«Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali». La Repubblica, 9 gennaio 2014
.
NEL suo gran libro su La crisi della coscienza europea dal 1680 al 1715, Paul Hazard ebbe a definire l’Europa come “un pensiero che mai si accontenta”. Oggi, prigioniera di una crisi senza precedenti, l’Unione europea si accontenta di politiche economiche restrittive, quasi una frontiera invalicabile. Questa è l’Europa degli anni che viviamo. Nella quale sono deboli i tentativi di colmare il deficit di democrazia segnalato da Jacques Delors. Ed essa è scivolata verso un deficit di legittimità, che è alla base della crescente sfiducia dei cittadini, delle spinte verso la rinazionalizzazione, dell’abbandono di valori e principi dell’Unione come accade in Ungheria.
Vi era stato un momento in cui questo rischio era stato individuato, e s’era imboccata la via per contrastarlo. Nel 1999, il Consiglio europeo aveva aperto una fase costituente, affidando ad una Convenzione il compito di scrivere una carta dei diritti. La ragione di questa scelta era netta: “La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell’Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l’importanza capitale e la portata per i cittadini dell’Unione”. Si manifestava così la consapevolezza che la costruzione dell’Europa affidata solo al mercato avesse esaurito le sue risorse. che la sua piena legittimità esigesse ormai una centralità dei diritti. Ritroviamo qui l’eco lontana dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “la società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è determinata la divisione dei poteri, non ha Costituzione”. Quel che sta accadendo nell’Unione europea è appunto questo — una decostituzionalizzazione. Il suo sistema è stato amputato della Carta dei diritti fondamentali, del suo Bill of Rights, che pure, com’è scritto nell’articolo 6 del Trattato di Lisbona, “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”. Cogliendo questo spirito, addirittura quando la Carta non era vincolante, l’allora presidente Romano Prodi dichiarò subito che “Parlamento e Commissione hanno già fatto sapere che intendono applicare integralmente la Carta”. Proposito ribadito e reso più impegnativo da successive comunicazioni della Commissione.
Oggi l’orizzonte è mutato, l’Unione agisce come se la Carta non vi fosse, nega ai cittadini il valore aggiunto ad essa affidato proprio per acquisire legittimità attraverso la loro adesione, e muta i cittadini da attori del processo europeo in puri spettatori, impotenti e sfiduciati di fronte all’arrivo da Bruxelles di imposizione di sacrifici e non di garanzie dei diritti. V’è in tutto questo una contraddizione, un abbandono della logica che volle il passaggio dell’espressione “Mercato unico” a “Unione europea”, che avrebbe dovuto avvicinare istituzioni e cittadini, e questi tra loro. E vi è pure un abbandono di quanto è scritto nel Preambolo della Carta, dove si afferma l’Unione “pone la persona al centro della sua azione”.
Una “costituzione finanziaria” ha sostituito tutto questo, e dunque da qui bisogna ripartire, anche perché si è diffusa la consapevolezza dei guasti provocati da una sua assunzione acritica. Questo dovrebbe essere il tema centrale delle imminenti elezioni europee. Altrimenti finirà che, sul versante degli europeisti, prendano il sopravvento le lamentazioni contro i populismi antieuropei, quelli che l’Economist chiama la “Europa dei Tea Parties”, mentre bisogna guardare a fondo nelle loro ragioni e produrre gli anticorpi necessari. E questo può avvenire solo se si ricompone il contesto costituzionale europeo, reintegrandolo con la Carta, anche per riprendere un diverso filo della stessa discussione economica. Così acquisterà chiarezza anche l’obiettivo di avere più Europa politica. Per fare che cosa? Rendere ancora più stringente la logica economica? O ridare fiato ad un pensiero che non si accontenta di questo inquietante riduzionismo?
Partire dall’Europa, allora, non è un parlar d’altro, un tentativo di eludere le specifiche questioni italiane. È un passaggio obbligato proprio per definire meglio le responsabilità nazionali, oggi frammentate tra difficoltà ed egoismi dei singoli Stati, per affrontare senza reticenze non l’antieuropeismo spicciolo di chi cercherà di lucrare qualche consenso alle prossime elezioni, ma l’obiezione radicale di chi, da ultimo Wolfgang Streeck, vede ormai nell’Unione europea l’epicentro della “colonizzazione capitalistica”. La replica di Juergen Habermas a questa tesi può anche apparire non del tutto convincente, ma coglie un punto di verità quando segnala il rischio di “una rinuncia disfattista al progetto europeo”, che non aprirebbe la via a una Europa rinazionalizzata, ma manterrebbe al centro proprio le distruttive dinamiche della pura austerità. L’ipotesi è quella di democratizzare il sistema delle istituzioni europee, intervenendo sui trattati. Ma questa strategia sarebbe monca e debole se rimanesse fuori la revisione della nuova costituzione economica e, soprattutto, se si ignorasse il grande conflitto sui diritti che ha già devastato l’Europa accrescendo distanze e diseguaglianza, impoverendo intere popolazioni, e che è oggi l’ostacolo vero per la creazione di un “popolo europeo”. Se vi è un errore nelle ripulse d’una sinistra estrema, altrettanto rischiosa è l’incapacità dell’altra sinistra di considerare ineludibile questo tema.
Esiste ormai un insieme di critiche alle politiche di austerità che dovrebbe essere messo a frutto, articolato com’è anche in specifiche proposte d’intervento, che indicano non una via d’uscita dall’Unione, ma la necessità di una revisione dei suoi strumenti istituzionali. Proprio per questo l’attenzione alla sola dimensione dell’economia sarà insufficiente se non sarà reintegrata in questo più vasto contesto.
Qui si coglie il nesso tra Europa e Italia, dove troppi continuano a separare le due questioni e dove è in atto il tentativo di scorporare dalla Costituzione tutta la parte relativa ai diritti. Si è manifestata una critica irridente i difensori dei diritti fondamentali, sfruttando una colorita battuta di Roberto Benigni sulla “Costituzione più bella del mondo”. In discussioni impegnative si dovrebbero frequentare anche altre fonti. Massimo Severo Giannini, ad esempio, che definì “splendida” la prima parte; o Leopoldo Elia, che nella Costituzione vide “una delle migliori prove del costituzionalismo europeo, soprattutto per la completezza e lo spessore della dichiarazione dei diritti civili, sociali e politici”. Questo non è trionfalismo, ma l’indicazione di una politica costituzionale che, proprio in vista di riforme della seconda parte, non può abbandonare i principi definiti nella prima. Unione europea e Italia hanno il medesimo problema di ricomposizione dell’ordine costituzionale come condizione della sopravvivenza della stessa democrazia.
A tutti gli europei, e ai loro governanti, dovrebbe essere imposta la lettura dell’ultima pagina dell’Omaggio alla Catalogna di George Orwell, con la straordinaria descrizione dell’inconsapevolezza inglese verso i segnali dell’imminente guerra mondiale. Rassicurati allora nelle loro piccole certezze (“non vi preoccupate: la bottiglia del latte sarà davanti alla porta di casa domattina e il
New Statesman uscirà di venerdì”), chiusi oggi i paesi più ricchi in una insolente rottura d’ogni solidarietà e progetto comune, proprio così si erodono le basi di una “Unione” ben più degli antieuropeisti di professione.
«Con la soglia di sbarramento, il parlamento di Strasburgo si aprirà solo a una parte di italianiSignificativamente sono esclusi coloro che vorrebbero cambiare l’Europa, e non condividono né le grandi coalizioni sinistra- destra né le disordinate risposte di 5 Stelle ai mali dell’Unione».
LaRepubblica, 8 gennaio 2014
ANCORA non sappiamo come reagiranno i cittadini europei e italiani, il 22-25 maggio quando si voterà per il nuovo Parlamento dell’Unione — se diserteranno le urne, se si interesseranno ai propri rappresentanti in Europa — ma sin da ora sappiamo una cosa: per la prima volta, nella crisi che ci assilla, parlano e decidono i popoli, e non più solo le troike, la Banca centrale, ancor peggio il Fondo monetario. Sarà la prima occasione, per loro, di respingere oppure approvare quel che è stato fatto sinora, di mandare in Parlamento deputati in cui credere. A governare la crisi ci sono anche i cittadini.
Dicono i disillusi che non conta nulla, il Parlamento di Strasburgo. Che non vale la pena mettere la scheda nell’urna, visto che ogni nodo è sgrovigliato altrove: da mercati senza obblighi, dai banchieri centrali, da un rapporto di forza tra Stati che reintroduce nel continente il vecchio equilibrio di potenze, con le sue disparità e i suoi conflitti. Vale la pena invece, perché altri strumenti democratici non esistono nell’Unione, e perché i poteri dei suoi deputati sono tutt’altro che irrilevanti. Delle leggi attuate negli Stati, l’80 per cento è co-deciso dal parlamento che abbiamo in comune. È sempre lui a censurare o appoggiare la Commissione, la sua capacità o incapacità di governare in nome di tutti. È del tutto illogica la condizione in cui ci troviamo: proprio oggi che il parlamento ha più ascendente, le politiche europee si fanno contro i popoli o scavalcandoli. È quel che accade di solito nelle guerre. Votare è l’occasione per dire che la crisi non va omologata a una guerra o a una peste. Tanto più essenziale è sapere come voteremo: con quale legge elettorale, dunque con quali speranze di essere ascoltati e di contare, senza discriminazioni.
La questione della rappresentatività democratica fu cruciale nell’Europa liberata dal nazifascismo, dopo due guerre mondiali. Lo ridivenne dopo l’89, quando a Est caddero le dittature comuniste. La crisi vissuta come stato di eccezione e di guerra crea uno scenario analogo. Uscirne con i pareggi di bilancio è come rendere più funzionali gli eserciti, quando si tratta di ritrasformare i soldati in cittadini.
La campagna elettorale europea era alle porte, e in poche settimane il vecchio proporzionale fu abolito. La trattativa iniziò nel gennaio 2009, e la nuova legge con la soglia fu varata il 20 febbraio dal parlamento italiano, tre mesi circa prima del voto. Questo significa che deliberazioni di tale portata possono esser prese ancora una volta, se solo si vuole. C’è tempo di abolire anche in Europa il porcellum, come imposto dalla Consulta per le elezioni italiane.
La cosa più sorprendente è che la battaglia contro le leggi truffa, nell’Unione, è giudicata vitale non dai paesi piccoli ma da quello più forte: la Germania. È uno dei paradossi dei tempi presenti: lo Stato che con maggiore prepotenza esige austerità è simultaneamente il più allarmato dal deficit democratico europeo, il più sensibile alle regole dello stato di diritto. In favore di una legge proporzionale, e di un Parlamento sovranazionale più rappresentativo, è addirittura scesa in campo la Corte costituzionale, con una sentenza emessa il 9 novembre 2011 che giudica incostituzionale la soglia tedesca di sbarramento (in Germania era più alta che da noi: il 5%).

A proposito di Renzi (e non solo): «La vicenda italiana parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico».
La Repubblica, 7 gennaio 2014
Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.
Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabileche pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia.
Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo).
Nel PD c'è qualcuno cui non piace «il partito padronale». E se ne va dal governo.
Il manifesto, 4 gennaio 2014
Anche perché quell’incarico all’economia andrà comunque affidato, a meno di non considerare il governo già in esaurimento. E dunque si aprirà quel rimpasto che tanti problemi potrebbe creare sia a Letta che a Renzi, e forse soprattutto a Renzi che non potrebbe più continuare con un piede dentro e l’altro fuori. C’è al governo per esempio il ministro Zanonato, che è parimenti dell’area che fu di Bersani. E c’è la ministra Cancellieri: Renzi la voleva fuori, non troppo tempo fa.
Le ragioni del «fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia». La Repubblica, 4 gennaio 2014
Il 4 agosto 1914 fu una data nefasta per la sinistra europea. Su richiesta del kaiser Guglielmo II e per “senso di responsabilità nazionale”, i socialdemocratici della Spd, cioè la frazione parlamentare maggioritaria del Reichstag, votarono a favore dei crediti di guerra per finanziare le operazioni militari contro Francia e Russia. Lo stesso giorno, a Parigi, i loro confratelli deputati della Sfio aderirono all’Union sacrée, cioè la grande coalizione antitedesca invocata dal presidente Raymond Poincaré. Quel 4 agosto, dunque, vennero ridotti in cenere i principi fondativi della Seconda Internazionale (“nostra patria è il mondo intero”). Gli stessi popoli che l’ideale socialista aveva riuniti in un solo movimento operaio, si accingevano a massacrarsi nelle trincee della Grande Guerra. Per giustificare la cosiddetta “tregua interna” e la rinuncia alle precedenti deliberazioni pacifiste, Friedrich Ebert, Albert Sudekum e gli altri dirigenti socialdemocratici finsero di credere che la Germania conducesse una “guerra difensiva”. Solo negli anni successivi una minoranza di sinistra si oppose alla linea socialpatriottica, ma venne accusata di “disfattismo” e duramente repressa. Stessa sorte toccò agli oppositori in Francia e in quasi tutti gli altri paesi impegnati nello sforzo bellico. La recente scelta della Spd di imbarcarsi in una Grosse koalition per attraversare sotto la guida di Angela Merkel l’attuale bufera europea, sta suscitando nella sinistra dell’Unione un malcelato imbarazzo e riecheggia queste reminiscenze storiche. Non voglio sostenere che l’accordo stipulato con la cancelliera democristiana sia paragonabile ai crediti di guerra del 1914. E però anch’esso si fonda su uno scambio asimmetrico: vengono garantiti significativi miglioramenti ai lavoratori tedeschi; ma viene nettamente bocciata l’idea socialdemocratica di un fondo europeo per la condivisione del debito. La Spd, dunque, delega per intero la politica europea al rigorismo della Merkel. La Germania resterà inflessibile nei confronti dei partner più poveri dell’Unione. Neppure la leader della sinistra interna, Andrea Nahles, si è opposta a questo dietrofront strategico, intrapreso già prima delle elezioni di settembre quando ormai la Merkel appariva imbattibile. Non una svolta repentina, ma piuttosto una capitolazione rispetto alla severità con cui inizialmente il candidato socialdemocratico alla cancelleria, Peter Steinbrueck, definiva egoista e grezza la politica europea della Merkel.
Per questo è bene ricordare il 1914, e la votazione dei crediti di guerra (che produsse una frattura insanabile nella sinistra europea): aiuta a riconoscere quanto rapidamente possa consumarsi la dissolvenza dell’internazionalismo. Che oggi preferiamo chiamare col nome di europeismo, ma che ovunque deve pur sempre fronteggiare il medesimo spettro del nazionalismo sciovinista. Ciò spiega a mio parere il fascino suggestivo assunto dalla candidatura alla presidenza della Commissione europea di Alexis Tsipras, leader della sinistra di Syriza che si oppone al Memorandum della Troika e al governo di larghe intese chiamato ad applicarlo in Grecia. Tsipras non ha alcuna chance di successo. Ma suscita tanta voglia di parteggiare generosamente per il greco contro il tedesco: ovvero contro la candidatura ben più solida di Martin Schulz, l’attuale presidente del parlamento europeo, esponente di quella Spd che sembra appiattirsi nei luoghi comuni dell’ostilità tedesca ai popoli spendaccioni e fannulloni.
Il disagio viene accresciuto dalla ovvia imprescindibilità della Spd: ancora oggi, come già nel 1914, la socialdemocrazia tedesca rimane la forza principale della sinistra europea (e quando, per reazione, fu la Russia di Stalin a tentare “il socialismo in un paese solo”, mal ce ne incolse). Per questo l’egoismo tedesco inscritto nel patto di governo Merkel-Gabriel, così distanti dalla visione europeista dei loro predecessori, risulta tanto più lacerante se visto da sinistra. Per tornare al dilemma europeo simboleggiato alle prossime elezioni dal greco Tsipras contro il tedesco Schulz, quali argomenti si potranno spendere di fronte a un giovane disoccupato italiano per sconsigliargli una scelta puramente romantica, dalla parte del più debole? Se le forze progressiste dell’Ue non sono state capaci di elevare Atene a capitale di un europeismo solidale, e anzi in Grecia il socialismo del Pasok si è autodistrutto per sottomissione alle ricette calate dall’alto, c’è forse qualcuno a sinistra che immagini di ricominciare da Berlino?
Qui davvero il Partito Democratico italiano potrebbe svolgere una funzione rilevante, sforzandosi di riavvicinare il greco e il tedesco. Promuovendo una critica aperta alla Spd rinchiusa nel socialpatriottismo, finora lesinata perfino da uomini come D’Alema che non perdono occasione di vantarsi della propria familiarità col socialismo europeo. L’Italia vive direttamente il dramma della nuova figura sociale dell’uomo indebitato; ma è al tempo stesso nazione cofondatrice dell’Unione europea. Il Fiscal compact sembra condannarci a pagare per vent’anni interessi elevatissimi su un debito pubblico destinato a restare comunque inestinguibile; ma un nostro eventuale collasso finanziario trascinerebbe nei guai anche i paesi più solidi dell’Ue. E a ben pensarci ci soccorre anche la memoria di quel fatidico 1914: quando la Spd votava i crediti di guerra e quasi tutti gli altri partiti socialisti europei tradivano la reciproca fratellanza in nome di un malinteso sentimento di lealtà nazionale, fu proprio il Partito socialista italiano l’unico a mantenersi sulla linea non interventista e neutralista deliberata dal congresso di Stoccarda della Seconda Internazionale. Non bastò per impedire la catastrofe di due guerre mondiali in meno di trent’anni. Ma questa è una ragione in più per riprovarci oggi
Una sintetica analisi della realtà della "politique politicienne" italiana, dove dominano gli avanguardisti del passo indietro.
Il manifesto, 4 gennaio 2014
Il gioco in attacco, il nuovo inizio, l’urgenza, le tappe forzate, i cronoprogrammi: da un mese il governo Letta 2 (quello senza più Berlusconi ma con ancora Alfano) diffonde una frenetica ansia. Senza muoversi di un centimetro, al massimo sostituisce i vecchi annunci con quelli nuovi. «Faremo, stiamo per fare, eccoci», ma appena si passa dagli annunci alle proposte concrete ecco che rimonta un immobilismo confuso. Che del resto è l’unico patto possibile per la strana maggioranza, quello che ne ha garantito la sopravvivenza. Un conto è la legge elettorale, e anche lì per non spaccare in partenza l’asse di governo c’è voluto che Renzi triplicasse le proposte di modifica, ognuna delle quali emendabile: siamo ancora alla teoria. Un conto sono i provvedimenti concreti, anche i più semplici, moderati e di banale buonsenso. Basta che il segretario del Pd accenni alle unioni civili e alla modifica della Bossi-Fini che Alfano ci ricordi di essere sempre lui, l’Angelino di Berlusconi. Minaccia una crisi che non gli conviene ma che è ormai l’unica alternativa all’inerzia.
Forse se ne sta convincendo anche il presidente della Repubblica, che da almeno tre anni ha scelto invece di custodire le larghe intese e il feticcio della stabilità. Meglio tardi che mai.
La proposta di Renzi sulle unioni civili è la più timida possibile. Arretrata anche rispetto all’elaborazione del Pd — il neo segretario del resto qualche anno fa era in piazza al Family Day contro la proposta prodiana dei Dico. Se in Europa e nel mondo si afferma il matrimonio anche per le coppie omosessuali, Renzi si ferma alla tutela privatistica degli affetti, la soluzione cioè che la Corte di giustizia europea sta già superando con le sue sentenze. Anche la magistratura italiana, persino quella della Cassazione, è più avanti. Nelle retrovie ci sono però saldamente Alfano e il suo centrodestra, che è nuovo quanto lo sono Giovanardi e Sacconi. Paragonati ai loro comunicati, quelli vaticani sembrano ormai la scintilla di Lucifero. Se non sulla revisione della Bossi-Fini, dove la destra rimane indecorosamente unita, almeno sulle unioni civili Renzi finirà col trovare maggiore sintonia nei berlusconiani ortodossi che negli alleati di governo. Accelerando per questa via la crisi. Sarà un bene.
Molt www.Sbilanciamoci. info, 3 gennaio 2014
Dopo l'accordo tra il Lingotto e il sindacato Usa, il quartier generale del gruppo Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Usa, mentre le vendite e la produzione in Italia già da tempo rappresentano una parte molto minoritaria di quelle mondiali. Più che di un successo del sistema Italia è meglio parlare di un successo degli azionisti
L’accordo tra il gruppo Fiat e il sindacato Usa ha suscitato l’entusiasmo nei media italiani, del resto facili da accendersi per l’impresa piemontese, dati i legami abbastanza stretti che corrono da sempre tra di essa e i nostri quotidiani più importanti. Al coro si sono uniti i soliti sindacalisti Cisl e Uil, nonché ovviamente qualche rappresentante del governo. Sintetizzano tale reazione due titoli apparsi su Il Sole 24 Ore; vi si parla da una parte di “successo del sistema Italia”, mentre dall’altra si afferma che “vince l’abilità negoziale del manager”.
Ci permettiamo di dissentire da ambedue i concetti espressi dal quotidiano della Confindustria. Il “successo del sistema Italia” appare del tutto relativo se consideriamo come la percentuale di italianità del gruppo tenda ormai ai minimi. Intanto, già da tempo, un pezzo importante del gruppo, la Fiat Industrial, con i suoi camion, i suoi trattori, le sue macchine movimento terra, veleggia da un paradiso fiscale all’altro e l’Italia appare l’ultima delle sue preoccupazioni.
Ora tocca all’auto. Quasi ovviamente, il quartier generale del raggruppamento Fiat-Chrysler sarà trasferito negli Stati Uniti e rischiamo quindi di perdere qualche migliaia di posti di lavoro a Torino. Del resto, le vendite e la produzione in Italia (grazie anche alle scelte fatte a suo tempo dal management) rappresentano ormai sono una parte molto minoritaria di quelle mondiali del gruppo, mentre è già annunciato che il titolo sarà quotato principalmente alla borsa di New York.
Per far digerire meglio la pillola all’opinione pubblica del nostro paese il management confermerà per l’Italia, almeno speriamo, un po’ di investimenti per rafforzarvi la produzione di alcuni modelli; attendiamo con apprensione gli annunci ufficiali in proposito. Il governo approfitterà della novità per chiedere almeno notizie sul destino vero di Mirafiori e di Cassino, come qualche persona assennata sta facendo? O addirittura per sapere quale sarà il futuro di tutti gli stabilimenti italiani? Mah, quelli sono occupati in ben più importanti faccende.
Comunque, per quanto riguarda le attività produttive, la fusione con Chrysler dovrebbe permettere alla Fiat, oltre che di sviluppare un po’ di sinergie, di mettere le mani sul tesoretto finanziario dell’azienda Usa e di trovare quindi, senza esagerare con l’Italia, un po’ di soldi per portare avanti qualche investimento anche qui da noi.
Va peraltro ricordato come la struttura finanziaria del nuovo gruppo non appare, a detta degli esperti, come molto brillante e in ogni caso essa sembra essere peggiore di quella dei suoi principali concorrenti, con l’esclusione forse della Citroen-Peugeot, che però si sta accasando con lo Stato francese da una parte e con i produttori cinesi della Dongfeng dall’altra. Essa comunque non è in grado di sviluppare una politica aggressiva sul fronte della ricerca e sviluppo e degli investimenti adeguati a posizionarsi tra i protagonisti del mercato mondiale.
Più che di un successo del sistema Italia si potrebbe parlare di un successo degli azionisti, guidati dal pirotecnico Lapo Elkann, clone di Marchionne; alla notizia della fusione i titoli del Lingotto sono subito saliti in misura rilevante. Anche l’amministratore delegato troverà il suo tornaconto nella faccenda, perché potrà consolidare da noi la fama di manager miracolo e vedere anche aumentati i suoi bonus di fine anno. Ci sia permesso di esprimere peraltro solo qualche dubbio sulla sua presunta abilità negoziale. Il sindacato statunitense aveva chiesto 5 miliardi di dollari per concludere l’affare, mentre Marchionne aveva dichiarato con sdegno che il prezzo giusto era di soli 2 miliardi. Ora scopriamo che la Veba ha ottenuto 4,35 miliardi; si tratta di una cifra molto più vicina alle richieste statunitensi che all’offerta italiana.
Di positivo per Torino c’è il fatto che la parte più importante dell’esborso per l’acquisto del 41,5% della Chrysler verrà sostenuto dalla stessa casa americana, mentre l’azienda di Torino dovrà pagare soltanto 1,75 miliardi di dollari e non sarebbe obbligata, almeno nell’immediato, a dover ricorrere ad un aumento di capitale, scelta peraltro probabilmente ineludibile tra qualche tempo.Con la fusione si costituisce il settimo gruppo automobilistico mondiale, che avrà comunque molte difficoltà a lottare con i veri protagonisti del settore.
Lo stesso Marchionne aveva dichiarato alcuni anni fa che per stare adeguatamente sul mercato bisognava produrre almeno sei milioni di vetture, ma nel 2013 la Fiat-Chrysler ne avrà consegnate forse poco più di quattro milioni.
A livello della situazione sul terreno il gruppo ha dei punti di forza commerciali in Brasile, con una posizione però sempre più insidiata dalla concorrenza, negli Stati Uniti, grazie peraltro anche alla forte ripresa del mercato locale negli ultimi anni (cosa succederà quando il mercato si fermerà?), in Italia. Il resto del quadro non appare come molto brillante. Negli altri paesi europei ormai le sue quote di mercato sono minuscole, mentre esso non esiste quasi in Asia, l’area ormai più importante del mondo per il settore e neanche in Russia, dove le previsioni per i prossimi anni indicano che tale mercato diventerà il primo in Europa, scavalcando la Germania.
In Cina, ormai il paese guida per il settore, dopo due false partenze, il gruppo sta avviando ora le sue attività produttive con molta fatica e, se tutto va bene, fra qualche anno esso avrà l’1% di quota di mercato; una meraviglia. In Russia si attende ancora l’avvio operativo della produzione di auto, che appare legata all’accordo con qualche potentato locale che ancora non sembra arrivare, mentre per il momento si dovrà limitare a produrre qualche Ducato.
Per quanto riguarda poi la gamma delle produzioni, nella nebbia delle rare e confuse dichiarazioni del management, sembra possibile negli ultimi tempi individuare una strategia ormai relativamente definita, anche se non in tutti i suoi aspetti.
Nella fascia alta del mercato, si profila un polo del lusso, con la presenza, oltre che della Ferrari, della Maserati e forse anche dell’Alfa Romeo, marchio quest’ultimo di cui però non si conoscono bene i possibili destini. Ma la produzione annunciata per i prossimi anni per la stessa Maserati, a livello di 50.000 unità all’anno, pur rilevante e sicuramente da perseguire, appare alla fine modesta, mentre le varie Mercedes, Bmw, Audi, veleggiano ormai sui milioni di unità.
Nella fascia più bassa, abbiamo dei modelli di successo quali la 500 e la Panda, di cui si cerca di tirar fuori tutte le possibili versioni, mirando a mantenere i prezzi a livello sostenuto. Ma poi c’è il vuoto, che forse sarà colmato molto in parte nel 2014 con la nuova versione della Punto; troppo poco e molto tardi. Nella fascia mediana, ci sono i prodotti della Chrysler, che è abbastanza brava però a vendere suv e pick-up, mentre fa più fatica con le berline di fascia media e media-bassa. È questo un altro punto debole rilevante della strategia di prodotto.
Alla fine, se la Fiat-Chrysler pretende di essere tra i protagonisti del mercato mondiale, sembra evidente che è difficile che possa farcela da sola; essa, a nostro parere, dovrebbe sviluppare un’alleanza con un altro produttore che, oltre ad accrescere i volumi complessivi, copra perlomeno i suoi buchi in Asia e nella fascia delle berline medie e che sia inoltre ben fornito finanziariamente. Altrimenti, la stessa sopravvivenza del gruppo potrebbe essere messa in discussione nei prossimi anni. Il 2014 si presenta come probabilmente molto movimentato per i lavoratori del settore in Italia.
«L'acquisto di Chrysler. Preoccupazione per gli stabilimenti italiani del Lingotto dopo l’acquisizione del 100% dell'azienda Usa. I sindacati: «Marchionne ci dica se investirà». Ma alla Borsa l’operazione piace: i titoli volano». Il
manifesto, 2 gennaio 2014
così Sergio Marchionne, il manager «dei due mondi», è riuscito a incassare un altro risultato: ha riunito i due mondi in uno, adesso la Chrysler è tutta di Fiat e praticamente le due società (mancano ovviamente tempi e passaggi tecnici) si avviano a diventare una unica maxi-azienda, un colosso mondiale tale da poter sopravvivere alla competizione con gli altri giganti dell’auto. D’altronde già nel 2010, all’atto della presentazione dell’ambiziosissimo «Piano Fabbrica Italia», poi spazzato via dalla crisi internazionale, Marchionne lo aveva detto: Fiat potrà sopravvivere solo in una grande alleanza trans-nazionale, che la faccia entrare nel ristretto gruppo di imprese (da contare sul dito di una mano) che sopravviveranno. Grazie all’abbattimento dei costi, grazie a economie di scala su milioni di vetture prodotte, grazie alla flessibilità e insieme alla potenza finanziaria che solo un big può permettersi. Il resto è nulla.
Innanzitutto la Borsa: perché prima ancora che allo stesso amministratore delegato del gruppo e alla famiglia Agnelli/Elkann – che hanno parlato di avvenimento «storico» – ieri l’acquisto è piaciuto soprattutto agli investitori di Piazzaffari. Il titolo Fiat già in apertura di contrattazione è schizzato in alto, per entrare con una quotazione del +12,6%; la chiusura è stata ai livelli del +16,4% e uno scambio di ben il 6,4% del capitale.
Evidentemente i mercati credono nell’operazione: e non solo nel nuovo soggetto che nasce, ma anche nell’«acquisitore» a monte, ovvero la Exor, la holding-cassaforte degli Agnelli, che si avvicina tra l’altro sempre di più a spostare il suo baricentro finanziario e di mercato dalla piazza di Milano a Wall Street. Gli analisti infatti prefigurano un futuro sempre più «a stelle e strisce» non solo per Chrysler-Fiat (capitolo che apre nodi forse dolorosi, almeno per l’Italia, di cui parleremo), ma anche per Exor: che ieri è stata il secondo miglior titolo, dopo Fiat, segnando rialzi oltre il 5%.
Ma, ancora più importante, il giudizio degli ambienti finanziari americani, visto che il titolo di Chrysler-Fiat andrà quasi certamente già entro la fine di quest’anno a istituire la propria piazza principale a Wall Street, lasciando Piazzaffari come mercato secondario.Secondo il Wall Street Journal, il prezzo dei 3,6 miliardi pagato da Fiat per acquisire il 41,5% delle azioni Chrysler ancora in mano a Veba (tutte le altre erano già a Torino), è «molto conveniente per Fiat, migliore delle attese». Gli analisti avevano parlato infatti di un valore ben più alto, tra i 4,2 miliardi e i 5 miliardi di dollari, e tra l’altro il metodo di pagamento scelto (di cui 1,75 miliardi cash e 1,9 miliardi sotto forma di dividendo straordinario da parte di Chrysler a Veba) permettono a Fiat di acquistare senza aumenti di capitale, così come un aumento non è servito a Exor.
Operazione finanziaria riuscitissima, quindi, ma adesso si apre una prateria di possibilità per le scelte industriali: e i sindacati italiani, che ieri hanno ripetuto in coro il mantra «adesso Fiat investa in Italia», dietro questa frase piuttosto scontata celano a stento forti preoccupazioni. Innanzitutto la sede: perché se è ormai praticamente certo che il gruppo italo americano si sposterà (finanziariamente) alla borsa di New York, pare altrettanto attendibile (anche se ancora non se ne parla ufficialmente) che gli uffici centrali, dalla sede legale, al «cervello» della multinazionale, faranno anche loro le valigie: spostandosi da Torino a Detroit. Altri ancora parlano di sede legale in Olanda (come è già avvenuto con Cnh Fiat-Industrial), perché molto vantaggiosa sul piano fiscale, e sede operativa negli Usa. Ma insomma, la gloriosa e storica città del Lingotto, che ospitò fin dal lontano 1899 la creatura di Giovanni Agnelli, pare ormai fuori gioco.
E poi, a cascata, tema che riguarda più da vicino gli operai, gli stabilimenti produttivi. Fiat continuerà a investire in Italia, o via via si disimpegnerà sempre di più? Il coro sindacale è unanime: ora il nostro Paese, che ha tanto pagato per arrivare fino a questa «vittoria» d’oltreoceano, deve incassare le cambiali: Raffaele Bonanni, della Cisl, rivendica la linea seguita negli ultimi anni (insieme alla Uil) di sostegno a Marchionne, dicendo che l’acquisto di Chrysler «è anche merito dei sindacati italiani». Luigi Angeletti chiede investimenti. E Susanna Camusso, della Cgil, insiste: «Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese: auspichiamo che la direzione strategica e la progettazione restino italiane, mantenendo una presenza qualificata in Italia». La Fiom, con Michele De Palma, chiede «la convocazione di un tavolo, con cui il governo chieda garanzie per tutti gli stabilimenti italiani», a partire da Mirafiori e Cassino, quelli giudicati più in bilico.
Il futuro industriale Fiat, almeno negli scenari circolanti ieri, dovrebbe basarsi sul rilancio dell’Alfa Romeo e sul segmento lusso, così come è avvenuto finora per la 500 negli Usa e il rispolvero di Maserati. Sarebbero proprio Cassino e Mirafiori a usufruire dei nuovi modelli Alfa (si parla di una nuova Giulietta, di un’ammiraglia di un suv) e Maserati (con un fuoristrada). Pomigliano pare per ora «condannata» alla sola Panda, Melfi alla Punto, e ai mini suv Fiat e Jeep