senza soluzione di continuitànel passaggio da Tremonti a Bondi e da Cottarelli a Gutgeld, e da Prodi eBerlusconi a Monti e da Letta a Renzi, la sta planando come unavvoltoio su coloro che ne potrebbero essere i protagonisti, perché sono gliunici a sapere come stanno veramente le cose, e che invece ne sono le vittime: idipendenti delle amministrazioni pubbliche. L’obiettivo più immediato sono iComuni, con i quali si va a colpire la democrazia nel suo punto più vitale maanche più esposto. Vitale perché i Comuni incarnano la tradizione europea dell’autogovernodemocratico a base associativa; perché i Comuni e le loro aggregazionirappresentano la democrazia di prossimità e il possibile punto di applicazionedi una democrazia partecipata; perché i Comuni sono tuttora i responsabili deiservizi pubblici locali, cioè di ciò che più direttamente condiziona losvolgimento della nostra vita quotidiana.
Innanzitutto perché si tratta di un soluzione societaria incostituzionale e contraria alla normativa europea: gli affidamenti diretti non dovrebbero mai riguardare società di diritto privato che per loro natura perseguono il profitto, come le Spa. In secondo luogo, perché queste Spa sono state finora (le cose dovrebbero cambiare dal prossimo anno) una soluzione per collocare fuori bilancio costi e introiti di servizi che rientrano a pieno titolo nel conto del dare e avere dell’Ente che li controlla: infatti più di un terzo di quelle società censite sono in perdita permanente. In terzo luogo, perché grazie a questo meccanismo le Spa promosse dagli Enti locali (ma anche quelle promosse dagli Enti centrali) si sono moltiplicate per gemmazione: Spa create e controllate da altre Spa di origine pubblica, che ne svolgono una parte dei compiti in una catena di “esternalizzazioni” sempre più lunga; ma anche Spa preposte a funzioni lontane dai compiti istituzionali di chi le ha create. Cottarelli ne ha censite 10mila, ma secondo Ivan Cecconi, il massimo esperto italiano di questo obbrobrio, potrebbero essere oltre 20mila. In quarto luogo perché queste Spa sono un meccanismo corruttivo: assunzioni clientelari (né più né meno di quanto venga spesso imposto ai vincitori di appalti conquistati attraverso gare truccate: il clientelismo prospera non perché il gestore è pubblico, ma perché la mancanza di trasparenza sottrae gli affidamenti al controllo dei cittadini), gerarchia gestionale e consigli di amministrazione scelti tra il personale politico. Questo spiega l’attaccamento di alcuni partiti a Giunte le cui decisioni contraddicono frontalmente gli impegni assunti con i loro elettori contro privatizzazioni, consumo di suolo o proliferazione di società, incarichi e consulenze. E’ un meccanismo di consolidamento del ceto politico che spesso tiene in vita partiti che non avrebbero altra ragione di esistere.
Ma la spending review non si propone certo di “fare pulizia” in questo ginepraio, bensì di mettere i Comuni con le spalle al muro per costringerli a svendere ai privati (dietro a cui ci sono sempre più spesso banche e alta finanza) tutti i servizi pubblici, insieme a beni comuni di cui sono ancora in possesso. Saranno poi i privati a recuperare con speculazioni e aumenti delle tariffe i costi del servizio – ma anche i “margini” (cioè i loro profitti) - che i Comuni non sono in grado di coprire perché i trasferimenti dallo Stato si sono prosciugati e temono l’impopolarità se ad aumentare le tariffe fossero loro. Ma privatizzare i servizi pubblici locali e consegnarli a una finanza sempre più lontana dalla popolazione di riferimento vuol dire privare i Comuni della loro ragion d’essere e trasformarli in enti inutili, fatti solo per allevare e selezionare i membri della casta; una democrazia priva di autonomie locali non è più tale e i sindaci che accettano di ridursi a estrattori di risorse dai loro concittadini, senza alcuna restituzione, si tagliano l’erba sotto i piedi.
Ci sono alternative a questa spirale? Sì. Innanzitutto in statuti comunali che dichiarino i servizi pubblici locali attività di interesse generale (e non commerciale). Poi nella trasformazione delle Spa in “aziende speciali”, per farli rientrare nel perimetro della Pubblica Amministrazione. A Napoli la trasformazione dell’Arin in ABC (Acqua Bene Comune) sembrava offrire un modello a questa transizione. Ma le ultime vicende dello statuto di ABC mostrano che senza una mobilitazione di massa e un fronte di “Comuni per i bani comuni”, tante volte promesso e mai realizzato, una transizione del genere rischia il soffocamento per il prevalere degli interessi dei partiti. Ma – si dice – ripubblicizzare le Spa non si può perché non c’è il denaro per riscattarne le azioni dai privati; ma il loro valore è legato a contratti di servizio fondati sull’affidamento in-house. Rivedere quei contratti introducendo condizioni più stringenti può privarle di gran parte del loro valore e persino rendere conveniente restituire le aziende ai Comuni.
In ogni caso, il solo fatto di mettere in campo progetti di conversione ecologica, di promozione dell’occupazione, di recupero di aziende altrimenti condannate alla chiusura può dare credibilità e basi solide a una contestazione radicale sia del patto di stabilità interna (quello che blocca la possibilità di investire per i Comuni), sia del patto di stabilità esterno (il fiscal compact) attraverso cui la finanza internazionale controlla, per il tramite della Commissione europea e della BCE, i governi e le politiche economiche degli Stati dell’Unione Europea, soffocandole. La conversione ecologica è un processo necessariamente decentrato, diffuso, differenziato, distribuito, capillare, che non può essere portato avanti senza il coinvolgimento della cittadinanza e dei governi locali; e per questo democratico. Affidarla alla grande impresa (l’essenza di quello che chiamiamo green economy), come è stato fatto in Italia e altrove con le energie rinnovabili, è stato solo un modo per trasferire risorse da chi paga le bollette (tutti noi) a chi incassa gli incentivi (per l’80 per cento, grandi investitori finanziari, per lo più anche estranei al settore energetico). Viceversa, nella generazione energetica, nell’efficientamento di edifici e aziende, nella gestione dei rifiuti, nel trasporto locale, nel servizio idrico integrato, le autorità locali, con il coinvolgimento della cittadinanza attiva, possono da un lato promuovere sistemi sostenibili di governo della domanda, dall’altro offrire sbocchi di mercato alla riconversione di aziende in crisi, eventualmente con soluzioni societarie e associative tra cittadini-utenti destinatari del servizio, aziende che lo erogano, governi locali e imprese fornitrici degli impianti, delle attrezzature e dei materiali necessari al soddisfacimento della nuova domanda. Lo stesso vale per tutti quei servizi che rientrano nella vasta gamma del welfare municipale: nidi, scuole materne ed elementari, assistenza agli anziani e alle persone svantaggiate, integrazione degli stranieri, formazione, ecc. Anch’essi sono sottoposti, con la spending review, a un processo di privatizzazione attraverso l’esternalizzazione delle prestazioni lavorative con cooperative sempre più legate a strutture finanziarie di comando che “trattano” con le amministrazioni locali per conto di tutte. E anche in questo campo occorre ricostruire un processo democratico a partire dalla partecipazione alla loro gestione.
«La globalizzazione ha fatto retrocedere alcune regioni a condizioni di anarchia non molto dissimili da quelle descritte dal filosofo Hobbes, quando descriveva la vita nello stato di natura come brutale e breve a causa dell’anarchia in l’uomo era costretto a vivere».
Il Fatto quotidiano, 22 agosto 2014
I diversi conflitti in atto in varie regioni del globo non sono gestiti da Stati sovrani ma da signori della guerra, terroristi e mercenari che puntano alla conquista del potere. Diverso il caso dell'Isis: il Califfato diffonde le immagini di un esercito regolare, ben diverso dalle bande armate di al Qaeda o Boko Haram, che combatte utilizzando armi modernissime, e vuole costruire una nuova nazione. Ma tutti i fronti aperti hanno un comune denominatore: l'impoverimento delle popolazioni
La terza guerra mondiale assomiglia ad una nebulosa di conflitti che ricordano quelli dell’era pre-moderna, gestiti non da stati sovrani ma dai signori della guerra, dai terroristi e dai mercenari, il cui scopo ultimo è la conquista del potere per sfruttare popolazione e risorse naturali. Dalla Nigeria alla Siria, dal Sahel fino all’Afghanistan, vittima delle nuove guerre è la popolazione civile. In Nigeria, secondo le stime di Amnesty International, negli ultimi 12 mesi sono morte 4 mila persone, principalmente civili, a seguito degli attacchi di Boko Haram e dell’esercito nigeriano. Simili statistiche si riscontrano ai confini dell’Europa Unita. Secondo le Nazioni Unite dall’aprile di quest’anno nel conflitto tra i separatisti pro-russi e l’esercito nazionale ucraino sono deceduti 1.129 civili, una stima che a detta di molti è decisamente bassa.
Guerre pre-moderne, dunque, nell’era tecnologica, un binomio micidiale che centuplica i rischi per la popolazione civile. Esempio eclatante è l’abbattimento “per errore” di un areo di linea dell’Air Malesia mentre sorvolava l’Ucraina dell’est a 33 mila piedi d’altezza. Scomparse sono le trincee, i campi di battaglia ed anche le regole internazionali che codificano il comportamento degli eserciti regolari.
Il processo di degenerazione dello stato è dunque la causa principale del carattere pre-moderno dei conflitti odierni, un fenomeno sempre legato a ragioni economiche, e cioè all’impoverimento della popolazione, che de-modernizza la società. Durante il decennio di sanzioni economiche, l’Iraq è passato dalla nazione con la più alta scolarità nel mondo arabo ad uno stato dove le donne non avevano il diritto al lavoro. Il processo di islamizzazione è andato di pari passo a quello di impoverimento.
La globalizzazione ha portato benessere in alcune regioni, come la Cina o il Brasile, e povertà in tante altre, ad esempio il Medio Oriente e l’Africa. La crisi alimentare in alcune regioni dell’Africa, in parte legata ai cambiamenti climatici ed in parte alla corsa dei paesi ricchi per accaparrarsi le risorse alimentari di quel continente, ha diffuso l’insicurezza e fomentato i conflitti armati a carattere religioso ed etnico. Nel Mali separatisti Tuareg e varie fazioni islamiche lottano tra di loro e contro il governo; nella Repubblica Centrale Africana milizie cristiane e mussulmane sono coinvolte in una guerra sanguinaria, che rischia di diventare un genocidio; nel Maghreb al Qaeda è attiva in quasi tutti gli stati.
A rendere omogenea la nebulosa bellica è la violenza, sempre brutale come quella dell’età pre-moderna. Ultimo esempio l’uccisione del giornalista americano James Foley da parte dello Stato Islamico, il cui video ha fatto il giro del mondo sulle ali dei social media. Ma è un errore inserire la guerra di conquista del Califfato Islamico nella categoria dei conflitti pre-moderni qui sopra descritti. Lo Stato Islamico rappresenta una nuova, pericolosa mutazione perché a differenza degli altri gruppi il suo scopo è impadronirsi di risorse strategiche, dai pozzi di petrolio alle dighe, per costruire una nuova nazione, la versione moderna dell’antico Califfato. L’obiettivo e’, dunque, infinitamente piu’ ambizioso.
La sua sofisticata propaganda è impegnata a promuove l’immagine di uno stato legittimato dalla popolazione mussulmana non solo al suo interno ma anche straniera; Abu Bakr al Baghdadi non si presenta come un signore della guerra ma come il nuovo Califfo, discendente del profeta Mohammed. Il Califfato diffonde le immagini di un esercito regolare, ben diverso dalle bande armate di al Qaeda o Boko Haram, un esercito che combatte battaglie sul campo utilizzando armi modernissime, per la maggior parte americane e russe, rubate rispettivamente all’esercito iracheno ed a quello siriano. Sebbene impegnato nella pulizia settaria-religiosa il Califfato è ecumenico ed offre a chiunque la possibilità di convertirsi al salafismo sunnita e diventarne cosi’ un suddito. Lo Stato Islamico minaccia non solo i regimi medio orientali ma il concetto fondamentale dello stato moderno che poggia, a differenza di quello pre-moderno, non sulla sottomissione ma sul consenso di chi ne fa parte. Una sua vittoria sarebbe devastante per il mondo intero.
Dall’inchiesta di
Repubblica due articoli lanciano l'allarme sul forte rischio di chiusura di due strumenti (Archivio Centrale dello Stato e Biblioteca Nazionale) unici, per chi non sia così folle da pensare che la storia abbia meno importanza degli inutili interventi per Grandi Opere, o delle anticostituzionali spese militari. La Repubblica online, 20 agosto 2014
UN TAGLIO ALLA STORIA
E' un grido d'allarme. Un urlo, quasi disperato, per evitare la scomparsa della nostra memoria collettiva. Quella costruita in decenni sulla base di documenti che raccontano l'Italia. Un colpo di grazia alla sopravvivenza dell'Archivio Centrale dello Stato. Per il sovrintendente Agostino Attanasio non c'è dubbio: con questo ennesimo taglio ai fondi della cultura è la nostra storia, la nostra cultura come uomini e come Paese, che rischia di scomparire. Una mole imponente di documenti spesso rari e preziosi, come gli originali dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci o le carte sul sequestro Moro, che testimoniano il percorso fatto dall'Italia dall'unità ad oggi.
"L'Archivio Centrale dello Stato", spiega il responsabile della struttura, "ha un fabbisogno minimo, quello che i ragionieri chiamano spese incomprimibili: 800mila euro all'anno. Con quella cifra possiamo sopravvivere, fare le operazioni correnti. Nient'altro che il semplice ordinario. Nel 2013, invece, abbiamo ricevuto 650.000 euro, esattamente la metà dei fondi che avevamo avuto nel 2012". I conti sono semplici e il risultato è drastico."Finora", insiste il sovrintendente Attanasio, "siamo sopravvissuti a questi tagli perché siamo stati pessimisti verso il futuro: abbiamo gestito all'insegna del risparmio, lasciando dei fondi a disposizione perché temevamo di andare incontro a periodi poco felici. Ma a partire dal prossimo anno, se la situazione non cambierà in modo radicale, l'Archivio Centrale dello Stato chiuderà. Già quest'anno non sarà semplice fare il bilancio".
Con i suoi 120 chilometri di scaffali e una media di 36mila pezzi movimentati all'anno, l'Archivio Centrale dello Stato rappresenta da oltre mezzo secolo la memoria storica e documentaria del nostro paese, il punto di riferimento obbligato per ogni tipo di ricerca sull'Italia unitaria. Fu istituito nel 1953 ma l'esigenza della nascita di un grande istituto archivistico di livello nazionale si era posta già nel 1943, all'indomani del 25 luglio, quando si comprese di dover garantire la sopravvivenza degli archivi fascisti per il loro valore di fonti storiche.
Sin dall'inizio, prima ancora della sua apertura, si pose però uno dei grossi problemi strutturali dell'Archivio Centrale: i depositi. La sede fu progettata nell'ambito dei lavori per l'E42, quello che oggi conosciamo come Eur, ma la guerra non permise di terminare tutti gli edifici. Il primo sovrintendente, Armando Lodolini, propose al ministero dell'Interno di svolgere i lavori di adeguamento dell'edificio non ancora terminato in modo da renderlo idoneo a ospitare un istituto che avrebbe dovuto poi conservare masse notevoli di documentazione. Il ministero, tuttavia, non accettò questa proposta: "Il risultato", lamenta Attanasio, "è una sede molto prestigiosa, adeguatissima per quello che riguarda gli spazi pubblici, la sala studio, la sala convegni e gli uffici, ma del tutto inidonea per la conservazione dei depositi archivistici. Su 120 chilometri di scaffalature che conserviamo", osserva ancora il sovrintendente, "direi che al massimo 40 chilometri sono in una condizione idonea. Nel nostro edificio laterale, per esempio, ci sono delle vetrate enormi per cui d'estate fa molto caldo e d'inverno molto freddo: una realtà opposta a quelle che dovrebbero essere le condizioni per una corretta conservazione degli archivi. Potremmo creare un condizionamento ambientale, ma già oggi spendiamo 200.000 euro di energia elettrica. La prospettiva fattibile, quella da perseguire, è immaginare dei depositi funzionali, moderni ed economici".
Per questo motivo il sovrintendente Attanasio sponsorizza l'idea del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo di trasferire una parte abbastanza consistente di documentazione in un deposito a Pomezia e trasformare quest'ala in un Polo Museale. "Ci saranno ovviamente delle spese a carico del ministero per i lavori di ristrutturazione - dice Attanasio - ma l'ACS risparmierebbe almeno un milione di euro". Sorgerebbe però il problema dell'accessibilità della documentazione trasferita a Pomezia, che per essere consultata dovrebbe essere riportata ogni volta nella sede dell'Eur con un servizio di navetta. "Purtroppo", commenta con una punta di amarezza il sovrintendente, "dobbiamo fare i conti con la realtà in cui viviamo. In un Paese dove fosse davvero possibile fare le cose in modo organico, serio e con prospettive ampie e ambiziose, lo Stato ragionerebbe in modo diverso. Avremmo potuto fare come a Barcellona o a Londra: costruire in una periferia romana una sede davvero avanzata e funzionale. Avremmo potuto e dovuto fare questo, ma queste cose si decidono a livello politico e richiedono una visione d'insieme più ampia di quella che c'è stata in Italia in questi anni. Considerando tutto ciò la soluzione di Pomezia è la migliore possibile. L'accessibilità alla documentazione sarà garantita da un servizio navetta serio ed efficiente che pagheremo con le economie che facciamo sull'affitto. In questo modo noi possiamo garantire un servizio nettamente migliore di quello che c'è adesso sia sul piano della conservazione dei documenti sia sul piano dell'offerta che garantiamo agli studiosi".
Il problema dello spazio diventerà ancora più pressante quando verrà attuata la direttiva Renzi che dispone la declassificazione degli atti relativi alle stragi di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, stazione di Bologna e rapido 904 finora coperti dal segreto di Stato. Già in autunno l'Archivio centrale dello Stato riceverà le prime carte e si porrà un problema di collocazione per la loro conservazione e la loro sicurezza perché alcuni documenti contengono dati sensibili che non possono essere messi in consultazione. "Stiamo ancora definendo le procedure, ma credo che il metodo sarà lo stesso che abbiamo usato con il versamento Moro: alcuni nomi e dati che appartengono alla realtà attuale verranno obliterati perché non possono essere consultati", dice Attanasio. I segreti di Stato saranno solo gli ultimi acquisti.
Nei faldoni conservati all'Archivio Centrale dello Stato si trova di tutto, anche soldi: nel fascicolo 89/A della Polizia Politica relativo a Michele Schirru, un anarchico fucilato dal regime fascista per l'intenzione di uccidere Benito Mussolini, c'è ad esempio - in perfetto stato di conservazione - un assegno di duemila lire del Crédit Lyonnais datato 3 febbraio 1931 che fu sequestrato a Schirru.
L'assegno e milioni di altre carte sono custodite in grossi faldoni, chiamati buste: fino a qualche anno fa ogni studioso poteva consultare un totale di 16 buste al giorno distribuite in 4 turni. Negli ultimi anni il personale è diminuito costantemente. Ma non è stato sostituito con nuovi ingressi. E' venuto così a mancare anche qui quel ricambio generazionale che ha più dimestichezza con le nuove tecnologiee potrebbe avere un impatto più produttivo con le realtà esterne: studiosi, storici, giornalisti, semplici cittadini animati dal desiderio di consultare concretamente la documentazione raccolta attorno a singoli episodi e su questi costruirsi un giudizio oggettivo. Appunto, storico. La carenza di personale ha avuto riflessi sull'organizzazione del lavoro. I turni giornalieri sono diventati 2 e le buste consultabili solo 6. "Da parte nostra", si difende il sovrintendente, "abbiamo fatto ciò che era possibile fare. Sul piano della digitalizzazione ci sono stati notevoli progressi. Puntiamo a rendere tutti i 1500 inventari presenti in sala studio consultabili online. Finora ne abbiamo 120 e altri 350 circa sono in attesa di convalida. Per settembre avremo a disposizione sulla rete tutto il fondo della segreteria particolare del duce".
Negli ultimi vent'anni i filoni di ricerca che hanno interessato l'archivio sono diventati molto più eterogenei: se prima si andava a fare una semplice ricerca storica ora si compiono anche studi amministrativi e ricerche per il restauro. È una documentazione importante. Essenziale per capire la nostra storia e il nostro paese. Non solo per gli specialisti, ma per tutti noi.
A RISCHIO ANCHE LA BIBLIOTECA NAZIONALE
La Biblioteca di Castro Pretorio è un palazzo con dieci piani di magazzini, dodici sale di lettura e sette milioni di unità bibliografiche. Un patrimonio documentale di inestimabile valore artistico, storico e sociale che ha reso la Nazionale un punto di riferimento per studenti, ricercatori, storici, appassionati e turisti. "In ogni Paese civile del mondo la Biblioteca Nazionale è l'emblema della nazione", osserva ancora il direttore. "In Francia riveste un'importanza legata all'identità di un paese, la British Library in Inghilterra è conservata come un piccolo gioiello, gli Stati Uniti ne fanno un vanto. Qui in Italia, rappresentiamo un peso, un vero fastidio. Nessuno si preoccupa di questa istituzione se non a parole".
A causa della penuria di risorse che da sempre tormenta il sistema culturale italiano, la Biblioteca Nazionale di Roma ha subito nel corso degli anni costanti tagli al budget, ai quali si sono accompagnate decurtazioni dei servizi e degli orari. Intanto, il personale. Secondo la pianta organica la Biblioteca dovrebbe poter contare su almeno 108 custodi: oggi ce ne sono appena 37. Cosa vuol dire questo in termini di fruizione del servizio che l'ente offre? "È evidente che si lavora lo stesso, ma c'è un solo custode che deve lavorare per due. Niente pause, impegno gravoso, orari più lunghi. I risultati ne risentono. Chi studia o fa ricerca alla fine ottiene il servizio. Ma a pessime condizioni: se prima il libro chiesto si otteneva dopo mezz'ora ora ci vuole un'ora".
"Il fatto che la Biblioteca non abbia ancora chiuso i battenti non significa che funzioni bene con 207 unità. Abbiamo dovuto rinunciare alla distribuzione pomeridiana dei libri; il nostro orgoglio era la catalogazione, eravamo riusciti ad aggionarci dopo un lungo impegno personale: i nuovi libri venivano catalogati e messi a disposizione degli studiosi man mano che arrivavano, ma questo allineamento sarà durato sei mesi. Il personale va in pensione, non c'è ricambio, e il sistema si disallinea".
L'età media dei dipendenti di Castro Pretorio, del resto, si aggira intorno ai 57 anni. L'ultimo concorso rilevante di bibliotecari risale al 1984. "La colpa sostengono sia la crisi economica - commenta il direttore - Sarà anche vero. Non lo dubito. Ma come in tutte le crisi si deve anche compiere delle scelte: se si continua in questo modo tra cinque anni questo istituto chiude. Anzi. Potrebbe accadere prima. Per motivi anagrafici". Eppure le soluzioni per evitare l'impensabile esistono. "Bisogna avere la volontà politica di trovarle e adattarle - spiega ancora Avallone - Io mi auguro solo che cesserà questa politica dei tagli indiscriminati. Si colpisce un po' ovunque per risparmiare. La Cultura è un bene imprescindibile. Rappresenta la nostra identità. Mai come in questo momento c'è bisogno di tutelarla. Con politiche di assunzione e di formazione del personale mirata".
C'è chi spera ancora nel cambiamento di Matteo Renzi: scriveLaura Pennacchi nell'intervista a Massimo Franchi: «Dopo le europee Renzi aveva parlato della necessità di un piano keynesiano. Ora può benissimo farlo, invece di raccattare quattro spicci dai soliti noti. I referendum possono essere un primo passo».
Il manifesto, 20 agosto 2014
«Renzi dopo il successo alle europee parlò di piano keynesiano. Dobbiamo dargli credito, facendogli però notare tutte le incoerenze del suo agire. Con l’Europa invece bisogna proprio cambiare strada, le cose stanno andando così male e cambiando così in fretta che una svolta nel modello di sviluppo è tutt’altro che un’utopia e i referendum contro l’austerità possono essere il primo passo». Laura Pennacchi, responsabile del Forum economia della Cgil, sottosegretaria al Tesoro con Prodi, riflette con «ottimismo» sulle indiscrezioni sulla manovra che arriverà in contemporanea con la scadenza della raccolta delle 500mila firme per modificare le norme italiane su Fiscal compact e pareggio di bilancio.
Nei tanti piani che ad agosto si affibbiano al governo spunta un contributo di solidarietà per le pensioni più alte. Come lo giudica?
Potrebbe essere un’idea giusta se si applicasse l’indirizzo che suggerì la Corte quando dichiarò incostituzionali provvedimenti simili dei governi Berlusconi e Monti: il prelievo deve essere su tutti i redditi, non solo su quelli da pensione. Se si decidesse di chiedere un contributo di solidarietà progressivo che colpisse anche i redditi scandalosi dei manager pubblici e privati si potrebbe ottenere una cifra cospicua da utilizzare per ridurre la disuguaglianza, che vede il nostro Paese al secondo posto nell’indice internazionale che la misura, dietro solo agli Stati Uniti.
Il governo pare invece voler utilizzare i proventi delle sole pensioni e mira a colpire soprattutto coloro che hanno un assegno calcolato col metodo retributivo, ormai considerati da tutti dei privilegiati.
Indubbiamente c’è una differenza forte tra chi è andato in pensione col retributivo e chi ci va ora. Ma una misura del genere colpirebbe soprattutto i lavoratori autonomi che fino al 1990 pagavano solo il 10% dei contributi: il ricalcolo porterebbe a tagli stratosferici dei loro assegni. Per la finalità dei proventi del contributo di solidarietà invece io propendo per investimenti pubblici che creino lavoro, la vera emergenza. Quando presentammo i referendum alla Camera, un sondaggio condotto da Nicola Piepoli mostrò come il 70% degli italiani era disposto a un contributo di solidarietà da mille a 5 mila euro se fosse servito per dare lavoro ai giovani. Per questo dico che avendo un’ambizione quasi rivoluzionaria il governo dovrebbe percorrere questa strada e non raccattare quattro spicci dai soliti noti colpendo le pensioni medie.
Quale sarebbe una soglia accettabile per questo contributo?
I 90mila euro annui sono pari a 3.500 al mese, un livello accettabile per iniziare a discutere, soprattutto perché sarebbe un intervento progressivo che colpirebbe i più ricchi.
Lei crede che Matteo Renzi abbia la forza politica per portare avanti un piano del genere? Alfano non griderebbe alla “patrimoniale”?
Non si tratterebbe di una patrimoniale, ma di un contributo di solidarietà. La Corte costituzionale lo ha quasi auspicato nelle motivazioni della sentenza. Dopo il successo alle europee Renzi ha parlato di necessità di “un intervento keynesiano” e quindi penso che potrebbe benissimo farlo. Anzi, dobbiamo spronarlo. Contestandolo però duramente quando ad esempio non rilancia la politica industriale puntando solo sulle privatizzazioni.
In parallelo poi il governo pare trattare con la nuova Commissione europea margini sul rientro dal deficit. Potrà bastare per avere una Legge di stabilità non recessiva?
C’è ben altro da mettere in gioco con la Commissione rispetto alle piccole modifiche dei parametri. Ma le cose stanno andando così male — l’intera area Euro è in stagnazione con una crescita nel 2014 stimata sotto l’1% — e stanno cambiando così velocemente — anche la locomotiva Germania è in obiettiva difficoltà — che ci sono tutte le condizioni per mettere in soffitta il fallimento delle politiche ottuse e miopi di austerità e rilanciare l’intervento pubblico. Partendo, come hanno chiesto prima Visco e poi Draghi, dagli investimenti per l’occupazione: c’è un enorme liquidità che non si tramuta in investimenti. Un risultato che possono raggiungere solo le istituzioni pubbliche usando la leva pubblica. Serve una rivoluzione culturale e per questo i nostri referendum possono essere un punto di svolta, a partire dal raggiungimento delle 500mila firme entro settembre.
Sembra ottimista sul futuro economico del continente…
Dobbiamo essere ottimisti, la situazione è tale da darci possibilità infinite di cambiamento. Karl Polany era spietato nel descrivere i problemi del capitalismo, ma non meno speranzoso di poterlo cambiare.
A proposito di referendum: molti a sinistra hanno storto la bocca leggendo il nome di Mario Baldassarri, viceministro dell’Economia con Berlusconi, nel comitato promotore, o l’adesione di Fratelli d’Italia.
I referendum sono uno strumento largo per loro natura. Chiunque appoggi le idee alla base dei quesiti è il benvenuto in questa battaglia. Le bocche storte mi sembrano una pruderie tipica di una sinistra che coltiva una purezza sterile.
Dilemmi che è impossibile sciogliere se non si sa rispondere prima alla domande: che nesso c’è tra chi con le guerre ingrassa e chi gestisce il potere; e come si può fare per romperlo?
La Repubblica, 20 agosto 2014
Il concetto di “guerra giusta” da decenni dilania le coscienze degli individui e condiziona le scelte degli Stati. Le parole del papa sulla «Terza guerra mondiale fatta a pezzi» sono una formula che sarà consegnata alla Storia. Mirabile fotografia di «un mondo in guerra dappertutto », rilanciano un dibattito, che è senza risposte morali certe e senza soluzioni politiche incontrovertibili, ma che ci pone davanti a decisioni angoscianti in un quadro geopolitico devastato da conflitti crudeli fino alla barbarie.
Come ci ricordava Federico Rampini su questo giornale, ci sono oggi nel mondo soltanto 11 Paesi che non sono coinvolti in guerre. Nel 1996, contro chi preconizzava la “fine della Storia” dopo la frantumazione dell’Urss, Samuel Huntington scriveva, nel celebre saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale , che “le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”. Ma neppure questo lungimirante politologo fondatore di Foreign Policy , una delle più rispettate riviste di politica internazionale, avrebbe immaginato nel nuovo millennio un mondo così piagato da guerre, con «l’umanità spaventata da due problemi: la crudeltà e la tortura», come ha detto Papa Francesco.
Nessun pontefice può spingersi a definire giusta una guerra. Perfino un laico come Norberto Bobbio, che parlò di «guerra giusta» per l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990, fu intensamente lacerato dalla sua stessa audacia. Che pure era l’esito di una riflessione storica e geopolitica impeccabile. Finita l’era del bipolarismo, con due superpotenze che si fronteggiavano a tutto campo (dall’ideologico al militare), ma che al tempo stesso garantivano un rigido controllo degli impulsi bellicistici magari con la dottrina solo apparentemente surreale della “reciproca distruzione assicurata” (Mad, secondo l’acronimo inglese, che vuol dire anche “pazzo”, appunto), il mondo era tornato a una logica quasi medievale di una guerra indiscriminata tra bande. Dai conflitti balcanici dei primi anni ‘90 in poi abbiamo assistito a un’escalation di violenza globale di cui le cronache di orrore che ci arrivano ogni giorno dal nord dell’Iraq sono soltanto la punta dell’iceberg.
Se per Jurgen Habermas la causa umanitaria era stata motivo sufficiente per giustificare l’intervento in Serbia, che direbbe oggi di fronte all’eccidio di cristiani da parte dei fanatici sostenitori del Califfato? Dove si spingerebbe la riflessione di Norberto Bobbio sulla «guerra giusta», che gli era stata suggerita dal timore di un nuovo appeasement come l’accordo di Monaco del 1938? Non solo la Storia non è finita, come aveva incautamente affermato Francis Fukuyama dopo il 1989. Ma la Storia ci pone di fronte a dilemmi sempre più angoscianti, a tragedie sempre più inaudite, a orrori sempre crescenti in una moltiplicazione esponenziale dei demoni della guerra, in cui agli “Stati canaglia” di reaganiana memoria si sono sommati gli “individui canaglia”, di cui Bin Laden è stato il progenitore superato in ferocia dai suoi macabri epigoni.
«Gli aggressori ingiusti, come quelli in Iraq, vanno fermati», ha detto papa Francesco. Di più non poteva dire nel solco di una tradizione che da Benedetto XV («l’inutile strage» riferita alla Prima guerra mondiale») in poi non ha mai giustificato apertamente nessuna guerra. Ma con le sue parole il pontefice ha riecheggiato le coraggiose elaborazioni di papa Wojtyla sulla guerra in Iraq, dopo quella nel Kosovo. «Sappiamo bene — disse all’Angelus del 16 marzo 2003 — che non è possibile la pace a ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità». E due mesi prima al corpo diplomatico accreditato in Vaticano aveva avvertito che «la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità» e che «non si può fare ricorso alla guerra anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni» (parole che non piacquero ai pacifisti, alcuni dei quali gli chiesero di non lasciare «scappatoie per gli incisi e i distinguo»).
Vengono al pettine i nodi provocati nella realtà mediorientale dalla sciagurata guerra irakena di Bush (e alleati-servi europei). L'unica risposta cui l'Italia si accoda, è fornire ancora strumenti di morte a un Terzo mondo saturato di armi fornite dal Primo.
Il manifesto, 19 agosto 2014
Del resto, così fan tutti nell’Europa del baratro della crisi economica, che non vede come il Medio Oriente sia così strapieno di armi, arrivate spesso a scopo “umanitario”, che la guerra ne è orma il portato quotidiano e sanguinoso. Ma diciamo no in primo luogo perché l’Italia, nella “coalizione dei volenterosi”, ha partecipato nel 2004 alla guerra all’Iraq inventata dagli Stati uniti di Gorge W. Bush che ha prodotto la tragica devastazione che è sotto i nostri occhi. E’ da lì infatti che ha avuto origine la rottura dell’equilibrio iracheno preesistente tra sunniti e sciiti e la scomparsa di fatto dell’Iraq come Stato, frammentato nelle sue fazioni e con un esercito diviso per appartenenza religiosa incapace di fronteggiare la nuova insidia militare e politica rappresentata dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil), nato in Siria come effetto collaterale del sostegno “umanitario” in armi e consiglieri militari, come già precedentemente in Libia, della coalizione degli “Amici della Siria”, una accolita di partner che vanno dagli Usa all’Arabia saudita, dalla Gran Bretagna alla Turchia, dall’Italia al Qatar.
Anziché le armi bisogna inviare soccorsi davvero umanitari pensando ai civili, ai feriti, ai profughi, ai bambini: cibo, sanitari, ospedali da campo, tendopoli. Senza dimenticare che sostenere militarmente la leadership del Kurdistan del leader Barzani invece dell’esercito di Baghdad rappresenta un sostegno alla spartizione dell’Iraq e all’obiettivo dell’indipendenza di uno stato etnico kurdo. Con l’apertura così del vaso di Pandora della questione kurda nella regione che metterebbe in discussione l’esistenza di Stati unitari come la Turchia, l’Iran e la Siria già ampiamente distrutta. Ma anche perché (resoconti alla mano dei pochi reportage arrivati da quelle zone a metà-fine luglio), quando l’Isil dilagava dalla Siria a sud verso il cuore dell’Iraq, la leadership del Kurdistan iracheno ha semplicemente scelto di farsi da parte e lasciare passare i jihadisti, di stare a guardare l’ulteriore colpo inferto alla flebile unità irachena, quando non è arrivata addirittura ad accordarsi con l’Isil che in quel momento non metteva in discussione il territorio kurdo con i suoi preziosi giacimenti di petrolio. C’erano stragi anche allora ma tutti tacevano, compresi i kurdi. Combattevano lo Stato islamico le poche e male armate milizie del Pkk perché in prima fila e in fuga da troppi nemici, spesso anche dagli stessi peshmerga di Barzani.
Qualcuno adesso ci spieghi per favore il sottile paradosso dell’invio di armi dell’Italia ai kurdi iracheni che, come scambio di potere e concessioni di spazio, faranno combattere al loro posto in prima fila le milizie del Pkk, quando proprio l’Italia ha consegnato nelle mani dell’intelligence americana e alle galere turche il “terrorista” Abdullah Ocalan, leader tutt’ora indiscusso del Pkk. Ecco che torniamo al “terrorismo” a geometria variabile, a seconda degli interessi strategici globali dei potenti della terra.
Si dirà subito che chi dice no all’invio di armi ai peshmerga kurdi chiude gli occhi sulle stragi di cristiani e jihazidi. L’impressione è che ancora una volta la disperazione delle minoranze venga utilizzata a scopi tutt’altro che umanitari. Il papa stesso alza la voce sulla persecuzione dei cristiani – certo più di quanto abbia denunciato lo scempio delle decine di moschee distrutte dai raid israeliani nella Striscia -, ma dice “basta guerra” e ricorda che non si fa “in nome di dio”. Intanto sono in troppi a piangere per le vittime jihazide tutte le lacrime che non hanno versato per le stragi di Gaza. Per la quale nessuno, immaginiamo, sentirebbe l’obbligo morale di chiedere l’invio di armi ai palestinesi chiusi nelle prigioni a cielo aperto di Gaza e Cisgiordania.
I massacri di cristiani — in corso in Iraq da due anni nel silenzio americano della Casa bianca che enfatizzava il suo “miglior ritiro” da una guerra — come quelle della minoranza jihazida sono vere e feroci, ma non vanno enfatizzate e moltiplicate nel resoconto giornalistico, tanto più che nella stampa estera già qualche accorto reporter, a corto di verifiche, comincia a dire “presunte”. A Gaza, a proposito di stragi, per certo hanno celebrato in queste ore più di duemila funerali, per l’80% di bambini, donne e vecchi inermi.
Non è inviando armi, aggiungendo guerra su guerra, che il Medio Oriente sarà pacificato e verrà fermata la mano degli assassini e delle stragi. Se Obama vuole fermare davvero lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante — non è più solo Al Qaeda, questo è un esercito — rompa i rapporti economici che legano gli Stati uniti alle petromonarchie arabe, le stesse che sostengono l’Isil con finanziamenti e armi sofisticate. Sarebbe un momento di verità sulle crisi internazionali capace di cambiare la faccia del mondo e dare l’alt all’avanzata del radicalismo jihadista. Diventato inarrestabile, non lo dimentichiamo, anche grazie alle troppe guerre “umanitarie” occidentali che hanno utilizzato in chiave destabilizzante il terrorista di turno promosso per l’occasione a utile “liberatore”. Confermiamo invece, almeno stavolta, l’articolo 11 della nostra Costituzione che dichiara di “ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali”
In Italia il 5% dei contribuenti ricchi concentra il 22,7% del reddito. Perché abbassare salari e tagliare pensioni non ha prodotto (né produrrà) ripresa della nostra disastrata economia». Illustrazione ineccepibile di un economista che pensa e spiega.
Il manifesto, 19 agosto 2014
Torna l’idea di promuovere la crescita tagliando i salari e le pensioni “d’oro”. Tagliando i salari e liberalizzando il mercato del lavoro – si dice – aumenterebbe la domanda di lavoro, dunque l’occupazione, dunque il prodotto. È ancora la ricetta della Treasury View del ’29, che viene argomentata nel modo seguente.
La domanda per consumi, a sua volta, è costituita dalla domanda di quanti hanno un reddito da lavoro e dalla domanda di beni di lusso da parte di quanti vivono di rendita o di profitti. In una situazione di disoccupazione e di bassi salari, aumenta la quota — sul prodotto sociale — delle rendite e dei profitti. Si può pensare che i maggiori consumi di lusso bastino a compensare i minori consumi dei lavoratori? Ovviamente no.