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«Dopo l'austerity le riforme strutturali . L’"austerità espansiv" elaborata da Alesina e sposata dalle istituzioni europee è fallita. Ma ora, senza autocritica, gli stessi economisti che ci hanno portato al disastro preparano un’altrettanto tragica "fase due"».

Il manifesto, 4 settembre 2014

È dal fatale feb­braio 2010, quando Ale­sina pre­sentò all’Ecofin la teo­ria dell’«austerità espan­siva» che la sini­stra, poli­tica e intel­let­tuale, euro­pea com­batte con­tro l’austerità. Con poco suc­cesso, peral­tro. Ma, oggi, corre un altro rischio: che sia la stessa destra a revo­care quella linea disa­strosa, peral­tro, man­te­nen­done l’obbiettivo poli­tico di fondo. Per­ché con­tra­ria­mente a quanto soste­nuto da Gia­vazzi e Ale­sina sul Cor­riere della Sera il 29 scorso, il libe­ri­smo non è di sini­stra; soprat­tutto il loro.

Una decina di giorni fa, Gia­vazzi e Tabel­lini, sodali di Ale­sina nel soste­gno alla linea dell’«austerità espan­siva», hanno pub­bli­cato su Vox, la rivi­sta on line di un impor­tante cen­tro di ricer­che eco­no­mi­che inglesi, un pezzo in cui si legge che «la prin­ci­pale sfida che l’Eurozona oggi ha di fronte è la carenza di domanda aggre­gata». Per due eco­no­mi­sti, che ave­vano in modo inos­si­da­bile difeso le misure di auste­rità, è un cam­bia­mento non da poco. La novità è l’accento su pro­blemi di domanda. Anche se espli­ci­ta­mente non lo ammet­tono, è ovvio che il punto di par­tenza è il rico­no­sci­mento del fal­li­mento del pre­sunto ruolo espan­sivo delle misure di auste­rità, con­tra­ria­mente a come era stato orgo­glio­sa­mente annunciato.

Ma se ampliamo l’orizzonte ci accor­giamo che il rico­no­sci­mento della carenza di domanda, osti­na­ta­mente negato fino a oggi, per quanto impli­cito, è gene­ra­liz­zato. Dra­ghi nella sua rela­zione a Jack­son Hole dice: «Dob­biamo agire dai due lati dell’economia: poli­ti­che di domanda aggre­gata (sic, ndr) devono essere accom­pa­gnate da poli­ti­che nazio­nali strut­tu­rali». La carenza di domanda è il punto di con­tatto con le idee di Gia­vazzi e Tabel­lini e per­fino di Weid­mann, il pre­si­dente della Bun­de­sbank, l’acerrimo anta­go­ni­sta di Dra­ghi. E que­sta è la novità; comune. Cioè, pur man­te­nendo una reto­rica che si rifà all’austerità, le diri­genze poli­ti­che euro­pee rico­no­scono di fatto che le poli­ti­che di auste­rità sono fallite.

È su come uscirne che tor­nano a divi­dersi. Pos­siamo dise­gnare una mappa delle posi­zioni. A un estremo stanno Gia­vazzi e Tabel­lini con una pro­po­sta libe­ri­sta radi­cale di sgravi fiscali e di defi­cit. Al cen­tro Dra­ghi, che rifiuta i defi­cit e pro­pone come misura prin­ci­pale lo sti­molo mone­ta­rio. E all’altro estremo Schäu­ble con Weid­man; con­trari sia ai defi­cit che alle misure monetarie.

Vediamo le ricette. Gia­vazzi e Ale­sina ave­vano comin­ciato tempo fa sul Cor­riere della Sera pro­po­nendo un taglio del cuneo fiscale di qua­ranta miliardi (Renzi ne ha tagliati otto). Su Vox, Gia­vazzi e Tabel­lini sono arri­vati a ottanta miliardi di sgravi fiscali (6% del Pil), da recu­pe­rare con tagli di spese in tre-quattro anni, sfo­rando quindi il para­me­tro del defi­cit in misura con­si­stente. Una rivo­lu­zione (altro che i quat­tro miliardi di nuove risorse pre­vi­ste dallo Sblocca-Italia: lo 0,25% del Pil). Sul Cor­riere pochi giorni fa non hanno fatto cifre; ma que­sta è la loro proposta.

Le con­se­guenze sono ovvie. L’aspetto para­dos­sale della situa­zione è che la misura che ha mag­giori pro­ba­bi­lità di inne­scare quan­to­meno spunti di ripresa, rispetto alle altre, è quella di Gia­vazzi e Tabel­lini, che è anche quella con il più duro segno di classe. Poli­tica che ini­zia con sgravi per met­ter potere d’acquisto soprat­tutto nelle mani di ceti abbienti e con­ti­nue­rebbe, nei tre-quattro anni suc­ces­sivi, o più, per recu­pe­rare tutto lo sgra­vio a spese dei ceti medio-bassi: i tagli di spesa per l’appunto, con l’esito di un’esplosione della disuguaglianza.

La ricetta è com­ple­tata dalle «riforme strut­tu­rali» del mer­cato del lavoro, che dovreb­bero evi­den­te­mente garan­tire che l’aumento di domanda, gestito dai red­diti medio-alti, che even­tual­mente seguisse non intac­casse la Grande Mode­ra­zione sala­riale attra­verso una ridu­zione della pre­ca­rietà del lavoro; che va invece garan­tita, anzi approfondita.

Su que­sto punto non c’è dif­fe­renza con Dra­ghi, che nel discorso di Jack­son Hole riba­di­sce la sua nota insi­stenza sulle «riforme di strut­tura», cioè l’aumento della fles­si­bi­lità del lavoro, in tutti i sensi, come chiave della ripresa. Ripor­tando l’esempio di Gre­cia e Spa­gna, come i paesi che, gra­zie a que­ste «riforme», si sareb­bero lasciati die­tro la reces­sione, il che com’è noto è sem­pli­ce­mente un’interpretazione pre­te­stuosa dei fatti.

Peral­tro, è fin dal gen­naio 2012 nell’intervista al Wall Street Jour­nal che Dra­ghi si è fatto pala­dino di una linea di com­pres­sione sociale, nei due lati di ridu­zione della coper­tura del wel­fare e delle difese con­trat­tuali dei lavo­ra­tori. Quest’ultimo motivo, costante e ripe­tuto, sem­bra assu­mere oggi un nuovo signi­fi­cato: cioè la ridu­zione dra­stica delle difese con­trat­tuali pare essere diven­tata la con­di­zione ‘poli­tica’ dell’abbandono delle poli­ti­che di austerità.

A Jack­son Hole Dra­ghi ha aperto uno spi­ra­glio agli sgravi fiscali, per quanto molto più mode­rato di Gia­vazzi e Tabel­lini, ma che comun­que gli ha gua­da­gnato i rab­buffi della Mer­kel. Gli sgravi fiscali, pure utili, devono essere com­pen­sati da tagli di spese. Niente sfo­ra­mento del defi­cit. Per Dra­ghi, invece, lo sti­molo espan­sivo deve venire dall’annunciata poli­tica mone­ta­ria. Di cui ha già messo in opera una prima tran­che, ma con scarsi risul­tati. E con il rischio che una fase molto più decisa possa inne­scare una bolla edi­li­zia molto più che una ripresa industriale.

Anche Schäu­ble e Weid­man ovvia­mente par­tono da una carenza di domanda. Ma si pre­oc­cu­pano che ven­gano rispet­tati alcuni tabù. Che non si resti­tui­scano spazi di auto­no­mia alle poli­ti­che fiscali dei paesi in defi­cit, allen­tando la pres­sione sui loro bilanci. Che le misure di rilan­cio non siano mone­ta­rie; cioè che la plan­cia di comando non sia a Fran­co­forte, ma a Ber­lino. Da cui l’idea che l’unico sti­molo all’economia euro­pea debba venire dalla cre­scita della domanda interna tede­sca, via aumento dei salari dei lavo­ra­tori tede­schi. Natu­ral­mente per gli altri paesi vale sem­pre la linea della «sva­lu­ta­zione interna», via «riforme strut­tu­rali». Riba­dendo la linea della subor­di­na­zione gerar­chica degli altri paesi al neo-mercantilismo tede­sco; linea di «impe­ria­li­smo intra-europeo», mai seria­mente con­tra­stata dall’Spd.

Non è da esclu­dere che, fal­lendo altre misure, passi alla fine quella di Gia­vazzi e Tabel­lini. Ma una cosa, dal fatale 2010, rimane immu­tata: che l’uscita da que­sta crisi debba avve­nire in dire­zione oppo­sta a quella presa dall’uscita roo­se­vel­tiana dalla crisi del 1929: mag­giore difesa dei lavo­ra­tori (i sin­da­cati si svi­lup­pa­rono impe­tuo­sa­mente dopo il Wag­ner Act del 1935) e soste­gno alla domanda sia con pro­grammi mirati che, in gene­rale, con l’aumento della spesa pub­blica e del defi­cit come stru­mento redi­stri­bu­tivo verso i red­diti medio-bassi. Ma che, invece, gio­cando sull’indebolimento sia dei gruppi sociali che delle loro orga­niz­za­zioni dovuto alla crisi, giunga alla mas­sima revoca pos­si­bile delle con­ces­sioni, strap­pate in quella con­giun­tura, com­pa­ti­bile con il man­te­ni­mento di un qua­dro demo­cra­tico (ma non vale per tutti; vedi Mar­chionne, o JpMorgan).

La morale è che i libe­ri­sti sono temi­bili quando sosten­gono l’austerità, ma lo sono ancora di più quando pro­pon­gono il rilancio.

«Una nube tossica ha avvolto l'Italia, togliendo lucidità ad ampi strati della società. Servono con urgenza riforme: un elenco dei dieci interventi per il Paese e i suoi cittadini nel commento di Roberto Mancini. Dai diritti ai lavoratori al credito alle imprese, a interventi sulle politiche sociali; dal tema del conflitto di interessi, all'indipendenza della magistratura».

Altraeconomia.it, 4 settembre 2014 (m.p.r.)

Gli anni della menzogna. I vent’anni da Berlusconi a Renzi. In tale periodo l’Italia è stata avvolta in un’oscura nube tossica che ha tolto lucidità ad ampi strati della società. In questa situazione può essere utile un promemoria sulle riforme vere che sarebbero urgenti. Ricordando, intanto, che le cosiddette “riforme” del governo Renzi si inseriscono nel quadro del doppio errore mortale dell’Unione europea, risalente alla fine degli anni 70. L’errore sta nell’aver risposto alla globalizzazione in modo nevrotico e stolto: da una parte rilanciando i nazionalismi dei Paesi più forti e dall’altra identificandosi con la volontà dei Mercati. Il contrario esatto di quello che serviva. L’intreccio di nazionalismi e neoliberismo è stato ed è micidiale. In tale scenario i governi e i partiti italiani non potevano che fare del loro peggio.

Le perle di Renzi sono, nell’ordine: una riforma costituzionale che stravolge in senso oligarchico la funzione del Senato e quella delle Province con il pretesto di un finto risparmio e soprattutto di una maggiore “governabilità”; una legge elettorale che riduce ulteriormente la possibilità che la volontà dei cittadini abbia rappresentanza reale; una riforma del mercato del lavoro che coltiva la precarizzazione sopprimendo tutele e diritti; una riforma della pubblica amministrazione tutta incentrata sulla mobilità dei dipendenti e sul maggiore ricorso alle procedure on line; una riforma della scuola che si risolverà nell’aumento delle ore di lavoro per gli insegnanti; una riforma fiscale che si traduce nell’invio del modello 730 precompilato a casa. Le riforme autentiche sono ben diverse.

Qui mi limito a elencare le dieci principali:
1) un piano globale per l’economia nazionale che garantisca i diritti ai lavoratori, riapra il credito alle imprese e promuova la rilocalizzazione favorendo le attività tipiche dei nostri territori (dalla cultura al turismo, dal tessile all’alimentare e così via). Il governo dovrebbe sostenere le imprese disposte a praticare un’economia sana attraverso le leve della defiscalizzazione, del credito agevolato, degli appalti pubblici e della collaborazione delle università nel campo della ricerca scientifica necessaria a un’economia avanzata. A ciò si aggiungerà la riforma fiscale in senso proporzionale e patrimoniale. La direzione di fondo della riforma dell’economia nazionale dovrà delinearsi nel passaggio dalla logica della crescita alla logica dell’armonizzazione, dall’economia dello sviluppo all’economia della cura;
2) una riforma della politica sociale e dei diritti che porti a misure strutturali tanto per sostenere i singoli e le famiglie colpiti dalla diffusione dolosa della povertà a causa della conduzione liberista dell’economia, quanto per dare una risposta di dignità alla condizione dei migranti, dei profughi, dei detenuti e di quanti sono marginalizzati o respinti;
3) una riforma che tuteli l’indipendenza della magistratura e dia impulso sistematico alla lotta contro le mafie;
4) una riforma che affronti il conflitto di interessi e ridisegni la normativa che regola la proprietà dei media; 5) una riforma che tuteli radicalmente i diritti delle donne e assicuri i diritti civili di chiunque, senza discriminazioni dovute alle preferenze sessuali;
6) una riforma della sanità pubblica che risponda alle esigenze dei territori e ne elevi la qualità da Nord a Sud;
7) una riforma della scuola e dell’università che dia impulso alle dinamiche interculturali e interdisciplinari e che consideri gli studenti protagonisti, assicurando nel contempo ai docenti le migliori condizioni per unire didattica e ricerca (provvedendo al tempo stesso alla manutenzione sistematica degli edifici);
8) una riforma che porti alla gestione sapiente dell’assetto idrogeologico del Paese e che tuteli l’ambiente;
9) un nuovo orientamento della politica estera che -in modo diretto e in modo indiretto, cioè a livello dell’Unione europea- costruisca un quadro di relazioni solidali, di cooperazione e di disarmo dal Mediterraneo a ogni area del mondo;
10) una riforma che fissi le regole vincolanti per la democrazia interna nei partiti o nei movimenti politici e cancelli privilegi e immunità per chi ha cariche pubbliche, introducendo sia limiti temporali di esercizio che percorsi di formazione.

Prima di trovare un governo pronto a fare queste riforme si dovranno trovare molti, nelle istituzioni e nella società, che siano disposti non a “metterci la faccia”, ma a metterci la testa. A metterla fuori dalla nube tossica che spegne l’intelligenza politica.

Analisi che compone in un quadro le minacce alla sopravvivenza della civiltà umana, e una proposta politica convincente: manifesto per chi voglia concorrere alla costruzione di un futuro migliore. Il manifesto, 3 settembre 2014 (testo integrale)

Moltedelle minacce che incombono sul nostro pianeta – e di cui poco si parla – sono già fatti. Innanzitutto la data che renderà irreversibile un cambiamento climatico radicale e devastante si avvicina. A questo vanno aggiunte tutte le altre forme di inquinamento e di devastazione, sia a livello globale che locale, che lasceranno ai nostri figli e nipoti un debito ambientale ben più gravoso dei debiti pubblici su cui politici ed economisti si stracciano le vesti. Governi e mondo manageriale hanno per lo più cancellato il problema dalla loro agenda: la green economy promossa a quei livelli non è un’alternativa al trend in atto, ma una serie scollegata di misure, spesso dannose, che ne occupano gli interstizi. L’Italia, che ha una strategia energetica (SEN) recepita dal governo Renzi, ne è un esempio: ha impegnato cifre astronomiche nelle fonti rinnovabili a beneficio quasi solo di grandi speculazioni che devastano il territorio, ma dentro un piano energetico incentrato su trivellazioni e trasporto di metano in conto terzi. E’ una visione miope che distrugge, insieme all’ambiente, anche l’agognata competitività, e chiude gli occhi di fronte al futuro.

Viviamo ormai da tempo in stato di guerra: l’Italia – ma non è certo un’eccezione – è già impegnata con diverse modalità, tutte contrabbandate come “missioni di pace”, su una decina di fronti. Ma questi interventi, che non sono mai guerre dichiarate, alimentano un meccanismo irreversibile: si armano o sostengono Stati o fazioni per combatterne altri o altre, che poi si rivoltano contro chi le ha armate in un alternarsi continuo dei fronti che non fa che allargarli. Dal conflitto israelo-palestinese alla guerra tra Iraq e Iran, dalla Somalia all’ex Jugoslavia, dalle due guerre contro l’Iraq all’Afghanistan, e poi all’Algeria, alla Libia, alla Siria e di nuovo all’Iraq, e poi in Ucraina, l’establishment dell’Occidente ha ormai perso il controllo delle forze che ha scatenato. E’ difficile riconoscere coerenza a scelte (ciascuna delle quali ha o ha avuto una sua “logica”) che messe in fila testimoniano la mancanza di una visione strategica. Il soffocamento o la degenerazione di molti processi nati da rivolte popolari contro miseria e dittature sono il risultato di una mancanza di alternative alla diffusione del caos che la “democrazia occidentale” - ormai identificata con il dominio feroce dei “mercati”, cioè con una competitività universale - non è più in grado di prospettare e che le forze antagoniste a questo sistema non sono ancora capaci di proporre.

Entrambi quei trend sono destinati a produrre un crescendo continuo di profughi, sia ambientali che in fuga da guerre e miseria, destinati a sconvolgere la geopolitica planetaria. Già ora, e da anni, paesi come Pakistan, Siria, Giordania, Libano, Iraq, Turchia, Tunisia, sono costretti a ospitare milioni di profughi, molti dei quali si riversano poi - e si riverseranno sempre più, a milioni e non a decine di migliaia - in Europa. Pensare di affrontare questi flussi con politiche di respingimento è non solo criminale, ma del tutto irrealistico. Ma avere milioni di nuovi arrivati da “ospitare”, con cui convivere per molto tempo o per sempre, a cui trovare un’occupazione, evitando di innescare in tutto il paese focolai di infezione razzista (e di reclutamento per milizie del terrore) rende addirittura risibili le politiche economiche e sociali di cui dibattono i nostri governi, tutte calibrate sui decimi di punto di PIL. E’ un dato che dovrebbe in realtà ridefinire in tutta Europa le politiche relative a scuola, sanità, abitazione, lavoro e cultura: i temi su cui noi stiamo riflettendo, mobilitandoci o cercando di lottare.

Molti di quei focolai accesi dalle strategie, o dalla mancanza di strategia, dell’Occidente nel corso degli ultimi decenni (Ucraina, Medio Oriente e Maghreb), poi trasformatisi in incendi, rischiano anche di interrompere l’approvvigionamento energetico dell’economia europea. Le conseguenze potrebbero essere deflagranti sia per la produzione che per le condizioni di vita e la mobilità. Ma anche in questo caso la governance europea non va più in là del giorno per giorno.

Di fronte a scenari come questi si evidenzia tutta la miopia delle politiche dell’Unione messe in atto con l’austerity, il fiscal compact, gli accordi come TTIP e TISA, l’eterna melina sul coordinamento delle politiche degli Stati membri. Qui tuttavia una strategia chiaramente perseguita c’è: mettere la finanza pubblica con le spalle al muro: non per “liberalizzare”, ma per privatizzare tutto l’esistente: imprese e servizi pubblici, beni comuni, territorio, ma anche esistenze individuali e percorsi di vita; mettere con le spalle al muro il lavoro, per privarlo di tutti i diritti acquisiti in due secoli di lotta di classe; instaurare il dominio di una competitività universale: non, ovviamente, tra pari, ma dove i più forti siano liberi di schiacciare i più deboli. Tuttavia anche in questo caso gli effetti vanno al di là del previsto: sono le stesse “teste pensanti” dell’establishment ad ammettere, anno dopo anno, che i risultati non sono quelli che si attendevano. Soprattutto ora che vengono al pettine contemporaneamente molti di quei nodi: deflazione, deindustrializzazione, disoccupazione, dipendenza energetica, guerre senza sbocco, disastri climatici, profughi. Ma non hanno vere alternative; e mettere toppe da una parte - cosa in cui Mario Draghi è maestro – non fa che aprire falle da un’altra.

Dunque un “piano B” non esiste. Dobbiamo lavorarci noi e questo deve essere l’orizzonte politico, e prima ancora culturale, di qualsiasi iniziativa, anche la più minuta, di cui ci occupiamo. Non lasciamoci scoraggiare dalla sproporzione delle forze e delle risorse: in sintonia con noi ci sono altre migliaia di organizzazioni sparse per il mondo (e forse un passo importante per cominciare a coordinarci a livello europeo è stato fatto con la lista L’altra Europa; e non è né il primo né l’unico); e poi, ci sono milioni o miliardi di esseri umani che hanno bisogno di trovare in nuove pratiche e nuove elaborazioni un punto di riferimento per sottrarsi a quel “caos prossimo venturo” di cui già sono vittime. La radicalità di un movimento, di un programma, di un’organizzazione, cioè la loro capacità di misurarsi con lo stato di cose in essere, si misura su questo sfondo: si tratta di sviluppare a trecentosessanta gradi il conflitto con il pensiero unico e con la cultura e la pratica della competitività universale e le sue molteplici applicazioni, per promuovere al loro posto le condizioni di una convivenza pacifica, egualitaria, democratica e solidale tra gli umani e con la natura.

E’ stata la globalizzazione a spalancare le porte alla competitività universale. Noi dobbiamo pensare e praticare nell’agire quotidiano alternative che valorizzino i benefici dell’unificazione del pianeta in un’unica rete di rapporti di interdipendenza e di connettività, ma in condizioni che non facciano più dipendere la sopravvivenza di alcuni dalla morte di altri, il reddito di alcuni dalla miseria altrui, il successo di un’azienda dalla rovina dei concorrenti, il mantenimento o la “conquista” di un lavoro dall’espulsione di chi ne resta escluso, la “ricchezza delle nazioni” (il PIL!) dalla miseria delle rispettive popolazioni.

Queste alternative riconducono tutte alla riterritorializzazione dei processi economici: non al protezionismo, che non è più praticabile senza subire ritorsioni devastanti; non al confino in ambiti economici chiusi con il ritorno a valute nazionali in competizione tra loro; non alla ferocia di identità etniche e culturali fittizie che ci mettono in guerra con chiunque non le condivida; bensì alla promozione ovunque possibile – e certamente non in tutti i campi e per tutti i bisogni - di rapporti quanto più stretti, diretti e programmati tra produttori e consumatori di uno stesso territorio, ridimensionando a misura dei territori di riferimento, ovunque possibile, impianti, aziende, reti commerciali e il loro governo. La trasferibilità del know-how a livello planetario ormai lo consente per molti processi, a partire dalla generazione energetica; il recupero dei materiali di scarto ci può rendere più indipendenti dall’approvvigionamento di materie prime; i servizi pubblici locali riportati alla loro missione originaria possono connettere un governo democratico e partecipato della domanda (di energia, alimenti, trasporto, di gestione del territorio, di cura delle persone, di promozione della cultura, dell’istruzione, dell’integrazione sociale) con misure di sostegno all’occupazione, di conversione ecologica delle attività produttive, di risanamento del territorio e del costruito. Si può così costruire, dentro il villaggio globale creato dalla circolazione dell’informazione e dall’interconnessione delle esistenze di tutti, le basi materiali di una vita di comunità ricca di relazioni. Una strada che è la base irrinunciabile di un progetto politico alternativo per Europa e per il mondo intero; che va imboccata e seguita in ogni situazione in forme differenti e specifiche; ma tutte insieme possono fornire dei modelli a chi decide di imboccarla.

«Il recu­pero di un potere con­trat­tuale nel set­tore pub­blico può rea­liz­zarsi solo rico­struendo un nesso forte tra ruolo del lavoro, ruolo dell’intervento pub­blico e rap­porto con la cit­ta­di­nanza».

Il manifesto, 3 settembre 2014

Con grande enfasi media­tica, il governo Renzi ha annun­ciato che è par­tita una nuova «riforma» della Pub­blica Ammi­ni­stra­zione. In realtà, siamo in pre­senza di un’operazione che ha un carat­tere, con­tem­po­ra­nea­mente, regres­sivo (come quella annun­ciata sulla scuola) e di pura imma­gine, met­tendo insieme prov­ve­di­menti che ridu­cono diritti dei lavo­ra­tori pub­blici e sin­da­cali, come il ricorso alla mobi­lità obbli­ga­to­ria e la ridu­zione dei distac­chi e dei per­messi sin­da­cali retribuiti.

Oltre a annunci gene­rici, frutto più di un’ansia di dimo­strare che «le riforme strut­tu­rali stanno par­tendo» piut­to­sto che di una reale volontà di inter­ve­nire sui nodi di fondo che impe­di­scono alla Pub­blica Ammi­ni­stra­zione di svol­gere un ruolo di volano per una nuova qua­lità dello svi­luppo e social­mente efficace.

Quello che, invece, è rima­sto mag­gior­mente in ombra è come il sin­da­cato ha affron­tato, e in spe­ci­fico la Fun­zione Pub­blica Cgil, tale situa­zione. Al di là di alcune dichia­ra­zioni di for­male con­tra­sto, in realtà siamo di fronte a una posi­zione di pas­siva ras­se­gna­zione all’impianto di tale con­tro­ri­forma della Pub­blica Ammi­ni­stra­zione. Che sta acce­le­rando alcuni pro­cessi nega­tivi che erano in corso già da tempo all’interno della Fp Cgil e che il pro­cesso di «rior­ga­niz­za­zione» interna deri­vante dal dimez­za­mento delle agi­bi­lità sin­da­cali sta ulte­rior­mente raf­for­zando. Per dirla in breve, non si può non vedere come venga avanti e rischi di diven­tare strut­tu­rale una muta­zione del modello sin­da­cale che si com­pone di chiu­sura auto­re­fe­ren­ziale, restrin­gi­mento del pro­prio ruolo e oriz­zonte di ini­zia­tiva e anche della pro­pria demo­cra­zia interna. Non volendo essere gene­rico e rife­ren­domi in spe­ci­fico all’esperienza della Fp Cgil, mi inte­ressa evi­den­ziare almeno tre que­stioni che dise­gnano fatti e sce­nari che, almeno per me, gene­rano un dato di seria inquietudine.

Il primo è che, nei fatti, la Fp Cgil sta attuando scelte che rischiano, se non di farla ritrarre, per­lo­meno di ren­dere molto più eva­ne­scente il pro­prio impe­gno nel varie­gato e impor­tante movi­mento per l’acqua pub­blica. Ciò non solo è sba­gliato in sé, per­ché così si sva­luta quella che io ritengo essere stata una delle espe­rienze più feconde di que­sti ultimi anni di rela­zione tra espe­rienza sin­da­cale e realtà dei movi­menti e della cit­ta­di­nanza attiva, ma lo si fa pro­prio in un momento in cui il governo – già con lo «Sbloc­caI­ta­lia» e in ogni caso con la pros­sima legge di sta­bi­lità — si appre­sta a dare un colpo mor­tale all’esito refe­ren­da­rio di 3 anni fa, aprendo un ciclo di for­tis­sime pri­va­tiz­za­zioni dei ser­vizi pub­blici locali, per cui le aziende pub­bli­che par­te­ci­pate dovreb­bero ridursi dalle attuali 8000 a circa 1000.

Il secondo è che si dà una let­tura assai ridut­tiva e alla fine inef­fi­cace del pro­prio ruolo con­trat­tuale e della neces­sità di sal­va­guar­darlo. Biso­gne­rebbe inter­ro­garsi seria­mente sul per­ché ci si trova in un qua­dro per cui i lavo­ra­tori pub­blici hanno i pro­pri con­tratti nazio­nali bloc­cati da 5 anni e, come dice espli­ci­ta­mente il Def e nono­stante le smen­tite ago­stane di qual­che mini­stro, vedranno que­sta situa­zione pro­lun­garsi anche nei pros­simi 2–3 anni. Non basta dire che ciò è il pro­dotto della linea dell’austerità che ci pro­viene dall’Europa e cui ade­ri­sce anche que­sto governo, al di là delle scher­ma­glie tat­ti­che e comu­ni­ca­tive di Renzi. In realtà, in que­sti anni, la stessa Fp Cgil, e tutta la Cgil, non ha colto e si è mostrata subal­terna a quest’attacco, ha subito la cam­pa­gna di dele­git­ti­ma­zione del lavoro pub­blico, por­tata avanti almeno dai tempi del mini­stro Bru­netta, non ha rea­gito suf­fi­cien­te­mente all’operazione costruita di con­trap­porre lavoro pri­vato e lavoro pub­blico, e quest’ultimo ai cittadini.

Ora, con le scelte che si stanno com­piendo, si con­ti­nua e si appro­fon­di­sce quest’errore. Si pro­se­gue nel non ren­dersi conto che il recu­pero di un potere con­trat­tuale nel set­tore pub­blico può rea­liz­zarsi solo rico­struendo un nesso forte tra ruolo del lavoro, ruolo dell’intervento pub­blico e rap­porto con la cit­ta­di­nanza, come nel pas­sato la Fp Cgil ha saputo fare, negli anni ’90 legando for­te­mente l’idea della con­trat­ta­zione con quella di un reale pro­cesso rifor­ma­tore della Pub­blica Ammi­ni­stra­zione, e negli anni più recenti, teo­riz­zando il tema fon­dante del rap­porto tra valo­riz­za­zione del lavoro pub­blico, affer­ma­zione dei beni comuni e espan­sione della par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini. Si ripiega su un’idea neo­cor­po­ra­tiva di modello di tutela e rap­pre­sen­tanza dei lavo­ra­tori pub­blici, che lascia per strada un’idea di sin­da­cato come sog­getto gene­rale per appro­dare a una cul­tura sin­da­cale mag­gior­mente simile all’associazione di inte­ressi, desti­nata peral­tro a non avere sboc­chi con le attuali com­pa­ti­bi­lità poli­ti­che ed eco­no­mi­che e, invece, ad appro­fon­dire la crisi di rap­pre­sen­tanza della Cgil.

Infine — terzo punto inquie­tante — non posso sot­ta­cere che, anche nel pro­cesso rior­ga­niz­za­tivo interno che è in corso a seguito del dimez­za­mento dei distac­chi e dei per­messi sin­da­cali, si dà per­lo­meno l’impressione di met­tere da parte voci che hanno espresso cri­ti­che e dis­senso sulle scelte e sugli ultimi esiti con­gres­suali com­piuti dalla mag­gio­ranza della Fp Cgil e della Cgil. Stanno diven­tando ormai troppi i casi in cui il dis­senso interno viene rego­lato per via amministrativa-burocratica, anzi­ché con una discus­sione e una rifles­sione stra­te­gica di cui la Cgil ha sem­pre più biso­gno, e di cui una sua riforma demo­cra­tica è parte essen­ziale.
Una car­tina al tor­na­sole di tutt’e tre que­sti dati nega­tivi è pro­ba­bil­mente rap­pre­sen­tata anche dal fatto che il sot­to­scritto, che ha rap­pre­sen­tato la Fp Cgil Nazio­nale all’interno del Forum Ita­liano dei Movi­menti per l’Acqua sin dalla sua nascita e che ha lavo­rato in que­sti ultimi dieci anni all’interno della Fp Cgil Nazio­nale sui temi dei beni comuni e del Wel­fare, viene coin­volto, per scelta del sin­da­cato a seguito del pro­cesso rior­ga­niz­za­tivo interno, nella per­dita della pro­pria agi­bi­lità e inca­rico sin­da­cale a tempo pieno, rien­trando nel pro­prio posto di lavoro ori­gi­na­rio al comune di Ferrara.

Ovvia­mente ciò non mi impe­dirà, anzi, di pro­vare a dare il mio con­tri­buto all’iniziativa e alla rifles­sione stra­te­gica di cui ritengo la Cgil abbia neces­sità e su cui mi auguro che in diversi vogliano cimen­tarsi. Per quanto mi riguarda, ora lo farò come sem­plice iscritto alla Fp Cgil, atti­vi­sta del movi­mento per l’acqua, mili­tante poli­tico inte­res­sato alla costru­zione di una sog­get­ti­vità poli­tica nuova per la sini­stra italiana.

Un’analisi freddamente tecnica: «Si tratta di un’operazione tesa a “blindare” alcune opere (“sono state approvate dal Cipe...”) per consentire poi la totale discrezionalità politica nel loro finanziamento e nella loro realizzazione».

Il Fatto Quotidiano, 3 set. 2014

Il documento approvato dal Consiglio dei ministri venerdì contiene troppo cemento per gli ambientalisti e troppo poco per i costruttori: ma queste due reazioni erano prevedibili qualunque fosse stato il contenuto del provvedimento. Si tratta di un infinito elenco di opere, utili e meno utili, con uno strettissimo scadenzario di “cantierabilità”: alcune entro il 31 dicembre 2014, altre entro il 30 giugno 2015, altre entro il 31 agosto 2015.

Dopo queste date, i soldi andranno altrove. L’origine di questo elenco è tragica: si tratta di opere approvate dal Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica) in molti anni, ma senza alcuna definizione di priorità, senza reale allocazione di fondi, e con analisi economiche e finanziarie (sempre positive!) imbarazzanti. Si tratta cioè di un’operazione tesa a “blindare” alcune opere (“sono state approvate dal Cipe...”) per consentire poi la totale discrezionalità politica nel loro finanziamento e nella loro realizzazione.

Uno degli effetti certi di questo approccio è quello dei “cantieri infiniti” (o “stop and go”): se ci sono soldi, e l’opera è approvata dal Cipe, si può partire con una bella inaugurazione del cantiere. Gli obiettivi di visibilità sono ottenuti, le imprese costruttrici sono contente, come pure gli enti locali interessati. Poi i soldi vengano a mancare, i costi si gonfiano (fino a tre-quattro volte, vedi l’Alta Velocità), i cantieri non si possono certo chiudere, e comunque i costruttori devono essere giustamente risarciti per lo “stop and go”. Dopo un po’, con qualche nuovo soldo, si ricomincia. Data l’assoluta scarsità di risorse fresche, se davvero anche una parte limitata delle opere divenisse cantierabile alle scadenze previste “in ordine sparso” diventerebbe impossibile. C’è da credere dunque che nei mesi a venire si procederà a una selezione delle opere in funzione della loro utilità. Nel frattempo, tutti i padrini politici delle opere potranno continuare a dichiarare che la loro “figlioccia” è compresa nell’elenco. In inglese le opere politicamente patrocinate si chiamano “pet projects”. Ai keynesiani puri anche i cantieri inutili vanno bene (“scavar buche e riempirle”), ma forse è meglio scavare buche utili e che diano lavoro a un sacco di gente. Cosa che, per euro speso, le grandi opere comprese in quell’elenco certo non fanno.

«Costretto a tenere la propria attenzione e quella del governo fissa sul pubblico, rischia di ripetere il paradigma che ha imputato ai suoi avversari: il dire di fare piuttosto del fare».

La Repubblica, 3 settembre 2014
La democrazia del pubblico è tutt’uno con la persona del leader, con la forza attrattiva della sua immagine e del suo linguaggio accattivante, che parla alle emozioni. Essa è in grado di rafforzare, integrare e perfino alterare il verdetto delle urne: tra un’elezione e l’altra l’audience tiene in mano il testimone della rappresentanza e detta il corso e il passo del leader, la direzione e la velocità del suo cammino. Su questa simbiotica relazione tra il pubblico e il leader si incardina la “democrazia personale” della quale alcune domeniche fa ci parlava Eugenio Scalfari su Repubblica. Un ibrido che, Secondo Ilvo Diamanti, tiene insieme come in un patchwork forme d’essere della politica che sono diverse, piegate ora sul ruolo del partito ora su quello del leader. Sulla difficoltà a tenere il partito separato dal leader si gioca il rebus della politica italiana.

Vediamo di esplorare la relazione simbiotica del leader e dell’audience, il cuore di questa democrazia ibrida. Le parole di Renzi hanno conquistato il pubblico ben oltre l’investitura elettorale (che del resto non c’è stata, almeno in relazione al governo nazionale). Lo hanno fatto con prevedibile efficacia poiché la condizione economica del paese é da anni così critica da non lasciare larghi margini alle sottili spiegazioni, alle analisi complesse, al discorso articolato, tutte cose che appartengono alla democrazia dei partiti. La terminologia di Renzi é stata ed è da questo punto di vista adatta a questo tempo. La prima coppia di concetti che ha immesso nell’opinione parla di velocità e di movimento, facili

Da comprendere per chi si trova a patire la stagnazione economica. Scriveva cartesio nel Discorso sul metodo che il viandante che si trovi in un bosco senza bussola e in una notte senza luna farà bene a non restare paralizzato ma ad andare, poiché da qualche parte prima o poi arriverà. Si tratta comunque di un andare senza piani di lungo periodo perché è il presente che detta le sue regole. La seconda coppia di concetti della terminologia renziana parla di rottamazione e di eliminazione delle rendite di posizione,

Idee di immediata comprensione poiché la condizione di stagnazione spinge chi vive in condizioni positive o non proprio negative a voler preservare il proprio stato. Chi ha bisogno di cambiare è chi vive una condizione di difficoltà. La terza coppia di concetti che renzi ha immesso nell’audience riguarda infine il dualismo generazionale, pilastro del suo messaggio politico.

Sembra che la dissipazione della politica come progettualità del futuro, che la crisi della democrazia dei partiti ha lasciato, abbia trovato un rimedio fuori dalle categorie sociali. Espulso dalla politica, il futuro ha fatto il suo ingresso nel rapporto tra le generazioni, tra gli italiani di ieri e quelli di oggi (più che quelli di domani); un futuro prossimo, conflittuale e atto a nutrire ingiusti sentimenti divisivi come il risentimento e la volontà punitiva per chi non è più protagonista. Le rappresentazioni sociali e mediatiche hanno accolto con favore questa terminologia, e sviato con successo il luogo del conflitto dalle relazioni sociali o di classe a quelle generazionali o naturali. L’audience che vive in simbiosi con Renzi ha adottato questo canovaccio di narrazioni che iscrive l’agire politico nel ciclo biologico del “corso della vita”: è il turnover naturale a dettare il movimento politico.

Se non che, le difficoltà a realizzare questo piano che abbiamo constatato in questi giorni (e che Renzi ha immediatamente registrato con l’aggiustamento della velocità: dalla “corsa veloce” al “passo dopo passo”) possono rischiare di far deragliare la democrazia dell’audience anche a causa della debolezza insita nel partito ibrido. Ora, l’audience può indubbiamente dare legittimità emotivamente forte alla persona del leader. Può, come è successo a renzi, determinare l’ingresso prorompente del leader nella politica, ma non riesce a garantire stabilità nel tempo. Vi è di più. Le parole che hanno lanciato la leadership di Renzi sono entrate ormai nel linguaggio ordinario. Il rischio è che il leader non riesca a stare al passo delle sue stesse parole, costretto a riconoscere che il principio di realtà non si rottama, pone dei veti non raggirabili, ha una complessità che resiste alle semplificazioni.

Insomma, il rischio è che sia proprio la simbiosi di leader e audience a logorare il leader. Il quale, costretto a tenere la propria attenzione e quella del governo fissa sul pubblico e le sue emozioni, rischia di ripetere il paradigma che ha imputato ai suoi avversari di ieri: il dire di fare piuttosto che il fare. Nei tempi critici, la strategia plebiscitaria può dunque essere un problema non da poco – soprattutto se a controbilanciarla non c’è un partito autonomo dal leader, dotato di una sua credibilità e capace di riflessione critica.

Una fondata critica della leader italiana de "L'altra Europa con Tsipras" alle politiche dominanti. Non basta dire che si è sbagliato, come hanno fatto Hollande e Padan, «occorre un cam­bio radi­cale di para­digma, se è vero che sono le idee di fondo sull’austerità, fos­si­liz­za­tesi ormai in ideo­lo­gia, ad aver pro­dotto que­sti sbagli».

Il manifesto, 30 agosto 2014

È cer­ta­mente un buon segno che la riu­nione infor­male dei mini­stri per gli affari euro­pei, incen­trata sul fun­zio­na­mento dell’Ue dopo le ele­zioni del 25 mag­gio, abbia aperto le porte al Par­la­mento euro­peo, e soprat­tutto alla Com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali, giac­ché è pro­prio nell’assenza di una vera costi­tu­zione euro­pea - tut­tora lati­tante, a cin­que anni dall’entrata in vigore del Trat­tato di Lisbona e della Carta dei diritti - che si rias­sume l’essenza della crisi che attraversiamo.

La timida aper­tura all’unione poli­tica, con­te­nuta nel rap­porto sti­lato nel 2012 dai «quat­tro pre­si­denti» – Com­mis­sione, Bce, Con­si­glio euro­peo ed Euro­gruppo (il Par­la­mento fu malau­gu­ra­ta­mente escluso) – pare già eva­po­rata, e i mali dell’Ue con­ti­nuano immu­tati, a comin­ciare dalla teo­ria delle «case nazio­nali» da met­tere in ordine prima di rifon­dare l’Europa nel senso soli­dale chie­sto dai cittadini.

Impres­sio­nante è la sot­to­va­lu­ta­zione del mes­sag­gio venuto dalle ultime ele­zioni euro­pee, mai sot­to­po­sto a una seria ana­lisi auto­cri­tica. Il giu­di­zio fu eva­sivo già nella riso­lu­zione del Con­si­glio euro­peo di giu­gno, quando si parlò di cre­scente «disin­canto», una parola che signi­fica tutto e niente. Appena due mesi son pas­sati, e i disin­can­tati ven­gono oggi bol­lati come popu­li­sti e estre­mi­sti. I due agget­tivi sono abu­si­va­mente pro­po­sti come sino­nimi, refrat­tari a ogni distin­guo fra euro­cri­tici ed euro-ostili, ignari di quel che chiede la mag­gio­ranza dei cit­ta­dini: non meno Europa, ma un’Europa più demo­cra­tica, più soli­dale, più giu­sta socialmente.

Spe­ravo in un seme­stre ita­liano capace di impri­mere una svolta in que­sto campo. Dopo la crisi gover­na­tiva in Fran­cia e le ammis­sioni del mini­stro dell’Economia Pier Carlo Padoan («Abbiamo sba­gliato tutti sulle pre­vi­sioni di cre­scita», ha detto il 17 ago­sto alla Bbc), è neces­sa­rio rico­no­scere che, per quanto riguarda l’austerità, non bastano para­me­tri un po’ più fles­si­bili. Occorre un cam­bio radi­cale di para­digma, se è vero che sono le idee di fondo sull’austerità, fos­si­liz­za­tesi ormai in ideo­lo­gia, ad aver pro­dotto que­sti sbagli.

Chiun­que prenda sul serio il males­sere dila­gante in Europa non può non com­pren­dere che è venuta l’ora di far par­te­ci­pare i cit­ta­dini al governo della crisi (lo pre­scrive, tra l’altro, l’art. 11 del Trat­tato di Lisbona). Non ci si può limi­tare a ren­dere le isti­tu­zioni più celeri, né si può minac­ciare tagli a pro­grammi come Era­smus, sol­le­vando le giu­ste pro­te­ste di tanti gio­vani. Abbiamo di fronte pro­blemi gravi con cui con­fron­tarci, che richie­dono tra­spa­renza e demo­cra­zia, a comin­ciare dalle trat­ta­tive sul par­te­na­riato tran­sa­tlan­tico per il com­mer­cio e gli inve­sti­menti (Ttip). La pre­si­denza ita­liana chiede, giu­sta­mente, che sia declas­si­fi­cato il man­dato nego­ziale della Com­mis­sione, ma non basta: il Par­la­mento euro­peo –i cit­ta­dini, ancora una volta – deve avere accesso a tutti docu­menti nelle varie fasi del nego­ziato. Non può essere messo al cor­rente a trat­tato con­cluso, quando gli verrà chie­sto di dare il cosid­detto parere conforme.

Pre­oc­cupa l’insidioso ritorno dei nazio­na­li­smi e delle intese inter­go­ver­na­tive. Ai mali di una Com­mis­sione pri­gio­niera della ten­sione e dello squi­li­brio crea­tosi fra Stati più o meno potenti dell’Unione, alla sfi­du­cia degli elet­tori, si risponde creando nuove buro­cra­zie, non euro­pee, ma nazio­nali. Pari­menti, si invita a non appro­fon­dire l’integrazione: l’Unione «dovrebbe aste­nersi dall’intervenire quando gli Stati mem­bri pos­sono rag­giun­gere meglio gli obiet­tivi». Come si spiega allora l’invito di Mario Dra­ghi a cedere sovra­nità sulle riforme strut­tu­rali? O si sba­gliava il Con­si­glio, o si sba­glia Dra­ghi, o le parole non signi­fi­cano nulla. In effetti non signi­fi­cano nulla, se non si spiega verso quali poteri sovra­na­zio­nali, e demo­cra­ti­ca­mente legit­ti­mati, si tra­sfe­ri­scono le sovranità.

A giu­gno si par­lava di lotta all’evasione, alla frode fiscale, alla cor­ru­zione, alla vio­la­zione dei dati per­so­nali, al restrin­gi­mento dei diritti: tutti temi assenti nei docu­menti di oggi. Si pro­met­te­vano rispo­ste comuni alla sfida della migra­zione, tra cui «forti poli­ti­che dell’asilo», ma il pro­po­sito sem­bra dimen­ti­cato, men­tre rimane l’ambiguità sui migranti irre­go­lari (i pro­fu­ghi da zone di guerra sono sem­pre e per defi­ni­zione «irre­go­lari»). Non una parola sulla neces­sità di una poli­tica pen­sata a fondo sul Medi­ter­ra­neo e sui rap­porti con la Rus­sia. Resta la pro­messa di un comune piano d’investimenti nell’economia reale, pari a 300 miliardi di euro su 3 anni: una sorta di New Deal che Junc­ker ha espo­sto al Par­la­mento euro­peo, favo­rito in que­sto dai governi di Ita­lia e Fran­cia (è quanto va chie­dendo l’Iniziativa cit­ta­dina che porta lo stesso nome: New Deal for Europe). Con che mezzi lo si voglia attuare non è chiaro - men­tre l’Iniziativa cit­ta­dina chiede una duplice tassa comu­ni­ta­ria sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie e sull’emissione di ani­dride car­bo­nica – ma appog­giarlo sarebbe già un primo passo.

L'articolo è una sintesi delle posizioni espresse nel corso dell'Incontro informale dei ministri per gli affari europei che si è tenuto il 28 e 29 a Milano, al quale, Barbara Spinelli ha partecipato in qualità di vicepresidente della Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo.

La Repubblica, 29 agosto 2014
Annunciando con enfasi trionfalistica «il superamento di Mare Nostrum»,Alfano ha ripetuto davanti alle telecamere per ben otto volte in tre minuti laparola frontiera. Altre parole-chiave: pattugliamento, presidio, sorveglianza,monitoraggio.
Neanche una volta ha parlato di soccorso, salvataggio.Di fronte a un’opinione pubblica impaurita dalle guerre che insanguinano l’interasponda meridionale del nostro mare, e quindi poco interessata a distinguere fraprofughi e invasori, torna in auge la chimera di una Fortezza Europa. Ilvecchio continente asserragliato sulla frontiera comune per respingere laminaccia esterna.
Così Alfano ci ha presentato la nuova operazioneFrontex Plus, varata a Bruxelles, come riposizionamento strategico dentro iconfini di Schengen, cioè dentro le nostre acque territoriali. Queste, almeno,sono le sue orgogliose affermazioni: «L’Europa arretra la sua linead’intervento. Si rimpossessa del controllo della sua frontiera ponendo le basiper il ritiro di Mare Nostrum». Ritiro da dove? Forse dalle acqueinternazionali da cui Mare Nostrum ha tratto in salvo decine di migliaia dipersone? Peccato che la maggior parte dei naufragi - già costati duemila mortinel 2014 nonostante l’impegno generoso della nostra Marina militare - avvenganoproprio in acque internazionali o a ridosso della costa libica. In futuro nonsaranno più affar nostro le tragedie che si consumano a sud delle acqueterritoriali italiane?
Anche se non ufficialmente, i portavoce comunitarisposano la tesi denigratoria secondo cui Mare Nostrum avrebbe fornito unincentivo alle partenze. Gli scafisti impiegherebbero barche malridotte e con pococombustibile perché confidano nella premura degli italiani. L’emergenzaprovocata dall’inasprimento delle guerre mediorientali e africane vienederubricata a fattore secondario della crescita esponenziale del flussomigratorio. Come già negli anni bui dei respingimenti, ci illudiamo discoraggiare criminali e fuggiaschi tramite l’attenuazione (se non addirittural’omissione) del soccorso. Davvero pensiamo che un nostro eventuale disimpegnoumanitario faccia breccia nella crudeltà degli uni e nella disperazione deglialtri?
Incorniciata nella retorica della frontiera, Alfano siè molto compiaciuto della ritrovata armonia con la commissaria europea agliAffari interni, Cecilia Malmström. Da novembre in poi l’Italia non sarà piùsola; ci saranno navi, elicotteri e finanziamenti degli altri partner europei.Staremo a vedere, sarebbe un’ottima notizia. Ma intanto la Malmström ha tenutoa precisare che l’Ue fornirà all’Italia una ”assistenza complementare”, non dipiù. Richiesta di spiegare meglio cosa significhi “assistenza complementare”,la commissaria di Bruxelles ha ribadito che Frontex Plus eserciterà opera disorveglianza e monitoraggio solo entro e non oltre i limiti dell’area diSchengen. Dipenderà dal governo italiano stabilire se proseguire, e in che forma,l’operazione Mare Nostrum fuori dalle nostre acque territoriali. Magari le navimilitari francesi, spagnole o di altri paesi, segnaleranno alla nostra Marinale emergenze, ma non parteciperanno comunque alle azioni di salvataggio extraterritorialipreviste dal diritto internazionale.
Il dilemma morale e la scelta politica che si pongonodi fronte all’ecatombe in corso nel Canale di Sicilia vengono dunqueinteramente riconsegnati al nostro governo, in condizioni geopolitichepeggiorate rispetto al 2013. La fretta con cui Alfano proclama il superamentodi Mare Nostrum si rivela una trovata demagogica, così come l’annunciatadistruzione delle barche degli scafisti: forse che in passato qualcuno glielericonsegnava?
La retorica della frontiera meridionale blindatadall’Ue funge da esile copertura alle divisioni in cui si dibatte l’Europa difronte alla vastità del dramma dei profughi e delle guerre in corso alle nostreporte. Nei colloqui di Bruxelles neanche si è affrontato il tema dellarevisione del trattato di Dublino che attualmente limita la validità dell’asilopolitico al singolo paese in cui viene richiesto. Il guaio è che a tutt’oggi 25paesi dell’Ue su 28 rifiutano di stipulare il “mutuo riconoscimento”, cioèl’asilo politico europeo, che garantirebbe una più equa distribuzione deirichiedenti, senza gravare solo sulle nazioni di primo approdo. Tanto meno siparla di instaurare dei corridoi umanitari, passaggi indispensabili persottrarre i fuggiaschi al monopolio delle mafie che li gestiscono. L’Ue restasorda anche di fronte all’esigenza di costituire presidi nei paesi di transitoper facilitare l’identificazione dei richiedenti asilo e vagliare in anticipole loro domande.
Attendiamo di conoscere nei prossimi giorni maggioridettagli operativi su Frontex Plus. Ma se venisse confermato l’arretramento delraggio d’azione - e di conseguenza il rischio di un aumento del numero deimorti - di nuovo si riproporrebbe lo scaricabarile europeo sull’Italia: l’Ue almassimo ci aiuta a sorvegliare una frontiera marittima che resterà per suanatura comunque attraversabile; se poi l’Italia vorrà continuare l’opera disalvataggio intrapresa l’anno scorso dopo la strage di Lampedusa, ci diranno«bravi », ma resta una scelta nostra che non li riguarda. L’encomio diBruxelles e la promessa di condividere gli oneri finora sopportati dall’Italia,rischiano di tradursi in una beffa se davvero il sistema Frontex Plus nonammetterà pattugliamenti a sud dell’area Schengen.

«Caro Ministro Lupi, nel suo approccio alla riforma urbanistica lei dimentica che secondo la Costituzione i fini sociali della proprietà prevalgono sugli interessi particolari del proprietario». Lettera aperta di un amministratore sul disegno di legge ministeriale.

La Provincia di Como, 29 agosto 2014

Caro Ministro, sembra giunto il momento perché la legge urbanistica del 1942 vada in pensione. Il ministero ha reso disponibile la bozza di un nuovo testo, frutto del lavoro coordinato della Sua segreteria, e di esperti da Lei nominati. Si tratta di un gesto apprezzabile.

Tuttavia, va detto che accanto a elementi di sicuro interesse come il riallineamento delle leggi regionali all'interno di un più solido telaio normativo, due elementi rischiano di pregiudicare la già difficile opera di pianificazione degli enti locali: la retorica della tecnica di scrittura utilizzata e il regime di straordinario favore per la proprietà privata. La prima si tradurrà in un incremento dei già frequenti contenziosi, la seconda nega alle fondamenta il principio contenuto nell'art. 42 della Costituzione, secondo cui i fini sociali della proprietà prevalgono sugli interessi particolari del proprietario.

Affermare che le volumetrie create dagli strumenti urbanistici non decadono al decadere del piano che le crea, significa impedire alla collettività di decidere il proprio futuro, anche quando questo futuro dovesse consistere in minori metri cubi di edificato. Esentare dalla fiscalità gli immobili destinati alla vendita o alla rivendita che non siano utilizzati può avere un senso in un'ottica di leva per il recupero, ma non può valere quale regola generale, perché se così fosse significherebbe ignorare che i servizi pubblici di cui immobili inutilizzati godono sono pagati dai cittadini che non hanno nulla da mettere sul mercato.

Stupisce poi leggere che il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento. Siamo tutti d'accordo nell'affermare che la programmazione si fa, anche, con la proprietà, ma ciò non significa sottrarre alle amministrazioni il ruolo di decisori. Eravamo convinti che scopo del governo del territorio fosse la corretta pianificazione, non la tutela di alcuni, pur importanti, interessi.

E infine, tante novità ma nessuna reale semplificazione delle procedure. Oggi sono le amministrazioni che chiedono più semplicità. Lo fanno perché a contatto tutti i giorni con una realtà economica che chiede rapidità e certezza nelle decisioni. Potenziare i processi di coinvolgimento, semplificare i processi decisionali, questa è la sfida che chiediamo venga affrontata.

Mi permetta di riferirLe il mio convincimento a proposito del senso del servizio nelle pubbliche amministrazioni: se questo è il destino della pianificazione urbanistica, se il futuro ci riserva faticose contrattazioni con i privati all'interno di procedure obsolete, sarà difficile per chi non fa della politica la propria ragione di vita trovare motivazioni che giustifichino un'importante sottrazione di tempo ed energie alla vita privata e alle professioni.

Per ora l'unica differenza sostanziale tra i due, oltre all'età e alla base elettorale, è che il giovanotto è incensurato.

Attac Italia online, 29 agosto 2014

Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato s rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più.

Questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa: entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%.

Se non accetteranno il diktat, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi!

Come già Berlusconi, anche Renzi si mette la foglia di fico di non nominare l’acqua fra i servizi da consegnare ai capitali finanziari; ma, a parte il fatto che il referendum non riguardava solo l’acqua, bensì tutti i servizi pubblici locali, è evidente l’effetto domino del provvedimento, sia sulle società multiutility che già oggi gestiscono più servizi (acqua compresa), sia su tutti gli enti locali che verrebbero inevitabilmente spinti a privatizzare tutto, anche per poter usufruire delle somme derivanti dalla cessione di quote, che il Governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del patto di stabilità.

Nel pieno della crisi sistemica, ecco dunque il cambio di verso dello scattante premier: non più l’obsoleta privatizzazione dei servizi pubblici locali, bensì la loro diretta consegna agli interessi dei grandi capitali finanziari, che da tempo attendono di poter avviare un nuovo ciclo di accumulazione, attraverso “mercati” redditizi e sicuri (si può vivere senza beni essenziali?) e gestiti in condizione di monopolio assoluto (per un solo territorio vi è un solo acquedotto, un solo servizio rifiuti).

Da queste norme, traspare in tutta evidenza l’idea non tanto dell’eliminazione del “pubblico” –quello è bene che rimanga, altrimenti chi potrebbe organizzare il controllo sociale autoritario delle comunità?- bensì della sua trasformazione da erogatore di servizi e garante di diritti, con un’eminente funzione pubblica e sociale, in veicolo per l’espansione della sfera d’influenza degli interessi finanziari sulla società.

Naturalmente, è ancora una volta la Cassa Depositi e Prestiti ad essere utilizzata per questo enorme disegno di espropriazione dei beni comuni: come già per la dismissione del patrimonio pubblico degli enti locali, è già allo studio un apposito fondo per finanziare anche la privatizzazione dei servizi pubblici locali.

Emerge, oggi più che mai, la necessità di una nuova, ampia e inclusiva mobilitazione sociale, che deve assumere la riappropriazione della funzione pubblica e sociale dell’ente locale come obiettivo di tutti i movimenti in lotta per l’acqua e i beni comuni, e di una nuova finanza pubblica e sociale, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti.

E, poiché il disegno di espropriazione dei servizi pubblici locali viene portato avanti con il pieno consenso dell'Anci, espresso a più riprese dal suo Presidente Piero Fassino, una domanda sorge spontanea: non è il momento per i molti Sindaci che ancora non hanno abdicato al proprio ruolo di primi garanti della democrazia di prossimità per le comunità locali, di iniziare a ragionare su un'aggregazione alternativa degli enti locali, fuori e contro un Anci al servizio dei poteri forti?

«La transizione egemonica mondiale e la resistenza ad essa degli Usa rendono più instabili le condizioni dei paesi di confine fra Est e Ovest: in Europa, un tempo i Balcani, oggi l’Ucraina; nel Medio Oriente tutti i paesi, nessuno escluso».

Il manifesto, 28 agosto 2014
Non c’è che dire: papa Borgoglio gode di un lungo momento di grazia nell’opinione pubblica mondiale. Ogni cosa che dice diventa di riferimento anche in ambito non confessionale. Ne sia esempio la sua recente dichiarazione sull’esistenza nel mondo contemporaneo di una terza guerra mondiale “a pezzetti”. Il Papa non è un analista politico e quindi non si può pretendere da lui l’esattezza della definizione, ma è un fatto che essa ha sfondato anche nel campo della sinistra che pensa di interpretare così le varie guerre guerreggiate sanguinosamente in corso, dall’Ucraina al MedioOriente. D’altro canto, vista la mancanza di profondità nella ricerca analitica e di pensieri lunghi nel campo della sinistra non deve stupire né infastidire questa supplenza pontificia.

Resta da domandarsi se le cose stanno proprio così. Se il papa ci ha preso oppure no. Propenderei, con tutto il rispetto e - perché no - anche ammirazione, per il no. Per quanto molteplici siano i conflitti in corso, non credo che si possa parlare di una terza guerra mondiale seppure a macchia di leopardo e a bassa intensità. Siamo piuttosto di fronte – ma ogni definizione è per necessità, come diceva il grande filosofo, una limitazione – ad una guerra civile prolungata senza frontiere, ove entrano in gioco una molteplicità di soggetti dai contorni imprecisi.

Per spiegarmi devo riprendere per sommi capi un punto che ritengo cruciale nell’analisi della crisi economica tutt’ora in corso – per l’Europa molto peggiore di quella degli anni Trenta – e che viene però o sottaciuto o negato. La crisi è trasformazione, non crollo. Anzi una grande trasformazione, per parafrasare Polanyi. Questa crisi si colloca e rimarca l’avvento di una grande transizione egemonica mondiale, ove il baricentro del potere, economico in primo luogo, si sposta da ovet ad est, dall’Atlantico al Pacifico. Non è la prima volta che nella storia dell’umanità avvengono passaggi così cruciali, come ci ha insegnato Fernand Braudel e la sua scuola. Questo è uno di quelli.

In questa crisi è maturato il sorpasso nel primato mondiale delle nazioni tra la Cina e gli Stati Uniti d’America. Qualche dato snocciolato in breve aiuta a valutare la portata del fenomeno. Tra il 2000 e il 2008, il commercio internazionale della Cina è quadruplicato. Le esportazioni sono aumentate del 474 per cento e del 403 per cento delle sue importazioni. Al contrario gli Stati Uniti hanno perso la loro posizione di prima potenza commerciale del mondo, una leadership che detenevano da un secolo. Prima della crisi finanziaria globale del 2008, gli Stati Uniti erano il principale partner commerciale di 127 paesi nel mondo, la Cina lo era solo per un po’ meno di 70 paesi. Oggi, Pechino è diventata il principale partner commerciale di 124 stati, mentre Washington lo è solo di circa 70 paesi. Su questa base la Cina pensa di potere imporre prima o poi la propria moneta quale riferimento per le transazioni internazionali scalzando definitivamente il primato del dollaro.

D’altro canto non vi è dubbio che la Cina ha saputo reagire prima e meglio agli effetti della crisi mondiale. Lo ha fatto in virtù di un sistema fortemente centralizzato che attua un fermo controllo sui movimenti dei capitali. Non mancano, anzi sono in crescita, le tensioni e i conflitti sociali nell’universo cinese, ma anche le imminenti celebrazioni di Deng Hsiao Ping - con una megaproduzione televisiva tale da fare impallidire i tormentoni americani – sembrano configurare l’era comunista come una parentesi fruttuosa tra una società ancora largamente precapitalista ed una a capitalismo sviluppato proiettata nella globalizzazione con e grazie ad un forte intervento e controllo statali. In più la Cina ha saputo muoversi sullo scacchiere mondiale con un’attenzione particolare ai grandi fattori economici che possono cambiare d’un colpo solo la geoeconomia e la geopolitica del globo terrestre. Non mi riferisco soltanto alla preveggente penetrazione cinese in Africa, ma anche al recente accordo con la Russia sulle forniture di gas e al progetto con gli altri Brics di dare vita ad una sorta di banca mondiale alternativa a quella attuale.

Il ruolo migliore che la presidenza Obama poteva assumersi di fronte alla storia per non lasciare un cattivo ricordo di sé, era quello di fare in modo che questo inevitabile trapasso di primato avvenisse nel modo più pacifico possibile. Naturalmente era una speranza assai fragile e gli avvenimenti successivi l’hanno facilmente contraddetta.

Sul piano geoeconomico e geopolitico gli Usa si muovono con decisione tentando di contenere la Cina e i Brics attraverso accordi capestro economico commerciali, fra cui il famigerato TTIP, che riguarda direttamente l’Europa; il TPA (trans pacific agreement) che però il Giappone mostra di non gradire; il meno noto TISA (trade in services agreement). Gli ultimi due sono in diretta funzione anticinese e antiBrics, il primo cerca di togliere sul nascere all’Europa ogni illusione di potere giocare un ruolo autonomo in questo processo di transizione egemonica mondiale.

Gli Usa hanno perso il primato economico, ma non certo quello militare. Sono teoricamente in grado di vincere qualunque guerra, ma non più di sostenerla economicamente. E di guerre lampo non se ne sono viste, tranne che nella sceneggiata di Granada. La differenza con il passato non è piccola. Anche con quello recente della guerra preventiva e infinita dei Bush e dei Clinton, quella semplificata con l’esempio dell’uccisione preventiva dell’orso – che ricorda quello che vorrebbe fare la Lega Nord nei confronti dell’orsa “anomala” di Pinzolo – raccomandata da Robert Kagan. Ecco allora che gli strateghi statunitensi rovistano nel passato. Nell’autorevole Foreign Affairs di luglio/agosto 2014, Jack Divine – 32 anni nella Cia – annota che: “ L'esperienza degli USA in Cile nei primi anni '70 ha offerto una serie di lezioni su come portare avanti buone azioni segrete e su come evitarne di cattive. Alcune di queste lezioni sono state imparate, ma troppe di queste no” quindi, continua Divine, gli Usa si lasciano alle spalle le grandi azioni militari in Afghanistan e Iraq ed entrano in un nuovo periodo “nel quale le azioni segrete diventeranno davvero cruciali in luoghi come Iran, Pakistan, Syria e Ucraina.” Appunto.

La transizione egemonica mondiale e la resistenza ad essa degli Usa rendono quindi più instabili le condizioni dei paesi di confine fra Est e Ovest: in Europa, un tempo i Balcani, oggi l’Ucraina; nel Medio Oriente tutti i paesi, nessuno escluso. Gli altri non stanno a guardare. Non la Russia di Putin, né tantomeno le forze che hanno fatto del fanatismo religioso islamico la loro forza egemonica. Ognuno cerca di riposizionarsi in questo trapasso mondiale, ridisegnando i confini geografici di intere zone del mondo, ove è più funzionale la guerra civile potenziata e foraggiata che non la classica invasione militare. Le contraddizioni interimperialistiche – si sarebbe detto un tempo – si risvegliano in nuove forme. Il Califfato oggi è questo: non solo terrorismo diffuso ma soffocamento delle istanze libertarie, progressiste e anche laiche che erano presenti nelle primavere arabe, in particolare tra le donne ed i giovani, come nella resistenza palestinese, per la costruzione di un nuovo stato nel nome della reazione più pura e brutale.
Postilla
Prosegue l'esplorazione delle molte facce della fase attuale del capitalismo. invece di parlare di una terza guerra mondiale è più esatto riferirsi a« una guerra civile prolungata senza frontiere, ove entrano in gioco una molteplicità di soggetti dai contorni imprecisi». Le turbolenze sociali e le ribellioni degli sfruttati s'intrecciano con la grande transizione dei poteri statuali, nella quale emerge del nuovo ruolo assunto dalla Cina. Del resto già David Harvey aveva inserito Deng Hsiao Ping tra i quattro "cavalieri dell'Apocalisse nella sua breve storia del neoliberalismo (2005)

«. La Repubblica, 28 agosto 2014

Sembra che Renzi abbia frenato lo slancio con cui la ministra Giannini, sbilanciandosi molto nel parlare alla non disinteressata platea di Cl, aveva promesso più soldi alle scuole paritarie come parte importante della riforma della scuola in cantiere (ormai non c’è governo che non ne faccia una, con risultati non sempre apprezzabili).

Ma la Giannini ha fatto di più che promettere maggiori fondi. Ha infatti affermato che occorre superare «le posizioni ideologiche» per quanto riguarda la distinzione scuola pubblica/scuola paritaria, e di conseguenza i relativi finanziamenti, per «guardare solo alla qualità». Le ha dato successivamente manforte il sottosegretario Toccafondi, che ha spiegato: «Per troppo tempo in questo Paese si è detto che la scuola era pubblica o privata. La scuola è tutta pubblica e si divide in statale e non statale».

Non ci si può neppure stupire. È un processo iniziato con il maquillage linguistico, operato dal governo Prodi e dal ministro Berlinguer, che ha trasformato le scuole private, appunto, in pubbliche, per aggirare il dettato costituzionale, che ammette, e ci mancherebbe, la piena libertà di istituire scuole a organismi diversi, ma “senza oneri per lo stato”. Definita la scuola paritaria parte del sistema pubblico, il gioco sembra fatto. La scuola paritaria non solo è legittimata ad accedere ai fondi pubblici, ma a competere per essi con quella pubblica/statale.
Finora ciò era avvenuto con fondi “a parte” – ancorché sempre sottratti al sistema autenticamente pubblico, anche in questi ultimi anni di tagli dolorosi. Sembra di capire che Giannini auspichi un finanziamento sistematico, regolare che non distingua più tra i due sistemi, salvo che sulla base della “qualità”. Sembra così ignorare che il dettato costituzionale non è solo una norma di tipo finanziario, ma una precisa regola di attribuzione di responsabilità.
Lo Stato ha la responsabilità prioritaria di garantire un’istruzione di qualità a tutti, senza privilegiare né il ceto sociale, né particolari opzioni di valore o visioni del mondo (salvo quelle della libertà, della democrazia, della uguale dignità di ciascuno), ma se mai metterle in comunicazione tra loro. Tutte le risorse disponibili vanno investite in questa direzione. Dio sa quanto ce ne sia bisogno in Italia, dove le disuguaglianze nello sviluppo delle competenze cognitive tra classi sociali e ambiti territoriali costituiscono una denuncia drammatica del fallimento dello Stato nel far fronte a quella responsabilità proprio nei confronti dei suoi cittadini più svantaggiati. Si può, si deve, anche ampliare la sfera del “pubblico”, non già, tuttavia, a scuole private con le loro legittime visioni del mondo (e regole di reclutamento degli insegnanti), ma alle comunità locali, agli individui e associazioni che possono integrare e arricchire le offerte educative della e nella scuola pubblica, alla costruzione di spazi, metodi e competenze perché la pluralità delle visioni del mondo possano confrontarsi criticamente e dove i bambini e i ragazzi non siano costretti a muoversi in una sola, per quanto ricca, pregevole, carica di storia. Non è detto che tutti gli insegnanti della scuola pubblica siano attrezzati per farlo. Ma ciò vuol dire che nel formarli e aggiornarli occorrerà tener presente anche questa dimensione, non che se ne può fare a meno.

Il riconoscimento di statuto pubblico alle scuole paritarie ha già fatto danni nelle scuole dell’infanzia, nella misura in cui un comune non si sente più in obbligo di fornire il servizio se in un determinato quartiere c’è già una scuola paritaria; anche se questa, come capita per lo più, è di tipo confessionale e non risponde agli orientamenti culturali dei genitori. Era questo il motivo del referendum bolognese, fallito per scarsa affluenza e per il timore, alimentato dall’amministrazione, che senza le scuole paritarie molti bambini non avrebbero avuto posto – appunto perché i finanziamenti erano stati dirottati lì.

Ancora più grave è quanto è successo in Piemonte con l’amministrazione di centrodestra. Una legge regionale ha stabilito non solo l’equiparazione tra scuole per l’infanzia pubbliche e paritarie, ma ha dato alle seconde diritto di veto all’istituzione di una scuola pubblica sul “proprio” territorio, nel caso questa rischi di ridurne il bacino di utenza. Il modello Giannini realizzato?
Ora la nuova amministrazione regionale ci metterà una pezza, se non altro eliminando il diritto di veto. Ma rimane il fatto che, una volta riconosciuto il diritto al finanziamento pubblico delle scuole paritarie la competizione sulle risorse continuerà. Con il modello Giannini, rischia di estendersi dalla scuola per l’infanzia a quella dell’obbligo e oltre, con buona pace del diritto di scelta delle famiglie e soprattutto delle opportunità dei bambini e ragazzi di essere educati in un contesto culturalmente pluralistico. Su questi punti, e non solo sull’entità dei finanziamenti, è opportuno che Renzi e il governo facciano chiarezza, approfittando della pausa di riflessioni che si sono presi sull’argomento.

Ancora un primato negativo. «Informazione . Una concordia asfissiante. Dall’inizio delle larghe intese, la stampa e la tv italiane hanno cambiato pelle acconciandosi alla funzione assai poco onorevole del portavoce zelante delle verità del governo». il manifesto, 27 agosto 2014

Siamo pro­prio sicuri che lo stato (deso­lante) dell’informazione poli­tica in Ita­lia rien­tri nella nor­ma­lità, che asse­gna alla «strut­tura mate­riale dell’ideologia» la fun­zione di pro­teg­gere e con­so­li­dare l’esta­blishment? Fosse così, non ci ras­se­gne­remmo, ma nem­meno avremmo la per­ce­zione di una situa­zione patologica.

In tutti i paesi del mondo, sotto qual­siasi regime, la «grande stampa» aiuta il potere. Rico­no­scerlo non implica equi­pa­rare sistemi tota­li­tari e plu­ra­li­stici. Né igno­rare la rile­vanza dei diritti di libertà e l’importanza della fun­zione svolta, nei sistemi plu­ra­li­stici, dalla stampa indi­pen­dente e di oppo­si­zione. Resta che ovun­que tra stampa e potere inter­cor­rono rap­porti di mutuo soc­corso. Che il mondo dell’informazione è dap­per­tutto con­ti­guo ai luo­ghi del potere eco­no­mico e poli­tico. Che spesso il con­fine tra infor­ma­zione e pro­pa­ganda è labile e di dif­fi­cile demar­ca­zione. Ma c’è un ma.

O un limite, se si pre­fe­ri­sce. Di norma la coo­pe­ra­zione tra stampa e potere non impe­di­sce agli organi di infor­ma­zione di ope­rare anche come fat­tori costi­tu­tivi dell’opinione pub­blica e suoi por­ta­voce. Né pre­clude alla grande stampa una fun­zione di con­trollo e di sti­molo – talora di denun­cia – nei con­fronti delle altre istanze del potere. Si pensi, per esem­pio, al gior­na­li­smo d’inchiesta, ancora vivo in Ger­ma­nia e nel mondo anglo­sas­sone, e non appan­nag­gio delle testate di opposizione.

Coo­pe­ra­zione e cri­tica: in que­sto bino­mio con­trad­dit­to­rio si con­densa la rela­zione tra­di­zio­nale tra stampa e potere in demo­cra­zia. Il che vale a pre­ser­vare una qual­che fun­zione terza dell’informazione anche in tempi di pen­siero unico impe­rante. Accade lo stesso oggi in Ita­lia? Si può dire che anche nel nostro paese le mag­giori testate della carta stam­pata e del gior­na­li­smo tele­vi­sivo pub­blico e pri­vato man­ten­gono un equi­li­brio tra pros­si­mità e alte­rità al potere che per­metta loro di assol­vere almeno in parte il com­pito di infor­mare senza troppo deformare?

Deci­sa­mente no. Da tempo – almeno dall’inizio dell’infausta sta­gione delle lar­ghe intese, più pro­ba­bil­mente da quando la crisi eco­no­mica imper­versa – la stampa ita­liana (fatte le debite ecce­zioni) ha cam­biato regi­stro. Se ancora all’epoca della rissa bipo­lare tra cen­tro­si­ni­stra e destra era pos­si­bile imbat­tersi in qual­che ana­lisi spre­giu­di­cata e cogliere fram­menti di verità tra le righe di com­menti o reso­conti (pur­ché, benin­teso, non si trat­tasse della santa alleanza con gli Stati uniti e delle guerre sca­te­nate nel nome della demo­cra­zia <CW-17>e dei diritti umani), oggi regna invece un’asfissiante con­cor­dia. Intorno ai feticci della gover­nance neo­li­be­rale – le “riforme” in pri­mis, evo­cate osses­si­va­mente come una pana­cea per tutti i mali. Intorno alle figure che la incar­nano – dal capo dello Stato al pre­si­dente del Con­si­glio in carica, pas­sando per il pre­si­dente della Bce. Intorno alle poli­ti­che per mezzo delle quali viene com­pien­dosi la meta­mor­fosi ame­ri­ca­ni­sta della società, il suo rapido regre­dire verso assetti post­de­mo­cra­tici, auto­ri­tari e oligarchici.

Docu­men­tarlo sarebbe sin troppo age­vole. Basti un banale espe­ri­mento. L’attuale pre­mier si è accre­di­tato come l’uomo del cam­bia­mento e, appunto, delle riforme. È un ruolo che sta a pen­nello a un yup­pie della poli­tica, venuto su col logo del rot­ta­ma­tore. Ma que­sta è una scelta d’immagine, è la sua auto­rap­pre­sen­ta­zione. Non dovrebbe costi­tuire il con­te­nuto dell’informazione, la quale avrebbe invece il dovere di entrare nel merito delle sedi­centi riforme, parola magica che da vent’anni desi­gna i misfatti dei governi nel nome del risa­na­mento. Bene, pro­vate a vedere che suc­cede in pro­po­sito, se mai un gior­na­li­sta, inter­vi­stando Renzi o com­men­tan­done le debor­danti dichia­ra­zioni in schietto stile nien­ta­li­sta, si prende la briga di discu­tere il cri­te­rio in base al quale un prov­ve­di­mento può defi­nirsi “riforma” e si distin­gue da un altro che non ne è degno.

Riforme erano dette anche quelle del fasci­smo, che di cose ne cam­biò effet­ti­va­mente molte e in pro­fon­dità. Non sarebbe allora il caso di costrin­gere chi governa a uscire dalla pro­pa­ganda e a dichia­rare i pro­pri reali inten­di­menti? Non sarebbe un gesto di rispetto verso let­tori e tele­spet­ta­tori incal­zarlo, far­gli pre­senti i costi sociali delle sue deci­sioni oltre che i loro van­tati bene­fici? Non sarebbe que­sta un’elementare clau­sola di dignità per chi, facendo il gior­na­li­sta, non dovrebbe accet­tare di degra­darsi a veli­naro, a supino ampli­fi­ca­tore della voce del padrone di turno?

Ma, parole magi­che a parte, il discorso ha una por­tata ben più vasta. E i pos­si­bili esempi si sprecano.

È mai pos­si­bile che nes­suno trovi da ridire quando un mem­bro del governo o del Pd recita la gia­cu­la­to­ria del «40 per cento degli ita­liani che ci chie­dono le riforme»? È decente fin­gere di non ricor­dare che in mag­gio si votò per le euro­pee con la fon­data paura della marea fasci­sta, e che a nes­sun elet­tore ita­liano venne in mente allora di con­ce­dere al governo cam­biali in bianco per sfa­sciare la Costi­tu­zione, fare nuo­va­mente cassa con le pen­sioni o stra­vol­gere lo stato giu­ri­dico del pub­blico impiego?

Un caso para­dig­ma­tico è l’evasione fiscale. Gior­nali e tele­gior­nali ne par­lano, ine­vi­ta­bil­mente, quando la Corte dei conti o l’Agenzia delle entrate dirama le solite scan­da­lose cifre che non hanno eguali al mondo. Per la cro­naca siamo poco sotto i 190 miliardi di euro sot­tratti ogni anno alle finanze pub­bli­che. Visto che i numeri hanno una loro ogget­ti­vità, il dato dovrebbe domi­nare la pagina eco­no­mica. All’opinione pub­blica – ammesso che in Ita­lia ne esi­sta ancora una – sarebbe dove­roso spie­gare quali nessi sus­si­stono tra que­sto gigan­te­sco ammanco e la dram­ma­tica fame di risorse nei bilanci delle pub­bli­che ammi­ni­stra­zioni e delle fami­glie dei lavo­ra­tori dipen­denti. Si dovrebbe chia­rire come non sia casuale che, van­tando que­sto record, l’Italia sia anche in cima alle clas­si­fi­che del debito pub­blico, della disoc­cu­pa­zione e della pres­sione fiscale sul lavoro. Niente di niente, invece. Il tema è tabù. I cit­ta­dini deb­bono restare inerti sotto il bom­bar­da­mento della nar­ra­zione uffi­ciale della crisi.
E così via esem­pli­fi­cando. Nel Medi­ter­ra­neo si con­suma ogni giorno la strage dei migranti.

C’è mai qual­cuno che, com­men­tando gli spro­po­siti di un mini­stro o del leghi­sta di turno, ram­menti che i migranti non chie­dono bene­vo­lenza: eser­ci­tano un diritto invio­la­bile? Che a quanti di loro fug­gono da guerre e per­se­cu­zioni nes­suno può legit­ti­ma­mente rifiu­tare asilo? E che gli Stati che non li accol­gono vio­lano norme fon­da­men­tali del diritto inter­na­zio­nale? Quanto al ter­ro­ri­smo, largo alle stru­men­ta­liz­za­zioni di chi blocca sul nascere ogni discus­sione al riguardo. Non sia mai che ci si inter­ro­ghi sulle respon­sa­bi­lità occi­den­tali nella cata­strofe medio­rien­tale. E che, di ter­ro­ri­sta in ter­ro­ri­sta, a qual­cuno venga in mente di chie­dere conto anche a Neta­nyahu. Fran­ca­mente dispiace che la recente pole­mica tra Grillo e il Tg1 sia stata liqui­data anche a sini­stra come l’ennesima aggres­sione di un ener­gu­meno. I modi offen­dono, ma la sostanza resta e meri­te­rebbe ben altra considerazione.

Sotto la cappa del potere finan­zia­rio trans­na­zio­nale, ammi­ni­strato dalla tecno-burocrazia euro­pea e dai suoi pro­con­soli nostrani, il gior­na­li­smo ita­liano ha per­lo­più mutato pelle, accon­cian­dosi alla fun­zione assai poco ono­re­vole del por­ta­voce zelante. Che divulga e accre­dita le verità dispen­sate dall’alto, e con ciò impe­di­sce la for­ma­zione di un’opinione pub­blica docu­men­tata e cri­tica. E non si creda che il rife­ri­mento al qua­dro dei poteri domi­nanti atte­sti un nesso cogente. Non vi è alcuna neces­sità in tale con­nes­sione, né vi opera una forza incoer­ci­bile. Sono in gioco, al con­tra­rio, la libera scelta di cia­scuno e la sua respon­sa­bi­lità intel­let­tuale e morale. La pato­lo­gia di un gior­na­li­smo asser­vito è parte inte­grante della più grave que­stione all’ordine del giorno, quella del pro­li­fe­rare delle caste e della cor­ru­zione in esse dilagante

Rimet­tere i diritti del lavo­ra­tore al mer­cato, come vorrebbero Draghi e Renzi, non signi­fica solo can­cel­lare di colpo più di un secolo di sto­ria, ma anche scar­di­nare in larga misura l’architettura della prima parte della Costi­tu­zione.

Il manifesto, 26 agosto 2014

L’ultima e defi­ni­tiva lapide sulla riforma del senato l’ha messa Cal­de­roli, già padre del Por­cel­lum, e ora del Mer­di­nel­lum. A quanto pare, pro­prio non gli rie­sce di fare un salto di qua­lità. Nella cat­tiva poli­tica di un tempo, un rela­tore avrebbe piut­to­sto dato le dimis­sioni. Evviva il cambiamento.

Men­tre il padre cer­ti­fi­cava alla sto­ria il giu­di­zio sulla sua prole, altrove si chia­riva la vera posta in gioco. Nella riu­nione dei ban­chieri cen­trali a Jack­son Hole il 22 ago­sto, si è discusso di mer­cato del lavoro. Dra­ghi, per il quale Renzi ha espresso apprez­za­mento e con­di­vi­sione, ha riba­dito la sua pres­sante richie­sta di riforme strut­tu­rali. Quali? In sin­tesi, la filo­so­fia della riforma auspi­cata è que­sta: dalla crisi si esce rimet­tendo i diritti dei lavo­ra­tori al mer­cato. Ogni tutela è sino­nimo di dan­nosa rigidità.

È ad esem­pio illu­mi­nante il pas­sag­gio del discorso nel quale Dra­ghi trac­cia un paral­lelo tra Spa­gna e Irlanda. Quest’ultimo paese avrebbe meglio con­tra­stato la cre­scita della disoc­cu­pa­zione con­sen­tendo - tra l’altro - una più ampia pos­si­bi­lità di com­pri­mere i salari (in inglese ele­gante, dow­n­ward wage adjust­ment) sin dal 2008. In breve, lavo­rare affa­mati. L’Italia pos­siamo vederla in tra­spa­renza die­tro la Spa­gna. Per­sino la Yel­len, capo della Fede­ral Reserve USA, sem­bra più attenta ai risvolti sociali, quando nello stesso sim­po­sio si chiede se la crisi non abbia pro­dotto danni strut­tu­rali sul mer­cato del lavoro, e indica nel sot­toim­piego un ele­mento di per­du­rante rischio per l’economia statunitense.

Rimet­tere i diritti del lavo­ra­tore al mer­cato non signi­fica solo can­cel­lare di colpo più di un secolo di sto­ria, ma anche scar­di­nare in larga misura l’architettura della prima parte della Costi­tu­zione. Non spetta a Dra­ghi e alla BCE veri­fi­care se, in che misura e con quali moda­lità un dow­n­ward wage adjust­ment sia com­pa­ti­bile con gli artt. 35, 36 e 37 della Costi­tu­zione ita­liana. Né spetta a loro valu­tare quali effetti col­la­te­rali un inde­bo­li­mento delle garan­zie per il lavoro com­por­te­rebbe per il diritto di for­mare una fami­glia, di avere dei figli, o una casa. O ancora per l’istruzione o la salute. Ma a chi fa poli­tica in Ita­lia spetta, eccome.

Pre­oc­cu­pano con­sensi e plausi acri­ti­ca­mente espressi. Soprat­tutto per­ché in pro­spet­tiva l’attacco alla parte I della Costi­tu­zione può non venire solo da qui. Non tanto per i rumors sulle pen­sioni, per i quali vogliamo al momento cre­dere alle smen­tite gover­na­tive, quanto per i venti di guerra che ven­gono dal Medi­ter­ra­neo. Alfano comu­nica che rife­rirà in par­la­mento sul calif­fato Isis, ma che non dirà nulla di ita­liani che abbiano ade­rito alle for­ma­zioni armate, come è acca­duto in GB. Forse si vuole pre­ve­nire un effetto di imi­ta­zione. Ma la for­mula uti­liz­zata, man­cando una smen­tita netta, fa pen­sare che ita­liani pos­sono ben esservi. E rende rea­li­stico e attuale il timore di tro­varci con il ter­ro­ri­smo in casa.

Se que­sto sce­na­rio dovesse con­so­li­darsi, sarebbe facile pre­ve­dere nuove ten­sioni sulla prima parte della Costi­tu­zione. Non sui rap­porti eco­no­mici e sui nuovi diritti, tipi­ca­mente intro­dotti nelle costi­tu­zioni del secondo dopo­guerra, ma su diritti e libertà che rite­ne­vamo ormai defi­ni­ti­va­mente scritti nel costi­tu­zio­na­li­smo moderno dalla rivo­lu­zione fran­cese in poi, dalla libertà per­so­nale al diritto di difesa. Gli Stati Uniti ne hanno di recente fatto l’esperienza con il Patriot Act. E pos­siamo per noi ricor­dare – in forma minore – gli anni delle Bri­gate rosse.

Stiamo dun­que vivendo una fase in cui si intra­ve­dono, in atto o in pro­spet­tiva, rischi per tutto il tes­suto di libertà e diritti, vec­chi e nuovi. Se ne può uscire in due modi: con più demo­cra­zia, o meno demo­cra­zia. E in que­sto pos­sono tro­vare spie­ga­zione riforme appa­ren­te­mente insensate.

La sto­ria dimo­stra che sono i par­la­menti, e non i governi, a dare voce e vita ai diritti e alle libertà dei cit­ta­dini. Pur­ché, ovvia­mente, siano rap­pre­sen­ta­tivi. È que­sta loro pecu­liare natura che li legit­tima a tale com­pito, for­mal­mente e sostan­zial­mente. Com­pri­mere la rap­pre­sen­ta­ti­vità del par­la­mento signi­fica inde­bo­lire il primo difen­sore isti­tu­zio­nale di diritti e libertà. Ed ecco che, tra liste bloc­cate, camere non elet­tive, e domi­nanza degli ese­cu­tivi sui lavori par­la­men­tari, il cer­chio si chiude. È la rispo­sta di chi vuole affron­tare la crisi con meno demo­cra­zia. E non vale come smen­tita il richiamo di Cal­de­roli al refe­ren­dum sul modello sviz­zero, peral­tro anche tec­ni­ca­mente ine­satto e comun­que rin­viato, quanto a con­di­zioni ed effetti, a una suc­ces­siva e diversa legge costi­tu­zio­nale (art. 71, u. co, testo aula).

Le crisi ci sono, e non pos­siamo igno­rarle. Spetta alla sini­stra – che vede con­te­stata la sua stessa ragion d’essere - avan­zare pro­getti alter­na­tivi, se ne ha. Il peri­colo è la man­canza di idee più che l’arrogante gio­va­ni­li­smo di Renzi. Al costi­tu­zio­na­li­sta spetta riba­dire che il cuore di ogni costi­tu­zione è nelle libertà e nei diritti. Ad essi deve rima­nere ser­vente l’organizzazione dei poteri, e l’asse prin­ci­pale di ogni indi­rizzo poli­tico. Que­sto non dovrebbe mai essere dimen­ti­cato dai gover­nati, e in spe­cie dai gover­nanti. Diver­sa­mente, si può solo entrare di diritto nel club della con­ce­zione escre­men­ti­zia delle istituzioni

l problema, come al solito, è adoperare ogni strumento in modo appropriato e adatto al bisogno che può soddisfare: come una spada non è un aratro, così un quotidiano non è una rivista, sfogliare un libro non è leggere una e-mail, una mailing list non è come un portale, facebook non è tweet.

Comune.info.net, 25 agosto 2014

Ignacio Ramonet (già direttore di Le Monde Diplomatique e autore di L’esplosione del giornalismo, Intramoenia e Democraziakmzero) afferma che internet ha avuto sul mondo dell’ informazione lo stesso effetto del meteorite che colpì la terra provocando l’estinzione dei dinosauri (la carta stampata) senza però essere compensata dalla speciazione di esseri viventi più evoluti.

I media digitali si diffondono grazie agli smartphone con cui siamo istantaneamente connessi, ma l’effetto è un frastuono che non migliora le relazioni umane. Uno dei tanti casi in cui quantità e qualità non coincidono. Il giornalismo di inchiesta sparisce mentre emergono nuove forme di accentramento e concentrazione attorno ai siti di vecchi e nuovi branddell’informazione: il NYT, The Guardian, Huffington Post, per dirne alcuni. Da noi, la solita Repubblica e il nuovo Fatto Quotidiano.

Eppure le potenzialità democratiche della rete sono enormi. Lo abbiamo visto da Seattle a Gezy Park, da Occupy Wall Street alle primavere arabe, dal partito dei pirati di Berlino a Podemos. Senza i “giornalisti di strada” del Centro Media di Genova non avremmo mai saputo del “massacro messicano” in corso alla Diaz nel 2001.

I social network creano reti includenti e interattive, conviviali, senza apparenti mediazioni. Producono linguaggi e appartenenze sociali. Aiutano l’organizzazione di campagne, eventi, mobilitazioni. La sitografia dell’autoproduzione comunitaria delle notizie (gratuita e senza editori) è vastissima. Ecco alcuni esempi random: comune-info.net, dirittiglobali.it, eddyburg.it, redattoresociale.it, lavoroculturale.org, cronachediordinariorazzismo.org, globalproject.info, dinamopress.it, sbilanciamoci.info, comedonchisciotte.org, articolo21.org, eco-magazine.info… oltre agli internazionali: zetanet.com, rebellion.co.uk, diagonalperiodico.net. Ma nel mondo delle buone pratiche resistono anche baluardi di carta come Altreconomia e Aam Terra Nuova e una galassia di periodici locali come Altrapagina in Umbria. Marco Geronimi Stoll ha scritto un manuale, Smarketing (edizioni Altreconomia), per consigliare ai “partigiani della comunicazione” (piccole Ong, comitati, associazioni, ecc.) come essere se stessi per bene comunicare usando canali ecologici, economici, etici.

L'irresponsabile cecità delle politiche del Primo mondo hanno condotto all'attuale trionfo della barbarie. Ma «se non si vuole ricadere in una strategia che combatte la ferocia con altra ferocia converrà abbandonare per i seguaci e le milizie del califfato l’abusata categoria di "terrorismo"». Il manifesto, 24 agosto 2014

Gli espo­nenti del M5S sem­brano pos­se­dere un talento, quasi innato, nel ridurre a scioc­chezza anche il più serio dei pro­blemi. La vec­chia reto­rica del “pane al pane e vino al vino” fini­sce col sacri­fi­care la chia­rezza a quella bana­lità rozza e scur­rile che spiana la strada alla peg­gior pro­pa­ganda “occi­den­ta­li­sta”, e all’interessata incom­pren­sione delle scelte poli­ti­che e stra­te­gi­che che hanno con­dotto il Vicino Oriente all’attuale disastro. Eppure, qual­che ele­mento abba­stanza chiaro poteva essere messo in campo per comin­ciare a ragio­nare con la testa.

Se gli stra­te­ghi ame­ri­cani aves­sero capito per tempo che la guerra fredda era vinta, anche senza ali­men­tare l’estremismo isla­mico con­tro i nazio­na­li­smi post­co­lo­niali, tutti ne avremmo avuto molto da gua­da­gnare, e gli Stati uniti per primi. Oggi non c’è ana­li­sta geo­po­li­tico né sto­rico di una qual­che serietà che non ammetta che l’espansione dell’islamismo poli­tico e delle sue espres­sioni mili­tari sia avve­nuta in quel con­te­sto e abbia com­por­tato con­se­guenze disa­strose. Cosa vi era di meglio della reli­gione, del suo ordine gerar­chico, della sua presa e del suo radi­ca­mento nel pre­giu­di­zio popo­lare per con­tra­stare i senza dio blan­diti e mani­po­lati dal Crem­lino? E, in fondo in fondo, magari incon­sa­pe­vol­mente, la destra Usa apprez­zava più il rigore morale delle reli­gioni che non l’anarchia dell’ateismo.
In qual­che caso il “lai­ci­smo” con­ver­tito, come quello di Sad­dam, poteva tor­nare utile con­tro il corso anti­oc­ci­den­tale preso dalla rivo­lu­zione ira­niana, ma intanto in Afgha­ni­stan sta­zio­nava l’armata rossa. Chi si sarebbe inca­ri­cato di farla slog­giare? E di minare dall’interno i regimi socia­li­steg­gianti appog­giati dall’Unione sovie­tica? Certo, non sareb­bero bastati i soldi, le armi, gli adde­stra­menti ame­ri­cani e sau­diti a spo­de­starli se la sto­ria dei nazio­na­li­smi post­co­lo­niali non avesse preso una piega buro­cra­tica, auto­ri­ta­ria, pro­fon­da­mente cor­rotta, men­tre l’Urss, infi­schian­do­sene alta­mente del “socia­li­smo” afri­cano, arabo o asia­tico che fosse, per­se­guiva una pura e sem­plice poli­tica di potenza nean­che troppo gene­rosa verso i suoi pro­tetti. Quei regimi, a dir poco dif­fi­cil­mente con­ver­ti­bili alla demo­cra­zia, pote­vano comun­que essere com­prati, ma biso­gnava prima sba­raz­zarsi dell’influenza sovie­tica e delle classi diri­genti troppo ideo­lo­giz­zate. E dun­que pun­tare sulle forze della tra­di­zione con­tro quelle che sven­to­la­vano, ormai più reto­ri­ca­mente che altro, le ban­diere del progresso.
Se vogliamo sem­pli­fi­care all’estremo pres­sa­poco la sto­ria è que­sta. E non sono solo i più incal­liti “anti­a­me­ri­cani” a soste­nerlo. Ma il gioco a distanza non sem­pre fun­ziona, men che meno nel mondo glo­ba­liz­zato. La “viet­na­miz­za­zione” del Medio oriente si è pre­sto tra­sfor­mata in un caos incon­trol­la­bile. Cosic­ché, ripe­tu­ta­mente, gli Stati uniti si sono dovuti impe­la­gare in un inter­vento diretto. Senza riu­scire a venire a capo del pro­cesso che ave­vano messo in moto. La parte dei senza dio e l’ostilità asso­luta che le viene indi­riz­zata, toc­cava ora a loro e ai loro alleati occi­den­tali. Che poi, le bombe, Abu Gra­hib e Guan­ta­namo doves­sero poten­te­mente ali­men­tare la spi­rale dell’odio è una sto­ria che viene dopo, a par­tita ini­ziata da un pezzo nel risiko impaz­zito alle­stito dalle ammi­ni­stra­zioni ame­ri­cane. Un gioco che la con­cen­tra­zione delle risorse ener­ge­ti­che in quell’area impe­diva di abban­do­nare, anche dopo il tra­monto dell’Urss che però non aveva can­cel­lato del tutto la potenza russa. Ci voleva poi tanto a met­tere insieme que­sti pochi pas­saggi invece di sbrai­tare facen­dosi tirare le orec­chie per­fino dai somari geo­po­li­tici dell’area di governo?
Non­di­meno il pro­blema, una volta sta­bi­lita la respon­sa­bi­lità dell’ “impe­ria­li­smo nor­da­me­ri­cano”, sus­si­ste e si aggrava ogni giorno di più. Il dot­tor Frank­en­stein, come narra il rac­conto, avrebbe inse­guito la sua mostruosa crea­tura fino al Polo nord per distrug­gerla. E sul fatto che il “calif­fato” di Al-Baghdadi debba essere scon­fitto anche sul piano bel­lico con­ver­rebbe con­cor­dare, essendo qual­siasi forma di diplo­ma­zia fuori gioco di fronte a una entità politico-militare costi­tu­ti­va­mente votata all’espansione illi­mi­tata e all’inimicizia asso­luta. Il pro­blema è sta­bi­lire come. Pos­si­bil­mente non nello stesso modo cinico e irre­spon­sa­bile con cui sono state costruite le pre­messe della sua insor­genza e del suo suc­cesso. Ma nean­che con i tempi di quella peda­go­gia demo­cra­tica che da tempo val meno di una burla.

La situa­zione è imba­raz­zante. L’Occidente si trova a dover ricor­rere a quanti fino a ieri figu­ra­vano tra le peg­giori cana­glie, il siriano Assad o l’Iran quasi ato­mico degli aya­tol­lah per far fronte all’ultimissimo “nemico pub­blico n 1″. Il risiko con­ti­nua e tira in ballo i kurdi, che cer­ta­mente navi­gano su un mare di petro­lio e bri­gano per la pro­pria indi­pen­denza, ma sono pur sem­pre in prima linea e si sono fatti le ossa con­tro una lunga sto­ria di oppres­sione che li pre­serva da incom­benti rischi di oscu­ran­ti­smo, ren­den­doli inter­lo­cu­tori non solo dell’Occidente ma, forse, anche di una più gene­rale e con­di­visa razio­na­lità politica.

Tut­ta­via, se non si vuole rica­dere in una stra­te­gia che com­batte la fero­cia con altra fero­cia con­verrà abban­do­nare per i seguaci e le mili­zie del calif­fato l’abusata cate­go­ria di “ter­ro­ri­smo”. Quella sulla base della quale tutti i regimi dit­ta­to­riali, come la Siria di Assad, l’Iran o l’Egitto dei gene­rali, per­se­gui­tano e mas­sa­crano i pro­pri oppo­si­tori e l’Occidente si sot­trae alle stesse regole e ai limiti di legit­ti­mità che pure si è dato. L’Isis, aldilà dai metodi ter­ro­ri­fici che impiega, non ha nulla in comune con una for­ma­zione ter­ro­ri­stica. Si tratta di uno stato, o embrione di stato, che dispone di un governo e di un eser­cito ben orga­niz­zato, che con­trolla un ter­ri­to­rio e che l’attuale fase espan­siva pre­serva, almeno per il momento, da con­flitti e con­trad­di­zioni interne, eser­ci­tando una for­mi­da­bile attrat­tiva sulla grande massa dei “per­denti”. Un embrione di stato che dispone di rela­zioni inter­na­zio­nali e alleanze, a comin­ciare dalle petro­mo­nar­chie del golfo, il cui tor­bido ruolo è cir­con­dato, come del resto le poli­ti­che asso­lu­ti­sti­che che le gover­nano, dal più asso­luto silen­zio degli Stati uniti. Un’entità quale il calif­fato di Al-Baghdadi non può che essere oggetto di una guerra con­ven­zio­nale, nel rispetto di quello ius in bello, che l’ideologia e la pra­tica dell’ “anti­ter­ro­ri­smo” hanno invece di fatto accan­to­nato. Piac­cia o non piac­cia, la guerra è in pieno svol­gi­mento ed è con que­sto che biso­gna con­fron­tarsi, senza cul­larsi nella spe­ranza di ini­zia­tive diplo­ma­ti­che del tutto al di fuori dall’orizzonte pre­sente. Senza per­dere però la con­sa­pe­vo­lezza che l’intervento dell’Occidente in quell’area non ha pro­dotto fino ad oggi che una esca­la­tion della vio­lenza e una desta­bi­liz­za­zione senza rime­dio. Armi ai curdi? Fin­ché le potenze sun­nite del Golfo con­ti­nue­ranno ad armare l’Isis forse è un’opzione non irra­gio­ne­vole. Altri­menti gli Usa dovreb­bero costrin­gere, con le buone o con le cat­tive, i sau­diti e gli emiri a tagliare quel canale di rifor­ni­mento. In fondo il dot­tor Frank­en­stein ce lo dovrebbe que­sto tar­divo atto di riparazione.

«Dalla crisi europea si può uscire trasformando la coscienza dei propri limiti in coscienza consapevole, non frammentaria e indistinta ma nitida, sintetica, meticolosamente attenta alla realtà dei fatti e agli effetti che su di essa hanno dottrine economiche ormai fossilizzate».

La Stampa, 23 agosto 2014

Caro direttore, poco più di un mese e mezzo di lavori al Parlamento europeo sono un tempo breve, se si vogliono conoscere sino in fondo i meccanismi di funzionamento dell’Unione e soprattutto se si prova a immaginare quale possa essere la via per uscire – con una visione che sia operosa oltre che intellettualmente precisa – dallo stato di prostrazione, di apatia, di regressione nazionalista in cui versa oggi il progetto di unificazione. Ma fin da ora alcune cose importanti si possono dire.

Primo: come dalla malinconia – e qui è in questione la speciale malinconia che paralizza l’Europa – non si può uscire che dall’alto, cioè facendo nascere dall’umor nero nuova sapienza e conoscenza, anche dalla crisi europea si può uscire trasformando la coscienza dei propri limiti in coscienza non inconsapevole ma consapevole, non frammentaria e indistinta ma nitida, sintetica, meticolosamente attenta alla realtà dei fatti e agli effetti che su di essa hanno dottrine economiche ormai fossilizzate. Questo intendevano Marx e Engels, quando denunciavano la «falsa coscienza» di chi ignora le «vere forze motrici» degli avvenimenti storici, e al loro posto «immagina forze motrici apparenti o false, nate da un processo puramente intellettuale» che presto degenera in ideologia avendo perso il rapporto con la realtà.

La seconda cosa che l’apprendista eurodeputato apprende quasi subito, operando nell’istituzione più democratica dell’Unione, è il potere effettivo che il Parlamento detiene: molto più vasto e determinante di quanto credano tanti politici, osservatori, e anche elettori. Una delle idee più diffuse ad esempio è che il Parlamento europeo sia una costosissima e inutile macchina. Dispendiosa certo lo è, non fosse altro per l’assurda sua doppia sede a Bruxelles e a Strasburgo. Ma inutile non lo è per niente. Non lo era neppure nel ‘79, quando per la prima volta l’assemblea fu eletta a suffragio universale ma restava un organo solo consultivo. Oggi i suoi poteri sono molto ampli, anche se pochi lo sanno, oppure lo sanno e lo nascondono a se stessi e ai cittadini. Nel corso degli ultimi decenni i parlamentari hanno acquisito poteri legislativi veri, anche se manca, al momento, un’autentica agorà europea che li faccia conoscere ai cittadini e dia loro il senso che lì si parla di loro e delle loro vite.

Il 60-70 per cento delle leggi varate a Bruxelles si applica più o meno immediatamente negli Stati membri (in linguaggio comunitario non si chiamano leggi ma regolamenti e direttive: le direttive non sono applicate subito ma devono essere trasposte nella legislazione nazionale) ed è oggi co-deciso dal Parlamento europeo e dal Consiglio su un piano completamente ugualitario. Perfino sulla politica estera, che resta territorio riservato degli Stati-nazione, il Parlamento può intervenire: non solo e non tanto con risoluzioni ma incidendo su politiche i cui risvolti internazionali sono evidenti (clima, approvvigionamento energetico, emigrazione, sicurezza interna)

Il terzo insegnamento discende dal secondo, e non è affatto lusinghiero per i deputati europei. Le maggioranze parlamentari che si formano a Bruxelles conoscono perfettamente i propri poteri, ma il più delle volte semplicemente non li usano, e ben di rado ne reclamano di nuovi. I fatti parlano chiaro: il Parlamento ha mancato di esercitare il proprio controllo sulla trojka, sul Fondo europeo di stabilità finanziaria (EFSF), sul Meccanismo europeo di stabilità (ESM). Rischia di mancare il controllo anche sull’unione bancaria. Ha protestato per pochi mesi sulla diminuzione delle risorse proprie dell’Unione, per poi ricadere nel silenzio. Non ha alzato la voce contro politiche di austerità che hanno messo in ginocchio paesi come la Grecia, né ha combattuto il Patto di bilancio (fiscal compact) approvato il 2 marzo 2012 da 25 stati membri. Non ha inarcato neanche il sopracciglio, quando nel dicembre 2012 Van Rompuy presentò il rapporto «dei quattro Presidenti» sul futuro dell’unione economica (Banca centrale, Commissione, Consiglio europeo, Eurogruppo). Scandalosa l’esclusione supinamente accettata dal quinto personaggio: il presidente del Parlamento europeo. Le stesse parole pronunciate il 7 agosto da Mario Draghi (“è giunto il tempo di cedere la sovranità a livello europeo anche per quanto riguarda le riforme strutturali») sono state accolte con muta deferenza. Eppure una replica era possibile, e indispensabile: «Cedere la sovranità verso chi, caro Presidente della Banca centrale? verso quale governo europeo federale e democraticamente legittimato?».

Quarto punto: oggi si tratta di metter fine, e con un gesto volitivo forte, alla falsa coscienza che affligge tanti eurodeputati, di destra come di sinistra. L’idea che questi ultimi si fanno del futuro della propria istituzione è al tempo stesso attendista, remissiva, e del tutto infruttuosa. Sono molti i poteri che il Parlamento deve ancora conquistarsi (a cominciare dal potere impositivo, poiché se è vera la massima «no taxation without representation», è altrettanto vero che «no representation without taxation»), ma questi progressi il Parlamento aspetta che siano gli Stati-nazione e il Consiglio dei ministri a concederli di buona grazia e spontaneamente.

Non lo faranno mai, e dunque dai governi c’è poco da aspettarsi: non si trasformeranno mai in tacchini alla vigilia di Natale. Spetta al Parlamento conquistarsi i poteri di cui ha bisogno per estendere la democrazia europea, e il prestigio presso i cittadini che possiede solo in parte. Per frenare il ritorno dei nazionalismi, e realizzare il sogno di Willy Brandt trasformandosi in una assemblea costituente permanente.

«Comuni sono oggetto delle brame di chi governa la spending review perché i sevizi locali sono obiettivo di un saccheggio messo in moto da un capitalismo non più in grado di garantire margini adeguati con l’investimento nell’industria». Il manifesto, 23 agosto 2014

Senza soluzione di continuitànel passaggio da Tremonti a Bondi e da Cottarelli a Gutgeld, e da Prodi eBerlusconi a Monti e da Letta a Renzi, la sta planando come unavvoltoio su coloro che ne potrebbero essere i protagonisti, perché sono gliunici a sapere come stanno veramente le cose, e che invece ne sono le vittime: idipendenti delle amministrazioni pubbliche. L’obiettivo più immediato sono iComuni, con i quali si va a colpire la democrazia nel suo punto più vitale maanche più esposto. Vitale perché i Comuni incarnano la tradizione europea dell’autogovernodemocratico a base associativa; perché i Comuni e le loro aggregazionirappresentano la democrazia di prossimità e il possibile punto di applicazionedi una democrazia partecipata; perché i Comuni sono tuttora i responsabili deiservizi pubblici locali, cioè di ciò che più direttamente condiziona losvolgimento della nostra vita quotidiana.


Ma i Comuni sono l’oggetto dellebrame di chi governa la spending review proprio perché i sevizi pubblici localisono l’obiettivo di un saccheggio e di un meccanismo estrattivo messi in motoda un capitalismo che non è più in grado di garantire margini d profittoadeguati con l’investimento nell’industria. E la forma giuridica della societàper azioni (Spa), sia interamente pubblica che mista, cioè pubblico-privata -in cui si sono andati costituendo nel corso degli ultimi venti anni quasi tuttii servizi pubblici locali - rappresenta il primo stadio della privatizzazione.Gli affidamenti diretti (cioè senza gara: il cosiddetto in-house) di cui beneficiano li rende particolarmente esposti aquesta aggressione. Per svariati motivi.

Innanzitutto perché si tratta di un soluzione societaria incostituzionale e contraria alla normativa europea: gli affidamenti diretti non dovrebbero mai riguardare società di diritto privato che per loro natura perseguono il profitto, come le Spa. In secondo luogo, perché queste Spa sono state finora (le cose dovrebbero cambiare dal prossimo anno) una soluzione per collocare fuori bilancio costi e introiti di servizi che rientrano a pieno titolo nel conto del dare e avere dell’Ente che li controlla: infatti più di un terzo di quelle società censite sono in perdita permanente. In terzo luogo, perché grazie a questo meccanismo le Spa promosse dagli Enti locali (ma anche quelle promosse dagli Enti centrali) si sono moltiplicate per gemmazione: Spa create e controllate da altre Spa di origine pubblica, che ne svolgono una parte dei compiti in una catena di “esternalizzazioni” sempre più lunga; ma anche Spa preposte a funzioni lontane dai compiti istituzionali di chi le ha create. Cottarelli ne ha censite 10mila, ma secondo Ivan Cecconi, il massimo esperto italiano di questo obbrobrio, potrebbero essere oltre 20mila. In quarto luogo perché queste Spa sono un meccanismo corruttivo: assunzioni clientelari (né più né meno di quanto venga spesso imposto ai vincitori di appalti conquistati attraverso gare truccate: il clientelismo prospera non perché il gestore è pubblico, ma perché la mancanza di trasparenza sottrae gli affidamenti al controllo dei cittadini), gerarchia gestionale e consigli di amministrazione scelti tra il personale politico. Questo spiega l’attaccamento di alcuni partiti a Giunte le cui decisioni contraddicono frontalmente gli impegni assunti con i loro elettori contro privatizzazioni, consumo di suolo o proliferazione di società, incarichi e consulenze. E’ un meccanismo di consolidamento del ceto politico che spesso tiene in vita partiti che non avrebbero altra ragione di esistere.

Ma la spending review non si propone certo di “fare pulizia” in questo ginepraio, bensì di mettere i Comuni con le spalle al muro per costringerli a svendere ai privati (dietro a cui ci sono sempre più spesso banche e alta finanza) tutti i servizi pubblici, insieme a beni comuni di cui sono ancora in possesso. Saranno poi i privati a recuperare con speculazioni e aumenti delle tariffe i costi del servizio – ma anche i “margini” (cioè i loro profitti) - che i Comuni non sono in grado di coprire perché i trasferimenti dallo Stato si sono prosciugati e temono l’impopolarità se ad aumentare le tariffe fossero loro. Ma privatizzare i servizi pubblici locali e consegnarli a una finanza sempre più lontana dalla popolazione di riferimento vuol dire privare i Comuni della loro ragion d’essere e trasformarli in enti inutili, fatti solo per allevare e selezionare i membri della casta; una democrazia priva di autonomie locali non è più tale e i sindaci che accettano di ridursi a estrattori di risorse dai loro concittadini, senza alcuna restituzione, si tagliano l’erba sotto i piedi.

Ci sono alternative a questa spirale? Sì. Innanzitutto in statuti comunali che dichiarino i servizi pubblici locali attività di interesse generale (e non commerciale). Poi nella trasformazione delle Spa in “aziende speciali”, per farli rientrare nel perimetro della Pubblica Amministrazione. A Napoli la trasformazione dell’Arin in ABC (Acqua Bene Comune) sembrava offrire un modello a questa transizione. Ma le ultime vicende dello statuto di ABC mostrano che senza una mobilitazione di massa e un fronte di “Comuni per i bani comuni”, tante volte promesso e mai realizzato, una transizione del genere rischia il soffocamento per il prevalere degli interessi dei partiti. Ma – si dice – ripubblicizzare le Spa non si può perché non c’è il denaro per riscattarne le azioni dai privati; ma il loro valore è legato a contratti di servizio fondati sull’affidamento in-house. Rivedere quei contratti introducendo condizioni più stringenti può privarle di gran parte del loro valore e persino rendere conveniente restituire le aziende ai Comuni.

In ogni caso, il solo fatto di mettere in campo progetti di conversione ecologica, di promozione dell’occupazione, di recupero di aziende altrimenti condannate alla chiusura può dare credibilità e basi solide a una contestazione radicale sia del patto di stabilità interna (quello che blocca la possibilità di investire per i Comuni), sia del patto di stabilità esterno (il fiscal compact) attraverso cui la finanza internazionale controlla, per il tramite della Commissione europea e della BCE, i governi e le politiche economiche degli Stati dell’Unione Europea, soffocandole. La conversione ecologica è un processo necessariamente decentrato, diffuso, differenziato, distribuito, capillare, che non può essere portato avanti senza il coinvolgimento della cittadinanza e dei governi locali; e per questo democratico. Affidarla alla grande impresa (l’essenza di quello che chiamiamo green economy), come è stato fatto in Italia e altrove con le energie rinnovabili, è stato solo un modo per trasferire risorse da chi paga le bollette (tutti noi) a chi incassa gli incentivi (per l’80 per cento, grandi investitori finanziari, per lo più anche estranei al settore energetico). Viceversa, nella generazione energetica, nell’efficientamento di edifici e aziende, nella gestione dei rifiuti, nel trasporto locale, nel servizio idrico integrato, le autorità locali, con il coinvolgimento della cittadinanza attiva, possono da un lato promuovere sistemi sostenibili di governo della domanda, dall’altro offrire sbocchi di mercato alla riconversione di aziende in crisi, eventualmente con soluzioni societarie e associative tra cittadini-utenti destinatari del servizio, aziende che lo erogano, governi locali e imprese fornitrici degli impianti, delle attrezzature e dei materiali necessari al soddisfacimento della nuova domanda. Lo stesso vale per tutti quei servizi che rientrano nella vasta gamma del welfare municipale: nidi, scuole materne ed elementari, assistenza agli anziani e alle persone svantaggiate, integrazione degli stranieri, formazione, ecc. Anch’essi sono sottoposti, con la spending review, a un processo di privatizzazione attraverso l’esternalizzazione delle prestazioni lavorative con cooperative sempre più legate a strutture finanziarie di comando che “trattano” con le amministrazioni locali per conto di tutte. E anche in questo campo occorre ricostruire un processo democratico a partire dalla partecipazione alla loro gestione.

«La globalizzazione ha fatto retrocedere alcune regioni a condizioni di anarchia non molto dissimili da quelle descritte dal filosofo Hobbes, quando descriveva la vita nello stato di natura come brutale e breve a causa dell’anarchia in l’uomo era costretto a vivere».

Il Fatto quotidiano, 22 agosto 2014

I diversi conflitti in atto in varie regioni del globo non sono gestiti da Stati sovrani ma da signori della guerra, terroristi e mercenari che puntano alla conquista del potere. Diverso il caso dell'Isis: il Califfato diffonde le immagini di un esercito regolare, ben diverso dalle bande armate di al Qaeda o Boko Haram, che combatte utilizzando armi modernissime, e vuole costruire una nuova nazione. Ma tutti i fronti aperti hanno un comune denominatore: l'impoverimento delle popolazioni

La terza guerra mondiale assomiglia ad una nebulosa di conflitti che ricordano quelli dell’era pre-moderna, gestiti non da stati sovrani ma dai signori della guerra, dai terroristi e dai mercenari, il cui scopo ultimo è la conquista del potere per sfruttare popolazione e risorse naturali. Dalla Nigeria alla Siria, dal Sahel fino all’Afghanistan, vittima delle nuove guerre è la popolazione civile. In Nigeria, secondo le stime di Amnesty International, negli ultimi 12 mesi sono morte 4 mila persone, principalmente civili, a seguito degli attacchi di Boko Haram e dell’esercito nigeriano. Simili statistiche si riscontrano ai confini dell’Europa Unita. Secondo le Nazioni Unite dall’aprile di quest’anno nel conflitto tra i separatisti pro-russi e l’esercito nazionale ucraino sono deceduti 1.129 civili, una stima che a detta di molti è decisamente bassa.

Guerre pre-moderne, dunque, nell’era tecnologica, un binomio micidiale che centuplica i rischi per la popolazione civile. Esempio eclatante è l’abbattimento “per errore” di un areo di linea dell’Air Malesia mentre sorvolava l’Ucraina dell’est a 33 mila piedi d’altezza. Scomparse sono le trincee, i campi di battaglia ed anche le regole internazionali che codificano il comportamento degli eserciti regolari.

La convenzione di Ginevra è carta straccia. I crimini di guerra, i genocidi, la pulizia etnica e religiosa fanno parte integrante della nebulosa bellica. Sempre in Nigeria Amnesty International ha filmato soldati nigeriani e membri del Civilian Join Task Force, la milizia civile, mentre tagliano la gola ai prigionieri, sospettati di far parte di Boko Haram, per poi gettarne i corpi decapitati nelle fosse comuni.Secondo Mary Kaldor, professore presso la London School of Economics, ed autore di Nuove Guerre. La violenza organizzata nell’età globale, la globalizzazione ha fatto retrocedere alcune regioni a condizioni di anarchia non molto dissimili da quelle descritte dal filosofo Hobbes, quando descriveva la vita nello stato di natura come brutale e breve a causa dell’anarchia in l’uomo era costretto a vivere. La globalizzazione ha infatti minato la stabilità dei regimi autoritari, ad esempio in Siria e Libia. La caduta di Gheddafi nel 2011 ha prodotto un vuoto politico che milizie rivali tribali – dai gruppi liberali moderati fino agli islamici – hanno riempito con la violenza. Obiettivo comune è la conquista del potere politico ed economico ai fini di sfruttamento, non la creazione di uno stato democratico né tantomeno di una nuova nazione.

Il processo di degenerazione dello stato è dunque la causa principale del carattere pre-moderno dei conflitti odierni, un fenomeno sempre legato a ragioni economiche, e cioè all’impoverimento della popolazione, che de-modernizza la società. Durante il decennio di sanzioni economiche, l’Iraq è passato dalla nazione con la più alta scolarità nel mondo arabo ad uno stato dove le donne non avevano il diritto al lavoro. Il processo di islamizzazione è andato di pari passo a quello di impoverimento.

La globalizzazione ha portato benessere in alcune regioni, come la Cina o il Brasile, e povertà in tante altre, ad esempio il Medio Oriente e l’Africa. La crisi alimentare in alcune regioni dell’Africa, in parte legata ai cambiamenti climatici ed in parte alla corsa dei paesi ricchi per accaparrarsi le risorse alimentari di quel continente, ha diffuso l’insicurezza e fomentato i conflitti armati a carattere religioso ed etnico. Nel Mali separatisti Tuareg e varie fazioni islamiche lottano tra di loro e contro il governo; nella Repubblica Centrale Africana milizie cristiane e mussulmane sono coinvolte in una guerra sanguinaria, che rischia di diventare un genocidio; nel Maghreb al Qaeda è attiva in quasi tutti gli stati.

A rendere omogenea la nebulosa bellica è la violenza, sempre brutale come quella dell’età pre-moderna. Ultimo esempio l’uccisione del giornalista americano James Foley da parte dello Stato Islamico, il cui video ha fatto il giro del mondo sulle ali dei social media. Ma è un errore inserire la guerra di conquista del Califfato Islamico nella categoria dei conflitti pre-moderni qui sopra descritti. Lo Stato Islamico rappresenta una nuova, pericolosa mutazione perché a differenza degli altri gruppi il suo scopo è impadronirsi di risorse strategiche, dai pozzi di petrolio alle dighe, per costruire una nuova nazione, la versione moderna dell’antico Califfato. L’obiettivo e’, dunque, infinitamente piu’ ambizioso.

La sua sofisticata propaganda è impegnata a promuove l’immagine di uno stato legittimato dalla popolazione mussulmana non solo al suo interno ma anche straniera; Abu Bakr al Baghdadi non si presenta come un signore della guerra ma come il nuovo Califfo, discendente del profeta Mohammed. Il Califfato diffonde le immagini di un esercito regolare, ben diverso dalle bande armate di al Qaeda o Boko Haram, un esercito che combatte battaglie sul campo utilizzando armi modernissime, per la maggior parte americane e russe, rubate rispettivamente all’esercito iracheno ed a quello siriano. Sebbene impegnato nella pulizia settaria-religiosa il Califfato è ecumenico ed offre a chiunque la possibilità di convertirsi al salafismo sunnita e diventarne cosi’ un suddito. Lo Stato Islamico minaccia non solo i regimi medio orientali ma il concetto fondamentale dello stato moderno che poggia, a differenza di quello pre-moderno, non sulla sottomissione ma sul consenso di chi ne fa parte. Una sua vittoria sarebbe devastante per il mondo intero.

Dall’inchiesta di

Repubblica due articoli lanciano l'allarme sul forte rischio di chiusura di due strumenti (Archivio Centrale dello Stato e Biblioteca Nazionale) unici, per chi non sia così folle da pensare che la storia abbia meno importanza degli inutili interventi per Grandi Opere, o delle anticostituzionali spese militari. La Repubblica online, 20 agosto 2014

UN TAGLIO ALLA STORIA

E' un grido d'allarme. Un urlo, quasi disperato, per evitare la scomparsa della nostra memoria collettiva. Quella costruita in decenni sulla base di documenti che raccontano l'Italia. Un colpo di grazia alla sopravvivenza dell'Archivio Centrale dello Stato. Per il sovrintendente Agostino Attanasio non c'è dubbio: con questo ennesimo taglio ai fondi della cultura è la nostra storia, la nostra cultura come uomini e come Paese, che rischia di scomparire. Una mole imponente di documenti spesso rari e preziosi, come gli originali dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci o le carte sul sequestro Moro, che testimoniano il percorso fatto dall'Italia dall'unità ad oggi.

"L'Archivio Centrale dello Stato", spiega il responsabile della struttura, "ha un fabbisogno minimo, quello che i ragionieri chiamano spese incomprimibili: 800mila euro all'anno. Con quella cifra possiamo sopravvivere, fare le operazioni correnti. Nient'altro che il semplice ordinario. Nel 2013, invece, abbiamo ricevuto 650.000 euro, esattamente la metà dei fondi che avevamo avuto nel 2012". I conti sono semplici e il risultato è drastico."Finora", insiste il sovrintendente Attanasio, "siamo sopravvissuti a questi tagli perché siamo stati pessimisti verso il futuro: abbiamo gestito all'insegna del risparmio, lasciando dei fondi a disposizione perché temevamo di andare incontro a periodi poco felici. Ma a partire dal prossimo anno, se la situazione non cambierà in modo radicale, l'Archivio Centrale dello Stato chiuderà. Già quest'anno non sarà semplice fare il bilancio".

Con i suoi 120 chilometri di scaffali e una media di 36mila pezzi movimentati all'anno, l'Archivio Centrale dello Stato rappresenta da oltre mezzo secolo la memoria storica e documentaria del nostro paese, il punto di riferimento obbligato per ogni tipo di ricerca sull'Italia unitaria. Fu istituito nel 1953 ma l'esigenza della nascita di un grande istituto archivistico di livello nazionale si era posta già nel 1943, all'indomani del 25 luglio, quando si comprese di dover garantire la sopravvivenza degli archivi fascisti per il loro valore di fonti storiche.

Sin dall'inizio, prima ancora della sua apertura, si pose però uno dei grossi problemi strutturali dell'Archivio Centrale: i depositi. La sede fu progettata nell'ambito dei lavori per l'E42, quello che oggi conosciamo come Eur, ma la guerra non permise di terminare tutti gli edifici. Il primo sovrintendente, Armando Lodolini, propose al ministero dell'Interno di svolgere i lavori di adeguamento dell'edificio non ancora terminato in modo da renderlo idoneo a ospitare un istituto che avrebbe dovuto poi conservare masse notevoli di documentazione. Il ministero, tuttavia, non accettò questa proposta: "Il risultato", lamenta Attanasio, "è una sede molto prestigiosa, adeguatissima per quello che riguarda gli spazi pubblici, la sala studio, la sala convegni e gli uffici, ma del tutto inidonea per la conservazione dei depositi archivistici. Su 120 chilometri di scaffalature che conserviamo", osserva ancora il sovrintendente, "direi che al massimo 40 chilometri sono in una condizione idonea. Nel nostro edificio laterale, per esempio, ci sono delle vetrate enormi per cui d'estate fa molto caldo e d'inverno molto freddo: una realtà opposta a quelle che dovrebbero essere le condizioni per una corretta conservazione degli archivi. Potremmo creare un condizionamento ambientale, ma già oggi spendiamo 200.000 euro di energia elettrica. La prospettiva fattibile, quella da perseguire, è immaginare dei depositi funzionali, moderni ed economici".

Per questo motivo il sovrintendente Attanasio sponsorizza l'idea del ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo di trasferire una parte abbastanza consistente di documentazione in un deposito a Pomezia e trasformare quest'ala in un Polo Museale. "Ci saranno ovviamente delle spese a carico del ministero per i lavori di ristrutturazione - dice Attanasio - ma l'ACS risparmierebbe almeno un milione di euro". Sorgerebbe però il problema dell'accessibilità della documentazione trasferita a Pomezia, che per essere consultata dovrebbe essere riportata ogni volta nella sede dell'Eur con un servizio di navetta. "Purtroppo", commenta con una punta di amarezza il sovrintendente, "dobbiamo fare i conti con la realtà in cui viviamo. In un Paese dove fosse davvero possibile fare le cose in modo organico, serio e con prospettive ampie e ambiziose, lo Stato ragionerebbe in modo diverso. Avremmo potuto fare come a Barcellona o a Londra: costruire in una periferia romana una sede davvero avanzata e funzionale. Avremmo potuto e dovuto fare questo, ma queste cose si decidono a livello politico e richiedono una visione d'insieme più ampia di quella che c'è stata in Italia in questi anni. Considerando tutto ciò la soluzione di Pomezia è la migliore possibile. L'accessibilità alla documentazione sarà garantita da un servizio navetta serio ed efficiente che pagheremo con le economie che facciamo sull'affitto. In questo modo noi possiamo garantire un servizio nettamente migliore di quello che c'è adesso sia sul piano della conservazione dei documenti sia sul piano dell'offerta che garantiamo agli studiosi".

Il problema dello spazio diventerà ancora più pressante quando verrà attuata la direttiva Renzi che dispone la declassificazione degli atti relativi alle stragi di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, stazione di Bologna e rapido 904 finora coperti dal segreto di Stato. Già in autunno l'Archivio centrale dello Stato riceverà le prime carte e si porrà un problema di collocazione per la loro conservazione e la loro sicurezza perché alcuni documenti contengono dati sensibili che non possono essere messi in consultazione. "Stiamo ancora definendo le procedure, ma credo che il metodo sarà lo stesso che abbiamo usato con il versamento Moro: alcuni nomi e dati che appartengono alla realtà attuale verranno obliterati perché non possono essere consultati", dice Attanasio. I segreti di Stato saranno solo gli ultimi acquisti.

Nei faldoni conservati all'Archivio Centrale dello Stato si trova di tutto, anche soldi: nel fascicolo 89/A della Polizia Politica relativo a Michele Schirru, un anarchico fucilato dal regime fascista per l'intenzione di uccidere Benito Mussolini, c'è ad esempio - in perfetto stato di conservazione - un assegno di duemila lire del Crédit Lyonnais datato 3 febbraio 1931 che fu sequestrato a Schirru.

L'assegno e milioni di altre carte sono custodite in grossi faldoni, chiamati buste: fino a qualche anno fa ogni studioso poteva consultare un totale di 16 buste al giorno distribuite in 4 turni. Negli ultimi anni il personale è diminuito costantemente. Ma non è stato sostituito con nuovi ingressi. E' venuto così a mancare anche qui quel ricambio generazionale che ha più dimestichezza con le nuove tecnologiee potrebbe avere un impatto più produttivo con le realtà esterne: studiosi, storici, giornalisti, semplici cittadini animati dal desiderio di consultare concretamente la documentazione raccolta attorno a singoli episodi e su questi costruirsi un giudizio oggettivo. Appunto, storico. La carenza di personale ha avuto riflessi sull'organizzazione del lavoro. I turni giornalieri sono diventati 2 e le buste consultabili solo 6. "Da parte nostra", si difende il sovrintendente, "abbiamo fatto ciò che era possibile fare. Sul piano della digitalizzazione ci sono stati notevoli progressi. Puntiamo a rendere tutti i 1500 inventari presenti in sala studio consultabili online. Finora ne abbiamo 120 e altri 350 circa sono in attesa di convalida. Per settembre avremo a disposizione sulla rete tutto il fondo della segreteria particolare del duce".

Negli ultimi vent'anni i filoni di ricerca che hanno interessato l'archivio sono diventati molto più eterogenei: se prima si andava a fare una semplice ricerca storica ora si compiono anche studi amministrativi e ricerche per il restauro. È una documentazione importante. Essenziale per capire la nostra storia e il nostro paese. Non solo per gli specialisti, ma per tutti noi.

A RISCHIO ANCHE LA BIBLIOTECA NAZIONALE


Vorrei che qualcuno mi spiegasse qual è il limite sotto al quale la barca affonda. Perché taglia oggi, taglia domani, alla fine il naufragio è garantito". È afflitto il direttore della Biblioteca Nazionale di Roma, Osvaldo Avallone, costretto a denunciare che l'austerità oltre a ridurre il numero delle persone, mette a rischio la memoria dei libri. "Ricevevamo finanziamenti per 3.089.000 euro, ora siamo arrivati a 1.250.000. Io credo che il limite sia stato superato da parecchio tempo", denuncia.

La Biblioteca di Castro Pretorio è un palazzo con dieci piani di magazzini, dodici sale di lettura e sette milioni di unità bibliografiche. Un patrimonio documentale di inestimabile valore artistico, storico e sociale che ha reso la Nazionale un punto di riferimento per studenti, ricercatori, storici, appassionati e turisti. "In ogni Paese civile del mondo la Biblioteca Nazionale è l'emblema della nazione", osserva ancora il direttore. "In Francia riveste un'importanza legata all'identità di un paese, la British Library in Inghilterra è conservata come un piccolo gioiello, gli Stati Uniti ne fanno un vanto. Qui in Italia, rappresentiamo un peso, un vero fastidio. Nessuno si preoccupa di questa istituzione se non a parole".

A causa della penuria di risorse che da sempre tormenta il sistema culturale italiano, la Biblioteca Nazionale di Roma ha subito nel corso degli anni costanti tagli al budget, ai quali si sono accompagnate decurtazioni dei servizi e degli orari. Intanto, il personale. Secondo la pianta organica la Biblioteca dovrebbe poter contare su almeno 108 custodi: oggi ce ne sono appena 37. Cosa vuol dire questo in termini di fruizione del servizio che l'ente offre? "È evidente che si lavora lo stesso, ma c'è un solo custode che deve lavorare per due. Niente pause, impegno gravoso, orari più lunghi. I risultati ne risentono. Chi studia o fa ricerca alla fine ottiene il servizio. Ma a pessime condizioni: se prima il libro chiesto si otteneva dopo mezz'ora ora ci vuole un'ora".

"Il fatto che la Biblioteca non abbia ancora chiuso i battenti non significa che funzioni bene con 207 unità. Abbiamo dovuto rinunciare alla distribuzione pomeridiana dei libri; il nostro orgoglio era la catalogazione, eravamo riusciti ad aggionarci dopo un lungo impegno personale: i nuovi libri venivano catalogati e messi a disposizione degli studiosi man mano che arrivavano, ma questo allineamento sarà durato sei mesi. Il personale va in pensione, non c'è ricambio, e il sistema si disallinea".

L'età media dei dipendenti di Castro Pretorio, del resto, si aggira intorno ai 57 anni. L'ultimo concorso rilevante di bibliotecari risale al 1984. "La colpa sostengono sia la crisi economica - commenta il direttore - Sarà anche vero. Non lo dubito. Ma come in tutte le crisi si deve anche compiere delle scelte: se si continua in questo modo tra cinque anni questo istituto chiude. Anzi. Potrebbe accadere prima. Per motivi anagrafici". Eppure le soluzioni per evitare l'impensabile esistono. "Bisogna avere la volontà politica di trovarle e adattarle - spiega ancora Avallone - Io mi auguro solo che cesserà questa politica dei tagli indiscriminati. Si colpisce un po' ovunque per risparmiare. La Cultura è un bene imprescindibile. Rappresenta la nostra identità. Mai come in questo momento c'è bisogno di tutelarla. Con politiche di assunzione e di formazione del personale mirata".

L'icona che accompagna questo articolo è una incisione del XIII sec. della "nave dei folli"

C'è chi spera ancora nel cambiamento di Matteo Renzi: scriveLaura Pennacchi nell'intervista a Massimo Franchi: «Dopo le europee Renzi aveva parlato della necessità di un piano keynesiano. Ora può benissimo farlo, invece di raccattare quattro spicci dai soliti noti. I referendum possono essere un primo passo».

Il manifesto, 20 agosto 2014

«Renzi dopo il suc­cesso alle euro­pee parlò di piano key­ne­siano. Dob­biamo dar­gli cre­dito, facen­do­gli però notare tutte le incoe­renze del suo agire. Con l’Europa invece biso­gna pro­prio cam­biare strada, le cose stanno andando così male e cam­biando così in fretta che una svolta nel modello di svi­luppo è tutt’altro che un’utopia e i refe­ren­dum con­tro l’austerità pos­sono essere il primo passo». Laura Pen­nac­chi, respon­sa­bile del Forum eco­no­mia della Cgil, sot­to­se­gre­ta­ria al Tesoro con Prodi, riflette con «otti­mi­smo» sulle indi­scre­zioni sulla mano­vra che arri­verà in con­tem­po­ra­nea con la sca­denza della rac­colta delle 500mila firme per modi­fi­care le norme ita­liane su Fiscal com­pact e pareg­gio di bilancio.

Nei tanti piani che ad ago­sto si affib­biano al governo spunta un con­tri­buto di soli­da­rietà per le pen­sioni più alte. Come lo giudica?

Potrebbe essere un’idea giu­sta se si appli­casse l’indirizzo che sug­gerì la Corte quando dichiarò inco­sti­tu­zio­nali prov­ve­di­menti simili dei governi Ber­lu­sconi e Monti: il pre­lievo deve essere su tutti i red­diti, non solo su quelli da pen­sione. Se si deci­desse di chie­dere un con­tri­buto di soli­da­rietà pro­gres­sivo che col­pisse anche i red­diti scan­da­losi dei mana­ger pub­blici e pri­vati si potrebbe otte­nere una cifra cospi­cua da uti­liz­zare per ridurre la disu­gua­glianza, che vede il nostro Paese al secondo posto nell’indice inter­na­zio­nale che la misura, die­tro solo agli Stati Uniti.

Il governo pare invece voler uti­liz­zare i pro­venti delle sole pen­sioni e mira a col­pire soprat­tutto coloro che hanno un asse­gno cal­co­lato col metodo retri­bu­tivo, ormai con­si­de­rati da tutti dei privilegiati.

Indub­bia­mente c’è una dif­fe­renza forte tra chi è andato in pen­sione col retri­bu­tivo e chi ci va ora. Ma una misura del genere col­pi­rebbe soprat­tutto i lavo­ra­tori auto­nomi che fino al 1990 paga­vano solo il 10% dei con­tri­buti: il rical­colo por­te­rebbe a tagli stra­to­sfe­rici dei loro asse­gni. Per la fina­lità dei pro­venti del con­tri­buto di soli­da­rietà invece io pro­pendo per inve­sti­menti pub­blici che creino lavoro, la vera emer­genza. Quando pre­sen­tammo i refe­ren­dum alla Camera, un son­dag­gio con­dotto da Nicola Pie­poli mostrò come il 70% degli ita­liani era dispo­sto a un con­tri­buto di soli­da­rietà da mille a 5 mila euro se fosse ser­vito per dare lavoro ai gio­vani. Per que­sto dico che avendo un’ambizione quasi rivo­lu­zio­na­ria il governo dovrebbe per­cor­rere que­sta strada e non rac­cat­tare quat­tro spicci dai soliti noti col­pendo le pen­sioni medie.

Quale sarebbe una soglia accet­ta­bile per que­sto contributo?

I 90mila euro annui sono pari a 3.500 al mese, un livello accet­ta­bile per ini­ziare a discu­tere, soprat­tutto per­ché sarebbe un inter­vento pro­gres­sivo che col­pi­rebbe i più ricchi.

Lei crede che Mat­teo Renzi abbia la forza poli­tica per por­tare avanti un piano del genere? Alfano non gri­de­rebbe alla “patrimoniale”?

Non si trat­te­rebbe di una patri­mo­niale, ma di un con­tri­buto di soli­da­rietà. La Corte costi­tu­zio­nale lo ha quasi auspi­cato nelle moti­va­zioni della sen­tenza. Dopo il suc­cesso alle euro­pee Renzi ha par­lato di neces­sità di “un inter­vento key­ne­siano” e quindi penso che potrebbe benis­simo farlo. Anzi, dob­biamo spro­narlo. Con­te­stan­dolo però dura­mente quando ad esem­pio non rilan­cia la poli­tica indu­striale pun­tando solo sulle privatizzazioni.

In paral­lelo poi il governo pare trat­tare con la nuova Com­mis­sione euro­pea mar­gini sul rien­tro dal defi­cit. Potrà bastare per avere una Legge di sta­bi­lità non recessiva?

C’è ben altro da met­tere in gioco con la Com­mis­sione rispetto alle pic­cole modi­fi­che dei para­me­tri. Ma le cose stanno andando così male — l’intera area Euro è in sta­gna­zione con una cre­scita nel 2014 sti­mata sotto l’1% — e stanno cam­biando così velo­ce­mente — anche la loco­mo­tiva Ger­ma­nia è in obiet­tiva dif­fi­coltà — che ci sono tutte le con­di­zioni per met­tere in sof­fitta il fal­li­mento delle poli­ti­che ottuse e miopi di auste­rità e rilan­ciare l’intervento pub­blico. Par­tendo, come hanno chie­sto prima Visco e poi Dra­ghi, dagli inve­sti­menti per l’occupazione: c’è un enorme liqui­dità che non si tra­muta in inve­sti­menti. Un risul­tato che pos­sono rag­giun­gere solo le isti­tu­zioni pub­bli­che usando la leva pub­blica. Serve una rivo­lu­zione cul­tu­rale e per que­sto i nostri refe­ren­dum pos­sono essere un punto di svolta, a par­tire dal rag­giun­gi­mento delle 500mila firme entro settembre.

Sem­bra otti­mi­sta sul futuro eco­no­mico del continente…

Dob­biamo essere otti­mi­sti, la situa­zione è tale da darci pos­si­bi­lità infi­nite di cam­bia­mento. Karl Polany era spie­tato nel descri­vere i pro­blemi del capi­ta­li­smo, ma non meno spe­ran­zoso di poterlo cambiare.

A pro­po­sito di refe­ren­dum: molti a sini­stra hanno storto la bocca leg­gendo il nome di Mario Bal­das­sarri, vice­mi­ni­stro dell’Economia con Ber­lu­sconi, nel comi­tato pro­mo­tore, o l’adesione di Fra­telli d’Italia.

I refe­ren­dum sono uno stru­mento largo per loro natura. Chiun­que appoggi le idee alla base dei que­siti è il ben­ve­nuto in que­sta bat­ta­glia. Le boc­che storte mi sem­brano una pru­de­rie tipica di una sini­stra che col­tiva una purezza sterile.

Dilemmi che è impossibile sciogliere se non si sa rispondere prima alla domande: che nesso c’è tra chi con le guerre ingrassa e chi gestisce il potere; e come si può fare per romperlo?

La Repubblica, 20 agosto 2014
Il concetto di “guerra giusta” da decenni dilania le coscienze degli individui e condiziona le scelte degli Stati. Le parole del papa sulla «Terza guerra mondiale fatta a pezzi» sono una formula che sarà consegnata alla Storia. Mirabile fotografia di «un mondo in guerra dappertutto », rilanciano un dibattito, che è senza risposte morali certe e senza soluzioni politiche incontrovertibili, ma che ci pone davanti a decisioni angoscianti in un quadro geopolitico devastato da conflitti crudeli fino alla barbarie.

Come ci ricordava Federico Rampini su questo giornale, ci sono oggi nel mondo soltanto 11 Paesi che non sono coinvolti in guerre. Nel 1996, contro chi preconizzava la “fine della Storia” dopo la frantumazione dell’Urss, Samuel Huntington scriveva, nel celebre saggio Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale , che “le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”. Ma neppure questo lungimirante politologo fondatore di Foreign Policy , una delle più rispettate riviste di politica internazionale, avrebbe immaginato nel nuovo millennio un mondo così piagato da guerre, con «l’umanità spaventata da due problemi: la crudeltà e la tortura», come ha detto Papa Francesco.

Nessun pontefice può spingersi a definire giusta una guerra. Perfino un laico come Norberto Bobbio, che parlò di «guerra giusta» per l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990, fu intensamente lacerato dalla sua stessa audacia. Che pure era l’esito di una riflessione storica e geopolitica impeccabile. Finita l’era del bipolarismo, con due superpotenze che si fronteggiavano a tutto campo (dall’ideologico al militare), ma che al tempo stesso garantivano un rigido controllo degli impulsi bellicistici magari con la dottrina solo apparentemente surreale della “reciproca distruzione assicurata” (Mad, secondo l’acronimo inglese, che vuol dire anche “pazzo”, appunto), il mondo era tornato a una logica quasi medievale di una guerra indiscriminata tra bande. Dai conflitti balcanici dei primi anni ‘90 in poi abbiamo assistito a un’escalation di violenza globale di cui le cronache di orrore che ci arrivano ogni giorno dal nord dell’Iraq sono soltanto la punta dell’iceberg.

Se per Jurgen Habermas la causa umanitaria era stata motivo sufficiente per giustificare l’intervento in Serbia, che direbbe oggi di fronte all’eccidio di cristiani da parte dei fanatici sostenitori del Califfato? Dove si spingerebbe la riflessione di Norberto Bobbio sulla «guerra giusta», che gli era stata suggerita dal timore di un nuovo appeasement come l’accordo di Monaco del 1938? Non solo la Storia non è finita, come aveva incautamente affermato Francis Fukuyama dopo il 1989. Ma la Storia ci pone di fronte a dilemmi sempre più angoscianti, a tragedie sempre più inaudite, a orrori sempre crescenti in una moltiplicazione esponenziale dei demoni della guerra, in cui agli “Stati canaglia” di reaganiana memoria si sono sommati gli “individui canaglia”, di cui Bin Laden è stato il progenitore superato in ferocia dai suoi macabri epigoni.

«Gli aggressori ingiusti, come quelli in Iraq, vanno fermati», ha detto papa Francesco. Di più non poteva dire nel solco di una tradizione che da Benedetto XV («l’inutile strage» riferita alla Prima guerra mondiale») in poi non ha mai giustificato apertamente nessuna guerra. Ma con le sue parole il pontefice ha riecheggiato le coraggiose elaborazioni di papa Wojtyla sulla guerra in Iraq, dopo quella nel Kosovo. «Sappiamo bene — disse all’Angelus del 16 marzo 2003 — che non è possibile la pace a ogni costo. Ma sappiamo tutti quanto è grande questa responsabilità». E due mesi prima al corpo diplomatico accreditato in Vaticano aveva avvertito che «la guerra è sempre una sconfitta dell’umanità» e che «non si può fare ricorso alla guerra anche se si tratta di assicurare il bene comune, se non come estrema possibilità e nel rispetto di ben rigorose condizioni» (parole che non piacquero ai pacifisti, alcuni dei quali gli chiesero di non lasciare «scappatoie per gli incisi e i distinguo»).

Ed ecco Francesco, undici anni dopo, dire che gli aggressori vanno fermati «non dico con le bombe, però bisogna valutare con quali mezzi e con una decisione comune delle Nazioni Unite». È un richiamo fortissimo e straziato alle responsabilità della Politica. È un monito alle potenze, dagli Stati Uniti alla Russia, alla stessa Europa (così incapace, invece, di esserlo, una potenza), a mettere da parte rivalità ed egoismi per combattere insieme la barbarie nella quale il mondo sta sprofondando. È quasi un’invettiva (se si può usare questo termine per le parole di un pontefice) affinché le Nazioni Unite non diventino imbelli come la Società delle Nazioni. Chissà se al Palazzo di Vetro i cosiddetti “grandi della terra” la smetteranno di giocare ai veti incrociati e lo ascolteranno?

Vengono al pettine i nodi provocati nella realtà mediorientale dalla sciagurata guerra irakena di Bush (e alleati-servi europei). L'unica risposta cui l'Italia si accoda, è fornire ancora strumenti di morte a un Terzo mondo saturato di armi fornite dal Primo.

Il manifesto, 19 agosto 2014

Armi ai kurdi? Pre­fe­ri­remmo di no. Non solo e non tanto per­ché il ful­gido sol­dato Casini, che non ricor­diamo più a quale set­tore di destra appar­tenga, è diven­tato il soste­ni­tore di que­sta pro­po­sta scel­le­rata che in piena estate arriva ad una com­mis­sione esteri del par­la­mento con­vo­cata d’urgenza dal governo a pro­nun­ciarsi in fretta sull’argomento, anche se l’esito dell’invio di armi appare scontato.

Del resto, così fan tutti nell’Europa del bara­tro della crisi eco­no­mica, che non vede come il Medio Oriente sia così stra­pieno di armi, arri­vate spesso a scopo “uma­ni­ta­rio”, che la guerra ne è orma il por­tato quo­ti­diano e san­gui­noso. Ma diciamo no in primo luogo per­ché l’Italia, nella “coa­li­zione dei volen­te­rosi”, ha par­te­ci­pato nel 2004 alla guerra all’Iraq inven­tata dagli Stati uniti di Gorge W. Bush che ha pro­dotto la tra­gica deva­sta­zione che è sotto i nostri occhi. E’ da lì infatti che ha avuto ori­gine la rot­tura dell’equilibrio ira­cheno pre­e­si­stente tra sun­niti e sciiti e la scom­parsa di fatto dell’Iraq come Stato, fram­men­tato nelle sue fazioni e con un eser­cito diviso per appar­te­nenza reli­giosa inca­pace di fron­teg­giare la nuova insi­dia mili­tare e poli­tica rap­pre­sen­tata dallo Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante (Isil), nato in Siria come effetto col­la­te­rale del soste­gno “uma­ni­ta­rio” in armi e con­si­glieri mili­tari, come già pre­ce­den­te­mente in Libia, della coa­li­zione degli “Amici della Siria”, una acco­lita di part­ner che vanno dagli Usa all’Arabia sau­dita, dalla Gran Bre­ta­gna alla Tur­chia, dall’Italia al Qatar.

Anzi­ché le armi biso­gna inviare soc­corsi dav­vero uma­ni­tari pen­sando ai civili, ai feriti, ai pro­fu­ghi, ai bam­bini: cibo, sani­tari, ospe­dali da campo, ten­do­poli. Senza dimen­ti­care che soste­nere mili­tar­mente la lea­der­ship del Kur­di­stan del lea­der Bar­zani invece dell’esercito di Bagh­dad rap­pre­senta un soste­gno alla spar­ti­zione dell’Iraq e all’obiettivo dell’indipendenza di uno stato etnico kurdo. Con l’apertura così del vaso di Pan­dora della que­stione kurda nella regione che met­te­rebbe in discus­sione l’esistenza di Stati uni­tari come la Tur­chia, l’Iran e la Siria già ampia­mente distrutta. Ma anche per­ché (reso­conti alla mano dei pochi repor­tage arri­vati da quelle zone a metà-fine luglio), quando l’Isil dila­gava dalla Siria a sud verso il cuore dell’Iraq, la lea­der­ship del Kur­di­stan ira­cheno ha sem­pli­ce­mente scelto di farsi da parte e lasciare pas­sare i jiha­di­sti, di stare a guar­dare l’ulteriore colpo inferto alla fle­bile unità ira­chena, quando non è arri­vata addi­rit­tura ad accor­darsi con l’Isil che in quel momento non met­teva in discus­sione il ter­ri­to­rio kurdo con i suoi pre­ziosi gia­ci­menti di petro­lio. C’erano stragi anche allora ma tutti tace­vano, com­presi i kurdi. Com­bat­te­vano lo Stato isla­mico le poche e male armate mili­zie del Pkk per­ché in prima fila e in fuga da troppi nemici, spesso anche dagli stessi pesh­merga di Barzani.

Qual­cuno adesso ci spie­ghi per favore il sot­tile para­dosso dell’invio di armi dell’Italia ai kurdi ira­cheni che, come scam­bio di potere e con­ces­sioni di spa­zio, faranno com­bat­tere al loro posto in prima fila le mili­zie del Pkk, quando pro­prio l’Italia ha con­se­gnato nelle mani dell’intelligence ame­ri­cana e alle galere tur­che il “ter­ro­ri­sta” Abdul­lah Oca­lan, lea­der tutt’ora indi­scusso del Pkk. Ecco che tor­niamo al “ter­ro­ri­smo” a geo­me­tria varia­bile, a seconda degli inte­ressi stra­te­gici glo­bali dei potenti della terra.

Si dirà subito che chi dice no all’invio di armi ai pesh­merga kurdi chiude gli occhi sulle stragi di cri­stiani e jiha­zidi. L’impressione è che ancora una volta la dispe­ra­zione delle mino­ranze venga uti­liz­zata a scopi tutt’altro che uma­ni­tari. Il papa stesso alza la voce sulla per­se­cu­zione dei cri­stiani – certo più di quanto abbia denun­ciato lo scem­pio delle decine di moschee distrutte dai raid israe­liani nella Stri­scia -, ma dice “basta guerra” e ricorda che non si fa “in nome di dio”. Intanto sono in troppi a pian­gere per le vit­time jiha­zide tutte le lacrime che non hanno ver­sato per le stragi di Gaza. Per la quale nes­suno, imma­gi­niamo, sen­ti­rebbe l’obbligo morale di chie­dere l’invio di armi ai pale­sti­nesi chiusi nelle pri­gioni a cielo aperto di Gaza e Cisgiordania.

I mas­sa­cri di cri­stiani — in corso in Iraq da due anni nel silen­zio ame­ri­cano della Casa bianca che enfa­tiz­zava il suo “miglior ritiro” da una guerra — come quelle della mino­ranza jiha­zida sono vere e feroci, ma non vanno enfa­tiz­zate e mol­ti­pli­cate nel reso­conto gior­na­li­stico, tanto più che nella stampa estera già qual­che accorto repor­ter, a corto di veri­fi­che, comin­cia a dire “pre­sunte”. A Gaza, a pro­po­sito di stragi, per certo hanno cele­brato in que­ste ore più di due­mila fune­rali, per l’80% di bam­bini, donne e vec­chi inermi.

Non è inviando armi, aggiun­gendo guerra su guerra, che il Medio Oriente sarà paci­fi­cato e verrà fer­mata la mano degli assas­sini e delle stragi. Se Obama vuole fer­mare dav­vero lo Stato isla­mico dell’Iraq e del Levante — non è più solo Al Qaeda, que­sto è un eser­cito — rompa i rap­porti eco­no­mici che legano gli Stati uniti alle petro­mo­nar­chie arabe, le stesse che sosten­gono l’Isil con finan­zia­menti e armi sofi­sti­cate. Sarebbe un momento di verità sulle crisi inter­na­zio­nali capace di cam­biare la fac­cia del mondo e dare l’alt all’avanzata del radi­ca­li­smo jiha­di­sta. Diven­tato inar­re­sta­bile, non lo dimen­ti­chiamo, anche gra­zie alle troppe guerre “uma­ni­ta­rie” occi­den­tali che hanno uti­liz­zato in chiave desta­bi­liz­zante il ter­ro­ri­sta di turno pro­mosso per l’occasione a utile “libe­ra­tore”. Con­fer­miamo invece, almeno sta­volta, l’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione che dichiara di “ripu­diare la guerra come mezzo di riso­lu­zione delle crisi internazionali”

In Italia il 5% dei contribuenti ricchi concentra il 22,7% del reddito. Perché abbassare salari e tagliare pensioni non ha prodotto (né produrrà) ripresa della nostra disastrata economia». Illustrazione ineccepibile di un economista che pensa e spiega.

Il manifesto, 19 agosto 2014

Torna l’idea di pro­muo­vere la cre­scita tagliando i salari e le pen­sioni “d’oro”. Tagliando i salari e libe­ra­liz­zando il mer­cato del lavoro – si dice – aumen­te­rebbe la domanda di lavoro, dun­que l’occupazione, dunque il pro­dotto. È ancora la ricetta della Trea­sury View del ’29, che viene argo­men­tata nel modo seguente.

Le imprese assu­me­ranno nuovi lavo­ra­tori se e sol­tanto se il sala­rio non è mag­giore della pro­dut­ti­vità del lavoro. Dal punto di vista della sin­gola impresa ciò è ragio­ne­vole: la sin­gola impresa con­ta­bi­lizza il sala­rio sol­tanto come un costo, e se c’è disoc­cu­pa­zione, è per­ché il sala­rio è troppo alto rispetto alla pro­dut­ti­vità del lavoro. Segue: se non ci fos­sero impe­di­menti giu­ri­dici o sin­da­cali, cioè se il mer­cato del lavoro fosse fles­si­bile come il mer­cato del pesce, sul mer­cato del lavoro si sta­bi­li­rebbe un livello di equi­li­brio del sala­rio, tale che non ci sarebbe disoc­cu­pa­zione invo­lon­ta­ria. Risul­te­reb­bero non occu­pati sol­tanto quei lavo­ra­tori che pre­ten­dono un sala­rio più alto della loro pro­dut­ti­vità, le imprese pro­dur­reb­bero tutto quanto sono in grado di pro­durre, e tutto quanto ven­de­reb­bero, poi­ché tutta la moneta dispo­ni­bile ver­rebbe impie­gata per com­pe­rare merci e giam­mai trat­te­nuta in forma liquida o a fini spe­cu­la­tivi.
L’argomentazione sem­bra con­vin­cente, e lo è tanto che ha ispi­rato e ispira tutte le cosid­dette riforme “strut­tu­rali” del mer­cato del lavoro. Però è una tesi che non regge, a meno che non si dia per scon­tato che tutte le merci pro­dotte pos­sano essere ven­dute, che conti sol­tanto l’offerta e non anche la domanda. La domanda aggre­gata di merci è costi­tuita dalla domanda per con­sumi, dalla domanda per inve­sti­menti, e dalla domanda estera.

La domanda per con­sumi, a sua volta, è costi­tuita dalla domanda di quanti hanno un red­dito da lavoro e dalla domanda di beni di lusso da parte di quanti vivono di ren­dita o di pro­fitti. In una situa­zione di disoc­cu­pa­zione e di bassi salari, aumenta la quota — sul pro­dotto sociale — delle ren­dite e dei pro­fitti. Si può pen­sare che i mag­giori con­sumi di lusso bastino a com­pen­sare i minori con­sumi dei lavo­ra­tori? Ovvia­mente no.

Si può tut­ta­via pen­sare che gli alti pro­fitti indur­ranno le imprese a aumen­tare la pro­du­zione di beni di con­sumo, dun­que l’offerta, dun­que l’occupazione? No, per­ché le loro aspet­ta­tive di ven­dita di beni di con­sumo saranno pes­si­mi­sti­che e liqui­de­ranno le scorte. Com­pen­se­ranno forse la minor domanda per con­sumi con loro nuovi inve­sti­menti? No: per­ché mai aumen­tare la capa­cità produttiva, se le pro­spet­tive di ven­dita sono pes­si­mi­sti­che? Dun­que l’unico effetto di bassi salari saranno alte ren­dite e alti pro­fitti, e l’impiego di que­sti e di quelle nella spe­cu­la­zione finan­zia­ria. Speculazione finan­zia­ria che nel migliore dei casi è un gioco a somma zero, in cui Tizio gua­da­gna e Caio perde – ma tal­volta, come oggi, un gioco in cui perde anche Sem­pro­nio.
Resta la terza com­po­nente della domanda aggre­gata, le espor­ta­zioni. La capa­cità di espor­tare dipende forse da un basso prezzo delle merci offerte sul mer­cato inter­na­zio­nale? Per un lungo periodo così è stato, per le imprese ita­liane: fino a quando hanno potuto godere di sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive; ma su cui non potranno più con­tare, nem­meno se l’Unione euro­pea e dun­que l’euro si sgre­to­las­sero. La capa­cità di espor­tare dipende anche dal costo del lavoro, ma sopra­tutto dal con­te­nuto tec­no­lo­gico delle merci pro­dotte. Quanti pro­dotti a alto con­te­nuto tec­no­lo­gico abbiamo in casa, di pro­du­zione nazio­nale delle imprese nazio­nali?
Circa il taglio delle pen­sioni “d’oro”, giu­sti­fi­cato sol­tanto con una lamen­tosa mozione degli affetti, con l’invocazione alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, va detto che esso ha la natura di una imposta di scopo e che dun­que nel nostro ordi­na­mento è inam­mis­si­bile; e va ricor­dato che la Corte costi­tu­zio­nale si è già pro­nun­ciata, giu­di­cando tale pre­lievo in con­tra­sto con gli arti­coli 3 e 53 della Costi­tu­zione, rispet­ti­va­mente sul prin­ci­pio di ugua­glianza e sul sistema tri­bu­ta­rio: «L’intervento riguarda, infatti, i soli pen­sio­nati, senza garan­tire il rispetto dei prin­cipi fon­da­men­tali di ugua­glianza a parità di red­dito, attra­verso una irra­gio­ne­vole limi­ta­zione della pla­tea dei sog­getti pas­sivi».
Quanto alla “soli­da­rietà inter­ge­ne­ra­zio­nale”, come ave­vano spie­gato Key­nes e Solow (che non sono i Gufi di Mat­teo Renzi e di Giu­seppe Giu­sti: «Gufi dot­tis­simi che pre­di­cate e al vostro simile nulla inse­gnate», ma due grandi eco­no­mi­sti) è molto dif­fi­cile deci­dere se sia cor­retto e ragio­ne­vole chia­mare la gene­ra­zione vivente a restrin­gere il suo con­sumo in modo da sta­bi­lire, nel corso del tempo, uno stato di benes­sere per le gene­ra­zioni future, e d’altra parte coloro che riten­gono prio­ri­ta­rio non inflig­gere povertà al futuro dovreb­bero spie­gare per­ché non attri­bui­scono ana­loga prio­rità alla ridu­zione della povertà oggi.
Resta, natu­ral­mente, la grave que­stione del bilan­cio pub­blico. Sotto i vin­coli oggi impo­sti dall’Unione Euro­pea, diventa cru­ciale la revi­sione della spesa – sopra­tutto della com­po­si­zione della spesa: non va ridi­men­sio­nato — come sinora si è fatto — ma va accre­sciuto il peso delle voci di spesa più ido­nee a ali­men­tare la domanda, e vanno sal­va­guar­date sanità, istru­zione e pen­sioni. Al tempo stesso, è il peso delle uscite che in minor misura influen­zano la domanda a doversi ridurre, nella misura neces­sa­ria a rag­giun­gere il pareg­gio e a fare spa­zio nel bilan­cio alle spese da espan­dere e alla pres­sione tri­bu­ta­ria da limare. Con una simile, arti­co­lata mano­vra di finanza pub­blica, la domanda glo­bale, anzi­ché con­trarsi, rice­ve­rebbe soste­gno. Della revi­sione della spesa, tut­ta­via, molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male.
Oltre alla revi­sione della spesa, si deve pen­sare a una revi­sione delle entrate: in primo luogo al contra­sto all’evasione, e anche qui molto si parla ma nulla si fa o si fa poco e male. E si deve pen­sare a una revi­sione delle ali­quote dell’Irpef, secondo il det­tato della Costi­tu­zione al già citato arti­colo 53: «Tutti sono tenuti a con­cor­rere alle spese pub­bli­che in ragione della loro capa­cità con­tri­bu­tiva. Il sistema tri­bu­ta­rio è infor­mato a cri­teri di pro­gres­si­vità». Tut­ta­via l’aliquota mar­gi­nale mas­sima dell’Irpef è oggi pari al 43% per i red­diti oltre i 75.000 euro, men­tre è noto a tutti che molti e di molto sono i red­diti più ele­vati: il 5% dei con­tri­buenti più ric­chi con­cen­tra il 22,7% del red­dito com­ples­sivo. Si potreb­bero dun­que ridurre le ali­quote per i red­diti più bassi e aumen­tarle per i redditi più ele­vati, per ovvie ragioni di giu­sti­zia sociale e per­ché così aumen­te­rebbe la spesa per con­sumi, e molto di più di quanto non siano aumen­tati con la bene­fi­cenza degli 80 euro. Di ciò, tutta­via, non si parla affatto.
Per­ché di tutto ciò non si parla e sem­mai si fa poco e male? L’unica rispo­sta plau­si­bile è che a ciò si oppon­gono inte­ressi costi­tuiti che non si vogliono o non si sanno con­tra­stare. Scri­veva Key­nes, nel 1936: «Il potere degli inte­ressi costi­tuiti è assai esa­ge­rato in con­fronto con la pro­gres­siva estensione delle idee», qui però si sbagliava.
Nell'icona una immagine inconsueta di John Maynard Keynes
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