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«Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali». La Repubblica, 9 gennaio 2014

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NEL suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715, Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini, delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e principi dell’Unione come accade in Ungheria.

Vi era stato un momento in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al mercato avesse esaurito le sue risorse. che la sua piena legittimità esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha Costituzione”. Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights, che pure, com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.

Oggi l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.

Una “costituzione finanziaria” ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”, mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante riduzionismo?

Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro, un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.

Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.

Qui si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida” la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili, sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della stessa democrazia.

A tutti gli europei, e ai loro governanti, dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e il
New Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune, proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli antieuropeisti di professione.

«Con la soglia di sbarramento, il parlamento di Strasburgo si aprirà solo a una parte di italianiSignificativamente sono esclusi coloro che vorrebbero cambiare l’Europa, e non condividono né le grandi coalizioni sinistra- destra né le disordinate risposte di 5 Stelle ai mali dell’Unione».

LaRepubblica, 8 gennaio 2014

ANCORA non sappiamo come reagiranno i cittadini europei e italiani, il 22-25 maggio quando si voterà per il nuovo Parlamento dell’Unione — se diserteranno le urne, se si interesseranno ai propri rappresentanti in Europa — ma sin da ora sappiamo una cosa: per la prima volta, nella crisi che ci assilla, parlano e decidono i popoli, e non più solo le troike, la Banca centrale, ancor peggio il Fondo monetario. Sarà la prima occasione, per loro, di respingere oppure approvare quel che è stato fatto sinora, di mandare in Parlamento deputati in cui credere. A governare la crisi ci sono anche i cittadini.

Dicono i disillusi che non conta nulla, il Parlamento di Strasburgo. Che non vale la pena mettere la scheda nell’urna, visto che ogni nodo è sgrovigliato altrove: da mercati senza obblighi, dai banchieri centrali, da un rapporto di forza tra Stati che reintroduce nel continente il vecchio equilibrio di potenze, con le sue disparità e i suoi conflitti. Vale la pena invece, perché altri strumenti democratici non esistono nell’Unione, e perché i poteri dei suoi deputati sono tutt’altro che irrilevanti. Delle leggi attuate negli Stati, l’80 per cento è co-deciso dal parlamento che abbiamo in comune. È sempre lui a censurare o appoggiare la Commissione, la sua capacità o incapacità di governare in nome di tutti. È del tutto illogica la condizione in cui ci troviamo: proprio oggi che il parlamento ha più ascendente, le politiche europee si fanno contro i popoli o scavalcandoli. È quel che accade di solito nelle guerre. Votare è l’occasione per dire che la crisi non va omologata a una guerra o a una peste. Tanto più essenziale è sapere come voteremo: con quale legge elettorale, dunque con quali speranze di essere ascoltati e di contare, senza discriminazioni.

La questione della rappresentatività democratica fu cruciale nell’Europa liberata dal nazifascismo, dopo due guerre mondiali. Lo ridivenne dopo l’89, quando a Est caddero le dittature comuniste. La crisi vissuta come stato di eccezione e di guerra crea uno scenario analogo. Uscirne con i pareggi di bilancio è come rendere più funzionali gli eserciti, quando si tratta di ritrasformare i soldati in cittadini.

Ogni ripristino della democrazia esige l’elezione di parlamenti costituenti, che riscrivano le Carte e limitino poteri divenuti esorbitanti. Ogni democrazia rifondata prescrive istituzioni che rappresentino tutti, quindi leggi elettorali sostanzialmente proporzionali. L’Italia decise questo, dopo il fascismo. Il proporzionale fu giudicato il più democratico, il più adatto a eleggere nel ’46 l’Assemblea costituente: nella ricostruzione, dovevano pesare tutte le forze estromesse dal Ventennio. Non così in Europa e soprattutto non in Italia (i 28 paesi hanno leggi elettorali diverse: un’assurdità).
Il pericolo, da noi specialmente acuto, è che nel parlamento comunitario siedano solo i partiti più agguerriti. Una soglia di sbarramento asfissiante, del 4%, rischia di vanificare il grande esercizio di democrazia che saranno le elezioni di maggio: escludendo partiti piccoli o movimenti nati durante la crisi, smobilitando moltissimi elettori. La barriera che smista e seleziona è un marchingegno inventato per favorire potentati o cricche di eminenti. Per estendere a Strasburgo le Unioni Sacre che nei singoli Stati gestiscono lo squasso. È proprio quel che vogliono gli oligarchi nazionali, e se si eccettua qualche voce di Green Italia, pochi protestano. La parola d’ordine è: tagliare le ali a rappresentanze alternative, continuare a ignorarle. Fingere democrazia, e intanto deturparla. La propensione oligarchica ha una storia lunga in Italia.
Nel ventennio berlusconiano si è accentuata, ed è la stoffa delle grandi o piccole intese. Non a caso la barriera del 4% è frutto di un surrettizio accordo al vertice, stipulato nel 2009 tra Veltroni, allora leader del Pd, e Berlusconi. Il governo Prodi era stato appena affossato e la decisione fu presa quasi di nascosto, senza consultazione alcuna con altri partiti. Nacque quel che fu chiamato europorcellum: una legge truffa simile a quella tentata nel 1953. Lo scopo: armare i forti, disarmare i piccoli (Vendola, Rifondazione, radicali, Verdi, Storace). La giustificazione: garantire l’efficienza e la governabilità a scapito della democrazia. Fassino disse, all’epoca: va evitato lo sbarco di «un’armata Brancaleone a Strasburgo». La menzogna della Stabilità — il quotidiano Wall street journal l’ha definita il 24 novembre «stabilità dei cimiteri» — cominciava a espandersi geograficamente.

La campagna elettorale europea era alle porte, e in poche settimane il vecchio proporzionale fu abolito. La trattativa iniziò nel gennaio 2009, e la nuova legge con la soglia fu varata il 20 febbraio dal parlamento italiano, tre mesi circa prima del voto. Questo significa che deliberazioni di tale portata possono esser prese ancora una volta, se solo si vuole. C’è tempo di abolire anche in Europa il porcellum, come imposto dalla Consulta per le elezioni italiane.

La cosa più sorprendente è che la battaglia contro le leggi truffa, nell’Unione, è giudicata vitale non dai paesi piccoli ma da quello più forte: la Germania. È uno dei paradossi dei tempi presenti: lo Stato che con maggiore prepotenza esige austerità è simultaneamente il più allarmato dal deficit democratico europeo, il più sensibile alle regole dello stato di diritto. In favore di una legge proporzionale, e di un Parlamento sovranazionale più rappresentativo, è addirittura scesa in campo la Corte costituzionale, con una sentenza emessa il 9 novembre 2011 che giudica incostituzionale la soglia tedesca di sbarramento (in Germania era più alta che da noi: il 5%).

Due princìpi della Legge Fondamentale erano violati, secondo i giudici di Karlsruhe: l’uguaglianza fra cittadini-elettori, e l’opportunità data a tutti i partiti di concorrere alla democrazia delle istituzioni europee. Il parlamento nazionale ne ha preso atto, e pur non abolendo la barriera l’ha portata al 3%. Molte associazioni cittadine ritengono che non basti, e hanno fatto ricorso. La Corte si pronuncerà in quest’inizio 2014. L’argomento dei giudici tedeschi è impeccabile, e in Italia andrebbe meditato al più presto. Nell’Unione «non c’è ancora un governo vero e proprio», che esiga maggioranze parlamentari stabili, continuative. Non può aprirsi un divario, fra rappresentatività e governabilità.
Senza la soglia del 5, sostengono i giudici tedeschi, i partiti europei aumenterebbero di poco, e il funzionamento del Parlamento non verrebbe debilitato da armate Brancaleone. Purtroppo solo la Corte di Karlsruhe si occupa della vera attualità europea: lo stravolgimento delle democrazie costituzionali ad opera della crisi economica e sociale. Lo fa spesso per difendere interessi solo nazionali: per frenare solidarietà europee troppo costose per i connazionali. Ma il dramma della democrazia amputata è pensato con costanza, e a fondo. In Italia è ignorato dai partiti dominanti. La divaricazione fra democrazia ed efficienza è voluta e comunque data per scontata. Con la soglia di sbarramento, il parlamento di Strasburgo si aprirà solo a una parte di italiani: a chi vota centrosinistra, destra, 5 Stelle, e alcuni altri. Significativamente sono esclusi coloro che vorrebbero cambiare l’Europa, e non condividono né le grandi coalizioni sinistra- destra né le disordinate risposte di 5 Stelle ai mali dell’Unione.
Cambiare l’europorcellum è non solo necessario, ma possibile. Si dirà che è troppo tardi. Abbiamo visto che è una fandonia: l’accordo Veltroni-Berlusconi divenne legge in un mese. Se Renzi e Grillo fanno sul serio quando reclamano più democrazia in Europa, hanno tutto il tempo per darci una legge all’altezza della strana disfatta, dal sapore bellico, in cui la crisi ci ha gettati.
A proposito di Renzi (e non solo): «La vicenda italiana parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico».

La Repubblica, 7 gennaio 2014

Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.

Chi voglia ricostruirne la genealogia dovrà partire,ça va sans dire dalla rivoluzione berlusconiana, che consistette nella costruzione simultanea dell’impero mediatico e del partito-azienda. Al di là dell’unicità dell’impresa di Silvio Berlusconi, che rimane ineguagliata, resta il fatto che il modus operandida essa inaugurato è diventato col tempo parte del comportamento pubblico: il successo politico gestito con uso dirigenziale dei corpi intermedi. Il modello privatistico dei comportamenti pubblici è la madre di una trasformazione che è diventata così profonda da essere quasi la nostra seconda natura, un costume normale che guida le azioni e le valutazioni politiche. Un modus operandi appunto, e che si avvale della democrazia dell’audience.
La democrazia dell’audience, cioè del pubblico che assiste allo spettacolo della politica, ha a poco a poco sostituito quella dell’identità di partito. Poco male, si dirà, anzi un segno di avanzamento democratico perché ha dimostrato che l’opinione della gente conta più di quella delle oligarchie di partito. Sennonché, l’idea che questo gentismo significhi più democrazia potrebbe valere al massimo nel mondo astratto della teoria. Nella realtà concreta, l’abito dirigistico che conquista l’audience può avere spiacevolissimi esiti se non incanalato da pratiche e regole virtuose che garantiscano sempre il pluralismo, il quale è l’anima della leadership, non il suo ostacolo.
La vicenda italiana (che fa testo nei manuali universitari) parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico: questo è il primo comandamento del buon governo rappresentativo. Il pluralismo dei media e quello dei e nei partiti stanno insieme; essi corrispondono a un modus operandi che è diverso da quello dirigistico.

Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabileche pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia.

Un simile abito emerge nel Pd, la cui segreteria nazionale sente di potersi riunire nella sede dove il leader ha iniziato la sua corsa alla leadership del partito. Non si tratta questa volta di una sede privata. Ma è una sede comunque identificata con la dirigenza del leader. Dirigere il partito è diventato col tempo simile a “tenere” il partito, non diversamente da come un bravo amministratore delegato “tiene” l’azienda che rappresenta (pur senza possedere): che significa, in senso classico, avere il controllo personale nel dettare l’agenda e nel selezionare il team più adatto a realizzarla. Il successo è più importante del modo in cui lo si ottiene; anzi liberare l’operato dagli orpelli delle regole di accountability appare come uno snellimento delle procedure per giungere a decisioni spedite.

Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo).

Non è una questione di buonismo ma di logica della buona pratica, perché debilitare l’opposizione comporta inevitabilmente allentare il controllo sulla dirigenza che non essendo più incalzata e stimolata può perdere in energia innovativa. La trasformazione del partito per pratica dirigistica può rischiare di diventare un problema proprio per la leadership, poiché debilitare la critica indebolisce anche i vincitori più pugnaci.

Nel PD c'è qualcuno cui non piace «il partito padronale». E se ne va dal governo.

Il manifesto, 4 gennaio 2014

Mat­teo Renzi aveva appena finito di ripe­tere le solite ras­si­cu­ra­zioni — «non sono io che metto in dif­fi­coltà il governo» — quando gli è venuto fuori un gesto arro­gante che offre l’occasione a un suo avver­sa­rio interno di attac­carlo in con­tro­piede. «Fas­sina chi?», ha fatto finta di non capire in con­fe­renza stampa il segre­ta­rio. E Ste­fano Fas­sina qual­che ora dopo si è dimesso. Ma è stata quella del vice­mi­ni­stro all’economia una mossa poli­tica stu­diata, pre­pa­rata con un paio di inter­vi­ste nell’ultima set­ti­mana. Che serve a cari­care su Renzi la respon­sa­bi­lità dell’esecutivo. Può farlo cadere, se vuole. O sosti­tuire i mini­stri del Pd, se ha voglia di imbar­carsi in un com­pli­cato rim­pa­sto.
Anzi, a que­sto punto dovrà pro­ba­bil­mente farlo. E di certo ha messo il governo in dif­fi­coltà. Ste­fano Fas­sina si dimette, e deve pre­ci­sare «irre­vo­ca­bil­mente» per­ché nell’ottobre scorso era tor­nato indie­tro da un iden­tico annun­cio dovuto a un dis­senso sulla legge di sta­bi­lità, poi Letta lo aveva con­vinto a restare. Il vice­mi­ni­stro rie­sce adesso a sca­ri­care sul gesto sgar­bato di Renzi una sua già matura scelta di rot­tura, e prova a rad­dop­piarne l’effetto. Ancora ieri mat­tina dai gior­nali Fas­sina insi­steva per un rim­pa­sto, met­tendo il suo man­dato «a dispo­si­zione» di Letta e Renzi. «La squa­dra di governo è espres­sione di un Pd archi­viato», spie­gava da «reduce» della scon­fitta cor­rente ber­sa­niana. Renzi non lo degnava di una rispo­sta, se non alla fine con quel «chi?» irri­dente che in pas­sato il sin­daco di Firenze aveva subito da D’Alema. Fas­sina non si lascia sfug­gire l’occasione. «Le parole di Renzi su di me con­fer­mano la valu­ta­zione poli­tica che ho pro­po­sto in que­sti giorni: la dele­ga­zione del Pd al governo va resa coe­rente con il risul­tato con­gres­suale; è respon­sa­bi­lità di Renzi pro­porre uomini e donne sulla sua linea», dice. E poi aggiunge la for­mula clas­sica del bravo diri­gente: «Non c’è nulla di per­so­nale, è una que­stione poli­tica».
Poli­tica, ma anche un po’ per­so­nale era di certo la posi­zione sco­moda nella quale si era venuto a tro­vare Fas­sina, respon­sa­bile di quelle poli­ti­che eco­no­mi­che che Renzi e i ren­ziani non hanno smesso un minuto di bom­bar­dare dall’esterno, prima e dopo le pri­ma­rie. Nel giorno dell’addio, il vice­mi­ni­stro si toglie lo sfi­zio di stuz­zi­care il col­lega Del Rio, unico mini­stro di lunga mili­tanza ren­ziana. È di certo lui quell’«autorevole col­lega che si arram­pica sugli spec­chi» di fronte alle cri­ti­che quo­ti­diane del segre­ta­rio Pd.
Ma con­se­gnate le dimis­sioni a Letta, Fas­sina riceve pub­blica e imme­diata soli­da­rietà solo dall’esterno del Pd. Gianni Cuperlo solo in serata esprime «dispia­cere per l’episodio che ha gene­rato le dimis­sioni», e chiede a Renzi «rispetto per le per­sone». Mat­teo Orfini, espo­nente di quella cor­rente dei gio­vani tur­chi che sta cer­cando un’interlocuzione con il neo segre­ta­rio, cor­rente della quale Fas­sina non fa parte, bac­chetta l’uno e l’altro. Renzi per «gli atteg­gia­menti gua­sco­ne­schi». Fas­sina per­ché avrebbe dovuto rea­gire «impe­gnan­dosi a fare di più». La nuova mag­gio­ranza ren­ziana avvolge l’episodio nel gelo. Il por­ta­voce della segre­te­ria Gue­rini liquida la vicenda come un disturbo dovuto a motivi per­so­nali: «Non c’è motivo di fare pole­mi­che, ma di lavo­rare, e molto. Dispiace che Fas­sina esprima in que­sto modo il suo disa­gio riguardo alla sua pre­senza nel governo». Il ren­ziano Mar­cucci parla di «dimis­sioni per futili motivi»; altri di «pan­to­mima». Renzi con­ti­nua a non accor­gersi di Fas­sina. A dimis­sioni già date, scrive su twit­ter di sen­tirsi «molto con­tento» per l’esito della prima segre­te­ria a Firenze. E aggiunge l’hashtag #lavol­ta­buona che sarebbe troppo mali­gno col­le­gare all’addio del vice­mi­ni­stro.

Anche per­ché quell’incarico all’economia andrà comun­que affi­dato, a meno di non con­si­de­rare il governo già in esau­ri­mento. E dun­que si aprirà quel rim­pa­sto che tanti pro­blemi potrebbe creare sia a Letta che a Renzi, e forse soprat­tutto a Renzi che non potrebbe più con­ti­nuare con un piede den­tro e l’altro fuori. C’è al governo per esem­pio il mini­stro Zano­nato, che è pari­menti dell’area che fu di Ber­sani. E c’è la mini­stra Can­cel­lieri: Renzi la voleva fuori, non troppo tempo fa.

Le ragioni del «fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia». La Repubblica, 4 gennaio 2014

Il 4 agosto 1914 fu una data nefasta per la sinistra europea. Su richiesta del kaiser Guglielmo II e per “senso di responsabilità nazionale”, i socialdemocratici della Spd, cioè la frazione parlamentare maggioritaria del Reichstag, votarono a favore dei crediti di guerra per finanziare le operazioni militari contro Francia e Russia. Lo stesso giorno, a Parigi, i loro confratelli deputati della Sfio aderirono all’Union sacrée, cioè la grande coalizione antitedesca invocata dal presidente Raymond Poincaré. Quel 4 agosto, dunque, vennero ridotti in cenere i principi fondativi della Seconda Internazionale (“nostra patria è il mondo intero”). Gli stessi popoli che l’ideale socialista aveva riuniti in un solo movimento operaio, si accingevano a massacrarsi nelle trincee della Grande Guerra. Per giustificare la cosiddetta “tregua interna” e la rinuncia alle precedenti deliberazioni pacifiste, Friedrich Ebert, Albert Sudekum e gli altri dirigenti socialdemocratici finsero di credere che la Germania conducesse una “guerra difensiva”. Solo negli anni successivi una minoranza di sinistra si oppose alla linea socialpatriottica, ma venne accusata di “disfattismo” e duramente repressa. Stessa sorte toccò agli oppositori in Francia e in quasi tutti gli altri paesi impegnati nello sforzo bellico. La recente scelta della Spd di imbarcarsi in una Grosse koalition per attraversare sotto la guida di Angela Merkel l’attuale bufera europea, sta suscitando nella sinistra dell’Unione un malcelato imbarazzo e riecheggia queste reminiscenze storiche. Non voglio sostenere che l’accordo stipulato con la cancelliera democristiana sia paragonabile ai crediti di guerra del 1914. E però anch’esso si fonda su uno scambio asimmetrico: vengono garantiti significativi miglioramenti ai lavoratori tedeschi; ma viene nettamente bocciata l’idea socialdemocratica di un fondo europeo per la condivisione del debito. La Spd, dunque, delega per intero la politica europea al rigorismo della Merkel. La Germania resterà inflessibile nei confronti dei partner più poveri dell’Unione. Neppure la leader della sinistra interna, Andrea Nahles, si è opposta a questo dietrofront strategico, intrapreso già prima delle elezioni di settembre quando ormai la Merkel appariva imbattibile. Non una svolta repentina, ma piuttosto una capitolazione rispetto alla severità con cui inizialmente il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peter Steinbrueck, definiva egoista e grezza la politica europea della Merkel.

Per questo è bene ricordare il 1914, e la votazione dei crediti di guerra (che produsse una frattura insanabile nella sinistra europea): aiuta a riconoscere quanto rapidamente possa consumarsi la dissolvenza dell’internazionalismo. Che oggi preferiamo chiamare col nome di europeismo, ma che ovunque deve pur sempre fronteggiare il medesimo spettro del nazionalismo sciovinista. Ciò spiega a mio parere il fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia. Tsipras non ha alcuna chance di successo. Ma suscita tanta voglia di parteggiare generosamente per il greco contro il tedesco: ovvero contro la candidatura ben più solida di Martin Schulz, l’attuale presidente del parlamento europeo, esponente di quella Spd che sembra appiattirsi nei luoghi comuni dell’ostilità tedesca ai popoli spendaccioni e fannulloni.

Il disagio viene accresciuto dalla ovvia imprescindibilità della Spd: ancora oggi, come già nel 1914, la socialdemocrazia tedesca rimane la forza principale della sinistra europea (e quando, per reazione, fu la Russia di Stalin a tentare “il socialismo in un paese solo”, mal ce ne incolse). Per questo l’egoismo tedesco inscritto nel patto di governo Merkel-Gabriel, così distanti dalla visione europeista dei loro predecessori, risulta tanto più lacerante se visto da sinistra. Per tornare al dilemma europeo simboleggiato alle prossime elezioni dal greco Tsipras contro il tedesco Schulz, quali argomenti si potranno spendere di fronte a un giovane disoccupato italiano per sconsigliargli una scelta puramente romantica, dalla parte del più debole? Se le forze progressiste dell’Ue non sono state capaci di elevare Atene a capitale di un europeismo solidale, e anzi in Grecia il socialismo del Pasok si è autodistrutto per sottomissione alle ricette calate dall’alto, c’è forse qualcuno a sinistra che immagini di ricominciare da Berlino?

Qui davvero il Partito Democratico italiano potrebbe svolgere una funzione rilevante, sforzandosi di riavvicinare il greco e il tedesco. Promuovendo una critica aperta alla Spd rinchiusa nel socialpatriottismo, finora lesinata perfino da uomini come D’Alema che non perdono occasione di vantarsi della propria familiarità col socialismo europeo. L’Italia vive direttamente il dramma della nuova figura sociale dell’uomo indebitato; ma è al tempo stesso nazione cofondatrice dell’Unione europea. Il Fiscal compact sembra condannarci a pagare per vent’anni interessi elevatissimi su un debito pubblico destinato a restare comunque inestinguibile; ma un nostro eventuale collasso finanziario trascinerebbe nei guai anche i paesi più solidi dell’Ue. E a ben pensarci ci soccorre anche la memoria di quel fatidico 1914: quando la Spd votava i crediti di guerra e quasi tutti gli altri partiti socialisti europei tradivano la reciproca fratellanza in nome di un malinteso sentimento di lealtà nazionale, fu proprio il Partito socialista italiano l’unico a mantenersi sulla linea non interventista e neutralista deliberata dal congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale. Non bastò per impedire la catastrofe di due guerre mondiali in meno di trent’anni. Ma questa è una ragione in più per riprovarci oggi

Una sintetica analisi della realtà della "politique politicienne" italiana, dove dominano gli avanguardisti del passo indietro.

Il manifesto, 4 gennaio 2014

Il gioco in attacco, il nuovo ini­zio, l’urgenza, le tappe for­zate, i cro­no­pro­grammi: da un mese il governo Letta 2 (quello senza più Ber­lu­sconi ma con ancora Alfano) dif­fonde una fre­ne­tica ansia. Senza muo­versi di un cen­ti­me­tro, al mas­simo sosti­tui­sce i vec­chi annunci con quelli nuovi. «Faremo, stiamo per fare, eccoci», ma appena si passa dagli annunci alle pro­po­ste con­crete ecco che rimonta un immo­bi­li­smo con­fuso. Che del resto è l’unico patto pos­si­bile per la strana mag­gio­ranza, quello che ne ha garan­tito la soprav­vi­venza. Un conto è la legge elet­to­rale, e anche lì per non spac­care in par­tenza l’asse di governo c’è voluto che Renzi tri­pli­casse le pro­po­ste di modi­fica, ognuna delle quali emen­da­bile: siamo ancora alla teo­ria. Un conto sono i prov­ve­di­menti con­creti, anche i più sem­plici, mode­rati e di banale buon­senso. Basta che il segre­ta­rio del Pd accenni alle unioni civili e alla modi­fica della Bossi-Fini che Alfano ci ricordi di essere sem­pre lui, l’Angelino di Ber­lu­sconi. Minac­cia una crisi che non gli con­viene ma che è ormai l’unica alter­na­tiva all’inerzia.

Forse se ne sta con­vin­cendo anche il pre­si­dente della Repub­blica, che da almeno tre anni ha scelto invece di custo­dire le lar­ghe intese e il fetic­cio della sta­bi­lità. Meglio tardi che mai.

La pro­po­sta di Renzi sulle unioni civili è la più timida pos­si­bile. Arre­trata anche rispetto all’elaborazione del Pd — il neo segre­ta­rio del resto qual­che anno fa era in piazza al Family Day con­tro la pro­po­sta pro­diana dei Dico. Se in Europa e nel mondo si afferma il matri­mo­nio anche per le cop­pie omo­ses­suali, Renzi si ferma alla tutela pri­va­ti­stica degli affetti, la solu­zione cioè che la Corte di giu­sti­zia euro­pea sta già supe­rando con le sue sen­tenze. Anche la magi­stra­tura ita­liana, per­sino quella della Cas­sa­zione, è più avanti. Nelle retro­vie ci sono però sal­da­mente Alfano e il suo cen­tro­de­stra, che è nuovo quanto lo sono Gio­va­nardi e Sac­coni. Para­go­nati ai loro comu­ni­cati, quelli vati­cani sem­brano ormai la scin­tilla di Luci­fero. Se non sulla revi­sione della Bossi-Fini, dove la destra rimane inde­co­ro­sa­mente unita, almeno sulle unioni civili Renzi finirà col tro­vare mag­giore sin­to­nia nei ber­lu­sco­niani orto­dossi che negli alleati di governo. Acce­le­rando per que­sta via la crisi. Sarà un bene.

Molt www.Sbilanciamoci. info, 3 gennaio 2014

Dopo l'accordo tra il Lingotto e il sindacato Usa, il quartier generale del gruppo Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Usa, mentre le vendite e la produzione in Italia già da tempo rappresentano una parte molto minoritaria di quelle mondiali. Più che di un successo del sistema Italia è meglio parlare di un successo degli azionisti

L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti. Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché ovviamente qualche rappresentante del governo. Sintetizzano tale reazione due titoli apparsi su Il Sole 24 Ore; vi si parla da una parte di “successo del sistema Italia”, mentre dall’altra si afferma che “vince l’abilità negoziale del manager”.

Ci permettiamo di dissentire da ambedue i concetti espressi dal quotidiano della Confindustria. Il “successo del sistema Italia” appare del tutto relativo se consideriamo come la percentuale di italianità del gruppo tenda ormai ai minimi. Intanto, già da tempo, un pezzo importante del gruppo, la Fiat Industrial, con i suoi camion, i suoi trattori, le sue macchine movimento terra, veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni.

Ora tocca all’auto. Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaia di posti di lavoro a Torino. Del resto, le vendite e la produzione in Italia (grazie anche alle scelte fatte a suo tempo dal management) rappresentano ormai sono una parte molto minoritaria di quelle mondiali del gruppo, mentre è già annunciato che il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.

Per far digerire meglio la pillola all’opinione pubblica del nostro paese il management confermerà per l’Italia, almeno speriamo, un po’ di investimenti per rafforzarvi la produzione di alcuni modelli; attendiamo con apprensione gli annunci ufficiali in proposito. Il governo approfitterà della novità per chiedere almeno notizie sul destino vero di Mirafiori e di Cassino, come qualche persona assennata sta facendo? O addirittura per sapere quale sarà il futuro di tutti gli stabilimenti italiani? Mah, quelli sono occupati in ben più importanti faccende.

Comunque, per quanto riguarda le attività produttive, la fusione con Chrysler dovrebbe permettere alla Fiat, oltre che di sviluppare un po’ di sinergie, di mettere le mani sul tesoretto finanziario dell’azienda Usa e di trovare quindi, senza esagerare con l’Italia, un po’ di soldi per portare avanti qualche investimento anche qui da noi.

Va peraltro ricordato come la struttura finanziaria del nuovo gruppo non appare, a detta degli esperti, come molto brillante e in ogni caso essa sembra essere peggiore di quella dei suoi principali concorrenti, con l’esclusione forse della Citroen-Peugeot, che però si sta accasando con lo Stato francese da una parte e con i produttori cinesi della Dongfeng dall’altra. Essa comunque non è in grado di sviluppare una politica aggressiva sul fronte della ricerca e sviluppo e degli investimenti adeguati a posizionarsi tra i protagonisti del mercato mondiale.

Più che di un successo del sistema Italia si potrebbe parlare di un successo degli azionisti, guidati dal pirotecnico Lapo Elkann, clone di Marchionne; alla notizia della fusione i titoli del Lingotto sono subito saliti in misura rilevante. Anche l’amministratore delegato troverà il suo tornaconto nella faccenda, perché potrà consolidare da noi la fama di manager miracolo e vedere anche aumentati i suoi bonus di fine anno. Ci sia permesso di esprimere peraltro solo qualche dubbio sulla sua presunta abilità negoziale. Il sindacato statunitense aveva chiesto 5 miliardi di dollari per concludere l’affare, mentre Marchionne aveva dichiarato con sdegno che il prezzo giusto era di soli 2 miliardi. Ora scopriamo che la Veba ha ottenuto 4,35 miliardi; si tratta di una cifra molto più vicina alle richieste statunitensi che all’offerta italiana.

Di positivo per Torino c’è il fatto che la parte più importante dell’esborso per l’acquisto del 41,5% della Chrysler verrà sostenuto dalla stessa casa americana, mentre l’azienda di Torino dovrà pagare soltanto 1,75 miliardi di dollari e non sarebbe obbligata, almeno nell’immediato, a dover ricorrere ad un aumento di capitale, scelta peraltro probabilmente ineludibile tra qualche tempo.Con la fusione si costituisce il settimo gruppo automobilistico mondiale, che avrà comunque molte difficoltà a lottare con i veri protagonisti del settore.

Lo stesso Marchionne aveva dichiarato alcuni anni fa che per stare adeguatamente sul mercato bisognava produrre almeno sei milioni di vetture, ma nel 2013 la Fiat-Chrysler ne avrà consegnate forse poco più di quattro milioni.

A livello della situazione sul terreno il gruppo ha dei punti di forza commerciali in Brasile, con una posizione però sempre più insidiata dalla concorrenza, negli Stati Uniti, grazie peraltro anche alla forte ripresa del mercato locale negli ultimi anni (cosa succederà quando il mercato si fermerà?), in Italia. Il resto del quadro non appare come molto brillante. Negli altri paesi europei ormai le sue quote di mercato sono minuscole, mentre esso non esiste quasi in Asia, l’area ormai più importante del mondo per il settore e neanche in Russia, dove le previsioni per i prossimi anni indicano che tale mercato diventerà il primo in Europa, scavalcando la Germania.

In Cina, ormai il paese guida per il settore, dopo due false partenze, il gruppo sta avviando ora le sue attività produttive con molta fatica e, se tutto va bene, fra qualche anno esso avrà l’1% di quota di mercato; una meraviglia. In Russia si attende ancora l’avvio operativo della produzione di auto, che appare legata all’accordo con qualche potentato locale che ancora non sembra arrivare, mentre per il momento si dovrà limitare a produrre qualche Ducato.

Per quanto riguarda poi la gamma delle produzioni, nella nebbia delle rare e confuse dichiarazioni del management, sembra possibile negli ultimi tempi individuare una strategia ormai relativamente definita, anche se non in tutti i suoi aspetti.

Nella fascia alta del mercato, si profila un polo del lusso, con la presenza, oltre che della Ferrari, della Maserati e forse anche dell’Alfa Romeo, marchio quest’ultimo di cui però non si conoscono bene i possibili destini. Ma la produzione annunciata per i prossimi anni per la stessa Maserati, a livello di 50.000 unità all’anno, pur rilevante e sicuramente da perseguire, appare alla fine modesta, mentre le varie Mercedes, Bmw, Audi, veleggiano ormai sui milioni di unità.

Nella fascia più bassa, abbiamo dei modelli di successo quali la 500 e la Panda, di cui si cerca di tirar fuori tutte le possibili versioni, mirando a mantenere i prezzi a livello sostenuto. Ma poi c’è il vuoto, che forse sarà colmato molto in parte nel 2014 con la nuova versione della Punto; troppo poco e molto tardi. Nella fascia mediana, ci sono i prodotti della Chrysler, che è abbastanza brava però a vendere suv e pick-up, mentre fa più fatica con le berline di fascia media e media-bassa. È questo un altro punto debole rilevante della strategia di prodotto.

Alla fine, se la Fiat-Chrysler pretende di essere tra i protagonisti del mercato mondiale, sembra evidente che è difficile che possa farcela da sola; essa, a nostro parere, dovrebbe sviluppare un’alleanza con un altro produttore che, oltre ad accrescere i volumi complessivi, copra perlomeno i suoi buchi in Asia e nella fascia delle berline medie e che sia inoltre ben fornito finanziariamente. Altrimenti, la stessa sopravvivenza del gruppo potrebbe essere messa in discussione nei prossimi anni. Il 2014 si presenta come probabilmente molto movimentato per i lavoratori del settore in Italia.

«L'acquisto di Chrysler. Preoccupazione per gli stabilimenti italiani del Lingotto dopo l’acquisizione del 100% dell'azienda Usa. I sindacati: «Marchionne ci dica se investirà». Ma alla Borsa l’operazione piace: i titoli volano». Il

manifesto, 2 gennaio 2014

così Ser­gio Mar­chionne, il mana­ger «dei due mondi», è riu­scito a incas­sare un altro risul­tato: ha riu­nito i due mondi in uno, adesso la Chry­sler è tutta di Fiat e pra­ti­ca­mente le due società (man­cano ovvia­mente tempi e pas­saggi tec­nici) si avviano a diven­tare una unica maxi-azienda, un colosso mon­diale tale da poter soprav­vi­vere alla com­pe­ti­zione con gli altri giganti dell’auto. D’altronde già nel 2010, all’atto della pre­sen­ta­zione dell’ambiziosissimo «Piano Fab­brica Ita­lia», poi spaz­zato via dalla crisi inter­na­zio­nale, Mar­chionne lo aveva detto: Fiat potrà soprav­vi­vere solo in una grande alleanza trans-nazionale, che la fac­cia entrare nel ristretto gruppo di imprese (da con­tare sul dito di una mano) che soprav­vi­ve­ranno. Gra­zie all’abbattimento dei costi, gra­zie a eco­no­mie di scala su milioni di vet­ture pro­dotte, gra­zie alla fles­si­bi­lità e insieme alla potenza finan­zia­ria che solo un big può per­met­tersi. Il resto è nulla.

Innan­zi­tutto la Borsa: per­ché prima ancora che allo stesso ammi­ni­stra­tore dele­gato del gruppo e alla fami­glia Agnelli/Elkann – che hanno par­lato di avve­ni­mento «sto­rico» – ieri l’acquisto è pia­ciuto soprat­tutto agli inve­sti­tori di Piaz­zaf­fari. Il titolo Fiat già in aper­tura di con­trat­ta­zione è schiz­zato in alto, per entrare con una quo­ta­zione del +12,6%; la chiu­sura è stata ai livelli del +16,4% e uno scam­bio di ben il 6,4% del capitale.

Evi­den­te­mente i mer­cati cre­dono nell’operazione: e non solo nel nuovo sog­getto che nasce, ma anche nell’«acquisitore» a monte, ovvero la Exor, la holding-cassaforte degli Agnelli, che si avvi­cina tra l’altro sem­pre di più a spo­stare il suo bari­cen­tro finan­zia­rio e di mer­cato dalla piazza di Milano a Wall Street. Gli ana­li­sti infatti pre­fi­gu­rano un futuro sem­pre più «a stelle e stri­sce» non solo per Chrysler-Fiat (capi­tolo che apre nodi forse dolo­rosi, almeno per l’Italia, di cui par­le­remo), ma anche per Exor: che ieri è stata il secondo miglior titolo, dopo Fiat, segnando rialzi oltre il 5%.

Ma, ancora più impor­tante, il giu­di­zio degli ambienti finan­ziari ame­ri­cani, visto che il titolo di Chrysler-Fiat andrà quasi cer­ta­mente già entro la fine di quest’anno a isti­tuire la pro­pria piazza prin­ci­pale a Wall Street, lasciando Piaz­zaf­fari come mer­cato secondario.Secondo il Wall Street Jour­nal, il prezzo dei 3,6 miliardi pagato da Fiat per acqui­sire il 41,5% delle azioni Chry­sler ancora in mano a Veba (tutte le altre erano già a Torino), è «molto con­ve­niente per Fiat, migliore delle attese». Gli ana­li­sti ave­vano par­lato infatti di un valore ben più alto, tra i 4,2 miliardi e i 5 miliardi di dol­lari, e tra l’altro il metodo di paga­mento scelto (di cui 1,75 miliardi cash e 1,9 miliardi sotto forma di divi­dendo straor­di­na­rio da parte di Chry­sler a Veba) per­met­tono a Fiat di acqui­stare senza aumenti di capi­tale, così come un aumento non è ser­vito a Exor.

Ope­ra­zione finan­zia­ria riu­sci­tis­sima, quindi, ma adesso si apre una pra­te­ria di pos­si­bi­lità per le scelte indu­striali: e i sin­da­cati ita­liani, che ieri hanno ripe­tuto in coro il man­tra «adesso Fiat inve­sta in Ita­lia», die­tro que­sta frase piut­to­sto scon­tata celano a stento forti pre­oc­cu­pa­zioni. Innan­zi­tutto la sede: per­ché se è ormai pra­ti­ca­mente certo che il gruppo italo ame­ri­cano si spo­sterà (finan­zia­ria­mente) alla borsa di New York, pare altret­tanto atten­di­bile (anche se ancora non se ne parla uffi­cial­mente) che gli uffici cen­trali, dalla sede legale, al «cer­vello» della mul­ti­na­zio­nale, faranno anche loro le vali­gie: spo­stan­dosi da Torino a Detroit. Altri ancora par­lano di sede legale in Olanda (come è già avve­nuto con Cnh Fiat-Industrial), per­ché molto van­tag­giosa sul piano fiscale, e sede ope­ra­tiva negli Usa. Ma insomma, la glo­riosa e sto­rica città del Lin­gotto, che ospitò fin dal lon­tano 1899 la crea­tura di Gio­vanni Agnelli, pare ormai fuori gioco.

E poi, a cascata, tema che riguarda più da vicino gli ope­rai, gli sta­bi­li­menti pro­dut­tivi. Fiat con­ti­nuerà a inve­stire in Ita­lia, o via via si disim­pe­gnerà sem­pre di più? Il coro sin­da­cale è una­nime: ora il nostro Paese, che ha tanto pagato per arri­vare fino a que­sta «vit­to­ria» d’oltreoceano, deve incas­sare le cam­biali: Raf­faele Bonanni, della Cisl, riven­dica la linea seguita negli ultimi anni (insieme alla Uil) di soste­gno a Mar­chionne, dicendo che l’acquisto di Chry­sler «è anche merito dei sin­da­cati ita­liani». Luigi Ange­letti chiede inve­sti­menti. E Susanna Camusso, della Cgil, insi­ste: «Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese: auspi­chiamo che la dire­zione stra­te­gica e la pro­get­ta­zione restino ita­liane, man­te­nendo una pre­senza qua­li­fi­cata in Ita­lia». La Fiom, con Michele De Palma, chiede «la con­vo­ca­zione di un tavolo, con cui il governo chieda garan­zie per tutti gli sta­bi­li­menti ita­liani», a par­tire da Mira­fiori e Cas­sino, quelli giu­di­cati più in bilico.

Il futuro indu­striale Fiat, almeno negli sce­nari cir­co­lanti ieri, dovrebbe basarsi sul rilan­cio dell’Alfa Romeo e sul seg­mento lusso, così come è avve­nuto finora per la 500 negli Usa e il rispol­vero di Mase­rati. Sareb­bero pro­prio Cas­sino e Mira­fiori a usu­fruire dei nuovi modelli Alfa (si parla di una nuova Giu­lietta, di un’ammiraglia di un suv) e Mase­rati (con un fuo­ri­strada). Pomi­gliano pare per ora «con­dan­nata» alla sola Panda, Melfi alla Punto, e ai mini suv Fiat e Jeep

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