loader
menu
© 2025 Eddyburg

«Un’udienza che poteva e doveva essere indispensabile, ragion per cui la Corte d’Assise l’ha disposta quasi sfidando l’evidente riottosità del capo dello Stato, rischia di essere un’udienza inutile, perfino dannosa per l’accertamento della verità». Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2014 (m.p.r.)

Ora che il momento della deposizione del presidente Napolitano al processo sulla “trattativa Stato-mafia” è arrivato, è giusto chiarire ai lettori del Fatto Quotidiano, italiani fortunati a essere stati costantemente informati di questo processo oscurato dai media, cosa è lecito attendersi da questa udienza che si svolgerà in pompa magna nientedimeno che al Quirinale, sede della più alta carica dello Stato. E credo di poter rivendicare, per la mia storia e il ruolo che in quel processo ho svolto, il diritto di poter dire la mia in virtù di un doppio vantaggio.

Il primo è quello di conoscere bene quell’indagine dall’inizio, avendola io avviata nell’ormai lontano 2000, fino alla sua impostazione costruita con i pm che oggi se ne occupano a dibattimento. Il secondo vantaggio è quello di essere un ex-magistrato, e quindi poter dire ciò che oggi a un magistrato non è consentito, visto che a colpi di procedimenti disciplinari, reprimende quirinalizie e adeguamenti obbedienti di un Csm trasformato da presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura a sede naturale dell’omologazione di giudici e pm, i magistrati sono stati ormai ridotti a cittadini di serie B, spogliati della libertà di espressione e del diritto di critica, se la critica investe la politica.
In virtù di questo doppio vantaggio, vi dico perché un’udienza che poteva e doveva essere indispensabile, se non decisiva, per l’accertamento della verità, ragion per cui la Corte d’Assise l’ha disposta quasi sfidando l’evidente riottosità del capo dello Stato, rischia di essere un’udienza inutile, perfino dannosa per l’accertamento della verità. Messa a rischio non certo dalla magistratura, ma – ancora una volta – dalla politica, una politica irredimibile, espressione di una classe dirigente troppo allergica al principio di responsabilità.

Io non sarò in quella sala del Quirinale trasformata in aula di udienza perché non sono più pm della Procura di Palermo, e non lo sono più anche perché ho ritenuto non vi fossero più le condizioni per un pieno accertamento della verità. E credo che la sorte di questa udienza ne sarà una riprova, così come la distanza fra le domande che avrei voluto fare io e quelle che i pm potranno fare al Presidente Napolitano.

La prima domanda che farei al Presidente Napolitano sarebbe: perché quando il senatore Nicola Mancino la cercò al telefono direttamente, e anche indirettamente tramite Loris D’Ambrosio, Lei non ritenne di astenersi dal mantenere rapporti e contatti con il senatore Mancino, che si sapeva essere in quel momento coinvolto nell’indagine sulla trattativa? Perché, anzi, assicurò il suo interessamento, facendo intendere a Mancino che avrebbe assecondato il suo disegno di sottrarre alla Procura di Palermo la direzione dell’indagine sulla trattativa? Lo fece solo per non dispiacere un vecchio amico e collega, o piuttosto lo fece per una superiore ragion di Stato? E quale, di grazia, era questa ragion di Stato? Peccato che questa domanda oggi sarebbe inammissibile, grazie alla politica, le ragioni della politica che l’hanno indotta, signor Presidente, a sollevare un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo. Le stesse ragioni della politica che poi hanno “indotto” la Corte costituzionale a darLe ragione, così coprendo di una malintesa immunità presidenziale tutte le Sue attività intorno a quella vicenda. Domanda respinta perché non consentita.

La seconda domanda, collegata, sarebbe di chiederLe perché non ritenne di contattare i pm palermitani per informarli dei contatti impropri attraverso i quali Mancino cercava di interferire sulle indagini in corso. Ma immagino che anche questa domanda mi sarebbe inibita dal presidente della Corte d’Assise in virtù di quella stessa sentenza politica della Corte costituzionale. Domanda respinta perché non consentita.

E ancora peggior sorte avrebbero le mie domande sulle telefonate “indicibili”, essendomi sempre chiesto perché Napolitano, se fosse stato davvero convinto che le telefonate intercettate con Mancino non contenessero nulla di inquietante e indicibile, non ha fatto nulla per sgombrare il campo da malignità e dietrologie, facendo in modo che quelle telefonate diventassero pubbliche, anziché addirittura imporne la distruzione. Domanda respinta perché non consentita.

E ancora: è certo, signor Presidente, che il conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte costituzionale contro la Procura di Palermo abbia aiutato la ricerca della verità e non l’abbia invece ostacolata? Domanda respinta perché non consentita. E infine: è certo che il tentativo di sottrarsi alla testimonianza dichiarandola preventivamente inutile sia stato un modo per aiutare la ricerca della verità? Domanda respinta perché non consentita.

In ultimo, con impertinenza: perché non ha mai espresso solidarietà ai magistrati del “pool trattativa” minacciati dalla mafia, da ultimo il pm Antonino Di Matteo, destinatario di messaggi di morte da parte di Totò Riina? Domanda respinta perché non consentita e provocatoria.

Ma avrei insistito. Del resto, mi è già accaduto a Palazzo Chigi, quando andai a interrogare Silvio Berlusconi nel corso del processo Dell’Utri, di provare a insistere con le domande nonostante Berlusconi, come oggi Napolitano, avesse fatto sapere alla Corte di non avere notizie utili da riferire, e alla fine venne costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Facoltà invece non consentita al Presidente Napolitano. E perciò, insistendo, avrei chiesto al Presidente quali fossero i segreti su certi “indicibili accordi” che Loris D’Ambrosio aveva rivelato solo a lui e mai ai magistrati, come lo stesso D’Ambrosio scrisse nella lettera del 18 giugno 2012 indirizzata a Napolitano. Quel segreto che aveva così tanto tormentato un uomo di Stato come D’Ambrosio da farlo morire di crepacuore (se solocrepacuore fu, visto che non è mai stato disposto alcun accertamento medico-autoptico). Un segreto che solo Lei, sig. Presidente, può rivelare alla Corte.

Se il Presidente avesse risposto di non sapere nulla di questi “segreti di Stato”, allora la domanda conseguente sarebbe stata: signor Presidente, pensa che Loris D’Ambrosio abbia scritto il falso rievocando un colloquio riservato con Lei in cui l’aveva messo a conoscenza di quei segreti? E perché avrebbe dovuto scrivere il falso in una lettera riservata a lei indirizzata?
Ma so che anche queste domande rischierebbero di non essere ammesse. Qualche autorevole opinionista, investito di quirinalizie preoccupazioni, sostiene che domande del genere sarebbero impedite dalle supreme prerogative presidenziali. Io credo, invece, che sono domande che attendono
risposta già da troppo tempo. Il presidente Napolitano ha la possibilità di fare chiarezza, sgombrando finalmente il campo da opacità e sospetti, dando un contributo decisivo nell’accertamento dei fatti e delle responsabilità in una vicenda ancora avvolta da troppi misteri, ancora ostaggio di troppi depistaggi di Stato, di troppi “non so” e “non ricordo” di fonte istituzionale.
Dopo più di 20 anni di silenzi, depistaggi, connivenze, omertà di Stato deve arrivare il momento della verità. Lo si deve a tutte le vittime delle stragi di mafia, lo si deve ai loro familiari. Solo con la verità l’Italia potrà dire di essersi meritata il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e dei tanti altri italiani caduti fra guerre e trattative con Cosa Nostra.

Le mie domande sarebbero impertinenti? Forse. Ma sono le domande di chi ha giurato sulla bara di Paolo Borsellino che avrebbe fatto di tutto per scoprire tutta la verità sulla morte sua e di tante altre vittime innocenti, e oggi sappiamo anche della trattativa. Di tutto. Anche a costo di uscire dalla magistratura, e quindi a costo della propria carriera. A qualsiasi costo. Provando a emulare l’irriducibilità e l’intransigenza di un vero uomo come Paolo Borsellino.

Ma siamo in Italia. Le cose vanno diversamente. Quelle domande sarebbero ormai dichiarate inammissibili. Il Presidente non risponderà a nulla di tutto questo. E, oltre il danno la beffa, l’intero processo rischia pure di essere dichiarato nullo perché, con un’ordinanza assai dubbia sul piano del diritto e della Costituzione, la Corte di Palermo, pur di non aprire un altro conflitto col capo dello Stato, ha estromesso gli imputati dalla partecipazione all’udienza che Napolitano ha preteso avvenisse in Quirinale. E la verità si allontana. In Italia c’è chi regna sovrano e chi ha scarsa memoria, cantava Rino Gaetano, ma il cielo è sempre più blu. E – aggiungo io – l’Italia va sempre giù. Tanto per fare la rima.

Legge di stabilità. La manovra avrà conseguenze distributive inique e ulteriormente depressive sulla crescita. Renzi fa scelte economiche e sociali omogenee agli interessi dei settori del Paese funzionali ai suoi obiettivi di sfondamento nel centrodestra.

Il manifesto, 23 ottobre 2014

La poli­tica eco­no­mica dell’illusionismo pra­ti­cata dal governo Renzi fin dal suo inse­dia­mento viene con­fer­mata e accen­tuata dalla legge di sta­bi­lità. L’evoluzione della crisi glo­bale — e spe­ci­fi­ca­mente di quella euro­pea — dà conto di un con­te­sto niente affatto favo­re­vole a ten­ta­tivi appros­si­mati come quelli messi in opera dal nostro per curare la grave situa­zione italiana.

L’errore di fondo della mano­vra sta nel rei­te­rare un approc­cio ina­de­guato alla natura della crisi. Che tende a miglio­rare solo alcune con­di­zioni d’offerta del set­tore pro­dut­tivo (ridurre il costo del lavoro e aumen­tarne la flessibilità).

Senza curarsi della decre­scente capa­cità inno­va­tiva alla base del nostro declino; ma non affronta in modo effi­cace il pro­blema più urgente, le carenze della domanda.

Renzi ha detto agli indu­striali «vi tolgo l’art. 18 e i con­tri­buti, vi abbasso l’Irap, ora assu­mete»; ma la mano­vra riduce i costi (e aumenta i pro­fitti) per le imprese che già dispon­gono di una domanda che, tut­ta­via, è insuf­fi­ciente a impe­gnare le risorse pro­dut­tive esi­stenti e non aumen­terà signi­fi­ca­ti­va­mente con la ridu­zione di impo­ste e con­tri­buti. Anzi, i dati con­fer­mano che, pur ridu­cendo il cuneo fiscale e aggiun­gendo 80 euro in busta paga — ma aumen­tando la pre­ca­rietà dei posti di lavoro — i con­sumi e gli inve­sti­menti non crescono.

Dal punto di vista dello sti­molo alla cre­scita, tagliare (spen­ding review) di 15 miliardi la spesa pub­blica e pen­sare di com­pen­sarne gli effetti ridu­cendo di 9,5 miliardi i con­tri­buti a carico dei lavo­ra­tori (per tra­mu­tarli negli 80 euro in busta paga), di 5 miliardi l’Irap e di 1,9 miliardi i con­tri­buti a carico delle imprese per incen­ti­vare i con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato, è un’operazione con effetto com­ples­sivo nega­tivo per­ché riduce la domanda effet­tiva. I tagli di spesa si tra­du­cono in calo della domanda, che è accre­sciuta solo in pic­cola parte dalla ridu­zione dei con­tri­buti. In più con i tagli ai beni e ser­vizi pri­mari, una loro con­ser­va­zione almeno par­ziale richie­derà un aumento della tas­sa­zione locale.

Dal punto di vista distri­bu­tivo, la mano­vra bene­fi­cia le imprese, soprat­tutto dei set­tori meno dina­mici (su 36 miliardi, solo 300 milioni a ricerca e svi­luppo); in via diretta (ridu­cendo impo­ste e con­tri­buti e con­ce­dendo nuovi incen­tivi) e indi­retta per gli effetti di tra­sla­zione sia degli sgravi con­tri­bu­tivi sia dell’eventuale tra­sfe­ri­mento in busta paga del Tfr. L’aspetto deter­mi­nante è la debo­lezza con­trat­tuale dei lavo­ra­tori. Que­ste «riforme» hanno accor­ciato i tempi di rin­novo dei con­tratti a tempo deter­mi­nato; ora eli­mi­nano l’art. 18 nei con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato; que­sti ultimi para­dos­sal­mente garan­ti­ranno minori cer­tezze tem­po­rali dei primi. In que­sto con­te­sto tutti gli inter­venti di ridu­zione del cuneo fiscale, anche quelli imma­gi­nati per aumen­tare la busta paga (80 euro e Tfr), saranno rias­sor­biti a van­tag­gio delle aziende. Suc­cede sem­pre di più che i lavo­ra­tori siano costretti a fir­mare buste paga supe­riori a quelle effet­tive. E que­sto fa capire quanto le imprese, spe­cie quelle pic­cole, pos­sano uti­liz­zare la nor­male con­trat­ta­zione per dirot­tare a loro van­tag­gio le misure che dovreb­bero aumen­tare le buste paga. E tutto ciò è accom­pa­gnato dalla truffa ideo­lo­gica secondo cui il «nuovo verso» ren­ziano aumen­te­rebbe la libertà di scelta dei lavo­ra­tori, ad esem­pio sul Tfr; tra­la­sciando che certi biso­gni, come quelli di tipo pre­vi­den­ziale, sono meglio per­ce­piti e cor­ri­spo­sti se orga­niz­zati in modo col­let­tivo e con obbligo assicurativo.

Pre­sto la «moder­nità» libe­ri­sta (e ren­ziana) vorrà con­vin­cerci ad eli­mi­nare il sistema pen­sio­ni­stico pub­blico, quello sani­ta­rio, le norme per la sicu­rezza nei luo­ghi di lavoro e tutte le norme che hanno segnato l’avanzamento civile.

La legge di sta­bi­lità, nono­stante i suoi scarsi effetti espan­sivi e le nega­tive con­se­guenze distri­bu­tive (ini­que e ulte­rior­mente depres­sive sulla cre­scita), crea anche motivi di con­tra­sto con Bru­xel­les che potreb­bero risol­versi in misure penalizzanti.

Quando, nel luglio 2012, Mario Dra­ghi, disse in un famoso inter­vento rivolto ai mer­cati finan­ziari, che la Bce avrebbe difeso l’Euro con tutte le sue forze, la spe­cu­la­zione inter­na­zio­nale si fermò, com­pren­dendo che era troppo rischioso andare oltre se la Bce si com­por­tava come una banca cen­trale nor­mal­mente deve fare, cioè difen­dere l’intera eco­no­mia di cui è uno stru­mento di poli­tica eco­no­mica. I tede­schi e i loro soli­dali del rigore «stu­pido» non ne furono lieti, ma dovet­tero con­sta­tare che que­sto ridava fiato all’intera Ue. Per oltre due anni l’avvertimento di Dra­ghi ha retto.

Nel frat­tempo è aumen­tata l’offerta di moneta sia della Fed sta­tu­ni­tense sia della Bce; l‘economia reale non ne ha bene­fi­ciato (in assenza di muta­menti strut­tu­rali della poli­tica eco­no­mica), ma sono aumen­tate le muni­zioni della spe­cu­la­zione finan­zia­ria. Se que­sta si con­vin­cerà che l’opposizione tede­sca alla linea della Bce arri­verà a bloc­carne l’attuazione, l’attacco alle eco­no­mie più deboli ripar­ti­rebbe alla grande. Quella ita­liana sarebbe tra le prime a farne le spese. Dun­que, anche per que­sta eve­nienza, l‘Italia dovrebbe mas­si­miz­zare l’effetto espan­sivo delle poli­ti­che: solo una mag­giore cre­scita del Pil può miglio­rare i nostri indi­ca­tori finan­ziari. Ma Renzi fa scelte eco­no­mi­ca­mente e social­mente omo­ge­nee agli inte­ressi dei set­tori del Paese meno dina­mici (le imprese non inno­va­tive), poli­ti­ca­mente fun­zio­nali ai suoi obiet­tivi di sfon­da­mento nel cen­tro­de­stra e di emar­gi­na­zione dei suoi oppo­si­tori di sini­stra. I quali, peral­tro, anche cri­ti­cando que­ste poli­ti­che, non hanno la capa­cità di unire le loro forze per difen­dere gli inte­ressi e le pro­spet­tive che pure riguar­dano l’intero Paese.

La distra­zione di massa dai pro­blemi effet­tivi pra­ti­cata dalle poli­ti­che di Renzi, il suo illu­sio­ni­smo, si acco­moda alla poli­tica tede­sca che frena l’economia e il pro­cesso uni­ta­rio dell’Ue. È indi­spen­sa­bile un’inversione di rotta; que­sto è l’appuntamento sto­rico che la sini­stra sta mancando

«E' più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le priorità, guardare al futuro».

Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2014

L’acqua si ritira da Genova. Per fortuna. Anche l’indignazione. Purtroppo. Finiremo ancora una volta per affidarci alla sorte e alle preghiere, che sono più utili delle previsioni meteo. Eppure è proprio questo il momento per cominciare a lavorare perché non accada più. Chissà se il premier Renzi ci leggerà. Probabilmente no, e forse è giusto così. Magari, verrebbe da dire, è troppo impegnato a scrivere tweet ed sms, ma lasciamo da parte le polemiche. Ha davvero compiti e responsabilità da far tremare i polsi. Però proviamo a far arrivare qualche dubbio fino a chi ci governa e quindi ha in mano letteralmente la nostra vita.

Il Governo ha recentemente annunciato il lancio di nuove grandi opere come occasione di modernizzazione e motore dell’economia. Facciamo un esempio: l’autostrada Mestre-Orte, che costerà oltre dieci miliardi. Un’opera voluta da tutti: dal presidente Giorgio Napolitano a Pierluigi Bersani, passando per Vito Bonsignore, politico Pdl con amici a destra e a sinistra, nonché imprenditore impegnato nel progetto. Ecco, prima di realizzare un’opera tanto discussa non sarebbe il caso di investire un ventesimo delle risorse per salvare l’intera Liguria intrisa di acqua e di cemento?

La domanda è secca: è più urgente costruire un’autostrada o mettere in sicurezza una regione e la vita di quasi due milioni di persone? Questo è il grande compito della politica: decidere, scegliere le priorità, guardare al futuro.

Ancora: il decreto Sblocca Italia (come ha spiegato Tomaso Montanari anche nel libro Rottama Italia scaricabile dal sito altraeconomia.it) introduce novità insidiosissime per il nostro ambiente. Non vogliamo negare - anche se abbiamo molti dubbi - che lo spirito sia quello di dare un impulso all’economia. Non ci interessa affermare che si vogliano favorire le lobbies del cemento e dell’asfalto. Ma di fatto il risultato rischia di essere devastante: in nome di un malinteso criterio di speditezza nella sostanza si eliminano i controlli, si riduce a semplice simulacro il ruolo di amministrazioni locali e Soprintendenze. Così, al di là di tante belle e facili parole, si preparano le alluvioni di domani.

Non basta: se non vogliamo recuperare il territorio per salvare delle persone e vivere meglio, facciamolo perché ci conviene. Bonificare e recuperare le zone a rischio sarebbe occasione di lavoro per migliaia di imprese. Di più. Il paesaggio è la materia prima della nostra più grande industria: il turismo, che vale l’11% del pil e tre milioni di posti di lavoro (e potrebbero essere molti di più, perché oggi siamo quinti nella classifica del turismo, con trenta milioni di presenze meno della Francia).

Evitare le alluvioni, vivere meglio e dare insieme impulso all' economia si può.

«E' forse un caso che que­sta pole­mica viene inne­scata durante le con­sul­ta­zioni segrete per l’approvazione del Ttip, il trat­tato com­mer­ciale fra Usa e Ue che, guarda caso, ha fra i suoi obiet­tivi pro­prio quello di sba­raz­zarsi del prin­ci­pio di pre­cau­zione euro­peo?».

Il manifesto, 14 ottobre 2014 (m.p.r.)

Anche in Ita­lia si sta svol­gendo un ser­rato e avvin­cente dibat­tito intorno al tema degli ogm a cui stanno par­te­ci­pando per­so­na­lità di spicco del mondo acca­de­mico, della poli­tica e del set­tore prin­ci­pale di rife­ri­mento che è quello agri­colo. È impor­tante rico­no­scere l’utilità del dibat­tito e il valore delle posi­zioni di tutti gli attori coin­volti. In molti casi, come ha soste­nuto giu­sta­mente Carlo Petrini, le posi­zioni dei cosid­detti sta­ke­hol­ders, i por­ta­tori di inte­ressi, riman­gono nella penom­bra come è il caso delle stesse mul­ti­na­zio­nali che molto volen­tieri si sot­trag­gono al dibat­tito pub­blico, inte­res­sate come sono mag­gior­mente ad occu­parsi di influen­zare diret­ta­mente la poli­tica attra­verso le loro lobby piut­to­sto che infor­mare i cit­ta­dini. In molti altri casi, come quello del New Yor­ker, il dibat­tito scade a livello di attac­chi per­so­nali, sospetti, illa­zioni, velate e non, nei con­fronti di uno dei rap­pre­sen­tanti più signi­fi­ca­tivi del movi­mento ambien­ta­li­sta glo­bale: Van­dana Shiva. Un dibat­tito, in cui ognuno mette a dispo­si­zione dell’opinione pub­blica la pro­pria diretta espe­rienza e cono­scenza, è invece utile alla vita demo­cra­tica dei paesi.

Nav­da­nya signi­fica nove semi e la fon­da­zione, diretta da Van­dana Shiva, si occupa pre­va­len­te­mente di rico­no­scere, tute­lare e valo­riz­zare il patri­mo­nio semen­tiero tanto impor­tante per l’umanità quanto la dispo­ni­bi­lità di acqua. La que­stione degli ogm è dun­que una que­stione che potremmo defi­nire come “aggre­gata” alla mis­sion prin­ci­pale dell’associazione ed è trat­tata pro­prio dal punto di vista della difesa della biodiversità.

Gli ogm non sono i soli nemici della nostra bio­di­ver­sità, che negli ultimi anni è stata erosa in maniera quasi irre­pa­ra­bile, ma, in que­sta sede, è utile discu­tere pro­prio del loro impatto sulle nostre vite e su quella del pia­neta. La prima cosa da sot­to­li­neare è que­sto inte­res­sante rife­ri­mento al para­digma scien­ti­fico. Chi è a favore degli ogm è in linea con l’evoluzione scien­ti­fica, un pro­gres­si­sta; chi non lo è, diventa invece un retro­grado, un con­ser­va­tore. Que­sta visione mani­chea pre­senta aspetti paradossali.

Gli ogm sono stati dap­prima intro­dotti negli Usa secondo il cosid­detto prin­ci­pio della “sostan­ziale equi­va­lenza”. In altre parole, se un’invenzione è sostan­zial­mente equi­va­lente a qual­cosa di già esi­stente non ha biso­gno di par­ti­co­lari spe­ri­men­ta­zioni e può essere lan­ciata sul mer­cato. A pen­sarci bene è la stessa tesi espressa dal pro­fes­sor Vero­nesi. Il dna ha una strut­tura estre­ma­mente sem­plice che può essere facil­mente mani­po­lata senza neces­sità di pre­oc­cu­parsi più di tanto. Ora, que­sto approc­cio all’americana all’esistente, e soprat­tutto al com­mer­cia­bile, non è accet­tato dall’Unione Euro­pea dove vige il prin­ci­pio di pre­cau­zione. In altre parole, se un’azienda inventa un nuovo pro­dotto deve essere dimo­strato che non è nocivo prima di essere immesso sul mer­cato. La posi­zione dell’Ue è chiara: non esi­stendo un con­senso scien­ti­fico, gli ogm non pos­sono essere dichia­rati sicuri. Nel dub­bio, vige il prin­ci­pio di pre­cau­zione che dovremmo difen­dere per­ché pro­tegge le nostre vite da inven­zioni che sono spesso più indi­riz­zate a fare pro­fitti sul mer­cato piut­to­sto che per­se­guire il bene comune.

Ogni parte porta, d’altro canto, le sue argo­men­ta­zioni a riguardo. Anche Nav­da­nya ha pub­bli­cato un rap­porto sull’argomento rac­co­gliendo gli studi di mol­tis­simi ricer­ca­tori che dimo­strano la noci­vità degli ogm. Vi sono nel mondo studi simi­lari che dimo­strano l’esatto con­tra­rio. L’Ue ha con­cluso che non esi­ste pos­si­bi­lità di dichia­rare gli ogm sicuri fuori da ogni ragio­ne­vole dub­bio. Ed ha appli­cato il prin­ci­pio di pre­cau­zione per sal­va­guar­dare i suoi cit­ta­dini. La pole­mica sugli ogm com­prende anche que­sto sacro­santo prin­ci­pio. Allora viene da pen­sare: è forse un caso che que­sta pole­mica viene inne­scata durante le con­sul­ta­zioni segrete per l’approvazione del Ttip, il trat­tato com­mer­ciale fra Usa e Ue che, guarda caso, ha fra i suoi obiet­tivi pro­prio quello di sba­raz­zarsi del prin­ci­pio di pre­cau­zione euro­peo? È forse un caso che le mul­ti­na­zio­nali dell’agribusiness siano i mag­giori lob­bi­sti per l’approvazione dell’accordo? Come pos­siamo allora costruire un’opinione razio­nale e con­di­visa su que­sto argo­mento? Soprat­tutto quando i pro­mo­tori degli ogm ci dicono che la nuova tec­no­lo­gia potrebbe rap­pre­sen­tare la pana­cea di ogni male al mondo?

Uno degli aspetti che sem­bra man­care nell’analisi di Vero­nesi è quello della con­te­stua­liz­za­zione, quasi che il mondo finisse sulla soglia dei labo­ra­tori. Gli ogm non ven­gono fuori dal nulla, o per nes­sun motivo. Non sono libe­ra­mente a dispo­si­zione di tutti e la loro appli­ca­zione, al di là della dia­triba scien­ti­fica, com­porta con­trac­colpi ambien­tali, eco­no­mici e sociali note­voli. Pos­siamo allora dire con sicu­rezza che i semi e i pro­dotti ogm nel campo dell’agricoltura hanno un impatto deva­stante sul set­tore. Gli ogm sono infatti pro­prietà delle mul­ti­na­zio­nali che, attra­verso la loro immis­sione sul mer­cato, rimo­del­lano i sistemi agri­coli di tutto il mondo. A farne le spese sono i pic­coli pro­dut­tori che con le loro col­ture tra­di­zio­nali non pos­sono tenere il passo delle pro­du­zioni indu­striali sov­ven­zio­nate. Con i metodi di col­ti­va­zione inten­siva la neces­sità di mano­do­pera viene inol­tre ridotta. Non i pro­fitti però. Cosa suc­cede agli agri­col­tori nel frattempo?

Quello che è acca­duto in Sud Ame­rica e in India è, per esem­pio, emble­ma­tico. Cen­ti­naia di migliaia di per­sone si muo­vono dalle cam­pa­gne alla città andando ad ingol­fare fetide barac­co­poli. In altre parole, il rischio è quello di ali­men­tare il sistema dei grandi lati­fondi e inon­dare le città con una massa di dispe­rati. Un danno eco­no­mico, sociale e anche cul­tu­rale con­si­de­rando la per­dita delle anti­che cono­scenze di cui le popo­la­zioni rurali sono depo­si­ta­rie. La favola che gli ogm pos­sano rispon­dere al pro­blema della fame nel mondo e del sovrap­po­po­la­mento è, per l’appunto, una favola. Quello che importa sono i con­trac­colpi di un sistema indu­striale basato sugli ogm sulle eco­no­mie, sulle popo­la­zioni e sulle cul­ture locali. E que­sto impatto risulta essere, secondo gli studi effet­tuati da Nav­da­nya e da molte altre orga­niz­za­zioni che lavo­rano fuori dai labo­ra­tori e diret­ta­mente sul campo, non equo, non eco­lo­gico, non soste­ni­bile. A gua­da­gnarci sono ancora una volta i pochi, a per­derci i molti.

Que­sta sche­ma­tica ana­lisi vuole solo dimo­strare quanto i feno­meni siano inter­con­nessi e come leg­gere un arti­colo sulla valenza della ricerca scien­ti­fica tran­sge­nica può essere inte­res­sante in se stesso ma non esau­stivo. La ricerca scien­ti­fica deve essere al ser­vi­zio dell’umanità e non vice­versa. Quando ciò acca­drà anche nel set­tore agri­colo, a bene­fi­cio di con­ta­dini e con­su­ma­tori e non delle mul­ti­na­zio­nali, Van­dana Shiva sarà, con tutta pro­ba­bi­lità, la prima per­sona ad esultarne.

Organizzati, comunicativi e con una nuova leadership. Questo occorre oggi per costruire una nuova sinistra e scongiurare il disastro dell'Italia. Un ragionamento basato sulla valutazione critica dell'esperienza "movimentista".

Il manifesto, 11 ottobre, con postilla

All’indomani del «patto degli Apo­stoli» e dell’invito di Norma Ran­geri a una nuova unità a sini­stra, Tonino Perna invita alla pru­denza e sol­le­cita «una grande tes­si­tura sociale e cul­tu­rale di parole in grado di costruire la visione del futuro desi­de­ra­bile e cre­di­bile». Ha ragione: il disa­stro ren­ziano ha radici anti­che e l’alternativa non può certo stare in una rivin­cita (sep­pur la cer­casse) dell’esta­blish­ment del Pd di ieri, che di quel disa­stro ha posto le pre­messe poli­ti­che e cul­tu­rali (a comin­ciare dall’elevazione a stelle polari «delle leggi di mer­cato e della cre­scita eco­no­mica senza se e senza ma»).

Ma que­sta neces­sa­ria tes­si­tura deve accom­pa­gnarsi a una ini­zia­tiva poli­tica imme­diata: per­ché il rischio di una deser­ti­fi­ca­zione del tes­suto sociale e isti­tu­zio­nale è sem­pre più forte e sul deserto è dif­fi­cile anche rico­struire. Nello stesso tempo, non siamo all’anno zero ché i ten­ta­tivi degli ultimi tempi, sep­pur impro­dut­tivi sul piano elet­to­rale, non sono stati avari di ela­bo­ra­zione cul­tu­rale. Una rin­no­vata ini­zia­tiva poli­tica, che abbia l’ambizione di diven­tare ege­mone (e non solo di supe­rare il quo­rum delle pros­sime ele­zioni, spe­rando che non sia troppo alto…), deve, peral­tro, misu­rarsi con alcune que­stioni, troppo spesso eluse o esor­ciz­zate e che stanno alla base degli insuc­cessi degli ultimi anni. Provo a indi­carne alcune.

Primo. In tutte le recenti espe­rienze alter­na­tive e inno­va­tive ci si è mossi, talora teo­riz­zan­dolo e comun­que nei fatti, sul pre­sup­po­sto che le buone idee sono di per se sole, pro­prio per­ché buone, capaci di pro­durre in modo auto­ma­tico l’organizzazione neces­sa­ria (e suf­fi­ciente). Non è così. Lo dico pur con­sa­pe­vole, da vec­chio movi­men­ti­sta, delle dege­ne­ra­zioni buro­cra­ti­che e auto­ri­ta­rie che spesso si anni­dano negli appa­rati. Con­tro que­ste derive va tenuta alta la guar­dia ma la sot­to­va­lu­ta­zione del momento orga­niz­za­tivo (e della sua legit­ti­ma­zione) è stata una delle cause prin­ci­pali della ris­so­sità e della incon­clu­denza di molte aggre­ga­zioni poli­ti­che ed elet­to­rali dell’ultimo periodo. Posso dirlo per espe­rienza diretta con rife­ri­mento a “Cam­biare si può” (para­liz­zato dalla man­canza di luo­ghi di deci­sione e, per que­sto, facile preda di una nefa­sta e alie­nante occu­pa­zione). Ma lo stesso dimo­strano le dif­fi­coltà in cui si dibatte la lista Tsipras.

Secondo. La bontà delle idee non ne garan­ti­sce, di per se sola, nep­pure la capa­cità di autoaf­fer­marsi e di aggre­gare con­sensi. Il fatto nuovo della società dell’immagine – affer­mato da tutti ma non ancora com­piu­ta­mente meta­bo­liz­zato – è il pri­mato della comu­ni­ca­zione sui valori. Sem­pre più per­sino chi è subal­terno o mar­gi­nale com­batte bat­ta­glie non pro­prie, mobi­li­tan­dosi e votando su parole d’ordine altrui più che a soste­gno dei pro­pri biso­gni e inte­ressi. Si spie­gano così i suc­cessi di Ber­lu­sconi e di Renzi, che – moder­niz­zando un copione antico – hanno attinto con­senso e voti in maniera mas­sic­cia in strati popo­lari. La comu­ni­ca­zione, poi, ha oggi regole e moda­lità sem­pli­fi­ca­to­rie, asser­tive, spesso dema­go­gi­che. Non ci piac­ciono (o non piac­ciono a me). Ma da esse non si può pre­scin­dere, almeno oggi. Meglio, in ogni caso, adot­tarle – con il neces­sa­rio distacco cri­tico – per vei­co­lare buoni pro­getti piut­to­sto che subirle con il loro carico di cat­tivi pro­getti… Nella odierna comu­ni­ca­zione fast food le parole con­tano più della realtà che rap­pre­sen­tano: occorre cam­biare que­sta spi­rale per­versa, ma per farlo biso­gna saper usare le parole.

Terzo. Se que­sto è vero lo sbocco è con­se­guente. Abbiamo buone idee e buoni pro­getti ma con­ti­nue­remo, cio­no­no­stante, ad essere scon­fitti e saremo ridotti all’irrilevanza (non solo alla mino­rità) se non sapremo espri­mere nuovi lin­guaggi, sem­pli­fi­cati e ripe­ti­tivi, ma capaci di dare con­cre­tezza a una pro­spet­tiva di egua­glianza e di eman­ci­pa­zione (la man­canza di una pro­messa atten­di­bile di red­dito decente per tutti ha fatto vin­cere chi ha dato a molti una man­cia di 80 euro, pur sot­tratta con l’altra mano).

E lo stesso acca­drà se non sapremo espri­mere un per­so­nale poli­tico radi­cal­mente diverso da un ceto respon­sa­bile di scon­fitte seriali (non sco­pro l’acqua calda se dico che nella resi­sti­bile ascesa di Renzi è stato deter­mi­nante il con­tri­buto, miope quanto com­pren­si­bile, di chi lo ha votato «per­ché è il solo che può farci vin­cere»). E un nuovo per­so­nale poli­tico dovrà avere un punto di rife­ri­mento rico­no­sci­bile e media­ti­ca­mente forte: non un uomo della prov­vi­denza cir­con­dato da nul­lità che ne esal­tano la fun­zione sal­vi­fica (come è stato ed è da due decenni), ma un uomo, o una donna, in grado di aggiun­gere un per­so­nale cari­sma a un gruppo auto­re­vole e coeso. Anche que­sto pro­voca in noi (o almeno in me) non poca dif­fi­denza. Ma il ter­reno e le moda­lità dello scon­tro non li deci­diamo noi. Dovremo cam­biarli, epperò – qui e ora – non pos­siamo pre­scin­derne.
Arrivo così alla parte più dif­fi­cile. Esi­ste oggi in Ita­lia la pos­si­bi­lità di dar corpo a una pro­spet­tiva sif­fatta (come sta acca­dendo altrove: dalla Gre­cia alla Spa­gna)? Esi­ste, ma per costruirla biso­gna uscire dal gene­rico e avan­zare pro­po­ste con­crete, anche venendo meno al poli­ti­cally cor­rect. Dun­que ci provo.

Il nucleo forte della pro­po­sta poli­tica non può che essere il lavoro, con le sue con­di­zioni e i suoi pre­sup­po­sti, di cui riap­pro­priarsi sot­traen­dolo a chi lo distrugge ma, insieme, lo declama pre­sen­tan­dosi come il suo vero e unico difen­sore. C’è chi può rap­pre­sen­tare que­sta pro­spet­tiva in modo non per­so­na­li­stico e con un rico­no­sci­mento dif­fuso, veri­fi­cato in cen­ti­naia di piazze e – par­ti­co­lare non meno impor­tante, secondo quanto si è detto – in cen­ti­naia di con­fronti tele­vi­sivi. È – non devo certo spie­gare per­ché – Mau­ri­zio Landini.

Lo so. Lan­dini ha detto più volte che il suo posto è il sin­da­cato e non la poli­tica. È un atteg­gia­mento fino a ieri com­pren­si­bile e apprez­za­bile. Ma oggi c’è una ragione aggiun­tiva per chie­der­gli di farle il salto: il lavoro non lo si può più inven­tare, creare e difen­dere solo o soprat­tutto a livello sin­da­cale. E le occa­sioni per ribal­tare il qua­dro non si ripetono

postilla
Certamente il tema del lavoro è centrale per operare da subito un ribaltamento del percorso lungo il quale l'Italia corre verso il baratro. Ma il Lavoro non è difendibile se esso non è collegato, fin dalla sua prima enunciazione, ad altri due grandi temi che, con esso, costituiscono i tre pilastri di un nuovo sviluppo: Ambiente e Democrazia. Per ora ci limitiamo qui ad asserirlo. Proveremo presto ad argomentarlo meglio.

«In assenza dell’apertura di vie legali di ingresso e senza una modifica del Regolamento Dublino III,

Mos Maiorum potrebbe costringere i migranti a rivolgersi ancor più ai trafficanti di terra, rafforzando il ricatto delle reti criminali”. Dal sito L’altra Europa con Tsipras, 09 ottobre 2014

Nello stesso momento in cui i governi europei fingono di piangere i morti di Lampedusa, a un anno dalla strage del 3 ottobre, si sta preparando in tutta l’Unione un’autentica retata di migranti, promossa dal governo italiano nelle vesti di presidente di turno del Consiglio. Sono felice che il nostro gruppo si mobiliti, e un grande grazie a chi, nello staff del Gue-Ngl, sta cercando di costruire iniziative in vista della prossima plenaria assieme al gruppo dei Verdi. (1)

L’operazione, battezzata Mos Maiorum, si svolgerà dal 13 al 26 ottobre, ed è stata decisa dal Consiglio dei ministri dell’Interno e della Giustizia il 10 luglio scorso. Ne siamo venuti a conoscenza tardi: in parte perché come Parlamento non siamo stati avvisati, in parte perché non siamo stati attenti. Sarà condotta dentro lo spazio Schengen e, con la scusa della lotta alla tratta di esseri umani, intende rintracciare il più gran numero possibile di migranti cosiddetti irregolari: il più delle volte richiedenti asilo senza documenti, perché in fuga da zone di guerre cui noi stessi abbiamo contribuito.

Mos maiorum – già il nome inquieta, rimanda a tempi di imperi e schiavi – sarà assistita dall’agenzia Frontex, che in teoria controlla le frontiere dell’Unione, non il suo spazio interno. Avviene inoltre quando l’agenzia Frontex è più contestata, per non rispetto del divieto di respingimento sancito dalla Carta europea dei diritti fondamentali, oltre che dalla convenzione di Ginevra. Sono numerosi i casi di respingimento collettivo dai porti dell’Adriatico, e dagli aeroporti siciliani di Comiso (Ragusa) verso l’Egitto e di Palermo verso la Tunisia.

La mancanza di canali legali di ingresso in Europa ha prodotto una crescita esponenziale di fuggitivi, costretti ad entrare (e poi spostarsi nell’area Schengen) senza documenti. Il Regolamento Dublino III, mal congegnato, prevede tempi lunghi delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale e produce movimenti secondari di richiedenti asilo verso il Nord Europa, attraverso canali irregolari. Queste persone rischiano di essere le prime vittime di un’operazione di polizia che, a parole, vuol contrastare il crimine che fa profitti sui migranti, sia quando entrano nell’Unione sia quando circolano al suo interno.

Si potrebbe verificare il contrario esatto di quel che si dice di voler ottenere: una criminalizzazione non delle mafie ma delle loro prede: cioè di chi sarà trovato senza regolari documenti di ingresso e soggiorno. Si estenderà la loro possibile reclusione nei centri di detenzione. Saranno ancor più svalutati gli istituti della protezione internazionale.

In assenza dell’apertura di vie legali di ingresso e senza una modifica del Regolamento Dublino III, Mos Maiorum potrebbe costringere i migranti a rivolgersi ancor più ai cosiddetti trafficanti di terra, rafforzando il potere di ricatto delle reti criminali. I meccanismi di emarginazione prodotti dalla fuga nella clandestinità, ­ sostiene il docente di diritto d’asilo Fulvio Vassallo Paleologo, sono una manna per le reti che forniscono servizi e beni primari in cambio non solo di denaro, ma dell’affiliazione a correnti politiche e religiose radicali. Le retate non abbattono le mafie. Le tengono in vita e le nutrono.

1) Su Mos Maiorum, il gruppo Gue-Ngl ha successivamente deciso, nel pomeriggio del 9 ottobre, di inviare subito una lettera al Consiglio dei ministri degli Affari interni e della Giustizia, riuniti nella stessa giornata a Lussemburgo, e di preparare una "richiesta di dichiarazione" del Consiglio durante la prossima plenaria del Parlamento europeo. Alla richiesta aderirà il gruppo dei Verdi.

«Il manifesto, 9 ottobre 201425 ottobre. Le parole di Maurizio Landini chiamano insieme a una grande manifestazione ma anche ad attivare un movimento sul controllo da parte dei lavoratori dei processi della crisi in atto, a partire dalle crisi aziendali

«Que­sto Par­la­mento non serve a niente, siamo pronti ad occu­pare le fab­bri­che»: Mau­ri­zio Lan­dini non poteva essere più espli­cito e «sto­rico», anche nel rife­ri­mento alle occu­pa­zioni di fab­bri­che che hanno con­tras­se­gnato nel secolo breve la sto­ria del movi­mento ope­raio, non solo ita­liano. Qual­cuno ci ha letto una sorta di can­di­da­tura «poli­tica», altri l’hanno vista come «nar­ra­zione» agli iscritti sin­da­cali, la Con­fin­du­stria l’ha giu­di­cata come una minaccia.

Ma le parole del segre­ta­rio della Fiom non sono una sug­ge­stione, cor­ri­spon­dono in pieno alla pre­ci­pi­tosa crisi ita­liana finita nelle mani, impro­prie, dell’apprendista stre­gone Mat­teo Renzi. Siamo infatti con la fidu­cia sul cosid­detto Jobs Act, all’ennesima ridu­zione degli spazi di demo­cra­zia, dopo la can­cel­la­zione dell’elezione diretta del Senato e l’accumulo di decre­ta­zione come mai prima nes­sun governo della Repub­blica. Ma se sui temi del lavoro si can­cel­lano le difese degli stessi lavo­ra­tori, è legit­timo o no che si alzi la loro voce e di chi legit­ti­ma­mente li rappresenta?

Ren­dendo così evi­dente che ormai la que­stione non è più solo sin­da­cale, ma poli­tica per­ché chiama in causa con­te­nuti di rap­pre­sen­tanza e di potere. Nella con­vin­zione che la man­canza di lavoro e di inve­sti­menti, non sia dovuta al peso delle tutele fin qui fati­co­sa­mente con­qui­state dai lavo­ra­tori con straor­di­na­rie sta­gioni di lotta che si vogliono azze­rare, e che non dipende dalla man­cata riforma del mer­cato lavoro tanto cara alla fal­li­men­tare destra neo­li­be­ri­sta. Ma al con­tra­rio pro­prio dalla man­cata riforma del mer­cato dei capi­tali. Vale a dire dal fatto macro­sco­pico, che que­sto governo misco­no­sce, che la crisi finan­zia­ria del capi­ta­li­smo ha deva­stato risorse e uma­nità. E che ora, come assai timi­da­mente avviene negli Stati uniti per effetto della pos­si­bi­lità di soc­cor­rere con la moneta domanda e inve­sti­menti, è neces­sa­rio un ruolo di con­trollo e impren­di­to­ria­lità del governo e dello Stato.

Men­tre in Ita­lia e in Europa, irre­spon­sa­bil­mente, invece si avvia l’itinerario oppo­sto delle pri­va­tiz­za­zioni, sman­tel­lando aziende tutt’altro che in rosso e con capa­cità di guida e indi­rizzo dell’intera eco­no­mia ita­liana e con­ti­nen­tale, pri­vata, pub­blica e cooperativa.

Ora — ed è la rifles­sione che come mani­fe­sto vogliamo rilan­ciare, anche per­ché è parte della nostra cul­tura fon­da­tiva — le parole di Mau­ri­zio Lan­dini chia­mano insieme ad una grande mani­fe­sta­zione il 25 otto­bre ma anche ad atti­vare un movi­mento sul con­trollo da parte dei lavo­ra­tori dei pro­cessi della crisi in atto, a par­tire dalle crisi azien­dali. Con­vinti che dalla crisi si esce con più demo­cra­zia non con meno, come vogliono Mat­teo Renzi e il nuovo Pd. Se tra le pie­ghe del Jobs Act com­pa­riva a gen­naio una spe­cie di fan­ta­sma di coge­stione — tutti uniti tutti insieme, il lavoro subal­terno che subi­sce il disa­stro dell’impresa capi­ta­li­stica e il padrone pro­ta­go­ni­sta del crollo — la crisi in corso pone all’o.d.g. ancora una volta il ruolo cen­trale dei lavoratori.

Si dirà: ma se le fab­bri­che non ci sono più? Non è pro­prio vero, ma quando tra­gi­ca­mente lo è, pro­viamo a capo­vol­gere lo sguardo: non ci tro­viamo forse da anni di fronte a drap­pelli di lavo­ra­tori pro­te­sta­tari che insi­stono a tro­vare un padrone che ripri­stini mer­cato e sfrut­ta­mento? Oppure, all’opposto, a fab­bri­che dismesse, con­si­de­rate ina­de­guate o obso­lete, occu­pate e riat­ti­vate dagli stessi lavo­ra­tori? E ancora ai «nuovi lavori» pre­cari o ai senza lavoro spesso in con­flitto sordo con chi il lavoro ancora ce l’ha, ma sem­pre più incerto? Tra­sfor­miamo que­sta pro­te­sta che rischia di appa­rire come rou­ti­na­ria in un pre­si­dio di fronte al fan­ta­sma del ruolo del «capi­ta­li­sta». «Siamo pronti ad occu­pare le fab­bri­che» chiama a ruolo per­fino la fun­zione del governo Renzi che, con l’austerity Ue, adesso siamo costretti a subire in una con­vi­venza forzosa.

Se come scri­veva Luigi Pin­tor «la sini­stra come l’abbiamo cono­sciuta non esi­ste più», le parole di Lan­dini rino­mi­nano la speranza.

La produzione di cemento è in calo. Un governo responsabile non può lasciare che sia il mercato ad occuparsene «perché il mercato non è mai pienamente libero, come dimostrano i finanziamenti pubblici arrivati a Cementir e Italcementi per “ristrutturare” e trasformare in co-inceneritori di rifiuti gli impianti di Taranto e Rezzato (BS)”».

Altreconomia.it, 9 ottobre 2014

Se le proiezioni saranno confermate, nel 2014 il consumo di cemento nel nostro Paese scenderanno sotto le venti milioni di tonnellate. Secondo i dati presentati dal centro studi dell'AITEC, l'Associazione confindustriale che riunisce le principali aziende che producono cemento in Italia, il nostro Paese non è mai sceso “così in basso” dal 1961, da prima del boom economico. Se misuriamo la variazione rispetto al 2007, che è l'anno principe della “bolla immobiliare” nel nostro Paese, accanto al segno meno c'è scritto 56,13%: oltre la metà della produzione pro capite di cemento è andata perduta. Peggio di noi, dal 2010 ad oggi, ha fatto solo la Spagna, un altro Paese in cui nei primi anni Duemila si è costruito, costruito, costruito, aumentando a dismisura l'offerta di case, senza badare all'effettiva esistenza di una domanda, o alimentandola in modo fittizio garantendo mutui troppo facili, che oggi -complice la disoccupazione- sono diventati un grave problema sociale.

La Spagna, che a lungo ha conteso all'Italia la leadership nella classifica dei produttori Ue di cemento, non è metro di paragone per Il Sole 24 Ore, che nell'articolo che dà conto della crisi del settore evidenzia invece come in Francia e Germania il settore abbia sofferto meno.
Il giornale di Confindustria titola “il cemento torna agli anni 60”, e il significato può essere ambivalente: se da una parte esso rappresenta né più né meno i dati contenuti nella tabella (che tra l'altro evidenzia come dal 1948 al 2014, i consumi di cemento siano comunque quintuplicati, arrivando a coprire in modo permanente oltre 22mila chilometri quadrati di territorio, come ci ha ricordato l'ultima relazione dell'ISPRA sul consumo di suolo), dall'altro sembra indicare una strada. O, meglio, un'autostrada, almeno a leggere tra le righe del decreto Sblocca-Italia, che punta sulle infrastrutture pesanti (quelle viarie e ferroviarie, ma anche i metanodotti) e su una massiccia iniezione di cemento per far ripartire l'economia, come spieghiamo nel libro a più voci “Rottama Italia”, scaricabile in PDF dal sito www.altreconomia.it/rottamaitalia.

Di fronte a questi numeri, però, l'unica scelta possibile per il governo Renzi, che avrebbe dovuto cambiare verso al Paese, è quella di (provare a) governare il settore: secondo le informazioni de Il Sole 24 Ore, dal 2008 ad oggi sono stati chiusi 21 dei 60 impianti a ciclo completo presenti sul territorio nazionale, anche se in molti casi non si tratta di chiusure definitive, e il governo dovrebbe aprire un tavolo di concertazione con i produttori di cemento, per pianificare -insieme- il futuro del settore (e dei suoi 8.600 addetti). Non è pensabile, infatti, che la produzione di cemento ritorni ai livelli del 2006-2007, come ha ben evidenziato la scelta di Italcementi di chiudere nell'arco di un triennio quasi la metà dei propri stabilimenti, ma un governo responsabile non può lasciare che sia il mercato a decidere. Perché il mercato non è mai libero pienamente, come dimostrano -ad esempio- i finanziamenti pubblici che attraverso la Banca europea degli investimenti sono arrivati a Cementir e Italcementi per “ristrutturare” e trasformare in co-inceneritori di rifiuti gli impianti di Taranto e Rezzato (BS).

Anche perché, nel caso dei cementifici, stiamo parlando di un'industria insalubre, di uno dei settori le cui emissioni sono monitorate dall'Unione Europea nell'ambito del programma europea di riduzione legato al Protocollo di Kyoto. Così, non dev'essere solo la magistratura amministrativa a dire che cosa si può e non si può fare nei cementifici e coi cementifici, quando i cittadini -o le amministrazioni comunali- si rivolgono ai giudici del TAR per verificare la legittimità di un singolo atto. C'è bisogno della politica, e anche di un po' di buon senso. Quello che vorrebbe, ad esempio, che l'immagine di alcune delle aree più belle del Paese non venisse “sporcata” dalle ciminiere di un cementificio, né che quest'impianti continuino ad esistere nelle nostre città, a ridosso di zone densamente abitate. Partiamo da qui, dalla chiusura dei cementifici di Pederobba, Fumane in Valpolicella, Monselice ed Este, all'interno del Parco dei Colli Euganei, Taranto, Pescara, Piacenza e Barletta.
Così tanto cemento non serve più, prendiamone atto.

L‘affermazione “la scienza ha sempre ragione” non è scientifica. È ideologica. Lo è tanto quanto il pregiudizio reazionario per il quale ogni mutamento del modo di produrre, consumare, nutrirsi, avviene nel nome di interessi inconfessabili, e a scapito della salute della collettività umana.

L’acceso dibattito sugli ogm (vedi gli interventi su Repubblica di Vandana Shiva, Elena Cattaneo, Carlo Petrini, Umberto Veronesi) fatica a mondarsi di queste opposte rigidità. E fa specie che nel campo “pro”, che annovera valenti ricercatori e scienziati, pesi ancora come un macigno l’idea che il fronte degli oppositori sia un’accolita di mestatori che, in odio al progresso umano e alla libertà di ricerca, alimentano dicerie malevole e speculano sulla paura e l’emotività dell’opinione pubblica. Una volta esposte le ottime ragioni della ricerca scientifica e della sua necessaria libertà d’azione, perché evocare, tra i soggetti “antiscientifici” in qualche modo assimilabili agli oppositori degli ogm, anche i fattucchieri di Stamina? Allo stesso identico modo le frange più eccitabili del fronte anti-ogm possono immaginare che la ricerca genetica sulle piante sia nelle mani di squilibrati megalomani (alla dottor Frankenstein) o di avidi mercenari.
Le forzature polemiche fanno parte del gioco, ma non aiutano a mettere meglio a fuoco gli argomenti. La più autorevole istituzione mondiale in tema di agricoltura e alimentazione, la Fao (www.fao.org), mette a disposizione di competenti e incompetenti (come me) una sintesi esauriente e comprensibile delle potenziali ricadute positive e negative delle coltivazioni ogm, con una breve analisi della loro verificabilità.
Lo spazio di un articolo non permette di elencare tutti i punti (rimando i lettori al sito della Fao). Mi limito a dire che i “capi di accusa” sono divisi in tre gruppi: ricadute sull’ambiente agricolo e l’ecosistema; ricadute sulla salute umana; ricadute sull’assetto economico e sociale. Mi sembra interessante e molto rilevante che la Fao, sulla quasi totalità di questi punti critici, non esprima certezze. Non dice, cioè: questa critica è campata in aria oppure questa critica è corretta. Esprime dubbio. In larga parte dovuto alla tempistica medio-lunga che una verifica attendibile (scientifica!) richiederebbe.
Il principio di cautela — che non vuol dire condanna né assoluzione: vuol dire umiltà di giudizio — dovrebbe e potrebbe dunque essere uno dei punti di partenza di una corretta discussione comune, ammesso che mai ci si arrivi. Certo confligge, questo principio di cautela, con la comprensibile fretta con la quale i finanziatori della ricerca, in grande parte nutrita con fondi privati, vorrebbero mettere a profitto le loro scoperte e i loro prodotti. È esattamente per questo che Vandana Shiva mette in guardia contro la coincidenza di ruolo tra ricerca e commercializzazione. Sono campi di interesse entrambi utili e legittimi: ma la loro ibridazione — per dirla con una battuta transgenica — può generare mostri.
Una volta detto che la questione è molto complicata, coinvolge competenze scientifiche le più varie e non è archiviabile con un “sì” né con un “no”, colpisce assai che di questi “rischi” il più sottaciuto sia quello che, al contrario, è il più nevralgico e coinvolgente: la ricaduta socioeconomica. È anche questo, in fondo, un portato della crisi della politica: la rinuncia ormai quasi pregiudiziale a mettere in discussione, o anche solo a cogliere, le scelte strutturali, quelle che determinano gli assetti futuri.
Quasi inutilmente, in tutti questi anni, Carlo Petrini e il vasto movimento mondiale che si rifà a Slow Food e a Terra Madre hanno rivendicato la natura squisitamente politica del loro lavoro e della loro battaglia. Chi oggi rivendica la “sovranità alimentare” delle comunità produttive (e dei consumatori) compie la stessa operazione politico-culturale dei nostri avi socialisti quando dicevano “la terra a chi la lavora”. Si rivendica, né più né meno, l’autodeterminazione dei produttori, affidando ad essa la difesa delle biodiversità, della varietà delle colture, delle culture, delle identità locali.
Ovviamente è del tutto lecito sostenere che l’agroindustria, con la sua potentissima opera di selezione delle specie (tutte brevettate) e di inevitabile omologazione della produzione agricola mondiale, è perfettamente compatibile con la biodiversità e con le piccole coltivazioni; o addirittura che è giusto e utile rimpiazzare del tutto le produzioni tradizionali con la produzione agroindustriale. Ma non è lecito fare finta che non sia questo (il modo di produzione, la struttura stessa delle società future) il punto nodale. Non sono in ballo solo il potenziale allergenico di un pomodoro, o il chilo di pesticida per ettaro in più o in meno. L’ordine del giorno non è solo “gli ogm fanno bene, gli ogm fanno male”. È in discussione la vita stessa delle società rurali nel mondo (più della metà dei viventi), la ripartizione del potere, del reddito, delle conoscenze tra una rete infinita di piccole comunità e pochi, immensi e quasi sempre anonimi centri decisionali.
Sono in discussione gli 87 milioni di ettari di suolo africano acquistati dal 2007 a oggi dalle multinazionali americane e cinesi e da fondi di investimento opachi e onnipotenti: è una superficie grande quasi come Italia e Francia messe insieme, e a nessuno può sfuggire che coltivare pezzi così ingenti di pianeta a soia ogm per produrre biocarburante oppure incrementare le produzioni locali (più della metà dell’agricoltura africana è vocata all’autosostentamento) è una scelta tanto importante, tanto strutturale quanto lo è, nel bene e nel male, ogni grande rivoluzione tecnologico- scientifica, industriale, sociale.
E se l’Africa vi sembra lontana e comunque fuori portata, come può chi vive in Francia o in Italia non percepire che la straordinaria varietà delle colture, il legame strettissimo tra i luoghi e ciò che si coltiva, si mangia e si beve, insomma l’agricoltura plurale, “calda” e identitaria per la quale si battono i Petrini e si battevano i Veronelli, i Mario Soldati e i Gianni Brera, non è una frontiera del passato, è un caposaldo della nostra trama sociale, economica, culturale? Dunque è futuro allo stato puro? O dobbiamo dire “Italian style” solo parlando di borsette?
La libertà della ricerca scientifica è preziosa e va difesa: specie in campo medico, le biotecnologie possono dare frutti vitali, e Cattaneo e Veronesi fanno benissimo a tenere fermo il punto. Ma non è solo di questo che si parla, quando si parla di ogm. E i critici degli ogm possono ben dire di avere sbagliato qualcosa di sostanziale, in termini di comunicazione, se ancora oggi ci si scanna sul ravanello transgenico (faccio per dire) e non si capisce che non è di lui, è di quasi quattro miliardi di contadini che si sta parlando, del loro e del nostro futuro, e della loro libertà di scelta che è degna e importante quanto quella dei benemeriti ricercatori scientifici. Non è vero che “quando c’è la salute c’è tutto”. Conta la libertà. Conta la dignità. Conta che il potere sia in pochissime mani o nelle mani di molti.

«Dà un’impressione di ascoltare, se per ascoltare intendiamo non tanto sviscerare, ma il mero prendere in considerazione. Una dialettica hegeliana fatta di tesi, finta attenzione all’antitesi, sintesi».

Il Post, 2 ottobre 2014

Nelle ultime settimane Matteo Renzi è stato sempre al centro del dibattito pubblico: il viaggio in America, Marchionne, i Clinton, l’inglese strampalato, l’intervista da Fazio, il bailamme sull’articolo 18, lo sberleffo dei sindacati, la direzione PD, la polemica con la minoranza, le critiche da parte di Corriere eRepubblica, etc… Anche chi non fosse interessato alle questioni del Partito Democratico o agli affari del governo quando entrano nell’occhio di bue, non può evitare di incrociare un affondo di Renzi, una sua dichiarazione, un intervento – che sia all’Onu o allo stadio, un tweet o un’interpellanza. È una forma di ubiquità che vuole significare attenzione, presenza; un dinamismo in perenne accelerazione che è il segno di una condizione di permanente attualità. Stare sempre sul pezzo, questo è il diktat.

Davanti a questa pervasività comunicativa, il contenuto di quello che afferma Renzi perde di rilievo. Ci si può irritare per la sciatteria anti-istituzionale con cui liquida i sindacati, la superficialità con cui affronta il tema dell’articolo 18, o anche della cafonaggine dell’usare un inglese fantozziano rivendicandoselo. Ma si perde il senso del discorso di Renzi che è strutturalmente altro, e per questo spiazzante – sempre spiazzante – rispetto a quello che è il resto della comunicazione politica; se pensiamo a quella dei suoi compagni di partito ma anche da quella berlusconiana o grillina.

Ma cos’ha di diverso, di specifico, la retorica renziana?

Partiamo dai dati quantitativi. Guardatevi l’intervento di Bersani o di D’Alema(impresentabile, spocchioso, lamentoso il primo; sarcastico il secondo) alla direzione del Pd, e confrontatelo con l’ intervento iniziale di Renzi. Quale è la differenza sostanziale che non ci mette molto a saltare all’occhio? Perché Bersani sembra imballato, a ralenti, e Renzi un disco da 33 fatto girare a 45?
Si tratta della quantità di parole per unità di tempo: Renzi pronuncia il doppio se non il triplo delle parole di Bersani. Ascoltare Bersani per chi ha meno di quarant’anni dà la sensazione di prendere un ascensore che si ferma trenta secondi ogni piano. Renzi invece fa mai pause. È assolutamente metadiscorsivo, prefigura – attraverso parentesi, prolessi e analessi – il discorso che sta per fare; discorso che spesso non ha niente di sorprendente, ma viene talmente caricato di attesa e di enfasi che pare sempre di essere un punto di approdo definitivo, risolutorio, di un ragionamento. Non lascia mai spazio a una possibile riflessione su quello che sta dicendo. Si potrebbe dire che riempie, o meglio satura, lo spazio sonoro. Senza il martellamento di Berlusconi o di Grillo o dei loro cloni; ma con una fluidità che è soprattutto ritmica, fatta di un andamento dattilico.
L’unico che riesce a competere da un punto di vista della velocità (numero parole per minuto) è Giuseppe Civati – qui il suo intervento. Ma le differenze tra i due stili retorici sono evidenti (Civati è cartesiano, spesso icastico, impone una lucidità e un’analisi di secondo passo dove c’è una confusione comunicativa) e mettono in luce per contrasto un’altra caratteristica di quella che viene definita genericamente “parlantina” del premier: le sue accelerazioni. Qualunque discorso che Renzi fa non è solo veloce, ma è accelerato. Parte piano e si infervora. Alza i toni, si scalda.
Il video dell’ospitata a Che tempo che fa è esemplare: anche quando Fazio pone delle domande molto piane, Renzi comincia quieto, e in pochi secondi è già su di giri, poi non scala mai le marce al contrario. E che cos’è che va a pronunciare nel cuore dell’enfasi? Quando sembra arrivare al clou della sua argomentazione, che in realtà non è mai consequenziale, sintattica, ma sempre associativa, Renzi afferma con tono apodittico una qualche banalità. Una cosa del tipo: «C’è tanta voglia di Italia nel mondo», «Bisogna restituire la fiducia agli italiani», «la scuola è importante», cita un esempio sul quale non si può che essere d’accordo: «Io sono di quella donna che non ha la maternità», «io sto con quell’anziano che guadagna poche centinaia di euro di pensione sociale».
Il suo populismo è sempre identificativo. Sfrutta in modo sistematico questa ideologia del mondo contemporaneo: la cultura feticistica dell’immedesimazione. Come dichiara nell’intervista a Fazio, i problemi di chiunque sono i problemi di Renzi. Il senso della sua politica si basa su una forma di illusione molto efficace: prendersi cura degli altri vuol dire caricarsi addosso i loro problemi, afferma Renzi. E l’espressione con cui la dice vuole mostrare una reale identificazione empatica con qualunque cittadino tirato in ballo. Ma non è solo questo “effetto di vicinanza” che genera un senso di confidenza e di immedesimazione immediata, al di là delle ragioni. È un processo che non ha la perversa polimorficità di uno Zelig, ma quella fenomenologia dell’uomo comune che Umberto Eco attribuiva a Mike Buongiorno. Renzi non sale mai in cattedra, non è mai premier. Persino all’Onu, toppando clamorosamente la pronuncia dell’inglese e non vergognandosene, dichiara implicitamente: Sono come voi. Immaginatevi in una situazione ufficiale, ecco io mi carico le vostre ansie da prestazione e le risolvo così, rovesciando il canone, eliminando il vostro incubo emotivo maggiore: l’ansia da prestazione.
Ma non è solo un’attitudine all’indentificazione che rende convincente l’oratoria di un discorso che, se fosse letto, troveremo trito e ritrito, un cumulo di luoghi comuni (fateci caso a quanto poco Renzi scriva in una forma più lunga di un tweet o un post, e di come invece parli tantissimo; oppure leggete i suoi libri e saggiate la debolezza argomentativa e stilistica e la povertà dell’analisi e dell’invenzione).
Come fa dunque a essere funzionale un discorso così banale? Per il ricorso ad alcuni stilemi.
Primo, le voci. Renzi fa le voci. Mentre parla, imita letteralmente i toni dei suoi eventuali interlocutori: fa la voce di quello che si lamenta, di quello che è stufo di pagare le tasse, di quello che nel suo partito gli è avversario. Usa il fiorentino popolare, l’aulico, il trombonesco… Inscena un dialogo in cui tiene anche il ruolo dell’interlocutore: le sue battute da premier diventano autorevoli per semplice contrasto fonico con queste vocine.
Secondo, reagisce a tutti gli stimoli: mentre tiene il filo di un discorso semplice al limite del triviale abbiamo detto, Renzi crea incisi, anticipa l’interlocutore, fa una smorfia che indica altro rispetto a quello di cui sta parlando, risponde con una chiosa secca a uno stimolo che viene dal pubblico. Si autocommenta, vedi l’uso del tweet. Soprattutto non è mai monodirezionale, ma è sempre multitasking, tiene sempre almeno due o tre livelli del discorso aperti. Ascolta, o meglio simula un’attenzione a ogni aspetto della reazione alle sue parole: non è attento al contenuto (sarebbe impossibile per chiunque riuscire a rispondere a tutto), ma è alla forma sì: crea l’illusione di consapevolezza di ogni reazione, di ogni tipo di stimolo esterno. Dà un’impressione di ascoltare, se per ascoltare intendiamo non tanto sviscerare, ma il mero prendere in considerazione. Una dialettica hegeliana fatta di tesi, finta attenzione all’antitesi, sintesi.
Terzo, quelle che Makkox chiama le “avversative reggae”. Ossia un modo di simulare un’opposizione tra il vecchio rappresentato dal mondo degli avversari politici e il nuovo incarnato dal suo stile, e basato su un semplice spostamento linguistico. Il suo discorso è stracolmo di queste dicotomie, di questi rovesciamenti, di non solo ma anche, che non sono mai dei vel vel veltroniani, ma sempre degli aut aut – rappresentazioni di polarità. E il nemico è ogni volta «la mentalità stantia», qualunque cosa voglia dire quest’espressione.
Quarto, le metafore, e la spiegazione delle metafore. Nell’intervista con Fazio, Renzi ne ha preparate un bel po’. Una in particolare è telefonata, sta più o meno a metà dell’intervista. È quella dell’Italia come una macchina che abbiamo lasciato con le luci accese. Sono arrivati i tecnici con i cavi e hanno provato a rianimarla, non ci sono riusciti, ora si tratta di spingere. Appena dopo averla esposta, Renzi la spiega; ma non basta: racconta anche come gli è venuta in mente, a lui e al suo capo-comunicazione Filippo Sensi. E uno potrebbe domandarsi: perché quest’eccesso di spiegazione, di confessione del dietro le quinte? Raccontare una barzelletta e spiegarla. Questo didascalismo ha funzione: produrre un effetto di sincerità. Renzi deve apparire sempre sincero e ci riesce: fa riferimento a suoi aneddoti personali, e racconta il retropalco della politica come se fosse lui stesso un infiltrato. In questo modo esibisce una possibile confidenza con quelli che sono i suoi lettori prima e i suoi elettori dopo.
Questo tipo di elementi e altri (tutta la gestualità, per dire: esempio, le mani con il pollice e indice ravvicinati, o anche le mani ravvicinate a pugno, che esprimono un feticcio di concretezza) compongono un codice che ha un effetto performativo ben preciso. Innanzitutto, evitare il merito della questione. È interessante, riguardandosi il video di 48 minuti di Che tempo che fa, osservare come Fazio – non certo un intervistatore aggressivo – chieda ben cinque volte a Renzi la ragione effettiva della proposta di cancellazione dell’articolo 18. Renzi per cinque volte parla d’altro, e anche di fronte a Fazio che gli ripete: «Questo è chiaro, ma…», non si scompone e ricomincia: metafore, avversative, accelerazioni, indice e pollice ravvicinati, vocine.
Inoltre, il discorso di Renzi è sempre rivolto a un pubblico, a una platea, non è mai solo per l’interlocutore; glielo fa notare anche D’Alema, che si trova spiazzato rispetto a un codice di riunione di partito che non è il suo. Il luogo espressivo di Renzi è in un certo senso sempre un comizio – in questo è figlio del suo tempo: le discussioni sui social network quando mai sono private o dirette solo ad personam. Per esempio: guardate la sua intervista e confrontatela con il suo intervento alla direzione Pd. Notate delle differenze sostanziali? Pensate a una qualunque situazione informale in cui Renzi risponde alle domande dei giornalisti chessò sulla Fiorentina, e fate il paragone con il suo discorso all’Onu, in quella strana lingua che è il suo globish? Vi sembra agire in contesti differenti?
Che ragione ha tutto questo? Che il fine della retorica renziana non è la convinzione, l’aver ragione, ma sempre e comunque il consenso. Il suo stile è pervicacemente elettorale. Il consenso muove verso una fiducia, 40 e passa per cento, ma anche oltre. La persuasione ragionevole cerca la stima e la convinzione, molto più fragile e molto più ristretta, un compromesso, una convergenza, un’omologia per dirla in senso socratico, tanto più solida quanto più la discussione s’infittisce. Renzi è perennemente macrologico, mai micrologico invece. Non è per il botta e risposta: assumere le idee degli avversari vuol dire sempre annullarle.
In questo senso si capisce allora l’attacco delle settimane scorse tutto strumentale ai sindacati. Un presidente del consiglio di sinistra che attacca in modo violento e indiscriminato i sindacati, per quale motivo lo fa? Per una ragione non complicata: a chi non stanno un po’ sul cazzo i sindacati? Se da sindaco rottamatore del Pd attaccava il Pd, ora che è premier e segretario attacca sindacato e poteri forti. Non nelle forme reali: ma in quanto fantasmi. Quanti si indigneranno? Cosa voglia davvero, cosa intenda suggerire con questi attacchi rimane oscuro. Sicuramente produce consenso. Il risentimento viene tesaurizzato meglio di quanto ormai riesca a Grillo.
Per tutta questa serie di ragioni, risultano spuntate le recenti critiche piccate che gli muove nel suo ciclico editoriale-omelia Scalfari ogni domenica mattina su Repubblica a cui si è aggiunta la chiosa diaconale di De Bortoli qualche giorno fa sul Corriere. Renzi non è semplicemente una macchinetta da slogan, ma ha un ruolo socialmente trasformativo. Creare un partito di massa che si identifica e si compatta non più in un particolare tipo di bisogni materiali o di ideali, ma in una condizione emotiva. La nuova coscienza di classe è quella di un popolo di ansiosi. E in questo senso la crisi della rappresentanza ha una scaturigine interiore: la società post-comunitaria degli individui monadi è composta da persone che desiderano essere ascoltate, viste, riconosciute. La caratteristica precipua dei nuovi adulti è l’ipersensibilità, la fragilità della psiche, una perenne ansia da prestazione. Hanno bisogno di sollievo, hanno bisogno di qualcuno che s’identifichi con loro. O che soprattutto sappia fingere molto molto bene.

«Il discorso assertivo afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. E’ un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto».

Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2014

Si parla con…, si parla a… Vuol dire che parlare è innanzi tutto comunicare. Ma se la comunicazione non arriva perché chi ascolta non capisce la lingua di chi parla? E viceversa? Be’, smetteranno di parlarsi. E se non possono smettere perché hanno interessi, bisogni, pretese in comune? La situazione che si determina in questi casi è stata descritta per la prima volta nella Bibbia e prende il nome dalla città in cui avvenne: Babilonia. E le conseguenze furono talmente tragiche che tutti, contemporanei e discendenti, furono d’accordo che, dopo il Diluvio, la confusione delle lingue era la punizione più severa che Dio potesse infliggere all’umanità. Non credo che Dio c’entrasse, ma per quanto riguarda la gravità delle conseguenze, non ho dubbi.

Per questo mi preoccupa – e non da oggi – il fatto che il discorso pubblico in Italia si stia svolgendo su due registri diversi, lontani l’uno dall’altro fino al punto di far pensare a due lingue diverse, mentre sono entrambi in italiano.

Nella comunicazione politica italiana si fronteggiano interlocutori che utilizzano il discorso argomentativo e interlocutori che utilizzano il discorso assertivo. E anche i loro ascoltatori (gli italiani) sembra che si dividano tra chi capisce e ama il primo tipo di discorso e chi capisce e ama il secondo. Per discorso argomentativo intendo quel tipo di discorso che, rispettando i principi logici di causa ed effetto e di identità e non contraddizione, si svolge secondo il filo del ragionamento, esplicitando le premesse da cui parte, chiarendo i perché della scelta delle premesse e dei fatti che ne conseguono e concludendo con previsioni di risultati anch’esse razionalmente argomentate. E’ un discorso che non confonde la parte con il tutto, il singolare con il plurale; è un discorso basato su una corretta coniugazione dei verbi, sicché non confonde il presente con il desiderabile futuro; è un discorso che tiene conto del fatto che, quando si vuol cambiare qualcosa, bisogna intervenire anche sulle cause che hanno prodotto quella cosa.

Il discorso assertivo è tutt’altra cosa: afferma, dichiara, definisce, prevede e prescrive, senza preoccuparsi di spiegare a chi ascolta né il perché, né il come, né il quando, né con quali mezzi e risorse. E’ un tipo di discorso che fa coincidere nome e cosa, affermazione e fatto.

Spesso i politici di professione usano il linguaggio assertivo: è semplice da capire, diretto, immaginoso, tocca le corde profonde degli ascoltatori e consente con facilità di camuffare contraddizioni, di evitare rendicontazioni, in una parola di eludere i conti con la realtà. Mussolini era un maestro del linguaggio assertivo, che piaceva molto a molti italiani; fino alla tragica e grottesca conclusione, quel «Li fermeremo sul bagnasciuga» con cui annunciò agli italiani cosa intendeva fare quando gli Alleati fossero sbarcati in Sicilia.

Ma, ripeto, non c’è politico che non faccia ricorso ogni tanto al linguaggio assertivo, agli slogan: “Bandiera rossa trionferà” di contro a “ “I comunisti distruggono la famiglia”. Però ci sono state stagioni della vita politica italiana in cui il discorso assertivo fu utilizzato prevalentemente nei comizi, nei manifesti elettorali, magari nelle feste dell’Unità o nelle adunanze dell’Azione cattolica. Non nelle interviste, nelle conferenze stampa, nelle tribune politiche in tv. E nemmeno per illustrare proposte di legge da discutersi in Parlamento.

Le cose sono cambiate dalla discesa in campo di Berlusconi, altro maestro del linguaggio assertivo. Il milione di posti di lavoro, l’abolizione delle tasse, le grandi opere e il Ponte sullo stretto, la ricostruzione più rapida al mondo della città terremotata, i ristoranti pieni e i voli aerei tutti prenotati, per non ricordare che le asserzioni più celebri. Abilissimo utilizzatore della tv, Berlusconi asseriva anche con le immagini: ricordate l’edificante album di famiglia con cui si presentò in pubblico il patron delle cene eleganti?

Renzi si inserisce bene nella tradizione assertiva. Ha cominciato con l’affermazione dell’esigenza di rottamare (Chi? Perché?) onde realizzare il cambiamento (Quale? Come?) e prosegue con immaginose affermazioni, che raramente rispettano il principio di non contraddizione o chiariscono i rapporti di causa ed effetto.

Come già Berlusconi, anche Renzi ha successo. Il discorso argomentativo annoia, il discorso assertivo eccita, galvanizza. E’ un fatto, il discorso argomentativo è compreso e usato da un numero di persone in costante diminuzione; quello assertivo è sempre più apprezzato e praticato, anche nella sua forma che consiste nel dare sulla voce all’interlocutore (vedi i talk-shows). Questo sì che è un cambiamento, già in atto. E, che piaccia o no, va spiegato e capito. Cosa che tenterò di fare nel prossimo testo.

Chi comanda l'Italia oggi non è né re né principe, né duca né marchese, e neppure barone: è solo un baro. Ecco perchè Il manifesto, 1 ottobre 2014

Mer­co­ledì 24 set­tem­bre il diret­tore del «gior­nale della bor­ghe­sia ita­liana» ha voluto infor­marci che Renzi quella bor­ghe­sia non la rap­pre­senta. La noti­zia, al di là di quello che non espli­cita e potrebbe pre­an­nun­ciare (vedi Vin­cenzo Comito sul mani­fe­sto del 26 set­tem­bre) sol­leva comun­que una que­stione di sicura rile­vanza. Quella di chi, di cosa rap­pre­senti Renzi. Mi rife­ri­sco, prima ancora che a quella par­la­men­tare, a quella rap­pre­sen­tanza che si acqui­si­sce mediante l’attività di governo e risul­tante come con­senso all’indirizzo e al pro­dotto dell’azione governativa.
La rispo­sta non può essere certo data da Renzi mae­stro indi­scu­ti­bile di comu­ni­ca­zione e mani­po­la­zione poli­tica. Può risul­tare solo da un’analisi obiet­tiva dell’orientamento espresso nei suoi con­fronti delle forze orga­niz­zate ed isti­tu­zio­na­liz­zate. Abbiamo saputo che la bor­ghe­sia ita­liana della finanza e dell’industria non sente che i suoi inte­ressi siano rap­pre­sen­tati nell’azione del governo.
All’edi­to­riale di Fer­ruc­cio de Bor­toli si sono aggiunti i giu­dizi espressi da auto­re­voli espo­nenti dell’imprenditoria ita­liana (De Bene­detti, Della Valle). La Con­fin­du­stria, da parte sua, non sem­bra par­ti­co­lar­mente entu­sia­sta di que­sto governo pur se arruo­la­tasi come por­ta­ban­diera degli abro­ga­tori dell’articolo 18.
Noti­zie di tal tipo dovreb­bero allie­tarci se, per con­verso, ad essere rap­pre­sen­tati nell’azione di governo fos­sero gli inte­ressi dei lavo­ra­tori. Il che pro­prio non è. A dimo­strarlo è l’opposizione dei sin­da­cati, ini­ziata in con­tem­po­ra­nea alla costi­tu­zione del governo Renzi e pro­vo­cata dallo stesso Renzi con le dichia­ra­zioni sprez­zanti e pro­gram­ma­ti­ca­mente anti­sin­da­cali che pro­nun­ziò. Oppo­si­zione dive­nuta via via più acuta e oggi duris­sima con la mobi­li­ta­zione della Cgil e della Fiom, e non solo, a difesa almeno di quel che resta dell’articolo 18 della Legge 300 del 1970, mobi­li­ta­zione che potrebbe con­durre a uno scio­pero generale. Alla cri­tica al governo si è aggiunta anche la Cei che chiede a Renzi di «ridi­se­gnare l’agenda poli­tica» e di non ridursi agli slogan.
Non è poco. Per­ché non è da niente la sot­to­po­si­zione, l’asservimento, il ricatto con­ti­nuato cui una lavo­ra­trice o un lavo­ra­tore sarebbe assog­get­tato dalla deci­sione di Renzi di abro­gare l’art. 18 dello Sta­tuto dei lavoratori. Su quale rap­pre­sen­tanza dun­que può pog­giare Renzi ? Se non gli inte­ressi di quanti dimo­strano di aver­gliela revo­cata, Renzi riven­di­che­rebbe quella del 40,81 per cento dei cit­ta­dini ita­liani. Una rap­pre­sen­tanza che invece non ha. Non ha per almeno tre ragioni.
Per­ché que­sta rap­pre­sen­tanza del 41 per cento è quella otte­nuta per l’elezione del par­la­mento euro­peo in sede, in forma e ai fini che nulla hanno a che fare con l’indirizzo poli­tico di governo, con la mag­gio­ranza par­la­men­tare, con la legi­sla­zione ita­liana e con i diritti dei cit­ta­dini della Repub­blica. Una mag­gio­ranza che non lo legit­tima affatto in sede nazio­nale. L’irrilevanza di quel voto per il governo la aveva affer­mata più volte lui stesso prima dei risul­tati elettorali.
Una mag­gio­ranza che tanto meno potrebbe riven­di­care nel caso spe­ci­fico della modi­fica dell’articolo 18. È del tutto evi­dente che a com­porre quel 41 per cento dei votanti per il Par­la­mento euro­peo abbia con­tri­buito, in misura deter­mi­nante e mag­gio­ri­ta­ria, il 25 per cento degli elet­tori che vota­rono per il Pd nelle ele­zioni poli­ti­che del 2013. Sot­traendo al 41 per cento il 25 dei voti che ottenne il Pd nel 2013, la quota rap­pre­sen­ta­tiva di Renzi si riduce al 16 per cento. Se ne deve dedurre che Renzi dispone per­ciò solo di que­sta quota di con­senso elet­to­rale. È quindi del tutto evi­dente che, con la divi­sione deter­mi­na­tasi nel Pd sulla que­stione dell’articolo 18, a rap­pre­sen­tare gli elet­tori del Pd sia la mino­ranza, non la mag­gio­ranza attuale della Dire­zione di quel par­tito. Quella mino­ranza che, tra l’altro, ottenne pro­prio quei voti che con­sen­tono a Renzi di governare.
C’è una terza ragione, prio­ri­ta­ria, fon­da­men­tale che non andrebbe mai dimen­ti­cata, elusa, disco­no­sciuta. La com­po­si­zione delle due camere del Par­la­mento ita­liano è ille­git­tima. Lo ha rico­no­sciuto e san­cito la Corte costi­tu­zio­nale come tutti sanno. In un paese civile una sen­tenza del genere avrebbe com­por­tato almeno lo scio­gli­mento delle due Camere. In Ita­lia dovrebbe impe­dire o almeno con­di­zio­nare pre­si­dente del con­si­glio, governo, parlamento.
Ma l’Italia è il Paese in cui con 1.895.332 voti su 2.814. 881 alle pri­ma­rie di un par­tito, voti quanto mai occa­sio­nali e media-dipendenti, si ottiene la lea­der­ship di tale par­tito che, con 8.646.343 voti su 35.270.096 votanti, quindi col 25,42 per cento dei con­sensi alle ele­zioni poli­ti­che, con­qui­sta la mag­gio­ranza dei seggi (asso­luta alla Camera, rela­tiva al Senato).

Un sistema quindi delle fal­si­fi­ca­zioni pro­gres­sive. E che, pur dopo la decla­ra­to­ria della inco­sti­tu­zio­na­lità del mec­ca­ni­smo che costi­tui­sce la rap­pre­sen­tanza e la mag­gio­ranza che ne deriva, per­mette che, acqui­sita la lea­der­ship di par­tito, si possa disporre del potere di far strame della Costi­tu­zione, dei prin­cipi della demo­cra­zia, dei diritti dei cittadini.

Anche l'abolizione delle province (anzi, la loro "sdemocratizzazione") si rivela uno strumento utile per l'affermazione del Partito Unico. Rimane un solo dubbio: come si chiamerà quel partito quando da oligopolio collusivo si trasformerà in monopolio?

La Repubblica, 2 ottobre 2014

Che l’episodio più clamoroso si sia consumato proprio in provincia di Taranto, una città messa in ginocchio dai compromessi della politica, è forse emblematico, forse casuale. Ma dice molto su una riforma che doveva condurre all’abolizione delle province in Italia, e che in alcuni casi ha invece portato a listoni pigliatutto all’insegna delle larghe intese.

Il 28 e il 29 settembre si è votato per 4 consigli metropolitani (Genova, Firenze, Bologna e Milano) e 6 province (Taranto, Vibo Valentia, Bergamo, Lodi, Sondrio, Ferrara). Tra il 5 e il 12 ottobre si voterà invece per le città metropolitane di Roma, Napoli, Torino e per altre 58 province. Sono elezioni di secondo livello: a votare ed essere votati sono sindaci e consiglieri comunali. Non ci sono indennità aggiuntive, le poltrone vinte non comportano un doppio stipendio, ma la possibilità di riorganizzare e gestire il territorio dopo il terremoto della legge Delrio. Bisognerà scrivere gli statuti delle neonate città metropolitane, spartire le competenze dei carrozzoni provinciali in via di smantellamento, tenendo conto che ci sono competenze importanti - scuola, strade, inceneritori, problemi ambientali - di cui i comuni dovranno ora, insieme, farsi carico nelle cosiddette “aree vaste”.

Per fare tutto questo, a Taranto, Vibo Valentia, Ferrara, Genova, Torino, i partiti si sono lasciati andare ad intese che da larghe sono diventate larghissime. In realtà - ufficialmente - nella città dell’Ilva il listone non c’è stato. Centrosinistra e centrodestra erano concorrenti, perché l’accordo cui stavano lavorando il deputato democratico pugliese Michele Pelillo e il consigliere regionale Michele Mazzarano (già indagato per aver avuto a che fare con Giampaolo Tarantini) a sostegno del sindaco forzista di Massafra Martino Tamburrano, era saltato in un tormentato congresso straordinario del Pd locale in cui il segretario regionale Michele Emiliano aveva giurato che mai avrebbe appoggiato alcun inciucio. I democratici avevano quindi candidato il sindaco di Laterza Gianfranco Lopane, tradito però nel segreto dell’urna. A vincere alla fine è stato infatti Tamburrano, nonostante sulla carta la maggioranza fosse tutta a sinistra. Perché gran parte del Pd lo ha votato. E perché quella che è in corso è una battaglia durissima, con lo sfidante di Emiliano alle primarie regionali Guglielmo Minervini che accusa il suo avversario di aver fatto «un inciucio di dimensioni massicce e organizzate». Ovvero, di tramare sottobanco per avere più consensi possibili in vista delle regionali.

È andata molto più tranquillamente a Ferrara per quello che è stato definito «il patto dei cappellacci ». A vincere è stata infatti la lista che aveva come candidato presidente il sindaco della città estense Tiziano Tagliani, e che teneva dentro Pd, Forza Italia, Lega e perfino 5 stelle con il sindaco di Comacchio Marco Fabbri. Quest’ultimo non avrebbe dovuto correre (Grillo lo aveva vietato impedendo una lista unitaria anche al sindaco di Parma Pizzarotti), ma non ha obbedito, ed è perfino risultato il secondo degli eletti (i consiglieri 5 stelle che avevano annunciato l’astensione devono aver cambiato idea all’ultimo momento). Per ora non risponde a chi gli chiede se non abbia paura di essere cacciato dal Movimento, si limita sommessamente a far notare che era una regola un po’ strana, quella che impediva di correre in provincia e lo rendeva possibile invece nelle città metropolitane (ci sono un eletto 5 stelle a Bologna e uno a Firenze).

Altrettanto serena la grande intesa di Genova, dove - addirittura - il sindaco Marco Doria (destinato a guidare la città metropolitana) ha fatto correre la sua lista insieme a Forza Italia, Pd e Nuovo centrodestra, dimostrando che anche Sel, in alcuni casi, è pronta a fare strappi alla regola. Mentre è corso più veleno a sud, nella provincia di Vibo Valentia, dove si sono spaccati un po’ tutti con richieste incrociate di dimissioni e accuse reciproche di candidature poco pulite. A vincere è stata la lista “Insieme per la Provincia di Vibo Valentia Adesso” (detta “l’accorduni”), che vedeva i renziani del Pd con esponenti del Nuovo Centrodestra, Forza Italia e Fratelli d’Italia.

Il prossimo 12 ottobre toccherà a Torino, dove il Pd ha fatto un accordo con Forza Italia, Nuovo Centrodestra e Moderati. L’hanno chiamato «patto costituente » in vista della nascita della città metropolitana, lo hanno fatto - spiegano i democratici - per poter rappresentare meglio il territorio, visto che col meccanismo del voto ponderato il capoluogo rischiava di schiacciare realtà come Ivrea o la Valsusa. Il capogruppo di Sel in comune Michele Curto però la racconta diversamente: «I motivi sono solo due. Piero Fassino vuole scegliersi i suoi 18 consiglieri, e l’attrazione delle larghe intese è stata irresistibile».

La Repubblica, 29 settembre 2014

Matteo Renzi ha dichiarato guerra ai “poteri forti”. Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva in cosa consistessero i poteri forti, e cosa intendesse fare, il nostro premier ha preferito glissare. Non sappiamo perciò cosa abbia in mente, oltre forse il sindacato e la battaglia sull’articolo 18. Vorremmo allora suggerirgli due poteri davvero forti che può fortemente ridimensionare senza bisogno di alcun passaggio parlamentare. Gli basterà utilizzare la forza datagli dal voto delle primarie e dal voto europeo.

Il primo è rappresentato dalla lobby delle concessioni autostradali. Oggi costituiscono una barriera importante alla mobilità del lavoro: milioni di italiani pagano i pedaggi autostradali ogni giorno per recarsi dove lavorano. E i pedaggi continuano ad aumentare (4 per cento quest’anno e l’anno scorso a fronte di un’inflazione vicina allo zero), nonostante il traffico sia in forte riduzione, un caso tipico di abuso del potere di monopolio che viene loro concesso dallo Stato. Aumentano i profitti delle concessionarie, che registrano redditi lordi (prima di imposte e interessi) del 60%, mentre calano gli investimenti nella rete, che intervengono comunque sempre in ritardo rispetto ai piani concordati. Come spiega molto bene Giorgio Ragazzi su lavoce. info, nonostante tutto questo le concessionarie continuano ad ottenere proroghe e l’art. 5 dello sblocca-Italia estenderà le concessioni del gruppo Gavio addirittura fino al 2038. Insomma, mentre si decide giustamente di abolire i senatori a vita, si istituiscono le concessionarie autostradali a vita.
Una seconda potente lobby che blocca il nostro Paese è rappresentata dalle fondazioni bancarie, vero e proprio cavallo di Troia della politica nel nostro sistema bancario e finanziario. Continuano a tenere sotto controllo le banche con quote importanti e nominando i consiglieri d’amministrazione: il 50% delle fondazioni ha quote superiori al 5% nelle banche conferitarie, il 31% detiene più di un quinto delle quote, il 15% addirittura più del 50%. Le due banche più grandi — San Paolo e Unicredit — sono dominate dalle fondazioni. Ridurre l’ingerenza della politica nelle banche, impedire che si passi dalla politica alle banche per tornare alla politica come se si stesse salendo su un tram (il caso di Sergio Chiamparino) o che un legislatore di fondazioni entri con disinvoltura in un consiglio (è il caso di Roberto Pinza) è fondamentale per almeno tre motivi. Primo, perché una buona struttura proprietaria rende più efficiente il sistema finanziario facendo sì che i soldi vadano a chi li merita maggiormente perché ha idee migliori anziché a chi è più connesso con i politici. Di riflesso, il sistema bancario è più stabile rendendo il Paese meno vulnerabile alle crisi. È la ragione che ha portato l’Fmi e la Banca d’Italia nell’ultima relazione a riproporre questo tema. Secondo, perché staccandole dalle banche si salvano le fondazioni da morte certa e si proteggono quelle funzioni di utilità sociale che questi enti dovrebbero perseguire (hanno in media calato le loro erogazioni del 30% negli ultimi 3 anni). Terzo, perché si riconducono i partiti alle loro funzioni primarie. Se vogliono occuparsi di credito, lo facciano in Parlamento.
Sia nel primo caso, che nel secondo non c’è bisogno di alcuna legge. Per le autostrade basta semplicemente mettere a gara le concessioni, rimettendo mano allo sblocca-Italia. Anche per le fondazioni nessuna legge è richiesta: la legge c’è già e prevede la separazione tra fondazioni e banche. Viene sistematicamente disattesa come documentano, tra gli altri, i casi macroscopici di Siena, Genova, Ferrara, Teramo, Pesaro, Macerata, Saluzzo e Bra. Manca un atto di volontà di chi oggi gestisce le fondazioni di fare quello che, oltre alla legge, suggerisce anche il buon senso: vendere le partecipazioni nelle banche e investire nel settore del credito tanto quanto investono nell’alimentare.
Basterebbe che Renzi, come segretario del Pd, impegnasse il suo partito a far uscire le fondazioni dalle banche liquidando le partecipazioni nelle banche conferitarie, chiedendo ai membri del suo partito che occupano posizioni di rilievo nelle fondazioni di procedere in tal senso. Gli esempi non mancano: il presidente della Fondazione Banco di Sardegna è un ex senatore del Pd e la fondazione controlla il 49% del Banco di Sardegna; le fondazioni, secondo la ricostruzione del Fondo monetario internazionale, esprimono oltre i due terzi dei boards di Unicredit e Intesa San Paolo; il caso della Fondazione Monte Paschi è sotto gli occhi di tutti.
Il premier Renzi ha giustificato il capitale politico da lui investito nella riforma del senato, paragonando questa riforma al pin che serve per poter fare le telefonate da un cellulare: fatta quella riforma, ha sostenuto il nostro presidente del Consiglio, si potrà iniziare a riformare pezzo per pezzo il Paese dove è necessario. Varare le leggi però è laborioso, soprattutto quando, usando la sua stessa metafora, non si possiede ancora il pin. I due interventi che suggeriamo su autostrade e fondazioni sono molto importanti, molto utili e “scrostanti” e possono essere attuati fin da subito senza approvare leggi, senza decreti e senza bisogno di formare altre maggioranze, ma usando il potere che gli è proprio e quel consenso enorme che ha ottenuto alle primarie del suo partito e poi alle elezioni Europee. Servirà per favorire la mobilità e la miglior allocazione delle persone e dei capitali, due cose di cui il Paese ha immenso bisogno per uscire dalla stagnazione.

L'intervento con il quale l'europarlamentare del gruppo della sinistra europea replica all'intervento del sottosegretario Gozi esprimendo il proprio dissenso in particolare per la fine di Mare Nostrum. Bruxelles,

Listatsipras.eu, 24 settembre 2014

Ringrazio il sottosegretario Gozi per il suo intervento, e mi limito a riassumere in tre punti il mio dissenso.

Primo punto: l’immigrazione, che con l’estendersi delle guerre attorno a noi assumerà aspetti sempre più drammatici. Lei ha parlato di “phasing out” dell’operazione Mare Nostrum, che a parere dei maggiori esperti nell’Unione europea ha salvato un gran numero di profughi a rischio naufragio. Consiglierei di non usare parole inglesi ma italiane, e di dire a chiare lettere che di altro si tratta. Si tratta della “fine” di Mare Nostrum, dal momento che nessun’operazione è prevista che sia veramente sostitutiva, e che si occupi dell’essenziale: cioè di cercare e salvare i migranti in fuga (search and rescue). Frontex Plus ha un’altra missione – ormai è chiaro a tutti – e nemmeno sappiamo se potrà disporre di risorse adeguate e quali saranno gli Stati che contribuiranno.

​​ Secondo punto: a proposito della Conferenza sull’occupazione dell’8 ottobre, confermata dal sottosegretario, vorrei citare le sue stesse parole. La conferenza non si occuperà tanto della disoccupazione dei giovani, quanto dell’”ambiente economico e sociale, in modo tale da garantire le riforme strutturali”. Siccome sappiamo quel che significano ai tempi d’oggi le riforme strutturali – riduzione della spesa e degli investimenti pubblici, restrizione dei diritti nella gestione del mercato del lavoro – ne deduco che la Conferenza di ottobre si occuperà in linea prioritaria del piano sul lavoro del governo Renzi più che di vera crescita e veri investimenti, in continuità sostanziale con la politica del rigore e dell’austerità chiesta dalle attuali autorità europee.

Terzo punto: il sottosegretario Gozi ha sostenuto che “si ritrova pienamente” nella scelta della nuova Commissione di Jean-Claude Juncker. Al tempo stesso, ha ricordato che la “difesa della legalità” è, per la presidenza italiana, un tema “centrale”. Le due affermazioni sono quantomeno contraddittorie. Se davvero il governo Renzi “si ritrova” nella Commissione appena designata, non vedo come possa accettare un esecutivo che annovera due membri con forti conflitti di interesse, come Arias Cañete e Jonathan Hill, un commissario come Alenka Bratušek, autocandidatasi utilizzando il suo ruolo di ex Premier in Slovenia, e – non per ultimo – il commissario Tibor Navracsics, noto in Ungheria per essere l’uomo di fiducia di Viktor Orbán, il premier che nel luglio scorso ha attaccato, senza mai smentirsi, i principi della democrazia liberale su cui l’Unione europea è fondata.

x

Sono bastati una riunione dell’Ecofin e l’ammonimento di Draghi per far abbassare la cresta a Francia e Italia, e ridurre a zero le ambizioni della campagna elettorale di Hollande e della non campagna di Renzi. Altro che investimenti produttivi per i quali i due leader si impegnavano a tenerli fuori dai vincoli di bilancio europeo: ambedue si sono orientati a premere esclusivamente sulla riduzione non solo del costo del lavoro ma dei salari (magari come ulteriore riduzione degli occupati). Hollande non ha bisogno di leggi ad hoc, annuncia che rifarà il massiccio codice del lavoro e viene da settimane di fuoco: prima ha licenziato in tre ore il ministro della crescita produttiva Arnauld Montebourg, seguito da Hamon e Filippetti, messi fuori dal governo in quattro e quattr’otto; poi ha dovuto incassare trenta voti contrari della sua maggioranza in Parlamento, mantenendo la propria per un solo seggio. Ma questo non lo ha fatto deviare dalla strada intrapresa: il presidente ha preso la parola per una conferenza stampa nella quale ha assicurato che non avrebbe cambiato di una virgola la sua rotta disastrosa. Fra non molto, ci saranno le elezioni regionali e prestissimo quelle del Senato; di questo passo sarà un’altra tempesta che si addensa sui socialisti ma sia Hollande sia Valls tengono fermo, forse sperando, come confermano alcuni personaggi a loro vicini, in una benevola “curva di Kondriatev”, l’”onda lunga” del ciclo economico che assicurerebbe una ripresa naturale della crescita entro la fine del mandato.

In Italia, Renzi ha parzialmente scoperto le carte dell’ormai famoso Jobs Act. E ha affrontato a muso duro lo scandalo di un’ennesima messa fuori campo dell’articolo 18, quello che impediva il licenziamento “discriminatorio”. L’intera stampa italiana si è schierata con lui, eccezion fatta del manifesto, argomentando soprattutto che il famoso articolo avrebbe soltanto un valore simbolico, in quanto viene raramente usato – è noto che la maggior parte dei licenziamenti si fa per vere o presunte ragioni economiche, che non riguardano crisi di bilancio delle aziende ma un mutamento delle strategie, soprattutto in direzione delle delocalizzazioni. Mentre viene sottovalutato quel che a me pare il maggior scandalo, e cioè il dispositivo per cui nei primi tre anni di impiego “a tempo indeterminato” qualsiasi lavoratore sarebbe soggetto al licenziamento. Perché tre anni? Qualsiasi operaio vi dirà che per imparare a menadito la mansione che gli è richiesta basta al massimo una settimana; dunque anche a metterne due l’azienda è in grado di rendersi rapidamente conto se egli è in grado o no di inserirsi nel piano produttivo. Perché consentire al padrone ben tre anni di “flessibilità” gratis? Nessuno lo spiega. È un sistema per prolungare il precariato – non so come potrebbe essere definito differentemente – rendendo tutti precari fin dall’inizio del cosiddetto “impiego a tutele crescenti”: tre anni a tutele zero.

Salvo Luciano Gallino e Pierre Carniti, tutta la stampa ha dato rilievo positivo alla scelta di Renzi, accompagnata, come sua abitudine, da insolenze verso il sindacato. La stampa presunta di centrosinistra, come Repubblica, si è distinta nella crociata contro il conservatorismo di chi vorrebbe conservare qualche diritto al lavoro: fra questi una parte del Pd considerata vecchia e conservatrice. Non solo i giovani Fassina e Civati, ma il vecchio Bersani. Vedremo per quanto tempo la minoranza dell’area ex comunista resisterà all’attacco, ma è certo che se molla sarà scomparsa anche l’ombra dell’abominato Pci e resterà da constatare che cosa ne assumerà il cambio senza confondersi col centrismo vero e proprio, peraltro rappresentato in primo luogo dal giovane premier. È in corso la trasformazione finale della scena politica italiana. Quella francese non ne ha neanche più bisogno, se si considera che al posto dell’irruente ministro Montebourg è stato nominato un dirigente della banca Rotschild. In più, in Italia, naturalmente, resta – avvinto a Renzi – l’evergreen Berlusconi. Per chi pensava di aver diritto diritto a un lavoro, pieta l’è morta.

«». Il manifesto

Le ana­lisi di Joseph Sti­glitz, pre­sen­tate nelle pagine pre­ce­denti, che inte­ra­mente con­di­vido, sono un ottimo punto di par­tenza per capire che cosa occorre fare oggi in Ita­lia e in Europa. La prima cosa da sot­to­li­neare è che le poli­ti­che di auste­rità sono auto­le­sio­ni­ste e essen­zial­mente dan­nose. Esse pro­du­cono un’inevitabile caduta del Pro­dotto interno lordo (Pil) e dell’occupazione, ed hanno come risul­tato un aumento del rap­porto fra debito e Pil, cioè pro­prio quella fra­zione che si intende ridurre! Ciò per effetto delle dimen­sioni del «mol­ti­pli­ca­tore» : un taglio della spesa pub­blica di un euro riduce il pro­dotto nazio­nale molto più di un euro.

Non si tratta di effetti col­la­te­rali o di breve periodo, ma di effetti strut­tu­rali delle poli­ti­che di auste­rità in pre­senza di una crisi di domanda. Se è così, come ormai è rico­no­sciuto dalla mag­gior parte degli eco­no­mi­sti a livello inter­na­zio­nale, il dibat­tito che sta andando in scena in Ita­lia in merito alla pos­si­bi­lità di “sfo­rare” di una fra­zione di punto per­cen­tuale i vin­coli di bilan­cio euro­pei appare alquanto pate­tico: somi­glia ad una discus­sione sulla quan­tità giu­sta da pren­dere di un veleno di cui è per­fet­ta­mente nota la tos­si­cità. Al con­tra­rio, la discus­sione sulla crisi eco­no­mica in Ita­lia sta pro­se­guendo come se ci tro­vas­simo nel mezzo di una crisi da offerta. E in più, tale crisi da offerta viene asso­ciata alla dimen­sione ecces­siva dei costi, con un espli­cito rife­ri­mento ai costi del lavoro, il cui peso sta­rebbe sco­rag­giando gli inve­sti­menti. L’ovvia con­clu­sione è che ridu­cendo i costi del lavoro si favo­ri­rebbe lo sblocco degli inve­sti­menti. Si tratta di una let­tura pro­fon­da­mente errata, senza alcun fon­da­mento empi­rico: gli inve­sti­menti sono essen­zial­mente deter­mi­nati dalla domanda e dalle oppor­tu­nità inno­va­tive. Inter­ve­nire sulle oppor­tu­nità inno­va­tive è impor­tan­tis­simo, ma gli effetti richie­dono tempo.

Sulla domanda si può inter­ve­nire subito. Invece in Ita­lia si con­ti­nua a discu­tere in modo scel­le­rato di abo­li­zione dell’articolo 18, misura che, se attuata, e se effi­cace nell’aumentare ulte­rior­mente la fles­si­bi­lità del mer­cato del lavoro, avrà effetti nega­tivi sull’economia. Effetti che oltre alla loro dimen­sione eco­no­mica - iden­ti­fi­ca­bile in un ovvio impatto di ridu­zione dei con­sumi - hanno anche una dimen­sione sociale almeno altret­tanto impor­tante in ter­mini di insi­cu­rezza sociale e senso di dignità e iden­tità del lavoro.

Ma se l’austerità fa male, che cosa si potrebbe invece fare? Sti­glitz ha illu­strato le poli­ti­che diverse che occor­re­rebbe rea­liz­zare in Europa. Sareb­bero misure essen­ziali, ma noi non siamo tede­schi e non abbiamo diritto di voto in Ger­ma­nia, dove fino ad ora si sono decise le poli­ti­che per tutta l’euro-Europa. Allora che cosa è pos­si­bile fare qui?

La prima cosa da fare è quella di non con­si­de­rare più il vin­colo del 3% nel rap­porto deficit/Pil come una spe­cie di invio­la­bile legge di natura. Ma smet­tere di accet­tare il vin­colo implica una volontà cre­di­bile di con­tem­plare la pos­si­bi­lità di ristrut­tu­rare il nostro debito pub­blico, sia in ter­mini di allun­ga­mento delle sca­denze, che di hair cut­ting (cioè di taglio sul valore del capi­tale da resti­tuire alla sca­denza). Una reale cre­di­bi­lità della minac­cia di ristrut­tu­ra­zione uni­la­te­rale del debito pub­blico ita­liano potrebbe fun­gere da sti­molo all’adozione di quelle misure - come l’introduzione degli Euro­bond o un pro­gramma di inve­sti­menti pub­blici - che appa­iono indi­spen­sa­bili ma sotto veto tede­sco. Si trat­te­rebbe di una minac­cia cre­di­bile per­ché le dimen­sioni del debito pub­blico ita­liano ren­de­reb­bero una sua bru­sca e uni­la­te­rale ristrut­tu­ra­zione capace di por­tare l’intero sistema finan­zia­rio inter­na­zio­nale nel precipizio.

L’Italia è “too big to fail” e, inol­tre , occorre ricor­dare che l’Italia ha un attivo pri­ma­rio (cioè al netto degli inte­ressi pagati, il bilan­cio pub­blico è in attivo e quindi senza impel­lenti neces­sità di rivol­gersi ai mer­cati finanziari).

Dove andreb­bero spese le risorse pub­bli­che volte alla ripresa dell’economia euro­pea? Key­nes soste­neva che piut­to­sto che abban­do­narsi all’inazione meglio sarebbe stato sca­vare delle buche per poi riem­pirle. Più stra­te­gi­ca­mente, quello che sarebbe neces­sa­rio oggi in Europa è un vasto piano di poli­tica indu­striale com­po­sto da grandi pro­getti “mis­sion orien­ted”. Allo stato attuale sem­bra che l’unico pro­getto “mis­sion orien­ted” esi­stente in Ita­lia vada a soste­nere l’industria bel­lica ame­ri­cana con il pro­gramma di acqui­sto dei cac­cia­bom­bar­dieri F35 (che peral­tro sono anche un fal­li­mento tecnologico-militare). Invece occor­re­rebbe ini­ziare ambi­ziosi pro­getti nel campo dell’ambiente, della sanità, del welfare.

E la tas­sa­zione? Occorre smi­tiz­zare l’idea che la tas­sa­zione è media­mente troppo alta. E’ insop­por­ta­bil­mente alta sui red­diti medio-bassi, ma la media non è niente di scan­da­loso. E’ neces­sa­rio un piano di tas­sa­zione, sia sui red­diti che sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie, volto alla redi­stri­bu­zione e non alla resti­tu­zione del debito. Misure redi­stri­bu­tive di que­sto tipo avreb­bero anche un evi­dente impatto posi­tivo sui con­sumi, la cre­scita e l’occupazione.

Vi sono infine cose che non vanno asso­lu­ta­mente fatte. Una di que­ste è l’Accordo tran­sa­tlan­tico di libero scam­bio tra l’Europa e gli Stati Uniti (TTIP). Accordi come que­sto minano la capa­cità poli­tica degli stati, in par­ti­co­lare in mate­ria di poli­tica sociale, indu­striale e dell’ambiente. Di fatto si tratta di accordi che pri­va­tiz­zano la poli­tica. Accordi di que­sto tipo sono tos­sici quanto lo sono le poli­ti­che di auste­rità che si stanno por­tando avanti in Europa.

« ». Adistaonline.it

Lo Sblocca Italia serve. Serve tantissimo. Serve a restituire l’esatta “cifra ambientalista” di questo governo, del Partito Democratico e della nuova corte che circonda il segr. pres. del Cons. Matteo Renzi. Con buona pace per Ecodem, malpancisti vari che comunque continuano ad albergare e ad allearsi con quel partito beneficiando della grande asta democratica utile a superare ogni asticella di sbarramento, il “Nazareno” mostra la propria natura anti-ecologista.

L’Italia cambia verso… Regioni come la Basilicata diventeranno finalmente dei piccoli Texas. Novelli Jr (lo ricordate il mitico petroliere di “Dallas”?) scorrazzeranno per le campagne lucane a bordo di Hummer H1 6000 cc. Grazie allo Sblocca Italia, appena firmato dal Capo dello Stato e che presto sarà convertito in legge dal Parlamento Italiano, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione d’idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestiranno carattere d’interesse strategico e saranno di pubblica utilità, e quindi urgenti e indifferibili. Finalmente qualcuno ha detto basta ai comitatini che intralciano la corsa al petrolio e le trivellazioni e impediscono al nostro Paese di dotarsi di “bomboloni” sotterranei per fronteggiare le crisi energetiche.

Grazie alla dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza dell’opera, si partirà veloci con l’esproprio e ogni opposizione sarà rimossa, ogni contestazione tacitata, e se gruppi di cittadini e associazioni ambientaliste si ostinano a mettersi di traverso, saranno guai!

Libertà è Partecipazione. Bellissime le parole di Giorgio Gaber che troviamo spesso nei convegni elettorali dei democratici e agli ingressi delle Feste de L’Unità: sfondi rassicuranti. Ok, belle parole, buone per prendere voti e accontentare la base, ma se sei di intralcio al “manovratore del fare”, interviene la celere. Peggio della Legge Obiettivo (Lunardi-Berlusconi) che per realizzare opere strategiche (come il TAV) ha azzerato ogni forma di partecipazione dei cittadini e di coinvolgimento delle istituzioni locali nelle scelte che interessano territori e comunità.

Nel 1787 Goethe descriveva così il territorio polesano nel suo viaggio in Italia: «Il tragitto, con un tempo splendido, è stato piacevolissimo; il panorama e le singole vedute, semplici ma non senza grazia. Il Po, dolce fiume, scorre fin qui attraverso pianure estese; ma non si vedono che le sue rive a cespugli e a boschetti».
Nel 1948, la Costituente stabiliva, per preservare la bellezza unica italiana: «La Repubblica tutela il paesaggio ed il patrimonio storico e artistico della nazione».
Nel 2013, l’ISPRA ha certificato in 8 mq al secondo la quantità di terra italiana seppellita sotto il cemento e l’asfalto.
Nel 2014, il governo Renzi accentua ulteriormente la già grave “deregulation” edilizia che ha saccheggiato e devastato territorio e paesaggio di cui tanto ci vantiamo (e che ha romanticamente ispirato poeti e viaggiatori), rimette il turbo a tante grandi opere inutili e dannose che segneranno irreversibilmente le linee del nostro paesaggio e rilancia la svendita di patrimonio demaniale presentandolo all’opinione pubblica come agognata “valorizzazione”.

Tra le pieghe, poi, oltre al danno c’è anche una bella beffa. La mirabolante Autostrada Orte-Mestre, 10 miliardi per 400 km di asfalto in territori fragili e bellissimi, densi di Zone a Protezione Speciale e Siti di Interesse Comunitario, da realizzarsi tramite la bacchetta magica chiamata “Project Financing”, aveva un problema: non stava in piedi. Almeno senza la defiscalizzazione. Ed infatti, per questo, la Corte dei Conti aveva imposto uno stop. Ma qui arriva in soccorso lo Sblocca Italia: la defiscalizzazione (che equivale a quasi 2 mld di euro che evidentemente non entreranno nella casse dello Stato) si applicherà anche alla Orte- Mestre. Chissà cosa direbbe Goethe di fronte a cotanta fantasia al potere!

Nel decreto del governo Renzi infine non poteva certo mancare l’accelerata sugli inceneritori che saranno così sbloccati e imposti al pari delle altre opere ritenute strategiche e senza alcun vincolo di bacino. Tradotto: laddove si riducono rifiuti, si ricicla e si riusa, arrivano rifiuti freschi freschi da altri territori. Con tanti complimenti ad amministrazioni locali e cittadini virtuosi…

Spazzando via slides e buone intenzioni di chi predica la sostenibilità, lo Sblocca Italia sarà un utilissimo spartiacque. Infatti, da una parte ci saranno i dirigenti ed i fiancheggiatori del partito del cemento, delle privatizzazioni, delle emissioni, della crescita “costi quel che costi”; gli esecutori degli interessi di lobbies, profittatori di ciò che appartiene a tutti.

Dall’altra parte, da questa parte, ci saranno le forze che non accettano né mai accetteranno che ambiente, salute e beni comuni siano sacrificati insieme agli altri diritti dei cittadini per soddisfare l’avidità di poche persone, di pochi gruppi di potere. Occorre una nuova resistenza, un’alleanza di cittadini, ambientalisti, comitati e comitatini… Occorre unirsi con urgenza.

«Crisi dell’euro: cause e rimedi. La miscela esplosiva: un modello che mescola declino economico e speculazioni, produzione all’osso e controllata dalle grandi imprese, risparmi familiari che finanziano consumi impoveriti, società disuguale, frammentata e disorientata».

Il manifesto, 26 settembre 2014

Non ho biso­gno spie­gare quanto sia dram­ma­tica la situa­zione eco­no­mica in Europa, e in Ita­lia in par­ti­co­lare. L’Europa è in quella che può defi­nirsi una «tri­ple dip reces­sion», con il red­dito che è caduto non una, ma tre volte in pochi anni, una reces­sione vera­mente inusuale.

Così l’Europa ha perso la metà di un decen­nio: in molti paesi il livello del Pil pro capite è infe­riore a quello del 2008, prima della crisi; se si estra­pola la serie del Pil euro­peo sulla base del tasso di cre­scita dei decenni pas­sati, oggi il Pil sarebbe del 17% più alto: l’Europa sta per­dendo 2000 miliardi di dol­lari l’anno rispetto al pro­prio poten­ziale di crescita.

Oggi abbiamo a dispo­si­zione una grande quan­tità di dati sull’impatto delle poli­ti­che di auste­rità in Europa. I paesi che hanno adot­tato le misure più dure, ad esem­pio chi ha intro­dotto i mag­giori tagli al pro­prio bilan­cio pub­blico, hanno avuto le per­for­mance peggiori.

Non solo in ter­mini di Pil, ma anche in ter­mini di defi­cit e debito pub­blico. Era un esito pre­vi­sto e pre­ve­di­bile: se il Pil decre­sce anche le entrate fiscali si ridu­cono e que­sto non può far altro che peg­gio­rare la posi­zione debi­to­ria degli stati.

Tutto ciò avviene non per­ché que­sti paesi non abbiano rea­liz­zato poli­ti­che di auste­rità, ma pro­prio per­ché le hanno seguite. In molti paesi euro­pei siamo di fronte non a una reces­sione, ma a una depressione. La Spa­gna, ad esem­pio, può essere descritta come un paese in depres­sione se si guar­dano gli impres­sio­nanti dati sulla disoc­cu­pa­zione gio­va­nile di quel paese. La disoc­cu­pa­zione media è al 25% e non ci sono pro­spet­tive di miglio­ra­mento per il pros­simo futuro (…).

Quali sono le cause? Devo dirlo con molta fran­chezza: l’errore dell’Europa è stato l’euro.

Quando fac­cio que­sta affer­ma­zione voglio dire che l’Euro è stato un pro­getto poli­tico, un pro­getto voluto dalla poli­tica. Robert Mun­dell, pre­mio Nobel per l’economia, soste­neva fin dall’inizio che l’Europa non pre­sen­tava le carat­te­ri­sti­che di un’«area valu­ta­ria otti­male», adatta all’introduzione di un’unica moneta per più paesi. Ma a livello poli­tico si rite­neva che la moneta unica avrebbe reso l’Europa più coesa, favo­rendo l’emergere delle carat­te­ri­sti­che pro­prie di un area valu­ta­ria otti­male. Que­sto non è suc­cesso; l’euro, al con­tra­rio, ha con­tri­buito a divi­dere e fram­men­tare l’Europa.

Vediamo gli errori con­cet­tuali alla base del pro­getto dell’euro (…). Quando si crea un’area mone­ta­ria si vanno ad eli­mi­nare due mec­ca­ni­smi di aggiu­sta­mento, i tassi di cam­bio e i tassi di inte­resse. Gli shock sono ine­vi­ta­bili e in assenza di mec­ca­ni­smi di aggiu­sta­mento si va incon­tro a lun­ghi periodi di disoc­cu­pa­zione. I 50 stati fede­rati degli Usa hanno un bilan­cio uni­ta­rio a livello fede­rale e due terzi della spesa pub­blica negli Stati Uniti sono a livello fede­rale. Quando uno stato come la Cali­for­nia ha un pro­blema, può con­tare ad esem­pio sull’assicurazione pub­blica con­tro la disoc­cu­pa­zione, che è finan­ziata da fondi fede­rali. Se una banca in Cali­for­nia è in crisi, viene atti­vato un fondo di emer­genza anch’esso dotato di risorse fede­rali. Un’altra dif­fe­renza di fondo tra gli stati che com­pongo gli Usa e quelli dell’Unione Euro­pea è che nes­suno negli Stati Uniti si pre­oc­cu­pe­rebbe per lo spo­po­la­mento del Sud Dakota a seguito di una crisi occu­pa­zio­nale, anzi, l’emigrazione è vista come un mec­ca­ni­smo fisio­lo­gico. Ma in Europa un’emigrazione come quella che ha carat­te­riz­zato la com­po­nente più gio­vane e istruita della popo­la­zione del sud Europa - dove la disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è a livelli ele­va­tis­simi - ha effetti nega­tivi di impo­ve­ri­mento di quei paesi, con ten­sioni sociali e fran­tu­ma­zione delle fami­glie. Sono costi sociali che non sono cal­co­lati dal Pil. Tutto ciò era stato in qual­che modo pre­vi­sto nel momento in cui si è deciso di intro­durre l’euro (…).

Non c’è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei criteri fossero sbagliati

Quali altri errori sono stati com­piuti? Innanzi tutto l’idea che le cose si sareb­bero risolte se i paesi aves­sero man­te­nuto un basso rap­porto tra defi­cit o debito pub­blico e Pil. È l’idea che sta die­tro al Fiscal com­pact. Ma non c’è nulla nella teo­ria eco­no­mica che offra un soste­gno ai cri­teri di con­ver­genza adot­tati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei cri­teri fos­sero sba­gliati: Spa­gna e Irlanda ave­vano un bilan­cio pub­blico in avanzo prima del 2009, non ave­vano spre­cato risorse. Eppure hanno avuto delle crisi gra­vis­sime. Il debito ed il disa­vanzo di que­sti paesi si sono creati suc­ces­si­va­mente, per effetto della crisi, e non vice­versa. Il fatto di aver intro­dotto un Fiscal com­pact che impone vin­coli fer­rei al disa­vanzo e al debito non risol­verà i pro­blemi, né aiu­terà a pre­ve­nire la pros­sima crisi.

Un altro ele­mento che non è stato valu­tato appieno è che quando un paese si inde­bita in euro, piut­to­sto che in una moneta emessa dal paese che con­trae il debito, si creano auto­ma­ti­ca­mente le con­di­zioni per una crisi del debito sovrano. Il rap­porto debito/Pil negli Stati Uniti è ana­logo a quello euro­peo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che ha inve­stito l’Europa. Per­ché? Per­ché l’America si inde­bita in dol­lari, e quei dol­lari ver­ranno sem­pre rim­bor­sati per­ché il governo degli Stati Uniti può stam­pare i pro­pri dollari.

La crisi che ha col­pito i debiti sovrani di nume­rosi paesi euro­pei negli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo eco­no­mi­sta della Banca Mon­diale: paesi come l’Argentina o l’Indonesia hanno vis­suto pro­fonde crisi cau­sate pro­prio dal fatto che si erano inde­bi­tati in valute che non pote­vano con­trol­lare. Quando que­sto avviene c’è sem­pre il rischio di una crisi del debito, e in Europa le con­di­zioni per que­sto tipo di crisi sono state create con l’introduzione dell’euro. L’unica solu­zione pos­si­bile nell’attuale situa­zione euro­pea è piut­to­sto sem­plice e si chiama Euro­bond. Tut­ta­via, sem­brano esserci osta­coli poli­tici a que­sta solu­zione che la ren­dono impra­ti­ca­bile, ma que­sta sem­bra l’unica via d’uscita logica.

Inol­tre, con l’euro si è creato un sistema fon­da­men­tal­mente insta­bile. L’obiettivo ini­ziale era quello di favo­rire la con­ver­genza tra gli stati euro­pei, attra­verso la disci­plina fiscale dei paesi mem­bri. Il sistema che è stato creato in realtà pro­duce diver­genza. Il mer­cato unico, la libera cir­co­la­zione dei capi­tali in Europa sem­brava essere la strada verso una mag­giore effi­cienza eco­no­mica. Ma non ci si rese conto del fatto che i mer­cati non sono per­fetti. Negli anni ottanta c’erano alcuni eco­no­mi­sti con­vinti del per­fetto fun­zio­na­mento dei mer­cati, men­tre oggi siamo con­sa­pe­voli delle innu­me­re­voli imper­fe­zioni che li carat­te­riz­zano. Ci sono imper­fe­zioni da lato della con­cor­renza, imper­fe­zioni sul ver­sante del rischio e dell’informazione. I mer­cati non sono quelli descritti dai modelli eco­no­mici semplificati (…).

Oggi si insi­ste molto sulle riforme strut­tu­rali che i sin­goli stati dovreb­bero intro­durre (…) Quando si sente la parola riforma si è por­tati a pen­sare a qual­cosa dagli esi­sti sicu­ra­mente posi­tivi, ma sotto quest’etichetta pos­sono nascon­dersi misure dagli esiti pro­fon­da­mente nega­tivi. Le riforme strut­tu­rali in realtà sono quasi tutte viste dal lato dell’offerta, con obiet­tivi come l’aumento dell’offerta o della pro­dut­ti­vità. Ma, è real­mente que­sto il pro­blema dell’Europa e dell’economia glo­bale? No. I pro­blemi oggi sono legati a una debo­lezza della domanda, non dell’offerta. Le riforme strut­tu­rali sba­gliate aggra­ve­ranno, attra­verso la ridu­zione dei salari o l’indebolimento degli ammor­tiz­za­tori sociali, la debo­lezza della domanda aggre­gata, con ovvie con­se­guenze su disoc­cu­pa­zione e dina­mica macroe­co­no­mica. E’ neces­sa­rio anche riflet­tere sul momento in cui si pos­sono adot­tare tali riforme.

Senza scen­dere nel merito delle riforme del mer­cato del lavoro nei diversi paesi euro­pei, vor­rei farvi notare che i paesi carat­te­riz­zati da un mer­cato del lavoro for­te­mente fles­si­bile non hanno evi­tato le gravi con­se­guenze della crisi. Gli Stati uniti erano appa­ren­te­mente il paese con il mer­cato del lavoro più fles­si­bile, ma hanno avuto una disoc­cu­pa­zione al 10%. E anche oggi, quando viene pro­pa­gan­data la grande ripresa dell’economia sta­tu­ni­tense, con una disoc­cu­pa­zione ridotta al 6%, biso­gna pen­sare che c’è una fetta della popo­la­zione ame­ri­cana sfi­du­ciata al punto tale da aver smesso di cer­care un’occupazione. Il tasso di disoc­cu­pa­zione reale degli Stati Uniti è attorno al 10% (…).
Quello che l’Europa non deve fare è sottoscrivere il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi molto negativo

Che cosa dovrebbe dun­que fare l’Europa? Sem­bra vera­mente dif­fi­cile che si possa risol­vere la crisi inter­ve­nendo con riforme nei sin­goli paesi senza rifor­mare la strut­tura dell’eurozona nel suo com­plesso. Su alcuni di que­sti inter­venti strut­tu­rali sem­bre­rebbe esserci un discreto consenso.

In primo luogo, una vera Unione ban­ca­ria, fatta di vigi­lanza e di assi­cu­ra­zione comune sui depo­siti, faci­li­te­rebbe la riso­lu­zione con­giunta delle crisi. Si tratta di misure urgenti, e l’urgenza è data dai nume­rosi fal­li­menti di imprese e ban­che, che pos­sono dan­neg­giare seria­mente le pro­spet­tive di cre­scita future.

In secondo luogo, è neces­sa­rio un mec­ca­ni­smo fede­rale di bilan­cio in Europa che potrebbe pren­dere, ad esem­pio, la forma degli Euro­bond, una solu­zione pra­tica e facile che con­sen­ti­rebbe all’Europa di uti­liz­zare il debito in fun­zione anti­ci­clica, come hanno fatto gli Stati Uniti in que­sti anni. Se l’Europa potesse inde­bi­tarsi a tassi di inte­resse nega­tivi come stanno facendo gli Stati Uniti potrebbe sti­mo­lare molti inve­sti­menti utili, raf­for­zare l’economia e creare occu­pa­zione. E i soldi che oggi ven­gono spesi per il ser­vi­zio del debito dei sin­goli paesi potreb­bero essere uti­liz­zati per poli­ti­che di sti­molo alla crescita.

In terzo luogo, l’austerità va abban­do­nata e va adot­tata una stra­te­gia arti­co­lata di cre­scita. I paesi euro­pei sono molto diversi tra loro, ad esem­pio in ter­mini di pro­dut­ti­vità. Sono dun­que neces­sa­rie poli­ti­che indu­striali che favo­ri­scano la cre­scita della pro­dut­ti­vità nei paesi più deboli, ma tali poli­ti­che sono pre­cluse dai vin­coli di bilan­cio impo­sti agli stati mem­bri. Un osta­colo ulte­riore è rap­pre­sen­tato dalla poli­tica mone­ta­ria. Negli Stati Uniti la Fede­ral Reserve ha un man­dato arti­co­lato su quat­tro obiet­tivi: occu­pa­zione, infla­zione, cre­scita e sta­bi­lità finan­zia­ria. Oggi il prin­ci­pale obiet­tivo della Fede­ral Reserve è l’occupazione, non l’inflazione. Al con­tra­rio la Banca Cen­trale Euro­pea ha come unico man­dato l’inflazione, si con­cen­tra uni­ca­mente sull’inflazione. Que­sto viene da un’idea che era molto di moda, ben­ché non com­pro­vata da alcuna teo­ria eco­no­mica, quando lo Sta­tuto della BCE è stato redatto.

L’idea con­si­steva nel con­si­de­rare la bassa infla­zione come l’elemento di traino fon­da­men­tale e quasi esclu­sivo per la cre­scita eco­no­mica. Nem­meno il Fondo Mone­ta­rio Inter­na­zio­nale con­di­vide più que­sta con­vin­zione, ma l’Europa non sem­bra in grado di abban­do­narla. Que­sta poli­tica mone­ta­ria sba­gliata, può pro­durre e sta pro­du­cendo con­se­guenze eco­no­mi­che gravi. Se gli Stati Uniti man­ten­gono bassi i loro tassi di inte­resse per sti­mo­lare la crea­zione di nuovi posti di lavoro, men­tre in Europa i tassi con­ti­nuano a man­te­nersi più ele­vati, in una logica anti-inflazionistica, que­sto favo­ri­sce l’afflusso di capi­tali e l’apprezzamento dell’euro. E que­sto, ovvia­mente, rende ancora più dif­fi­cile espor­tare le merci euro­pee con un evi­dente impatto nega­tivo sulla cre­scita. Quando gli Stati uniti hanno comin­ciato ad adot­tare un poli­tica mone­ta­ria for­te­mente espan­siva ricor­rendo al «Quan­ti­ta­tive easing», l’esito posi­tivo di que­sta poli­tica è stato faci­li­tato dal fatto che l’Europa non ha fatto lo stesso.

Se l’Europa avesse abbas­sato i pro­pri tassi di inte­resse nello stesso modo in cui l’ha fatto la Fede­ral Reserve, la ripresa negli Stati Uniti sarebbe arri­vata molto più len­ta­mente. Il para­dosso, dun­que, è che gli Stati Uniti dovreb­bero rin­gra­ziare l’Europa per aver aiu­tato la ripresa dell’economia ame­ri­cana tra­mite le sue poli­ti­che mone­ta­rie sba­gliate. Ci sono altri aspetti da con­si­de­rare. Viviamo oggi in un eco­no­mia for­te­mente legata all’innovazione tec­no­lo­gica e alla cono­scenza. Ma per favo­rire l’innovazione sono neces­sari inve­sti­menti costanti e di grandi dimen­sioni in com­parti come l’istruzione e le infra­strut­ture. Si tende a pen­sare agli Stati Uniti come a un’economia inno­va­tiva. Que­sto è vero, ma è neces­sa­rio ricor­dare negli Stati Uniti le inno­va­zioni più impor­tanti, come Inter­net ad esem­pio, sono state soste­nute e finan­ziate atti­va­mente dal governo. C’è stata una poli­tica attiva dell’innovazione. Quando ero a capo del Gruppo dei con­si­glieri eco­no­mici della Casa bianca, veri­fi­cammo che i bene­fici degli inve­sti­menti pub­blici in inno­va­zione erano supe­riori a quelli pro­dotti dagli inve­sti­menti pri­vati. Si tratta di esempi di poli­ti­che attive per la cre­scita che avreb­bero effetti molto posi­tivi e che vanno in una dire­zione oppo­sta a quella del rigore che sta stran­go­lando l’Europa.

Infine, dob­biamo ren­derci conto che sia l’economia euro­pea che quella sta­tu­ni­tense erano affette da un pato­lo­gia ancor prima dell’esplosione della crisi. Fino al 2008 l’economia euro­pea e quella ame­ri­cana erano soste­nute da una bolla spe­cu­la­tiva che inte­res­sava prin­ci­pal­mente il set­tore immo­bi­liare. In assenza di quella bolla si sareb­bero visti tassi di disoc­cu­pa­zione molto più ele­vati. Ovvia­mente non vogliamo tor­nare a una cre­scita fon­data su bolle spe­cu­la­tive (…). È neces­sa­rio com­pren­dere, dun­que, quali sono i pro­blemi di fondo che col­pi­vano le nostre eco­no­mie già prima della crisi e che, oltre a non essere stati affron­tati sino ad oggi, sono peg­gio­rati durante la reces­sione. Il primo pro­blema sono le disu­gua­glianze cre­scenti nelle nostre società. La crisi ha con­tri­buito ad aumen­tarle ovun­que, negli Stati uniti i bene­fici della ripresa sono andati quasi com­ple­ta­mente all’1% più ricco della popo­la­zione. Negli Usa il valore del red­dito mediano (quello che vede metà degli ame­ri­cani con red­diti più alti e l’altra metà con red­diti infe­riori) al netto dell’inflazione è oggi più basso di 25 anni fa. Que­sto fa si che la fami­glia ame­ri­cana media non abbia soldi da spen­dere e, di con­se­guenza, la domanda aggre­gata rimane debole. Il secondo ele­mento è legato alla neces­sità di una tra­sfor­ma­zione strut­tu­rale verso l’economia della cono­scenza. Una tra­sfor­ma­zione che i mer­cati non sono in grado di gestire. Il ruolo di guida e di sti­molo di tali tra­sfor­ma­zioni dev’essere eser­ci­tato dei governi i quali, a causa della crisi attuale, non hanno in alcun modo svolto que­sto compito (…)

La poli­tica indu­striale sarà senz’altro uno degli stru­menti fon­da­men­tali per uscire da que­sta situa­zione. È neces­sa­rio un Fondo euro­peo per la disoc­cu­pa­zione e un Fondo euro­peo per le pic­cole imprese, inve­sti­menti che vadano molto oltre quello che fa oggi la Banca euro­pea degli investimenti.

Oltre alle cose che andreb­bero fatte vi sono, però, anche cose che non vanno fatte. Per quanto riguarda il mer­cato del lavoro, ho già detto che mag­giore fles­si­bi­lità non aiu­terà a risol­vere i pro­blemi attuali, anzi li aggra­verà aumen­tando le disu­gua­glianze e depri­mendo ulte­rior­mente la domanda. La situa­zione ita­liana, ad esem­pio, vede già pre­sente un ele­vato grado di fles­si­bi­lità; aumen­tarla ancora inde­bo­li­rebbe l’economia senza por­tare van­taggi. Biso­gna essere molto cauti.

Un’altra cosa che l’Europa non deve fare è sot­to­scri­vere il Trat­tato tran­sa­tlan­tico sul com­mer­cio e gli inve­sti­menti (Ttip). Un accordo di que­sto tipo potrebbe rive­larsi molto nega­tivo per l’Europa. Gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scam­bio, vogliono un accordo di gestione del com­mer­cio che favo­ri­sca alcuni spe­ci­fici inte­ressi eco­no­mici. Il Dipar­ti­mento del Com­mer­cio sta nego­ziando in asso­luta segre­tezza senza infor­mare nem­meno i mem­bri del Con­gresso ame­ri­cano. La posta in gioco non sono le tariffe sulle impor­ta­zioni tra Europa e Stati uniti, che sono già molto basse. La vera posta in gioco sono le norme per la sicu­rezza ali­men­tare, per la tutela dell’ambiente e dei con­su­ma­tori in genere. Ciò che si vuole otte­nere con que­sto accordo non è un miglio­ra­mento del sistema di regole e di scambi posi­tivo per i cit­ta­dini ame­ri­cani ed euro­pei, ma si vuole garan­tire campo libero a imprese pro­ta­go­ni­ste di atti­vità eco­no­mi­che nocive per l’ambiente e per la salute umana. La Phi­lip Mor­ris ha fatto causa con­tro l’Uruguay per­ché l’Uruguay vuol difen­dere i pro­pri cit­ta­dini dalle siga­rette tos­si­che. La Phi­lip Mor­ris nel ten­ta­tivo di con­tra­stare le misure adot­tate in Uru­guay per tute­lare i minori o i malati dai rischi del fumo si è appel­lata pro­prio ai quei prin­cipi di libero scam­bio che si vor­reb­bero intro­durre con il Ttip. Sot­to­scri­vendo un accordo simile l’Europa per­de­rebbe la pos­si­bi­lità di pro­teg­gere i pro­pri cit­ta­dini. Que­sto tipo di accordi, inol­tre aggra­vano le disu­gua­glianze e, in una situa­zione come quella euro­pea, rischie­reb­bero di appro­fon­dire la recessione.

L’Europa può ancora per­met­tersi di aspet­tare? Se non si cam­bia la strut­tura dell’eurozona, se l’Europa con­ti­nua sulla strada attuale, si can­dida a per­dere un quarto di secolo, dovete esserne con­sa­pe­voli. Quando era­vamo nel mezzo della Grande Depres­sione degli anni trenta, non si sapeva quanto sarebbe durata, ed è finita solo con la seconda guerra mon­diale e la mas­sic­cia spesa pub­blica che l’ha accom­pa­gnata. Non dob­biamo augu­rarci che l’attuale crisi venga risolta allo stesso modo, ma oggi l’Europa ha le mani legate.

Infine, la que­stione della demo­cra­zia. C’è un defi­cit di demo­cra­zia creato dall’introduzione dell’euro. Gli elet­tori votano a favore di un cam­bia­mento delle poli­ti­che, poi arriva un nuovo governo che dice «ho le mani legate, devo seguire le stesse poli­ti­che euro­pee». Que­sto com­pro­mette la fidu­cia nella demo­cra­zia. Oltre alle argo­men­ta­zioni eco­no­mi­che che ren­dono neces­sa­rio un cam­bia­mento c’è que­sta disaf­fe­zione nei con­fronti della poli­tica, che porta al raf­for­za­mento delle forze estre­mi­ste. Non è sol­tanto l’economia che è in gioco, la posta in gioco è la natura delle società europee.

(tra­du­zione del Ser­vi­zio inter­preti della Camera dei Depu­tati, tra­scri­zione e revi­sione di Dario Guarascio)

Leggi la bio­gra­fia di Joseph Stiglitz

«Certo il ter­ro­ri­smo in Ita­lia è stato scon­fitto: ma l’assassinio di Moro ha pro­dotto una ferita che ha stra­volto la poli­tica italiana». Da lì è cominciato il dramma che viviamo ancora. Perciò è importante sapere perchè quel delitto venne compiuto.

Il manifesto, 23 settembre 2014

I ter­ro­ri­sti ita­liani e in par­ti­co­lare le Br, furono ete­ro­di­retti dalle forze nazio­nali e inter­na­zio­nali che inten­de­vano bloc­care il pro­cesso poli­tico inne­scato da Moro e Ber­lin­guer alla fine degli anni ’70?
La domanda è tor­nata in occa­sione della pre­sen­ta­zione a Roma di un libro che rie­voca que­gli anni attra­verso una serie di testi­mo­nianze (Gli anni di piombo. Il ter­ro­ri­smo tra Genova, Milano e Torino 1970–1980, edito da De Fer­rari e a cura di Roberto Speciale).

Il par­la­men­tare del Pd Gero Grassi, impe­gnato nella costi­tu­zione di una terza com­mis­sione d’inchiesta sul caso Moro – che però stenta a for­marsi per man­canza di can­di­dati a com­porla – si dice certo di que­sta ete­ro­di­re­zione. Ci sarebbe qui una verità sto­rica da accer­tare, capace di riem­pire i buchi, spesso vistosi, lasciati dai pro­ce­di­menti giu­di­ziari sul rapi­mento e l’uccisione del lea­der demo­cri­stiano nel ’78.

Ema­nuele Maca­luso pre­fe­ri­sce sot­to­li­neare la con­ver­genza di obiet­tivi poli­tici tra l’autonoma forza ever­siva dei bri­ga­ti­sti e altri sog­getti poli­tici che, dalla Rus­sia di Brez­nev al Dipar­ti­mento di Stato Usa, pas­sando per altre cen­trali occi­den­tali, avver­sa­vano l’avvicinamento del Pci al governo.

In que­gli anni ero a Genova, dove il ter­ro­ri­smo rosso mosse alcuni primi passi deter­mi­nanti, cro­ni­sta all’Unità, dopo aver vis­suto la para­bola che dal momento magico del ’68 aveva pro­dotto rapi­da­mente una deriva vio­lenta. Con­di­vi­devo quindi l’impegno del mio gior­nale e del Pci in una bat­ta­glia poli­tica e cul­tu­rale con­tro i ter­ro­ri­sti e anche con­tro quella zona gri­gia dell’estremismo che non rom­peva con i «com­pa­gni che sba­glia­vano». Ricordo pole­mi­che molto dure con Il Lavoro diretto da Giu­liano Zin­cone, dove scri­ve­vano tra gli altri Gad Ler­ner, Daniele Protti, Luigi Man­coni, che verso quell’area gio­va­nile (e meno gio­va­nile) movi­men­ti­sta man­te­neva inte­resse e apertura.

Avver­tivo però il rischio di can­cel­lare in quello scon­tro, e nel clima poli­tico della «soli­da­rietà nazio­nale», anche le buone ragioni di chi cer­cava di non disper­dere la forza cri­tica del ’68, senza la quale i pro­po­siti di moder­niz­za­zione del paese mi sem­bra­vano cari­carsi di ambiguità.

In quel tanto – sem­pre troppo poco – di rie­la­bo­ra­zione della memo­ria della sini­stra e dell’Italia che si va com­piendo per la coin­ci­denza di anni­ver­sari impor­tanti (Ber­lin­guer, Togliatti, l’Unità…) e anche per la scossa pro­dotta dall’ascesa di Renzi nel Pd, non andrebbe rimossa quella sta­gione con­tro­versa e tragica.
Più che l’accertamento della ete­ro­di­re­zione delle Br a me sem­bra impor­tante rian­dare alle cul­ture costi­tu­tive di quei sog­getti: l’estremismo e il ter­ro­ri­smo, il Pci e la Dc. Lo sche­ma­ti­smo ideo­lo­gico dispe­rato di chi spa­rava e pra­ti­cava il ter­rore. I limiti nella com­pren­sione del muta­mento pro­fondo che l’Italia – e il mondo – sta­vano vivendo da parte del prin­ci­pale par­tito di governo e della più forte oppo­si­zione «comu­ni­sta» dell’Occidente.

Leggo sul Cor­riere della sera Pier­luigi Bat­ti­sta che ria­pre la pole­mica retro­spet­tiva sulla «fer­mezza»: allora non si volle trat­tare con le Br per la vita di Moro men­tre oggi si tratta con l’Isis per libe­rare gli ostaggi. Però ame­ri­cani e inglesi non lo fanno.

Forse per Moro quella via andava ten­tata. Il che per me non signi­fica che la visione di Craxi fosse per il resto più ade­guata di quella di Ber­lin­guer e dello stesso Moro (che sul ’68 fece uno dei discorsi più aperti e intel­li­genti). Certo poi il ter­ro­ri­smo in Ita­lia è stato scon­fitto: ma l’assassinio di Moro ha pro­dotto una ferita che ha stra­volto la poli­tica italiana.

A proposito dell’articolo 18: il dubbio che rimane è se siano servi sciocchi della peggiore fase del capitalismo ( nel senso che non capiscono ciò che fanno) oppure se siano anche complici.

Huffington post, 25 settembre 2014

Ha qualcosa di sconvolgente (nel senso letterale di "sconvolgere") il principio contenuto nell'emendamento del governo al Jobs Act sulle cosiddette "tutele crescenti", da applicare ai nuovi contratti di lavoro subordinato. Leggiamo: «(...) il Governo è delegato ad adottare, (...) in coerenza con la regolazione dell'Unione europea e le convenzioni internazionali, (...) la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio».

Da questa disposizione si ricava che, nella nuova versione del welfare italico prospettata dal governo, sarà l'anzianità di servizio a determinare il livello di godimento dei diritti costituzionali da parte dei lavoratori, dunque, nella generalità dei casi, l'età dello stesso lavoratore.

Nel nostro ordinamento, solo la maggiore età costituisce uno spartiacque nella storia personale di un individuo, delineando una linea di confine tra un prima ed un dopo nella scala di godimento dei diritti sanciti dalla Costituzione. Beninteso, un minore non ha diritto di voto, non ha facoltà piena di porre in essere atti negoziali, ma non per questo è passibile di soprusi e di discriminazioni. Anzi, c'è una tutela rafforzata che lo riguarda, in quanto "soggetto debole".

Nello schema proposto dal governo in materia di rapporti di lavoro, c'è invece un rovesciamento del principio: più sei giovane (in Italia si può lavorare già a 13 anni) meno tutele e diritti avrai. Nel caso specifico dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, e segnatamente della reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa, questo capovolgimento di scenario implicherebbe una vergognosa correlazione tra giovane età e possibilità di subire licenziamenti arbitrari o, addirittura, discriminatori, anche licenziamenti funzionali al non raggiungimento della soglia di "anzianità di servizio" prevista dalla legge per l'accesso al godimento di alcuni diritti.

Abile però il governo, ed il premier in particolare, a presentare la "riforma" come un rimedio al regime di apartheid che oggi vigerebbe nel mondo del lavoro, nel senso che la fattispecie denunciata sarebbe proprio quella che si andrebbe a concretizzare nel momento in cui venisse approvata la nuova disciplina in materia di rapporti di lavoro proposta dall'esecutivo.

Se davvero il governo avesse in mente di eliminare le discrepanze esistenti tra lavoratori "tradizionali" e lavoratori "atipici", certamente non inizierebbe ad occuparsi dei diritti dei primi. Piuttosto metterebbe mano alla giungla di contratti che negli anni ha generato il mare di precariato in cui sono immersi i secondi. Si porrebbe, in sostanza, il problema di estendere le tutele a chi oggi non ce l'ha, non a livellarle verso il basso, istituzionalizzando nuove forme di discriminazione su base generazionale.

Che c'entra il volersi occupare di "Marta", che "non ha la possibilità di avere il diritto alla maternità", col voler togliere diritti a "Francesca", che invece quel diritto ce l'ha insieme all'altro di poter ricorrere contro un licenziamento senza giusta causa? Ma soprattutto, qual è il modello di società che si prospetta alle "Marta" d'Italia? Quello in cui chi è giovane e precario oggi sarà un vecchio povero domani, che per giunta dovrà "guadagnarsi" con l'anzianità di servizio (di servigi?) l'accesso al godimento di diritti fondamentali?

C'è una Costituzione, tuttora vigente mi sembra, che all'art. 3 sancisce: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, (...)". Poi dice anche che la Repubblica ha il compito di "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, (...)".

Ecco, "pari dignità" e "rimozione degli ostacoli". Esattamente il contrario di ciò che il governo sta prospettando.

«Sal­va­tore è lì, con le sue cas­sette, quando i vigili urbani minac­ciano di mul­tarlo e di seque­strar­gli la merce. Lui li scon­giura di evi­tar­gli almeno il seque­stro. I vigili lo pren­dono in giro e, quando lui grida che è pronto a darsi fuoco, uno degli agenti replica che lo fac­cia pure, ma spo­stan­dosi un po’ più in là».

Il manifesto, 24 settembre 2014

Seb­bene Sal­va­tore La Fata, disoc­cu­pato cata­nese di 56 anni, non sia la prima tor­cia umana a bru­ciare in una piazza ita­liana, la sua vicenda è tra­gi­ca­mente esem­plare. A tal punto che, que­sta volta, anche sul ver­sante sin­da­cale v’è qual­che rea­zione ade­guata. Dopo il tem­pe­stivo sit-in di soli­da­rietà nei suoi con­fronti e di con­danna del com­por­ta­mento della poli­zia muni­ci­pale, pro­mosso dal cir­colo «Città Futura», pure la Cgil si è atti­vata. Ha, infatti, annun­ciato una conferenza-stampa per oggi,mercoledì 24 e una mani­fe­sta­zione uni­ta­ria, con le altre cen­trali sin­da­cali, per il pome­rig­gio di venerdì 26, nella stessa piazza Risor­gi­mento che è stata tea­tro dell’atroce protesta.

Ope­raio edile spe­cia­liz­zato, spesso par­te­cipe d’iniziative sin­da­cali, La Fata era stato licen­ziato due anni fa. Il can­tiere in cui lavo­rava era stato costretto a chiu­dere, come tanti: a Cata­nia, rife­ri­sce la Fil­lea, ben die­ci­mila edili hanno perso il lavoro negli anni recenti. Per un po’ Sal­va­tore (spo­sato, due figli a carico) aveva sop­por­tato umi­lia­zione e ver­go­gna. Poi, pur di non stare con le mani in mano, da alcuni mesi s’era messo a ven­dere qual­cosa in piazza Risor­gi­mento: nient’altro che due o tre cas­sette di olive e fichi d’india, appena venti euro di merce. Troppo per la squa­dra di vigili urbani, agguer­rita e ultra-motorizzata, che al mat­tino del 19 set­tem­bre fa irru­zione in piazza. In tempi di crisi e di dispe­ra­zione sociale è quel che ci vuole: non sia mai che le classi peri­co­lose si met­tano a far di testa loro per sbar­care il luna­rio, invece che sop­por­tare pazien­te­mente la morte civile, con­tri­buendo così al dise­gno deciso in alto loco. Fuor di sar­ca­smo, è da notare come, paral­lelo allo sfa­celo sociale pro­vo­cato dalle poli­ti­che di auste­rità, vada inten­si­fi­can­dosi un cru­dele acca­ni­mento repres­sivo con­tro atti­vità infor­mali di nes­sun rilievo penale, volte alla pura sopravvivenza.

Ma tor­niamo a quel mat­tino cata­nese. Sal­va­tore è lì, con le sue cas­sette, quando i vigili urbani minac­ciano di mul­tarlo e di seque­strar­gli la merce. Secondo dei testi­moni, lui li scon­giura di evi­tar­gli almeno il seque­stro. I vigili lo pren­dono in giro e, quando lui grida che è pronto a darsi fuoco, uno degli agenti replica che lo fac­cia pure, ma spo­stan­dosi un po’ più in là. Sta di fatto che nes­suno di loro inter­viene per tutto il tempo in cui va a rifor­nirsi di car­bu­rante, torna in piazza, si cosparge di ben­zina e si dà fuoco. E nep­pure men­tre è già avvolto dalle fiamme.

Lo ammette impli­ci­ta­mente il coman­dante della Poli­zia muni­ci­pale, nel ten­ta­tivo di giu­sti­fi­care i suoi: «Se c’è stata qual­che incer­tezza da parte dei vigili, è per­ché siamo impre­pa­rati a que­sto tipo di soccorso». Così che, men­tre scrivo, Sal­va­tore è in pro­gnosi riser­vata nell’ospedale di Aci­reale. I suoi fami­liari hanno annun­ciato che inten­dono que­re­lare i vigili urbani. «Non è pos­si­bile - ha detto il fra­tello nel corso del sit-in - che tutto passi sotto silen­zio solo per­ché noi siamo figli di nessuno».

È quasi pleo­na­stico osser­vare quanto que­sta sto­ria somi­gli a quella di Moham­med Boua­zizi, «la scin­tilla» della rivo­lu­zione tuni­sina. Quanto sia simile, anche, alla vicenda del gio­vane maroc­chino Nou­red­dine Adnane, morto il 19 feb­braio 2011, dopo nove giorni d’agonia dac­ché s’era dato fuoco in una piazza di Palermo: anch’egli ambu­lante, ma rego­lare, eppure vit­tima di ves­sa­zioni da parte d’una «squa­dretta» di vigili urbani in odore di neo­na­zi­smo. Peral­tro, lo schema di que­ste due sto­rie è del tutto sovrap­po­ni­bile a quello delle cen­ti­naia di casi che ho rac­colto nei paesi del Magh­reb, non­ché in Europa e in Israele.

Ad acco­mu­narne molti v’è uno stesso «det­ta­glio», cioè il com­por­ta­mento arro­gante, per­sino di sfida, delle forze dell’ordine: un’autentica isti­ga­zione al sui­ci­dio. E in tutti i casi il sui­ci­dio per fuoco è un grido dispe­rato di ribel­lione e pro­te­sta, un gesto sov­ver­sivo di sot­tra­zione vio­lenta del pro­prio corpo alla vio­lenza del sistema, per citare Bau­dril­lard. Desti­nato, delle volte, a cadere nel vuoto; altre volte, come in Magh­reb, a per­pe­tuare il ciclo rivolta-immolazione-rivolta; in un caso, quello tuni­sino, a sca­te­nare un’insurrezione popolare.

Da noi, c’è uno iato pro­fondo fra la dram­ma­ti­cità dell’autoimmolazione pub­blica - atto non solo dispe­rato, ma anche di spe­ranza nel genere umano, in fondo - e la nostra impo­tenza. Da noi, non c’è alcun sog­getto col­let­tivo che riven­di­chi come pro­prio «mar­tire» chi si è immo­lato o che sia capace di cogliere fino in fondo il nesso fra le pro­prie riven­di­ca­zioni e la dispe­ra­zione sociale che spinge alcuni a sui­ci­darsi in pub­blico. Eppure le torce umane e più in gene­rale i sui­cidi «eco­no­mici» sono indi­zio di un con­flitto sociale latente. Quello che la poli­tica, i sin­da­cati, per­fino i movi­menti non sem­pre sanno ren­dere espli­cito, né sem­pre orga­niz­zare in forme razio­nali ed effi­caci, tali da impe­dire che altri corpi umani ardano nelle piazze.

«Sblocca Italia sostiene lo sviluppo dell’asfalto, molto meno destina alle ferrovie e poco alle reti del trasporto urbano, il vero deficit italiano. Il governo insiste con le distorsioni della Legge Obiettivo, senza una politica dei trasporti innovativa e sostenibile».

Sbilanciamoci.info, 24 settembre 2014

Dopo roboanti annunci alla fine il Decreto “sblocca Italia” è arrivato1. Nessuna svolta riformista tanto declamata dal Presidente Renzi, ma “passodopopasso” si prosegue ed aiuta lo sblocco di cantieri inutili, il consumo di territorio e paesaggio, ad indebolire le Soprintendenze, a svendere il demanio pubblico, a scavare petrolio per mare e per terra, a insistere con la deregulation edilizia, ad imporre inceneritori in giro per l’Italia.

Era lecito sperare che un presidente del consiglio giovane e scattante, che parla un linguaggio nuovo, avesse anche idee e progetti nuovi per il futuro dell’Italia: green economy, riqualificazione delle città, efficienza ed energie rinnovabili, reti e servizi per il trasporto pubblico, ricerca ed innovazione tecnologica, beni comuni, patrimonio storico e bellezza del paesaggio. Idee e soluzioni che dove sono state attuate hanno assicurato anche crescita dell’occupazione in particolare di quella giovanile, che certamente resta un obiettivo primario per il nostro Paese.

Certo, qua e là, qualche idea giusta c’è - le opere contro il dissesto idrogeologico, quelle dei Comuni e per le scuole, la banda larga, reti tramviarie e metropolitane - ma annegano nella lunga lista di obiettivi e progetti che vengono direttamente dal passato a base di asfalto, cemento, petrolio, consumo di suolo. Anche semplificare la troppa carta e le burocrazie pesanti potrebbe avere un senso se quello che si vuole realizzare fosse utile ed innovativo, invece suona come togliere gli ultimi “lacci e lacciuoli” a chi fa rispettare le regole, o espropriare i poteri dei Comuni come per la bonifica e la riqualificazione di Bagnoli avocata alla Presidenza del Consiglio e sottratta al Comune di Napoli ed al suo piano regolatore.

Quando a luglio venne lanciata dal Governo la parola d’ordine “sblocca Italia” ( ormai abbiamo una lista di Salva Italia, Destinazione Italia, Fare Italia...) per le grandi opere strategiche si annunciava lo sblocco di 42 miliardi di opere da realizzare subito. Numeri “incredibili”, anche alla luce del fallimento di 13 anni di Legge Obiettivo, ridimensionati man mano che si avvicinava il Decreto Legge e la dura realtà dei numeri e delle coperture finanziarie.

Alla fine per le grandi opere sono destinati in totale 3,9 miliardi, spalmati dal 2014 al 2020 e prevalentemente negli anni 2017 e 2018. Il Decreto contiene la lista delle opere da rifinanziare subito (lista a), da sbloccare entro il 30 giugno (lista b) e quelle di cui aprire i cantieri entro il 31 agosto 2015 (lista c). Il testo non contiene quante risorse sono assegnate per ciascuna opera - che spetterà fissare dal Ministero delle Infrastrutture insieme a quello dell’Economia – ma nella relazione tecnica allegata vi sono le previsioni distinte opera per opera. La logica è quella di dare un poco di risorse a molte opere per evitare che si fermino i cantieri e realizzare altri “pezzi”.

Sommando le previsioni, si ottiene che ben il 47% dei 3,9 miliardi andrà a strade ed autostrade (1.832 milioni), il 25% a ferrovie (989 milioni) e solo l’8,8% a reti tramviarie e metropolitane (345 milioni). Il resto sarà destinato alle opere idriche (134 milioni), aeroporti (90 milioni) mentre 500 milioni sono destinati alle opere dei Comuni, il piano dei 6mila campanili del DL del Fare del 2013.

Quindi lo Sblocca Italia continua a sostenere lo sviluppo dell’asfalto, mentre molto meno destina alle ferrovie e davvero poco alle reti per il trasporto urbano, che sono il vero italiano, insistendo quindi con le distorsioni della Legge Obiettivo e senza una politica dei trasporti innovativa e sostenibile. Inoltre, anche dei 989 milioni destinati alle ferrovie, ben 520 milioni sono per tre nuove tratte ad alta velocità (Terzo Valico Milano-Genova, Tunnel del Brennero, AV Brescia Padova) e solo la restante parte per le ferrovie ordinarie.

Anche altre due tratte ferroviarie, la Napoli-Bari e la Palermo Catania Messina, sono inserite nello Sblocca Italia per accelerare le procedure autorizzative, mentre le risorse sono quelle fissate dal Contratto di Porgramma di RFI, che prevedono 2,9 miliardi per la prima e 2,4 miliardi per la seconda. L’amministratore Delegato di FS, Michele Elia, è nominato commissario straordinario, ha tempi stretti per l’approvazione e la revisione dei progetti (tratto Apice-Orsara) e per indire la Conferenza dei servizi. In deroga alle norme, in caso di “dissenso di una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico territoriale, del patrimonio storico artistico, tutela della salute e pubblica incolumità” decide il commissario previa intesa con le regioni interessate. Non è di certo un buon modo per progettare una infrastruttura attenta al territorio ed al paesaggio, capace di adottare soluzioni innovative.

La lista delle strade ed autostrade contiene interventi per la terza corsia Venezia-Trieste, lavori per la Torino-Milano ed opere connesse, il quadrilatero Umbria Marche, messa in sicurezza della SS131 Carlo Felice, Salerno - Reggio Calabria, Benevento Caianello, Pedemontana Piemontese, asse viario Lecco Bergamo. Si può ben facilmente notare che alcune di queste opere di adeguamento di strade esistenti siano necessarie e che “sembrano mancare” le grandi autostrade che ogni giorno vengono invocate come la soluzione sia ai problemi di mobilità che di crescita e occupazione del paese.

In effetti alcune sono sparite dall’elenco, come le risorse per l’Autostrada della Maremma o la Cispadana, che il Governo rassicura saranno nel DDL Stabilità, o come la Valdastico nord, a cui la provincia Autonoma di Trento è fermamente contraria e prima il Governo deve ricomporre il quadro istituzionale.

Ma per altre come l’autostrada Orte -Mestre, opera in autofinanziamento del valore di almeno 10 miliardi, il cui promotore è una cordata di imprese capeggiata dall’On.Vito Bonsignore, è stata inserita una specifica norma (articolo 2, comma 4) per aiutare con la defiscalizzazione - almeno 2 miliardi di risorse pubbliche - il Piano Finanziario dell’opera. Era stata la Corte dei Conti con un parere del 7 luglio del 2014 che non aveva dato il via libera alla delibera Cipe di approvazione del progetto, a segnalare che le norme vigenti non consentivano di applicare la defiscalizzazione prevista dal 2013 alle opere già dichiarate di pubblico interesse e la Orte Mestre lo era stata nel lontano 2003 con il riconoscimento del progetto del promotore Bonsignore.

Questa retroattività - ottenuta con la norma inserita nello Sblocca Italia - per superare le obiezioni della Corte dei Conti, è assai grave ed anche indecente, perché se adesso lo stato mette 2 miliardi nel piatto, allora bisognerebbe azzerare anche il promotore e rifare questa selezione. Perché non dimentichiamo che il promotore ha diversi vantaggi tra cui quello che la gara avviene sul progetto preliminare da lui presentato, che ha il diritto di adeguarsi all’offerta migliore e vincere la gara per realizzare e gestire l’infrastruttura. In caso di perdita viene comunque ripagato di tutti i costi sostenuti.

Non è un cavillo, è una vera e propria distorsione dell’offerta a suo tempo presentata. Se all’epoca il promotore fu considerato il migliore da ANAS perché aveva bisogno di minori aiuti pubblici e sosteneva che si sarebbe autofinanziato l’opera, se adesso il Governo mette due miliardi di aiuti sotto forma di defiscalizzazione, allora tutto cambia. In realtà quelle risorse pubbliche si dovrebbero usare, come propongono gli ambientalisti riuniti della Rete Nazionale Stop Orte-Mestre2, per mettere in sicurezza la E45 e la Romea, senza realizzare nuovi inutili e devastanti 400 km di nuova autostrada.

Ma anche le altre autostrade hanno un articolo dedicato - art. 5, Norme in materia di concessioni autostradali - che con frasi criptiche e giri di parole consente la richiesta di proroga della scadenza delle concessioni . E’ la solita storia che si ripete, basti ricordare che dal 1993 la direttiva europea n. 37 intimava che per le concessioni fosse necessario procedere mediante gara, chiedendo a tutti i paesi membri di adeguarsi.

Ma tra la fine degli anni 90 ed i primi anni 2000 tutte le concessioni sono state prorogate invocando il contenzioso pregresso, le privatizzazioni e gli investimenti da fare: da Autostrade per l’Italia prorogata di 20 anni al 20383, alla Sitaf Torino-Bardonecchia che scade nel 2050, alla Satap di Gavio al 2016, Autostrada dei Fiori al 2021, poi quelle che devono realizzare nuove autostrade come la SAT per l’Autostrada della Maremma con scadenza al 2046, o l’Autocamionale della Cisa che deve realizzare il Ti-Bre Parma Verona con scadenza al 2031.

La discussione con Bruxelles è stata accesa ma alla fine anche dalla Commissione Europea è arrivato il via libera, perché si trattava di investimenti già inseriti nelle convenzioni e del fatto che era “l’ultima proroga”, per poi procedere a gara ed utilizzare il meccanismo del subentro. Cioè chi gareggia sa di doversi accollare gli investimenti in corso e da fare. Ma questo meccanismo “non funziona” dicono in coro le concessionarie, anche se praticamente non è stato mai sperimentato. Adesso con lo Sblocca Italia il Governo Italiano ci riprova ad ha avviato una dialogo con Bruxelles per ottenere ulteriori proroghe. Forse forte del fatto che anche la Francia avrebbe avanzato una analoga richiesta.

La norma all’art. 5 dice che le concessionarie possono “proporre modifiche del rapporto concessorio “ entro la fine del 2014, negoziazione e firma degli atti aggiuntivi entro il 31 agosto 2015, per realizzare potenziamenti della rete sia per quelli già in concessione e sia per nuove opere da inserire, per tenere tariffe favorevoli all’utenza, “anche mediante l’unificazione di tratte interconnesse contigue”, al fine di assicurare l’equilibrio del Piano Economico e finanziario senza ulteriori oneri a carico dello Stato.

Il terzo comma ha anche una prescrizione che sembra guardare a Bruxelles con occhio accorto: tutte le opere ulteriori inserite nelle convenzioni, saranno realizzate mediante gara di lavori per il 100% dell’importo (per quelle in convenzione va a gara il 60%). Un buon principio certo, ma che rischia di essere vano perché le convenzioni vigenti includono lunghe liste di opere e ben difficilmente se ne aggiungeranno.

L’articolo 5 al comma 4 prevede che per l’A21 Piacenza Brescia, la cui concessione è scaduta nel 2011 e per l’A3 Napoli Pompei sono approvati con legge gli schemi di convenzione ed i relativi Piani Finanziari per accelerare l’iter del “riaffidamento”. Vedremo se ad esito di gara o prorogando agli attuali concessionari.

Basti pensare che le proroghe di cui si parla (o si legge4) richieste dalle concessionarie, sono per lavori già assentiti ed opere note. Si parla di una proroga per l’AutoCisa che vuole realizzare il Tibre (1,8 miliardi) che ha però già avuto una concessione prorogata al 2031, di Autovie Venete che deve realizzare la terza corsia Venezia-Trieste (1,7 miliardi) che scade nel 2017 e che aveva già ottenuto una proroga, della SATAP A4, che chiede la proroga per ammodernare la Torino-Milano (500 milioni di investimento) e che ha una scadenza già prorogata al 2026.

Chiede la proroga anche l’Autostrada Asti Cuneo, nuova autostrada in parte realizzata e che per il completamento deve investire 1,5 miliardi e la cui scadenza è fissata al 2035. Infine c’è il caso dell’Autobrennero, scaduta il 30 aprile 2014, sui cui era stata avviata una gara poi annullata da un ricorso e che adesso chiede 20 anni di proroga sia per realizzare la terza corsia Modena-Verona e sia per destinare alla ferrovia i 500 milioni accantonati per il tunnel del Brennero (deciso con norma nel 1997).Ma anche l’autostrada Centropadane avrebbe richiesto una proroga, magari applicando quella norma sulle concessioni “contigue”.

A Genova il dibattito sulla Gronda Autostradale, prevista dalla Convenzione di Autostrade è molto acceso sia sul tracciato che sulla utilità dell’opera, ma la Società Autostrade per l’Italia ha già ventilato in diverse occasione che - dati gli alti costi dell’opera - si potrà realizzare solo se vi sarà una proroga della concessione che va ricordato scade nel 2038. Magari non sarà richiesta immediatamente, ma intanto già si lavora per andare quella direzione.

Staremo a vedere se anche questa volta Bruxelles darà il via libera alle proroghe.

Vanno segnalati anche due casi su cui c’è molta attenzione anche dalla Ue: la concessione SAT (Autostrada Tirrenica) che il governo si era impegnato a ridurre di tre anni e su cui è riaperta una procedura d’infrazione; la scadenza della Brescia-Padova prorogata al 31/12/2026 a condizione che il progetto definitivo della Valdastico Nord sia approvato entro il 30 giugno 2015. Progetto a cui si oppone in modo deciso la Provincia autonoma di Trento.

La richiesta delle proroghe si aggiunge alla richiesta diffusa da parte delle concessionarie di ottenere la “defiscalizzazione”, cioè la possibilità di non pagare Iva, Ires e Irap. Già deciso dal Cipe per la Pedemontana Lombarda, richiesto dalla autostrada Orte-Mestre e dalla Brebemi, di fatto è un contributo pubblico in quanto riduce le entrate dello Stato per gli anni a venire.

Anche su questi aiuti è acceso un faro da parte di Bruxelles, mentre nello Sblocca Italia, oltre alla norma specifica per la Orte Mestre, l’articolo 11 stabilisce che tutte le opere hanno diritto alla defiscalizzazione, abbassando da 200 a 50 milioni di euro il valore dell’opera.

Solo proroghe, niente gare ed aiuti dalla Stato. E’ il solito blocco di interessi, sono i signori delle autostrade che dopo aver promesso grandi investimenti, presentato ed ottenuto piani finanziari scritti sulla sabbia, con il calo di traffico e le banche sempre più prudenti, con il buco che si è creato nei piani finanziari, alza la voce in tempi di crisi per assicurarsi un futuro5.

Molte autostrade, qualche ferrovia, poche reti tramviarie e metropolitane: la politica del Presidente Renzi sulla mobilità e le infrastrutture non cambia verso.

1 Decreto Legge 12 settembre 2014 n.133. Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione di opere pubbliche, la digitalizzazione del paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive. Pubblicato sulla G.U n. 212 del 12.09.2014.
2 vedi www.stoporme.org
3 Giorgio Ragazzi. I signori delle autostrade. Edizioni il Mulino. 2008
4 Autostrade, le opere da sbloccare. Di Alessandro Arona. Edilizia e Territorio, Il sole 24 ore. 15 settembre 2014
5 Roberto Cuda. Strade senza Uscita. Banche, costruttori e politici. Le nuove autostrade al centro di un colossale spreco di denaro pubblico. Edizioni Castelvecchi. 2013

© 2025 Eddyburg