Il manifesto, 17 novembre 2014, con postilla
«Un vincitore certo la sera delle elezioni», questa è la filosofia vagamente crepuscolare che ispira l’accordo del Nazareno e ora ribadita nel testo finale siglato dopo l’ennesimo incontro. Già qui, nel riecheggiare come cultura istituzionale i versi di Ed è subito sera, sorgono problemi enormi di interpretazione politica. Il nome Italicum è appropriato al congegno in via di perfezionamento perché trattasi di un rimedio da strapaese. In nessun sistema politico, di antica o nuova costituzione, la volontà di predeterminare un vincitore perviene ad esiti così grotteschi.
La governabilità come mito assume al Nazareno inquietanti tinte crepuscolari. Ed è la sera della democrazia rappresentativa quella che si annuncia con l’apporto creativo di due simili riformatori. Nessun sistema elettorale al mondo attribuisce la vittoria certa perché è solo attraverso la definizione della rappresentanza che si esprimono le forme di governo.
Se entro la scelta della rappresentanza nessuno ce la fa ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi, si fa ricorso a coalizioni. Avviene così in tutta Europa. In Germania ci hanno fatto ormai il callo. E persino nel preteso universo del bipartitismo perfetto, che è l’Inghilterra, vige un governo di coalizione.
Un vincitore certo si ha solo con l’elezione diretta di una carica monocratica. Ma, in un regime parlamentare, non può esistere la simulazione di una elezione diretta del governo senza con ciò procurare profonde distorsioni e palesi forzature istituzionali. L’Italicum continua invece a marciare nella via fallimentare di un presidenzialismo di fatto. E, a sorreggere questo presidenzialismo mascherato, risulta del tutto funzionale la scomparsa delle circoscrizioni uninominali e il maltrattamento delle preferenze. I nominati sono privi di autorevolezza e autonomia politica, perché nel disegno dei riformatori proprio così servono: semplici numeri a fare da contorno. Essi compaiono come equivalenti degli eletti alle convention nei regimi presidenziali. Fanno cioè da accompagnamento scenografico ad un capo che presume (e nel caso italiano si tratta solo di presunzione) di avere un contatto mistico con il popolo.
Il congegno del Nazareno, che prevede 100 circoscrizioni con altrettanti capilista bloccati, è l’espediente maldestro per consentire al capo di affidarsi a persone ad elevata fedeltà e comprovato spirito di servitù. Questa logica di un dominio a base privata peraltro non risponde in alcun modo alle obiezioni che hanno indotto la Consulta alla pronuncia di incostituzionalità della vecchia legge elettorale Calderoli. Infatti, con il ritrovato delle 100 circoscrizioni, si perviene, sulla base degli attuali rapporti di forza, a nominare senza alcuna scelta degli elettori circa 450 deputati (300 per i tre grandi partiti, circa 60 per la Lega e tutti gli eletti dei cespugli che varcano la soglia del 3 per cento).
Le preferenze reintrodotte riguarderebbero, nel migliore dei casi, non più di 200 deputati. Va aggiunto poi che il ricorso a micro circoscrizioni non incentiva in alcun modo il rapporto diretto tra il territorio e il singolo parlamentare. Infatti sembra che nel congegno in gestazione non è dalla vittoria nei territori che si aggiudica il seggio, determinando dal basso la governabilità. Ma è dalla quota nazionale spettante a ciascuna lista che si perviene poi alla ripartizione nei vari collegi plurinominali dei seggi spettanti. E questo attribuire i seggi dall’alto è davvero paradossale. Manca ogni collegamento tra la volontà dell’elettore e l’esito della competizione nella sua circoscrizione.
Un candidato potrebbe persino raggiungere la maggioranza assoluta dei voti nel proprio collegio e però non agguantare il seggio se la sua lista poi non supera lo sbarramento nazionale. E ci sarebbero circoscrizioni con un esercito di eletti ed altre con il rischio di risultare sottorappresentate. Insomma, un guazzabuglio. Un concentrato così informe di filosofie elettorali crepuscolari e di improvvisazione tecnica che si spinge ai limiti del dilettantismo terrà bloccata la politica per altri mesi ancora.
Un aforisma di Kraus rende bene il senso dell’occupazione renziana dell’agenda politica con obiettivi fasulli di riforma istituzionale (dal senato a costo zero all’Italicum). «Uno Stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elettorale, ha diritto ad essere descritto da un marrano della storia del mondo»
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Se rileggiamo la poesia di Salvatore Quasimodo, il riferimento non è alla vittoria, ma alla disperazione: "Ognuno è solo sul cuore della terra// trafitto da un raggio di sole// ed è subito sera"
«». Il manifesto
Il capitolo Ue si è chiuso senza grandi risultati per l’Italia, e le schermaglie verbali che continuano – l’ultima con Juncker – sono puro teatro. I trionfalismi governativi sono stati rapidamente spenti non da gufi e parrucconi, ma dalle valutazioni Istat e Bankitalia. Le misure messe in campo non daranno risultati importanti per la crescita, e soprattutto non ci saranno miglioramenti in tempi brevi. Chi tiene la barra vuole cambiare rotta, ma il timone non risponde.
E allora chi comanda, a chi? A nulla servono gli interventi volti a concentrare sulle stanze di Palazzo Chigi strumenti di controllo apparente, come si fa quando si vuole riportare la dirigenza pubblica — con la riforma della Pubblica amministrazione — sotto l’ombrello della presidenza del consiglio. Certo può servire a rafforzare il premier e la cerchia a lui più vicina, indebolendo ancora un consiglio dei ministri popolato di esangui coristi. Ma è un potere spicciolo per l’uomo al comando che non comanda.
Inoltre, Renzi non sembra considerare che non basta il mero diniego, per quanto forti siano gli accenti, a rigettare l’accusa di eccessiva personalizzazione. Né basta il consenso di sedi di partito che non hanno più alle spalle un’organizzazione radicata negli iscritti e nel territorio, sono drogate da selezioni populistiche del ceto politico come le primarie aperte, vedono la minoranza interna ridursi alla passiva accettazione della lealtà alla ditta. Né basta il plauso di platee di imprenditori attenti solo – come è persino giusto che sia – al profitto delle proprie aziende e ai vantaggi che possono trarre dalla benevolenza governativa. Né ancora basta richiamare un partito della nazione, con ciò implicitamente spingendo il dissenso nella categoria del tradimento piuttosto che del confronto necessario con opinioni, idee, progetti di cui bisogna tener conto. Né infine basta l’accusa che altri lavorino per spaccare il mondo del lavoro, e magari il paese, e rifiutare, con questa e altre fantasiose motivazioni, di sedersi a un tavolo in vista per la ricerca delle mediazioni possibili.
Come si può affermare che miri alla rottura chi vuole uguali – e maggiori – diritti per tutti? O ritenere che lavori invece per l’unità chi legge l’eguaglianza – pilastro della Costituzione — come livellamento verso il basso, minore dignità e qualità di vita, più debole difesa dei propri diritti? È questo lo scenario verso il quale le scelte di governo ci stanno portando.
Il premier è palesemente infastidito che intorno al suo progetto non crescano entusiastici e unanimi consensi, e che anzi si prepari una stagione di forti contrasti. Ma era scritto. Si possono chiedere a un paese sacrifici anche gravi, che però i tweet o facebook non bastano a far metabolizzare.
Ci vorrebbero partiti radicati, capaci di portare motivazioni e capacità di convincimento dal ponte di comando ai luoghi di lavoro, nelle case, nelle famiglie. Ma quei partiti sono stati smantellati, con il plauso miope di molti. Ci vorrebbero organizzazioni capillari come i sindacati, con i quali ci si vanta invece di rifiutare ogni dialogo. Ci vorrebbero istituzioni capaci di dare voce a tutte le posizioni, anche le più lontane, perché l’azione di governo ne tenga per quanto possibile conto. Invece, si fa l’esatto contrario, cancellando spazi di rappresentanza, tagliando presenze politiche vitali con soglie di sbarramento e premi di maggioranza, riducendo all’obbedienza i riottosi e dando all’esecutivo il controllo dei lavori parlamentari.
Quel che accade è quanto un certo costituzionalismo della crisi riteneva e ritiene necessario per fronteggiare l’emergenza economica e il riaggiustamento delle ragioni di scambio tra nord e sud del mondo. Non funziona, in specie quando l’inversione di rotta nella crisi non è vicina come si sperava. Come si pensa di spiegare, di convincere, di governare e contenere il malessere sociale? Sono false le gioie di una politica senza corpi intermedi, partiti, sindacati. Non serve dare la scalata a un partito con il leveraged buyout delle primarie aperte. È mera rappresentazione teatrale che basti l’investitura di un turno elettorale per garantire a qualsiasi esecutivo una effettiva e duratura capacità di governo. Né ovviamente suppliscono cariche di polizia e manganelli. Che serve manganellare le speranze perdute?
Renzi non può cavarsela con le invettive o le comparsate televisive. Dovrebbe leggere la Costituzione, a partire dall’art. 2 per cui la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale. Se poi studiare la Costituzione fosse troppo, potrebbe leggere il discorso di Papa Francesco ai Movimenti popolari del 28 ottobre. Solidarietà – dice il Papa – «è anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi … intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia … ».
È proprio questo elemento di solidarietà che manca nel messaggio del premier e nella azione di governo. Certo, non sarebbe politicamente corretto che i Papi avessero tessere di partito. Del resto, a veder bene, se Papa Francesco la chiedesse al Pd probabilmente gliela rifiuterebbero. È un comunista
Il manifesto, 13 novembre 2014
Fortunatamente, dopo mesi di approssimazioni e di confusione, il quadro politico italiano si è inequivocabilmente chiarito.
È vero, abbiamo all’inizio sottovalutato Matteo Renzi, scambiandolo per un piccolo avventuriero di provincia. Forse lo è, e lo resta; ma nelle dimensioni e caratteristiche della crisi italiana, la sua statura tende indubbiamente a crescere. Ad esempio: la «rottamazione». Sembrava una battuta propagandistica per far fuori, anche agli occhi di un’opinione pubblica stanca e disincantata, la vecchia dirigenza di centro-sinistra.
Renzi non si limita ad auspicare e perseguire la rottamazione della vecchia dirigenza del centro-sinistra. Renzi auspica e persegue la rottamazione di tutto il «sistema» che secondo lui l’avrebbe prodotta e resa possibile:
Né più né meno, dunque, che il programma di Silvio Berlusconi, ma radicalizzato ed efficacizzato dal fatto di portarlo avanti non da una posizione di destra, - laddove appariva troppo scopertamente per quel che era, e cioè un programma di destra, - ma da una posizione di centro-sinistra, - laddove può più facilmente esser gabellato per quel che non è, e cioè, un programma riformatore di centro-sinistra. Ma non c’è solo questo.
Recentemente ho assistito alla proiezione di un bellissimo documentario sui rapporti fra lingua italiana e fascismo, prodotto dall’Istituto Luce ed elaborato da una linguista del calibro di Valeria della Valle. Il documentario s’intitola: «Me ne frego», riprendendo uno stilema classico, uno stereotipo esemplare, del modo di parlare, e dunque di pensare, del fascismo. Visionando il documentario, mi è accaduto di pensare che ogniqualvolta in Italia c’è una profonda crisi delle istituzioni e degli assetti politici precedenti il leader che mira a impadronirsi senza remore né condizionamenti del gioco, adotta mentalmente, prima che linguisticamente, il motto fascista «Me ne frego».
È innegabile altresì che tale modo di pensare e di esprimersi, quando si è in presenza, ripeto, di una profonda e reale crisi delle istituzioni e degli assetti politici precedenti, risulta estremamente seduttivo presso le masse popolari italiane disorientate e sconfitte. Del resto il «Vaff…» di Grillo appartiene, più o meno, alla stessa specie, - mentale e oggi, ahimè, anche politica (su questo si potrebbe e dovrebbe aprire un lungo discorso di natura storico-culturale, che rimandiamo a un tempo migliore).
Una prima considerazione che si può trarre da questa sommaria ricostruzione degli eventi è che non ci si può opporre, - come giustamente occorre fare, - alla rottamazione del sistema democratico-costituzionale, senza cogliere al tempo stesso, e denunciare, e chiederne il superamento, di tutte le sue, attualmente, incomparabili deficienze e brutture e insufficienze, e talvolta indescrivibili, sovrumane defaillances. Il rinnovamento, se dev’essere concepito e passare, passa per due fronti, contemporanei e convergenti, non alternativi: la lotta contro la tendenza autoritaria, leaderistica, filoproprietaria, del renzismo; e la lotta contro le degenerazioni endemiche e in taluni casi il vero e proprio spappolamento del sistema democratico-costituzionale, che, in linea di principio, vorremmo difendere. Chi separa le due cose, va alla sconfitta.
Nel secondo versante, è emersa nel paese, nel corso degli ultimi mesi, una consistente resistenza di natura sociale. Ma guarda un po’: il lavoro, i lavoratori, la classe operaia… O non erano azzittiti per sempre, anzi seppelliti, da un bel pezzo? Pare di no. E quest’osso è duro da rodere, non si sbriciola, come è accaduto ad altri, facilmente. Anche il fatto che la Cgil, i sindacati, siano scesi (siano stati costretti a scendere?) in campo è un dato tutt’altro che irrilevante. E a questo proposito: le puzze sotto il naso in questa fase storica, sono da considerare mortali, e perciò evitate con la massima cura. E questo soprattutto quando entra in gioco quell’elementare principio discriminante, per cui si sta o da una parte o dall’altra. E qui, in questo momento, l’aspetto determinante, decisivo, è stare inequivocabilmente o da una parte o dall’altra.
Certo, un’opposizione sindacal-sociale senza un’opposizione politica è un’opposizione monca, indebolita proprio sul terreno, quello parlamentar-governativo, sul quale nei prossimi mesi accadranno cose decisive (la legge elettorale e, massimo dei massimi, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica). Qui vorrei dire una cosa inutile ma doverosa. Desta stupore, e indignazione, che la massa degli eletti Pd alla camera e al senato (non parlo di alcune ristrette minoranze ma, precisamente, della grande massa degli iscritti eletti), mandati a governare il paese con una diversa maggioranza di partito e con un diverso, diversissimo programma, abbia seguito, e accompagnato, l’instaurazione a capo assoluto di Matteo Renzi, e poi le sue alleanze, ipotesi istituzionale e costituzionali, e persino la fredda distruzione del loro stesso partito, il Pd, con la passività più assoluta.
Evidentemente la degenerazione precede la rottamazione e l’aiuta, anzi, da un certo momento in poi, non solo la giustifica ma la rende necessaria. Se non si riparte con il massimo del rigore dalla formazione delle élites politiche, e dalle loro nuove persuasioni e abitudini, anche in questo caso non si cava un ragno dal buco.
Tutto ciò, com’è evidente, non fa che riprendere considerazioni e ammonimenti che circolano ormai da tempo nel campo della sinistra non (ancora?) logorata, o non del tutto, dal contatto con il potere. Che sia arrivato il momento di ridare vita a una Camera di consultazione della sinistra, sperando che questa volta non ci sia qualcuno che la manda in vacca per assicurarsi una vecchiaia decente, anzi di grande benessere economico?
Oppure esistono le condizioni per convocare, più ambiziosamente (e forse prematuramente) una vera e propria Costituente della sinistra? Ma anche qui: tutto inutile, se si tenta di farla passare per la cruna dell’ago di un’estrema coerenza ideologica e storica. Le ragioni di un’opposizione comune allo sfacelo democratico prevalgono persino, all’inizio, su quelle del progetto rinnovatore. Più che altro si tratta di difendere la possibilità di un futuro, non di salvare e proseguire un dignitoso passato.
P.S. Last but no least: «il manifesto». Io dico: se non ci fosse, tutto quello che s’è detto finora, e che altri come noi dicono e fanno, e diranno e faranno, non avrebbe né senso né dimensione. Questa persuasione deve passare «per li rami», diffondersi universalmente, arrivare a tutti quelli che lottano, e da lì ripartire per tornare al giornale, insostituibile tribuna e palestra di una sinistra nonostante tutto ancora in movimento. Speriamo che in molti condividano quest’appello che parte dal giornale e, coerentemente con quello che fanno nelle lotte sociali e politiche, si comportino di conseguenza.
La Repubblica, 12 novembre 2014
LA CRISI di legittimità della politica sta raggiungendo il suo acme. E non in un luogo qualsiasi del paese, ma in Emilia-Romagna, quella parte d’Italia dove dal 1945 la sinistra ha conquistato credibilità sul campo, con le opere invece che con la dottrina, ovvero per le capacità dei suoi amministratori e politici di costruire e preservare il buon governo delle città. Le istituzioni sane e le politiche sociali efficaci sono state il fiore all’occhiello della sinistra emiliana, nei fatti socialdemocratica e pragmatica. Oggi, nemmeno quel lascito e quella memoria basteranno a convincere molti elettori e molte elettrici a votare, nonostante tutto. Sono quarantuno i consiglieri regionali dell’Emilia-Romagna indagati dalla magistratura per aver, si dice, effettuato spese ingiustificate con i soldi pubblici, travisandole come rimborsi per lo svolgimento del servizio politico, anche quando si trattava a tutti gli effetti di spese private o privatissime.
Certo, si tratta di accuse da provare, non di condanne. E i consiglieri indagati hanno tutto il diritto di contestare le accuse e di chiedere che si faccia subito luce. Ma la politica è fatta prima di tutto di immagini, di percezioni costruite dall’opinione pubblica, di fiducia non cieca ma ragionata. Un sentimento difficile da creare e consolidare, e allo stesso tempo molto facile da incrinare e demolire. Anche per il “popolo delle feste dell’Unità” (che è stato immortalato in un film-documentario appena uscito, proprio a ridosso di queste difficilissime elezioni regionali in Emilia-Romagna) sarà difficile dimenticare tutto questo. Nemmeno una lunga storia di appartenenza e passione servirà a fermare la caduta di fiducia, che non attenderà la fine delle indagini. La sfiducia è diffusa e palpabile nell’opinione pubblica. Spiegabile anche con il fatto che nella sinistra italiana, locale e nazionale, non è si è mai affermata l’abitudine di votare turandosi il naso. Perché nella sinistra non si è mai, per fortuna, coltivata l’abitudine di giustificare il basso profilo morale dei politici: un fatto che è e deve restare eccezionale, che non può essere consueto e soprattutto così esteso.
La storia dell’uso opinabile delle risorse pubbliche da parte dei consiglieri regionali dell’Emilia- Romagna non è recente. Alcune avvisaglie emersero già un anno fa quando vennero alla luce, era l’estate del 2013, le prime notizie su interviste a pagamento che alcuni esponenti locali coprirono con i soldi pubblici: soldi impiegati non per informare i cittadini, come avrebbe dovuto essere, ma per promuovere la propria immagine. Da allora, le indagini sono andate avanti e hanno colpito i diretti interessati pochi giorni prima delle elezioni regionali. Certo, non hanno coinvolto solo i politici del Pd, ma di tutti i partiti. Però questo argomento non vale come attenuante; è semmai un’aggravante. Perché una delle ragioni sulle quali il Pd ha consolidato la propria immagine, anche nel ventennio berlusconiano, è stata proprio la maggiore dirittura morale dei suoi politici, la loro serietà. Oggi, questa immagine si è molto offuscata. E il fatto che il Pd sia di fatto senza rivali non è d’aiuto. È anzi un peso, un ostacolo, che dimostra ancora una volta come la competizione e il pluralismo politico siano essenziali per una buona democrazia elettorale. Una classe politica che guadagna più dal non avere rivali credibili che dall’avere un proprio endogeno valore è un segno negativo che può favorire il senso di impunità, spingendo verso il basso il valore dell’intera classe politica.
E per molti elettori sarà più che difficile far finta di nulla e votare come se tutto vada nel migliore dei modi. Le insoddisfazioni per un percorso politico sempre meno lineare si sono manifestate già nel corso delle ultime primarie nel Pd che hanno eletto Stefano Bonaccini come candidato alla presidenza della regione. In quell’occasione, si è registrata una partecipazione irrisoria, di poche migliaia di iscritti o elettori. Certo, il numero dei voti è alla fine quel che conta quando si tratta di decretare chi vince e chi perde. Ma il basso numero dei votanti rappresenta un sintomo di malessere che è difficile da ignorare. Un segno di declino di legittimità morale che è gravissimo. Queste recenti notizie danno credito alle previsioni su un’astensione in massa nella regione che un tempo vantava la più alta partecipazione al voto su scala nazionale. Anche perché non c’è un’alternativa politica capace di attrarre consensi. Su questa strada a senso unico, i politici si adagiano e ostentano sicurezza. Sanno che a loro non c’è alternativa. D’altra parte, il non voto, l’astensione sarà (lo è nei sondaggi) il segno che agli elettori non resti davvero molta opportunità di scelta. Quello dell’Emilia- Romagna è certo un caso estremo di una crisi della rappresentanza politica e partitica che sembra irreversibile.
Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2014
Nel gergo dei giornali il “buco” è una notizia bella grossa che i concorrenti hanno in pagina e di cui in redazione nessuno si è accorto. Capita, purtroppo, è uno degli incerti del mestiere e non fa mai piacere. Da ultimo è capitato al Messaggero, giornalone romano sempre bene informato sui fatti della capitale. Al Messaggero non si sono accorti che la tanto sospirata inaugurazione della linea metropolitana C da Pantano a Centocelle all'alba di domenica 9 novembre è stata una specie di festa al cardiopalma con brivido incorporato perché il primo treno, quello con a bordo le autorità cittadine e i capoccioni responsabili dell'opera, non è manco riuscito ad arrivare al capolinea, ma si è mestamente adagiato sui binari quattro fermate prima del dovuto. Mentre tecnici e responsabili dell'inaugurazione rischiavano l'infarto, il convoglio è rimasto in panne per ben undici minuti. E considerando che si tratta di un treno “driveless”, senza guidatore a bordo, quella sosta imprevista è apparsa il prodromo di una colossale figuraccia, l'ennesima maledizione della Metro C, un'opera sfigata, nata male e cresciuta peggio.
Tutti si sono ovviamente accorti del guasto che era una bella notizia dal punto di vista giornalistico, anche se poi l'inconveniente è stato superato. E infatti ne hanno parlato tutti, dai giornali alle televisioni alle agenzie di stampa ai siti web. Con accenti diversi, naturalmente, con più o meno enfasi, con toni più o meno preoccupati, più o meno sorpresi. L’unico giornale che non ha visto né sentito è stato proprio il quotidiano principe della cronaca romana, Il Messaggero, che ha presentato l'inaugurazione della metro C come una radiosa festa senza nubi, tutta sorrisi e selfie. E il buco è apparso così vistoso che si fa fatica a capire che cosa sia successo in redazione.
A meno che non si voglia pensar male. Perché Il Messaggero è il giornale di Francesco Gaetano Caltagirone, uomo d'affari potente e ricchissimo che non è solo un editore, ma anche un costruttore, un immobiliarista, un finanziere. E pure il socio più influente del Consorzio metro C, il raggruppamento di imprese a cui il comune di Roma il 13 aprile 2006 affidò il compito di costruire la nuova metropolitana romana. Caltagirone possiede con la Vianini il 34,5 per cento della società, la stessa quota del gruppo Astaldi, mentre gli altri soci sono comprimari: Ansaldo 14 per cento, Cooperative 17 (Cmb 10 più Ccc 7). Ma mentre negli ultimi tempi Astaldi sembra sempre più prudente, considerato il bailamme che accompagna l'opera, Caltagirone ha moltiplicato i suoi sforzi con il presidente del consorzio, l'ingegner Franco Cristini. Insomma, la metro C è sempre più Caltagirone dipendente. Visto da questa angolazione e volendo malignare, il buco del Messaggero non sarebbe un buco vero, ma un autobuco, un autogol, il deliberato occultamento di una notizia che al padrone non piace.
Tutti si augurano, ovviamente, che l'improvvido guasto dell’inaugurazione resti un episodio circoscritto ed isolato. Anche se i guai strutturali della metro C sembrano tutt'altro che superati. Proprio nel giorno del viaggio inaugurale, infatti, sono spuntati nuovi inconvenienti, di cui finora nessuno si era accorto. Un assessore comunale, Luca Pancalli, che da paraplegico ha un’attenzione speciale per le esigenze dei portatori di handicap, ha fatto notare che “il dislivello tra i treni e la banchina crea problemi per i disabili”. Che non sembra un problemino, per la verità. E poi ci sono i mille giganteschi difetti elencati negli ultimi mesi dal Fatto Quotidiano. Prima di tutto i costi, cresciuti del 75 per cento, da 1,9 miliardi di euro a 3,3 da Pantano a piazza Venezia.
Ripoli (Bologna). A Ripoli quella di ieri è stata una giornata come le altre. La pioggia, l’umido, la nebbia sulle cime dell’Appennino a creare un paesaggio mozzafiato. E poi quelle case sbarrate e sgomberate, le crepe sui muri, gli edifici imbragati, la chiesetta interdetta ai fedeli. A valle, dentro quella galleria che è andata a risvegliare la frana su cui il paesino poggia, si è fatto festa. Ieri è arrivato il premier Matteo Renzi che ha partecipato alla cerimonia per l’abbattimento dell’ultimo diaframma del tunnel Val di Sambro. Quello che mancava per terminare gli scavi della Variante di valico, l’autostrada da 60 chilometri e quasi 4 miliardi di euro che dal 2015 dovrebbe affiancare l’Autostrada del sole nel tratto Bologna-Firenze. «Il lavoro che è stato fatto è il simbolo del Paese, che è in una galleria, in un tunnel di rassegnazione, ma ha la capacità per uscirne», ha spiegato Renzi.
Corriere del Sera, 8 novembre 2014
Festa grande, brindisi e «urrah!» tra i cementieri di Siracusa. Ricordate Rosa Lanteri e gli altri due soprintendenti che si videro chiedere 100 milioni di danni, poi saliti a 423, per aver bloccato speculazioni in zone archeologiche? Li hanno rimossi. Via. Sciò. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto.
Ma partiamo dall’inizio. Cioè dalla decisione dei tre funzionari della Soprintendenza Rosa Lanteri (beni archeologici) Alessandra Trigilia (paesaggistici) e Aldo Spataro (architettonici) di mettersi di traverso ad alcuni pesanti interventi in alcune delle aree più importanti ed esposte della città di Dionisio. Rileggiamo il decreto del 1988 intitolato «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Dice che poiché «lungo la costa che dal castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l’area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, dall’altopiano dell’Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e poiché questo «spettacolo di mare , oltre ad essere ricordato da Tucidide, Diodoro e Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza» il bacino va considerato «un insieme unico al mondo». Quindi va vincolato.
Eppure, da anni c’è chi vorrebbe piazzarci dei porti turistici. Come il «Marina di Archimede» (un nome che suoni «storico» è vitale, se metti cemento) che «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000» per 500 posti barca. O il «Marina di Siracusa», che avrebbe addirittura un’isola artificiale di 40mila metri quadri e usando i ruderi d’una vecchia fabbrica di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.
Il primo dei due porti, passato ai tempi di Totò Cuffaro grazie ad un accordo di programma e a soprintendenti poco battaglieri, è ormai arduo da fermare. Il secondo è stato stoppato. Così come sono stati stoppati 71 villini e due centri direzionali sul Pianoro dell’Epipoli, in zona di inedificabilità assoluta. E un mega-piano per 501 abitazioni ai piedi dell’Epipoli. E un impianto di «co-combustione» in un’area vincolata a ridosso di Megara Eblea. E altro ancora.
Un argine in controtendenza con certe gestioni del passato. Come quella di Mariella Muti, la soprintendente moglie di un architetto progettista di un condominio di lusso poi stoppato sulla Balza Acradina, soprintendente che a un certo punto, dato il via libera al piano regolatore che consentiva una concentrazione volumetrica nell’area tutelata dell’Epipoli, si pensionò usando la legge 104 (assistenza a familiari disabili) per giurare cinque giorni dopo come assessore comunale.
Va da sé che i costruttori, abituati a «vigilanti» di manica così larga, accolsero i «no» dei tre funzionari della nuova Soprintendenza, motivati dal rispetto dei vincoli ribaditi successivamente da varie sentenze del Tar, come una sorta di insubordinazione. Peggio: come un ostacolo al «progresso» cementizio. Al punto di pretendere dalla Lanteri, dalla Trigilia e da Spataro, rei di aver imposto il rispetto delle tutele, 268 milioni di euro per lo stop al porto e altri 155 per il blocco alle villette e ai centri direzionali. Per un totale, come dicevamo, di 423 milioni. Una somma così spropositata che i tre dipendenti pubblici, non arrivando ciascuno a tremila euro al mese i, impiegherebbero a pagare tre millenni e mezzo.
Una intimidazione. Davanti alla quale uno Stato serio e una Regione seria avrebbero dovuto schierarsi a muso duro dalla parte dei dirigenti. Mettendo loro a disposizione i migliori avvocati su piazza. Macché: le difese, i tre, hanno dovuto prepararsele quasi da soli. Contando sull’appoggio di tutti gli ambientalisti, di destra e di sinistra, del giornale on-line «la Civetta» e soprattutto di Italia Nostra, che un anno fa assegnò a Rosa Lanteri (e idealmente ai suoi colleghi) il «Premio Zanotti Bianco» per la difesa del «patrimonio culturale e paesaggistico in particolare nei territori del Sud, contro mille difficoltà, tra cui criminalità e malaffare».
In questo contesto, sui tre dirigenti siracusani lo Stato avrebbe dovuto dire: questi non si toccano. Macché, saltate prima l’assessore Maria Rita Sgarlata e poi la soprintendente Beatrice Basile, i tre sono stati infine tolti di mezzo. Normale avvicendamento, ha spiegato la Regione. Non dice forse la legge regionale che «nell’ambito delle misure dirette a prevenire il rischio di corruzione, assume particolare rilievo l’applicazione del principio di rotazione del personale»?
Giusto. La norma dice però che «la durata dell’incarico dovrebbe essere fissata in cinque anni rinnovabili preferibilmente una sola volta». Traduzione: massimo dieci anni. E la Lanteri, la Trigilia e Spataro, i primi spostati a svernare in questo o quel museo, non arrivano a cinque: le soprintendenti di Caltanissetta e Trapani sono lì da dieci e a Messina e a Palermo ci sono dirigenti imbullonati da dodici... E allora? Come la mettiamo? Qual è, il messaggio, a chi combatte il cemento nelle aree archeologiche protette?
«La sinistra e i giovani. Con i 10 miliardi spesi da Renzi per gli 80 euro si potrebbero creare subito 250mila posti di lavoro». Il manifesto, 7 novembre 2014 (m.p.r.)
Il Mezzogiorno è oggi una grande riserva di forza-lavoro congelata, inutilizzata, destinata al macero, come per molto tempo sono state le arance, le clementine, i pomodori.Una condizione che ricorda da vicino quella categoria del «pauperismo» definito da Marx come «il peso morto dell’esercito industriale di riserva», che si traduce oggi, nel XXI secolo, in una condizione paragonabile a quella di una «riserva di indiani» nel nord America, dove impera l’alcol ed i casinò, ma la cultura locale, l’identità, le aspettative di riscatto sono state cancellate.
È noto che in Italia su circa 2,3 milioni di giovani “neet” (not employment, education, training) circa due terzi risiedono nel Sud. Meno noto è il fatto che molti giovani meridionali sono stati costretti dalla Lunga Recessione a ritornare nel paesello natio dopo aver sperimentato lavoro precario ed alti costi di inurbamento nel Nord-Italia. Così come molte giovani coppie sono state costrette dalla crisi a lasciare le città meridionali per tornare al paese del padre o del nonno dove possono usufruire di una casa in proprietà, e magari un appezzamento con animali (galline, maiali, ecc.). Non c’è niente di bucolico o romantico in queste scelte ma una dura necessità di sopravvivenza. Perfino nelle Università meridionali troviamo oggi giovani che sono tornati dalle più prestigiose università del Centro-Nord perché i genitori non li potevano più mantenere. Ancora di più sono gli studenti che si iscrivono in alcune università del Mezzogiorno per necessità in quanto i genitori non si possono permettere di mantenerli «fuori».
Chi resta oggi nel Mezzogiorno lo fa o perché ha un lavoro (una esigua minoranza) o perché è costretto. Sono giovani carichi di rabbia e frustrazione che in maggioranza hanno votato per Grillo e Renzi, che non gliene frega niente dell’art. 18 , che vivono la loro disperazione in solitudine, che non credono più a niente. Una condizione estrema che ormai colpisce quasi un giovane su due e che meriterebbe una risposta politica adeguata. C’è un solo modo, una sola politica che possa fare uscire immediatamente una parte dei giovani meridionali dalla «riserva», che gli possa dare un’alternativa di vita e di lavoro. Si chiama posto pubblico. Una bestemmia, lo so, dopo decenni in cui è stato propagandato il mito della mobilità del lavoro come valore, dell’inventarsi un lavoro, dell’essere imprenditori di se stessi, del dipendente pubblico come un parassita.
L’ideologia neo liberista, di cui Renzi è un paladino, sostiene che i posti di lavoro si possono e si debbano creare solo dando incentivi alle imprese, e riducendo la spesa pubblica. Ma in tutti i paesi in cui questa ricetta è stata applicata ne è risultato un aumento dei posti di lavoro precari e sottopagati, mentre sono peggiorati tutti i servizi pubblici con danno grave per la maggioranza della popolazione. Inoltre, le imprese private possono assumere nuovi giovani solo se c’è una domanda crescente in quello specifico settore economico.
Per esempio l’hanno già fatto nei call center, con salari da fame, stress micidiali e precarietà assoluta, avevano creato fino a cinque anni fa quasi 80.000 nuovi posti di lavoro. Poi, hanno scoperto che era meglio far svolgere questo servizio in Albania o in Romania, con salari ancora più bassi e condizioni di lavoro estreme.
Pertanto, se è vero che la condizione giovanile nel Mezzogiorno è disperata, come sostengono tutti gli analisti e gran parte delle forze politiche, allora diciamo basta con il lamento e proviamo a dare delle risposte credibili ed immediate.
Se pensiamo che gli 80 euro distribuiti a chi aveva già un lavoro ed un reddito inferiore ai 1500 euro costano al bilancio dello Stato circa 10 miliardi l’anno, e non creano un solo posto di lavoro in più , allora diciamo che con la stessa cifra si potevano e si possono creare circa 250.00 posti di lavoro a tempo indeterminato nella Scuola, Università, Sanità, trasporti locali, servizi sociali, ecc. Basterebbe tagliare la spesa militare previsti per gli F35 o per qualche grande opera per trovare queste risorse, lasciando immutato il bilancio dello stato.
Si tratta semplicemente di riprendersi una parte dei 450.000 posti di lavoro cancellati nella Pubblica Amministrazione bloccando il turnover negli ultimi sei anni. Se la Cgil e la Fiom volessero davvero diventare un punto di riferimento per i giovani meridionali inoccupati, precari, sottopagati, dovrebbero aprire una seria vertenza con il governo — a partire dal prossimo sciopero generale — chiedendo che vengano ripristinati questi posti di lavoro che sono oggi assolutamente necessari per avere una Scuola decente, una Università dove si investa sui giovani ricercatori e docenti, il ripristino delle ferrovie e del trasporto pubblico nelle aree esterne all’asse Milano-Napoli, servizi sociali per gli inabili, i non autosufficienti, anziani, ecc.
Il vecchio, famigerato, posto fisso nella Pubblica Amministrazione, che intere generazioni di meridionali hanno sempre sognato per i propri figli, è oggi una necessità – per avere servizi essenziali dignitosi — e anche una opportunità. Non solo per rispondere al bisogno impellente di occupazione stabile, ma perché ci potrà essere una rinascita del nostro Sud solo se Stato ed Enti Locali saranno in grado di offrire servizi che in parte sono stati privatizzati e devono tornare sotto l’egida pubblica, anche perché costano meno di quelli privati!
Certo, nella Pubblica Amministrazione, specie nel comparto delle strutture regionali, ci sono sacche di parassitismo che possono e devono essere rimosse. Ma, non è più accettabile la criminalizzazione del pubblico impiego, dove esistono soggettività che si spendono per il bene comune, spesso marginalizzate e penalizzate. E senza servizi pubblici efficienti non ci può essere nessuna ripresa economica, ma solo nuove ondate migratorie.
Questo non significa non battersi per una riduzione dell’orario di lavoro, un reddito minimo garantito ai giovani inoccupati, come sostiene da tempo Piero Bevilacqua, o spendersi per un piano di salvaguardia dal dissesto idrogeologico, o rinunciare all’indispensabile riconversione ecologica della nostra struttura produttiva (Guido Viale), o accettare che il governo Renzi tagli 8 miliardi alle regioni meridionali obiettivo 1, come ha giustamente denunciato Andrea del Monaco su questo giornale (domenica scorsa). Tutte scelte e obiettivi più che condivisibili, ma che richiedono un tempo indefinito e non rispondono al bisogno immediato di un lavoro utile e garantito.
Se un giorno risorgerà una forza politica di sinistra in questo paese senza memoria, se vorrà dire qualcosa di comprensibile ai giovani meridionali, non potrà non partire da questa proposta. Se si vuole uscire dalla marginalità politica bisogna avere obiettivi chiari e raggiungibili nel breve periodo, all’interno di un quadro più generale di cambiamento radicale di questo modello di impoverimento sociale e culturale.
«». Il manifesto
È come quando la Protezione civile avverte che pioverà forte, ma non sa dire esattamente quanto forte e quali saranno i danni. Le previsioni avevano preannunciato la vittoria dei Repubblicani e i risultati dicono che la vittoria c’è stata, di dimensioni superiori ai timori o alle aspettative. E tuttavia, per certi versi, non senza qualche elemento che in prospettiva ne smorza l’impatto politico concreto.
Il dato politico immediato è l’isolamento del Presidente: il nuovo Congresso è tutto contro di lui. Quindi sarebbe lecito pensare che saranno ancora più forti gli sbarramenti che i Repubblicani avevano già opposto, per esempio, a progetti come l’innalzamento del salario minimo e la riforma dell’immigrazione. Ed è più che probabile che il loro attacco alla presidenza democratica si concentrerà su due obiettivi principali: la riforma sanitaria, per boicottare la quale hanno fatto ogni possibile battaglia in tutte le sedi legali; l’altrettanto invisa «legge Dodd-Frank», che ha sottoposto a norme e controlli le attività del mondo finanziario. Di entrambe i Repubblicani hanno detto di volere la cancellazione.
Non è detto, però, che nei prossimi due anni essa venga perseguita con la stessa determinazione mostrata finora. A Obama resta comunque il potere di veto, ed è con questo in mente che il nuovo speaker di maggioranza, l’appena rieletto Mitch McConnell, si è affrettato a dichiarare la disponibilità a «lavorare insieme» con il Presidente. In sostanza, l’unica possibilità che il Congresso eviti la paralisi è la pratica del compromesso.
La paralisi – quello che vogliono i Repubblicani viene bloccato da Obama; quello che vuole lui viene fermato da loro – fermerebbe sì il Presidente, che potrebbe agire solo con gli “Ordini esecutivi”, ma direbbe al paese che la maggioranza stessa è inetta. Il che metterebbe poi in forse la prospettiva di una presidenza repubblicana nel 2016.
Ma non succederà, perché «gli adulti», come ha scritto Thomas Edsall, hanno ripreso le redini del Partito repubblicano e della sua agenda politica. Quindi, se città e Stati continueranno a innalzare a 8–9 dollari l’ora o più il salario minimo (adesso a 7,25) che Obama voleva portare a oltre 10 dollari, diventa probabile che anche i Repubblicani proporranno un rialzo. Sull’immigrazione, se vogliono sottrarre i voti ispanici ai Democratici – a cui anche questa volta sono andati in massa – dovranno presentarsi con qualcosa di fatto alle prossime presidenziali, magari aggiornando le proposte di George W. Bush. La riforma sanitaria e la legge Dodd-Frank saranno attaccate e indebolite entrambe, ma sarà più difficile cancellare la prima che la seconda.
In tutto questo disfare e rifare i Repubblicani non saranno soli. Tra i Democratici, la disponibilità al compromesso verrà certamente, più che da Obama, dai suoi compagni di partito. L’isolamento del Presidente, infatti, si è verificato ed è stato sbandierato anche nel suo stesso schieramento.
Obama è stato ridimensionato – reso «piccolo», da grande che era, ha scritto il New York Times – dal successo della propaganda avversaria, che ne ha fatto il primo destinatario dell’offensiva preelettorale, e dalla presa di distanza di una parte del suo partito.
Tutti i giornali hanno scritto dei candidati che non lo hanno voluto al loro fianco nella campagna per non compromettere le proprie poss<CW-17>ibilità di successo. È troppo presto per controllare come è andata a costoro. Il problema politico però è reale e con esso Obama dovrà fare i conti.
La distribuzione geografica del voto conferma, per quanto possibile (per Senato e Governatori i rinnovi erano 36), che il Sud e le grandi aree rurali sono repubblicane, mentre le aree metropolitane in tutto il paese e le zone di antica industrializzazione rimangono prevalentemente democratiche.
Stando ai sondaggi per gruppi sociali, invece, risulterebbe che le donne, i giovani, gli ispanici e gli afroamericani hanno votato in maggioranza, in proporzioni diverse, per i Democratici, mentre gli anziani, i maschi bianchi e i residenti dei suburbs hanno preferito i Repubblicani. In molti casi il distacco tra vincente e sconfitto non è stato grande.
Questo andamento del voto, come ricorda una parte dei commentatori, è in buona misura «fisiologico»: l’amministrazione in carica è sempre sfavorita nelle elezioni di midterm. E l’esito ha anche a che fare con i tanti ridisegni delle circoscrizioni elettorali effettuate negli anni scorsi, soprattutto negli Stati governati dai Repubblicani e naturalmente a proprio vantaggio. Inoltre, va sottolineato che molti sono disposti a mobilitarsi quando in ballo è la presidenza, ma non quando si tratta di Congresso e governatori. Infatti nelle elezioni di midterm la percentuale dei votanti non arriva mai al 40 per cento. Queste considerazioni non sono consolatorie, servono a ricordare che nel 2016 i Repubblicani dovranno guadagnarsela la presidenza. Questo voto, di per sé, non gliela promette.
Rimane il fatto che è un elettorato «scontento», come ha scritto Dan Balz sul Washington Post, ad avere decretato la sconfitta dei Democratici. Non sono tanto le questioni legate a una politica estera «debole» e incerta, su cui pure i Repubblicani hanno battuto pesantemente. Ancor più che nelle presidenziali, in queste elezioni conta il contesto locale e nazionale.
E qui hanno pesato le contraddizioni attuali.
La ripresa economica c’è stata, la crescita è buona (superiore al 3,5 per cento), la disoccupazione è bassa (al 5,9 per cento, appena sopra quel 5,5 considerato «piena occupazione»). Ma: le disuguaglianze sono aumentate, il lavoro è fatto di sottoccupazione precaria e sottopagata e mentre i salari sono fermi i redditi dei grandi ricchi hanno continuato a salire.Non importa che siano stati in parte i Repubblicani a bloccare l’azione presidenziale (sui salari minimi, sui lavori pubblici, sull’ambiente, sull’estensione del sussidio di disoccupazione…).
La loro propaganda è riuscita nell’opera di attribuire le mancate realizzazioni legislative all’inettitudine di Obama e a costruire intorno a lui un alone di fallimento. Una sorta di senso comune a cui ha aderito una parte del suo stesso partito, come s’è detto: debolezza della politica, volubilità delle convinzioni e potere della comunicazione, vale a dire dei milioni spesi nella campagna elettorale di midterm più costosa della storia.
Quest'anno non è fuggito nessuno, e nessuno stamani si è sdegnato per quella grande bandiera pacifista che il sindaco di Messina ha voluto riesporre in piazza per la festa delle Forze armate, concedendo il bis dopo le polemiche di dodici mesi fa. Nel 2013, dinanzi a quell'arcobaleno srotolato e sventolato a braccia aperte, due generali dei carabinieri abbandonarono la platea. Già, perché la prima volta "fu uno shock, e alla fine presi la parola anche se non era previsto", racconta lui, il primo cittadino Renato Accorinti, ex insegnante di educazione fisica, anarchico, attivista anti-mafia e anti-ponte sullo Stretto.
Ma a furia di insistere, dice, "il messaggio in qualche modo passa. Oggi, poi, non ho neanche chiesto la parola...". Tuttavia, parlano per lui le due citazioni di Sandro Pertini che incorniciano il centro del drappo: "Svuotiamo gli arsenali, strumenti di morte. Coltiviamo i granai, fonte di vita". Il messaggio è racchiuso tutto lì. E l'iniziativa silenziosa - che l'anno scorso il governo definì una "provocazione demenziale" - varca i confini geografici della Sicilia per approdare in Campidoglio a Roma, dove il sindaco Ignazio Marino decide di accogliere l'appello e di esporre lo stesso vessillo.
La ricorrenza scelta per portare avanti "una lotta pacifista e non violenta che rappresenta le fondamenta della politica alta" è quella del 4 novembre, giorno dell'Unità nazionale e giornata delle Forze armate. In piazza Unione europea a Messina oggi anche i rappresentanti di 'Cambiamo Messina dal basso' - il movimento che ha sostenuto Accorinti alla guida della città - che hanno voluto sventolare bandiere multicolori durante la manifestazione. I rappresentanti istituzionali presenti alla cerimonia non hanno risposto in alcun modo al gesto, tuttavia alcuni consiglieri comunali hanno esposto la bandiera italiana, forse irritati dall'atteggiamento del sindaco pacifista.
"Attenzione - sottolinea Accorinti -, io alle spalle ho anni di lotte sociali e questa non è una sceneggiata. Non voglio che si parli della mia bandierina, io qui sto facendo una analisi di condanna dell'economia dell'Occidente e di come stiamo vivendo. La guerra è il braccio armato della finanza, e la via del disarmo è un percorso di grande maturità. Da Gandhi a Martin Luther King, passando per Francesco d'Assisi che quando parla di pace fa un discorso politico, sul pacifismo c'è un percorso serio e maturo".
Il manifesto, 5 novembre 2014
Subito dopo il segretario ha precisato: «Ci opporremo con la stessa brutalità di chi ha cambiato l’agenda politica introducendo modifiche all’articolo 18 mai proposte nelle dichiarazioni programmatiche nè nelle campagne elettorali». Ad arroventare il linguaggio, a fine settembre, era stato lo stesso presidente del consiglio Matteo Renzi, che dalla sua missione negli Usa aveva parlato della necessità di un «cambiamento violento» per l’Italia.
La Cgil e il premier restano per il momento su due opposte barricate: la prima impegnata nel percorso di mobilitazioni che oggi vede schierati i pensionati e sabato i lavoratori del pubblico impiego (entrambe le iniziative sono unitarie, con Cisl e Uil), mentre il 14 e il 21 la Fiom aprirà la stagione degli scioperi generali. Dall’altro lato, Renzi gioca le sue carte: ieri l’apparizione a Ballarò, e subito dopo la riunione con la minoranza Pd per un possibile accordo su Jobs Act e articolo 18 che possa isolare il sindacato.
Quanto alla legge di stabilità, Barbi ha spiegato che secondo la Cgil il governo «sta programmando il disastro sociale».
La manovra «è inadeguata e insufficiente in termini di investimenti e politiche di sostegno alla crescita», spiega la Cgil. Servirebbe al contrario un «Piano per il lavoro»: quello che il sindacato ha già presentato da tempo, ma che non riesce a discutere con il governo, visto che qualsiasi tipo di concertazione, o anche solo di dialogo, è sparito del tutto dal panorama dell’Italia renziana.
Il governo, prosegue Barbi, «scommette su una forte riduzione delle tasse alle imprese (taglio generalizzato dell’Irap sul costo del lavoro e sgravi contributivi per nuovi contratti a tempo indeterminato) e sulla svalutazione del lavoro (Jobs Act, come “collegato” alla legge di stabilità) sperando che, senza vincoli e con meno tutele, aumentino gli investimenti privati e, per questa via, l’occupazione». «Ma non succederà – è l’analisi della Cgil – perché il permanere di una crisi di domanda scoraggia le imprese».
Anche gli incentivi direttamente legati alla stipula di nuovi contratti a tempo indeterminato realizzeranno, secondo il sindacato, «più stabilizzazioni e sostituzioni che nuovi occupati». Le politiche per le imprese e le misure fiscali per lo sviluppo, inoltre, «non sono adeguate e manca una vera politica industriale. In più sottendono una politica concettualmente antimeridionale, determinando un’ulteriore differenziale nella coesione del Paese».
Ecco quindi la contro-finanziaria della Cgil, fatta di investimenti, valorizzazione del lavoro e dei servizi pubblici, tasse sulla ricchezza. Il sindacato ribadisce la necessità che per creare posti di lavoro si debbano coinvolgere, con uno speciale contributo, i milionari: il 5% delle famiglie più ricche del Paese, quelli che la crisi non l’hanno percepita lontanamente, neanche con il cannocchiale. Quei “poteri forti” che il buon Renzi potrebbe decidersi finalmente di scomodare.
La Cgil propone «un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile (appunto il Piano del lavoro, ndr), da finanziare attraverso un’imposta sulle grandi ricchezze finanziarie che con un gettito di circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garantire oltre 740 mila nuovi posti di lavoro (pubblici e privati), aggiuntivi, in tre anni».
E ancora, la Cgil chiede: «Una nuova politica industriale per l’innovazione, con il sostegno delle grandi imprese pubbliche nazionali e della Cassa depositi e prestiti; una forte riduzione del carico fiscale sui redditi da lavoro e da pensione, attraverso un piano di lotta per la riduzione strutturale dell’evasione fiscale e della corruzione, recuperando le risorse utili ad aumentare ed estendere il bonus Irpef».
L’ultimo punto, sono quegli 80 euro che da tempo i sindacati (anche Cisl e Uil) vorrebbero fossero estesi a categorie come i pensionati e gli incapienti. Ma finora Renzi non li ha ascoltati.
Ci si affatica a cercare paralleli tra la leadership di Matteo Renzi e il passato più o meno recente. Le comparazioni con Bettino Craxi e con Silvio Berlusconi sono consuete. Ma sono utili ad una condizione: che non si riducano a un parallelo statico tra personalità, ma mostrino come il successo di Renzi nell'Italia di oggi sia l'esito del lungo cammino cominciato da quei due leader. La forma plebiscitaria della leadership di Renzi sarebbe in questo modo studiata nel merito, non meramente criticata.
L'Italia democratica, cosi com'è, è stata modellata anche dalla politica di Craxi e di Berlusconi: questa mi sembra una base di partenza per incorniciare la leadership consensuale e plebiscitaria di Renzi, che vuole avere un partito a sua immagine e fa di tutto per riuscire in questo intento. In che cosa consiste questo nuovo partito funzionale al ? La sua identità è l'esito di un'Italia segnata da due progetti tra loro correlati: l'affossamento definitivo del fattore K (ovvero della questione comunista) e il superamento della democrazia dei partiti (ovvero del sistema parlamentare come fu disegnato dai costituenti). Entrambi questi progetti devono per riuscire ad andare ai fondamenti della nostra democrazia uscita dalla guerra.
Cominciamo dal fattore K. Esso è rappresentato dalla cultura politica del Partito comunista, una cultura centrata sul coinvolgimento dei cittadini-via partito e su politiche di sociali centrate sul ruolo sociale del lavoro. Il fattore K corrispondeva quindi a una strategia politica che si innervava nella società con una rete organizzativa del mondo del lavoro nelle sue varie forme, autonome e salariate. Su questi corpi intermedi si è strutturata la democrazia parlamentare.
La leadership di Renzi giunge alla fine di un lavoro ai fianchi che ha atterrato il forte pugile: e si sta concretizzando proprio in quei due settori nei quali da Craxi a Berlusconi il fattore K è stato eroso: ovvero l'abolizione dell'articolo 18 e riforma in senso 'esecutivista' della Costituzione. Con la prima - che è tutta simbolica e con quasi nessuna ricaduta sulla situazione occupazionale, - ci dicono gli esperti - si mette fine alla filosofia della responsabilità sociale dell'economica, con la seconda alla pratica della rappresentanza politica fondata sul partito: liberismo e comitati elettorali (che si trovano non a caso a loro agio nello spazio della Leopolda), sono le due facce di una rivoluzione individualistica della società e personalistica della politica. In sostanza: Renzi ha messo una pietra tombale sul fattore K.
E questo spiega il suo consenso trasversale e anche nell'opinione intellettuale moderata, di coloro che hanno considerato il Pci e i suoi successori più o meno mascherati come il "problema italiano", la non "normalità" del paese. Ora siamo normali: apatici (declino della partecipazione elettorale), indifferenti alle lealtà ideologiche (nonostante un'irrisoria resistenza, come si è visto con le recenti primarie in Emilia-Romagna dove molti sono andati al voto per 'fedeltà' alla sigla Pd), con una democrazia plebiscitaria gestita da un partito-macchina dell'opinione orchestrata. Ma siamo un paese normale anche sul fronte del pensiero sociale: il lavoro non è associato ai diritti sociali e alle garanzie ma alla monetizzazione e a un impiego qualunque. Non è associato soprattutto all'organizzazione che sola dà potere di trattativa a chi individualmente non ha forza, come i lavoratori dipendenti (tra i progetti di Renzi vi è il superamento del contratto nazionale, e la sua dura opposizione alla Cgil è coerente, non un incidente di percorso).
Se si dovesse riassumere con una frase l'Italia renziana si potrebbe dire che essa rappresenta la conclusione della lunga parabola che ha portato dalla socialdemocrazia-modello italiano (con il Pci a guidarla, nella pratica se non nella teoria) al liberismo umanizzato dalla solidarietà cristiana. Liberalismo economico e terzo settore o cattolicesimo sociale: questi i due pilastri dell'ideologia che meglio si accorda con la cultura dominante del nostro paese e che mette insieme un'audience molto larga che va dalla piccola e media impresa, ai professionisti, alla grande impresa. I lavoratori dipendenti non sono il gruppo determinante di questo Pd e Renzi è disposto a fare a meno dei loro consensi.
Comune.info, 31 ottobre 2014
Oltre cento mila persone non sono morte. Difficilmente sarebbero arrivate tutte vive. Forse la maggior parte non si sarebbe salvata. Grazie all’operazione Mare Nostrum sono salite su navi attrezzate con cibo, coperte e vestiti, medicinali e spesso anche con mediatori culturali e addetti al riconoscimento e alla richiesta d’asilo. Questa dovrebbe essere una notizia della quale andare orgogliosi. Una strada buona che il governo ha imboccato un anno fa, una scelta che avrebbe dovuto rivendicarsi. E infatti sono tutti molto contenti di come è andata. Ciononostante l’operazione Mare Nostrum è destinata ad essere chiusa.
Giusi Nicolini, la sindaca di Lampedusa, ce lo ricordava qualche giorno fa durante il festival Sabir che “lo Stato siamo noi, ogni cittadino, io sono lo Stato, il sub che è andato sott’acqua a prendere i cadaveri, l’uomo dell’esercito che li trasportava dalla banchina al camion, l’uomo che trasportava i morti col camion frigo, il poliziotto della scientifica che prelevava il dna, l’uomo della guardia costiera che ha rischiato la sua vita per salvare quella dei migranti: questo è lo Stato”, mentre i governi sono un’altra cosa “possono sbagliare o cambiare i destini delle persone in meglio”.
Ecco! Vedere i soldati che invece di essere pagati per ammazzare la gente ricevono uno stipendio per salvarla me li fa sentire più vicini al sub, all’uomo col camion frigo e anche a me: più vicini all’idea di Stato. E invece il governo decide di chiudere Mare Nostrum. Non la sostituisce Triton. Le navi che verranno usate in questa nuova operazione sono probabilmente molto diverse e meno attrezzate perché la sua missione è controllare i confini, non salvare esseri umani. Infatti si fermeranno ad una trentina di miglia dalle coste. Non accadrà quello che è accaduto per un anno con le grandi navi della marina italiana che arrivavano a poche miglia dall’Africa e di fatto creavano una sorta di corridoio umanitario.
Qualcuno dirà che proprio questa vicinanza è un incentivo ad organizzare barconi, ma non è così. Chi parte in cerca di lavoro normalmente vive in un paese povero, ma con la possibilità di spostarsi in treno o in aereo. I cinesi non vengono in barca e spendono meno di un eritreo che fugge dal suo paese. Chi affronta un viaggio da incubo durante il quale deve difendersi da ogni tipo di violenza non rischia la vita affrontando il mare col barcone perché sa dell’operazione Mare Nostrum. Lo fa e basta, non ha alternative. E gli scafisti sfrutteranno la maggior difficoltà nel raggiungere le nostre coste per alzare il prezzo del viaggio non per rallentare il flusso.
Quando la casa è in fiamme chiunque salta dalla finestra e non resta a bruciarsi solo perché in giardino invece dei pompieri con la rete ci sta un poliziotto gli ordina di rientrare. Qualcun altro si lamenterà per i 9 milioni che l’Italia ha speso per ogni mese di Mare Nostrum. Il contribuente ha pagato 1.000 ero per ciascuna vita umana, più o meno un terzo di quanto Renzi vuole dare nei primi 3 anni di vita per i prossimi nostri concittadini che nasceranno. Qualcuno dirà che i nostri figli sono italiani, mentre quelli che arrivano in barca sono stranieri. Che insomma è meglio fare qualcosa per noi che per loro. Ma la differenza è che i nostri bambini nascono comunque, mentre loro vanno incontro alla morte.
Ce n’è un’altra di differenza: gli italiani che nascono sono scritti su un registro, gli stranieri che muoiono non li conta nessuno.
In un’altra fabbrica lì vicino, dove gli operai sono stati messi in ferie obbligate e sostituiti con piante ornamentali, mentre la polizia bastona lontani contestatori, un Renzi scuro in volto e niente spiritoso mette al corrente la platea di Confindustria e il presidente Squinzi che «c’è un disegno calcolato, studiato e progettato per dividere il mondo del lavoro». Dice qui, in Italia, «in queste settimane». E i padroni battono le mani, con l’aria di chi pratico di complotti ha capito subito che l’oscura trama scoperta dal premier non deve fare paura. Può anzi tornare utile.
Perché se Renzi denuncia che «c’è l’idea di fare del lavoro il luogo dello scontro» non lo fa per scoprire l’acqua calda: dove altro che intorno al lavoro e al non lavoro può esserci la massima tensione al settimo anno di crisi e con i disoccupati che aumentano ancora? Né lo fa per riconoscere di essere stato lui a incendiare l’ultima guerra, decidendo di cancellare le garanzie dell’articolo 18 più di quanto abbiano mai tentato i peggiori governi di destra. Lo fa per ribadire la sua visione della modernità italiana, il suo cambio di verso: scontro è quando qualcuno non è d’accordo con lui.
È qui che si risolve l’apparente contraddizione di un presidente del Consiglio che da un lato si presenta come il fondatore del Partito Nazionale, il volenteroso capo de «l’Italia unica e indivisibile di chi vuol bene ai propri figli», e dall’altro non manca occasione di strappare, attaccare stormi di avversari «gufi», scoprirli intenti in sordidi complotti.
Dal suo lato della strada non si deve vedere il paese che è in fondo a tutti gli indici economici e riesce ancora ad arretrare in quelli di civiltà; dietro di lui si raccontano speranza e fiducia. E poi c’è «qualcuno che vuole lo scontro verbale e non soltanto verbale». Quel qualcuno è nei fatti il suo ministro di polizia, ma non importano più i fatti. Il racconto di un’Italia che sta tutta da una parte sola, la sua, si regge in piedi con il racconto dei nemici. Da circondare.
Avevamo già avuto un narratore della pace sociale al cloroformio, del partito degli operai ma anche dei padroni. Oggi la versione di Renzi è assai più aggressiva di quella di Veltroni, più cattiva e più chiusa a sinistra. Risponde alle critiche con la brutalità della menzogna: ieri ai confindustriali in estasi il premier ha raccontato di una legge elettorale «pronta a essere votata» e di riforme costituzionali praticamente già fatte. Un castello, un fortino di carte che prima o poi crollerà. Meglio spingere perché crolli dal suo lato.
Il manifesto, 1 novembre 2014
di Eleonora Martini
Uno per tutti, il commento laconico di Amnesty international Italia: «Verità e giustizia ancora più lontane
di Patrizio Gonnella
Lo spirito di corpo e la tortura. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione
I giudici della Corte d’Appello di Roma probabilmente motiveranno l’assoluzione di poliziotti e medici sostenendo che le prove non erano sufficienti. Supponiamo che sia così. Una motivazione di questo tipo vuol dire che le prove non sono state cercate, o sono state tenute nascoste.
Nei casi di tortura vi sono poliziotti che devono indagare su colleghi. Lo spirito di corpo ha vinto. Tutti assolti e dunque tutti colpevoli. I primo colpevoli sono coloro che in questi lunghi anni hanno remato contro la criminalizzazione della tortura. Ne abbiamo sentite e viste di tutti i colori. Da chi sosteneva la tesi che bisogna torturare almeno due volte per commettere il delitto a chi ha impedito la previsione del reato pur di difendere i pm che indagano. Tutte volgarità per l’appunto.
Proprio ieri il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nelle quasi 200 raccomandazioni fatte all’Italia ha ribadito la necessità di punire i torturatori. Da qualche giorno è ripresa la discussione alla Camera di un testo di legge approvato la scorsa primavera in Senato. Un testo per molti versi inadeguato e insoddisfacente. È stato di recente audito anche il capo della Polizia, Alessandro Pansa il quale ha detto testualmente che «siamo favorevoli, ma il legislatore valuti il rischio che la fase applicativa, se non tipizza meglio la fattispecie, provochi denunce strumentali contro le forze dell’ordine che potrebbero demotivarle. Nessuna difesa corporativa da parte mia».
Ha fatto bene la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti a sentire il Capo della Polizia in modo che tutti dicano in modo trasparente quali sono le proprie idee. Alessandro Pansa ha richiamato la parola corporazione, parola che rimanda direttamente allo spirito di corpo.Va rotta la catena corporativa. Spetta alle forze politiche farlo, con nettezza. Va introdotto il principio della responsabilità individuale. In mancanza del crimine di tortura si perpetua l’impunità che riporta a responsabilità collettive gravi incompatibili con una democrazia compiuta.
Sono trascorsi poco più di cinque anni dalla morte di Stefano Cucchi. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione. Detto questo noi tutti sappiamo che non è alla giustizia che dobbiamo affidare la ricostruzione della verità storica. La giustizia è per sua natura fallace. In questo caso però la verità processuale ha deciso di voltarsi in modo tragico dall’altra parte rispetto alla verità storica.
Molte volte abbiamo chiesto al Parlamento un sussulto di dignità. Lo chiediamo ancora. Chiediamo che sia approvata subito una legge contro la tortura in piena coerenza con la definizione delle Nazioni Unite. Chiediamo che ciò avvenga nel nome di Ilaria e dei genitori di Stefano, combattenti per la libertà e la giustizia.
In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave, perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato.
In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord, dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez, il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori, segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo.
Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie.
Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita.
In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo.
Il Manifesto, 31 ottobre 2014 (m.p.r.)
Dal discorso del papa nel suo incontro del 28 ottobre con i movimenti popolari possiamo ricavare un programma politico e sociale di respiro planetario dal quale non potremo più prescindere, perché raccoglie in larga parte le istanze che orientano il nostro operato, proiettandole su uno scenario che ingloba l’intero pianeta. Certo, le parole del papa sono un distillato di saperi, esperienze e riflessioni sedimentato in anni di lotte sociali, soprattutto dell’America Latina (ma non mancano riferimenti a contesti a noi più familiari come quello europeo). Ma se a ispirarlo fosse stato invece dio, e se dio la pensasse così, ben venga anche lui tra di noi: a verificare la traduzione delle sue parole in iniziative e in mobilitazioni sarà la verifica dei fatti. La piattaforma delineata inell’incontro con il papa ha tre nomi:lavoro, terra e casa: «diritti sacri», li definisce il pontefice.
Sul lavoro il papa dice: «Non esiste peggiore povertà materiale di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro». Occorre rivendicare e ottenere «una remunerazione degna, la sicurezza sociale, una copertura pensionistica, la possibilità di avere un sindacato». «La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti» sono il frutto «di un sistema economico che mette i benefici (il profitto) al di sopra dell’uomo». E qui il papa accenna un tema a lungo trattato da Zigmunt Bauman (in Vite di scarto); d’altronde tra i suoi interlocutori ci sono i cartoneros, che vivono recuperando rifiuti. Quel sistema iniquo è il prodotto «di una cultura dello scarto che considera l’essere umano come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare».
Alle forme tradizionali di sfruttamento e di oppressione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di rendere gli esseri umani superflui: «quelli che non si possono integrare, gli esclusi, sono scarti, eccedenze… Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non la persona umana». Così «si scartano i bambini e si scartano gli anziani perché non servono, non producono». E «lo scarto dei giovani» ha portato ad «annullare un’intera generazione… per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro». E in chi, come i cartoneros, vive proprio recuperando scarti, il papa vede un’allusione a un modo completamente alternativo di concepire il lavoro: «Nonostante questa cultura dello scarto, delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato, ma voi con la vostra abilità artigianale, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti… Questo, oltre che lavoro, è poesia!»
Parlando della terra — intesa nel duplice significato di ambiente (il pianeta Terra) e di suolo, oggetto del lavoro dei contadini — largamente presenti all’incontro, con la loro associazione planetaria Via campesina — il papa si appella innanzitutto al senso profondo del lavoro contadino, che non è quello di sfruttare e devastare la terra con l’agrobusiness, ma quello di custodirla: coltivandola e facendolo «in comunità». Per questo occorre combattere «lo sradicamento di tanti fratelli contadini» provocato dall’accaparramento delle terre, dalla deforestazione, dall’appropriazione dell’acqua, da pesticidi inadeguati». Quella separazione «non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale» e rischia di portare all’estinzione le comunità rurali. Il nemico di questa cultura contadina, come dei diritti del lavoro, è la speculazione finanziaria, che «condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi» provocando quell’altra «dimensione del processo globale» che è la fame, proprio mentre si scartano e si buttano via tonnellate di alimenti.
Sulla casa (che vuol dire abitare in un contesto sociale di prossimità), il papa vuole «che tutte le famiglie abbiano una casa e che tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata: fognature, luce, gas, asfalto, scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono». E aggiunge, «un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere, ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato». È proprio grazie a questi rapporti, dove ancora esistono, che «nei quartieri popolari sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti», perché «lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito, ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato».
«Quanto sono belle – aggiunge — le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo». Siamo talmente assuefatti a vedere situazioni di deprivazione da chiamare chi è senza casa, compresi i bambini, «persone senza fissa dimora»: un eufemismo che è il colmo dell’ipocrisia. Ma «dietro ogni eufemismo – ricorda — c’è un delitto». È il delitto degli sgomberi forzati, che interessano milioni di abitanti vittime del grabbing della terra, ma anche degli slums urbani e di tante situazioni di casa nostra.
In tutti e tre questi ambiti – lavoro, terra e casa — l’ostacolo che si frappone alla realizzazione degli obiettivi per cui si battono i poveri della Terra è «l’impero del denaro»; il capitalismo finanziario, diremmo noi. Ma «i poveri non solo subiscono l’ingiustizia, ma lottano anche contro di essa». E «non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi… non stanno ad aspettare a braccia conserte piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai» o che vanno «nella direzione di anestetizzare o di addomesticare». «Vogliono essere protagonisti, si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà che esiste fra quanti soffrono… e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato». Quella solidarietà «è molto di più di alcuni atti di generosità». È partecipazione: «pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni».
Quell’uragano è la conversione ecologica. Perché accanto al dio denaro, causa prima della miseria in cui si dibattono i poveri, gli altri suoi bersagli sono la guerra e la devastazione dell’ambiente: «Non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta» (e qui il papa annuncia una prossima enciclica sull’ecologia). «Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro vengono sanati». E «un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura…per sostenere il ritmo frenetico del consumo». Ma «il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. È un dono di cui dobbiamo prenderci cura» utilizzandolo a beneficio di tutti.
«Dobbiamo cambiare – dice il papa — dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno». Ed ecco allora un elenco delle virtù che cambiano il mondo: «Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati»; e praticando «una cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza». Si tratta di una lotta al tempo stesso globale e locale: nasce dai rapporti di prossimità, ma abbraccia tutto il pianeta: «So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: ma vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia, che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!».
Seguono alcune raccomandazioni relative all’organizzazione e alla riconfigurazione della democrazia: «Non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide… e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, dobbiamo cercare di camminare insieme». E «i movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature… esige che noi creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi… con animo costruttivo, senza risentimento, con amore».
Mi sono limitato a pochi commenti. E ho ben poco da aggiungere.
Il manifesto, 30 ottobre 2014
Ormai di tempo per prendere le misure del fenomeno Renzi, la sinistra Pd ne ha avuto abbastanza. E, a meno di una consapevole volontà di rassicurazione che poggia però sul niente, dovrebbe aver percepito che uno spazio per la mediazione è impossibile. Renzi peraltro non lo cerca, si vanta di aver “spianato” i reduci, schiaffeggiato le loro bandiere, umiliato la loro piazza. L’offerta di una tregua è una sterile invocazione, quella di non infierire troppo, rivolta dagli sconfitti allo spietato castigatore.
Renzi non è interessato alla costruzione di un partito strutturato, retto cioè da una logica unitaria e da una leadership rispettosa delle differenze interne. Rivendica solo una fedeltà personale, con scene ordinarie di una obbedienza conformistica al capo. Egli non mostra alcuna preoccupazione per i compiti di coesione propri di una direzione politica autorevole. Renzi vuole solo comandare con collaboratori dalla schiena curva, non dirigere una organizzazione complessa. Chi non si adegua alla sua inesorabile strategia di edificare una variante del partito personale, non più a matrice aziendale ma non per questo sprovvisto di fonti ingenti di approvvigionamento mediatico-finanziario che lo rinsaldano al potere, è destinato ad essere schiacciato, senza pietà.
E’ per lui inutile ogni visibile segno di autonomia, qualsiasi voce critica farebbe solo ombra alla sacralità del capo che in solitudine interpreta gli umori profondi del popolo ostile all’élite. La pretesa di dominio è così assoluta che non esita a spezzare ogni stabile radicamento del Pd nella componente, quella del lavoro, peraltro maggioritaria della sua antica coalizione sociale. Identità, radici sociali, forma partito, cultura delle istituzioni: davvero tutto separa la sinistra del Pd da Renzi e proprio nulla la unisce a un capo che persegue un disegno, sempre più esplicito, di edificare un potere personale a forte traino populista e ben protetto dal quasi totale conformismo dei media.
Questo esplicito piano di semplificazione a sfondo cesaristico-mediatico è fortemente regressivo, incompatibile con la cultura della sinistra e andrebbe perciò ostacolato, in ogni modo efficace. La vittoria di Renzi non coincide con il successo della sinistra. Certo, la situazione è per la minoranza assai paradossale, perché la obbliga a districarsi tra un male maggiore e un male minore.
E’ preferibile perciò un lavoro politico consapevole, un disegno esplicito di rottura che accompagni Renzi alla resa. Nello svuotamento delle residuali divisioni politiche tutte ospitate in un indistinto partito della nazione (in effetti Renzi potrebbe essere, con pari credibilità, leader di uno qualsiasi dei tre non-partiti oggi esistenti), si consoliderebbe altrimenti un sistema informe e retto da un profilo pseudo carismatico difficile da scalfire una volta consolidato al potere.
Machiavelli notava che in politica «si cava una regola generale, la quale mai o raro falla, che chi è cagione che uno diventi potente, ruina». E nella rapida, quanto sinora incontrastata, ascesa di Renzi alla condizione di «potente», anche i suoi avversari interni sono la «cagione» del tanto dominio in fretta accumulato. Prima sollecitando in direzione un cambio di passo rispetto a Letta, e poi votando in aula una fiducia “critica” alla delega all’esecutivo per la soppressione dell’articolo 18, la minoranza del Pd ha consentito al renzismo di incassare dei grandi attestati di potenza e con tali incaute mosse rischia forse di aver sancito la propria «ruina».
Il timore di una crisi di governo ha paralizzato qualsiasi disponibilità alla prova di forza su una grande questione identitaria (diritto di licenziare come arma della modernizzazione e della riduzione di ogni dignità al lavoro). Sinora la minoranza del Pd ha evitato di portare lo scontro nella sola zona di criticità esistente per Renzi, cioè nei gruppi parlamentari, non ancora del tutto omologati ma anch’essi prossimi alla resa nel miraggio di una ricandidatura. E così ha spianato la strada al disegno di un potere a conduzione personale senza mai lanciare dei sassi, colpire di sorpresa, tendere agguati. Machiavelli avvertiva che in politica «è meglio fare et pentirsi che non fare et pentirsi».
? Non è detto che essa accada. La tattica prevale sulla strategia in queste scelte. Escluderla in linea di principio è però di sicuro una castrazione preventiva della possibilità di ostacolare un tragitto regressivo che conduce verso il dominio di una persona priva di opposizioni, limiti, controlli e alla sicura archiviazione a tappe successive della forma di governo parlamentare. Ogni pratica scissionista deve valutare, con distacco, la presenza di una condizione indispensabile. Machiavelli chiarisce bene la questione, che vale per ogni costruttore di una cosa nuova: «esaminare se questi innovatori stanno per loro medesimi, o se dipendano da altri: ciò è se per condurre l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare».
Insomma, su cosa, su quali forze reali, potrebbe poggiare l’iniziativa per imporre, nella lotta aperta contro la degenerazione del politico, una autonoma forza della sinistra? La frattura sociale sui temi del lavoro, il possibile sciopero generale come radicalizzazione della contesa, offrono una occasione propizia ovvero aprono la giuntura critica per rompere. Il rapporto organico del nuovo soggetto politico con il sindacato evoca uno scenario quasi rovesciato rispetto al rapporto tra soggetto politico e organizzazione sociale dominate nella storia repubblicana. E però anche una tale formazione ad ibridismo politico-sindacale (sulla scorta più della vicenda inglese che di quella continentale) non farà strada senza una grande cultura politica, non minoritaria e di mera protesta.
Nella assai frantumata minoranza Pd forse prevarrà una linea più attendista (la guerriglia sulle riforme elettorali e istituzionali è però meno dirompente e mobilitante come reazione allo sfregio simbolico perpetrato da Renzi sull’esplosivo tema identitario del lavoro). Se comunque questa via della imboscata parlamentare prevarrà, almeno con essa si punti a bloccare l’unica condizione per il successo dello statista di Rignano, cioè l’Italicum comunque ritoccato (con il rialzo delle soglie e il voto di preferenza). Senza il premio di maggioranza in mano, Renzi ha le ali spuntate e la sua pistola del ricatto diventa scarica.
Guerriglia aperta sulle riforme, dunque, e in più un ristretto ma coeso gruppo di contatto al senato (che mostri che senza di esso il governo non ha i numeri a Palazzo Madama), possono creare degli ostacoli, scavare trappole affinché “pié veloce” inciampi. Le tattiche possono variare. Quello che non muta è però l’obiettivo. Renzi va sconfitto. E da sinistra
Q «Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri»venire, 28 ottobre 2014
Buongiorno di nuovo,
sono contento di stare tra voi, inoltre vi faccio una confidenza: è la prima volta che scendo qui, non c’ero mai venuto. Come vi dicevo, provo grande gioia e vi do un caloroso benvenuto.
Grazie per aver accettato questo invito per dibattere i tanti gravi problemi sociali che affliggono il mondo di oggi, voi che vivete sulla vostra pelle la disuguaglianza e l’esclusione. Grazie al Cardinale Turkson per la sua accoglienza, grazie, Eminenza, per il suo lavoro e le sue parole.
Questo incontro dei Movimenti Popolari è un segno, un grande segno: siete venuti a porre alla presenza di Dio, della Chiesa, dei popoli, una realtà molte volte passata sotto silenzio. I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa!
Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare.
Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari.
Questo nostro incontro non risponde a un’ideologia. Voi non lavorate con idee, lavorate con realtà come quelle che ho menzionato e molte altre che mi avete raccontato. Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che, in generale, si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambiamento che voi esigete, ma senza la vostra presenza, senza andare realmente nelle periferie, le buone proposte e i progetti che spesso ascoltiamo nelle conferenze internazionali restano nel regno dell’idea, è un mio progetto.
Non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si riduce l’altro alla passività, lo si nega o, peggio ancora, si nascondono affari e ambizioni personali: Gesù le definirebbe ipocrite. Che bello invece quando vediamo in movimento popoli e soprattutto i loro membri più poveri e i giovani. Allora sì, si sente il vento di promessa che ravviva la speranza di un mondo migliore. Che questo vento si trasformi in uragano di speranza. Questo è il mio desiderio.
Questo nostro incontro risponde a un anelito molto concreto, qualcosa che qualsiasi padre, qualsiasi madre, vuole per i propri figli; un anelito che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma che oggi vediamo con tristezza sempre più lontano dalla maggioranza della gente: terra, casa e lavoro. È strano, ma se parlo di questo per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa. Mi soffermo un po’ su ognuno di essi perché li avete scelti come parola d’ordine per questo incontro.
Terra. All’inizio della creazione, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla. Vedo che qui ci sono decine di contadini e di contadine e voglio felicitarmi con loro perché custodiscono la terra, la coltivano e lo fanno in comunità. Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali. L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Questa dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale, perché esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione.
L’altra dimensione del processo già globale è la fame. Quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile. So che alcuni di voi chiedono una riforma agraria per risolvere alcuni di questi problemi e, lasciatemi dire che in certi paesi, e qui cito il compendio della Dottrina sociale della Chiesa, “la riforma agraria diventa pertanto, oltre che una necessità politica, un obbligo morale” (CDSC, 300).
Non lo dico solo io, ma sta scritto nel compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Per favore, continuate a lottare per la dignità della famiglia rurale, per l’acqua, per la vita e affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra.
Secondo, Casa. L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia. Non bisogna mai dimenticare che Gesù nacque in una stalla perché negli alloggi non c’era posto, che la sua famiglia dovette abbandonare la propria casa e fuggire in Egitto, perseguitata da Erode. Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo! Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, “persone senza fissa dimora”. È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto.
Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.
Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell’altro! Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell’integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e “truccare” le ferite sociali invece di curarle promuovendo un’integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione. Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute — l’ho già detto — all’educazione e alla sicurezza della proprietà.
Terzo, Lavoro. Non esiste peggiore povertà materiale — mi preme sottolinearlo — di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti lavorativi non sono inevitabili, sono il risultato di una previa opzione sociale, di un sistema economico che mette i benefici al di sopra dell’uomo, se il beneficio è economico, al di sopra dell’umanità o al di sopra dell’uomo, sono effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere umano di per sé come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare.
Oggi al fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione si somma una nuova dimensione, una sfumatura grafica e dura dell’ingiustizia sociale; quelli che non si possono integrare, gli esclusi sono scarti, “eccedenze”. Questa è la cultura dello scarto, e su questo punto vorrei aggiungere qualcosa che non ho qui scritto, ma che mi è venuta in mente ora. Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il denominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori.
E per illustrarlo ricordo qui un insegnamento dell’anno 1200 circa. Un rabbino ebreo spiegava ai suoi fedeli la storia della torre di Babele e allora raccontava come, per costruire quella torre di Babele, bisognava fare un grande sforzo, bisognava fabbricare i mattoni, e per fabbricare i mattoni bisognava fare il fango e portare la paglia, e mescolare il fango con la paglia, poi tagliarlo in quadrati, poi farlo seccare, poi cuocerlo, e quando i mattoni erano cotti e freddi, portarli su per costruire la torre.
Se cadeva un mattone — era costato tanto con tutto quel lavoro —, era quasi una tragedia nazionale. Colui che l’aveva lasciato cadere veniva punito o cacciato, o non so che cosa gli facevano, ma se cadeva un operaio non succedeva nulla. Questo accade quando la persona è al servizio del dio denaro; e lo raccontava un rabbino ebreo nell’anno 1200, spiegando queste cose orribili.
Per quanto riguarda lo scarto dobbiamo anche essere un po’ attenti a quanto accade nella nostra società. Sto ripetendo cose che ho detto e che stanno nella Evangelii gaudium. Oggi si scartano i bambini perché il tasso di natalità in molti paesi della terra è diminuito o si scartano i bambini per mancanza di cibo o perché vengono uccisi prima di nascere; scarto di bambini.
Si scartano gli anziani perché non servono, non producono; né bambini né anziani producono, allora con sistemi più o meno sofisticati li si abbandona lentamente, e ora, poiché in questa crisi occorre recuperare un certo equilibrio, stiamo assistendo a un terzo scarto molto doloroso: lo scarto dei giovani. Milioni di giovani — non dico la cifra perché non la conosco esattamente e quella che ho letto mi sembra un po’ esagerata — milioni di giovani sono scartati dal lavoro, disoccupati.
Nei paesi europei, e queste sì sono statistiche molto chiare, qui in Italia, i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta per cento; sapete cosa significa quaranta per cento di giovani, un’intera generazione, annullare un’intera generazione per mantenere l’equilibrio. In un altro paese europeo sta superando il cinquanta per cento, e in quello stesso paese del cinquanta per cento, nel sud è il sessanta per cento. Sono cifre chiare, ossia dello scarto. Scarto di bambini, scarto di anziani, che non producono, e dobbiamo sacrificare una generazione di giovani, scarto di giovani, per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro e non la persona umana.
Nonostante questa cultura dello scarto, questa cultura delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato ma voi con la vostra abilità artigianale, che vi ha dato Dio, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti e ci state riuscendo... E, lasciatemelo dire, questo, oltre che lavoro, è poesia! Grazie.
Già ora, ogni lavoratore, faccia parte o meno del sistema formale del lavoro stipendiato, ha diritto a una remunerazione degna, alla sicurezza sociale e a una copertura pensionistica. Qui ci sono cartoneros, riciclatori, venditori ambulanti, sarti, artigiani, pescatori, contadini, muratori, minatori, operai di imprese recuperate, membri di cooperative di ogni tipo e persone che svolgono mestieri più comuni, che sono esclusi dai diritti dei lavoratori, ai quali viene negata la possibilità di avere un sindacato, che non hanno un’entrata adeguata e stabile. Oggi voglio unire la mia voce alla loro e accompagnarli nella lotta.
In questo incontro avete parlato anche di Pace ed Ecologia. È logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta. Sono temi così importanti che i popoli e le loro organizzazioni di base non possono non affrontare. Non possono restare solo nelle mani dei dirigenti politici. Tutti i popoli della terra, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi.
Poco fa ho detto, e lo ripeto, che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate. Quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, care sorelle e cari fratelli, si leva in ogni parte della terra, in ogni popolo, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido della pace: Mai più la guerra!
Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, saccheggiare la natura per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire di più siete voi, gli umili, voi che vivete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte a un disastro naturale. Fratelli e sorelle: il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso che Dio ci ha dato perché ce ne prendiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con rispetto e gratitudine. Forse sapete che sto preparando un’enciclica sull’Ecologia: siate certi che le vostre preoccupazioni saranno presenti in essa. Ringrazio, approfitto per ringraziare per la lettera che mi hanno fatto pervenire i membri della Vía Campesina, la Federazione dei Cartoneros e tanti altri fratelli a riguardo.
Parliamo di terra, di lavoro, di casa. Parliamo di lavorare per la pace e di prendersi cura della natura. Ma perché allora ci abituiamo a vedere come si distrugge il lavoro dignitoso, si sfrattano tante famiglie, si cacciano i contadini, si fa la guerra e si abusa della natura? Perché in questo sistema l’uomo, la persona umana è stata tolta dal centro ed è stata sostituita da un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro. Perché si è globalizzata l’indifferenza! Si è globalizzata l’indifferenza: cosa importa a me di quello che succede agli altri finché difendo ciò che è mio? Perché il mondo si è dimenticato di Dio, che è Padre; è diventato orfano perché ha accantonato Dio.
Alcuni di voi hanno detto: questo sistema non si sopporta più. Dobbiamo cambiarlo, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno. Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati, cercando sempre di risolvere le tensioni per raggiungere un livello superiore di unità, di pace e di giustizia. Noi cristiani abbiamo qualcosa di molto bello, una linea di azione, un programma, potremmo dire, rivoluzionario. Vi raccomando vivamente di leggerlo, di leggere le beatitudini che sono contenute nel capitolo 5 di san Matteo e 6 di san Luca (cfr. Matteo, 5, 3 e Luca, 6, 20), e di leggere il passo di Matteo 25. L’ho detto ai giovani a Rio de Janeiro, in queste due cose hanno il programma di azione.
So che tra di voi ci sono persone di diverse religioni, mestieri, idee, culture, paesi e continenti. Oggi state praticando qui la cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza che tanto spesso vediamo. Tra gli esclusi si produce questo incontro di culture dove l’insieme non annulla la particolarità, l’insieme non annulla la particolarità. Perciò a me piace l’immagine del poliedro, una figura geometrica con molte facce diverse. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità. Nulla si dissolve, nulla si distrugge, nulla si domina, tutto si integra, tutto si integra. Oggi state anche cercando la sintesi tra il locale e il globale. So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia; che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!
Perciò mi sembra importante la proposta, di cui alcuni di voi mi hanno parlato, che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino, come avete fatto voi in questi giorni. Attenzione, non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide, perciò ho detto incontrarsi, e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, ma sì, dobbiamo cercare di camminare insieme. Siamo in questa sala, che è l’aula del Sinodo vecchio, ora ce n’è una nuova, e sinodo vuol dire proprio “camminare insieme”: che questo sia un simbolo del processo che avete iniziato e che state portando avanti!
I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore.
Vi accompagno di cuore in questo cammino. Diciamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro.
Cari fratelli e sorelle: continuate con la vostra lotta, fate bene a tutti noi. È come una benedizione di umanità. Vi lascio come ricordo, come regalo e con la mia benedizione, alcuni rosari che hanno fabbricato artigiani, cartoneros e lavoratori dell’economia popolare dell’America Latina.
E accompagnandovi prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio Padre di accompagnarvi e di benedirvi, di colmarvi del suo amore e di accompagnarvi nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci mantiene in piedi: questa forza è la speranza, la speranza che non delude. Grazie.
Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)
Il disegno sotteso è quello di un processo di aggregazione/fusione che veda i quattro colossi multiutility attuali – A2A, Iren, Hera e Acea– già collocati in Borsa, fare man bassa di tutte le società di gestione dei servizi idrici, ambientali ed energetici, divenendo gli unici campioni nazionali, finalmente in grado di «competere» sui mercati internazionali.
Dietro la propaganda della riduzione del carrozzone delle società partecipate e dei costi della «casta» — problema reale, le cui soluzioni, se affidate ai cittadini e ai lavoratori dei servizi, andrebbero in direzione ostinata e contraria agli interessi delle lobby politico/finanziarie che dominano il paese– si cerca di mettere una pietra tombale sull’esito della straordinaria vittoria referendaria del giugno 2011 e sul suo profondo significato di pronunciamento di massa contro le politiche liberiste e di affermazione del nuovo paradigma dei beni comuni.
Con lo «sblocca Italia» — piano di cementificazione devastante del paese, alla faccia delle lacrime di coccodrillo sul suo dissesto idrogeologico — si è imposto il concetto dell’unicità della gestione del servizio idrico dentro ogni ambito territoriale ottimale (Ato) in cui è diviso il territorio, buttando a mare il pre-esistente concetto di unitarietà della gestione, che permetteva di mantenere, integrandola, la pluralità delle gestioni esistenti in ogni territorio.
Se a questo si aggiunge il fatto che ogni regione sta ridisegnando gli ambiti, tendendo sempre più spesso a farli coincidere con l’intero territorio regionale, il risultato appare chiaro: al termine di questo processo, vi sarà un unico soggetto gestore per regione, e sarà giocoforza il pesce più grosso che annetterà tutti i pesci più piccoli. Rompendo definitivamente ogni legame con la territorialità dei servizi pubblici locali e la possibilità, se non di una gestione partecipativa, almeno di un controllo democratico affidato alle istituzioni locali.
In realtà, il disegno di fusione progressiva ha un preciso obiettivo: la valorizzazione finanziaria di società che, basandosi sulla redditività garantita dall’erogare servizi essenziali — e quindi a domanda rigida — e sull’enorme liquidità periodica garantita dalle tariffe, se dimensionate su un numero significativo di utenti-cittadini, possono produrre, una volta collocate dentro la rete delle grandi multiutility, un importante valore aggiunto sui mercati finanziari.
Ciò che prevede lo «sblocca Italia» è tuttavia solo la premessa di quanto disposto dalla legge di stabilità, che si prefigge il colpo finale per ogni idea di riappropriazione sociale dei beni comuni e di gestione partecipativa e priva di profitti da parte delle comunità locali.
Infatti, approfittando del progressivo strangolamento degli enti locali, scientificamente portato avanti negli anni attraverso i tagli dei trasferimenti e l’applicazione di un patto di stabilità interno che ha reso praticamente impossibile il mantenimento di ogni funzione pubblica e sociale (gli osannati «angeli del fango» della recente alluvione a Genova, altro non sono che ragazzi sanamente arrabbiati, i quali, avendo chiaro il totale stato di abbandono in cui sono lasciati dalle istituzioni, decidono di fare da sé), il governo Renzi regala ai Sindaci il definitivo ricatto, togliendo dai parametri del patto di stabilità, quindi permettendo loro di spendere, una parte delle cifre ricavate dalla cessione di quote pubbliche delle società partecipate di servizi pubblici locali e rendendo nel contempo, ancor più onerosa, la scelta di una gestione pubblica degli stessi.
Si chiede ai sindaci, dunque, di mettere in vendita i beni comuni primari delle proprie comunità di riferimento, per consentire loro di mantenere uno straccio di funzionamento ordinario dell’ente locale. L’obiettivo delle élite politico-tecnocratiche dell’Ue è lo stesso di quando, dopo neppure un mese dalla proclamazione della vittoria referendaria, scrissero all’allora governo Berlusconi la famosa lettera di diktat, in cui il punto n. 26 chiedeva «cosa intende fare il suo governo per la privatizzazione dei servizi idrici nel Paese, malgrado l’esito del recente risultato referendario?».
L’obiettivo di Renzi è quello di dimostrare di essere l’unico capace di portare a termine un compito che nessun altro governo era sinora riuscito a fare.
Il compito del movimento per l’acqua e dei movimenti per i beni comuni è ancora una volta quello di dimostrare che indietro non si torna, riaprendo una forte mobilitazione territoriale e nazionale che sappia parlare a quella maggioranza di persone, intimorita dalla crisi ma non annichilita nella speranza, che votando «sì» al referendum ha suggerito la possibilità di un altro modello sociale, basato sulla riappropriazione dei beni comuni e sulla loro gestione partecipativa, democratica, territoriale.
E di far schierare i sindaci, costretti, oggi più che mai, a scegliere se essere l’ultimo terminale delle politiche rigoriste che dall’Ue ai governi nazionali precipitano sui beni comuni della popolazioni locali o se finalmente essere i primi rappresentanti del territorio e delle persone che lo abitano.
Renzi non è che il presente fine a se stesso, feroce e cinico come chi non conserva memoria e non immagina futuro. Alle donne e agli uomini dell’acqua, che un futuro non solo l’hanno chiaro ma lo pretendono per tutte e tutti, l’obiettivo di fermarlo.
Marco Bersani è componente del Forum italiano dei movimenti per l’acqua
Tutta mia la città. Forse è questa la bella sensazione che hanno provato le centinaia di migliaia di persone arrivate ieri nella capitale da ogni dove d’Italia. Perché c’erano loro, con i canti, gli slogan, i sorrisi, i balli, le parole d’ordine, i “cordoni”, i megafoni. E intorno il silenzio di una città serena, anche “complice”. Non diremo che è stata una bellissima giornata di sole, né che Roma ha ricevuto come se niente fosse un popolo immenso. Questo lo sanno già tutti perché persino le tv più filo-renziane hanno dovuto arrendersi di fronte all’evidenza dei fatti: una manifestazione sindacale, di ragazze e di nonni, di studenti e di precari, di lavoratori e di militanti, di immigrati e partite Iva che ha invaso gioiosamente, pacificamente le strade romane.
Vediamo invece che cosa la piazza della Cgil ha messo davanti agli occhi di tutti gli italiani.
In primo luogo la ricchezza della rappresentanza. Mille realtà e infiniti volti del lavoro raccontati dai cartelli delle categorie, a indicare la presenza del sindacato anche dove non te lo saresti aspettato (guardie gialle, penitenziarie…). Una conferma, confortante, del radicamento sociale del sindacato contro il luogo comune che lo dipinge come la casta dei burocrati.
Perché si è mobilitato il lavoro vivo. Vero. E se doveva essere una prova di forza, l’esito di questo 25 ottobre ci dice che è pienamente riuscita. Nonostante le critiche, talvolta giustificate, di vetero sindacalismo, di incapacità di includere i più giovani e i meno garantiti, di non avere gli strumenti per coagulare intorno a se un’opinione forte e in grado di oltrepassare gli steccati sindacali, ebbene ieri la Cgil ha dimostrato che questi limiti non hanno modificato i sentimenti più profondi e più forti del sindacato italiano.
Ma quella breve distanza che divide Roma da Firenze, ieri è diventata abissale. Perché mentre Renzi rivendicava a sé e alla Leopolda la forza di creare lavoro (e stendiamo un velo su chi ha fatto da contorno alla corte del giovane premier che ama gli yesman), ieri a piazza San Giovanni c’era la gente che lavora sul serio, e tanta altra gente che il lavoro lo vorrebbe concretamente, non solo nei programmi e nelle promesse. Perché mentre a Firenze lo sponsor (e finanziatore) di Renzi, il finanziere Serra, sosteneva che andrebbe vietato lo sciopero nel pubblico impiego (ma non si vergogna un po’ il segretario del partito democratico — ripeto: partito democratico — ad avere simili supporter?), qui a Roma sfilavano donne e uomini che reclamavano la tutela di un diritto costituzionale.
E’ possibile che tra i sostenitori (compresi parlamentari e ministri) molti non condividano i valori rappresentati ieri da quella massa enorme di cittadini italiani. Ed è altrettanto probabile che il distacco tra i due mondi (assai poco virtuale) non venga colmato, se non in parte, da quei politici della sinistra Pd che a fatica cercano di tamponare la deriva liberista della più grande forza di centrosinistra.
Ora si va verso lo sciopero generale. Invocato dalla piazza che ha alzato il volume dell’applausometro quando la segretaria Camusso lo ha evocato, insieme alla richiesta di una patrimoniale per gli investimenti pubblici.
E di fronte all’abbraccio tra Camusso e Landini, di fronte al “partito di lotta” che unisce tutta la sinistra del lavoro, Renzi commetterebbe un grave errore se pensasse di cavarsela con un twitter o una battuta. Farebbe meglio a prendere atto che ieri, improvvisamente — ma non troppo — la parola sinistra, irrisa e desueta, ha ripreso vita e si è fatta largo in modo prorompente riconquistando lo spazio sociale, politico, culturale che qualcuno vorrebbe negarle.
Possiamo sbagliarci, ma vedendo il corteo ci siamo convinti che una sinistra di popolo, consapevole, fortificata dalla capacità di resistere alla durissima prova della crisi, ha ripreso pienamente il suo diritto di cittadinanza
La Repubblica, 27 ottobre 2014
Matteo Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi. Non è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale "partito" guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un "ri-partito". Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d'ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il "suo" partito guarda avanti. E, per questo, non ha un "popolo" specifico di riferimento. Ma sa "contro" chi muovere. Anche perché i suoi "nemici", per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come "nemici" contro cui mobilitarsi.
Il PdR, per questo, si definisce "in opposizione all'opposizione". Ai "nemici", che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli "altri". Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha "convocati" alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e "contro" coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E "contro" la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende «concertare». Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.
Il primo riguarda l'identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l'ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all'innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di "un certo ceto intellettuale" (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.
In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono molta-moltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.
Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia "abolito" il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la "ditta". In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi "nonostante" il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd "nonostante" Renzi.
Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un "anti-partito", raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del "nuovo" ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.
La Repubblica, 23 ottobre 2014
Il modello "Macy's" ha i suoi rischi se applicato alla politica È illusorio Leopolda il nuovo Partito democratico si appresta a diventare il Partito della nazione. Un partito sulla cui forma si stanno sbizzarendo in tanti, sia al suo interno si a all'esterno. Per i suoi promotori e sostenitori, il nuovo Partito democratico dovrà avere un look americano come Big Tent, una grande tenda sotto la cui ombra sostano diverse anime e diversi movimenti, non sempre congruenti tra loro negli interessi e nelle idee, benché desiderosi di stare sotto a quell'ombrello e non a un altro ( almeno temporaneamente) .
Basta essere democratici per aderirvi, come era nelle intenzioni del fondatore del Partito democratico, Walter Veltroni, che scelse non a caso un nome "costituzionale", se così si pub dire. L'aggettivo 'democratico" prefigura un'ampia inclusione giocando proprio sulla connotazione poco strutturata pensare di superare la competizione inglobando i potenziali alleati del termine democrazia che, come sappiamo, a parte alcune basilari procedure e il suffragio elettorale, lascia ciascuno libero di interpretarlo a modo suo. La natura del partito sarà altrettanto inclusiva e vaga dell'aggettivo che lo designa.
Sembra di capire che il modello post-partitico e da department store sia il segno che il nuovo Pd voglia essere a tutti gli effetti simile a un partito americano. Ma le differenze non mancano e non sono di poco conto. Almeno una differenza deve essere messa in evidenza: la Big Tent del partito americano è tenuta in piedi e insieme da una colla ideologica antagonistica molto forte. Vera o creata ad arte, la polarizzazione è la pratica permanente nell'arena americana ( in questi anni in particolare) la quale, nonostante tutto, resta strutturata per contrapposizione ideologica. Anche se l'elettore medio è poco o nulla di parte, e i partiti cercano leader poco di parte per attirarne il voto, i due partiti americani restano nemici, antagonisti, opposti su molte posizioni (con lealtà tramandate di padre in figlio).
Il manifesto, 25 ottobre 2013
Eppure, per segnare la differenza e la distanza tra chi oggi sarà in piazza San Giovanni a Roma e chi andrà ad applaudire Renzi alle ex stazione Leopolda di Firenze si potrebbe più semplicemente dire che da una parte sfilerà l’opposizione dall’altra il governo o, se preferite, da una parte la sinistra e dall’altra la destra. Parole che stavolta si possono declinare sulla linea Maginot della difesa dei lavoratori.
E’ sinistra chi per uguale lavoro chiede uguale retribuzione, è destra chi con il Jobs act prevede il demansionamento. E’ sinistra chi al contratto a termine pone il vincolo di una causale, è destra chi toglie anche quella. E’ sinistra chi per il licenziamento prevede una giusta causa, è destra chi la cancella. E’ sinistra chi misura con il salario operaio la diseguaglianza sociale, è destra chi sceglie l’impresa come riferimento. Per una volta siamo pienamente d’accordo con la sempre sorridente ministra Elena Boschi, madrina della kermesse renziana, quando sottolinea orgogliosamente «noi siamo un’altra Italia rispetto alla Cgil».
Ma il Pd di governo che si riunisce a Firenze per celebrare il suo 40 per cento farebbe bene a riflettere su un piccolo problema. Molti, moltissimi di quelli che oggi sfileranno in corteo per le strade della capitale sono elettori dello stesso partito di Boschi e compagni. Anche se è vero, come ci dicono gli esperti di sondaggi, che il fenomenale consenso di Renzi sfonda grazie a un elettorato di centrodestra con abbandoni nel mondo di sinistra. In ogni caso siamo in presenza di una plateale spaccatura — fisica, politica, culturale — tra il raduno fiorentino e la manifestazione sindacale. Una divisione a lungo costruita con un netto spostamento del partito democratico verso i sogni della Confindustria, contro le lotte del sindacato.
Naturalmente non sarà solo tutto potere e finanza ad animare l’incontro fiorentino, né solo oro quello che brillerà in piazza San Giovanni. L’imprenditore non è sinonimo di Marchionne, e i lavoratori non sono tutti iscritti alla Cgil o alla Fiom. D’altra parte la Cgil non è stata in questi anni un sindacato capace di interpretare lo sconvolgimento del mercato del lavoro, né di rappresentare l’immenso esercito di riserva del precariato. Come del resto ha ammesso la stessa segretaria Camusso («è stato un grave errore di valutazione, non pensavamo che il precariato sarebbe dilatato in questo modo»). E un sindacato che non capisce l’arrivo della tempesta, fatalmente non riesce poi nemmeno a farsi argine e a rilanciare la battaglia del lavoro sulla nuova frontiera della micidiale globalizzazione.
Tuttavia c’è un milione di ragioni per essere oggi in piazza. Ragioni contingenti (la manovra economica e le pessime leggi sul mercato del lavoro), ragioni ideali (una memoria da custodire e un futuro da costruire), ragioni politiche (una sinistra da rifondare).
Noi del manifesto saremo tra i manifestanti con il nostro giornale in edizione speciale. Saremo in edicola come sempre, ma anche in piazza con decine di “strilloni” per diffondere insieme al manifesto anche un inserto di otto pagine (che distribuiremo gratuitamente) dedicato all’articolo 18, con interviste, analisi, testimonianze: un diritto di chi lo ha usato per difendere il posto di lavoro, di chi, precario, non ce l’ha ma lo vorrebbe e oggi è in piazza per difenderlo. Un contributo alla battaglia comune, un gesto concreto di solidarietà e di vicinanza, frutto dell’impegno del nostro gruppo di lavoro. Un piccolo contributo per una grande, decisiva battaglia di democrazia.
E un contributo anche contro la disinformazione. Perché sui quotidiani amici di Renzi (tanti, troppi), sui telegiornali proni (tanti, troppi) nei confronti del premier si è voluto far passare l’idea che l’articolo 18 è un affare di pochi, mentre il governo vuole estendere i diritti ai più. Questa è una falsità, una bugia, una presa in giro. Siamo anche pronti a scommettere che la Leopolda verrà raccontata dai media nazionali e locali per filo e per segno, con articoli di gossip, retroscena, curiosità. Sapremo tutto sui sorrisi e sugli abbracci, sui twitter del premier, sui parvenu filo renziani in cerca di uno strapuntino, sui «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado», ma che poi preferiscono esserci perché lì, a Firenze, c’è il nuovo potere e non si sa mai.
Noi del manifesto, più modestamente, riporteremo le voci di chi solitamente è senza voce. Delle donne e degli uomini, dei giovani e degli anziani che si battono per la loro dignità. E per quella di tutti. Compresi i leopoldini.