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«Uno Stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elet­to­rale, ha diritto ad essere descritto da un mar­rano della sto­ria del mondo» Non solo volgarità, ma demolizione della democrazia rappresentativa.

Il manifesto, 17 novembre 2014, con postilla

«Un vin­ci­tore certo la sera delle ele­zioni», que­sta è la filo­so­fia vaga­mente cre­pu­sco­lare che ispira l’accordo del Naza­reno e ora riba­dita nel testo finale siglato dopo l’ennesimo incon­tro. Già qui, nel rie­cheg­giare come cul­tura isti­tu­zio­nale i versi di Ed è subito sera, sor­gono pro­blemi enormi di inter­pre­ta­zione poli­tica. Il nome Ita­li­cum è appro­priato al con­ge­gno in via di per­fe­zio­na­mento per­ché trat­tasi di un rime­dio da stra­paese. In nes­sun sistema poli­tico, di antica o nuova costi­tu­zione, la volontà di pre­de­ter­mi­nare un vin­ci­tore per­viene ad esiti così grotteschi.

La gover­na­bi­lità come mito assume al Naza­reno inquie­tanti tinte cre­pu­sco­lari. Ed è la sera della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva quella che si annun­cia con l’apporto crea­tivo di due simili rifor­ma­tori. Nes­sun sistema elet­to­rale al mondo attri­bui­sce la vit­to­ria certa per­ché è solo attra­verso la defi­ni­zione della rap­pre­sen­tanza che si espri­mono le forme di governo.

Se entro la scelta della rap­pre­sen­tanza nes­suno ce la fa ad otte­nere la mag­gio­ranza asso­luta dei seggi, si fa ricorso a coa­li­zioni. Avviene così in tutta Europa. In Ger­ma­nia ci hanno fatto ormai il callo. E per­sino nel pre­teso uni­verso del bipar­ti­ti­smo per­fetto, che è l’Inghilterra, vige un governo di coalizione.

Un vin­ci­tore certo si ha solo con l’elezione diretta di una carica mono­cra­tica. Ma, in un regime par­la­men­tare, non può esi­stere la simu­la­zione di una ele­zione diretta del governo senza con ciò pro­cu­rare pro­fonde distor­sioni e palesi for­za­ture isti­tu­zio­nali. L’Italicum con­ti­nua invece a mar­ciare nella via fal­li­men­tare di un pre­si­den­zia­li­smo di fatto. E, a sor­reg­gere que­sto pre­si­den­zia­li­smo masche­rato, risulta del tutto fun­zio­nale la scom­parsa delle cir­co­scri­zioni uni­no­mi­nali e il mal­trat­ta­mento delle pre­fe­renze. I nomi­nati sono privi di auto­re­vo­lezza e auto­no­mia poli­tica, per­ché nel dise­gno dei rifor­ma­tori pro­prio così ser­vono: sem­plici numeri a fare da con­torno. Essi com­pa­iono come equi­va­lenti degli eletti alle con­ven­tion nei regimi pre­si­den­ziali. Fanno cioè da accom­pa­gna­mento sce­no­gra­fico ad un capo che pre­sume (e nel caso ita­liano si tratta solo di pre­sun­zione) di avere un con­tatto mistico con il popolo.

Il con­ge­gno del Naza­reno, che pre­vede 100 cir­co­scri­zioni con altret­tanti capi­li­sta bloc­cati, è l’espediente mal­de­stro per con­sen­tire al capo di affi­darsi a per­sone ad ele­vata fedeltà e com­pro­vato spi­rito di ser­vitù. Que­sta logica di un domi­nio a base pri­vata peral­tro non risponde in alcun modo alle obie­zioni che hanno indotto la Con­sulta alla pro­nun­cia di inco­sti­tu­zio­na­lità della vec­chia legge elet­to­rale Cal­de­roli. Infatti, con il ritro­vato delle 100 cir­co­scri­zioni, si per­viene, sulla base degli attuali rap­porti di forza, a nomi­nare senza alcuna scelta degli elet­tori circa 450 depu­tati (300 per i tre grandi par­titi, circa 60 per la Lega e tutti gli eletti dei cespu­gli che var­cano la soglia del 3 per cento).

Le pre­fe­renze rein­tro­dotte riguar­de­reb­bero, nel migliore dei casi, non più di 200 depu­tati. Va aggiunto poi che il ricorso a micro cir­co­scri­zioni non incen­tiva in alcun modo il rap­porto diretto tra il ter­ri­to­rio e il sin­golo par­la­men­tare. Infatti sem­bra che nel con­ge­gno in gesta­zione non è dalla vit­to­ria nei ter­ri­tori che si aggiu­dica il seg­gio, deter­mi­nando dal basso la gover­na­bi­lità. Ma è dalla quota nazio­nale spet­tante a cia­scuna lista che si per­viene poi alla ripar­ti­zione nei vari col­legi plu­ri­no­mi­nali dei seggi spet­tanti. E que­sto attri­buire i seggi dall’alto è dav­vero para­dos­sale. Manca ogni col­le­ga­mento tra la volontà dell’elettore e l’esito della com­pe­ti­zione nella sua circoscrizione.

Un can­di­dato potrebbe per­sino rag­giun­gere la mag­gio­ranza asso­luta dei voti nel pro­prio col­le­gio e però non agguan­tare il seg­gio se la sua lista poi non supera lo sbar­ra­mento nazio­nale. E ci sareb­bero cir­co­scri­zioni con un eser­cito di eletti ed altre con il rischio di risul­tare sot­to­rap­pre­sen­tate. Insomma, un guaz­za­bu­glio. Un con­cen­trato così informe di filo­so­fie elet­to­rali cre­pu­sco­lari e di improv­vi­sa­zione tec­nica che si spinge ai limiti del dilet­tan­ti­smo terrà bloc­cata la poli­tica per altri mesi ancora.

Un afo­ri­sma di Kraus rende bene il senso dell’occupazione ren­ziana dell’agenda poli­tica con obiet­tivi fasulli di riforma isti­tu­zio­nale (dal senato a costo zero all’Italicum). «Uno Stato che sull’orlo della tomba fa una riforma elet­to­rale, ha diritto ad essere descritto da un mar­rano della sto­ria del mondo»

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Se rileggiamo la poesia di Salvatore Quasimodo, il riferimento non è alla vittoria, ma alla disperazione: "Ognuno è solo sul cuore della terra// trafitto da un raggio di sole// ed è subito sera"

«». Il manifesto

Alla fine, chi comanda in Ita­lia? Uno, tutti, o nessuno? La domanda ci tor­menta da quando Renzi ha con vee­menza negato che ci sia un uomo solo al comando. Ma può acca­dere che l’uomo solo al comando ci sia, e tut­ta­via non comandi alcunché.

Il capi­tolo Ue si è chiuso senza grandi risul­tati per l’Italia, e le scher­ma­glie ver­bali che con­ti­nuano – l’ultima con Junc­ker – sono puro tea­tro. I trion­fa­li­smi gover­na­tivi sono stati rapi­da­mente spenti non da gufi e par­ruc­coni, ma dalle valu­ta­zioni Istat e Ban­ki­ta­lia. Le misure messe in campo non daranno risul­tati impor­tanti per la cre­scita, e soprat­tutto non ci saranno miglio­ra­menti in tempi brevi. Chi tiene la barra vuole cam­biare rotta, ma il timone non risponde.

E allora chi comanda, a chi? A nulla ser­vono gli inter­venti volti a con­cen­trare sulle stanze di Palazzo Chigi stru­menti di con­trollo appa­rente, come si fa quando si vuole ripor­tare la diri­genza pub­blica — con la riforma della Pub­blica ammi­ni­stra­zione — sotto l’ombrello della pre­si­denza del con­si­glio. Certo può ser­vire a raf­for­zare il pre­mier e la cer­chia a lui più vicina, inde­bo­lendo ancora un con­si­glio dei mini­stri popo­lato di esan­gui cori­sti. Ma è un potere spic­ciolo per l’uomo al comando che non comanda.

Inol­tre, Renzi non sem­bra con­si­de­rare che non basta il mero diniego, per quanto forti siano gli accenti, a riget­tare l’accusa di ecces­siva per­so­na­liz­za­zione. Né basta il con­senso di sedi di par­tito che non hanno più alle spalle un’organizzazione radi­cata negli iscritti e nel ter­ri­to­rio, sono dro­gate da sele­zioni popu­li­sti­che del ceto poli­tico come le pri­ma­rie aperte, vedono la mino­ranza interna ridursi alla pas­siva accet­ta­zione della lealtà alla ditta. Né basta il plauso di pla­tee di impren­di­tori attenti solo – come è per­sino giu­sto che sia – al pro­fitto delle pro­prie aziende e ai van­taggi che pos­sono trarre dalla bene­vo­lenza gover­na­tiva. Né ancora basta richia­mare un par­tito della nazione, con ciò impli­ci­ta­mente spin­gendo il dis­senso nella cate­go­ria del tra­di­mento piut­to­sto che del con­fronto neces­sa­rio con opi­nioni, idee, pro­getti di cui biso­gna tener conto. Né infine basta l’accusa che altri lavo­rino per spac­care il mondo del lavoro, e magari il paese, e rifiu­tare, con que­sta e altre fan­ta­siose moti­va­zioni, di sedersi a un tavolo in vista per la ricerca delle media­zioni possibili.

Come si può affer­mare che miri alla rot­tura chi vuole uguali – e mag­giori – diritti per tutti? O rite­nere che lavori invece per l’unità chi legge l’eguaglianza – pila­stro della Costi­tu­zione — come livel­la­mento verso il basso, minore dignità e qua­lità di vita, più debole difesa dei pro­pri diritti? È que­sto lo sce­na­rio verso il quale le scelte di governo ci stanno portando.

Il pre­mier è pale­se­mente infa­sti­dito che intorno al suo pro­getto non cre­scano entu­sia­stici e una­nimi con­sensi, e che anzi si pre­pari una sta­gione di forti con­tra­sti. Ma era scritto. Si pos­sono chie­dere a un paese sacri­fici anche gravi, che però i tweet o face­book non bastano a far metabolizzare.

Ci vor­reb­bero par­titi radi­cati, capaci di por­tare moti­va­zioni e capa­cità di con­vin­ci­mento dal ponte di comando ai luo­ghi di lavoro, nelle case, nelle fami­glie. Ma quei par­titi sono stati sman­tel­lati, con il plauso miope di molti. Ci vor­reb­bero orga­niz­za­zioni capil­lari come i sin­da­cati, con i quali ci si vanta invece di rifiu­tare ogni dia­logo. Ci vor­reb­bero isti­tu­zioni capaci di dare voce a tutte le posi­zioni, anche le più lon­tane, per­ché l’azione di governo ne tenga per quanto pos­si­bile conto. Invece, si fa l’esatto con­tra­rio, can­cel­lando spazi di rap­pre­sen­tanza, tagliando pre­senze poli­ti­che vitali con soglie di sbar­ra­mento e premi di mag­gio­ranza, ridu­cendo all’obbedienza i riot­tosi e dando all’esecutivo il con­trollo dei lavori parlamentari.

Quel che accade è quanto un certo costi­tu­zio­na­li­smo della crisi rite­neva e ritiene neces­sa­rio per fron­teg­giare l’emergenza eco­no­mica e il riag­giu­sta­mento delle ragioni di scam­bio tra nord e sud del mondo. Non fun­ziona, in spe­cie quando l’inversione di rotta nella crisi non è vicina come si spe­rava. Come si pensa di spie­gare, di con­vin­cere, di gover­nare e con­te­nere il males­sere sociale? Sono false le gioie di una poli­tica senza corpi inter­medi, par­titi, sin­da­cati. Non serve dare la sca­lata a un par­tito con il leve­ra­ged buy­out delle pri­ma­rie aperte. È mera rap­pre­sen­ta­zione tea­trale che basti l’investitura di un turno elet­to­rale per garan­tire a qual­siasi ese­cu­tivo una effet­tiva e dura­tura capa­cità di governo. Né ovvia­mente sup­pli­scono cari­che di poli­zia e man­ga­nelli. Che serve man­ga­nel­lare le spe­ranze perdute?

Renzi non può cavar­sela con le invet­tive o le com­par­sate tele­vi­sive. Dovrebbe leg­gere la Costi­tu­zione, a par­tire dall’art. 2 per cui la Repub­blica richiede l’adempimento dei doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica eco­no­mica e sociale. Se poi stu­diare la Costi­tu­zione fosse troppo, potrebbe leg­gere il discorso di Papa Fran­ce­sco ai Movi­menti popo­lari del 28 otto­bre. Soli­da­rietà – dice il Papa – «è anche lot­tare con­tro le cause strut­tu­rali della povertà, la disu­gua­glianza, la man­canza di lavoro, la terra e la casa, la nega­zione dei diritti sociali e lavo­ra­tivi … intesa nel suo senso più pro­fondo, è un modo di fare la storia … ».

È pro­prio que­sto ele­mento di soli­da­rietà che manca nel mes­sag­gio del pre­mier e nella azione di governo. Certo, non sarebbe poli­ti­ca­mente cor­retto che i Papi aves­sero tes­sere di par­tito. Del resto, a veder bene, se Papa Fran­ce­sco la chie­desse al Pd pro­ba­bil­mente gliela rifiu­te­reb­bero. È un comunista

«Le ragioni di un’opposizione comune allo sfa­celo demo­cra­tico pre­val­gono per­sino, all’inizio, su quelle del pro­getto rin­no­va­tore. Più che altro si tratta di difen­dere la pos­si­bi­lità di un futuro, non di sal­vare e pro­se­guire un digni­toso passato».

Il manifesto, 13 novembre 2014

For­tu­na­ta­mente, dopo mesi di appros­si­ma­zioni e di con­fu­sione, il qua­dro poli­tico ita­liano si è ine­qui­vo­ca­bil­mente chiarito.

Su di un primo ver­sante, sap­piamo ormai con asso­luta cer­tezza di essere gover­nati da una com­pa­gine per certi versi poli­forme ma, senza ombra di dub­bio, com­ples­si­va­mente e stra­te­gi­ca­mente, di centro-destra. Che lo sia dal punto di vista delle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali (Jobs act, e quant’altro), lo hanno argo­men­tato e dimo­strato molti auto­re­voli com­men­ta­tori, soprat­tutto, et pour cause, sulle colonne di que­sto gior­nale (ma, a dir la verità, non solo). Vor­rei però aggiun­gere qual­cosa in merito alle ten­denze politico-culturali cui si ispira in pro­fon­dità il nostro governo.

È vero, abbiamo all’inizio sot­to­va­lu­tato Mat­teo Renzi, scam­bian­dolo per un pic­colo avven­tu­riero di pro­vin­cia. Forse lo è, e lo resta; ma nelle dimen­sioni e carat­te­ri­sti­che della crisi ita­liana, la sua sta­tura tende indub­bia­mente a cre­scere. Ad esem­pio: la «rot­ta­ma­zione». Sem­brava una bat­tuta pro­pa­gan­di­stica per far fuori, anche agli occhi di un’opinione pub­blica stanca e disin­can­tata, la vec­chia diri­genza di centro-sinistra.

Renzi non si limita ad auspi­care e per­se­guire la rot­ta­ma­zione della vec­chia diri­genza del centro-sinistra. Renzi auspica e per­se­gue la rot­ta­ma­zione di tutto il «sistema» che secondo lui l’avrebbe pro­dotta e resa pos­si­bile:

- la pri­ma­zia del par­la­mento sul governo;
- la sepa­ra­zione dei poteri;
- l’organizzazione col­let­tiva e comu­ni­ta­ria della poli­tica (vulgo, i par­titi, o quant’altro al loro posto);
- il rispetto delle mino­ranze e l’attenzione nei loro con­fronti;
- la dia­let­tica politica/cultura (capi­rai: gli «intel­let­tuali»…).
Insomma, quanto fu ela­bo­rato e sta­tuito nella nostra «vec­chia» Costi­tu­zione, a ridosso della cata­strofe fasci­sta, allo scopo pre­ci­puo di ren­derne impos­si­bile la resur­re­zione in qual­siasi forma.

Né più né meno, dun­que, che il pro­gramma di Sil­vio Ber­lu­sconi, ma radi­ca­liz­zato ed effi­ca­ciz­zato dal fatto di por­tarlo avanti non da una posi­zione di destra, - lad­dove appa­riva troppo sco­per­ta­mente per quel che era, e cioè un pro­gramma di destra, - ma da una posi­zione di centro-sinistra, - lad­dove può più facil­mente esser gabel­lato per quel che non è, e cioè, un pro­gramma rifor­ma­tore di centro-sinistra. Ma non c’è solo questo.

Recen­te­mente ho assi­stito alla pro­ie­zione di un bel­lis­simo docu­men­ta­rio sui rap­porti fra lin­gua ita­liana e fasci­smo, pro­dotto dall’Istituto Luce ed ela­bo­rato da una lin­gui­sta del cali­bro di Vale­ria della Valle. Il docu­men­ta­rio s’intitola: «Me ne frego», ripren­dendo uno sti­lema clas­sico, uno ste­reo­tipo esem­plare, del modo di par­lare, e dun­que di pen­sare, del fasci­smo. Visio­nando il docu­men­ta­rio, mi è acca­duto di pen­sare che ogni­qual­volta in Ita­lia c’è una pro­fonda crisi delle isti­tu­zioni e degli assetti poli­tici pre­ce­denti il lea­der che mira a impa­dro­nirsi senza remore né con­di­zio­na­menti del gioco, adotta men­tal­mente, prima che lin­gui­sti­ca­mente, il motto fasci­sta «Me ne frego».

È inne­ga­bile altresì che tale modo di pen­sare e di espri­mersi, quando si è in pre­senza, ripeto, di una pro­fonda e reale crisi delle isti­tu­zioni e degli assetti poli­tici pre­ce­denti, risulta estre­ma­mente sedut­tivo presso le masse popo­lari ita­liane diso­rien­tate e scon­fitte. Del resto il «Vaff…» di Grillo appar­tiene, più o meno, alla stessa spe­cie, - men­tale e oggi, ahimè, anche poli­tica (su que­sto si potrebbe e dovrebbe aprire un lungo discorso di natura storico-culturale, che riman­diamo a un tempo migliore).

Una prima con­si­de­ra­zione che si può trarre da que­sta som­ma­ria rico­stru­zione degli eventi è che non ci si può opporre, - come giu­sta­mente occorre fare, - alla rot­ta­ma­zione del sistema democratico-costituzionale, senza cogliere al tempo stesso, e denun­ciare, e chie­derne il supe­ra­mento, di tutte le sue, attual­mente, incom­pa­ra­bili defi­cienze e brut­ture e insuf­fi­cienze, e tal­volta inde­scri­vi­bili, sovru­mane defail­lan­ces. Il rin­no­va­mento, se dev’essere con­ce­pito e pas­sare, passa per due fronti, con­tem­po­ra­nei e con­ver­genti, non alter­na­tivi: la lotta con­tro la ten­denza auto­ri­ta­ria, lea­de­ri­stica, filo­pro­prie­ta­ria, del ren­zi­smo; e la lotta con­tro le dege­ne­ra­zioni ende­mi­che e in taluni casi il vero e pro­prio spap­po­la­mento del sistema democratico-costituzionale, che, in linea di prin­ci­pio, vor­remmo difen­dere. Chi separa le due cose, va alla sconfitta.

Nel secondo ver­sante, è emersa nel paese, nel corso degli ultimi mesi, una con­si­stente resi­stenza di natura sociale. Ma guarda un po’: il lavoro, i lavo­ra­tori, la classe ope­raia… O non erano azzit­titi per sem­pre, anzi sep­pel­liti, da un bel pezzo? Pare di no. E quest’osso è duro da rodere, non si sbri­ciola, come è acca­duto ad altri, facil­mente. Anche il fatto che la Cgil, i sin­da­cati, siano scesi (siano stati costretti a scen­dere?) in campo è un dato tutt’altro che irri­le­vante. E a que­sto pro­po­sito: le puzze sotto il naso in que­sta fase sto­rica, sono da con­si­de­rare mor­tali, e per­ciò evi­tate con la mas­sima cura. E que­sto soprat­tutto quando entra in gioco quell’elementare prin­ci­pio discri­mi­nante, per cui si sta o da una parte o dall’altra. E qui, in que­sto momento, l’aspetto deter­mi­nante, deci­sivo, è stare ine­qui­vo­ca­bil­mente o da una parte o dall’altra.

Certo, un’opposizione sindacal-sociale senza un’opposizione poli­tica è un’opposizione monca, inde­bo­lita pro­prio sul ter­reno, quello parlamentar-governativo, sul quale nei pros­simi mesi acca­dranno cose deci­sive (la legge elet­to­rale e, mas­simo dei mas­simi, l’elezione del pros­simo Pre­si­dente della Repub­blica). Qui vor­rei dire una cosa inu­tile ma dove­rosa. Desta stu­pore, e indi­gna­zione, che la massa degli eletti Pd alla camera e al senato (non parlo di alcune ristrette mino­ranze ma, pre­ci­sa­mente, della grande massa degli iscritti eletti), man­dati a gover­nare il paese con una diversa mag­gio­ranza di par­tito e con un diverso, diver­sis­simo pro­gramma, abbia seguito, e accom­pa­gnato, l’instaurazione a capo asso­luto di Mat­teo Renzi, e poi le sue alleanze, ipo­tesi isti­tu­zio­nale e costi­tu­zio­nali, e per­sino la fredda distru­zione del loro stesso par­tito, il Pd, con la pas­si­vità più assoluta.

Evi­den­te­mente la dege­ne­ra­zione pre­cede la rot­ta­ma­zione e l’aiuta, anzi, da un certo momento in poi, non solo la giu­sti­fica ma la rende neces­sa­ria. Se non si riparte con il mas­simo del rigore dalla for­ma­zione delle éli­tes poli­ti­che, e dalle loro nuove per­sua­sioni e abi­tu­dini, anche in que­sto caso non si cava un ragno dal buco.

Tutto ciò, com’è evi­dente, non fa che ripren­dere con­si­de­ra­zioni e ammo­ni­menti che cir­co­lano ormai da tempo nel campo della sini­stra non (ancora?) logo­rata, o non del tutto, dal con­tatto con il potere. Che sia arri­vato il momento di ridare vita a una Camera di con­sul­ta­zione della sini­stra, spe­rando che que­sta volta non ci sia qual­cuno che la manda in vacca per assi­cu­rarsi una vec­chiaia decente, anzi di grande benes­sere economico?

Oppure esi­stono le con­di­zioni per con­vo­care, più ambi­zio­sa­mente (e forse pre­ma­tu­ra­mente) una vera e pro­pria Costi­tuente della sini­stra? Ma anche qui: tutto inu­tile, se si tenta di farla pas­sare per la cruna dell’ago di un’estrema coe­renza ideo­lo­gica e sto­rica. Le ragioni di un’opposizione comune allo sfa­celo demo­cra­tico pre­val­gono per­sino, all’inizio, su quelle del pro­getto rin­no­va­tore. Più che altro si tratta di difen­dere la pos­si­bi­lità di un futuro, non di sal­vare e pro­se­guire un digni­toso passato.

P.S. Last but no least: «il mani­fe­sto». Io dico: se non ci fosse, tutto quello che s’è detto finora, e che altri come noi dicono e fanno, e diranno e faranno, non avrebbe né senso né dimen­sione. Que­sta per­sua­sione deve pas­sare «per li rami», dif­fon­dersi uni­ver­sal­mente, arri­vare a tutti quelli che lot­tano, e da lì ripar­tire per tor­nare al gior­nale, inso­sti­tui­bile tri­buna e pale­stra di una sini­stra nono­stante tutto ancora in movimento. Spe­riamo che in molti con­di­vi­dano quest’appello che parte dal gior­nale e, coe­ren­te­mente con quello che fanno nelle lotte sociali e poli­ti­che, si com­por­tino di conseguenza.

Perfino nella regione italiana celebrata per il tradizionale buongoverno il decadimento morale degli eletti è causa rilevante del distacco dei cittadini dalla politica dei partiti.

La Repubblica, 12 novembre 2014

LA CRISI di legittimità della politica sta raggiungendo il suo acme. E non in un luogo qualsiasi del paese, ma in Emilia-Romagna, quella parte d’Italia dove dal 1945 la sinistra ha conquistato credibilità sul campo, con le opere invece che con la dottrina, ovvero per le capacità dei suoi amministratori e politici di costruire e preservare il buon governo delle città. Le istituzioni sane e le politiche sociali efficaci sono state il fiore all’occhiello della sinistra emiliana, nei fatti socialdemocratica e pragmatica. Oggi, nemmeno quel lascito e quella memoria basteranno a convincere molti elettori e molte elettrici a votare, nonostante tutto. Sono quarantuno i consiglieri regionali dell’Emilia-Romagna indagati dalla magistratura per aver, si dice, effettuato spese ingiustificate con i soldi pubblici, travisandole come rimborsi per lo svolgimento del servizio politico, anche quando si trattava a tutti gli effetti di spese private o privatissime.

Certo, si tratta di accuse da provare, non di condanne. E i consiglieri indagati hanno tutto il diritto di contestare le accuse e di chiedere che si faccia subito luce. Ma la politica è fatta prima di tutto di immagini, di percezioni costruite dall’opinione pubblica, di fiducia non cieca ma ragionata. Un sentimento difficile da creare e consolidare, e allo stesso tempo molto facile da incrinare e demolire. Anche per il “popolo delle feste dell’Unità” (che è stato immortalato in un film-documentario appena uscito, proprio a ridosso di queste difficilissime elezioni regionali in Emilia-Romagna) sarà difficile dimenticare tutto questo. Nemmeno una lunga storia di appartenenza e passione servirà a fermare la caduta di fiducia, che non attenderà la fine delle indagini. La sfiducia è diffusa e palpabile nell’opinione pubblica. Spiegabile anche con il fatto che nella sinistra italiana, locale e nazionale, non è si è mai affermata l’abitudine di votare turandosi il naso. Perché nella sinistra non si è mai, per fortuna, coltivata l’abitudine di giustificare il basso profilo morale dei politici: un fatto che è e deve restare eccezionale, che non può essere consueto e soprattutto così esteso.

La storia dell’uso opinabile delle risorse pubbliche da parte dei consiglieri regionali dell’Emilia- Romagna non è recente. Alcune avvisaglie emersero già un anno fa quando vennero alla luce, era l’estate del 2013, le prime notizie su interviste a pagamento che alcuni esponenti locali coprirono con i soldi pubblici: soldi impiegati non per informare i cittadini, come avrebbe dovuto essere, ma per promuovere la propria immagine. Da allora, le indagini sono andate avanti e hanno colpito i diretti interessati pochi giorni prima delle elezioni regionali. Certo, non hanno coinvolto solo i politici del Pd, ma di tutti i partiti. Però questo argomento non vale come attenuante; è semmai un’aggravante. Perché una delle ragioni sulle quali il Pd ha consolidato la propria immagine, anche nel ventennio berlusconiano, è stata proprio la maggiore dirittura morale dei suoi politici, la loro serietà. Oggi, questa immagine si è molto offuscata. E il fatto che il Pd sia di fatto senza rivali non è d’aiuto. È anzi un peso, un ostacolo, che dimostra ancora una volta come la competizione e il pluralismo politico siano essenziali per una buona democrazia elettorale. Una classe politica che guadagna più dal non avere rivali credibili che dall’avere un proprio endogeno valore è un segno negativo che può favorire il senso di impunità, spingendo verso il basso il valore dell’intera classe politica.

E per molti elettori sarà più che difficile far finta di nulla e votare come se tutto vada nel migliore dei modi. Le insoddisfazioni per un percorso politico sempre meno lineare si sono manifestate già nel corso delle ultime primarie nel Pd che hanno eletto Stefano Bonaccini come candidato alla presidenza della regione. In quell’occasione, si è registrata una partecipazione irrisoria, di poche migliaia di iscritti o elettori. Certo, il numero dei voti è alla fine quel che conta quando si tratta di decretare chi vince e chi perde. Ma il basso numero dei votanti rappresenta un sintomo di malessere che è difficile da ignorare. Un segno di declino di legittimità morale che è gravissimo. Queste recenti notizie danno credito alle previsioni su un’astensione in massa nella regione che un tempo vantava la più alta partecipazione al voto su scala nazionale. Anche perché non c’è un’alternativa politica capace di attrarre consensi. Su questa strada a senso unico, i politici si adagiano e ostentano sicurezza. Sanno che a loro non c’è alternativa. D’altra parte, il non voto, l’astensione sarà (lo è nei sondaggi) il segno che agli elettori non resti davvero molta opportunità di scelta. Quello dell’Emilia- Romagna è certo un caso estremo di una crisi della rappresentanza politica e partitica che sembra irreversibile.

Un evidente caso di manipolazione dell'informazione e di conflitto di interesse: dopo il flop per i ritardi, gli unici articoli indulgenti sono sul "Messaggero" che è il quotidiano del costruttore coinvolto nei lavori».

Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2014

Nel gergo dei giornali il “buco” è una notizia bella grossa che i concorrenti hanno in pagina e di cui in redazione nessuno si è accorto. Capita, purtroppo, è uno degli incerti del mestiere e non fa mai piacere. Da ultimo è capitato al Messaggero, giornalone romano sempre bene informato sui fatti della capitale. Al Messaggero non si sono accorti che la tanto sospirata inaugurazione della linea metropolitana C da Pantano a Centocelle all'alba di domenica 9 novembre è stata una specie di festa al cardiopalma con brivido incorporato perché il primo treno, quello con a bordo le autorità cittadine e i capoccioni responsabili dell'opera, non è manco riuscito ad arrivare al capolinea, ma si è mestamente adagiato sui binari quattro fermate prima del dovuto. Mentre tecnici e responsabili dell'inaugurazione rischiavano l'infarto, il convoglio è rimasto in panne per ben undici minuti. E considerando che si tratta di un treno “driveless”, senza guidatore a bordo, quella sosta imprevista è apparsa il prodromo di una colossale figuraccia, l'ennesima maledizione della Metro C, un'opera sfigata, nata male e cresciuta peggio.

Tutti si sono ovviamente accorti del guasto che era una bella notizia dal punto di vista giornalistico, anche se poi l'inconveniente è stato superato. E infatti ne hanno parlato tutti, dai giornali alle televisioni alle agenzie di stampa ai siti web. Con accenti diversi, naturalmente, con più o meno enfasi, con toni più o meno preoccupati, più o meno sorpresi. L’unico giornale che non ha visto né sentito è stato proprio il quotidiano principe della cronaca romana, Il Messaggero, che ha presentato l'inaugurazione della metro C come una radiosa festa senza nubi, tutta sorrisi e selfie. E il buco è apparso così vistoso che si fa fatica a capire che cosa sia successo in redazione.

A meno che non si voglia pensar male. Perché Il Messaggero è il giornale di Francesco Gaetano Caltagirone, uomo d'affari potente e ricchissimo che non è solo un editore, ma anche un costruttore, un immobiliarista, un finanziere. E pure il socio più influente del Consorzio metro C, il raggruppamento di imprese a cui il comune di Roma il 13 aprile 2006 affidò il compito di costruire la nuova metropolitana romana. Caltagirone possiede con la Vianini il 34,5 per cento della società, la stessa quota del gruppo Astaldi, mentre gli altri soci sono comprimari: Ansaldo 14 per cento, Cooperative 17 (Cmb 10 più Ccc 7). Ma mentre negli ultimi tempi Astaldi sembra sempre più prudente, considerato il bailamme che accompagna l'opera, Caltagirone ha moltiplicato i suoi sforzi con il presidente del consorzio, l'ingegner Franco Cristini. Insomma, la metro C è sempre più Caltagirone dipendente. Visto da questa angolazione e volendo malignare, il buco del Messaggero non sarebbe un buco vero, ma un autobuco, un autogol, il deliberato occultamento di una notizia che al padrone non piace.

Tutti si augurano, ovviamente, che l'improvvido guasto dell’inaugurazione resti un episodio circoscritto ed isolato. Anche se i guai strutturali della metro C sembrano tutt'altro che superati. Proprio nel giorno del viaggio inaugurale, infatti, sono spuntati nuovi inconvenienti, di cui finora nessuno si era accorto. Un assessore comunale, Luca Pancalli, che da paraplegico ha un’attenzione speciale per le esigenze dei portatori di handicap, ha fatto notare che “il dislivello tra i treni e la banchina crea problemi per i disabili”. Che non sembra un problemino, per la verità. E poi ci sono i mille giganteschi difetti elencati negli ultimi mesi dal Fatto Quotidiano. Prima di tutto i costi, cresciuti del 75 per cento, da 1,9 miliardi di euro a 3,3 da Pantano a piazza Venezia.

«Sopra quella galleria Ripoli ha iniziato a muoversi da quando sono partiti i lavori, perché una antica frana ha preso a muoversi diversi centimetri al mese. Nel 2011 un comitato di cittadini aveva chiesto di fermare i lavori e ripensare il tracciato. Ma Autostrade per l’Italia è andata avanti, forte del sostegno delle istituzioni». Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2014

Ripoli (Bologna). A Ripoli quella di ieri è stata una giornata come le altre. La pioggia, l’umido, la nebbia sulle cime dell’Appennino a creare un paesaggio mozzafiato. E poi quelle case sbarrate e sgomberate, le crepe sui muri, gli edifici imbragati, la chiesetta interdetta ai fedeli. A valle, dentro quella galleria che è andata a risvegliare la frana su cui il paesino poggia, si è fatto festa. Ieri è arrivato il premier Matteo Renzi che ha partecipato alla cerimonia per l’abbattimento dell’ultimo diaframma del tunnel Val di Sambro. Quello che mancava per terminare gli scavi della Variante di valico, l’autostrada da 60 chilometri e quasi 4 miliardi di euro che dal 2015 dovrebbe affiancare l’Autostrada del sole nel tratto Bologna-Firenze. «Il lavoro che è stato fatto è il simbolo del Paese, che è in una galleria, in un tunnel di rassegnazione, ma ha la capacità per uscirne», ha spiegato Renzi.

Tuttavia da parte sua e da parte del numero uno di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, non una parola per chi di quest’opera ha subito soprattutto i disagi. Sopra quella galleria Ripoli ha iniziato a muoversi da quando sono partiti i lavori. Decine di persone hanno dovuto lasciare la loro casa sin dal 2011 perché una antica frana, che prima si muoveva 2 millimetri l’anno a un certo punto ha preso a muoversi diversi centimetri al mese. E con lei cammina ancora anche il viadotto della attuale Autostrada del Sole che si trova a monte del borgo.
Nel 2011 un comitato di cittadini guidati da un geometra in pensione, Dino Ricci, aveva chiesto di fermare i lavori e ripensare il tracciato. Ma Autostrade per l’Italia è andata avanti, forte del sostegno delle istituzioni: il paese è stato riempito di strumenti per misurare gli spostamenti dei muri. Ma la frana non si è fermata. La politica, a eccezione del consigliere regionale Andrea Defranceschi, non ha fatto nulla. Si è mossa anche la giustizia: a lungo i Carabinieri della compagnia di Vergato hanno indagato sul perché di quei movimenti. La procura di Bologna, che coordinava l’inchiesta contro ignoti, ha tuttavia chiesto l’archiviazione, ma il gip Andrea Scarpa potrebbe presto chiedere la riapertura delle indagini. I problemi per l’opera sono però anche tanti altri. La galleria Sparvo, poco più a sud, dovrà essere blindata con degli anelli d’acciaio per 400 metri perché un’altra frana è andata a pressare sulla copertura. Nella parte Toscana invece, un processo sullo smaltimento dei terreni di scavo sta bloccando tutto.
Infine una curiosità: tra gli invitati alla cerimonia, riecco Pietro Lunardi, l’ex ministro delle Infrastrutture che ha collaborato all’opera con il suo studio professionale, ma anche con il governo Berlusconi, che diede il via alla grande opera per decreto. Con lui Renzi si è fermato a lungo a parlare dopo la cerimonia: «Il premier? È grintoso come Berlusconi», la sua impressione finale.
«Si erano opposti alla costruzione di ville e di un approdo nell’area protetta. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto».

Corriere del Sera, 8 novembre 2014

Festa grande, brindisi e «urrah!» tra i cementieri di Siracusa. Ricordate Rosa Lanteri e gli altri due soprintendenti che si videro chiedere 100 milioni di danni, poi saliti a 423, per aver bloccato speculazioni in zone archeologiche? Li hanno rimossi. Via. Sciò. La scusa: erano lì da troppo tempo. Peccato che tutti e tre avessero un’anzianità inferiore ai cinque anni. E che altri, dopo dieci o dodici, siano rimasti al loro posto.

Ma partiamo dall’inizio. Cioè dalla decisione dei tre funzionari della Soprintendenza Rosa Lanteri (beni archeologici) Alessandra Trigilia (paesaggistici) e Aldo Spataro (architettonici) di mettersi di traverso ad alcuni pesanti interventi in alcune delle aree più importanti ed esposte della città di Dionisio. Rileggiamo il decreto del 1988 intitolato «Dichiarazione di notevole interesse pubblico del bacino del Porto Grande e altre aree di Siracusa». Dice che poiché «lungo la costa che dal castello Maniace va sino alla punta della Mola si gode lo spettacolo affascinante di Ortigia, dello stesso castello Maniace, dello scosceso Plemmirio, e da lì la foce dei fiumi Ciane e Anapo e l’area delle Saline di Siracusa, il tutto dominato, dall’altopiano dell’Epipoli su cui si erge la fortezza del Castello Eurialo con la cinta delle Mura Dionigiane» e poiché questo «spettacolo di mare , oltre ad essere ricordato da Tucidide, Diodoro e Cicerone, è stato teatro di avvenimenti di fondamentale importanza» il bacino va considerato «un insieme unico al mondo». Quindi va vincolato.

Eppure, da anni c’è chi vorrebbe piazzarci dei porti turistici. Come il «Marina di Archimede» (un nome che suoni «storico» è vitale, se metti cemento) che «prevede opere a terra per 49.467 mq e opere a mare su una superficie di oltre 97.000» per 500 posti barca. O il «Marina di Siracusa», che avrebbe addirittura un’isola artificiale di 40mila metri quadri e usando i ruderi d’una vecchia fabbrica di olio, la «Spero», vorrebbe offrire ai suoi clienti anche 54 appartamenti.

Il primo dei due porti, passato ai tempi di Totò Cuffaro grazie ad un accordo di programma e a soprintendenti poco battaglieri, è ormai arduo da fermare. Il secondo è stato stoppato. Così come sono stati stoppati 71 villini e due centri direzionali sul Pianoro dell’Epipoli, in zona di inedificabilità assoluta. E un mega-piano per 501 abitazioni ai piedi dell’Epipoli. E un impianto di «co-combustione» in un’area vincolata a ridosso di Megara Eblea. E altro ancora.

Un argine in controtendenza con certe gestioni del passato. Come quella di Mariella Muti, la soprintendente moglie di un architetto progettista di un condominio di lusso poi stoppato sulla Balza Acradina, soprintendente che a un certo punto, dato il via libera al piano regolatore che consentiva una concentrazione volumetrica nell’area tutelata dell’Epipoli, si pensionò usando la legge 104 (assistenza a familiari disabili) per giurare cinque giorni dopo come assessore comunale.

Va da sé che i costruttori, abituati a «vigilanti» di manica così larga, accolsero i «no» dei tre funzionari della nuova Soprintendenza, motivati dal rispetto dei vincoli ribaditi successivamente da varie sentenze del Tar, come una sorta di insubordinazione. Peggio: come un ostacolo al «progresso» cementizio. Al punto di pretendere dalla Lanteri, dalla Trigilia e da Spataro, rei di aver imposto il rispetto delle tutele, 268 milioni di euro per lo stop al porto e altri 155 per il blocco alle villette e ai centri direzionali. Per un totale, come dicevamo, di 423 milioni. Una somma così spropositata che i tre dipendenti pubblici, non arrivando ciascuno a tremila euro al mese i, impiegherebbero a pagare tre millenni e mezzo.

Una intimidazione. Davanti alla quale uno Stato serio e una Regione seria avrebbero dovuto schierarsi a muso duro dalla parte dei dirigenti. Mettendo loro a disposizione i migliori avvocati su piazza. Macché: le difese, i tre, hanno dovuto prepararsele quasi da soli. Contando sull’appoggio di tutti gli ambientalisti, di destra e di sinistra, del giornale on-line «la Civetta» e soprattutto di Italia Nostra, che un anno fa assegnò a Rosa Lanteri (e idealmente ai suoi colleghi) il «Premio Zanotti Bianco» per la difesa del «patrimonio culturale e paesaggistico in particolare nei territori del Sud, contro mille difficoltà, tra cui criminalità e malaffare».

In questo contesto, sui tre dirigenti siracusani lo Stato avrebbe dovuto dire: questi non si toccano. Macché, saltate prima l’assessore Maria Rita Sgarlata e poi la soprintendente Beatrice Basile, i tre sono stati infine tolti di mezzo. Normale avvicendamento, ha spiegato la Regione. Non dice forse la legge regionale che «nell’ambito delle misure dirette a prevenire il rischio di corruzione, assume particolare rilievo l’applicazione del principio di rotazione del personale»?
Giusto. La norma dice però che «la durata dell’incarico dovrebbe essere fissata in cinque anni rinnovabili preferibilmente una sola volta». Traduzione: massimo dieci anni. E la Lanteri, la Trigilia e Spataro, i primi spostati a svernare in questo o quel museo, non arrivano a cinque: le soprintendenti di Caltanissetta e Trapani sono lì da dieci e a Messina e a Palermo ci sono dirigenti imbullonati da dodici... E allora? Come la mettiamo? Qual è, il messaggio, a chi combatte il cemento nelle aree archeologiche protette?

«La sinistra e i giovani. Con i 10 miliardi spesi da Renzi per gli 80 euro si potrebbero creare subito 250mila posti di lavoro». Il manifesto, 7 novembre 2014 (m.p.r.)

L’articolo di Piero Bevi­lac­qua sulle nuove gene­ra­zioni apre un dibat­tito di grande rile­vanza che non si può fer­mare alla denun­cia, ma spero con­tri­bui­sca a deli­neare delle linee poli­ti­che di inter­vento. In que­sta dire­zione vor­rei offrire un con­tri­buto che parte dall’area del nostro paese dove è più grave la con­di­zione giovanile.

Il Mez­zo­giorno è oggi una grande riserva di forza-lavoro con­ge­lata, inu­ti­liz­zata, desti­nata al macero, come per molto tempo sono state le arance, le cle­men­tine, i pomodori.Una con­di­zione che ricorda da vicino quella cate­go­ria del «pau­pe­ri­smo» defi­nito da Marx come «il peso morto dell’esercito indu­striale di riserva», che si tra­duce oggi, nel XXI secolo, in una con­di­zione para­go­na­bile a quella di una «riserva di indiani» nel nord Ame­rica, dove impera l’alcol ed i casinò, ma la cul­tura locale, l’identità, le aspet­ta­tive di riscatto sono state cancellate.

È noto che in Ita­lia su circa 2,3 milioni di gio­vani “neet” (not employ­ment, edu­ca­tion, trai­ning) circa due terzi risie­dono nel Sud. Meno noto è il fatto che molti gio­vani meri­dio­nali sono stati costretti dalla Lunga Reces­sione a ritor­nare nel pae­sello natio dopo aver spe­ri­men­tato lavoro pre­ca­rio ed alti costi di inur­ba­mento nel Nord-Italia. Così come molte gio­vani cop­pie sono state costrette dalla crisi a lasciare le città meri­dio­nali per tor­nare al paese del padre o del nonno dove pos­sono usu­fruire di una casa in pro­prietà, e magari un appez­za­mento con ani­mali (gal­line, maiali, ecc.). Non c’è niente di buco­lico o roman­tico in que­ste scelte ma una dura neces­sità di soprav­vi­venza. Per­fino nelle Uni­ver­sità meri­dio­nali tro­viamo oggi gio­vani che sono tor­nati dalle più pre­sti­giose uni­ver­sità del Centro-Nord per­ché i geni­tori non li pote­vano più man­te­nere. Ancora di più sono gli stu­denti che si iscri­vono in alcune uni­ver­sità del Mez­zo­giorno per neces­sità in quanto i geni­tori non si pos­sono per­met­tere di man­te­nerli «fuori».

Elogio del posto fisso
Sem­bra siano pas­sati secoli da quando, negli anni ’70, i gio­vani del nostro Sud gri­da­vano nei cor­tei «lot­tare per restare e restare per lot­tare». Era molto di più di uno slo­gan, era una pro­spet­tiva di vita e di impe­gno sociale e cul­tu­rale, una fede nella pos­si­bi­lità di cam­biare la società, un atto di amore per la pro­pria terra. Una spinta vitale che ha pro­dotto lotte sociali, che è con­fluita in una ribel­lione ine­dita con­tro la mafia, la ‘ndran­gheta e la camorra, che ha costruito tante ini­zia­tive nel sfera del sociale, della cul­tura, dell’economia solidale.

Chi resta oggi nel Mez­zo­giorno lo fa o per­ché ha un lavoro (una esi­gua mino­ranza) o per­ché è costretto. Sono gio­vani cari­chi di rab­bia e fru­stra­zione che in mag­gio­ranza hanno votato per Grillo e Renzi, che non gliene frega niente dell’art. 18 , che vivono la loro dispe­ra­zione in soli­tu­dine, che non cre­dono più a niente. Una con­di­zione estrema che ormai col­pi­sce quasi un gio­vane su due e che meri­te­rebbe una rispo­sta poli­tica adeguata. C’è un solo modo, una sola poli­tica che possa fare uscire imme­dia­ta­mente una parte dei gio­vani meri­dio­nali dalla «riserva», che gli possa dare un’alternativa di vita e di lavoro. Si chiama posto pub­blico. Una bestem­mia, lo so, dopo decenni in cui è stato pro­pa­gan­dato il mito della mobi­lità del lavoro come valore, dell’inventarsi un lavoro, dell’essere impren­di­tori di se stessi, del dipen­dente pub­blico come un parassita.

Ma qual è l'alternativa?

L’ideologia neo libe­ri­sta, di cui Renzi è un pala­dino, sostiene che i posti di lavoro si pos­sono e si deb­bano creare solo dando incen­tivi alle imprese, e ridu­cendo la spesa pub­blica. Ma in tutti i paesi in cui que­sta ricetta è stata appli­cata ne è risul­tato un aumento dei posti di lavoro pre­cari e sot­to­pa­gati, men­tre sono peg­gio­rati tutti i ser­vizi pub­blici con danno grave per la mag­gio­ranza della popo­la­zione. Inol­tre, le imprese pri­vate pos­sono assu­mere nuovi gio­vani solo se c’è una domanda cre­scente in quello spe­ci­fico set­tore economico.

Per esem­pio l’hanno già fatto nei call cen­ter, con salari da fame, stress mici­diali e pre­ca­rietà asso­luta, ave­vano creato fino a cin­que anni fa quasi 80.000 nuovi posti di lavoro. Poi, hanno sco­perto che era meglio far svol­gere que­sto ser­vi­zio in Alba­nia o in Roma­nia, con salari ancora più bassi e con­di­zioni di lavoro estreme.

Proposte credibili e immediate

Per­tanto, se è vero che la con­di­zione gio­va­nile nel Mez­zo­giorno è dispe­rata, come sosten­gono tutti gli ana­li­sti e gran parte delle forze poli­ti­che, allora diciamo basta con il lamento e pro­viamo a dare delle rispo­ste cre­di­bili ed immediate.

Se pen­siamo che gli 80 euro distri­buiti a chi aveva già un lavoro ed un red­dito infe­riore ai 1500 euro costano al bilan­cio dello Stato circa 10 miliardi l’anno, e non creano un solo posto di lavoro in più , allora diciamo che con la stessa cifra si pote­vano e si pos­sono creare circa 250.00 posti di lavoro a tempo inde­ter­mi­nato nella Scuola, Uni­ver­sità, Sanità, tra­sporti locali, ser­vizi sociali, ecc. Baste­rebbe tagliare la spesa mili­tare pre­vi­sti per gli F35 o per qual­che grande opera per tro­vare que­ste risorse, lasciando immu­tato il bilan­cio dello stato.

Si tratta sem­pli­ce­mente di ripren­dersi una parte dei 450.000 posti di lavoro can­cel­lati nella Pub­blica Ammi­ni­stra­zione bloc­cando il tur­no­ver negli ultimi sei anni. Se la Cgil e la Fiom voles­sero dav­vero diven­tare un punto di rife­ri­mento per i gio­vani meri­dio­nali inoc­cu­pati, pre­cari, sot­to­pa­gati, dovreb­bero aprire una seria ver­tenza con il governo — a par­tire dal pros­simo scio­pero gene­rale — chie­dendo che ven­gano ripri­sti­nati que­sti posti di lavoro che sono oggi asso­lu­ta­mente neces­sari per avere una Scuola decente, una Uni­ver­sità dove si inve­sta sui gio­vani ricer­ca­tori e docenti, il ripri­stino delle fer­ro­vie e del tra­sporto pub­blico nelle aree esterne all’asse Milano-Napoli, ser­vizi sociali per gli ina­bili, i non auto­suf­fi­cienti, anziani, ecc.

Il vec­chio, fami­ge­rato, posto fisso nella Pub­blica Ammi­ni­stra­zione, che intere gene­ra­zioni di meri­dio­nali hanno sem­pre sognato per i pro­pri figli, è oggi una neces­sità – per avere ser­vizi essen­ziali digni­tosi — e anche una oppor­tu­nità. Non solo per rispon­dere al biso­gno impel­lente di occu­pa­zione sta­bile, ma per­ché ci potrà essere una rina­scita del nostro Sud solo se Stato ed Enti Locali saranno in grado di offrire ser­vizi che in parte sono stati pri­va­tiz­zati e devono tor­nare sotto l’egida pub­blica, anche per­ché costano meno di quelli privati!

Certo, nella Pub­blica Ammi­ni­stra­zione, spe­cie nel com­parto delle strut­ture regio­nali, ci sono sac­che di paras­si­ti­smo che pos­sono e devono essere rimosse. Ma, non è più accet­ta­bile la cri­mi­na­liz­za­zione del pub­blico impiego, dove esi­stono sog­get­ti­vità che si spen­dono per il bene comune, spesso mar­gi­na­liz­zate e pena­liz­zate. E senza ser­vizi pub­blici effi­cienti non ci può essere nes­suna ripresa eco­no­mica, ma solo nuove ondate migratorie.

Que­sto non signi­fica non bat­tersi per una ridu­zione dell’orario di lavoro, un red­dito minimo garan­tito ai gio­vani inoc­cu­pati, come sostiene da tempo Piero Bevi­lac­qua, o spen­dersi per un piano di sal­va­guar­dia dal dis­se­sto idro­geo­lo­gico, o rinun­ciare all’indispensabile ricon­ver­sione eco­lo­gica della nostra strut­tura pro­dut­tiva (Guido Viale), o accet­tare che il governo Renzi tagli 8 miliardi alle regioni meri­dio­nali obiet­tivo 1, come ha giu­sta­mente denun­ciato Andrea del Monaco su que­sto gior­nale (dome­nica scorsa). Tutte scelte e obiet­tivi più che con­di­vi­si­bili, ma che richie­dono un tempo inde­fi­nito e non rispon­dono al biso­gno imme­diato di un lavoro utile e garantito.

Se un giorno risor­gerà una forza poli­tica di sini­stra in que­sto paese senza memo­ria, se vorrà dire qual­cosa di com­pren­si­bile ai gio­vani meri­dio­nali, non potrà non par­tire da que­sta proposta. Se si vuole uscire dalla mar­gi­na­lità poli­tica biso­gna avere obiet­tivi chiari e rag­giun­gi­bili nel breve periodo, all’interno di un qua­dro più gene­rale di cam­bia­mento radi­cale di que­sto modello di impo­ve­ri­mento sociale e culturale.

«». Il manifesto

È come quando la Pro­te­zione civile avverte che pio­verà forte, ma non sa dire esat­ta­mente quanto forte e quali saranno i danni. Le pre­vi­sioni ave­vano pre­an­nun­ciato la vit­to­ria dei Repub­bli­cani e i risul­tati dicono che la vit­to­ria c’è stata, di dimen­sioni supe­riori ai timori o alle aspet­ta­tive. E tut­ta­via, per certi versi, non senza qual­che ele­mento che in pro­spet­tiva ne smorza l’impatto poli­tico concreto.

Il dato poli­tico imme­diato è l’isolamento del Pre­si­dente: il nuovo Con­gresso è tutto con­tro di lui. Quindi sarebbe lecito pen­sare che saranno ancora più forti gli sbar­ra­menti che i Repub­bli­cani ave­vano già oppo­sto, per esem­pio, a pro­getti come l’innalzamento del sala­rio minimo e la riforma dell’immigrazione. Ed è più che pro­ba­bile che il loro attacco alla pre­si­denza demo­cra­tica si con­cen­trerà su due obiet­tivi prin­ci­pali: la riforma sani­ta­ria, per boi­cot­tare la quale hanno fatto ogni pos­si­bile bat­ta­glia in tutte le sedi legali; l’altrettanto invisa «legge Dodd-Frank», che ha sot­to­po­sto a norme e con­trolli le atti­vità del mondo finan­zia­rio. Di entrambe i Repub­bli­cani hanno detto di volere la cancellazione.

Non è detto, però, che nei pros­simi due anni essa venga per­se­guita con la stessa deter­mi­na­zione mostrata finora. A Obama resta comun­que il potere di veto, ed è con que­sto in mente che il nuovo spea­ker di mag­gio­ranza, l’appena rie­letto Mitch McCon­nell, si è affret­tato a dichia­rare la dispo­ni­bi­lità a «lavo­rare insieme» con il Pre­si­dente. In sostanza, l’unica pos­si­bi­lità che il Con­gresso eviti la para­lisi è la pra­tica del compromesso.

La para­lisi – quello che vogliono i Repub­bli­cani viene bloc­cato da Obama; quello che vuole lui viene fer­mato da loro – fer­me­rebbe sì il Pre­si­dente, che potrebbe agire solo con gli “Ordini ese­cu­tivi”, ma direbbe al paese che la mag­gio­ranza stessa è inetta. Il che met­te­rebbe poi in forse la pro­spet­tiva di una pre­si­denza repub­bli­cana nel 2016.

Ma non suc­ce­derà, per­ché «gli adulti», come ha scritto Tho­mas Edsall, hanno ripreso le redini del Par­tito repub­bli­cano e della sua agenda poli­tica. Quindi, se città e Stati con­ti­nue­ranno a innal­zare a 8–9 dol­lari l’ora o più il sala­rio minimo (adesso a 7,25) che Obama voleva por­tare a oltre 10 dol­lari, diventa pro­ba­bile che anche i Repub­bli­cani pro­por­ranno un rialzo. Sull’immigrazione, se vogliono sot­trarre i voti ispa­nici ai Demo­cra­tici – a cui anche que­sta volta sono andati in massa – dovranno pre­sen­tarsi con qual­cosa di fatto alle pros­sime pre­si­den­ziali, magari aggior­nando le pro­po­ste di George W. Bush. La riforma sani­ta­ria e la legge Dodd-Frank saranno attac­cate e inde­bo­lite entrambe, ma sarà più dif­fi­cile can­cel­lare la prima che la seconda.

In tutto que­sto disfare e rifare i Repub­bli­cani non saranno soli. Tra i Demo­cra­tici, la dispo­ni­bi­lità al com­pro­messo verrà cer­ta­mente, più che da Obama, dai suoi com­pa­gni di par­tito. L’isolamento del Pre­si­dente, infatti, si è veri­fi­cato ed è stato sban­die­rato anche nel suo stesso schieramento.

Obama è stato ridi­men­sio­nato – reso «pic­colo», da grande che era, ha scritto il New York Times – dal suc­cesso della pro­pa­ganda avver­sa­ria, che ne ha fatto il primo desti­na­ta­rio dell’offensiva pre­e­let­to­rale, e dalla presa di distanza di una parte del suo partito.

Tutti i gior­nali hanno scritto dei can­di­dati che non lo hanno voluto al loro fianco nella cam­pa­gna per non com­pro­met­tere le pro­prie poss<CW-17>ibilità di suc­cesso. È troppo pre­sto per con­trol­lare come è andata a costoro. Il pro­blema poli­tico però è reale e con esso Obama dovrà fare i conti.

La distri­bu­zione geo­gra­fica del voto con­ferma, per quanto pos­si­bile (per Senato e Gover­na­tori i rin­novi erano 36), che il Sud e le grandi aree rurali sono repub­bli­cane, men­tre le aree metro­po­li­tane in tutto il paese e le zone di antica indu­stria­liz­za­zione riman­gono pre­va­len­te­mente democratiche.

Stando ai son­daggi per gruppi sociali, invece, risul­te­rebbe che le donne, i gio­vani, gli ispa­nici e gli afroa­me­ri­cani hanno votato in mag­gio­ranza, in pro­por­zioni diverse, per i Demo­cra­tici, men­tre gli anziani, i maschi bian­chi e i resi­denti dei suburbs hanno pre­fe­rito i Repub­bli­cani. In molti casi il distacco tra vin­cente e scon­fitto non è stato grande.

Que­sto anda­mento del voto, come ricorda una parte dei com­men­ta­tori, è in buona misura «fisio­lo­gico»: l’amministrazione in carica è sem­pre sfa­vo­rita nelle ele­zioni di mid­term. E l’esito ha anche a che fare con i tanti ridi­se­gni delle cir­co­scri­zioni elet­to­rali effet­tuate negli anni scorsi, soprat­tutto negli Stati gover­nati dai Repub­bli­cani e natu­ral­mente a pro­prio van­tag­gio. Inol­tre, va sot­to­li­neato che molti sono dispo­sti a mobi­li­tarsi quando in ballo è la pre­si­denza, ma non quando si tratta di Con­gresso e gover­na­tori. Infatti nelle ele­zioni di mid­term la per­cen­tuale dei votanti non arriva mai al 40 per cento. Que­ste con­si­de­ra­zioni non sono con­so­la­to­rie, ser­vono a ricor­dare che nel 2016 i Repub­bli­cani dovranno gua­da­gnar­sela la pre­si­denza. Que­sto voto, di per sé, non gliela promette.

Rimane il fatto che è un elet­to­rato «scon­tento», come ha scritto Dan Balz sul Washing­ton Post, ad avere decre­tato la scon­fitta dei Demo­cra­tici. Non sono tanto le que­stioni legate a una poli­tica estera «debole» e incerta, su cui pure i Repub­bli­cani hanno bat­tuto pesan­te­mente. Ancor più che nelle pre­si­den­ziali, in que­ste ele­zioni conta il con­te­sto locale e nazionale.

E qui hanno pesato le con­trad­di­zioni attuali.

La ripresa eco­no­mica c’è stata, la cre­scita è buona (supe­riore al 3,5 per cento), la disoc­cu­pa­zione è bassa (al 5,9 per cento, appena sopra quel 5,5 con­si­de­rato «piena occupazione»). Ma: le disu­gua­glianze sono aumen­tate, il lavoro è fatto di sot­toc­cu­pa­zione pre­ca­ria e sot­to­pa­gata e men­tre i salari sono fermi i red­diti dei grandi ric­chi hanno con­ti­nuato a salire.Non importa che siano stati in parte i Repub­bli­cani a bloc­care l’azione pre­si­den­ziale (sui salari minimi, sui lavori pub­blici, sull’ambiente, sull’estensione del sus­si­dio di disoccupazione…).

La loro pro­pa­ganda è riu­scita nell’opera di attri­buire le man­cate rea­liz­za­zioni legi­sla­tive all’inettitudine di Obama e a costruire intorno a lui un alone di fal­li­mento. Una sorta di senso comune a cui ha ade­rito una parte del suo stesso par­tito, come s’è detto: debo­lezza della poli­tica, volu­bi­lità delle con­vin­zioni e potere della comu­ni­ca­zione, vale a dire dei milioni spesi nella cam­pa­gna elet­to­rale di mid­term più costosa della storia.

. La Repubblica

Quest'anno non è fuggito nessuno, e nessuno stamani si è sdegnato per quella grande bandiera pacifista che il sindaco di Messina ha voluto riesporre in piazza per la festa delle Forze armate, concedendo il bis dopo le polemiche di dodici mesi fa. Nel 2013, dinanzi a quell'arcobaleno srotolato e sventolato a braccia aperte, due generali dei carabinieri abbandonarono la platea. Già, perché la prima volta "fu uno shock, e alla fine presi la parola anche se non era previsto", racconta lui, il primo cittadino Renato Accorinti, ex insegnante di educazione fisica, anarchico, attivista anti-mafia e anti-ponte sullo Stretto.

Ma a furia di insistere, dice, "il messaggio in qualche modo passa. Oggi, poi, non ho neanche chiesto la parola...". Tuttavia, parlano per lui le due citazioni di Sandro Pertini che incorniciano il centro del drappo: "Svuotiamo gli arsenali, strumenti di morte. Coltiviamo i granai, fonte di vita". Il messaggio è racchiuso tutto lì. E l'iniziativa silenziosa - che l'anno scorso il governo definì una "provocazione demenziale" - varca i confini geografici della Sicilia per approdare in Campidoglio a Roma, dove il sindaco Ignazio Marino decide di accogliere l'appello e di esporre lo stesso vessillo.

La ricorrenza scelta per portare avanti "una lotta pacifista e non violenta che rappresenta le fondamenta della politica alta" è quella del 4 novembre, giorno dell'Unità nazionale e giornata delle Forze armate. In piazza Unione europea a Messina oggi anche i rappresentanti di 'Cambiamo Messina dal basso' - il movimento che ha sostenuto Accorinti alla guida della città - che hanno voluto sventolare bandiere multicolori durante la manifestazione. I rappresentanti istituzionali presenti alla cerimonia non hanno risposto in alcun modo al gesto, tuttavia alcuni consiglieri comunali hanno esposto la bandiera italiana, forse irritati dall'atteggiamento del sindaco pacifista.

"Attenzione - sottolinea Accorinti -, io alle spalle ho anni di lotte sociali e questa non è una sceneggiata. Non voglio che si parli della mia bandierina, io qui sto facendo una analisi di condanna dell'economia dell'Occidente e di come stiamo vivendo. La guerra è il braccio armato della finanza, e la via del disarmo è un percorso di grande maturità. Da Gandhi a Martin Luther King, passando per Francesco d'Assisi che quando parla di pace fa un discorso politico, sul pacifismo c'è un percorso serio e maturo".

Jobs Act. Danilo Barbi, vice di Camusso: "Risponderemo a chi attacca l’articolo 18". Il sindacato ha una finanziaria alternativa: "Patrimoniale sui ricchi per 10 miliardi: sarebbero 740 mila nuovi posti"».

Il manifesto, 5 novembre 2014

Si riscalda sem­pre di più lo scon­tro sul Jobs Act, adesso che il testo è in pro­cinto di essere discusso alla Camera. Ieri nel corso di un’audizione sulla legge di sta­bi­lità, il segre­ta­rio con­fe­de­rale Cgil Danilo Barbi (com­po­nente dell’esecutivo gui­dato da Susanna Camusso) è stato netto: «Noi non con­sen­ti­remo così facil­mente di modi­fi­care l’articolo 18 libe­rando un canale per i licen­zia­menti ille­git­timi come ha pro­vato a fare Ber­lu­sconi – ha dichia­rato – Ci oppor­remo bru­tal­mente a que­sto tentativo».

Subito dopo il segre­ta­rio ha pre­ci­sato: «Ci oppor­remo con la stessa bru­ta­lità di chi ha cam­biato l’agenda poli­tica intro­du­cendo modi­fi­che all’articolo 18 mai pro­po­ste nelle dichia­ra­zioni pro­gram­ma­ti­che nè nelle cam­pa­gne elet­to­rali». Ad arro­ven­tare il lin­guag­gio, a fine set­tem­bre, era stato lo stesso pre­si­dente del con­si­glio Mat­teo Renzi, che dalla sua mis­sione negli Usa aveva par­lato della neces­sità di un «cam­bia­mento vio­lento» per l’Italia.

La Cgil e il pre­mier restano per il momento su due oppo­ste bar­ri­cate: la prima impe­gnata nel per­corso di mobi­li­ta­zioni che oggi vede schie­rati i pen­sio­nati e sabato i lavo­ra­tori del pub­blico impiego (entrambe le ini­zia­tive sono uni­ta­rie, con Cisl e Uil), men­tre il 14 e il 21 la Fiom aprirà la sta­gione degli scio­peri gene­rali. Dall’altro lato, Renzi gioca le sue carte: ieri l’apparizione a Bal­larò, e subito dopo la riu­nione con la mino­ranza Pd per un pos­si­bile accordo su Jobs Act e arti­colo 18 che possa iso­lare il sindacato.

Quanto alla legge di sta­bi­lità, Barbi ha spie­gato che secondo la Cgil il governo «sta pro­gram­mando il disa­stro sociale».

La mano­vra «è ina­de­guata e insuf­fi­ciente in ter­mini di inve­sti­menti e poli­ti­che di soste­gno alla cre­scita», spiega la Cgil. Ser­vi­rebbe al con­tra­rio un «Piano per il lavoro»: quello che il sin­da­cato ha già pre­sen­tato da tempo, ma che non rie­sce a discu­tere con il governo, visto che qual­siasi tipo di con­cer­ta­zione, o anche solo di dia­logo, è spa­rito del tutto dal pano­rama dell’Italia renziana.

Il governo, pro­se­gue Barbi, «scom­mette su una forte ridu­zione delle tasse alle imprese (taglio gene­ra­liz­zato dell’Irap sul costo del lavoro e sgravi con­tri­bu­tivi per nuovi con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato) e sulla sva­lu­ta­zione del lavoro (Jobs Act, come “col­le­gato” alla legge di sta­bi­lità) spe­rando che, senza vin­coli e con meno tutele, aumen­tino gli inve­sti­menti pri­vati e, per que­sta via, l’occupazione». «Ma non suc­ce­derà – è l’analisi della Cgil – per­ché il per­ma­nere di una crisi di domanda sco­rag­gia le imprese».

Anche gli incen­tivi diret­ta­mente legati alla sti­pula di nuovi con­tratti a tempo inde­ter­mi­nato rea­liz­ze­ranno, secondo il sin­da­cato, «più sta­bi­liz­za­zioni e sosti­tu­zioni che nuovi occu­pati». Le poli­ti­che per le imprese e le misure fiscali per lo svi­luppo, inol­tre, «non sono ade­guate e manca una vera poli­tica indu­striale. In più sot­ten­dono una poli­tica con­cet­tual­mente anti­me­ri­dio­nale, deter­mi­nando un’ulteriore dif­fe­ren­ziale nella coe­sione del Paese».

Ecco quindi la contro-finanziaria della Cgil, fatta di inve­sti­menti, valo­riz­za­zione del lavoro e dei ser­vizi pub­blici, tasse sulla ric­chezza. Il sin­da­cato riba­di­sce la neces­sità che per creare posti di lavoro si deb­bano coin­vol­gere, con uno spe­ciale con­tri­buto, i milio­nari: il 5% delle fami­glie più ric­che del Paese, quelli che la crisi non l’hanno per­ce­pita lon­ta­na­mente, nean­che con il can­noc­chiale. Quei “poteri forti” che il buon Renzi potrebbe deci­dersi final­mente di scomodare.

La Cgil pro­pone «un piano straor­di­na­rio per l’occupazione gio­va­nile e fem­mi­nile (appunto il Piano del lavoro, ndr), da finan­ziare attra­verso un’imposta sulle grandi ric­chezze finan­zia­rie che con un get­tito di circa 10 miliardi di euro l’anno potrebbe garan­tire oltre 740 mila nuovi posti di lavoro (pub­blici e pri­vati), aggiun­tivi, in tre anni».

E ancora, la Cgil chiede: «Una nuova poli­tica indu­striale per l’innovazione, con il soste­gno delle grandi imprese pub­bli­che nazio­nali e della Cassa depo­siti e pre­stiti; una forte ridu­zione del carico fiscale sui red­diti da lavoro e da pen­sione, attra­verso un piano di lotta per la ridu­zione strut­tu­rale dell’evasione fiscale e della cor­ru­zione, recu­pe­rando le risorse utili ad aumen­tare ed esten­dere il bonus Irpef».

L’ultimo punto, sono que­gli 80 euro che da tempo i sin­da­cati (anche Cisl e Uil) vor­reb­bero fos­sero estesi a cate­go­rie come i pen­sio­nati e gli inca­pienti. Ma finora Renzi non li ha ascoltati.

«». Huffington Post

Ci si affatica a cercare paralleli tra la leadership di Matteo Renzi e il passato più o meno recente. Le comparazioni con Bettino Craxi e con Silvio Berlusconi sono consuete. Ma sono utili ad una condizione: che non si riducano a un parallelo statico tra personalità, ma mostrino come il successo di Renzi nell'Italia di oggi sia l'esito del lungo cammino cominciato da quei due leader. La forma plebiscitaria della leadership di Renzi sarebbe in questo modo studiata nel merito, non meramente criticata.

L'Italia democratica, cosi com'è, è stata modellata anche dalla politica di Craxi e di Berlusconi: questa mi sembra una base di partenza per incorniciare la leadership consensuale e plebiscitaria di Renzi, che vuole avere un partito a sua immagine e fa di tutto per riuscire in questo intento. In che cosa consiste questo nuovo partito funzionale al ? La sua identità è l'esito di un'Italia segnata da due progetti tra loro correlati: l'affossamento definitivo del fattore K (ovvero della questione comunista) e il superamento della democrazia dei partiti (ovvero del sistema parlamentare come fu disegnato dai costituenti). Entrambi questi progetti devono per riuscire ad andare ai fondamenti della nostra democrazia uscita dalla guerra.

Cominciamo dal fattore K. Esso è rappresentato dalla cultura politica del Partito comunista, una cultura centrata sul coinvolgimento dei cittadini-via partito e su politiche di sociali centrate sul ruolo sociale del lavoro. Il fattore K corrispondeva quindi a una strategia politica che si innervava nella società con una rete organizzativa del mondo del lavoro nelle sue varie forme, autonome e salariate. Su questi corpi intermedi si è strutturata la democrazia parlamentare.

Come si è giunti alla erosione del fattore K? Le prime grandi sconfitte del fattore K sono state consumate negli anni '80: la marcia dei quarantamila quadri della Fiat (ottobre 1980) e il referendum abrogativo della scala mobile (giugno 1985). Due sconfitte che misero in evidenza come la cultura liberale e liberista avesse fatto breccia nel mondo della sinistra (il Psi di Craxi) erodendo l'idea di una responsabilità collettiva rispetto ai problemi del lavoro. L'idea della fine del lavoro stabile cominciò allora. A partire da quelle sconfitte, il declino della cultura politica che sosteneva il fattore K fu segnato e fatale.
L'ideologia anti-comunista usata da Berlusconi fin dalla sua prima scesa in campo, nel 1994, che a molti sembrava anacronistica (non era forse finita la Guerra fredda?) era in effetti astuta, perché in Italia la cultura del partito comunista era molto radicata e la caduta del Muro di Berlino non bastava a seppellirla. Il ventennio berlusconiano rappresentò da questo punto di vista il completamento dell'erosione egemonica. Più che fatta di decisioni e momenti eclatanti - come i menzionati appuntamenti del anni '80 - l'azione berlusconiana fu pervasiva e lenta. Certo, Berlusconi perse il referendum sulla riforma della Costituzione, ma vinse quello per la liberalizzazione della pubblicità e, soprattutto, consegnò ai cittadini un paese che avrebbe con facilità fatto la riforma della costituzione.

La leadership di Renzi giunge alla fine di un lavoro ai fianchi che ha atterrato il forte pugile: e si sta concretizzando proprio in quei due settori nei quali da Craxi a Berlusconi il fattore K è stato eroso: ovvero l'abolizione dell'articolo 18 e riforma in senso 'esecutivista' della Costituzione. Con la prima - che è tutta simbolica e con quasi nessuna ricaduta sulla situazione occupazionale, - ci dicono gli esperti - si mette fine alla filosofia della responsabilità sociale dell'economica, con la seconda alla pratica della rappresentanza politica fondata sul partito: liberismo e comitati elettorali (che si trovano non a caso a loro agio nello spazio della Leopolda), sono le due facce di una rivoluzione individualistica della società e personalistica della politica. In sostanza: Renzi ha messo una pietra tombale sul fattore K.

E questo spiega il suo consenso trasversale e anche nell'opinione intellettuale moderata, di coloro che hanno considerato il Pci e i suoi successori più o meno mascherati come il "problema italiano", la non "normalità" del paese. Ora siamo normali: apatici (declino della partecipazione elettorale), indifferenti alle lealtà ideologiche (nonostante un'irrisoria resistenza, come si è visto con le recenti primarie in Emilia-Romagna dove molti sono andati al voto per 'fedeltà' alla sigla Pd), con una democrazia plebiscitaria gestita da un partito-macchina dell'opinione orchestrata. Ma siamo un paese normale anche sul fronte del pensiero sociale: il lavoro non è associato ai diritti sociali e alle garanzie ma alla monetizzazione e a un impiego qualunque. Non è associato soprattutto all'organizzazione che sola dà potere di trattativa a chi individualmente non ha forza, come i lavoratori dipendenti (tra i progetti di Renzi vi è il superamento del contratto nazionale, e la sua dura opposizione alla Cgil è coerente, non un incidente di percorso).

Se si dovesse riassumere con una frase l'Italia renziana si potrebbe dire che essa rappresenta la conclusione della lunga parabola che ha portato dalla socialdemocrazia-modello italiano (con il Pci a guidarla, nella pratica se non nella teoria) al liberismo umanizzato dalla solidarietà cristiana. Liberalismo economico e terzo settore o cattolicesimo sociale: questi i due pilastri dell'ideologia che meglio si accorda con la cultura dominante del nostro paese e che mette insieme un'audience molto larga che va dalla piccola e media impresa, ai professionisti, alla grande impresa. I lavoratori dipendenti non sono il gruppo determinante di questo Pd e Renzi è disposto a fare a meno dei loro consensi.

Il primo documento di Renzi il giorno stesso del suo insediamento a Palazzo Chigi conferma questa lettura: contro la distinzione tra Destra e Sinistra, egli propose il modello liberale caro alla cultura cattolica. Competizione individuale da un lato e solidarietà cristiana per chi resta indietro o cade dall'altro. Nessuna meraviglia che la leadership renziana goda di un tale consenso. E soprattutto che miri a ben più che una leadership di partito - egli vuole una leadership totale, plebiscitaria, e quindi deve fare del Pd il suo partito. Chi non ci sta è semplicemente irrilevante. Per questo restare dentro per fare testimonianza non ha senso, poiché le decisioni le prende la maggioranza in un modo che non solo non riflette le posizioni della minoranza ma le nega. Egli sta facendo del suo meglio (e a quanto pare bene) per rendere la coabitazione impossibile. Dopo di che potrà perfino dire che chi lascia se ne va di sua spontanea volontà.
Riferimenti
A proposito della traiettoria Craxi-Berlusconi_Renzi vedi l' eddytoriale n. 163 . Puoi trovare gli altri numerosi articoli di Nadia Urbinati ripresi su eddyburg digitando il suo nome nella finestra a sinistra della piccola lente d'ingrandomento in alto sulla homepage
L'Italia di Renzi all'avanguardia nell'Europa di Renzi nello sporco lavoro per trasformare il Mediterraneo da cerniera in frontiera e l'Antico continente in moderna fortezza.

Comune.info, 31 ottobre 2014

Oltre cento mila persone non sono morte. Difficilmente sarebbero arrivate tutte vive. Forse la maggior parte non si sarebbe salvata. Grazie all’operazione Mare Nostrum sono salite su navi attrezzate con cibo, coperte e vestiti, medicinali e spesso anche con mediatori culturali e addetti al riconoscimento e alla richiesta d’asilo. Questa dovrebbe essere una notizia della quale andare orgogliosi. Una strada buona che il governo ha imboccato un anno fa, una scelta che avrebbe dovuto rivendicarsi. E infatti sono tutti molto contenti di come è andata. Ciononostante l’operazione Mare Nostrum è destinata ad essere chiusa.

Giusi Nicolini, la sindaca di Lampedusa, ce lo ricordava qualche giorno fa durante il festival Sabir che “lo Stato siamo noi, ogni cittadino, io sono lo Stato, il sub che è andato sott’acqua a prendere i cadaveri, l’uomo dell’esercito che li trasportava dalla banchina al camion, l’uomo che trasportava i morti col camion frigo, il poliziotto della scientifica che prelevava il dna, l’uomo della guardia costiera che ha rischiato la sua vita per salvare quella dei migranti: questo è lo Stato”, mentre i governi sono un’altra cosa “possono sbagliare o cambiare i destini delle persone in meglio”.

Ecco! Vedere i soldati che invece di essere pagati per ammazzare la gente ricevono uno stipendio per salvarla me li fa sentire più vicini al sub, all’uomo col camion frigo e anche a me: più vicini all’idea di Stato. E invece il governo decide di chiudere Mare Nostrum. Non la sostituisce Triton. Le navi che verranno usate in questa nuova operazione sono probabilmente molto diverse e meno attrezzate perché la sua missione è controllare i confini, non salvare esseri umani. Infatti si fermeranno ad una trentina di miglia dalle coste. Non accadrà quello che è accaduto per un anno con le grandi navi della marina italiana che arrivavano a poche miglia dall’Africa e di fatto creavano una sorta di corridoio umanitario.

Qualcuno dirà che proprio questa vicinanza è un incentivo ad organizzare barconi, ma non è così. Chi parte in cerca di lavoro normalmente vive in un paese povero, ma con la possibilità di spostarsi in treno o in aereo. I cinesi non vengono in barca e spendono meno di un eritreo che fugge dal suo paese. Chi affronta un viaggio da incubo durante il quale deve difendersi da ogni tipo di violenza non rischia la vita affrontando il mare col barcone perché sa dell’operazione Mare Nostrum. Lo fa e basta, non ha alternative. E gli scafisti sfrutteranno la maggior difficoltà nel raggiungere le nostre coste per alzare il prezzo del viaggio non per rallentare il flusso.

Quando la casa è in fiamme chiunque salta dalla finestra e non resta a bruciarsi solo perché in giardino invece dei pompieri con la rete ci sta un poliziotto gli ordina di rientrare. Qualcun altro si lamenterà per i 9 milioni che l’Italia ha speso per ogni mese di Mare Nostrum. Il contribuente ha pagato 1.000 ero per ciascuna vita umana, più o meno un terzo di quanto Renzi vuole dare nei primi 3 anni di vita per i prossimi nostri concittadini che nasceranno. Qualcuno dirà che i nostri figli sono italiani, mentre quelli che arrivano in barca sono stranieri. Che insomma è meglio fare qualcosa per noi che per loro. Ma la differenza è che i nostri bambini nascono comunque, mentre loro vanno incontro alla morte.

Ce n’è un’altra di differenza: gli italiani che nascono sono scritti su un registro, gli stranieri che muoiono non li conta nessuno.

«». Il manifesto

Tra le imma­gini che cele­brano la mis­sione del pre­si­dente del Con­si­glio a Bre­scia, ce n’è una in cui Renzi si stringe accanto al pre­si­dente della Con­fin­du­stria bre­sciana Bono­metti, uomo di destra, falco delle rela­zioni indu­striali, che un attimo dopo lo scatto dichia­rerà: «Il sin­da­cato è un osta­colo sulla strada del rilan­cio dell’Italia». Sullo slan­cio, il pre­si­dente del Con­si­glio si rifiu­terà di rice­vere i rap­pre­sen­tanti Fiom nella fab­brica di Bono­metti. Per­ché tra il segre­ta­rio Pd e l’imprenditore destrorso l’estremista è il primo.

In un’altra fab­brica lì vicino, dove gli ope­rai sono stati messi in ferie obbli­gate e sosti­tuiti con piante orna­men­tali, men­tre la poli­zia bastona lon­tani con­te­sta­tori, un Renzi scuro in volto e niente spi­ri­toso mette al cor­rente la pla­tea di Con­fin­du­stria e il pre­si­dente Squinzi che «c’è un dise­gno cal­co­lato, stu­diato e pro­get­tato per divi­dere il mondo del lavoro». Dice qui, in Ita­lia, «in que­ste set­ti­mane». E i padroni bat­tono le mani, con l’aria di chi pra­tico di com­plotti ha capito subito che l’oscura trama sco­perta dal pre­mier non deve fare paura. Può anzi tor­nare utile.

Per­ché se Renzi denun­cia che «c’è l’idea di fare del lavoro il luogo dello scon­tro» non lo fa per sco­prire l’acqua calda: dove altro che intorno al lavoro e al non lavoro può esserci la mas­sima ten­sione al set­timo anno di crisi e con i disoc­cu­pati che aumen­tano ancora? Né lo fa per rico­no­scere di essere stato lui a incen­diare l’ultima guerra, deci­dendo di can­cel­lare le garan­zie dell’articolo 18 più di quanto abbiano mai ten­tato i peg­giori governi di destra. Lo fa per riba­dire la sua visione della moder­nità ita­liana, il suo cam­bio di verso: scon­tro è quando qual­cuno non è d’accordo con lui.

È qui che si risolve l’apparente con­trad­di­zione di un pre­si­dente del Con­si­glio che da un lato si pre­senta come il fon­da­tore del Par­tito Nazio­nale, il volen­te­roso capo de «l’Italia unica e indi­vi­si­bile di chi vuol bene ai pro­pri figli», e dall’altro non manca occa­sione di strap­pare, attac­care stormi di avver­sari «gufi», sco­prirli intenti in sor­didi com­plotti.
Dal suo lato della strada non si deve vedere il paese che è in fondo a tutti gli indici eco­no­mici e rie­sce ancora ad arre­trare in quelli di civiltà; die­tro di lui si rac­con­tano spe­ranza e fidu­cia. E poi c’è «qual­cuno che vuole lo scon­tro ver­bale e non sol­tanto ver­bale». Quel qual­cuno è nei fatti il suo mini­stro di poli­zia, ma non impor­tano più i fatti. Il rac­conto di un’Italia che sta tutta da una parte sola, la sua, si regge in piedi con il rac­conto dei nemici. Da circondare.

Ave­vamo già avuto un nar­ra­tore della pace sociale al clo­ro­for­mio, del par­tito degli ope­rai ma anche dei padroni. Oggi la ver­sione di Renzi è assai più aggres­siva di quella di Vel­troni, più cat­tiva e più chiusa a sini­stra. Risponde alle cri­ti­che con la bru­ta­lità della men­zo­gna: ieri ai con­fin­du­striali in estasi il pre­mier ha rac­con­tato di una legge elet­to­rale «pronta a essere votata» e di riforme costi­tu­zio­nali pra­ti­ca­mente già fatte. Un castello, un for­tino di carte che prima o poi crol­lerà. Meglio spin­gere per­ché crolli dal suo lato.

Se i tribunali affermano che non è colpevole nessuno di quanti hanno torturato il ragazzo che aveva droga in tasca, e nessuno di quelli che non l'hanno curato, allora sono colpevoli quanti dovevano decretare la condanna della tortura e non l'hanno fatto. La cronaca di Eleonora Martini e un commento di Patrizio Gonnella.

Il manifesto, 1 novembre 2014


TUTTI ASSOLTI
«ALLORA STEFANO È VIVO?»

di Eleonora Martini

Corte d'Assise d'Appello. Cinque anni dopo, sentenza choc per la morte del giovane detenuto. Cancellata la sentenza di primo grado che condannò sei medici del Pertini di Roma. Non accolta la richiesta di rinviare gli atti in procura. Anselmo: «Andremo in Cassazione»

«Cosa vuol dire? Che Ste­fano è vivo, è a casa e ci sta aspet­tando?». Sono le prime parole che rie­scono a dire, la madre e il padre di Ste­fano Cuc­chi, il geo­me­tra tren­tu­nenne morto una set­ti­mana dopo il suo arre­sto (avve­nuto, per pos­sesso di stu­pe­fa­centi, il 15 otto­bre del 2009) nel reparto dete­nuti dell’ospedale San­dro Per­tini di Roma. Dopo nem­meno tre ore di camera di con­si­glio, il giu­dice Mario Lucio D’Andria, a capo del col­le­gio giu­di­cante della prima Corte di Assise d’Appello, legge la sen­tenza che nes­suno si aspet­tava, nem­meno nelle peg­giore — o migliore, a seconda del punto di vista — delle ipo­tesi. Tutti assolti, i dodici impu­tati, in alcuni casi per­ché il fatto non sus­si­ste, in altri per insuf­fi­cienza di prove. I reati con­te­stati, a seconda delle sin­gole posi­zioni, erano abban­dono di inca­pace, abuso d’ufficio, favo­reg­gia­mento, fal­sità ideo­lo­gica, lesioni ed abuso di autorita'.
Can­cel­lata dun­que la sen­tenza di primo grado che aveva con­dan­nato solo i sei medici per omi­ci­dio col­poso (tranne una, rite­nuta col­pe­vole di falso), e con­fer­mata per i tre infer­mieri e i tre agenti di poli­zia peni­ten­zia­ria la pre­ce­dente asso­lu­zione. Rifiu­tata la richie­sta del pro­cu­ra­tore gene­rale di una con­danna per tutti gli impu­tati, sia pure con diverse respon­sa­bi­lità e per reati diversi, e riget­tata per­fino la richie­sta dell’avvocato di parte civile, Fabio Anselmo, di rin­viare gli atti alla pro­cura per ria­prire le inda­gini e appu­rare chi, se non gli attuali impu­tati, causò le lesioni riscon­trate — e accer­tate — sul corpo della vittima. Appena letta la sen­tenza, a dispetto di quanto teme­vano i cara­bi­nieri in ser­vi­zio d’ordine nell’aula al secondo piano di via Romeo Romei, dai ban­chi dove erano seduti i fami­liari e gli amici di Ste­fano Cuc­chi non si è levata nem­meno una voce. Com­pren­si­bil­mente in festa, invece, gli impu­tati, con i loro legali e con­giunti.
Ila­ria, la sorella di Ste­fano che in tutti que­sti anni ha com­bat­tuto stre­nua­mente per appu­rare la verità, non può trat­te­nere lacrime. «Ste­fano è morto di giu­sti­zia, cin­que anni fa, in que­sto stesso tri­bu­nale dove, in una udienza diret­tis­sima, dei magi­strati non hanno notato le sue con­di­zioni — dice — Le con­di­zioni di un ragazzo che sei giorni dopo si è spento tra dolori atroci, solo come un cane». «È stato ucciso tre volte, e lo Stato si è autoas­solto – aggiun­gono i geni­tori, Gio­vanni e Rita Cuc­chi – andremo avanti, non ci fer­me­remo mai, lo dob­biamo a lui e agli altri ragazzi morti men­tre erano nelle mani di chi avrebbe dovuto tute­lare la loro inco­lu­mità». Dopo un attimo di sco­ra­mento, l’avvocato Anselmo riac­cende la spe­ranza: «Aspet­tiamo le moti­va­zioni della sen­tenza e poi faremo ricorso in Cassazione».
Ieri mat­tina, prima che i giu­dici si riti­ras­sero in camera di con­si­glio, il pena­li­sta aveva chie­sto che la sen­tenza di primo grado venisse annul­lata e che venis­sero «resti­tuiti gli atti alla pro­cura per­ché la sen­tenza è nulla alla radice, visto che si è fatto un pro­cesso per lesioni senza aver prima con­te­stato il reato di omi­ci­dio pre­te­rin­ten­zio­nale». Fabio Anselmo, mostrando alla giu­ria alcune gigan­to­gra­fie del corpo di Cuc­chi, ha fatto notare che il rico­vero del gio­vane non era «avve­nuto per magrezza come qual­cuno vor­rebbe sup­porre, ma per poli­trau­ma­ti­smo. Cuc­chi — ha pro­se­guito Anselmo — non era tos­si­co­di­pen­dente. Lo era nel 2003, ma in quei giorni aveva una vita del tutto nor­male, come ci hanno rife­rito alcuni testi. Agli esami cli­nici il fun­zio­na­mento degli organi era nor­male». Ed è pro­prio que­sto pen­siero che addo­lora mag­gior­mente la fami­glia Cuc­chi: «Era un ragazzo che tra mille dif­fi­coltà stava cer­cando di ripren­dere in mano la pro­pria vita», mor­mora la signora Rita. Una sen­tenza «dis­so­nante con le con­clu­sioni della com­mis­sione d’inchieta del Senato», com­menta Igna­zio Marino che l’ha pre­sie­duta. «Molto sod­di­sfatti», invece i difen­sori dei medici e del pri­ma­rio dell’ospedale Per­tini secondo i quali «il punto nodale era ed è che esi­stono dubbi sulla causa di morte di Cuc­chi, e que­sto esclude la respon­sa­bi­lità del medici».Ma chi pro­vocò a Cuc­chi le lesioni ver­te­brali accer­tate dagli esami autop­tici e dalle peri­zie di parte? Per i pm del pro­cesso di primo grado, il gio­vane fu “pestato” nelle camere di sicu­rezza del tri­bu­nale prima dell’udienza di con­va­lida del suo arre­sto. Una ver­sione rifiu­tata dai giu­dici della Terza Corte d’Assise secondo i quali Stefano morì in ospe­dale per mal­nu­tri­zione, tra­scu­rato e abban­do­nato dai sei medici che ieri, invece, sono stati assolti. Il pestag­gio ci fu, scris­sero i giu­dici nelle moti­va­zioni della sen­tenza di primo grado, ma «plau­si­bil­mente» fu opera dei cara­bi­nieri che lo ave­vano in custo­dia, non degli agenti penitenziari.

Di altra opi­nione, il pro­cu­ra­tore gene­rale della Corte d’Appello, Mario Remus, secondo il quale Cuc­chi fu pic­chiato dopo l’udienza di con­va­lida. Anche se ieri Remus, in fase di replica, ha tenuto conto del fatto che qual­che set­ti­mana fa, nelle ultime bat­tute del cor­poso iter pro­ces­suale che ha visto deporre davanti ai giu­dici quasi 150 testi­moni, la parte civile chiese l’acquisizione della testi­mo­nianza ine­dita dell’avvocato Maria Tiso che, in una mail inviata al col­lega Anselmo, ha rac­con­tato di essersi tro­vata quella mat­tina nel cor­ri­doio che con­duce all’aula 17 del palazzo di Giu­sti­zia e di aver visto Ste­fano scor­tato dai cara­bi­nieri «in con­di­zioni tali da far pen­sare a un pestag­gio subito». Prove evi­den­te­mente non suf­fi­cienti per la corte d’Appello che però non ha rite­nuto nem­meno di dover chie­dere un sup­ple­mento d’indagine.

Uno per tutti, il com­mento laco­nico di Amne­sty inter­na­tio­nal Ita­lia: «Verità e giu­sti­zia ancora più lontane


CUCCHI,INGIUSTIZIA È FATTA

di Patrizio Gonnella

Lo spirito di corpo e la tortura. In mancanza del delitto di tortura le imputazioni nei confronti di poliziotti e medici non possono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di prescrizione sono molto più brevi. Ora il processo rischia la mannaia dell’estinzione

Nes­sun col­pe­vole, dun­que tutti inno­centi. Nes­sun col­pe­vole dun­que tutti col­pe­voli. Nel pro­cesso per la morte di Ste­fano Cuc­chi ha vinto lo spi­rito di corpo, quello stesso spi­rito di corpo che da 25 anni impe­di­sce al nostro Paese di intro­durre il cri­mine di tor­tura nel codice penale. Uno spi­rito di corpo che si estende ver­ti­cal­mente dal basso verso l’alto, che si muove oriz­zon­tal­mente tra divise e camici, che col­pi­sce mor­tal­mente le per­sone e le istituzioni.
Così accade che per quasi tre decenni il Par­la­mento si è sot­tratto a un obbligo inter­na­zio­nale, in quanto con­di­zio­nato dai ver­tici della sicu­rezza. In que­sto modo hanno tutti insieme aval­lato l’idea che la vio­lenza isti­tu­zio­nale non è una que­stione di mele marce bensì una scelta di sistema.

I giu­dici della Corte d’Appello di Roma pro­ba­bil­mente moti­ve­ranno l’assoluzione di poli­ziotti e medici soste­nendo che le prove non erano suf­fi­cienti. Sup­po­niamo che sia così. Una moti­va­zione di que­sto tipo vuol dire che le prove non sono state cer­cate, o sono state tenute nascoste.

Nei casi di tor­tura vi sono poli­ziotti che devono inda­gare su col­le­ghi. Lo spi­rito di corpo ha vinto. Tutti assolti e dun­que tutti col­pe­voli. I primo col­pe­voli sono coloro che in que­sti lun­ghi anni hanno remato con­tro la cri­mi­na­liz­za­zione della tor­tura. Ne abbiamo sen­tite e viste di tutti i colori. Da chi soste­neva la tesi che biso­gna tor­tu­rare almeno due volte per com­met­tere il delitto a chi ha impe­dito la pre­vi­sione del reato pur di difen­dere i pm che inda­gano. Tutte vol­ga­rità per l’appunto.

Pro­prio ieri il Con­si­glio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite nelle quasi 200 rac­co­man­da­zioni fatte all’Italia ha riba­dito la neces­sità di punire i tor­tu­ra­tori. Da qual­che giorno è ripresa la discus­sione alla Camera di un testo di legge appro­vato la scorsa pri­ma­vera in Senato. Un testo per molti versi ina­de­guato e insod­di­sfa­cente. È stato di recente audito anche il capo della Poli­zia, Ales­san­dro Pansa il quale ha detto testual­mente che «siamo favo­re­voli, ma il legi­sla­tore valuti il rischio che la fase appli­ca­tiva, se non tipizza meglio la fat­ti­spe­cie, pro­vo­chi denunce stru­men­tali con­tro le forze dell’ordine che potreb­bero demo­ti­varle. Nes­suna difesa cor­po­ra­tiva da parte mia».

Ha fatto bene la pre­si­dente della Com­mis­sione Giu­sti­zia della Camera Dona­tella Fer­ranti a sen­tire il Capo della Poli­zia in modo che tutti dicano in modo tra­spa­rente quali sono le pro­prie idee. Ales­san­dro Pansa ha richia­mato la parola cor­po­ra­zione, parola che rimanda diret­ta­mente allo spi­rito di corpo.Va rotta la catena cor­po­ra­tiva. Spetta alle forze poli­ti­che farlo, con net­tezza. Va intro­dotto il prin­ci­pio della respon­sa­bi­lità indi­vi­duale. In man­canza del cri­mine di tor­tura si per­pe­tua l’impunità che riporta a respon­sa­bi­lità col­let­tive gravi incom­pa­ti­bili con una demo­cra­zia compiuta.

Sono tra­scorsi poco più di cin­que anni dalla morte di Ste­fano Cucchi. In man­canza del delitto di tor­tura le impu­ta­zioni nei con­fronti di poli­ziotti e medici non pos­sono che essere per reati ben meno gravi per i quali i tempi di pre­scri­zione sono molto più brevi. Ora il pro­cesso rischia la man­naia dell’estinzione. Detto que­sto noi tutti sap­piamo che non è alla giu­sti­zia che dob­biamo affi­dare la rico­stru­zione della verità sto­rica. La giu­sti­zia è per sua natura fal­lace. In que­sto caso però la verità pro­ces­suale ha deciso di vol­tarsi in modo tra­gico dall’altra parte rispetto alla verità storica.

Molte volte abbiamo chie­sto al Par­la­mento un sus­sulto di dignità. Lo chie­diamo ancora. Chie­diamo che sia appro­vata subito una legge con­tro la tor­tura in piena coe­renza con la defi­ni­zione delle Nazioni Unite. Chie­diamo che ciò avvenga nel nome di Ila­ria e dei geni­tori di Ste­fano, com­bat­tenti per la libertà e la giustizia.

«Se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo». La Repubblica, 31 ottobre 2014
Il dato della, piccola, riduzione del numero di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale avvenuta tra il 2012 e il 2013 va accolto con molta cautela, non solo per la sua esiguità e perché si riferisce alla situazione di un anno fa, ma perché nasconde fenomeni divergenti, che nel loro insieme segnalano un rafforzamento delle disuguaglianze.

In primo luogo, l’unico dei tre indicatori che è diminuito riguarda la deprivazione grave, perché è calata la percentuale di persone che non può avere un pasto adeguato almeno ogni due giorni, che non ha mezzi per riscaldare a sufficienza l’abitazione e non avrebbe neppure 800 euro di risparmi per fronteggiare un’emergenza. Si tratta di situazioni al limite della sopravvivenza. Non vi è stato, invece, nessun miglioramento per quanto riguarda la percentuale di coloro che si trovano in condizione di povertà relativa e di coloro che vivono in una famiglia in cui nessun adulto (esclusi gli studenti e i pensionati) è occupato.

In secondo luogo, il miglioramento è distribuito in modo molto diseguale tra le varie aree del Paese e tra i diversi gruppi sociali. È stato molto più sostanziale nel Centro- Nord, dove il fenomeno della povertà e dell’esclusione sociale è relativamente contenuto, che nelle regioni meridionali, dove è tradizionalmente molto più diffuso ed era maggiormente aumentato negli anni della crisi. Come ha documentato anche il recente rapporto Svimez, il gap tra le condizioni di vita nel Mezzogiorno e il resto del Paese si sta ampliando, senza che ciò riesca ad entrare nel dibattito politico. Allo stesso tempo, il Mezzogiorno si conferma anche l’area del Paese in cui le disuguaglianze economiche sono maggiori, segnalando l’inefficienza e l’insostenibilità di un sistema economico e sociale locale e dei suoi rapporti con il sistema nazionale complessivo.

Il gap si sta ampliando anche tra vecchi e giovani e tra famiglie senza figli o con un solo figlio e famiglie con tre figli e più. Il miglioramento è concentrato tra gli anziani e le famiglie senza figli (conviventi) o con un figlio solo. Viceversa, la situazione è peggiorata per le famiglie con tre o più figli. Ciò è vero in tutte le aree geografiche, ma nel Mezzogiorno il rischio di povertà ed esclusione sociale riguarda ormai più del 40 per cento delle famiglie.

Il peggioramento dei nuclei famigliari numerosi significa che siamo di fronte ad un peggioramento della povertà minorile, un fenomeno che costituisce una caratteristica distintiva del nostro Paese, e che tuttavia raccoglie ancora meno attenzione nel dibattito pubblico e da parte dei policy maker rispetto alla questione meridionale e certamente non trova neppure l’inizio di una risposta nel bonus triennale per i nuovi nati introdotto con la legge di stabilità. Qualcuno potrebbero persino dire che è irresponsabile incentivare le nascite con misure di breve periodo se non si affronta prima in modo sistematico e coerente la questione della povertà minorile, che dipende in larga misura dalla combinazione di insufficiente reddito da lavoro e insufficienti, o assenti, trasferimenti che tengano conto del costo dei figli lungo tutto il percorso di crescita.

In ogni caso, forse non è comunicativamente attraente e pagante nell’immediato a livello politico, ma se c’è un tema che richiede un orientamento al futuro e non al passato, è proprio quello della povertà minorile: se non sul piano dell’equità, certo per i suoi effetti negativi di lungo periodo.

«Le parole del papa sono un distil­lato di saperi, espe­rienze e rifles­sioni sedi­men­tato in anni di lotte sociali, soprat­tutto dell’America Latina. Ma se a ispi­rarlo fosse stato invece dio, e se dio la pen­sasse così, ben venga anche lui tra di noi».

Il Manifesto, 31 ottobre 2014 (m.p.r.)

Dal discorso del papa nel suo incon­tro del 28 otto­bre con i movi­menti popo­lari pos­siamo rica­vare un pro­gramma poli­tico e sociale di respiro pla­ne­ta­rio dal quale non potremo più pre­scin­dere, per­ché rac­co­glie in larga parte le istanze che orien­tano il nostro ope­rato, pro­iet­tan­dole su uno sce­na­rio che ingloba l’intero pia­neta. Certo, le parole del papa sono un distil­lato di saperi, espe­rienze e rifles­sioni sedi­men­tato in anni di lotte sociali, soprat­tutto dell’America Latina (ma non man­cano rife­ri­menti a con­te­sti a noi più fami­liari come quello euro­peo). Ma se a ispi­rarlo fosse stato invece dio, e se dio la pen­sasse così, ben venga anche lui tra di noi: a veri­fi­care la tra­du­zione delle sue parole in ini­zia­tive e in mobi­li­ta­zioni sarà la veri­fica dei fatti. La piat­ta­forma deli­neata inell’incontro con il papa ha tre nomi:lavoro, terra e casa: «diritti sacri», li defi­ni­sce il pontefice.

Sul lavoro il papa dice: «Non esi­ste peg­giore povertà mate­riale di quella che non per­mette di gua­da­gnarsi il pane e priva della dignità del lavoro». Occorre riven­di­care e otte­nere «una remu­ne­ra­zione degna, la sicu­rezza sociale, una coper­tura pen­sio­ni­stica, la pos­si­bi­lità di avere un sin­da­cato». «La disoc­cu­pa­zione gio­va­nile, l’informalità e la man­canza di diritti» sono il frutto «di un sistema eco­no­mico che mette i bene­fici (il pro­fitto) al di sopra dell’uomo». E qui il papa accenna un tema a lungo trat­tato da Zig­munt Bau­man (in Vite di scarto); d’altronde tra i suoi inter­lo­cu­tori ci sono i car­to­ne­ros, che vivono recu­pe­rando rifiuti. Quel sistema ini­quo è il pro­dotto «di una cul­tura dello scarto che con­si­dera l’essere umano come un bene di con­sumo, che si può usare e poi buttare».

Generazioni al macero

Alle forme tra­di­zio­nali di sfrut­ta­mento e di oppres­sione se ne è aggiunta infatti un’altra, quella di ren­dere gli esseri umani super­flui: «quelli che non si pos­sono inte­grare, gli esclusi, sono scarti, ecce­denze… Que­sto suc­cede quando al cen­tro di un sistema eco­no­mico c’è il dio denaro e non la per­sona umana». Così «si scar­tano i bam­bini e si scar­tano gli anziani per­ché non ser­vono, non pro­du­cono». E «lo scarto dei gio­vani» ha por­tato ad «annul­lare un’intera gene­ra­zione… per poter man­te­nere e rie­qui­li­brare un sistema nel quale al cen­tro c’è il dio denaro». E in chi, come i car­to­ne­ros, vive pro­prio recu­pe­rando scarti, il papa vede un’allusione a un modo com­ple­ta­mente alter­na­tivo di con­ce­pire il lavoro: «Nono­stante que­sta cul­tura dello scarto, delle ecce­denze, molti di voi, lavo­ra­tori esclusi, ecce­denze per que­sto sistema, avete inven­tato il vostro lavoro con tutto ciò che sem­brava non poter essere più uti­liz­zato, ma voi con la vostra abi­lità arti­gia­nale, con la vostra ricerca, con la vostra soli­da­rietà, con il vostro lavoro comu­ni­ta­rio, con la vostra eco­no­mia popo­lare, ci siete riu­sciti… Que­sto, oltre che lavoro, è poesia!»

Par­lando della terra — intesa nel duplice signi­fi­cato di ambiente (il pia­neta Terra) e di suolo, oggetto del lavoro dei con­ta­dini — lar­ga­mente pre­senti all’incontro, con la loro asso­cia­zione pla­ne­ta­ria Via cam­pe­sina — il papa si appella innan­zi­tutto al senso pro­fondo del lavoro con­ta­dino, che non è quello di sfrut­tare e deva­stare la terra con l’agrobusiness, ma quello di custo­dirla: col­ti­van­dola e facen­dolo «in comu­nità». Per que­sto occorre com­bat­tere «lo sra­di­ca­mento di tanti fra­telli con­ta­dini» pro­vo­cato dall’accaparramento delle terre, dalla defo­re­sta­zione, dall’appropriazione dell’acqua, da pesti­cidi ina­de­guati». Quella sepa­ra­zione «non è solo fisica ma anche esi­sten­ziale e spi­ri­tuale» e rischia di por­tare all’estinzione le comu­nità rurali. Il nemico di que­sta cul­tura con­ta­dina, come dei diritti del lavoro, è la spe­cu­la­zione finan­zia­ria, che «con­di­ziona il prezzo degli ali­menti trat­tan­doli come una merce qual­siasi» pro­vo­cando quell’altra «dimen­sione del pro­cesso glo­bale» che è la fame, pro­prio men­tre si scar­tano e si but­tano via ton­nel­late di alimenti.

Sulla casa (che vuol dire abi­tare in un con­te­sto sociale di pros­si­mità), il papa vuole «che tutte le fami­glie abbiano una casa e che tutti i quar­tieri abbiano un’infrastruttura ade­guata: fogna­ture, luce, gas, asfalto, scuole, ospe­dali, pronto soc­corso, cir­coli spor­tivi e tutte le cose che creano vin­coli e uni­scono». E aggiunge, «un tetto, per­ché sia una casa, deve anche avere una dimen­sione comu­ni­ta­ria: il quar­tiere, ed è pro­prio nel quar­tiere che s’inizia a costruire que­sta grande fami­glia dell’umanità, a par­tire da ciò che è più imme­diato, dalla con­vi­venza col vici­nato». È pro­prio gra­zie a que­sti rap­porti, dove ancora esi­stono, che «nei quar­tieri popo­lari sus­si­stono valori ormai dimen­ti­cati nei cen­tri arric­chiti», per­ché «lì lo spa­zio pub­blico non è un mero luogo di tran­sito, ma un’estensione della pro­pria casa, un luogo dove gene­rare vin­coli con il vicinato».

Il furto della terra

«Quanto sono belle – aggiunge — le città che supe­rano la sfi­du­cia mal­sana e che inte­grano i diversi e fanno di que­sta inte­gra­zione un nuovo fat­tore di svi­luppo». Siamo tal­mente assue­fatti a vedere situa­zioni di depri­va­zione da chia­mare chi è senza casa, com­presi i bam­bini, «per­sone senza fissa dimora»: un eufe­mi­smo che è il colmo dell’ipocrisia. Ma «die­tro ogni eufe­mi­smo – ricorda — c’è un delitto». È il delitto degli sgom­beri for­zati, che inte­res­sano milioni di abi­tanti vit­time del grab­bing della terra, ma anche degli slums urbani e di tante situa­zioni di casa nostra.

In tutti e tre que­sti ambiti – lavoro, terra e casa — l’ostacolo che si frap­pone alla rea­liz­za­zione degli obiet­tivi per cui si bat­tono i poveri della Terra è «l’impero del denaro»; il capi­ta­li­smo finan­zia­rio, diremmo noi. Ma «i poveri non solo subi­scono l’ingiustizia, ma lot­tano anche con­tro di essa». E «non si accon­ten­tano di pro­messe illu­so­rie, scuse o alibi… non stanno ad aspet­tare a brac­cia con­serte piani assi­sten­ziali o solu­zioni che non arri­vano mai» o che vanno «nella dire­zione di ane­ste­tiz­zare o di addo­me­sti­care». «Vogliono essere pro­ta­go­ni­sti, si orga­niz­zano, stu­diano, lavo­rano, esi­gono e soprat­tutto pra­ti­cano quella soli­da­rietà che esi­ste fra quanti sof­frono… e che la nostra civiltà sem­bra aver dimen­ti­cato». Quella soli­da­rietà «è molto di più di alcuni atti di gene­ro­sità». È par­te­ci­pa­zione: «pen­sare e agire in ter­mini di comu­nità, di prio­rità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni».

Parole con cui viene messo in discus­sione tutto l’universo della pro­prietà pri­vata, che è sem­pre appro­pria­zione: un atto, un agire con­tro altri, e non uno stato, una realtà immu­ta­bile. Per que­sto «la soli­da­rietà intesa nel suo senso più pro­fondo è un modo di fare la sto­ria ed è que­sto che fanno i movi­menti popo­lari». E ancora: «Che bello quando vediamo in movi­mento popoli e soprat­tutto i loro mem­bri più poveri e i gio­vani. Allora sì, si sente il vento di pro­messa che rav­viva la spe­ranza di un mondo migliore» (parole che non riman­dano a un aldilà, ma a que­sto mondo e a que­sta vita). Dun­que, che que­sto vento si tra­sformi in ura­gano di spe­ranza. «Que­sto è il mio desi­de­rio». Ed è anche il nostro.
Conversione ecologica

Quell’uragano è la con­ver­sione eco­lo­gica. Per­ché accanto al dio denaro, causa prima della mise­ria in cui si dibat­tono i poveri, gli altri suoi ber­sa­gli sono la guerra e la deva­sta­zione dell’ambiente: «Non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distrug­giamo il pia­neta» (e qui il papa annun­cia una pros­sima enci­clica sull’ecologia). «Ci sono sistemi eco­no­mici che per soprav­vi­vere devono fare la guerra. Allora si fab­bri­cano e si ven­dono armi e così i bilanci delle eco­no­mie che sacri­fi­cano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ven­gono sanati». E «un sistema eco­no­mico incen­trato sul dio denaro ha anche biso­gno di sac­cheg­giare la natura…per soste­nere il ritmo fre­ne­tico del con­sumo». Ma «il creato non è una pro­prietà di cui pos­siamo disporre a nostro pia­cere; e ancor meno è una pro­prietà solo di alcuni, di pochi. È un dono di cui dob­biamo pren­derci cura» uti­liz­zan­dolo a bene­fi­cio di tutti.

«Dob­biamo cam­biare – dice il papa — dob­biamo rimet­tere la dignità umana al cen­tro e su quel pila­stro vanno costruite le strut­ture sociali alter­na­tive di cui abbiamo biso­gno». Ed ecco allora un elenco delle virtù che cam­biano il mondo: «Va fatto con corag­gio, ma anche con intel­li­genza. Con tena­cia, ma senza fana­ti­smo. Con pas­sione, ma senza vio­lenza. E tutti insieme, affron­tando i con­flitti senza rima­nervi intrap­po­lati»; e pra­ti­cando «una cul­tura dell’incontro, così diversa dalla xeno­fo­bia, dalla discri­mi­na­zione e dall’intolleranza». Si tratta di una lotta al tempo stesso glo­bale e locale: nasce dai rap­porti di pros­si­mità, ma abbrac­cia tutto il pia­neta: «So che lavo­rate ogni giorno in cose vicine, con­crete, nel vostro ter­ri­to­rio, nel vostro quar­tiere, nel vostro posto di lavoro: ma vi invito anche a con­ti­nuare a cer­care que­sta pro­spet­tiva più ampia, che i vostri sogni volino alto e abbrac­cino il tutto!».

L’autonomia dei movimenti

Seguono alcune rac­co­man­da­zioni rela­tive all’organizzazione e alla ricon­fi­gu­ra­zione della demo­cra­zia: «Non è mai un bene rac­chiu­dere il movi­mento in strut­ture rigide… e lo è ancor meno cer­care di assor­birlo, di diri­gerlo o di domi­narlo; i movi­menti liberi hanno una pro­pria dina­mica, dob­biamo cer­care di cam­mi­nare insieme». E «i movi­menti popo­lari espri­mono la neces­sità urgente di rivi­ta­liz­zare le nostre demo­cra­zie. È impos­si­bile imma­gi­nare un futuro per la società senza la par­te­ci­pa­zione come pro­ta­go­ni­ste delle grandi mag­gio­ranze e que­sto pro­ta­go­ni­smo tra­scende i pro­ce­di­menti logici della demo­cra­zia for­male. La pro­spet­tiva di un mondo di pace e di giu­sti­zia dura­ture… esige che noi creiamo nuove forme di par­te­ci­pa­zione che inclu­dano i movi­menti popo­lari e ani­mino le strut­ture di governo locali, nazio­nali e inter­na­zio­nali con quel tor­rente di ener­gia morale che nasce dal coin­vol­gi­mento degli esclusi… con animo costrut­tivo, senza risen­ti­mento, con amore».

Mi sono limi­tato a pochi com­menti. E ho ben poco da aggiun­gere.

Sinistra Pd. Se Renzi vince la sinistra interna farà testimonianza, se Renzi perde verrà travolta dalle macerie. E’ preferibile un disegno esplicito di rottura, con una guerriglia aperta sulle riforme.

Il manifesto, 30 ottobre 2014
Ormai di tempo per pren­dere le misure del feno­meno Renzi, la sini­stra Pd ne ha avuto abba­stanza. E, a meno di una con­sa­pe­vole volontà di ras­si­cu­ra­zione che pog­gia però sul niente, dovrebbe aver per­ce­pito che uno spa­zio per la media­zione è impos­si­bile. Renzi peral­tro non lo cerca, si vanta di aver “spia­nato” i reduci, schiaf­feg­giato le loro ban­diere, umi­liato la loro piazza. L’offerta di una tre­gua è una ste­rile invo­ca­zione, quella di non infie­rire troppo, rivolta dagli scon­fitti allo spie­tato castigatore.

Renzi non è inte­res­sato alla costru­zione di un par­tito strut­tu­rato, retto cioè da una logica uni­ta­ria e da una lea­der­ship rispet­tosa delle dif­fe­renze interne. Riven­dica solo una fedeltà per­so­nale, con scene ordi­na­rie di una obbe­dienza con­for­mi­stica al capo. Egli non mostra alcuna pre­oc­cu­pa­zione per i com­piti di coe­sione pro­pri di una dire­zione poli­tica auto­re­vole. Renzi vuole solo coman­dare con col­la­bo­ra­tori dalla schiena curva, non diri­gere una orga­niz­za­zione com­plessa. Chi non si ade­gua alla sua ine­so­ra­bile stra­te­gia di edi­fi­care una variante del par­tito per­so­nale, non più a matrice azien­dale ma non per que­sto sprov­vi­sto di fonti ingenti di approv­vi­gio­na­mento mediatico-finanziario che lo rin­sal­dano al potere, è desti­nato ad essere schiac­ciato, senza pietà.

E’ per lui inu­tile ogni visi­bile segno di auto­no­mia, qual­siasi voce cri­tica farebbe solo ombra alla sacra­lità del capo che in soli­tu­dine inter­preta gli umori pro­fondi del popolo ostile all’élite. La pre­tesa di domi­nio è così asso­luta che non esita a spez­zare ogni sta­bile radi­ca­mento del Pd nella com­po­nente, quella del lavoro, peral­tro mag­gio­ri­ta­ria della sua antica coa­li­zione sociale. Iden­tità, radici sociali, forma par­tito, cul­tura delle isti­tu­zioni: dav­vero tutto separa la sini­stra del Pd da Renzi e pro­prio nulla la uni­sce a un capo che per­se­gue un dise­gno, sem­pre più espli­cito, di edi­fi­care un potere per­so­nale a forte traino popu­li­sta e ben pro­tetto dal quasi totale con­for­mi­smo dei media.

Que­sto espli­cito piano di sem­pli­fi­ca­zione a sfondo cesaristico-mediatico è for­te­mente regres­sivo, incom­pa­ti­bile con la cul­tura della sini­stra e andrebbe per­ciò osta­co­lato, in ogni modo effi­cace. La vit­to­ria di Renzi non coin­cide con il suc­cesso della sini­stra. Certo, la situa­zione è per la mino­ranza assai para­dos­sale, per­ché la obbliga a distri­carsi tra un male mag­giore e un male minore.

Se vince Renzi, fini­sce la poli­tica e viene san­cita l’eutanasia di ogni aspi­ra­zione alla rina­scita di una qual­che demo­cra­zia dei par­titi. Se perde, non dopo una bat­ta­glia tra­spa­rente ma per­ché tra­mor­tito dalla forza delle cose, dalle sue mace­rie verrà tra­volta anche la sini­stra interna, rovi­nata dal suo vano atten­di­smo. E’ infatti un’illusione aspet­tare obbe­dienti, e solo con qual­che riserva, dalle retro­vie che il folle piano vada a sbat­tere e imma­gi­nare di ripren­dere a cam­mi­nare a testa alta subito dopo il fra­gore rovi­noso da tutti avvertito.

E’ pre­fe­ri­bile per­ciò un lavoro poli­tico con­sa­pe­vole, un dise­gno espli­cito di rot­tura che accom­pa­gni Renzi alla resa. Nello svuo­ta­mento delle resi­duali divi­sioni poli­ti­che tutte ospi­tate in un indi­stinto par­tito della nazione (in effetti Renzi potrebbe essere, con pari cre­di­bi­lità, lea­der di uno qual­siasi dei tre non-partiti oggi esi­stenti), si con­so­li­de­rebbe altri­menti un sistema informe e retto da un pro­filo pseudo cari­sma­tico dif­fi­cile da scal­fire una volta con­so­li­dato al potere.

Machia­velli notava che in poli­tica «si cava una regola gene­rale, la quale mai o raro falla, che chi è cagione che uno diventi potente, ruina». E nella rapida, quanto sinora incon­tra­stata, ascesa di Renzi alla con­di­zione di «potente», anche i suoi avver­sari interni sono la «cagione» del tanto domi­nio in fretta accu­mu­lato. Prima sol­le­ci­tando in dire­zione un cam­bio di passo rispetto a Letta, e poi votando in aula una fidu­cia “cri­tica” alla delega all’esecutivo per la sop­pres­sione dell’articolo 18, la mino­ranza del Pd ha con­sen­tito al ren­zi­smo di incas­sare dei grandi atte­stati di potenza e con tali incaute mosse rischia forse di aver san­cito la pro­pria «ruina».

Il timore di una crisi di governo ha para­liz­zato qual­siasi dispo­ni­bi­lità alla prova di forza su una grande que­stione iden­ti­ta­ria (diritto di licen­ziare come arma della moder­niz­za­zione e della ridu­zione di ogni dignità al lavoro). Sinora la mino­ranza del Pd ha evi­tato di por­tare lo scon­tro nella sola zona di cri­ti­cità esi­stente per Renzi, cioè nei gruppi par­la­men­tari, non ancora del tutto omo­lo­gati ma anch’essi pros­simi alla resa nel mirag­gio di una rican­di­da­tura. E così ha spia­nato la strada al dise­gno di un potere a con­du­zione per­so­nale senza mai lan­ciare dei sassi, col­pire di sor­presa, ten­dere agguati. Machia­velli avver­tiva che in poli­tica «è meglio fare et pen­tirsi che non fare et pentirsi».

La scis­sione allora

? Non è detto che essa accada. La tat­tica pre­vale sulla stra­te­gia in que­ste scelte. Esclu­derla in linea di prin­ci­pio è però di sicuro una castra­zione pre­ven­tiva della pos­si­bi­lità di osta­co­lare un tra­gitto regres­sivo che con­duce verso il domi­nio di una per­sona priva di oppo­si­zioni, limiti, con­trolli e alla sicura archi­via­zione a tappe suc­ces­sive della forma di governo par­la­men­tare. Ogni pra­tica scis­sio­ni­sta deve valu­tare, con distacco, la pre­senza di una con­di­zione indi­spen­sa­bile. Machia­velli chia­ri­sce bene la que­stione, che vale per ogni costrut­tore di una cosa nuova: «esa­mi­nare se que­sti inno­va­tori stanno per loro mede­simi, o se dipen­dano da altri: ciò è se per con­durre l’opera loro biso­gna che pre­ghino, o vero pos­sono forzare».

Insomma, su cosa, su quali forze reali, potrebbe pog­giare l’iniziativa per imporre, nella lotta aperta con­tro la dege­ne­ra­zione del poli­tico, una auto­noma forza della sini­stra? La frat­tura sociale sui temi del lavoro, il pos­si­bile scio­pero gene­rale come radi­ca­liz­za­zione della con­tesa, offrono una occa­sione pro­pi­zia ovvero aprono la giun­tura cri­tica per rom­pere. Il rap­porto orga­nico del nuovo sog­getto poli­tico con il sin­da­cato evoca uno sce­na­rio quasi rove­sciato rispetto al rap­porto tra sog­getto poli­tico e orga­niz­za­zione sociale domi­nate nella sto­ria repub­bli­cana. E però anche una tale for­ma­zione ad ibri­di­smo politico-sindacale (sulla scorta più della vicenda inglese che di quella con­ti­nen­tale) non farà strada senza una grande cul­tura poli­tica, non mino­ri­ta­ria e di mera protesta.

Nella assai fran­tu­mata mino­ranza Pd forse pre­varrà una linea più atten­di­sta (la guer­ri­glia sulle riforme elet­to­rali e isti­tu­zio­nali è però meno dirom­pente e mobi­li­tante come rea­zione allo sfre­gio sim­bo­lico per­pe­trato da Renzi sull’esplosivo tema iden­ti­ta­rio del lavoro). Se comun­que que­sta via della imbo­scata par­la­men­tare pre­varrà, almeno con essa si punti a bloc­care l’unica con­di­zione per il suc­cesso dello sta­ti­sta di Rignano, cioè l’Italicum comun­que ritoc­cato (con il rialzo delle soglie e il voto di pre­fe­renza). Senza il pre­mio di mag­gio­ranza in mano, Renzi ha le ali spun­tate e la sua pistola del ricatto diventa scarica.

Guer­ri­glia aperta sulle riforme, dun­que, e in più un ristretto ma coeso gruppo di con­tatto al senato (che mostri che senza di esso il governo non ha i numeri a Palazzo Madama), pos­sono creare degli osta­coli, sca­vare trap­pole affin­ché “pié veloce” inciampi. Le tat­ti­che pos­sono variare. Quello che non muta è però l’obiettivo. Renzi va scon­fitto. E da sinistra

Q «Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri»venire, 28 ottobre 2014

Buongiorno di nuovo,
sono contento di stare tra voi, inoltre vi faccio una confidenza: è la prima volta che scendo qui, non c’ero mai venuto. Come vi dicevo, provo grande gioia e vi do un caloroso benvenuto.
Grazie per aver accettato questo invito per dibattere i tanti gravi problemi sociali che affliggono il mondo di oggi, voi che vivete sulla vostra pelle la disuguaglianza e l’esclusione. Grazie al Cardinale Turkson per la sua accoglienza, grazie, Eminenza, per il suo lavoro e le sue parole.

Questo incontro dei Movimenti Popolari è un segno, un grande segno: siete venuti a porre alla presenza di Dio, della Chiesa, dei popoli, una realtà molte volte passata sotto silenzio. I poveri non solo subiscono l’ingiustizia ma lottano anche contro di essa!

Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di Ong, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare.

Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma una parola è molto più di alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, la terra e la casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro: i dislocamenti forzati, le emigrazioni dolorose, la tratta di persone, la droga, la guerra, la violenza e tutte quelle realtà che molti di voi subiscono e che tutti siamo chiamati a trasformare. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia ed è questo che fanno i movimenti popolari.

Questo nostro incontro non risponde a un’ideologia. Voi non lavorate con idee, lavorate con realtà come quelle che ho menzionato e molte altre che mi avete raccontato. Avete i piedi nel fango e le mani nella carne. Odorate di quartiere, di popolo, di lotta! Vogliamo che si ascolti la vostra voce che, in generale, si ascolta poco. Forse perché disturba, forse perché il vostro grido infastidisce, forse perché si ha paura del cambiamento che voi esigete, ma senza la vostra presenza, senza andare realmente nelle periferie, le buone proposte e i progetti che spesso ascoltiamo nelle conferenze internazionali restano nel regno dell’idea, è un mio progetto.

Non si può affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si riduce l’altro alla passività, lo si nega o, peggio ancora, si nascondono affari e ambizioni personali: Gesù le definirebbe ipocrite. Che bello invece quando vediamo in movimento popoli e soprattutto i loro membri più poveri e i giovani. Allora sì, si sente il vento di promessa che ravviva la speranza di un mondo migliore. Che questo vento si trasformi in uragano di speranza. Questo è il mio desiderio.

Questo nostro incontro risponde a un anelito molto concreto, qualcosa che qualsiasi padre, qualsiasi madre, vuole per i propri figli; un anelito che dovrebbe essere alla portata di tutti, ma che oggi vediamo con tristezza sempre più lontano dalla maggioranza della gente: terra, casa e lavoro. È strano, ma se parlo di questo per alcuni il Papa è comunista. Non si comprende che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo. Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa. Mi soffermo un po’ su ognuno di essi perché li avete scelti come parola d’ordine per questo incontro.

Terra. All’inizio della creazione, Dio creò l’uomo custode della sua opera, affidandogli l’incarico di coltivarla e di proteggerla. Vedo che qui ci sono decine di contadini e di contadine e voglio felicitarmi con loro perché custodiscono la terra, la coltivano e lo fanno in comunità. Mi preoccupa lo sradicamento di tanti fratelli contadini che soffrono per questo motivo e non per guerre o disastri naturali. L’accaparramento di terre, la deforestazione, l’appropriazione dell’acqua, i pesticidi inadeguati, sono alcuni dei mali che strappano l’uomo dalla sua terra natale. Questa dolorosa separazione non è solo fisica ma anche esistenziale e spirituale, perché esiste una relazione con la terra che sta mettendo la comunità rurale e il suo peculiare stile di vita in palese decadenza e addirittura a rischio di estinzione.

L’altra dimensione del processo già globale è la fame. Quando la speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile. So che alcuni di voi chiedono una riforma agraria per risolvere alcuni di questi problemi e, lasciatemi dire che in certi paesi, e qui cito il compendio della Dottrina sociale della Chiesa, “la riforma agraria diventa pertanto, oltre che una necessità politica, un obbligo morale” (CDSC, 300).

Non lo dico solo io, ma sta scritto nel compendio della Dottrina sociale della Chiesa. Per favore, continuate a lottare per la dignità della famiglia rurale, per l’acqua, per la vita e affinché tutti possano beneficiare dei frutti della terra.

Secondo, Casa. L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia. Non bisogna mai dimenticare che Gesù nacque in una stalla perché negli alloggi non c’era posto, che la sua famiglia dovette abbandonare la propria casa e fuggire in Egitto, perseguitata da Erode. Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo! Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato. Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, “persone senza fissa dimora”. È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto.

Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.

Sapete che nei quartieri popolari dove molti di voi vivono sussistono valori ormai dimenticati nei centri arricchiti. Questi insediamenti sono benedetti da una ricca cultura popolare, lì lo spazio pubblico non è un mero luogo di transito ma un’estensione della propria casa, un luogo dove generare vincoli con il vicinato. Quanto sono belle le città che superano la sfiducia malsana e che integrano i diversi e fanno di questa integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell’altro! Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell’integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e “truccare” le ferite sociali invece di curarle promuovendo un’integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione. Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute — l’ho già detto — all’educazione e alla sicurezza della proprietà.

Terzo, Lavoro. Non esiste peggiore povertà materiale — mi preme sottolinearlo — di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro. La disoccupazione giovanile, l’informalità e la mancanza di diritti lavorativi non sono inevitabili, sono il risultato di una previa opzione sociale, di un sistema economico che mette i benefici al di sopra dell’uomo, se il beneficio è economico, al di sopra dell’umanità o al di sopra dell’uomo, sono effetti di una cultura dello scarto che considera l’essere umano di per sé come un bene di consumo, che si può usare e poi buttare.

Oggi al fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione si somma una nuova dimensione, una sfumatura grafica e dura dell’ingiustizia sociale; quelli che non si possono integrare, gli esclusi sono scarti, “eccedenze”. Questa è la cultura dello scarto, e su questo punto vorrei aggiungere qualcosa che non ho qui scritto, ma che mi è venuta in mente ora. Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il denominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori.

E per illustrarlo ricordo qui un insegnamento dell’anno 1200 circa. Un rabbino ebreo spiegava ai suoi fedeli la storia della torre di Babele e allora raccontava come, per costruire quella torre di Babele, bisognava fare un grande sforzo, bisognava fabbricare i mattoni, e per fabbricare i mattoni bisognava fare il fango e portare la paglia, e mescolare il fango con la paglia, poi tagliarlo in quadrati, poi farlo seccare, poi cuocerlo, e quando i mattoni erano cotti e freddi, portarli su per costruire la torre.
Se cadeva un mattone — era costato tanto con tutto quel lavoro —, era quasi una tragedia nazionale. Colui che l’aveva lasciato cadere veniva punito o cacciato, o non so che cosa gli facevano, ma se cadeva un operaio non succedeva nulla. Questo accade quando la persona è al servizio del dio denaro; e lo raccontava un rabbino ebreo nell’anno 1200, spiegando queste cose orribili.

Per quanto riguarda lo scarto dobbiamo anche essere un po’ attenti a quanto accade nella nostra società. Sto ripetendo cose che ho detto e che stanno nella Evangelii gaudium. Oggi si scartano i bambini perché il tasso di natalità in molti paesi della terra è diminuito o si scartano i bambini per mancanza di cibo o perché vengono uccisi prima di nascere; scarto di bambini.

Si scartano gli anziani perché non servono, non producono; né bambini né anziani producono, allora con sistemi più o meno sofisticati li si abbandona lentamente, e ora, poiché in questa crisi occorre recuperare un certo equilibrio, stiamo assistendo a un terzo scarto molto doloroso: lo scarto dei giovani. Milioni di giovani — non dico la cifra perché non la conosco esattamente e quella che ho letto mi sembra un po’ esagerata — milioni di giovani sono scartati dal lavoro, disoccupati.

Nei paesi europei, e queste sì sono statistiche molto chiare, qui in Italia, i giovani disoccupati sono un po’ più del quaranta per cento; sapete cosa significa quaranta per cento di giovani, un’intera generazione, annullare un’intera generazione per mantenere l’equilibrio. In un altro paese europeo sta superando il cinquanta per cento, e in quello stesso paese del cinquanta per cento, nel sud è il sessanta per cento. Sono cifre chiare, ossia dello scarto. Scarto di bambini, scarto di anziani, che non producono, e dobbiamo sacrificare una generazione di giovani, scarto di giovani, per poter mantenere e riequilibrare un sistema nel quale al centro c’è il dio denaro e non la persona umana.

Nonostante questa cultura dello scarto, questa cultura delle eccedenze, molti di voi, lavoratori esclusi, eccedenze per questo sistema, avete inventato il vostro lavoro con tutto ciò che sembrava non poter essere più utilizzato ma voi con la vostra abilità artigianale, che vi ha dato Dio, con la vostra ricerca, con la vostra solidarietà, con il vostro lavoro comunitario, con la vostra economia popolare, ci siete riusciti e ci state riuscendo... E, lasciatemelo dire, questo, oltre che lavoro, è poesia! Grazie.

Già ora, ogni lavoratore, faccia parte o meno del sistema formale del lavoro stipendiato, ha diritto a una remunerazione degna, alla sicurezza sociale e a una copertura pensionistica. Qui ci sono cartoneros, riciclatori, venditori ambulanti, sarti, artigiani, pescatori, contadini, muratori, minatori, operai di imprese recuperate, membri di cooperative di ogni tipo e persone che svolgono mestieri più comuni, che sono esclusi dai diritti dei lavoratori, ai quali viene negata la possibilità di avere un sindacato, che non hanno un’entrata adeguata e stabile. Oggi voglio unire la mia voce alla loro e accompagnarli nella lotta.
In questo incontro avete parlato anche di Pace ed Ecologia. È logico: non ci può essere terra, non ci può essere casa, non ci può essere lavoro se non abbiamo pace e se distruggiamo il pianeta. Sono temi così importanti che i popoli e le loro organizzazioni di base non possono non affrontare. Non possono restare solo nelle mani dei dirigenti politici. Tutti i popoli della terra, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, tutti dobbiamo alzare la voce in difesa di questi due preziosi doni: la pace e la natura. La sorella madre terra, come la chiamava san Francesco d’Assisi.

Poco fa ho detto, e lo ripeto, che stiamo vivendo la terza guerra mondiale, ma a pezzi. Ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate. Quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, care sorelle e cari fratelli, si leva in ogni parte della terra, in ogni popolo, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido della pace: Mai più la guerra!
Un sistema economico incentrato sul dio denaro ha anche bisogno di saccheggiare la natura, saccheggiare la natura per sostenere il ritmo frenetico di consumo che gli è proprio. Il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità, la deforestazione stanno già mostrando i loro effetti devastanti nelle grandi catastrofi a cui assistiamo, e a soffrire di più siete voi, gli umili, voi che vivete vicino alle coste in abitazioni precarie o che siete tanto vulnerabili economicamente da perdere tutto di fronte a un disastro naturale. Fratelli e sorelle: il creato non è una proprietà di cui possiamo disporre a nostro piacere; e ancor meno è una proprietà solo di alcuni, di pochi. Il creato è un dono, è un regalo, un dono meraviglioso che Dio ci ha dato perché ce ne prendiamo cura e lo utilizziamo a beneficio di tutti, sempre con rispetto e gratitudine. Forse sapete che sto preparando un’enciclica sull’Ecologia: siate certi che le vostre preoccupazioni saranno presenti in essa. Ringrazio, approfitto per ringraziare per la lettera che mi hanno fatto pervenire i membri della Vía Campesina, la Federazione dei Cartoneros e tanti altri fratelli a riguardo.

Parliamo di terra, di lavoro, di casa. Parliamo di lavorare per la pace e di prendersi cura della natura. Ma perché allora ci abituiamo a vedere come si distrugge il lavoro dignitoso, si sfrattano tante famiglie, si cacciano i contadini, si fa la guerra e si abusa della natura? Perché in questo sistema l’uomo, la persona umana è stata tolta dal centro ed è stata sostituita da un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro. Perché si è globalizzata l’indifferenza! Si è globalizzata l’indifferenza: cosa importa a me di quello che succede agli altri finché difendo ciò che è mio? Perché il mondo si è dimenticato di Dio, che è Padre; è diventato orfano perché ha accantonato Dio.
Alcuni di voi hanno detto: questo sistema non si sopporta più. Dobbiamo cambiarlo, dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno. Va fatto con coraggio, ma anche con intelligenza. Con tenacia, ma senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza. E tutti insieme, affrontando i conflitti senza rimanervi intrappolati, cercando sempre di risolvere le tensioni per raggiungere un livello superiore di unità, di pace e di giustizia. Noi cristiani abbiamo qualcosa di molto bello, una linea di azione, un programma, potremmo dire, rivoluzionario. Vi raccomando vivamente di leggerlo, di leggere le beatitudini che sono contenute nel capitolo 5 di san Matteo e 6 di san Luca (cfr. Matteo, 5, 3 e Luca, 6, 20), e di leggere il passo di Matteo 25. L’ho detto ai giovani a Rio de Janeiro, in queste due cose hanno il programma di azione.

So che tra di voi ci sono persone di diverse religioni, mestieri, idee, culture, paesi e continenti. Oggi state praticando qui la cultura dell’incontro, così diversa dalla xenofobia, dalla discriminazione e dall’intolleranza che tanto spesso vediamo. Tra gli esclusi si produce questo incontro di culture dove l’insieme non annulla la particolarità, l’insieme non annulla la particolarità. Perciò a me piace l’immagine del poliedro, una figura geometrica con molte facce diverse. Il poliedro riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso conservano l’originalità. Nulla si dissolve, nulla si distrugge, nulla si domina, tutto si integra, tutto si integra. Oggi state anche cercando la sintesi tra il locale e il globale. So che lavorate ogni giorno in cose vicine, concrete, nel vostro territorio, nel vostro quartiere, nel vostro posto di lavoro: vi invito anche a continuare a cercare questa prospettiva più ampia; che i vostri sogni volino alto e abbraccino il tutto!

Perciò mi sembra importante la proposta, di cui alcuni di voi mi hanno parlato, che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più coordinati, s’incontrino, come avete fatto voi in questi giorni. Attenzione, non è mai un bene racchiudere il movimento in strutture rigide, perciò ho detto incontrarsi, e lo è ancor meno cercare di assorbirlo, di dirigerlo o di dominarlo; i movimenti liberi hanno una propria dinamica, ma sì, dobbiamo cercare di camminare insieme. Siamo in questa sala, che è l’aula del Sinodo vecchio, ora ce n’è una nuova, e sinodo vuol dire proprio “camminare insieme”: che questo sia un simbolo del processo che avete iniziato e che state portando avanti!
I movimenti popolari esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte dirottate da innumerevoli fattori. È impossibile immaginare un futuro per la società senza la partecipazione come protagoniste delle grandi maggioranze e questo protagonismo trascende i procedimenti logici della democrazia formale. La prospettiva di un mondo di pace e di giustizia durature ci chiede di superare l’assistenzialismo paternalista, esige da noi che creiamo nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune. E ciò con animo costruttivo, senza risentimento, con amore.

Vi accompagno di cuore in questo cammino. Diciamo insieme dal cuore: nessuna famiglia senza casa, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro.

Cari fratelli e sorelle: continuate con la vostra lotta, fate bene a tutti noi. È come una benedizione di umanità. Vi lascio come ricordo, come regalo e con la mia benedizione, alcuni rosari che hanno fabbricato artigiani, cartoneros e lavoratori dell’economia popolare dell’America Latina.

E accompagnandovi prego per voi, prego con voi e desidero chiedere a Dio Padre di accompagnarvi e di benedirvi, di colmarvi del suo amore e di accompagnarvi nel cammino, dandovi abbondantemente quella forza che ci mantiene in piedi: questa forza è la speranza, la speranza che non delude. Grazie.

«Sblocca Italia. Tra decreti e legge di stabilità l’uno-due che può disintegrare i servizi pubblici locali. Si chiede ai sin­daci di met­tere in ven­dita i beni comuni, per con­sen­tire loro di man­te­nere uno strac­cio di fun­zio­na­mento ordi­na­rio dell’ente locale».

Il manifesto, 29 ottobre 2014 (m.p.r.)

Attra­verso la fami­ge­rata cop­pia nor­ma­tiva, for­mata dal decreto «sblocca Ita­lia» e dalla legge di sta­bi­lità, il governo Renzi sta ten­tando di por­tare un secondo scalpo al tavolo dei rigo­ri­sti euro­pei e al ban­chetto dei grandi inte­ressi finan­ziari: i ser­vizi pub­blici locali, a par­tire dall’acqua.

Il dise­gno sot­teso è quello di un pro­cesso di aggregazione/fusione che veda i quat­tro colossi mul­tiu­ti­lity attuali – A2A, Iren, Hera e Acea– già col­lo­cati in Borsa, fare man bassa di tutte le società di gestione dei ser­vizi idrici, ambien­tali ed ener­ge­tici, dive­nendo gli unici cam­pioni nazio­nali, final­mente in grado di «com­pe­tere» sui mer­cati internazionali.

Die­tro la pro­pa­ganda della ridu­zione del car­roz­zone delle società par­te­ci­pate e dei costi della «casta» — pro­blema reale, le cui solu­zioni, se affi­date ai cit­ta­dini e ai lavo­ra­tori dei ser­vizi, andreb­bero in dire­zione osti­nata e con­tra­ria agli inte­ressi delle lobby politico/finanziarie che domi­nano il paese– si cerca di met­tere una pie­tra tom­bale sull’esito della straor­di­na­ria vit­to­ria refe­ren­da­ria del giu­gno 2011 e sul suo pro­fondo signi­fi­cato di pro­nun­cia­mento di massa con­tro le poli­ti­che libe­ri­ste e di affer­ma­zione del nuovo para­digma dei beni comuni.

Con lo «sblocca Ita­lia» — piano di cemen­ti­fi­ca­zione deva­stante del paese, alla fac­cia delle lacrime di coc­co­drillo sul suo dis­se­sto idro­geo­lo­gico — si è impo­sto il con­cetto dell’unicità della gestione del ser­vi­zio idrico den­tro ogni ambito ter­ri­to­riale otti­male (Ato) in cui è diviso il ter­ri­to­rio, but­tando a mare il pre-esistente con­cetto di uni­ta­rietà della gestione, che per­met­teva di man­te­nere, inte­gran­dola, la plu­ra­lità delle gestioni esi­stenti in ogni territorio.

Se a que­sto si aggiunge il fatto che ogni regione sta ridi­se­gnando gli ambiti, ten­dendo sem­pre più spesso a farli coin­ci­dere con l’intero ter­ri­to­rio regio­nale, il risul­tato appare chiaro: al ter­mine di que­sto pro­cesso, vi sarà un unico sog­getto gestore per regione, e sarà gio­co­forza il pesce più grosso che annet­terà tutti i pesci più pic­coli. Rom­pendo defi­ni­ti­va­mente ogni legame con la ter­ri­to­ria­lità dei ser­vizi pub­blici locali e la pos­si­bi­lità, se non di una gestione par­te­ci­pa­tiva, almeno di un con­trollo demo­cra­tico affi­dato alle isti­tu­zioni locali.

In realtà, il dise­gno di fusione pro­gres­siva ha un pre­ciso obiet­tivo: la valo­riz­za­zione finan­zia­ria di società che, basan­dosi sulla red­di­ti­vità garan­tita dall’erogare ser­vizi essen­ziali — e quindi a domanda rigida — e sull’enorme liqui­dità perio­dica garan­tita dalle tariffe, se dimen­sio­nate su un numero signi­fi­ca­tivo di utenti-cittadini, pos­sono pro­durre, una volta col­lo­cate den­tro la rete delle grandi multiutility, un impor­tante valore aggiunto sui mer­cati finanziari.

Ciò che pre­vede lo «sblocca Ita­lia» è tut­ta­via solo la pre­messa di quanto dispo­sto dalla legge di sta­bi­lità, che si pre­figge il colpo finale per ogni idea di riap­pro­pria­zione sociale dei beni comuni e di gestione par­te­ci­pa­tiva e priva di pro­fitti da parte delle comu­nità locali.

Infatti, appro­fit­tando del pro­gres­sivo stran­go­la­mento degli enti locali, scien­ti­fi­ca­mente por­tato avanti negli anni attra­verso i tagli dei tra­sfe­ri­menti e l’applicazione di un patto di sta­bi­lità interno che ha reso pra­ti­ca­mente impos­si­bile il man­te­ni­mento di ogni fun­zione pub­blica e sociale (gli osan­nati «angeli del fango» della recente allu­vione a Genova, altro non sono che ragazzi sana­mente arrab­biati, i quali, avendo chiaro il totale stato di abban­dono in cui sono lasciati dalle isti­tu­zioni, deci­dono di fare da sé), il governo Renzi regala ai Sin­daci il defi­ni­tivo ricatto, togliendo dai para­me­tri del patto di sta­bi­lità, quindi per­met­tendo loro di spen­dere, una parte delle cifre rica­vate dalla ces­sione di quote pub­bli­che delle società par­te­ci­pate di ser­vizi pub­blici locali e ren­dendo nel con­tempo, ancor più onerosa, la scelta di una gestione pub­blica degli stessi.

Si chiede ai sin­daci, dun­que, di met­tere in ven­dita i beni comuni pri­mari delle pro­prie comu­nità di rife­ri­mento, per con­sen­tire loro di man­te­nere uno strac­cio di fun­zio­na­mento ordi­na­rio dell’ente locale. L’obiettivo delle élite politico-tecnocratiche dell’Ue è lo stesso di quando, dopo nep­pure un mese dalla pro­cla­ma­zione della vit­to­ria refe­ren­da­ria, scris­sero all’allora governo Ber­lu­sconi la famosa let­tera di dik­tat, in cui il punto n. 26 chie­deva «cosa intende fare il suo governo per la pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi idrici nel Paese, mal­grado l’esito del recente risul­tato referendario?».

L’obiettivo di Renzi è quello di dimo­strare di essere l’unico capace di por­tare a ter­mine un com­pito che nes­sun altro governo era sinora riu­scito a fare.

Il com­pito del movi­mento per l’acqua e dei movi­menti per i beni comuni è ancora una volta quello di dimo­strare che indie­tro non si torna, ria­prendo una forte mobi­li­ta­zione ter­ri­to­riale e nazio­nale che sap­pia par­lare a quella mag­gio­ranza di per­sone, inti­mo­rita dalla crisi ma non anni­chi­lita nella spe­ranza, che votando «sì» al refe­ren­dum ha sug­ge­rito la pos­si­bi­lità di un altro modello sociale, basato sulla riap­pro­pria­zione dei beni comuni e sulla loro gestione par­te­ci­pa­tiva, demo­cra­tica, territoriale.

E di far schie­rare i sin­daci, costretti, oggi più che mai, a sce­gliere se essere l’ultimo ter­mi­nale delle poli­ti­che rigo­ri­ste che dall’Ue ai governi nazio­nali pre­ci­pi­tano sui beni comuni della popo­la­zioni locali o se final­mente essere i primi rap­pre­sen­tanti del ter­ri­to­rio e delle per­sone che lo abitano.

Renzi non è che il pre­sente fine a se stesso, feroce e cinico come chi non con­serva memo­ria e non imma­gina futuro. Alle donne e agli uomini dell’acqua, che un futuro non solo l’hanno chiaro ma lo pre­ten­dono per tutte e tutti, l’obiettivo di fermarlo.

Marco Bersani è componente del Forum ita­liano dei movi­menti per l’acqua

Pos­siamo sba­gliarci, ma vedendo il cor­teo ci siamo con­vinti che una sini­stra di popolo, con­sa­pe­vole, for­ti­fi­cata dalla capa­cità di resi­stere alla duris­sima prova della crisi, ha ripreso pie­na­mente il suo diritto di cittadinanza». Il manifesto, 26 ottobre 2014

Tutta mia la città. Forse è que­sta la bella sen­sa­zione che hanno pro­vato le cen­ti­naia di migliaia di per­sone arri­vate ieri nella capi­tale da ogni dove d’Italia. Per­ché c’erano loro, con i canti, gli slo­gan, i sor­risi, i balli, le parole d’ordine, i “cor­doni”, i mega­foni. E intorno il silen­zio di una città serena, anche “com­plice”. Non diremo che è stata una bel­lis­sima gior­nata di sole, né che Roma ha rice­vuto come se niente fosse un popolo immenso. Que­sto lo sanno già tutti per­ché per­sino le tv più filo-renziane hanno dovuto arren­dersi di fronte all’evidenza dei fatti: una mani­fe­sta­zione sin­da­cale, di ragazze e di nonni, di stu­denti e di pre­cari, di lavo­ra­tori e di mili­tanti, di immi­grati e par­tite Iva che ha invaso gio­io­sa­mente, paci­fi­ca­mente le strade romane.

Vediamo invece che cosa la piazza della Cgil ha messo davanti agli occhi di tutti gli italiani.

In primo luogo la ric­chezza della rap­pre­sen­tanza. Mille realtà e infi­niti volti del lavoro rac­con­tati dai car­telli delle cate­go­rie, a indi­care la pre­senza del sin­da­cato anche dove non te lo sare­sti aspet­tato (guar­die gialle, peni­ten­zia­rie…). Una con­ferma, con­for­tante, del radi­ca­mento sociale del sin­da­cato con­tro il luogo comune che lo dipinge come la casta dei burocrati.

Per­ché si è mobi­li­tato il lavoro vivo. Vero. E se doveva essere una prova di forza, l’esito di que­sto 25 otto­bre ci dice che è pie­na­mente riu­scita. Nono­stante le cri­ti­che, tal­volta giu­sti­fi­cate, di vetero sin­da­ca­li­smo, di inca­pa­cità di inclu­dere i più gio­vani e i meno garan­titi, di non avere gli stru­menti per coa­gu­lare intorno a se un’opinione forte e in grado di oltre­pas­sare gli stec­cati sin­da­cali, ebbene ieri la Cgil ha dimo­strato che que­sti limiti non hanno modi­fi­cato i sen­ti­menti più pro­fondi e più forti del sin­da­cato italiano.

Ma quella breve distanza che divide Roma da Firenze, ieri è diven­tata abis­sale. Per­ché men­tre Renzi riven­di­cava a sé e alla Leo­polda la forza di creare lavoro (e sten­diamo un velo su chi ha fatto da con­torno alla corte del gio­vane pre­mier che ama gli yesman), ieri a piazza San Gio­vanni c’era la gente che lavora sul serio, e tanta altra gente che il lavoro lo vor­rebbe con­cre­ta­mente, non solo nei pro­grammi e nelle pro­messe. Per­ché men­tre a Firenze lo spon­sor (e finan­zia­tore) di Renzi, il finan­ziere Serra, soste­neva che andrebbe vie­tato lo scio­pero nel pub­blico impiego (ma non si ver­go­gna un po’ il segre­ta­rio del par­tito demo­cra­tico — ripeto: par­tito demo­cra­tico — ad avere simili sup­por­ter?), qui a Roma sfi­la­vano donne e uomini che recla­ma­vano la tutela di un diritto costituzionale.

E’ pos­si­bile che tra i soste­ni­tori (com­presi par­la­men­tari e mini­stri) molti non con­di­vi­dano i valori rap­pre­sen­tati ieri da quella massa enorme di cit­ta­dini ita­liani. Ed è altret­tanto pro­ba­bile che il distacco tra i due mondi (assai poco vir­tuale) non venga col­mato, se non in parte, da quei poli­tici della sini­stra Pd che a fatica cer­cano di tam­po­nare la deriva libe­ri­sta della più grande forza di centrosinistra.

Ora si va verso lo scio­pero gene­rale. Invo­cato dalla piazza che ha alzato il volume dell’applausometro quando la segre­ta­ria Camusso lo ha evo­cato, insieme alla richie­sta di una patri­mo­niale per gli inve­sti­menti pubblici.

E di fronte all’abbraccio tra Camusso e Lan­dini, di fronte al “par­tito di lotta” che uni­sce tutta la sini­stra del lavoro, Renzi com­met­te­rebbe un grave errore se pen­sasse di cavar­sela con un twit­ter o una bat­tuta. Farebbe meglio a pren­dere atto che ieri, improv­vi­sa­mente — ma non troppo — la parola sini­stra, irrisa e desueta, ha ripreso vita e si è fatta largo in modo pro­rom­pente ricon­qui­stando lo spa­zio sociale, poli­tico, cul­tu­rale che qual­cuno vor­rebbe negarle.

Pos­siamo sba­gliarci, ma vedendo il cor­teo ci siamo con­vinti che una sini­stra di popolo, con­sa­pe­vole, for­ti­fi­cata dalla capa­cità di resi­stere alla duris­sima prova della crisi, ha ripreso pie­na­mente il suo diritto di cittadinanza

«Mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato».

La Repubblica, 27 ottobre 2014

Matteo Renzi, nella vecchia stazione della Leopolda, è ri-partito. Anche se non si è mai fermato, fino ad oggi. Non è nel suo stile, nel suo temperamento. Ma ha chiarito meglio a quale "partito" guardi. Il PdR, il Partito di Renzi, è, appunto, un "ri-partito". Un partito in continua ri-definizione, riguardo a obiettivi, parole d'ordine, riferimenti sociali. In continua ri-partenza, verso nuove stazioni. È questo il principale messaggio, il messaggio dei messaggi, lanciato a Firenze. Il "suo" partito guarda avanti. E, per questo, non ha un "popolo" specifico di riferimento. Ma sa "contro" chi muovere. Anche perché i suoi "nemici", per primi, hanno scelto Renzi, il suo governo e la convention di Firenze come "nemici" contro cui mobilitarsi.

I "nemici" di Renzi sono quelli che hanno sfilato a Roma, contro il Jobs act, contro le politiche sul lavoro del governo. "Convocati" dalla Cgil. E, non a caso, "contro" di loro e ciò che rappresentano si è rivolto Matteo Renzi, nel suo intervento conclusivo alla Leopolda. Li ha "etichettati", politicamente, come nostalgici di un passato che è passato. E ha accostato - per molti versi, assimilato - la manifestazione della Cgil all'iniziativa delle sinistre arcobaleno. Il PdR, invece, guarda altrove. E, per questo, insiste sull'articolo 18. Simbolo del passato. Bandiera del Pd e della sinistra con la quale Renzi intende tagliare i ponti. Perché «è una regola degli anni Settanta che la sinistra allora non aveva nemmeno votato, siamo nel 2014». Così la questione, sollevata da Renzi, è «capire se è più di sinistra restare aggrappati alla nostalgia o provare a cambiare il futuro». Un'alternativa, ovviamente, retorica. Perché, come scandisce Renzi «non permetteremo a nessuno di far tornare il Pd al 25%».

Il PdR, per questo, si definisce "in opposizione all'opposizione". Ai "nemici", che Renzi continua a scegliere con cura, per precisare la sua differenza. Dagli "altri". Per intercettare gli elettorati che hanno sempre guardato la sinistra con sospetto. Sul piano politico: i moderati di centro, già assorbiti. Quelli di centrodestra e di destra, in gran parte collaterali. Dal punto di vista sociale: gli imprenditori, grandi e piccoli, i lavoratori autonomi del Nord. Componenti tradizionalmente ostili e anticomuniste. Renzi li ha "convocati" alla convention di Firenze. Raccolti intorno al premier e "contro" coloro che manifestavano a Roma. Un popolo di operai, certamente non giovani, insieme ai pensionati (oltre a molti lavoratori immigrati). Secondo il premier: il passato. E "contro" la Cgil, in quanto sindacato, con cui, come ha già detto altre volte, non intende «concertare». Si tratta di argomenti e discorsi già sentiti. Renzi li ha espressi, apertamente, altre volte. Ma questa volta li ha raccolti e presentati insieme, alla sua convention, nella sua capitale: Firenze. Ne ha fatto una sorta di manifesto del PdR. Che, tuttavia, solleva alcuni dubbi. Principalmente due.

Il primo riguarda l'identità del partito. Il PdR, o il PdN, il Partito della Nazione, come l'ha battezzato Renzi. Tutto proiettato verso il futuro. Alla novità, all'innovazione. In contrasto con ogni nostalgia e con ogni richiamo al passato. Ebbene, a rischio di condividere i vizi e i vezzi di "un certo ceto intellettuale" (anche se mi offenderei: intellettuale a chi?), mi riesce difficile immaginare la costruzione del futuro senza coltivare il passato. Vanificando i valori e le narrazioni della storia comune e condivisa. Della quale, per il centrosinistra, fa parte il riferimento agli operai e allo stesso sindacato.

In secondo luogo, liquidare la manifestazione della Cgil come una mobilitazione della Sinistra arcobaleno mi pare, a maggior ragione, riduttivo. Fra coloro che hanno sfilato contro il governo e contro Renzi vi sono molti elettori del Pd. E molti elettori del Pd, comunque, ne condividono la protesta. Possiamo tentare, con qualche approssimazione, di stimarne il peso elettorale (base: Oss. Elettorale Demos, ottobre 2014) concentrandoci su coloro che esprimono molta-moltissima fiducia nella Cgil. Fra gli elettori del Pd sono circa il 25%. Cioè, se facciamo riferimento alle elezioni europee di maggio, intorno al 10% del voto. Appare, quindi, azzardato trattare questa componente come fosse esterna ed estranea. E se è vero che gli iscritti al sindacato sono, per la maggior parte, pensionati e lavoratori anziani, è altrettanto vero che proprio questi settori, alle ultime elezioni (politiche ed europee), hanno costituito lo zoccolo duro del voto al Pd.

Per questo conviene rammentare che, se, effettivamente, il Pd, prima di Renzi, si era fermato al 25%, il Pd di Renzi ha superato la soglia del 40% non perché abbia "abolito" il passato, ma perché, al contrario, lo ha incanalato nel suo progetto. Come ho già scritto, Renzi ha sommato i voti del PdR a quelli del vecchio Pd. Il suo post-partito e la "ditta". In altri termini, ha intercettato i consensi di coloro che hanno votato per Renzi "nonostante" il Pd. Ma anche gli elettori che hanno votato per il Pd "nonostante" Renzi.

Per queste ragioni penso che Renzi debba guardarsi dalla prospettiva segnalata da Mauro Calise: presentarsi come un "anti-partito", raccolto intorno al suo leader. Che stigmatizza il passato e la memoria, in nome del "nuovo" ad ogni costo. Ma rischia, in questo modo, di perdersi nel presente.

Nasce alla Leopolda il "Partito della Nazione. I più vecchi, e quelli che conoscono la storia del secolo scorso, ricordano il Partito Nazionale Fascista di Mussolini e il Nazionalsocialismo di Hitler.

La Repubblica, 23 ottobre 2014

Il modello "Macy's" ha i suoi rischi se applicato alla politica È illusorio Leopolda il nuovo Partito democratico si appresta a diventare il Partito della nazione. Un partito sulla cui forma si stanno sbizzarendo in tanti, sia al suo interno si a all'esterno. Per i suoi promotori e sostenitori, il nuovo Partito democratico dovrà avere un look americano come Big Tent, una grande tenda sotto la cui ombra sostano diverse anime e diversi movimenti, non sempre congruenti tra loro negli interessi e nelle idee, benché desiderosi di stare sotto a quell'ombrello e non a un altro ( almeno temporaneamente) .

Il segretario Matteo Renzi ha confermato il senso di questa volontà rifondatrice quando ha prospettato un nuovo Italicum, con un premio di maggioranza dato non più alla coalizione ma al partito. Una riforma che calza il modello di partito unico, è stato scritto. Nel senso che se il partito è una "grande tenda", allora la coalizione viene inglobata dentro il partito stesso e quindi il premio alla colazione non ha più molto senso. Big Tent sta per "catch-all party, partito piglia-tutti e non tutto", spiegano i leopoldini. Rassicurando che la parte non vuole diventare il tutto, ma vuole vincere e per farlo deve inglobare al suo interno tutto il possibile.
Ma c'è bisogno di inglobare i diversi nel tutto per incamerarne i voti? La risposta che viene data a questa domanda si appella all'analogia con il partito americano. Analogia non equivale peri a identità. Il Partito della Leopolda (PdL) nelle intenzioni fatte circolare dai suoi organizzatori e sostenitori sembra avere due caratteristiche. In primo luogo, ha una natura (non solo una vocazione) maggioritaria. La parte ha in realtà aspirazione a essere il tutto inglobando tutti coloro che vogliono stare all'ombra della grande tenda. Con pochissimi distinguo ideologici. Si tratta di una forma di partito che vuole essere programmaticamente anti-partigiana. Il Partito della Leopolda sarà un post-partito. L'esito della lungà marcia verso il superamento del partito riconoscibile da una comprovata carta di identità ideologica. Bassa soglia di ammissione perché poca caratterizzazione ideologica, dunque.

Basta essere democratici per aderirvi, come era nelle intenzioni del fondatore del Partito democratico, Walter Veltroni, che scelse non a caso un nome "costituzionale", se così si pub dire. L'aggettivo 'democratico" prefigura un'ampia inclusione giocando proprio sulla connotazione poco strutturata pensare di superare la competizione inglobando i potenziali alleati del termine democrazia che, come sappiamo, a parte alcune basilari procedure e il suffragio elettorale, lascia ciascuno libero di interpretarlo a modo suo. La natura del partito sarà altrettanto inclusiva e vaga dell'aggettivo che lo designa.

La seconda caratteristica del Partito della Leopolda è di imitare il modello "Macy's". Dal nome dei grandi magazzini americani, primi nel mondo, che rivoluzionarono il mercato quando misero in uno stesso spazio merci non solo di diverso genere ma anche prodotte da diverse case, tradizionalmente competitive tra di loro. Invece dei negozietti mono-brand o dei molti banchi che vediamo ancora nei mercati italiani, dove avviene la contrattazione diretta da parte del compratore, il modello grande magazzino abolisce quella contrattazione e impone il prezzo fisso (la competizione avviene altrove, per esempio sul mercato finanziario o sull'abbattimento dei costi di produzione). L'omogeneità dello spazio e l'impersonalità del venditore rendono possibile questa compresenza di diversi senza tensione competitiva. Invece del vociare tra una bancarella e l'altra, una grande e silenziosa corsa agli acquisti, con i clienti che diventano compartecipi del clima di rilassato consumo.
Ma il modello Macy's ha i suoi rischi se applicato al partito politico. Probabilmente la Big Tent è una strategia per sostituire la compartecipazione al conflittualismo portando dentro il partito i protagonisti (i piccoli partiti) di ipotetiche coalizioni. Ne guadagnerebbe la stabilità perché i piccoli non avrebbero più il potere di veto sulla coalizione. Ma è illusorio pensare che verrà superata la competizione inglobando i potenziali alleati. Poiché quella lotta che tradizionalmenteavviene fra partiti alleati pub travasarsi all'interno del partito, rendendo la Bid Tent un luogo che, invece di un amabile conglomerato di parti, ospita un ring per incontri di box. La trattativa tra i potenziali alleati verrà spostata all'interno, non eliminata. I gruppi inclusi avranno un potere di trattativa non meno piccolo, un po' come le correnti nei vecchi partiti. Tutto dipenderà dalla forza degli interessi che rappresentano.

Sembra di capire che il modello post-partitico e da department store sia il segno che il nuovo Pd voglia essere a tutti gli effetti simile a un partito americano. Ma le differenze non mancano e non sono di poco conto. Almeno una differenza deve essere messa in evidenza: la Big Tent del partito americano è tenuta in piedi e insieme da una colla ideologica antagonistica molto forte. Vera o creata ad arte, la polarizzazione è la pratica permanente nell'arena americana ( in questi anni in particolare) la quale, nonostante tutto, resta strutturata per contrapposizione ideologica. Anche se l'elettore medio è poco o nulla di parte, e i partiti cercano leader poco di parte per attirarne il voto, i due partiti americani restano nemici, antagonisti, opposti su molte posizioni (con lealtà tramandate di padre in figlio).

Invece, il superamento ideologico predicato dal nuovo Pd sembra essere più radicalmente anti-partigiano e per questo propenso ad andare in un'altra direzione: verso il depotenziamento dell'antagonismo e con una forte propensione che potremmo dire cattolica, nel senso di essere inclusiva al massimo e totali77ante, anche a costo di diventare meticcia. È questo aspetto che fa temere che il Partito della Leopolda coltivi il sogno di diventare il tutto, di non essere solo un partito piglia-tutto.

In piazza San Giovanni a Roma, alla Leopolda a Firenze, due Italie. Da una parte i governo e dall'altra l'opposizione; da una parte la destra e dall'altra la sinistra.La linea che le divide e' la difesa del lavoro.

Il manifesto, 25 ottobre 2013

Il pas­sato e il futuro, i sin­da­ca­li­sti e gli impren­di­tori, le tute blu e le cami­cie bian­che, i pezzi da museo e la moder­nità, gli spin doc­tor e i comi­tati cen­trali, lo sto­ry­tel­ling e il comu­ni­cato stampa. Sarà più o meno rac­con­tata così que­sta gior­nata particolare.

Eppure, per segnare la dif­fe­renza e la distanza tra chi oggi sarà in piazza San Gio­vanni a Roma e chi andrà ad applau­dire Renzi alle ex sta­zione Leo­polda di Firenze si potrebbe più sem­pli­ce­mente dire che da una parte sfi­lerà l’opposizione dall’altra il governo o, se pre­fe­rite, da una parte la sini­stra e dall’altra la destra. Parole che sta­volta si pos­sono decli­nare sulla linea Magi­not della difesa dei lavoratori.

E’ sini­stra chi per uguale lavoro chiede uguale retri­bu­zione, è destra chi con il Jobs act pre­vede il deman­sio­na­mento. E’ sini­stra chi al con­tratto a ter­mine pone il vin­colo di una cau­sale, è destra chi toglie anche quella. E’ sini­stra chi per il licen­zia­mento pre­vede una giu­sta causa, è destra chi la can­cella. E’ sini­stra chi misura con il sala­rio ope­raio la dise­gua­glianza sociale, è destra chi sce­glie l’impresa come rife­ri­mento. Per una volta siamo pie­na­mente d’accordo con la sem­pre sor­ri­dente mini­stra Elena Boschi, madrina della ker­messe ren­ziana, quando sot­to­li­nea orgo­glio­sa­mente «noi siamo un’altra Ita­lia rispetto alla Cgil».

Ma il Pd di governo che si riu­ni­sce a Firenze per cele­brare il suo 40 per cento farebbe bene a riflet­tere su un pic­colo pro­blema. Molti, mol­tis­simi di quelli che oggi sfi­le­ranno in cor­teo per le strade della capi­tale sono elet­tori dello stesso par­tito di Boschi e com­pa­gni. Anche se è vero, come ci dicono gli esperti di son­daggi, che il feno­me­nale con­senso di Renzi sfonda gra­zie a un elet­to­rato di cen­tro­de­stra con abban­doni nel mondo di sini­stra. In ogni caso siamo in pre­senza di una pla­teale spac­ca­tura — fisica, poli­tica, cul­tu­rale — tra il raduno fio­ren­tino e la mani­fe­sta­zione sin­da­cale. Una divi­sione a lungo costruita con un netto spo­sta­mento del par­tito demo­cra­tico verso i sogni della Con­fin­du­stria, con­tro le lotte del sindacato.

Natu­ral­mente non sarà solo tutto potere e finanza ad ani­mare l’incontro fio­ren­tino, né solo oro quello che bril­lerà in piazza San Gio­vanni. L’imprenditore non è sino­nimo di Mar­chionne, e i lavo­ra­tori non sono tutti iscritti alla Cgil o alla Fiom. D’altra parte la Cgil non è stata in que­sti anni un sin­da­cato capace di inter­pre­tare lo scon­vol­gi­mento del mer­cato del lavoro, né di rap­pre­sen­tare l’immenso eser­cito di riserva del pre­ca­riato. Come del resto ha ammesso la stessa segre­ta­ria Camusso («è stato un grave errore di valu­ta­zione, non pen­sa­vamo che il pre­ca­riato sarebbe dila­tato in que­sto modo»). E un sin­da­cato che non capi­sce l’arrivo della tem­pe­sta, fatal­mente non rie­sce poi nem­meno a farsi argine e a rilan­ciare la bat­ta­glia del lavoro sulla nuova fron­tiera della mici­diale globalizzazione.

Tut­ta­via c’è un milione di ragioni per essere oggi in piazza. Ragioni con­tin­genti (la mano­vra eco­no­mica e le pes­sime leggi sul mer­cato del lavoro), ragioni ideali (una memo­ria da custo­dire e un futuro da costruire), ragioni poli­ti­che (una sini­stra da rifondare).

Noi del mani­fe­sto saremo tra i mani­fe­stanti con il nostro gior­nale in edi­zione spe­ciale. Saremo in edi­cola come sem­pre, ma anche in piazza con decine di “stril­loni” per dif­fon­dere insieme al mani­fe­sto anche un inserto di otto pagine (che distri­bui­remo gra­tui­ta­mente) dedi­cato all’articolo 18, con inter­vi­ste, ana­lisi, testi­mo­nianze: un diritto di chi lo ha usato per difen­dere il posto di lavoro, di chi, pre­ca­rio, non ce l’ha ma lo vor­rebbe e oggi è in piazza per difen­derlo. Un con­tri­buto alla bat­ta­glia comune, un gesto con­creto di soli­da­rietà e di vici­nanza, frutto dell’impegno del nostro gruppo di lavoro. Un pic­colo con­tri­buto per una grande, deci­siva bat­ta­glia di democrazia.

E un con­tri­buto anche con­tro la disin­for­ma­zione. Per­ché sui quo­ti­diani amici di Renzi (tanti, troppi), sui tele­gior­nali proni (tanti, troppi) nei con­fronti del pre­mier si è voluto far pas­sare l’idea che l’articolo 18 è un affare di pochi, men­tre il governo vuole esten­dere i diritti ai più. Que­sta è una fal­sità, una bugia, una presa in giro. Siamo anche pronti a scom­met­tere che la Leo­polda verrà rac­con­tata dai media nazio­nali e locali per filo e per segno, con arti­coli di gos­sip, retro­scena, curio­sità. Sapremo tutto sui sor­risi e sugli abbracci, sui twit­ter del pre­mier, sui par­venu filo ren­ziani in cerca di uno stra­pun­tino, sui «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado», ma che poi pre­fe­ri­scono esserci per­ché lì, a Firenze, c’è il nuovo potere e non si sa mai.

Noi del mani­fe­sto, più mode­sta­mente, ripor­te­remo le voci di chi soli­ta­mente è senza voce. Delle donne e degli uomini, dei gio­vani e degli anziani che si bat­tono per la loro dignità. E per quella di tutti. Com­presi i leopoldini.

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