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«Sarà davvero Giuseppe Pecoraro l'uomo giusto per l'impresa? Il nocchiere senza macchia a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana ma per l'inchiesta napoletana sulla P4.

L'Espresso, 11 dicembre 2015

Con questo post nasce il mio blog "Senza zucchero". Scriverò inchieste, notizie, commenti e analisi sul potere. Senza fronzoli, senza sconti. Per nessuno.

Ordunque è lui, il prefetto di Roma, il mr. Wolf che deve salvarci dai cattivi di Mafia Capitale. È "Peppino", come lo chiama l'ex dg Rai Mauro Masi, l'uomo che deve ripulire i sette colli dalla lordura dei fascio-ladroni e dei politici corrotti. È lui che in questi giorni dichiara e tranquillizza («non scioglierò il comune, sarebbe una vergogna») e che vuole dare la scorta a Marino. È sempre lui, uomo di Stato, che il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha mandato a spulciare le carte degli appalti del Campidoglio.

Epperò sarà davvero Giuseppe Pecoraro l'uomo giusto per l'impresa? Il nocchiere senza macchia che a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana, finita in polemiche continue (dai funerali di Priebke all'annullamento dei matrimoni gay), ma per l'inchiesta napoletana sulla P4. Ossia l'organizzazione capeggiata dal faccendiere Luigi Bisignani che manovrava nell'ombra il potere politico, gli affari milionari e le nomine pubbliche di società di Stato e servizi segreti.

Oggi sembra che se lo siano dimenticati tutti. Ma il nome di Pecoraro fa capolino spesso e volentieri tra le carte dell'inchiesta. E non poche sono le telefonate tra il prefetto e Bisignani, condannato a 1,7 anni i reclusione per una sfilza di reati, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.

Tre anni fa i colloqui tra i due sodali hanno incuriosito non poco il pm Henry John Woodcok, che cercò di capire come mai il prefetto chiamava il faccendiere discutendo di questioni assi sensibilil, come riunioni del Copasir e affari di imprenditori prodiani come Angelo Rovati. Così il magistrato, il 23 febbraio di quell'anno, convocò il prefetto nei suoi uffici (Pecoraro non è mai stato indagato per la vicenda) in modo da avere delucidazioni. Lì il poliziotto, nominato prefetto su proposta dei sottosegretari berlusconiani Nitto Palma e Mantovano, ammise che sì, Bisignani lui lo conosceva bene. «Dal 2004, da quando ero capo della segretaria del capo della Polizia De Gennaro. Io parlo con Bisignani come si parla ad un amico. Siamo amici di famiglia, conosco anche la moglie», spiegò.

Pecoraro, rappresentante dello Stato, frequenta Bisignani anche se sa che il lobbista anni prima è stato arrestato e condannato in via definitiva per il riciclaggio della maxitangente Enimont allo Ior. Incredibilmente, il prefetto nega a Woodcock di sapere che l'amico è stato anche iscritto alla loggia segreta P2. «Mi risulta, però, che sia legato al sottosegretario Gianni Letta...Escludo che il Bisignani si sia speso per farmi ottenere la nomina di Prefetto di Roma: la mia carriera e il mio curriculum sono ineccepibili».

Meno ineccepibile, secondo i pm, è il tenore delle loro conversazioni. I due al telefono parlano di tutto. Se Gigi chiede all'amico di intervenire nella scuola della figlia dell'ex ministro Stefania Prestigiacomo perchè infestata «da cinghiali», Pecoraro cerca di sapere dal lobbista informazioni su un progetto per un Parco Giochi a Val Montone. «Bisignani mi disse che c'era dietro anche Angelo Rovati, che chiamai facendo presente che c'erano problemi di viabilità legati all'apertura del predetto parco. Perchè chiamai Bisignani? È un imprenditore che conosce tutti. Ho richiamato poi direttamente Rovati perchè avevo già parlato con la presidenza del Consiglio senza successo. Rovati lo conosco da tanti anni, non volevo danneggiare l'iniziativa». In realtà è lo stesso Bisignani a spiegare ai magistrati che Pecoraro lo aveva chiamato «per mettere in guardia Rovati, consigliandogli di dirgli di uscire dall'affare». Per i pm napoletani il colloquio telefonico è perfetta metafora del potere della ragnatela del lobbista: «Che un prefetto ritenga normale rivolgersi a un privato cittadino per contattare un imprenditore coinvolto in un procedimento amministrativo di sua competenza la dice lunga sull'anomalia Bisignani».

In altre telefonate Pecoraro spiega al pidduista di aver parlato con il segretario di Letta (ora ai servizi segreti), in un'altra chiede a Bisi di trovare lavoro a un suo amico, «l'ex collega Mario Esposito, prefetto in pensione, che voleva lavorare come consulente in materia di sicurezza». In un'altra telefonata tra i due si parla addirittura di una riunione del Copasir, il comitato di controllo dei nostri 007, che avrebbe dovuto discutere di alcune accuse lanciate da Massimo Ciancimino a De Gennaro. «Appare inquietante» chiosano i magistrati napoletani che indagano sulla P4 «il fatto che il Bisignani e il prefetto Pecoraro parlino dell'ordine del giorno del Copasir, se si pensa che il Bisignani è soggetto assolutamente estraneo alle istituzioni dello Stato».

Pecoraro, però, non è d'accordo: l'amico Gigi lo ha sempre tenuto in gran conto: «Le accuse contro di lui? È un aspetto che non conosco, mi stupisce e mi auguro che non sia vero» disse a "Repubblica" quando Bisi venne arrestato «Detto ciò non voglio esprimere alcun giudizio. Io in questa vicenda ci sono entrato come i cavoli a merenda».

Ma l'uomo che qualcuno vorrebbe commissario di Roma al posto del sindaco Marino s'è fatto notare anche per altre vicende. Se recentemente ha difeso i poliziotti che hanno manganellato gli operai dell'Ast di Terni, lo scorso aprile ha giustificato l'agente immortalato a "camminare" sul costato di una ragazza inerme finita in terra durante una manifestazione. «Il poliziotto non doveva essere lì, è vero, ma forse voleva dare una mano ai suoi colleghi: per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare», disse.

Ma Pecoraro è stato protagonista anche della scandalosa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma e Alua Shalabayeva, un'azione definita «illegale» sia dall'Onu che da Amnesty International e gravata, secondo la Cassazione, da «manifesta illeggittimità originaria». Un abuso, da stato di polizia: la donna aveva i documenti in regola, ma le autorità italiane non vollero vedere. Piegate da motivazioni ancora oscure. Ebbene quel provvedimento, deciso dal ministero dell'Interno, portava la firma del prefetto Pecoraro.

Già. L'intoccabile Peppino, promosso in questi giorni a salvatore della Patria.

«"Corruzione e antipolitica sono il risultato della mancanza di etica all’interno della politica", ha spiegato a Radio Vaticana monsignor Giancarlo Maria Bregantini: una risposta al capo dello Stato che mercoledì si era schierato contro la "antipolitica che è patologia eversiva"».

Il Fatto Quotidiano.it, 11 dicembre 2014 (m.p.r.)

Si guardano dalle due rive opposte del Tevere, la Conferenza Episcopale Italiana e il Quirinale. E da oggi a dividerli, oltre al fiume, c’è anche la valutazione delle conseguenze che la corruzione comporta per la vita politica nel Paese. Un «politico corrotto» è «più eversivo» di chi fa antipolitica in maniera onesta, ha scandito alla Radio Vaticana Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso Bojano e presidente della Commissione Cei per gli affari sociali e il lavoro. Una precisa risposta a Giorgio Napolitano che con l’opinione pubblica ancora attonita di fonte all’inchiesta “Mondo di mezzo”, l’inchiesta che ha svelato gli indicibili accordi tra la criminalità e la politica romana, ha ritenuto opportuno scagliarsi contro la «antipolitica» che è «patologia eversiva». A poche ore di distanza, la Conferenza dei vescovi è l’unica istituzione a prendere una posizione critica sulle parole dell’inquilino del Colle.

Con la tempesta di Mafia Capitale che soffia furiosa sulle istituzioni e sui palazzi del potere romano, uno dei pochi spiragli di luce sembra arrivare da oltretevere. «Corruzione e antipolitica, alla fine, sono il medesimo risultato triste di un fenomeno di mancanza di etica all’interno della politica – ha spiegato monsignor Bregantini – dobbiamo creare un’economia dove le decisioni non siano prese da pochi in stanze oscure, ma che siano trasparenti. Ci devono essere organi di controllo, la partecipazione della base. E’ il buio che crea la corruzione o l’antipolitica». Le parole dell’arcivescovo suonano come una chiara risposta a Giorgio Napolitano: «La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obiettività, senso della misura e capacità di distinguere è degenerata in anti-politica, cioè in patologia eversiva», aveva detto il capo dello Stato mercoledì all’Accademia dei Lincei, scatenando la reazione del Movimento 5 Stelle e della rete Internet.

Alla domanda se sia più eversivo un politico corrotto o un antipolitico onesto, il capo-commissione Cei risponde senza titubanze: «Un politico corrotto». «E’ la corruzione che crea entrambi i guai: l’allontanamento dalla politica e poi, di conseguenza, il disservizio – è il punto di partenza del ragionamento di Bregantini – però, non stiamo lì tutti, con l’indice puntato contro pochi; dobbiamo tutti insieme dire: creiamo delle istituzioni partecipative che ci permettano di tenere sotto controllo i politici, non solo additandoli ma condividendo, imparando però anche da noi stessi che il denaro, se non lo sai usare, ti schiavizza». Bregantini si dice preoccupato per la situazione politico-sociale ed economica dell’Italia, «però – aggiunge – c’è anche una fortissima reazione morale che c’è stata, ad esempio, dopo la questione di Roma: ha dimostrato che c’è una società sana, che non si rassegna».

Un intervento che si iscrive nel solco della linea dettata da Papa Francesco fin dai primi mesi di pontificato. Era il 25 luglio 2013 quando da una favela di Rio il pontefice esortava i giovani a «non scoraggiarsi mai» nonostante la «corruzione da persone che, invece di cercare il bene comune, cercano il proprio interesse», e si ripeteva l’8 novembre scagliandosi contro la «dea tangente». Le «forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse offendono gravemente Dio», avvertiva il 12 dicembre mentre i richiami più forti sono arrivati nel 2014, il secondo anno di pontificato, a cominciare dalla messa tenuta in Vaticano per i politici durante la quale il 24 marzo Francesco disse: «No alla corruzione, agli interessi di partito e ai dottori del dovere e ai sepolcri imbiancati». I danni causati dai «corrotti economici, corrotti politici o corrotti ecclesiastici li pagano i poveri», avvertiva Bergoglio il 6 giugno per poi tornare sull’argomento poco più di un mese fa, il 23 ottobre: «Le forme di corruzione che bisogna perseguire con maggiore severità sono quelle che causano gravi danni sociali come le frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione o qualsiasi sorta di ostacolo alla giustizia».

Ha scelto una personalità di alto profilo, la Conferenza Episcopale Italiana, per commentare le parole del presidente della Repubblica. Presidente della Commissione vescovile per gli affari sociali e il lavoro, prima di arrivare a Campobasso nel 2007, Giancarlo Maria Bregantini è stato un vescovo di frontiera: per 13 anni ha guidato la diocesi di Locri, dove scelse per sé un ruolo di forte opposizione alla criminalità organizzata.

Quando nell’ottobre del 2005 venne ucciso Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria, Bregantini aveva incoraggiato i giovani ascendere in piazza e far sentire la loro voce contro la mafia. La sua azione contro la ndrangheta ha guadagnato la ribalta dopo la strage di Duisburg, quando aveva ottenuto che per le vittime ci fossero i funerali pubblici, era riuscito a incidere sulle donne nel tentativo di riportare la pace tra le famiglie della faida di San Luca e si era recato in Germania per incontrare gli emigrati calabresi. Ma sono in molti ancora quelli che lo rimpiangono nella Locride anche per il suo ruolo di organizzatore ed ideatore di tante cooperative sociali che hanno dato lavoro ai giovani dell’area, una delle più povere e violente della regione.
Quest’anno Papa Bergoglio gli ha affidato la redazione delle meditazioni della via crucis al Colosseo e secondo voci che circolano Oltretevere ha le carte in regola per approdare alla guida di una grande diocesi come Roma e Napoli o per un incarico di rilievo all’interno della curia romana.

«In Francia e Germania si festeggia per il riconoscimento di un sito d'interesse comunitario che accresce il prestigio di una regione. Dalle nostre parti la presenza di un Sic incupisce, come la diagnosi di una malattia, un'area ben protetta come il colesterolo alto». La Nuova Sardegna, 9 novembre 2014

Si dice da tempo, con cicliche conferme, del divorzio dei cittadini dalla politica. Colpisce però che siano spesso i sindaci – non estranei alla politica – a manifestare sfiducia verso le decisioni prese nei palazzi lontani. Questo giornale ha dato conto della rivolta di amministratori sardi contro “Sblocca-Italia”. Sorpresi che dietro il programma di semplificare i processi per ammodernare il Paese ci sia l'idea di favorire lo sfruttamento intenso del territorio, e quindi l'impoverimento di luoghi, pure dove si vive dalla conservazione della natura. La prima insidia dall'arrembaggio di trivelle per ricavare inezie di gas o petrolio, nulla a che vedere con le pratiche di efficienza energetica a tutela della salute, come vorrebbe il buonsenso prima che la l'Europa.

Il profilo aggressivo di “Sblocca-Italia” è spiegato nel libro online scaricabile da «Altraeconomia» : Rottama Italia, sedici opinioni autorevoli (Settis, Montanari, De Lucia, Salzano, Petrini, ecc.) contro il “doppio salto mortale all’indietro”, la retorica del “fare” oltre le leggi.

Da più parti si pensa di ricorrere alla Consulta contro vari articoli del provvedimento, un insopportabile disegno di spoliazione di beni comuni, di «accumulazione capitalistica per espropriazione», direbbe il geografo-politologo David Harvey. Ma attenzione: all'orizzonte c'è anche una bozza di legge in materia urbanistica presentata dal ministro Maurizio Lupi: del tutto indifferente ai caratteri del territorio italiano che affonda nel fango e nell'incuria (compromessi, nell'ultimo mezzo secolo, 5 milioni di ettari di suolo agricolo). La legge garantisce la distribuzione di crediti edilizi per favorire la speculazione dei suoli (la consustanzialità tra proprietà privata e diritto a costruire – è stato scritto), la dissolvenza della pianificazione comunale con l'istituzione di indennizzi alle trasformazioni negate, la disapplicazione delle disposizioni sugli standard urbanistici; tutta roba sconsigliabile mentre le bolle immobiliari minano l'economia. Così l' accanimento della crisi disorienta e spiana la strada ad iniziative che violano misure di tutela ambientale e paesaggistica convenute in Europa.

Peccato, a proposito di disorientamento, che le manifestazioni siano normalmente contro le manomissioni più immediate e sotto casa, e raramente per difendere le ragioni che presiedono alla conservazione di habitat preziosi. Penso all'insofferenza verso la norme per custodire le biodiversità. In Francia e Germania si festeggia per il riconoscimento di un sito d'interesse comunitario che accresce il prestigio di una regione. Dalle nostre parti la presenza di un Sic incupisce, come la diagnosi di una malattia, un'area ben protetta come il colesterolo alto.

Colpiscono i toni astiosi per le cautele chieste nella realizzazione della Sassari-Olbia nei pressi di un Sic. Non so se le prescrizioni siano eccessive (peraltro a cura di uffici molto competenti). So che sono spropositate le invettive, il sarcasmo a uffa sulla fauna selvatica ai bordi del percorso, che saprebbe dove migrare – ci spiegano i soliti nemici delle regole per lo sviluppo buono.

Ripenso, per dire del disorientamento, allo slogan antipatico “l'uomo prima del muflone” che non ha aiutato le comunità del Gennargentu. Accompagnato dagli auspici estivi per improbabili apparizioni della foca monaca.

Il governo regionale ha coerentemente protestato contro “Sblocca-Italia”, segno di ostilità all'idea di affrancare gli investimenti dalle valutazioni da vicino, pur di realizzare briciole di Pil. E su questa traccia, nello sfondo il principio di sussidiarietà, ha aperto il confronto sul disegno di legge già deliberato dalla giunta, quel piano-casa forever che non persuade. Appunto perché attribuisce direttamente ai proprietari di immobili la facoltà di trasformarli in contrasto con i piani comunali e con impatto casuale su una miriade di situazioni delle quali il legislatore non può ovviamente sapere granché; come lo Stato non sa nulla dell'effetto delle trivellazioni ad Arborea o chissà dove nell'isola.

Intervistato da Daniela Preziosi, il mitico sindaco comunista di Torino che nell'83 denunciò la corruzione nella giunta, persino il suo vicesindaco fu arrestato. Qualcuno dirà: "altri tempi, non siate nostalgici". Noi diciamo:"certi princìpi devono tornare".

Il manifesto, 9 dicembre 2014

«In con­fronto a quello che leggo oggi la nostra era una cor­ru­zione da goliardi. Io sco­prii che un impren­di­tore pagava ad alcuni asses­sori le pro­sti­tute ceco­slo­vac­che. Li por­tava a Praga in albergo all inclu­sive. Offriva week end. Un lunedì mi arrivò un asses­sore tutto abbron­zato in pieno inverno. ‘Sei andato a sciare?’. ‘No’, mi disse, ‘ho fatto un viag­getto in Kenya’». Diego Novelli, classe ’31, pre­si­dente ono­ra­rio dell’Anpi tori­nese, una lunga car­riera da gior­na­li­sta dall’Unità degli anni 50 alla al set­ti­ma­nale Avve­ni­menti negli anni 80, oggi dirige il quo­ti­diano online Nuo­va­so­cietà. Ma Novelli è soprat­tutto il mitico sin­daco comu­ni­sta di Torino nel decen­nio 75–85. Quello che nel 1983, dieci anni prima dell’esplosione di Tan­gen­to­poli, di fronte a un sospetto di cor­ru­zione nella sua giunta mette tutto in mano alla pro­cura. Finì con le con­danne. Ma da lì per Novelli la vita poli­tica non fu facile.

Come hai sco­perto che alcuni tuoi asses­sori erano corrotti?
Era venuto da me un impren­di­tore che mi denun­ciava dei fatti ille­citi sugli appalti però senza fare i nomi. La terza volta che viene gli dico: inge­gnere’, era un inge­gnere, si chia­mava Di Leo, ‘o lei fa i nomi o io la denun­cio per calun­nia’. Lui risponde: ‘non mi rovini, ho fami­glia’. ‘Lei è venuto a dirmi che io sono quello del rigore ma non si fida di me. Si fida dei magi­strati?’. Mi fac­cio chia­mare il pro­cu­ra­tore della Repub­blica e gli dico: ‘Le mando que­sto signore, non me lo spa­venti e fac­cia quello che crede’. Poi però, per paura che l’ingegnere uscito dal muni­ci­pio cam­biasse idea, gli metto appresso un vigile della mia scorta, si chia­mava Bar­bero, che lo accom­pa­gni in pro­cura. Dopo tre mesi sono arri­vati gli arresti.

Cosa era successo?
Sco­pri­rono un giro di cor­ru­zione mise­ra­bile. Ave­vamo un appalto da cen­ti­naia di milioni di lire, allora una cifra da capo­giro, per l’informatizzazione di tutto il comune, ana­grafe, bilan­cio, ser­vizi sociali. A pagare tan­genti e viaggi di pia­cere era una ditta di infor­ma­tica ame­ri­cana. Fu arre­stato il mio vice­sin­daco socia­li­sta. Alla fede­ra­zione del Psi fecero let­te­ral­mente piazza pulita: teso­riere, il segre­ta­rio, alcuni asses­sori. Bec­ca­rono anche due dei nostri, due comu­ni­sti che si erano limi­tati a farsi pagare viaggi di pia­cere. Sco­prii che nella lista degli alle­gri viag­gia­tori c’era anche il mio nome, ma con me non ci ave­vano nean­che pro­vato, al mio posto ave­vano offerto il week end a un democristiano.

Ma qui ini­ziano i tuoi pro­blemi politici.
Craxi venne a Torino e chiese in piazza la mia testa. Disse: ‘Novelli non può più fare il sin­daco, non gode più della fidu­cia del Psi’.

Il Pci, il tuo par­tito, come reagì?
Qual­cuno si è schie­rato subito con me, come l’allora segre­ta­rio di fede­ra­zione Piero Fas­sino. Craxi mandò alla fede­ra­zione tori­nese del Psi un com­mis­sa­rio straor­di­na­rio (fu scelto Giu­liano Amato, ndr), fui accu­sato di non aver «risolto poli­ti­ca­mente la que­stione». I socia­li­sti usci­rono dalla giunta, io mi dimisi e for­mammo una giunta mono­co­lore comu­ni­sta con qual­che indi­pen­dente. I socia­li­sti in teo­ria ci davano l’appoggio esterno, ma mi fecero venire l’esaurimento: ogni giorno non sapevo nean­che se in con­si­glio avevo il numero legale. Siamo andati avanti fino a novem­bre ‘84 quando hanno con­vinto, diciamo così, due com­pa­gni comu­ni­sti di pas­sare al gruppo socia­li­sta. Il 25 gen­naio dell’85, a tre mesi dalle ele­zioni, ci fu un ribal­tone. E venne eletto un sin­daco socia­li­sta soste­nuto da una giunta pen­ta­par­tito. Così quello che aveva chie­sto Craxi in piazza nel marzo dell’83, e cioè la mia testa, si era avverato.

Poi però il Pci tori­nese alle ele­zioni dell’85 ti ricandidò.
Ma il Pci era rima­sto iso­lato, fummo bat­tuti dal pentapartito.

E dal Pci nazio­nale quali segnali arrivarono?
Al con­gresso d Milano, che si svol­geva pro­prio in quei giorni, inter­venni e spie­gai che l’iniziativa era par­tita dal sin­daco quindi non dove­vamo temere nulla: noi ci siamo sem­pre com­por­tati con rigore. Quando la com­mis­sione ristretta del comi­tato cen­trale discusse i nomi della dire­zione del par­tito, nell’elenco c’era il mio nome. Ma quel nome fu tolto.

Chi lo tolse?
E’ pas­sato molto tempo, lasciamo stare. I pro­ta­go­ni­sti si saranno emen­dati. Partì lan­cia in resta il segre­ta­rio regio­nale dell’Emilia che diceva: atten­zione, noi abbiamo tutte le giunte con i socia­li­sti, se ora met­tiamo Novelli in dire­zione sem­bra che lo abbiamo pre­miato per­ché ha fatto que­sta cosa con­tro il Psi. Ricordo che Nilde Jotti dalla tri­buna del comi­tato cen­trale si rivolse a me con que­ste parole: com­pa­gno Novelli, quando si hanno inca­ri­chi così deli­cati biso­gna saper can­tare e por­tare la croce. Molti anni dopo, leg­gendo il libro di Luciano Barca, Cro­na­che dall’interno del ver­tice del Pci (Rubet­tino, 2005, ndr) ho sco­perto com’è andata. Barca scrive così, rac­con­tando del con­gresso: «La rive­la­zione di Novelli mette subito allo sco­perto che nella Dire­zione del Pci con­vi­vono ormai due posi­zioni oppo­ste: c’è chi con­si­dera il sin­daco un giu­sto che ha fatto il suo dovere e chi, come Maca­luso, un “povero cre­tino mora­li­sta”». Barca rac­conta anche che poi in com­mis­sione elet­to­rale sulla pro­po­sta di por­tare me in dire­zione, soste­nuta da Minucci, Pec­chioli e Pajetta e con il favore di Ber­lin­guer, «la pro­po­sta è respinta sotto l’attacco della destra» (si tratta ovvia­mente della destra del Pci, ndr).

Ma come può suc­ce­dere che in un par­tito non ci si renda conto che il pro­prio com­pa­gno è un mascalzone?
Non so spie­gar­melo. Un par­tito deve sem­pre tenere alta l’attenzione. Io avver­tii i primi sin­tomi di inqui­na­mento all’inizio degli anni 80. A Torino furono le prime avvi­sa­glie di Tan­gen­to­poli, che però arrivò molto dopo. Ma nes­suno poteva cadere dal pero: il primo segnale cla­mo­roso lo dette pro­prio Ber­lin­guer, nel luglio dell’81, nella famosa inter­vi­sta a Euge­nio Scal­fari sulla que­stione morale. Dove dice: «I par­titi hanno dege­ne­rato».

Dice ‘i par­titi’, non ‘gli altri par­titi’. Era chiaro il segnale di allarme che stava lan­ciando era anche verso il suo Pci.
Ormai è chiaro a tutti. Introdurre nella Costituzione l'obbligo del pareggio del bilancio (cosa che neppure l'Europa ci chiedeva) è stato un gravissimo errore. Ma se si vuole si può correggerlo. Ecco perchè e come.

Il manifesto, 7 dicembre 2014

Nei suoi pen­sieri sparsi, Lud­wig Witt­gen­stein, annotò che: «Niente è così dif­fi­cile come non ingan­nare se stessi». Quale migliore spie­ga­zione del per­ché il legi­sla­tore ita­liano ha inse­rito due anni fa nella nostra Costi­tu­zione il prin­ci­pio del pareg­gio di bilan­cio, modi­fi­can­done l’articolo 81? Ma l’inganno non può durare all’infinito. Sotto i colpi della crisi e di qual­che ripen­sa­mento anche nel campo main­stream, la spa­valda sicu­rezza con cui una mag­gio­ranza – un tempo si sarebbe detto bul­gara – di par­la­men­tari votò nel 2012 la nuova norma costi­tu­zio­nale, pare vacil­lare non poco.

Eppure le avver­tenze alla pru­denza ven­nero fatte anche allora, ma non furono ascol­tate. Nel luglio del 2011 sei premi Nobel per l’economia (Ken­net Arrow, Peter Dia­mond, Char­les Schul­tze, Wil­liam Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) rivol­sero un appello al Pre­si­dente Obama a non pie­garsi alla regola del rag­giun­gi­mento del pareg­gio di bilan­cio annuale, con­si­de­ran­dola del tutto disa­strosa per una cor­retta poli­tica economica.

Più mode­sta­mente, un’assemblea indetta da giu­ri­sti demo­cra­tici a Roma, in pros­si­mità del voto finale in quarta let­tura al Senato, avve­nuto nell’aprile 2012, invi­tava i par­la­men­tari del Pd, facenti parte della mag­gio­ranza che soste­neva il governo Monti, ben­ché favo­re­voli al pareg­gio di bilan­cio, ad abban­do­nare l’aula al momento del voto in modo da non fare scat­tare la mag­gio­ranza dei due terzi che avrebbe impe­dito la con­vo­ca­zione del refe­ren­dum cosid­detto con­fer­ma­tivo. Un refe­ren­dum che si applica alle norme di revi­sione costi­tu­zio­nale che non sono appro­vate in entrambe le camere con la mag­gio­ranza dei due terzi e che – stra­nezza della nostra legi­sla­zione – non pre­vede, a dif­fe­renza dei refe­ren­dum abro­ga­tivi di leggi ordi­na­rie, alcun quo­rum. D’altro canto non era l’Europa a chie­der­celo. Infatti quest’ultima si mostrava indif­fe­rente al tipo di norma che i paesi mem­bri avreb­bero adot­tato al riguardo, se di livello costi­tu­zio­nale o meno. La Fran­cia ad esem­pio non seguì la prima strada.

Se il con­si­glio fosse stato seguito si sarebbe avuta almeno una larga discus­sione di poli­tica eco­no­mica nel nostro paese e ogni forza poli­tica sarebbe stata costretta a pro­nun­ciarsi aper­ta­mente, non potendo ricor­rere all’astensione nel voto referendario.

Rispose Anna Finoc­chiaro, pre­sente all’assemblea nella sua qua­lità di Pre­si­dente del gruppo sena­to­riale Pd, con un cor­tese ma fermo discorso, nel quale pre­ci­sava la diver­sità dei punti di vista e soprat­tutto la sua appar­te­nenza ad un par­tito che non tol­le­rava che, una volta presa una deci­sione, i suoi par­la­men­tari si com­por­tas­sero in modo discorde. Moti­va­zione dav­vero incauta se messa a con­fronto con quanto sarebbe avve­nuto di lì a non molto, quando oltre cento depu­tati nel segreto dell’urna disob­be­di­rono alla indi­ca­zione di voto del loro par­tito sulla ele­zione del Pre­si­dente della Repubblica.

Da allora di acqua sotto i ponti ne è pas­sata parec­chia. La appli­ca­zione della norma tanto invo­cata prima da Ber­lu­sconi, poi da Monti e san­ti­fi­cata da mag­gio­ranze senza pre­ce­denti, ini­zial­mente anti­ci­pata addi­rit­tura al 2013, è stata poi posti­ci­pata da Renzi al 2017. Né sono state da aiuto le elu­cu­bra­zioni sus­se­guenti alla pre­sen­ta­zione del Def 2015 sulla misu­ra­zione del Pil poten­ziale da cui si deri­ve­rebbe il c.d output-gap in base a cui si valu­te­rebbe la distanza dal rag­giun­gi­mento del pareg­gio strut­tu­rale. I con­tor­ci­menti sulle dif­fe­renze fra Pil reale e Pil poten­ziale, fra pareg­gio di bilan­cio con­ta­bile e quello strut­tu­rale nascon­dono solo la cat­tiva coscienza di chi ha com­preso che la norma non sta in piedi ma non si ras­se­gna alla brutta figura di fare mar­cia indietro.

Ma anche que­sto gioco a nascon­dino ha il fiato corto. Venerdì un arti­colo molto pun­tuale del Sole24Ore get­tava la maschera ed affer­mava chia­ra­mente che “è tempo di ripen­sare l’utilità del pareg­gio di bilan­cio”, fino a defi­nire che l’idea di dimi­nuire il nume­ra­tore del rap­porto Debito/Pil, su cui si basa tutta la poli­tica di auste­rità e il fami­ge­rato fiscal com­pact, è “una con­ce­zione priva delle più ele­men­tari basi logico-razionali”.

Quindi quella norma va abo­lita. A que­sto scopo è par­tita la cam­pa­gna «col pareg­gio ci perdi» per la rac­colta di firme in calce ad una legge di ini­zia­tiva popo­lare che mette i biso­gni delle per­sone prima della con­ta­bi­lità. Si stanno for­mando comi­tati in tutte le città. Se ne tor­nerà a par­lare il 18 dicem­bre a Roma, alle 17.30 presso l’Auditorium di via Rieti con Ste­fano Rodotà, Susanna Camusso, Mau­ri­zio Lan­dini coor­di­nati da Norma Rangeri

«La sini­stra ita­liana ha tar­dato molto a rico­no­scere la natura della crisi: in par­ti­co­lare il suo carat­tere strut­tu­rale e la sua dimen­sione mon­diale. Un ritardo che le ha impe­dito di pre­di­sporre gli stru­menti neces­sari per affron­tarla in modo ade­guato; e che spiega le dif­fi­coltà e lo smar­ri­mento in cui essa è venuta tro­van­dosi, mal­grado i suoi per­si­stenti suc­cessi, rispetto ai pro­blemi reali del paese e del mondo».

A leg­gere sem­bra un inter­vento di que­sti giorni. Si tratta invece dell’inizio della rela­zione di Lucio Magri (il secondo rela­tore era Vit­to­rio Foa) al semi­na­rio “Uscire dalla crisi o dal capi­ta­li­smo in crisi” tenuto ad Aric­cia l’8 e il 9 feb­braio 1975: quasi quarant’anni fa. Lucio Magri non era un pro­feta, ma ana­liz­zava e giu­di­cava lo stato pre­sente della crisi, nel 1975. L’attuale crisi sto­rica si era aperta già allora, ma fu assunta come una con­giun­tura, anche se seria, ma mai seria­mente ana­liz­zata e tan­to­meno affron­tata. Manca soprat­tutto l’analisi: anche oggi si ten­tano cure, ma senza un’accurata dia­gnosi del male. Un ten­ta­tivo è nel volu­metto “Una crisi mai vista”, pub­bli­cato a fine novem­bre dalla Mani­fe­sto­li­bri (si trova in edi­cola e in libre­ria) con con­tri­buti di Alberto Bur­gio, Pier­luigi Ciocca, Luigi Fer­ra­joli, Fran­ce­sco Indo­vina, Gior­gios Katrou­ga­los, Gior­gio Lun­ghini, Gio­vanni Maz­zetti, Enrico Pugliese, Guglielmo Ragoz­zino, José Maria Ridao. Dal quel 1975 si sono suc­ce­duti più di una decina di governi (fac­cio un po’ di nomi: Moro, Andreotti, Cos­siga, Spa­do­lini, Fan­fani, Craxi, De Mita, Amato, Ciampi, Prodi, Ber­lu­sconi e anche Monti).

Non tutti que­sti governi si sono com­por­tati allo stesso modo, ma nes­suno ha messo la crisi al primo posto della sua agenda e sta di fatto che stiamo affo­gando nel capi­ta­li­smo in crisi. La sini­stra è ridotta ai minimi ter­mini, par­titi dis­solti, sin­da­cati in crisi per la cre­scita della disoc­cu­pa­zione, le inno­va­zioni tec­no­lo­gi­che, le poli­ti­che dei vari governi, fon­da­men­tal­mente anti­o­pe­raie. L’attuale governo di Mat­teo Renzi pro­cede con misure rea­zio­na­rie, oltre che pro­vin­ciali. Anche la mon­dia­liz­za­zione viene affron­tata senza mini­ma­mente avere coscienza di come pro­gresso pro­dut­tivo e tec­no­lo­gie della comu­ni­ca­zione ci met­tono di fronte a una situa­zione del tutto nuova.

Crisi eco­no­mica, crisi finan­zia­ria, man­canza di una vera unità euro­pea – la Ger­ma­nia va per i fatti suoi — inde­bo­li­mento delle ban­che cen­trali, com­presa la Banca d’Italia, disat­trez­zate e impo­tenti di fronte alle novità della crisi. Su que­sto vor­rei citare il pre­zioso volu­metto di Pier­luigi Ciocca con un titolo di mas­sima ele­quenza: “La Banca che ci manca. Le ban­che cen­trali, l’euro, l’instabilità del capi­ta­li­smo”, pub­bli­cato da Donzelli.

In que­sto qua­dro dif­fi­cile, e anche peri­co­loso, non sono affatto da sot­to­va­lu­tare le ten­sioni inter­na­zio­nali (Ucraina) e il cre­scere dei flussi migra­tori verso paesi che non sono più in grado – come nel pas­sato – di uti­liz­zare que­sti aumenti di popo­la­zione, con la minac­cia di con­flitti pericolosi.

E la nostra Ita­lia di oggi? Che sta affon­dando nelle paludi acide di que­sta lunga e pro­fonda crisi? Mat­teo Renzi non durerà a lungo, ma a cosa aprirà le porte? Tempi peri­co­losi ci aspet­tano. Biso­gna resi­stere, e per resi­stere lavo­rare anche in pic­coli gruppi per un’analisi seria della crisi attuale, e su que­sto impe­gno for­mare mino­ranze attive che por­tino a ini­zia­tive poli­ti­che e cul­tu­rali, soprat­tutto per ten­tare di ripren­dere il cam­mino verso una società libera dalle catene di un capi­ta­li­smo in mas­sima crisi. Speriamo

«Questione morale . Un ruolo-chiave lo ha svolto l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie». Come dimentica presto Berlinguer chi ancora abita sotto le tende del PMR, trascinando tutti noi nella vergogna! Il

manifesto, 5 dicembre 2014

«I par­titi di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gesti­scono tal­volta inte­ressi loschi, senza per­se­guire il bene comune. La loro stessa strut­tura orga­niz­za­tiva si è ormai con­for­mata su que­sto modello. Non sono più orga­niz­za­tori del popolo, for­ma­zioni che ne pro­muo­vono la matu­ra­zione civile: sono piut­to­sto fede­ra­zioni di cama­rille, cia­scuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco per­ché dico che la que­stione morale è il cen­tro del pro­blema ita­liano. Se si con­ti­nua in que­sto modo, in Ita­lia la demo­cra­zia rischia di restrin­gersi e di sof­fo­care in una palude». A quanti sono tor­nate in mente in que­ste ore le parole di Enrico Ber­lin­guer nella famosa inter­vi­sta alla Repub­blica del feb­braio 1981? Sono tra­scorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.

Nel ven­ti­cin­que­simo della morte ci si ricorda final­mente di Leo­nardo Scia­scia. Anche Scia­scia lan­ciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: mar­cia alla con­qui­sta del paese. Allu­deva al modello sici­liano d’impasto tra poli­tica e mafia.

Un impa­sto nel quale dap­prin­ci­pio la mafia inti­mi­di­sce e cor­rompe, poi pene­tra le isti­tu­zioni e si fa Stato. Ripe­tu­ta­mente Scia­scia mise in guar­dia dal rischio che que­sto modello si gene­ra­liz­zasse. Oggi fin­giamo di sco­prire che mafia e ‘ndran­gheta si sono sta­bi­lite a Milano e con­trol­lano vasti set­tori dell’economia nazio­nale. E guar­diamo atter­riti al nuovo romanzo cri­mi­nale della mafia romana, edi­zione aggior­nata di quell’universo orrendo che ruo­tava intorno alla banda della Magliana, coin­vol­gendo anche allora mafia, poli­tica e ter­ro­ri­smo neofascista.

In que­sti trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine con­tro il malaf­fare. Lo si è asse­con­dato, lo si è favo­rito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di cra­xiana memo­ria. Della Milano da bere e del patto scel­le­rato tra Stato e capi­tale pri­vato che aprì le vora­gini del debito pub­blico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la poli­tica usata (con la com­pli­cità di gran parte della «sini­stra») per sal­vare le aziende di fami­glia; la lega­liz­za­zione dei reati finan­ziari; l’esplosione delle ine­gua­glianze. E ven­nero le «riforme isti­tu­zio­nali» che, pro­prio per ini­zia­tiva della sini­stra post-comunista, die­dero avvio allo stra­vol­gi­mento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo dise­gnata in Costituzione.

Il pre­si­den­zia­li­smo negli enti locali ha reso le isti­tu­zioni più fra­gili e per­mea­bili ai clan anche per effetto di un appa­rente para­dosso. L’accentramento mono­cra­tico del comando è andato di pari passo con la disar­ti­co­la­zione dei par­titi poli­tici, cul­mi­nata nella farsa delle pri­ma­rie aperte. Que­sto pro­cesso ha da un lato azze­rato la dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e la fun­zione di orien­ta­mento cul­tu­rale svolta in pre­ce­denza dai par­titi di massa; dall’altro ha pro­mosso una sele­zione per­versa del ceto politico-amministrativo, pre­miando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i par­titi – soprat­tutto i mag­giori – si sono ritro­vati sem­pre più spesso alla mercé delle con­sor­te­rie e delle cupole, secondo un mec­ca­ni­smo ana­logo a quello che in altri tempi per­mise a Cosa nostra di coman­dare nella Palermo di Lima, Cian­ci­mino e Gioia.

Ma un ruolo-chiave, in que­sto disa­stro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedi­cente liqui­da­zione delle ideo­lo­gie: l’avvento di una poli­tica che si pre­tende post-ideologica, che ha signi­fi­cato in realtà il con­gedo di gran parte della sini­stra ita­liana dalle lotte del lavoro e da una pro­spet­tiva cri­tica nei con­fronti degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Non è neces­sa­rio, certo, essere comu­ni­sti per com­pren­dere che mora­lità e buona poli­tica sono stret­ta­mente con­nesse tra loro nel segno del pri­mato della giu­sti­zia e del bene comune. Né in linea di prin­ci­pio ade­rire senza riserve alle ragioni del capi­ta­li­smo impe­di­sce di rico­no­scere l’importanza della que­stione morale e di essere «one­sti», per ripren­dere un lemma sul quale si è ancora di recente dibat­tuto. Ma se della mora­lità e dell’onestà non si ha una con­ce­zione povera e astratta, allora si com­prende facil­mente che entrambe coin­vol­gono diret­ta­mente il modo in cui si giu­di­cano l’ingiustizia sociale e il per­si­stere dei pri­vi­legi.

Non è un caso che, riflet­tendo sulla que­stione morale, Ber­lin­guer in quella stessa inter­vi­sta parli pro­prio di que­sto. Della neces­sità di difen­dere «i poveri, gli emar­gi­nati, gli svan­tag­giati» e di met­terli dav­vero in con­di­zione di riscat­tarsi. Non è un caso che riven­di­chi le lotte del movi­mento ope­raio e dei comu­ni­sti, non sol­tanto con­tro il fasci­smo e con gli ope­rai, ma anche al fianco dei disoc­cu­pati e dei sot­to­pro­le­tari, delle donne e dei gio­vani. Né è casuale che insi­sta sulle gravi distor­sioni, gli immensi costi sociali, le dispa­rità e gli enormi spre­chi gene­rati dal «tipo di svi­luppo eco­no­mico e sociale capi­ta­li­stico». Per con­clu­derne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi eco­no­mica, ma di feno­meni di bar­ba­rie» – deve essere supe­rato, pena il veri­fi­carsi di una cata­strofe sociale «di pro­por­zioni impensabili».

Oggi come allora la que­stione morale inve­ste fron­tal­mente la poli­tica anche per que­sta via: è una fac­cia della sua com­ples­siva dege­ne­ra­zione. Non si tratta sol­tanto di ille­ga­lità, ma anche di irre­spon­sa­bi­lità di fronte alla deva­sta­zione sociale pro­vo­cata da trenta e passa anni di domi­nio del mer­cato, del capi­tale pri­vato, dell’interesse par­ti­co­lare. Que­stione morale e irre­spon­sa­bi­lità sociale della poli­tica non sono, qui e ora, feno­meni indi­pen­denti tra loro, bensì mani­fe­sta­zioni della stessa patologia

«Di mafia, insi­stono i magi­strati, si deve par­lare, per­ché nella "Mafia Capi­tale" era stato adot­tato il metodo mafioso, con­si­stente nell’uso "della forza d’intimidazione del vin­colo asso­cia­tivo" e nelle "con­di­zioni di assog­get­ta­mento e di omertà di cui gli asso­ciati si avval­gono».

Il manifesto, 3 dicembre 20014 (m.p.r.)

Gli arre­stati sono 37, gli inda­gati 40, ma il conto potrebbe lie­vi­tare ulte­rior­mente nei pros­simi giorni. Sono nomi pesanti, sia quelli del «mondo di sopra», a par­tire dall’ex sin­daco di Roma Gianni Ale­manno, inda­gato, sia quelli del «mondo di sotto», il sot­to­bo­sco cri­mi­nale della capi­tale, del quale fanno parte Mas­simo Car­mi­nati, arre­stato, e Gen­naro Mok­bel, per il quale la gip Fla­via Costan­tini non ha con­va­li­dato la richie­sta di arresto.

Il copy­right delle defi­ni­zioni di cui sopra, il «mondo di sopra» e quello di «sotto», è dello stesso Carmi­nati. Le aveva usate nel corso di una con­ver­sa­zione inter­cet­tata che ha dato il nome all’inchiesta: «Mondo di Mezzo». Quello in cui si incon­trano i col­letti bian­chi, gli uomini del potere a Roma, e i mala­vi­tosi che si sono fatti le ossa sulla strada, sulla piazza già ai tempi lon­tani della banda della Magliana. Tra i primi ci sono l’ex sin­daco Ale­manno, il suo capo della segre­te­ria Anto­nio Luca­relli, Luca Gra­ma­zio, ex con­si­gliere comu­nale e oggi regio­nale, Luca Ode­vaine, ex capo della segre­te­ria del sin­daco Vel­troni, oggi respon­sa­bile dell’accoglienza per i richie­denti asilo, Franco Pan­zi­roni, ex ad dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, Ric­cardo Man­cini, ex ad di Eur spa, i “col­letti bian­chi” dell’era Ale­manno. Tra i secondi lo stesso Car­mi­nati, indi­cato dagli inqui­renti come capo dell’organizzazione, Erne­sto Dio­tal­levi, un pezzo da novanta della cri­mi­na­lità romana da decenni, Gio­vanni De Carlo, suo erede, il già ricor­dato Mokbel.

A tutti è con­te­stata l’associazione mafiosa ex 416bis. Un’imputazione discu­ti­bile, e gli stessi inqui­renti se ne ren­dono pro­ba­bil­mente conto, tanto che nell’ordinanza di arre­sto dis­ser­tano a lungo e dot­ta­mente per giu­sti­fi­care l’addebito. Agli arre­stati e agli inda­gati, ha chia­rito il pro­cu­ra­tore capo di Roma Giu­seppe Pigna­tone, non ven­gono accre­di­tati rap­porti di com­pli­cità con la cri­mi­na­lità orga­niz­zata, con mafia, camorra e ‘ndran­gheta. Nep­pure la strut­tura orga­niz­za­tiva è dav­vero affine a quelle mafiose, impos­si­bile farlo in una città come Roma dove l’organizzazione deve invece essere «reti­co­lare», meno disci­pli­nata e ver­ti­ci­stica, e l’uso della vio­lenza è limitato.

Di mafia, insi­stono tut­ta­via i magi­strati, si deve ugual­mente par­lare, per­ché in quella che viene defi­nita «Mafia Capi­tale» era stato adot­tato il metodo mafioso, con­si­stente nell’uso «della forza d’intimidazione del vin­colo asso­cia­tivo» e nelle «con­di­zioni di assog­get­ta­mento e di omertà di cui gli asso­ciati si avval­gono». Il dna pro­pria­mente mafioso sarebbe poi garan­tito dal fatto che, a dif­fe­renza delle cosid­dette «nuove mafie», l’autorità e la capa­cità di inti­mi­da­zione del gruppo sareb­bero radi­cati nel pas­sato, nella deri­va­zione dei suoi capi dalla Banda della Magliana e dai «fascio­cri­mi­nali». Sin dalla noti­zia degli arre­sti, ieri, si è par­lato di «cri­mi­na­lità nera», in parte per­ché capo della banda sarebbe appunto «il Nero», come Gian­franco De Cataldo aveva ribat­tez­zato nel suo for­tu­na­tis­simo Romanzo cri­mi­nale Mas­simo Car­mi­nati. Ieri tutti i media, ripren­dendo del resto l’ordinanza, lo hanno defi­nito «ex Nar». Per la verità dei Nar Car­mi­nati non ha mai fatto parte, ma neo­fa­sci­sta e amico sia di molti mili­tanti dei Nar, oltre che vici­nis­simo alla Magliana, lo era davvero.

In realtà nell’inchiesta sono coin­volti un po’ tutti: ci sono ex bri­ga­ti­sti come Ema­nuela Bugitti, espo­nenti di spicco di An e poi del Pdl. Ma anche del Pd come Ode­vaine, il pre­si­dente dell’assemblea capi­to­lina Mirko Coratti e l’assessore alla casa Daniele Ozzimo (que­sti ultimi due si sono dimessi dicen­dosi estra­nei ai fatti) e il con­si­gliere regio­nale Euge­nio Patanè.

Lo stesso Buzzi, pre­si­dente della poten­tis­sima coo­pe­ra­tiva «29 giu­gno», l’uomo che dalle inda­gini risul­te­rebbe il prin­ci­pale com­plice di Car­mi­nati, è un ex dete­nuto comune poli­ti­ciz­za­tosi in car­cere, ma sul fronte sini­stro. Una banda più arco­ba­leno che nera, da que­sto punto di vista. Invece l’etichetta nera fun­ziona lo stesso: il momento di snodo, quello che avrebbe per­messo al gruppo di spic­care il volo, sono stati gli anni dell’amministrazione Ale­manno. Che Car­mi­nati e com­plici abbiano approfittato della ghiotta occa­sione offerta dalla col­lo­ca­zione in posi­zione di ver­tice, in que­gli anni, di parec­chi espo­nenti della destra neo­fa­sci­sta anni ’70 e ’80, come gli stessi mana­ger Man­cini e Pan­zi­roni, appare evi­dente. Per que­sto Pigna­tone ha dichia­rato senza peri­frasi che «alcuni uomini vicini all’ex sin­daco Ale­manno sono com­po­nenti a pieno titolo dell’organizzazione mafiosa». Però ha anche aggiunto che «con la nuova ammi­ni­stra­zione il rap­porto è cam­biato, ma Car­mi­nati e Buzzi erano tran­quilli chiun­que vin­cesse le elezioni».

Nello spe­ci­fico, i reati con­te­stati a vario titolo agli inda­gati sono di diverso tipo. Tra gli altri, estor­sione, cor­ru­zione, tur­ba­tiva d’asta, false fat­tu­ra­zioni, tra­sfe­ri­mento frau­do­lento di valori, rici­clag­gio. Ci sono cri­mini tipi­ca­mente «di strada», come l’usura e il recu­pero cre­diti con le cat­tive. Ci sono fac­cende di sapore squi­si­ta­mente tan­gen­taro, come l’indirizzo degli appalti in cam­bio di tan­genti ma anche verso aziende diret­ta­mente con­trol­late dall’organizzazione, anche attra­verso i clas­sici «pre­sta­nome». Le due fasi sem­brano però cro­no­lo­gi­ca­mente distinte. Par­tito dall’usura e dai pestaggi per recu­pe­rare i cre­diti, spesso in conto terzi e solo per con­fer­mare la pro­pria auto­rità, il gruppo sem­bra aver poi aver immen­sa­mente ampliato il suo spet­tro d’azione entrando alla grande nel giro degli appalti di ogni tipo pro­prio in virtù degli anti­chi vin­coli poli­tici con molte figure chiave dell’amministrazione Ale­manno, per poi strin­gere nuovi e reci­pro­ca­mente pro­fi­cui rap­porti con i loro suc­ces­sori ai ver­tici del potere capitolino.

«Cosa sarà veramente EXPO2015? Innanzitutto 1.000 ettari di suolo agricolo già cementificati: padiglioni, piazzette tematiche, raccordi autostradali e rotonde. Nutrire il pianeta… colando calcestruzzo e stendendo asfalto su terre fertili. Tutto cemento che paghiamo noi».

Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2014

Sulle reti Rai sono finalmente partiti gli spot di presentazione di EXPO, l’esposizione universale che si terrà a Milano dal 1° maggio al 31 ottobre 2015. Tema centrale: il cibo. Lo slogan: nutrire il pianeta, energia per la vita.

Le immagini, i suoni, le suggestioni proposte ai telespettatori in pochi secondi sono coinvolgenti. Un ottimo messaggio, degno di una brillante forza politica ecologista. In pochi frame si diffondono impulsi e stimoli sulla necessità di cambiare paradigma: tutelare le risorse naturali, preservarle per le prossime generazioni, garantire a ciascun abitante del pianeta il diritto al cibo pulito e a buon mercato. Questo è quello che milioni di telespettatori guarderanno dai tinelli in formica e dalle sale da pranzo in noce di tutto il Paese. Gli spot saranno sempre di più. Un crescendo rossiniano pervaderà l’immaginario collettivo italiano e convincerà tutti che a Milano andrà in scena un evento straordinario dove l’agricoltura, l’alimentazione sana, il paesaggio e il territorio saranno al centro dei pensieri della politica. Parallelamente sono già diffuse da tempo altre belle favole: quelle che raccontano di benefici sull’economia e di migliaia di posti di lavoro che gemmeranno dal grande evento vetrina.

Ma che cos’è e che cosa sarà veramente EXPO2015? Innanzitutto sono 1.000 ettari di suolo agricolo già cementificati: padiglioni, piazzette tematiche, raccordi autostradali e rotonde. Nutrire il pianeta… colando calcestruzzo e stendendo asfalto su terre fertili. Tutto cemento che paghiamo noi.

Nei padiglioni di EXPO troveranno spazio le multinazionali dell’agroindustria e degli OGM, i soggetti che dominano sulle terre di tutta la terra, che strozzano i piccoli produttori ingabbiati nella filiera della grande distribuzione organizzata, che spesso sottraggono la terra stessa alle popolazioni dei paesi più poveri del mondo.

Lo sponsor ufficiale dell’acqua, altro elemento indispensabile per nutrire il pianeta? Nel paese che ha visto 27 milioni di elettori dire no alla privatizzazione del servizio idrico, tutti si sarebbero aspettati la “Pisapia H2O”. Invece no. Sarà la San Pellegrino SPA, una controllata della multinazionale Nestlè.

Ma si creeranno almeno i posti di lavoro? Certo! Ma a parte quelli nati in Procura della Repubblica per seguire le inchieste su corruzione e infiltrazioni mafiose, i posti di lavori saranno sopratutto precari. Se va bene. Perché è in corso una bella campagna per trovare i “volunteer Expo”. Con buona pace per chi, pur di pagare l’affitto o la retta universitaria, si sarebbe accontentato anche solo di qualche mese da precario, magari da Eataly, che avrà un padiglione da 8 mila metri quadrati. Insomma, cemento, debito e precarietà. Ma questo spot non lo vedrete in tv.

www.noexpo.org

«Fiducia al Senato sul Jobs Act: 166 favorevoli, 112 contrari, un astenuto. Mineo (Pd) non ha votato, Ricchiuti e Casson assenti. La manifestazione dello sciopero sociale è stata caricata in via delle Botteghe Oscure a Roma dopo essere stata accerchiata per più di un'ora.

Il manifesto 4 dicembre 2014 (m.p.r.)

Il Senato ha dato il via libera defi­ni­tivo al con 166 si, 112 no e un aste­nuto ieri alle 19,43 . Cin­que ore prima a pochi metri di distanza, oltre le linee di un eser­cito di cen­ti­naia di poli­ziotti, cara­bi­nieri e finan­zieri, in via delle Bot­te­ghe Oscure, la vio­lenza dei man­ga­nelli. Uno spet­ta­colo gra­tuito e inspie­ga­bile quello visto ieri nelle strade di Roma. Il volto più edu­cato, ma ugual­mente pre­gno di con­te­nuti, il governo l’ha mostrato in aula quando il mini­stro del Lavoro Giu­liano Poletti ha annun­ciato la fidu­cia per tagliare le gambe alla sini­stra Dem e zit­tirla sulla riforma del lavoro. Dopo le 14 tra piazza Sant’Andrea della Valle e i binari del tram 8, davanti al tea­tro Argen­tina, ha mostrato quello più arbitrario.

Le forze dell’ordine schie­rate con decine di camio­nette e un cen­ti­naio di uomini hanno negato a tre­cento per­sone di tor­nare a Sant’Andrea della Valle, la piazza con­cor­data con la Que­stura di Roma fino alle 18. Dopo averli tenuti in ostag­gio per più di un’ora, davanti all’insistenza dei mani­fe­stanti di uscire dall’accerchiamento, è par­tita una carica. Due per­sone sono state fer­mate, poi rila­sciate. Altre pic­chiate. Erano inermi. La testi­mo­nianza di nume­rosi video da ore in rete mostra la durezza delle scene. «Con­te­ni­mento per impe­dire di tor­nare al Senato» lo defi­ni­sce una nota della Que­stura capi­to­lina che sostiene di avere seque­strato 30 petardi e 26 fumo­geni. Oggetti evi­den­te­mente peri­co­losi al punto da can­cel­lare la cla­mo­rosa spro­por­zione delle forze in campo. Lasciando defluire un cor­teo paci­fico si sareb­bero evi­tati anche i lanci di petardi e inu­tili ten­sioni. Al vaglio ci sono le imma­gini riprese dalle tele­ca­mere mon­tate sulle uni­formi degli agenti. Il cor­teo era par­tito verso mez­zo­giorno dal Colos­seo con più di cin­que­cento persone.

«In tutta Europa si mani­fe­sta con­tro leggi che sono ipo­te­che sul futuro di milioni di per­sone - ha com­men­tato Fran­ce­sco Rapa­relli del labo­ra­to­rio romano per lo scio­pero sociale, uno dei fer­mati - A Roma no. è vie­tato mani­fe­stare libe­ra­mente». «Il nuovo que­store di Roma ha esor­dito in maniera igno­bile - ha detto il por­ta­voce Cobas Piero Ber­noc­chi - Non vor­rei che quanto acca­duto risulti sulla stampa come dipeso da un poli­ziotto ner­voso. Chi ha deciso que­ste cari­che? Renzi è come il padre del Bud­dha che nascon­deva i fiori morti al figlio, non vuole vedere con­te­sta­zioni e su que­sto ha messo il carico da undici anche Alfano». «Si è sve­lata la natura auto­ri­ta­ria del governo, che pre­fe­ri­sce far man­ga­nel­lare stu­denti mino­renni che stanno occu­pando le scuole con­tro La Buona Scuola e il Jobs Act invece di rispon­dere ai loro reali biso­gni» sostiene Danilo Lam­pis (Uds). «Que­sta vicenda non fini­sce qui - la bat­ta­glia pro­se­guirà con­tro i decreti attua­tivi della legge delega, per impe­dire che ven­gano can­cel­lati diritti e tutele - sostiene il sin­da­cato Usb - la bat­ta­glia pro­se­guirà con­tro i decreti attua­tivi della legge delega, per impe­dire che ven­gano can­cel­lati diritti e tutele».

Decreti che ver­ranno appro­vati entro giu­gno. «Le opi­nioni espresse in par­la­mento saranno tenute in con­si­de­ra­zione nella loro ste­sura» ha detto Poletti. Saranno cin­que e riguar­dano gli ammor­tiz­za­tori sociali, i ser­vizi per il lavoro, la sem­pli­fi­ca­zione, il rior­dino delle forme con­trat­tuali e la con­ci­lia­zione. Si can­cel­lerà l’articolo 18 sul licen­zia­mento per i neo-assunti che ver­ranno sot­to­po­sti alla disci­plina del «con­tratto a tutele cre­scenti». Le loro tutele saranno vin­co­late al periodo di lavoro svolto. Meno si lavora, meno soldi si rice­vono. Una svolta nella recente, e tri­bo­lata, sto­ria del diritto del lavoro sem­pre più rical­cato sulle esi­genze delle imprese. In aula, durante la discus­sione, i sena­tori di Sel hanno pro­te­stato mostrando car­telli con la scritta: «Jobs Act: ritorno all’800». Per Poletti, invece, «non sono le regole a pro­durre posti di lavoro, ma siamo con­vinti che un buon con­te­sto aumenti l’opportunità». Il con­te­sto è quello dove la disoc­cu­pa­zione è arri­vata al 13,2%, +286 mila in un anno, e quella gio­va­nile è fuori con­trollo: 43,3%. Il pre­mier Renzi si è invece com­pli­men­tato su twit­ter: «Que­sta è #lavol­ta­buona. E noi andiamo avanti». Nella dire­zione vista ieri a Roma. Il sena­tore Pd Cor­ra­dino Mineo non ha votato la fidu­cia. Lorenza Ric­chiuti e Felice Cas­son (Pd) erano assenti.

«Fare sin­da­cato e costruire coa­li­zione per una nuova sini­stra sarà dif­fi­cile, ma più neces­sa­rio e urgente. Il popolo orfano di una sini­stra popo­lare, in piazza il 25 otto­bre e nelle occa­sioni suc­ces­sive, in moto per uno scio­pero gene­rale, dopo anni. Que­sta sarà la risposta».

Il manifesto, 26 novembre 2014 (m.p.r.)

Il Jobs Act è pas­sato anche alla Camera. Tor­nerà per l’approvazione defi­ni­tiva al Senato, ma non si atten­dono sor­prese. Renzi può por­tare a Bru­xel­les lo scalpo dell’articolo 18, anzi di tutto l’impianto dello Sta­tuto dei diritti dei lavo­ra­tori, per­ché senza tutela reale ogni altro diritto è di per sé inde­bo­lito se non annul­lato. Hanno votato in 316 a favore del dise­gno di legge del governo. La mag­gio­ranza asso­luta, per un voto, di una camera di nomi­nati già poli­ti­ca­mente dele­git­ti­mata dalla boc­cia­tura del por­cel­lum da parte della Corte Costi­tu­zio­nale. Mal­grado ciò quella mag­gio­ranza si è assunta la respon­sa­bi­lità di can­cel­lare con un pul­sante decenni di sto­ria del con­flitto sociale che ave­vano creato il “caso ita­liano” durante i “trenta anni glo­riosi” del capi­ta­li­smo occidentale.

Eppure que­sta volta per Renzi non è stato un trionfo. E’ forse esa­ge­rato dire che si è trat­tato di una vit­to­ria di Pirro, ma per la prima volta Renzi ha dovuto incas­sare il dis­senso aperto della mino­ranza del suo par­tito. Civati ha votato no, men­tre Fas­sina e Cuperlo hanno tra­sci­nato fuori dall’Aula una tren­tina di depu­tati, assieme a quelli di Sel, dei Pen­ta­stel­lati e delle oppo­si­zioni di destra. A sua volta Ber­sani ha votato un sì per pura disci­plina e palese nulla con­vin­zione. E così sarà stato pro­ba­bil­mente per diversi altri. La pre­sunta media­zione sul testo non ha tenuto né nel merito né poli­ti­ca­mente. Il dis­senso non è rien­trato, è esploso.

Del resto è dav­vero dif­fi­cile con­si­de­rare un miglio­ra­mento quanto è stato pre­ci­sato alla Camera rispetto al Senato. Per i licen­zia­menti per motivi eco­no­mici non c’è alcun rein­te­gro, solo l’indennizzo rap­por­tato alla anzia­nità di ser­vi­zio. Il rein­te­gro com­pare solo per i licen­zia­menti chia­ra­mente discri­mi­na­tori e per quelli disci­pli­nari risul­tati privi di fon­da­mento alcuno, secondo tipi­ciz­za­zioni ulte­riori riman­date ai decreti dele­gati. Chi mai volendo licen­ziare potrebbe impe­go­larsi in que­ste tipo­lo­gie potendo ada­giarsi sull’andamento eco­no­mico dell’impresa? Qui si col­pi­sce non solo il diritto al lavoro del licen­ziato, ma anche il ruolo della magi­stra­tura nell’ inter­vento per rein­te­grare tale diritto. Due pic­cioni con una fava. Nean­che il nemico per eccel­lenza dei giu­dici, Ber­lu­sconi, avrebbe potuto tanto.

Nel frat­tempo Squinzi può sognare, si stro­pic­cia gli occhi, ottiene più di quanto pre­ten­deva e spe­rava. Non ha nep­pure avuto biso­gno di chie­derlo. Anzi, Squinzi aveva com­bat­tuto per la pre­si­denza della Con­fin­du­stria con­tro Bom­bas­sei, dichia­rando pro­prio che l’articolo 18 non era una priorità.

Intanto Pier Carlo Padoan aveva già scritto la sua let­tera alla Com­mis­sione affin­ché fosse indul­gente nel valu­tare i conti della legge di sta­bi­lità. Il giu­di­zio defi­ni­tivo sarà a marzo, ma intanto il governo si salva, anche gra­zie alla appro­va­zione del Jobs Act che, secondo il nostro mini­stro dell’economia, garan­tirà una ripresa dell’economia e il soste­gno al sistema pen­sio­ni­stico. Come ciò possa avve­nire a colpi di pre­ca­riato, che il decreto Poletti e il Jobs Act stesso ampliano a dismi­sura, è un mistero da riman­dare al mittente.

La novità tanto sban­die­rata è il famoso con­tratto a tempo inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti. Le moda­lità della arti­co­la­zione di que­ste tutele sono ancora ignote, per­ché riman­date al testo di decreti dele­gati che even­tual­mente pas­se­ranno solo dalle com­mis­sioni par­la­men­tari — ma non dall’aula — per un parere non vin­co­lante. Tut­ta­via è fin d’ora scar­sa­mente cre­di­bile che un padrone assuma con que­sta forma, quando può uti­liz­zare, gra­zie al decreto Poletti, con­tratti a ter­mine uno in fila all’altro senza doverne moti­vare la ragione. Para­dos­sal­mente, ma non troppo, pro­prio il con­tratto inde­ter­mi­nato a tutele cre­scenti spin­gerà ancora di più l’acceleratore sulla totale pre­ca­riz­za­zione dei rap­porti di lavoro per i nuovi assunti.

Fare sin­da­cato e costruire una nuova coa­li­zione sociale per una nuova sini­stra sarà più dif­fi­cile, ma ancora più neces­sa­rio ed urgente. Una dimen­sione euro­pea è indi­spen­sa­bile poi­ché il sistema non sop­porta legi­sla­zioni nazio­nali pro­tet­tive dei diritti e forme con­trat­tuali che vadano al di là del sin­golo gruppo o azienda. Jobs, più che voler dire lavori, è un acro­nimo: Jump­start Our Busi­nes­ses (come l’omonimo ame­ri­cano del 2012) cioè «met­tiamo in moto le nostre imprese». Di con­tro, quel popolo di sini­stra orfano di una vera sini­stra popo­lare ritro­va­tosi in piazza il 25 otto­bre e nelle occa­sioni suc­ces­sive, si rimette in moto per uno scio­pero gene­rale, dopo tanti anni. Que­sta sarà la risposta.

« Il manifesto, 26 ottobre 2014 (m.p.r.)

Un’alternativa dal basso alla «glo­ba­liz­za­zione dell’indifferenza». Que­sto il senso dell’Incontro mon­diale delle orga­niz­za­zioni popo­lari che si svolge a Roma da domani al 29 e che acco­glie dele­gati pro­ve­nienti dai cin­que con­ti­nenti. La con­fe­renza di pre­sen­ta­zione, che si è tenuta nella sala stampa del Vati­cano, ha messo in luce la par­ti­co­la­rità dell’evento, signi­fi­cata dalla pre­senza al tavolo di due car­di­nali – Peter Kodwo Appiah Turk­son, pre­si­dente del Pon­ti­fi­cio Con­si­glio della Giu­sti­zia e della Pace, e Mar­celo San­chez Sorondo, Can­cel­liere della Pon­ti­fi­cia Acca­de­mia delle Scienze sociali – e di un atti­vi­sta argen­tino, Juan Gra­bois, della Con­fe­de­ra­cion de Tra­ba­ja­do­res de la Eco­no­mia Popu­lar (Ctep), una delle strut­ture che ha orga­niz­zato l’incontro internazionale.

Un con­sesso degli esclusi for­te­mente appog­giato da papa Ber­go­glio – ha spie­gato padre Fede­rico Lom­bardi, gesuita come il pon­te­fice argen­tino. E così, a fianco del Movi­miento mun­dial de Tra­ba­ja­do­res Cri­stia­nos tro­viamo i Movi­menti delle fab­bri­che recu­pe­rate in Argen­tina (ci sono anche l’italiana Rima­flow, Com­mu­nia Net­work e Genuino clan­de­stino), cen­tri sociali come il Leon­ca­vallo, la Banca etica, e orga­niz­za­zioni popo­lari mar­xi­ste e lai­che, dall’Asia all’Africa, agli Stati uniti e all’America latina: a par­tire dal Movi­mento dei Sem Terra, uno dei prin­ci­pali organizzatori.

L’egemonia? Se ne è discusso per qual­che mese, non senza defe­zioni e malu­mori, ma alla fine ha pre­valso la parola «incon­tro», nel «cam­mino aperto da papa Fran­ce­sco, che sostiene di avere molti amici tro­tski­sti e che ci ha aiu­tato a situare il tema dell’ingiustizia e dell’esclusione», ha detto Mon­si­gnor Sorondo, e ha pre­ci­sato: «D’altronde, Gesù è arri­vato prima del mar­xi­smo, e poi dopo la caduta del socia­li­smo i mar­xi­sti non sono più un pericolo».

E comun­que, la chiesa di Ber­go­glio è tor­nata a «vedere» quei preti che incro­ciano il con­flitto sociale, e a misu­rarsi per­sino coi momenti e coi luo­ghi in cui è neces­sa­rio disob­be­dire. Per l’Incontro mon­diale arri­verà anche il pre­si­dente della Boli­via, Evo Mora­les, appena rie­letto a grande mag­gio­ranza: però non come capo di stato, ma come ex sin­da­ca­li­sta indi­geno e «cocalero».

Dopo la con­fe­renza stampa, Juan Gra­bois ha spie­gato al mani­fe­sto che «per supe­rare osta­coli e dif­fe­renze e affron­tare insieme un capi­ta­li­smo sel­vag­gio che distrugge la natura e con­danna i gio­vani a non avere futuro», si è pre­fe­rito rac­chiu­dere il senso dell’Incontro intorno alle «», terra, casa, e lavoro, «diritti ele­men­tari che tutti desi­de­riamo, ma che neces­si­tano di una forte e tenace orga­niz­za­zione popo­lare: per spin­gere i governi pro­gres­si­sti ad appro­fon­dirli e com­bat­tere quelli che pro­gres­si­sti non sono».

Obiet­tivi prio­ri­tari per i set­tori sociali mag­gior­mente esclusi: «i lavo­ra­tori pre­cari, i migranti, i disoc­cu­pati e chi par­te­cipa al set­tore dell’economia infor­male e auto­ge­stito, senza pro­te­zione legale, rico­no­sci­mento sin­da­cale o coper­ture sociali. E poi i con­ta­dini, i senza terra, i popoli ori­gi­nari e le per­sone che rischiano di essere espulse dalle cam­pa­gne a causa della spe­cu­la­zione agri­cola e della violenza; le per­sone che vivono ai mar­gini delle metro­poli, dimen­ti­cati da una strut­tura urbana ina­de­guata». Tra gli obiet­tivi, c’è dun­que «la riforma agra­ria, quella del lavoro e la costi­tu­zione di Con­si­glio dei movi­menti popo­lari, arti­co­lato a livello globale».

In Argen­tina, il Ctep rac­chiude oltre 500 orga­niz­za­zioni, come il Movi­mento delle fab­bri­che recu­pe­rate, e quello dei Car­to­ne­ros, «com­po­sto da oltre 5.000 lavo­ra­tori che gesti­scono il rici­clag­gio a Bue­nos Aires e che ten­gono alle pro­prie con­qui­ste aperte dalle lotte dei pique­te­ros nel 2001. Da noi, gli infor­mali sono il 30% della classe lavo­ra­trice, un set­tore che dev’essere rico­no­sciuto in un nuovo sindacato».

Nes­sun dub­bio, per Gra­bois, che i movi­menti argen­tini deb­bano lot­tare per la sovra­nità del paese e con­tro i fondi avvol­toi per riba­dire ai poteri forti inter­na­zio­nali «che c’è un limite da non vali­care». L’attivista ha al collo un faz­zo­letto kurdo, e il movi­mento fede­ra­li­sta è pre­sente all’incontro «Lo porto appo­sta — dice — per appog­giare la loro resi­stenza con­tro una banda di mer­ce­nari che mas­sa­cra la popo­la­zione con le armi della Nato. Nella fede­ra­zione kurda si pra­tica la demo­cra­zia diretta e la parità di genere, un esem­pio che disturba».

E i movi­menti in Europa?«Qui la situa­zione dei migranti è ben peg­giore che da noi, dove almeno pos­sono orga­niz­zarsi e lot­tare. Ne ho visti lavo­rare in ogni strada di Roma, e come me li vedono tutti, ma restano invi­si­bili e senza diritti. Il cuore di chi ha tutto è chiuso, ma noi dovremmo costruire un’alleanza glo­bale tra gio­vani pre­cari e migranti e farne la linea prin­ci­pale della bat­ta­glia con­tro l’ingiustizia».

La crisi di consenso di molti primi cittadini eletti nella
"stagione dei sindaci" non è causata tanto dai loro errori, ma soprattutto dalle scelte politiche dei governi dell'austerity e della demagogia, delle quali Renzi è indubbiamente il maggior responsabile .

Il manifesto, 25 novembre 2014

Se Italo Cal­vino avesse scritto oggi il suo insu­pe­ra­bile «Le città invi­si­bili» avrebbe incluso pro­ba­bil­mente un capi­tolo dedi­cato alla «città ingo­ver­na­bile». Que­sta è infatti la con­di­zione della gran parte delle città ita­liane negli ultimi cin­que anni, da quando la crisi eco­no­mica ha pro­dotto cre­scente disoc­cu­pa­zione, pre­ca­rietà, disa­gio e paura crescenti. Da Pisa­pia a De Magi­stris, da Doria a Marino, da Orlando a Piz­za­rotti, non c’è più un sin­daco eletto sull’onda ed il biso­gno di una svolta radi­cale che oggi non sia in crisi di consensi. Per­sino Renato Acco­rinti, eletto a Mes­sina a furor di popolo un anno e mezzo fa, il sin­daco con la maglietta «No Ponte», icona della pace e della difesa dell’ambiente, è oggi a corto di con­sensi nella sua città mal­grado i risul­tati conseguiti.

Esat­ta­mente venti anni fa si inau­gu­rava la cosid­detta «sta­gione dei sin­daci», par­tendo dalla rina­scita della Napoli di Bas­so­lino, pas­sando per la pri­ma­vera della Palermo del primo Orlando, e poi ancora Bianco a Cata­nia e Fal­co­matà a Reg­gio Cala­bria, per citare i casi più famosi. Coin­ci­deva anche con una sta­gione di risve­glio delle popo­la­zioni meri­dio­nali a soste­gno dei pro­pri sin­daci che ave­vano dato segni con­creti di buon governo dopo la fal­li­men­tare gestione demo­cri­stiana. Non a caso tutti rie­letti al secondo mandato. Oggi sarebbe impossibile.

Da una parte, i tagli dei tra­sfe­ri­menti sta­tali ai Comuni, inau­gu­rati dal governo Monti e por­tati alle estreme con­se­guenze da Renzi, dall’altra un debito inso­ste­ni­bile ere­di­tato dalle ammi­ni­stra­zioni pas­sate, ren­dono impos­si­bile rispon­dere ai biso­gni cre­scenti della cittadinanza.

Crisi eco­no­mica e tagli ai bilanci comu­nali si tra­du­cono in una morsa che impe­di­sce di rispon­dere a un disa­gio sociale cre­scente e, soprat­tutto, all’insofferenza. Gli abi­tanti delle peri­fe­rie sono diven­tati ansiosi e intol­le­ranti dopo aver sop­por­tato decenni di abban­dono e degrado. Infatti, biso­gna ricordarlo, anche durante la cosid­detta «sta­gione dei sin­daci» le peri­fe­rie urbane, di Roma, Napoli o Cata­nia erano rima­ste sostan­zial­mente esterne alla riqua­li­fi­ca­zione urbana diretta soprat­tutto ai cen­tri sto­rici. Ma, non c’era la pesan­tezza di que­sta crisi e le popo­la­zioni delle peri­fe­rie si aspet­ta­vano ancora di essere incluse nel pro­cesso di rina­scita cit­ta­dino. C’era ancora la spe­ranza. In que­sti anni è stata seppellita.

Oggi non si dice più «piove governo ladro», ma per ogni gua­sto sociale e ambien­tale il «pun­ching ball» è il sin­daco. Doria a Genova e Marino a Roma, solo per citare gli ultimi casi, avranno pure le loro man­canze ma sono stati messi alla gogna come gli unici respon­sa­bili del disa­stro dell’alluvione o del degrado/razzismo dei quar­tieri peri­fe­rici. E non sono feno­meni iso­lati, ma desti­nati ad allar­garsi per­ché il governo Renzi ha una stra­te­gia poli­tica chiara: sca­ri­care sugli enti locali il costo della crisi e del debito pub­blico inso­ste­ni­bile. Ed è una stra­te­gia che funziona.

I tagli alla sanità pesano sulle Regioni che si tro­vano di fronte una forte oppo­si­zione sociale alla cosid­detta «razio­na­liz­za­zione dell’offerta ospe­da­liera» che com­porta la chiu­sura di decine di ospe­dali per ogni regione. I tagli ai comuni si abbat­tono sui ser­vizi sociali, i mezzi di tra­sporto locale e, soprat­tutto, aumen­tano le impo­ste locali. Quasi tutte le ammi­ni­stra­zioni comu­nali sono diven­tate le più odiate dai com­mer­cianti, dai pro­prie­tari di case, dai sog­getti deboli pri­vati dell’assistenza neces­sa­ria. Risul­tato finale: lo scollamento/scontro tra popo­la­zioni ed ammi­ni­stra­zioni comu­nali porta al col­lasso della demo­cra­zia reale, per­ché è pro­prio a livello locale che è pos­si­bile pra­ti­care forme di demo­cra­zia par­te­ci­pa­tiva, di gestione dei Beni Comuni , di autogoverno.

Vice­versa tutte le cose posi­tive le fa Renzi. E non solo gli 80 euro. Vor­rei citare un fatto recen­te­mente accaduto. In pro­vin­cia di Cosenza una orga­niz­za­zione cat­to­lica, il Banco delle Opere di Carità, in col­la­bo­ra­zione con diversi comuni col­li­nari e mon­tani, sta distri­buendo gra­tui­ta­mente la frutta alle popo­la­zioni di que­sti comuni peri­fe­rici (mele, prugne,ecc.) come soste­gno eco­no­mico alle fasce ter­ri­to­riali più povere. Si è sparsa la voce che que­sto inso­lito prov­ve­di­mento (di solito la frutta che non si ven­deva finiva sotto il trat­tore) sia opera del governo, e così la gente dice : «È arri­vata la frutta di Renzi».

Natu­ral­mente c’è sem­pre il rove­scio della meda­glia. L’attacco al sin­da­cato e ai lavo­ra­tori che scio­pe­rano toglie con­sensi al pre­mier, ma non va sot­to­va­lu­tato il fatto che la stra­te­gia prin­cipe di Palazzo Chigi è tipica di un’azienda capi­ta­li­stica: ester­na­liz­zare i costi, sociali ed ambien­tali, e inter­na­liz­zare i pro­fitti (con­sensi in que­sto caso). Per que­sto gli ammi­ni­stra­tori locali che rischiano in prima per­sona dovreb­bero unirsi con­tro que­sto governo con più forza e deter­mi­na­zione di quello che finora hanno fatto, a par­tire dalla richie­sta di ristrut­tu­ra­zione dei debiti ere­di­tati e non più sostenibili.

«Il nuovo pro­dotto è pronto. La poli­tica in crisi di con­senso deve pro­durre lea­der, ven­derli e pro­durne di nuovi, per ali­men­tare lo spet­ta­colo dello scon­tro bipo­la­ri­sta e il flusso illusione-disillusione su cui si basa». I giornali amici di Renzi gli stanno preparando l'avversario senza il quale non può vincere.

Il manifesto, 23 novembre 2014

Il nuovo pro­dotto è pronto. La poli­tica in crisi di con­senso deve pro­durre lea­der, ven­derli e pro­durne di nuovi, per ali­men­tare lo spet­ta­colo dello scon­tro bipo­la­ri­sta e il flusso illusione-disillusione su cui si basa. Il nuovo pro­dotto è natu­ral­mente Mat­teo Sal­vini. I nuovi pro­dotti poli­tici ven­gono sem­pre lan­ciati da mas­sicce cam­pa­gne pub­bli­ci­ta­rie, ma forse la cam­pa­gna per la pro­du­zione e per la pro­mo­zione di Sal­vini non ha pre­ce­denti. D’altra parte si par­tiva da con­di­zioni dif­fi­cili: una Lega al 3 per cento. L’avventura era par­ti­co­lar­mente affascinante.

Il segre­ta­rio della Lega è inin­ter­rot­ta­mente in tele­vi­sione, spesso due volte al giorno, dalla cam­pa­gna elet­to­rale per le euro­pee. Non può essere solo per­ché «fa audience» (fa audience?). Dopo, ci si pro­duce in con­ti­nue ana­lisi sul per­ché la Lega cre­sca nei son­daggi, cele­brando le doti del lea­der, le sue abi­lità comu­ni­ca­tive, la sua bra­vura ad inter­cet­tare gli umori popo­lari. La Lega cre­sce per­ché Sal­vini è in tele­vi­sione due volte al giorno. Una parte secon­da­ria del merito va anche alla sua capa­cità di indi­vi­duare poche chiare que­stioni per posi­zio­narsi sul mer­cato (No all’Euro e all’immigrazione). Ma nes­suno se ne accor­ge­rebbe se non ci fosse la prima condizione.

Si può imma­gi­nare quali siano gli effetti spe­rati di que­sta cam­pa­gna di suc­cesso. Par­tiamo dal set­tore di mer­cato che deve con­qui­stare: il suo prin­ci­pale desti­na­ta­rio sono i ceti popo­lari, cioè il prin­ci­pale tar­get di tutte le più recenti cam­pa­gne per il lan­cio dei lea­der, che infatti sono cre­sciuti elet­to­ral­mente innan­zi­tutto in quell’area.

Primo effetto: la Lega, nel suo nuovo vestito lepe­ni­sta, è in grado di spo­stare il discorso sulla crisi dal piano sociale a quello della sicu­rezza. Una fun­zione fon­da­men­tale, men­tre rie­merge in Ita­lia una dia­let­tica sociale che riguarda il lavoro e le con­di­zioni di vita dei set­tori popo­lari. A que­sto si aggiunga la cam­pa­gna, lan­ciata dal Cor­riere e ripresa dai talk show, sulle case occu­pate. Primo risul­tato: la rap­pre­sen­ta­zione è quella di un mondo popo­lare infil­trato dalla cri­mi­na­lità e il cui pro­blema prin­ci­pale sono gli immi­grati. Il suo secondo e terzo pro­blema sono i poli­tici e i sindacati.

Secondo effetto: Renzi è stato in que­sti mesi il mono­po­li­sta del mer­cato poli­tico. Ma la rap­pre­sen­ta­zione spet­ta­co­lare dello sport poli­tico non regge se non c’è un nemico, l’antagonista, lo sfi­dante, il cat­tivo. A che cosa appas­sio­narsi altri­menti? Il mer­cato è com­pe­ti­zione, il pro­dotto vin­cente deve essere sfi­dato dal pro­dotto che lo sosti­tuirà. In più: nella pros­sima cam­pa­gna elet­to­rale l’ex mono­po­li­sta potrà dire che biso­gna votare Pd per evi­tare il pericolo-Lega. Così, men­tre l’elettorato di sini­stra sarà ten­tato di votare un nuovo pos­si­bile sog­getto poli­tico, si potrà ancora ricor­rere alla magia del voto utile.

Il tema cen­trale è dun­que lo spo­sta­mento del con­flitto sociale su altri piani. Il prodotto-Grillo e il prodotto-Renzi l’hanno spo­stato sul piano delle oppo­si­zioni tra vec­chio e nuovo, tra sistema (poli­tico) e anti-sistema, tra Casta e anti-Casta. Adesso biso­gna tro­vare qual­che nuovo ter­reno di gioco, non si può fare sem­pre la stessa gara (il pub­blico si anno­ie­rebbe e guar­de­rebbe altrove). Ed ecco rie­mer­gere la questione-sicurezza, eterna Fenice che risorge nei momenti di pos­si­bile muta­mento poli­tico. Il Cor­riere della Sera a que­sti rea­lity par­te­cipa sem­pre con entu­sia­smo e da pro­ta­go­ni­sta: il brand della Casta, come la cam­pa­gna sulla lega­lità nelle peri­fe­rie, è nato sulle sue colonne.

Con­tem­po­ra­nea­mente, tutti i media cele­brano dalla mat­tina alla sera la messa can­tata delle virtù dell’impresa. Gli impren­di­tori licen­ziano, chiu­dono, delo­ca­liz­zano, non pagano i dipen­denti, li for­zano a dimet­tersi, ren­dono le aziende luo­ghi invi­vi­bili (si trovi qual­cuno che è con­tento del suo lavoro) e privi di libertà, non inve­stono in ricerca, cor­rom­pono i poli­tici, cer­cano uni­ca­mente posi­zioni di mer­cato pro­tette (la meri­to­cra­zia è per qual­cun altro, è com­pe­ti­zione tra i desti­na­tari di que­ste cam­pa­gne pub­bli­ci­ta­rie). Ma la rap­pre­sen­ta­zione una­nime degli impren­di­tori è quella degli eroi (in prima fila, nella messa can­tata, c’è Sal­vini). Nei talk show cir­cola costan­te­mente anche una nuova figura: il gio­vane star­tup­per, magari emi­grato in Ame­rica per aprire un’impresa inno­va­tiva che dà tanti posti di lavoro a gio­vani di talento (agli altri no, se non hai talento puoi stare a casa). Lo stur­tup­per, vestito a metà tra il vir­tuoso dello ska­te­board e il pro­prie­ta­rio di un Fondo inve­sti­menti, occupa più o meno la posi­zione del Mes­sia: lo si mette al cen­tro dello stu­dio, lo si cele­bra, gli si chiede a bocca aperta «Cosa dob­biamo fare?», si punta il dito verso la tele­ca­mera e, soprat­tutto se si è un gior­na­li­sta del Cor­riere della Sera, si dice: gio­vani, avete capito? Dovete fare così.

In que­sti anni si è esa­ge­rato a cele­brare la fine della cen­tra­lità del con­flitto di classe in società che erano e restano capi­ta­li­sti­che. Que­sto con­flitto si pre­senta sem­pre in forme spu­rie, cam­bia nel tempo, a volte è dif­fi­cile da leg­gere, ma incide sem­pre in modo deter­mi­nante sulla poli­tica. Molte cose rile­vanti pos­sono essere lette a par­tire da que­sta chiave, che ovvia­mente non è mai esau­stiva. Per esem­pio, può essere letta così tutta la tra­iet­to­ria che va dal Pci al Pd: il suo spo­sta­mento dalla cen­tra­lità del lavoro alla cen­tra­lità dell’impresa è il nucleo fon­da­men­tale di ogni suo cam­bia­mento. Oppure le vicende poli­ti­che che vanno dal 2006 a oggi: la cam­pa­gna per la lotta alla Casta e per la dif­fu­sione dell’antipolitica, lan­ciata men­tre in Par­la­mento c’erano 150 rap­pre­sen­tanti della sini­stra radi­cale; la crea­zione, nello stesso periodo, del Pd, con la pro­mo­zione del Vel­troni inno­va­tore che cor­reva da solo; la grande coa­li­zione Pd-Forza Ita­lia; Renzi; Sal­vini. Non si pos­sono leg­gere que­sti eventi senza con­si­de­rarli anche un momento del con­flitto di classe dei ric­chi con­tro i poveri (e con­tro i loro rap­pre­sen­tanti), con­tem­po­ra­neo all’esplodere di una crisi finan­zia­ria, eco­no­mica e sociale quasi-permanente.

Un nuovo sog­getto poli­tico della sini­stra può solo ripar­tire da que­sto luogo, da que­sto tema e da que­sti sog­getti. Dagli alleati e dagli avver­sari che può avere in que­sto con­te­sto. Biso­gna farlo in modo inno­va­tivo, certo, ma senza più indu­giare su alibi come «la società è cam­biata», «non ci sono più le grandi fab­bri­che», «ormai gli ope­rai votano a destra»

«Se ci si azzarda a dire “approvare una moratoria immediata del consumo di suolo”, o “spostiamo i soldi dalle grandi opere alla cura del territorio” scatta l’allarme rosso. Emerge d’un colpo l’ipocrisia di gran parte della politica e di tanti commentatori».

Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2014

Nelle ultime settimane, dopo le frane e le esondazioni che hanno provocato morti e che hanno messo in ginocchio la Liguria, la Toscana, il Piemonte e la Lombardia, si susseguono le trasmissioni e gli editoriali che cercano di individuare responsabilità e di immaginare le cure possibili al dissesto idrogeologico del nostro paese, per risollevare lo stivale dal fango in cui sprofonda.

Di fronte alle immagini apocalittiche del Polcevera, del Bisagno, del Seveso, tutti si indignano e si costernano. E l’elenco delle proposte per porre rimedio è lungo. Bisogna rifare gli argini dei fiumi! Bisogna fare manutenzione a tutta le rete idrica! Bisogna smetterla con i condoni! Bisogna curare i boschi e le montagne! Bisogna trovare i soldi per realizzare le opere necessarie alla messa in sicurezza! Bisogna fare prevenzione e riorganizzare la protezione civile! Bisogna cancellare il patto di stabilità che impedisce ai comuni di intervenire!

Fin qui tutti d’accordo (o quasi, perché sui condoni edilizi, una manina furbetta che scriva l’emendamento nascosto da inserire in qualche provvedimento, si trova sempre…).

Ma se qualcuno si azzarda a dire “bisogna approvare una moratoria immediata del consumo di suolo”, oppure “spostiamo i soldi dalle grandi opere alla cura del territorio” scatta l’allarme rosso. Ed emerge tutta d’un colpo l’ipocrisia di gran parte della politica e di tanti commentatori.

Perché finché si tratta di restare sulle enunciazioni di principio, dicendo cose come “curiamo l’ambiente e sistemiamo gli argini dei fiumi", tutto ok. Applausi bipartisan.

Ma se si esclama “Stop al Consumo di Territorio subito, con decreto legge!”, si riceve come risposta immediata: “Impossibile! Va bene essere ambientalisti ma fino a un certo punto!” Se si propone “usiamo i soldi del TAV in val di Susa, del Terzo Valico o della Orte-Mestre! per sistemare il Polcevera, il Bisagno, il Seveso”, arriva puntuale la controrisposta: “Basta con queste provocazioni! Quelle grandi opere servono per creare posti di lavoro ed essere competitivi! Basta demagogia!”

Certo, perché va bene essere dalla parte del diritto dei cittadini a vivere sicuri di non essere travolti da un’alluvione o da una frana (circa 5,8 milioni di italiani), ma non vorremo mica davvero mettere in discussione il potere «degli energumeni del cemento armato», come li chiamava Antonio Cederna?

Come media amici di Renzi hanno trasformato in arma politica l’infelice battuta strappata a Landini durante un corteo dei metalmeccanici». Ecco ciò che Landini ha detto, e come la stampa ha distorto e strumentalizzato. Il regime c'è, bisogna combatterlo. Il manifesto, 23 novembre 2014

Non vede­vano l’ora. Le tele­vi­sioni e i gior­nali in ami­ci­zia con Renzi hanno tra­sfor­mato in un’arma poli­tica l’infelice bat­tuta «strap­pata» a Lan­dini durante un cor­teo dei metalmeccanici.
Un boc­con­cino pre­li­bato per col­pire una delle voci più rap­pre­sen­ta­tive della sini­stra, per­fino troppo ghiotto per per­dere tempo a inse­rirlo nel con­te­sto in cui veniva pro­nun­ciato. Poco male se biso­gnava stru­men­ta­liz­zarne il senso per farla diven­tare «Renzi non ha il soste­gno degli one­sti», men­tre Lan­dini diceva «Il pre­mier dovrebbe ren­dersi conto che oggi il con­senso di chi lavora, dei gio­vani che stan cer­cando lavoro, delle per­sone one­ste, in que­sto Paese lui non ce l’ha». Il Paese in quel momento rap­pre­sen­tato da decine di migliaia di lavo­ra­tori, stu­denti, pre­cari che mani­fe­sta­vano per le strade di Napoli sotto le ban­diere della Fiom. Per­sone one­ste che pagano lo scio­pero sul magro sala­rio, per­ché com­bat­tono la poli­tica del governo che can­cella tutele e diritti, ridu­cendo donne e uomini a forza lavoro e il lavoro a sem­plice merce.
«Togliti il mega­fono» intima il Cor­riere della Sera. «Lan­dini è un mora­li­sta» sen­ten­zia La Stampa, pro­prio come se al solo pro­nun­ciarla la parola «one­stà» pro­vo­casse l’orticaria. Tito­loni e com­menti in prima pagina sugli stessi quo­ti­diani che il giorno prima, quando Renzi aveva dura­mente stig­ma­tiz­zato la pro­cla­ma­zione dello scio­pero del 12 dicem­bre, soste­nendo che «i sin­da­cati pas­sano il tempo a inven­tarsi ragioni per fare scio­pero», si erano invece distratti, deru­bri­cando il pro­vo­ca­to­rio e medi­tato attacco come fatto secon­da­rio. Titoli pic­coli, quasi invi­si­bili, e zero commenti.
Eppure quello di Renzi era un affondo inse­rito in una stra­te­gia di con­trap­po­si­zione fron­tale con le rap­pre­sen­tanze sin­da­cali, escluse da ogni spa­zio di con­fronto sulla poli­tica eco­no­mica del governo. Era dun­que un inter­vento a gamba tesa meri­te­vole almeno di altret­tanta atten­zione. Ma tant’è.
Quanto stampa e tv siano schie­rate a soste­gno del governo è evidente.

Ora, dopo il pol­ve­rone alzato intorno a Lan­dini e al sin­da­cato che si oppone, lo vedono tutti.
«E' l’opinione di Hanif Kureishi, lo scrittore anglo-pachistano: “Sono giovani che vivono ghettizzati nella miseria Cercano un modello alternativo al consumismo occidentale”».

La Repubblica, 21 novembre 2014 (m.p.r.)

Londra. «I giovani occidentali che si arruolano nella jihad fanno una scelta mostruosa, ma siamo noi che abbiamo generato quei mostri». È l’opinione di Hanif Kureishi, il grande scrittore anglo-pachistano autore di tanti romanzi, da Il budda delle periferie a L’ultima parola ( tutti pubblicati in Italia da Bompiani), che trattano il tema dell’identità, del conflitto inter-etnico, dell’integrazione delle minoranze nella società occidentale al tempo dellaglobalizzazione.
Come è possibile, signor Kureishi, che ragazzi cresciuti a Londra, in Inghilterra, in altri Paesi occidentali, diventino dei jihadisti pronti a sgozzare ostaggi inglesi e americani?
«È possibile per due ragioni. La prima è che l’Islam radicale è nato come forma di liberazione, contro il colonialismo e contro le dittature sostenute dall’Occidente, come abbiamo visto con la rivoluzione khomeinista in Iran e con le rivolte della Primavera Araba, non tutte fondamentaliste queste ultime, ma almeno in parte sì. E la seconda ragione è che i giovani sono spesso idealisti. Molti dei miei amici, quando ero ragazzo a Londra, erano maoisti, trotzkisti, leninisti. Ma poi sappiamo come finiscono tante volte le rivoluzione e l’idealismo: con la violenza, il terrore, la tirannia».
Intende dire che in un certo senso la scelta di quei giovani è comprensibile?
«Non è giustificabile, perlomeno da me, io ho altri idee e altri ideali. Ma se vogliamo comprendere le loro ragioni dobbiamo chiederci da dove nascono. Questi giovani credono in qualcosa, qualcosa che a essi sembra un ideale nobile e puro. Ebbene, i giovani hanno di questi bisogni, il desiderio di avere puri ideali e di combattere per realizzarsi. Il Ventesimo Secolo è pieno di giovani così».
Ma perché odiano tanto l’Occidente, pur essendo nati e cresciuti in mezzo a noi? Cosa gli abbiamo fatto che li disgusta così tanto?
«Forse bisognerebbe chiedersi che cosa “non” gli abbiamo fatto e che cosa non siamo stati capaci di dirgli, di insegnarli. Certo, sono cresciuti in mezzo a noi. O più precisamente, di fianco a noi: in genere in quartieri, famiglie, ambienti più poveri rispetto all’establishment nazionale. Quali modelli e quali ideali offre loro la società occidentale? Il consumismo, la commercializzazione, la ricchezza come valore in sé, la fama da conquistare a colpi di reality show. È così sorprendente se un giovane povero trova nella religione islamica un modello alternativo a questi valori e a questi ideali?».
Non ci sono tuttavia solo il consumismo e la fama da reality nei valori occidentali. Perché non riusciamo a insegnare loro l’importanza anzi la bellezza della libertà di pensiero, della democrazia, della tolleranza?
«Mi chiedo quanti sforzi facciamo veramente per spiegare la bellezza degli ideali democratici. La verità è che vengono dati spesso per scontati. E che il più delle volte vengono coperti da altre presunte “bellezze”, che sono invece valori deteriori, quali il consumismo esasperato. E poi: dovremmo dire ai giovani musulmani britannici, francesi, italiani, che la nostra democrazia è bella e va difesa. Prendiamo il caso del vostro paese, l’Italia: avete avuto per vent’anni un leader come Berlusconi, un uomo vergognoso, la cui immagine ha infangato i principi democratici. È più difficile esaltare la politica, quando quella politica esibisce un fallimento ».
Ha mai incontrato, personalmente, giovani di questo genere?
«Ho scritto saggi e romanzi su questo tema, e molti di quei personaggi li ho conosciuti davvero. I giovani che crescendo sono diventati seguaci di Al Qaeda, del fanatismo distruttivo dell’11 settembre, e che sono poi i fratelli maggiori dei jihadisti odierni. Vivono in mezzo a noi, poi un giorno fanno una scelta radicale e mostruosa nel nome dell’Islam. Ma siamo noi che abbiamo partorito quei mostri».
In nome dell’Islam, dice: ma l’Islam non dovrebbe fare di più per condannare chi lo invoca per uccidere?
«Le grandi religioni impiegano tempo a redimersi. Pensiamo alla Chiesa cattolica, a quanto ci è voluto prima che denunciasse la pedofilia al proprio interno. Certo, l’Islam dovrebbe fare di più per condannare chi infanga il suo nome. Ma non è semplice. Auguri a chi cercherà di trasformare un fanatico in un liberale».
L’altra faccia dei giovani occidentali arruolati nella jihad è che ora ogni occidentale dalla pelle scura viene visto come un potenziale jihadista?
«Il rischio è quello e talvolta lo sento anche sulla mia pelle. Ma non darei la colpa soltanto alla guerra santa islamica. L’Europa oggi è attraversata da un’ondata di razzismo, di odio verso gli immigrati e i diversi, che si può chiamare soltanto con un nome: fascismo. E dire che pensavamo di averlo estirpato per sempre, invece ritorna».
L’ennesima testimonianza del degrade di una politica, ben rappresentata dal solito noto, che, pretendendo di rottamare la storia ha cancellato qualunque ragionevolezza nell’agire. Un buona domanda di Massimo Veltri e una ottima risposta, come al solito, di Corrado Augias.

La Repubblica, 21 novembre 2014

Lettera di Massimo Veltri

Caro Augias, anni fa sono stato capogruppo Pds in Commissione Ambiente e Territorio del Senato. Credo d’aver svolto una buona attività per la difesa del suolo. Mi chiedo oggi con inquietudine perché, fra gli argomenti toccati in relazione alle frane e alluvioni che ci flagellano, è sempre come se dovessimo partire da capo.

Dimentichiamo per esempio la Commissione De Marchi dopo l’alluvione di Firenze del 1966, la legge n. 183 del 1989 sulla difesa del suolo, le direttive europee (non ancora recepite).
Abbiamo derubricato la materia affidandola alla Protezione Civile, cioè vedendola solo in chiave post emergenziale. C’è stata una resa a mani basse di fronte alla miriade di soggetti che hanno titolo in materia, alla molteplicità di permessi e visti contemplati per eseguire un’opera, all’abbandono della pratica della pianificazione.
Si parla solo di risorse finanziarie, che sono certo necessarie, al pari però della semplificazione, del coordinamento con la comunità scientifica che ha dato interessante risultato in termini di previsione di eventi estremi, del lancio di un “nuovo patto” che chiami a raccolta per questa vera e propria emergenza.

Risposta di Corrado Augias

C’è in questa lettera una domanda chiave: perché ci comportiamo sempre come se fosse la prima volta che succede? Ho sentito in tv esponenti di spicco dei vari partiti, a partire dal Pd, fare dichiarazioni piene di lodevoli propositi: vedremo, faremo, bisognerà, è necessario, si dovrà. Aria fritta.

Si parla di nuove leggi dimenticando che le leggi ci sono già. Sono andato a leggere che dice la legge 183 del 1989. Il lodevole e inutile testo comincia così:
«1. La presente legge ha per scopo di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi.
2. Per il conseguimento delle finalità perseguite dalla presente legge, la pubblica amministrazione svolge ogni opportuna azione di carattere conoscitivo, di programmazione e pianificazione degli interventi, di loro esecuzione, in conformità alle disposizioni che seguono.
3. Ai fini della presente legge si intende: a) per suolo: il territorio, il suolo, il sottosuolo, gli abitati e le opere infrastrutturali; b) per acque: quelle meteoriche, fluviali, sotterranee e marine; c) per corso d’acqua: i corsi d’acqua, i fiumi, i torrenti, i canali, i laghi, le lagune, gli altri corpi idrici».
Tutto previsto, tutto regolato.
Sono passati venticinque anni, non è successo niente, risultati zero, anzi le cose sono peggiorate. Del resto non chiedeva già Dante (Purg. XVI,97): “Le leggi sono ma chi pon mano ad esse?”. Eterna Italia sempre uguale a se stessa.
Osservando le gesta del Renzi stupiscono due cose: (1) che ci sia ancora nel mondo qualcuno che lo ritiene un uomo di sinistra: (2) che continuino a stare nel suo stesso partito persone che ancora sostengono di nutrire sentimenti e convincimenti di sinistra.

Il manifesto, 20 novembre 2014

Al pre­si­dente del con­si­glio piace pro­vo­care. E i sin­da­cati sono tra i suoi obiet­tivi pre­fe­riti. Forte del «40 per cento e 80 euro», come sati­reg­gia Crozza nel «Paese delle mera­vi­glie», il capo del governo crede di poter dire e fare tutto quello che gli passa per la testa. Ma Renzi usa i toni arro­ganti, irri­denti, a volte sprez­zanti (e rubati ai luo­ghi comuni del più becero qua­lun­qui­smo), per­ché sa che il carro del vin­ci­tore ha ormai solo posti in piedi e non trova osta­coli nella corsa verso il par­tito unico del centro-sinistra-destra.

Affer­mare che «i sin­da­cati cer­cano scuse per scio­pe­rare» è una pro­vo­ca­zione voluta, però è anche musica per le orec­chie di chi osserva dall’alto con sguardo com­mi­se­re­vole tutti quelli che la crisi col­pi­sce più dura­mente, quelli che vivono e soprav­vi­vono di sti­pen­dio, di pen­sione, di precarietà.

Dire che lui i posti di lavoro «li crea», che in fondo «Camusso e Sal­vini sono due facce della stessa meda­glia» rivela un for­cing che dalla rot­ta­ma­zione della «vec­chia poli­tica» (che in realtà era soprat­tutto emar­gi­na­zione del gruppo diri­gente del Pd), ora pro­cede spe­dito per impau­rire e con­vin­cere i per­denti che se non stanno con lui avranno da per­dere assai di più, in un gioco al rim­balzo del più pre­ca­rio, del più povero. Così si per­mette, sulla scia del lepe­ni­smo in salsa leghi­sta, di sfot­tere i lavo­ra­tori che lo scio­pero lo pagano diret­ta­mente sul magro salario. Chi dimen­tica que­sto aspetto è un reazionario.

Ma il pre­si­dente del con­si­glio, che intende il governo come eser­ci­zio di un potere senza oppo­si­zione, per­ché chi osa cri­ti­care è solo un gufo, è anche il segre­ta­rio del Pd, cioè di una forza che in teo­ria dovrebbe con­si­de­rare il mondo del lavoro come casa sua. Abbiamo capito, invece, che Renzi si sente a casa quando incon­tra la Con­fin­du­stria di Squinzi.

Non risulta che di fronte a que­sto attacco siste­ma­tico verso il mondo del lavoro si sia alzata una voce di rispo­sta. O che un Ber­sani, mas­simo rap­pre­sen­tante fino a ieri del Pd, si sia sen­tito in dovere di repli­care altret­tanto dura­mente. Que­sto imba­raz­zante silen­zio non deve stu­pire più di tanto, segna una linea di con­ti­nuità con l’acquiescenza con cui il Pd ha accolto e sot­to­scritto, da Monti in poi, tutte le poli­ti­che di sman­tel­la­mento dello stato sociale. Come del tutto con­gruente è la parte in com­me­dia reci­tata da alcuni par­la­men­tari della mino­ranza interna, pro­ta­go­ni­sti di una simil-trattativa sul Jobs Act il cui esito era già scritto nel testo votato dalla stra­grande mag­gio­ranza della direzione.

L’unica con­creta pro­te­sta con­tro le poli­ti­che di sman­tel­la­mento delle tutele e dei diritti resi­dui del lavoro viene oggi dal sin­da­cato di Susanna Camusso e dalla Fiom. Con la mani­fe­sta­zione del 25 otto­bre e ora con lo scio­pero gene­rale, la Cgil ha messo in campo la pos­si­bi­lità di un’opposizione sociale nel paese. E la scelta della Uil di unirsi al 12 dicem­bre, è un altro passo importante.

Anzi­ché sfot­tere, il segretario-presidente farebbe bene ad ascol­tare le cam­pane di una pro­te­sta che suo­nano soprat­tutto per lui.

«Un sindaco scelto con le primarie e poi eletto dai cittadini viene sbugiardato da una segreteria di partito che vorrebbe imporgli i nomi degli assessori. Dettano legge ras e capetti di corrente che non sono stati votati da nessuno (anzi, molti di loro hanno perso le primarie per cui hanno gareggiato) o hanno conquistato un posto con la riffa delle preferenze».

L'Espresso, 20 settembre 2014

Il sindaco di Roma Ignazio Marino è indifendibile, per tanti motivi. Il puntare tutto sui Fori Imperiali pedonalizzati che in giornate di pioggia come oggi sono ridotti a una risaia asiatica. La Panda rossa e le multe fantasma, più da ridere che da indignarsi. La vanità personale che gli fa dire cose tipo «la linea C della metro è su tutti i giornali del mondo» (sì, ma per la lentezza dei lavori). Il senso di spaesamento che lo accompagna ovunque va, in bicicletta nel centro storico o di fronte alla folla inferocita di Tor Sapienza.

Oggi difendere Marino significa fare come il Marco Antonio nel Julius Caesar di Shakespeare, il capo pugnalato dai suoi dalle parti del Campidoglio: «Vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo… Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e Bruto è uomo d’onore». Ecco, Marino sarà indifendibile, ma chi accusa oggi Marino può vantare più o meno lo stesso onore di Bruto. E minore coerenza, trasparenza. Coraggio politico.

Quello che sta succedendo a Roma è una storia istruttiva per la politica nazionale, per capire cosa è o che cosa potrebbe diventare il Partito della Nazione di Renzi. Venerdì scorso, mentre il sindaco si avventurava con il terrore negli occhi nello sconosciuto viale Giorgio Morandi teatro dei tumulti di Tor Sapienza, dove stanno arrivando gli inviati di guerra e le migliori firme del giornalismo italiano, il Pd, il suo partito, era riunito in largo del Nazareno. Un processo in piena regola con un solo imputato: il dottor Ignazio. La più scatenata era Michela Di Biase, moglie del ministro Dario Franceschini: «Basta essere proni al sindaco, Marino è il più grande gaffeur d’Italia, sta ridicolizzando il Pd». La direzione si è conclusa con una richiesta: il sindaco azzeri la giunta, altrimenti va a casa. Intanto Marino continuava il suo tour in periferia: accanto a lui non un segretario di sezione, un dirigente del partito, un consigliere del municipio (governato dal Pd). Nessuno, a proteggerlo c’era solo un certo Manlio, abitante del quartiere. Serviva coraggio fisico a stare lì, quella sera e tutti gli altri giorni dell’anno.

Nessuno difende Marino. Perché indifendibile, o anche perché il più debole? Davvero sono le gaffe o la Panda rossa il problema? O forse il sindaco gaffeur è semplicemente una persona perbene con molti problemi di comunicazione con la città che però ha detto qualche no di troppo nella giungla della politica romana? Dove l’ex sindaco Gianni Alemanno, impunito, si è organizzato un bel corteo di protesta a nome delle periferie (e contro chi? Contro se stesso?). E il principale partito lascia solo il suo sindaco a prendere gli insulti e approfitta del caos per chiedere l’azzeramento della giunta, ovvero posti negli assessorati.

Ma il Pd romano, lo stesso che per un anno si è spaccato sul nuovo stadio della Roma, tifando per la cordata dell’uno o dell’altro costruttore, non si è limitato a questo. Per sbrogliare la situazione ha chiesto l’intervento della segreteria nazionale, di Matteo Renzi o del vicesegretario Lorenzo Guerini. Marino è stato convocato in largo del Nazareno e oggi con un’intervista il capigruppo del Pd al Senato Luigi Zanda chiede al sindaco di «obbedire» al partito e di cambiare gli assessori, come gli è stato ordinato. E a questo punto la vicenda da romana diventa nazionale.

Era da anni che non si vedeva uno spettacolo del genere. Un sindaco scelto con le primarie e poi eletto dai cittadini viene sbugiardato da una segreteria di partito che vorrebbe imporgli i nomi degli assessori. Dettano legge ras e capetti di corrente che non sono stati votati da nessuno (anzi, molti di loro hanno perso le primarie per cui hanno gareggiato) o hanno conquistato un posto con la riffa delle preferenze. Non per cambiare la città, sia chiaro, o per rovesciare il sindaco ma ammettendo le loro responsabilità. No, si chiede il commissariamento, togliere potere al sindaco incontrollabile e restituirli al partito, anzi, al Partito, cone se esistesse ancora quello con la maiuscola. Dimenticando che Marino fu scelto da Goffredo Bettini e poi eletto sindaco in un momento in cui l’intera segreteria cittadina era dimissionaria, la dirigenza si era volatilizzata e nessuno voleva metterci la faccia. Era la primavera del 2013, Grillo era ancora fortissimo e faceva paura, Alfio Marchini stava macinando voti, all’epoca i coraggiosissimi dirigenti del Pd romano che oggi reclamano le dimissioni si nascosero dietro la figura del chirurgo. Quello che oggi gli viene imputato, di essere un alieno estraneo alla città, un anno e mezzo fa sembrò essere il suo punto di forza. Se Marino avesse vinto, avrebbe trascinato anche il Pd. Se avesse perso, sarebbe stata unicamente colpa sua.

Roma non è l’unico caso nazionale. C’è l’Emilia che sta per andare al voto nell’assoluta disaffezione dell’elettorato. Ma in quel caso dalla segreteria nazionale è arrivata l’indicazione opposta, non disturbare il candidato Stefano Bonaccini, in nome dell’autonomia del partito regionale. Il Pd, il Partito della Nazione, dopo pochi mesi all’ombra della leadership dello Statista internazionale Renzi, sembra già un partito della Prima Repubblica allo stato terminale. Divisa in correnti individuali (i micro-notabili del politologo Mauro Calise vivono, anzi prosperano) e con l’arroganza che deriva dalla certezza dell’impunità (politica). Se c’è un solo partito di governo in campo, quello di Renzi, se non esiste nessuna alternativa, lo scontro si sposterà tutto all’interno, come avveniva nella vecchia Dc. Calcoli miopi, perché poi un’alternativa si trova sempre, a Roma e in Italia, magari dalla parte sbagliata. E infine: come avrebbe reagito il sindaco di Firenze Matteo Renzi se da Roma il Pd lo avesse convocato per consegnargli la lista degli assessori?

Per questo Marino sarà indifendibile. Ma peggio di lui un partito che lo scarica così. Con quale coraggio.

«Alla mobilitazione in strada si uniscono i consigli comunali che continuano a pronunciarsi contro lo Sblocca Italia e chiedono al governatore della Basilicata,e al capogruppo dei socialdemocratici all’Europarlamento, di impugnare l’articolo 38 e salvare Regione e cittadini dai rischi ambientali e sanitari che comporterebbero le trivellazioni».

Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2019 (m.p.r.)

La pioggia non ferma la protesta in Basilicata contro lo Sblocca Italia. Anche ieri circa un migliaio tra studenti e cittadini, secondo i dati diffusi dagli organizzatori, hanno manifestato a Potenza, arrivando in corteo fino al palazzo della Regione, per continuare a dire no alle ricerche petrolifere e alle trivellazioni autorizzate dallo Sblocca Italia e che minacciano la regione. Al corteo del capoluogo ieri si è unita anche la protesta di circa un paio di migliaia di cittadini e studenti a Venosa. Il consiglio comunale del centro lucano ha chiesto alla Regione di impugnare anche gli articoli 35, 36 e 37 del decreto Sblocca Italia, per non favorire lobby dei rifiuti oltre a quella del petrolio. È proseguita così anche ieri la protesta, arrivata al sesto giorno consecutivo, che vede gli studenti protagonisti e motore propulsivo. Intanto alla mobilitazione in strada si uniscono i consigli comunali che continuano a pronunciarsi contro lo Sblocca Italia e chiedono al governatore della Basilicata, Marcello Pittella del Pd, fratello di Gianni, capogruppo dei socialdemocratici all’Europarlamento, di impugnare l’articolo 38 e salvare Regione e cittadini dai rischi ambientali e sanitari che comporterebbero le trivellazioni. Il presidente avrebbe rassicurato i cittadini dicendo di non avere intenzione di impugnare l’articolo 38. Ricerche e perforazioni, ha detto Pittella, avverranno nel pieno rispetto della salute dei cittadini e dell’ambiente.

Renzi vuole rottamare la politica ambientale degli ultimi vent’anni. Ma dovrebbe rottamare i governi dei condoni edilizi, ambientali, fiscali: cioè i governi Berlusconi.

Articolo21.org, 17 novembre 2014

Il governo Renzi, fin qui, ha voluto fortemente quel decreto Sblocca Italia col quale si cerca di far ripartire edilizia e lavori pubblici riducendo o cancellando tutele, vincoli e controlli sull’uso del territorio. L’esatto contrario di quel Salva Italia di cui abbiamo urgente bisogno, cioè del ripristino di strumenti di verifica, della elaborazione di piani nazionali e regionali idrogeologici, della loro pianificata attuazione in un quindicennio. Invece Matteo Renzi vuol “rottamare gli ultimi vent’anni di politica ambientale” con ciò individuando il “nemico” nelle Regioni. Alcune, a cominciare dalla sua Toscana, gli rispondono che una colpa fondamentale ce l’hanno i condoni edilizi e ambientali decisi dal governo. Già, da quale governo negli ultimi vent’anni? Dai governi Berlusconi, dell’ “amico” e alleato Silvio, a partire dal 1994 per chiudere col 2009, a volte edilizio e ambientale, altre edilizio e fiscale. Congedo col Piano Casa che le Regioni stanno ancora riproponendo col “gonfiamento”, fra l’altro, di cubature per l’edilizia esistente. Quindi Renzi dovrebbe anzitutto “rottamare” Berlusconi e i suoi governi. Cerchiamo di fare discorsi un po’ più seri risalendo alle cause, alle origini di questa vicenda pluriennale, dalla quale escono sfasciati sia il territorio che lo Stato italiano.

Novembre 1966: alluvioni tragiche di Firenze e Venezia. 1970: la commissione De Marchi propone un piano pluriennale di “ricostruzione” del Paese per 10.000 miliardi di lire. Maggio 1989: finalmente il Parlamento vara la legge n. 183 che istituisce le Autorità di bacino, nazionali (dal Po al Volturno) e regionali. Subito Regioni e Comuni ricorrono contro di essa sentendosi spogliati della loro “autorità”. A Londra la Themes Authority ha riunito ben 11.000 enti operando con grande efficacia. Da noi le maggiori Autorità studiano e redigono piani di bacino, localmente contestati e parzialmente finanziati. La Lega propone di dividere in quattro segmenti regionali (Piemonte, Lombardia, Emilia, Veneto) la gestione del Po. Il Titolo V della Costituzione pone allo stesso livello Stato, Regioni, Enti locali…Nel 2000 l’Unione Europea istituisce con direttiva le Autorità di Distretto per la pianificazione e la gestione dei bacini fluviali. I piani devono essere completati per il 2009. L’Ungheria ha già presentato il piano per il bacino del Danubio, l’Italia, sei anni dopo, non ha ancora ottemperato alla direttiva, in generale.

Il rimpianto per la buona legge n. 183 dell’89 (i cui punti essenziali possono essere recuperati) è tale che numerosi e qualificati idro-geologi, amministrativisti, ecc. hanno costituito il Gruppo 183 che periodicamente si riunisce per studi, ricerche, convegni. Le loro proposte si articolano così: 1) facilitazione e incentivazione degli interventi e delle azioni preventive di difesa del suolo; 2) restituzione di centralità al tema della manutenzione programmata del territorio; 3) semplificazione delle procedure amministrative, l’accorpamento dei soggetti istituzionali chiamati in causa, la costituzione di coordinamenti efficaci che presidino l’intero percorso che va dalla programmazione all’attuazione, alla manutenzione e al controllo degli interventi di prevenzione; 4) recupero di istituzioni e meccanismi storicamente affidabili e ingiustamente abbandonati; 5) eliminazione degli sprechi nell’utilizzazione delle risorse economiche e umane disponibili.

Un bilancio: l’Istituto Idrografico Nazionale è stato a suo tempo smembrato. Così confusamente che per alcuni anni la Regione Lazio ha sospeso i rilievi dei regimi di piena e di magra del Tevere, un fiume “pazzo”. L’Istituto Geologico Nazionale è riuscito a completare soltanto al 40 % la carta del Paese. L’Istituto Sismico Nazionale è stato inglobato, ai tempi di Bertolaso, nella Protezione Civile, anche per far fuori il suo direttore, Roberto De Marco, notoriamente di sinistra. L’Istituto Meteorologico Civile ancora non esiste. Vogliamo partire da qui per una visione unitaria, nazionale dei problemi? Gli esperti riuniti nel 2012 ai Lincei hanno constatato un “vuoto di competenze”. La stessa Protezione Civile soffre oggi – dopo anni di assurdo espansionismo (fino a gestire il centenario dei Santi) – di notevoli carenze di fondi. Il Corpo dei Vigili del Fuoco, uno dei più efficienti e generosamente disponibili, rischia di essere anch’esso accorpato. Come il Corpo Forestale. Assurdità della spending review all’italiana.

Poi ci sono i punti critici, ormai cronici. Genova è precipitata dagli oltre 800.000 residenti del 1971 agli attuali 582.000 (-31%). Eppure si continua a costruire, a consumare suoli liberi, magari da rimboschire. Persino nel decennio 2001-2011 le costruzioni, pur di poco (+ 0,6%), sono cresciute, mentre i genovesi continuavano a calare (- 3,2 %). Ma chi a vedere “a monte”? Tutti, o quasi, si fermano “a valle”. A Milano l’acqua straripa da tutte le parti. Da sotto e da sopra. La falda è risalita da quando le industrie siderurgiche e tessili, grandi consumatrici d’acqua, hanno chiuso. Essa minaccia costantemente i piani bassi degli ultimi quartieri e la Linea 3 della metro. Era proprio impossibile prevederlo? No. Fra 2001 e 2011 le costruzioni non sono cresciute in città, ma la popolazione comunale è calata di un altro 1,11 % e, rispetto al picco del 1971, segna un – 28,3 %.

Milano poi è seconda nella impressionante classifica delle città più “impermeabilizzate”, appena dopo Napoli, con un pazzesco 61,47 % fra cemento e asfalto e la contigua Monza è quinta col 48,6%. Questa coltre impermeabile ha impedito a tanta acqua piovana di filtrare: in tre anni è successo a 270 milioni di tonn. di piogge in tutta Italia. Ci fermiamo nel consumo di suoli? Macché. Secondo l’Ispra, nel 2009-2012 è stata “impermeabilizzata” una superficie pari a Milano più Firenze, Bologna, Napoli e Palermo. Un record, malgrado la crisi edilizia. Il 7,3 % del Belpaese è ormai perduto, più del 10 % in Lombardia e nel Veneto (anch’esso in allarme continuo per i fiumi). Piani paesaggistici? Soltanto la Regione Toscana l’ha approvato, con la nuova legge urbanistica, fra polemiche furibonde di cavatori, costruttori, speculatori vari.

Quante sono le costruzioni abusive – ecco l’altro nemico spesso sottaciuto da giornali e tv – alzate nelle golene, negli alvei dei corsi d’acqua o su terreni collinari coperti da vincoli idrogeologici? Una quantità enorme, sempre più colossale man mano che si procede verso sud (ma anche nel Po e affluenti non si scherza) . Se questi abusi – che rendono più micidiali le piene – vengono “sanati” , i disastri non potranno che ripetersi. A Olbia, a Ischia o nella costa del Gargano (Parco Nazionale) la maggior parte delle costruzioni, se non la totalità, sono abusive.

Punti fondamentali per ripartire: attuare finalmente la legislazione UE sui Distretti idrografici, redigere progetti seri, inseriti in piani seri, finanziati non a singhiozzo. La Cassa Depositi e Prestiti si dice disposta a finanziarli se l’UE allenterà eccezionalmente i controllo sul bilancio statale. Sarebbe uno Salva Italia, con l’obiettivo, in 15-20 anni, di “ricostruire” il Paese che alla prima pioggia battente vien giù o va sott’acqua, con morti, dispersi, infortunati, sfollati, traumatizzati. A migliaia. Oltre tutto questi sono posti di lavoro, a migliaia, subito pronti, subito utili.

«Dalla Toscana alla Puglia: “Noi fermiamo il cemento, lui no” E dopo le polemiche Palazzo Chigi frena: “Ora pensiamo ai danni”». Solito scarica barile all'italiana, e alla fine nessuno ha colpa e nessuno deve dar conto di quanto fatto o non fatto.

La Repubblica, 17 novembre 2014 (m.p.r.)

Ci sono vent’anni di politica del territorio da rottamare, ha detto il premier Matteo Renzi. «Anche in regioni del centrosinistra». Con il sole che torna a scaldare la Liguria dopo cinque giorni di pioggia, il presidente della Regione Claudio Burlando è il primo a rispondergli: «Il problema del territorio è legato anche ai condoni edilizi. Non li ha fatti il premier e non li abbiamo fatti noi, sono stati fatti a Roma. Tre condoni in trent’anni». La Liguria è devastata. «Abbiamo danni per un miliardo. Come enti locali potremo arrivare a cento milioni, poi deve intervenire il Patto di stabilità». L’assessore ligure al Bilancio, Pippo Rossetti, propone a Renzi: «Deve chiedere un intervento finanziario straordinario dell’Unione europea, i trattati lo consentono. E deve chiedere di togliere dai vincoli di bilancio dello Stato cento miliardi per un piano straordinario nazionale di difesa del suolo».

È duro con il premier anche il governatore della Toscana, Enrico Rossi: «Noi abbiamo già rottamato», assicura, «abbiamo approvato la legge che blocca il nuovo consumo di suolo, fatto la legge per il divieto di costruire nelle aree a rischio idraulico, approveremo a breve il piano del paesaggio. La Toscana è un esempio, non mi sembra si possa dire altrettanto della proposta avanzata dal ministro Lupi». Rossi si riferisce al contestato Sblocca Italia che finanzia autostrade, trafori e allenta i vincoli ambientali sulle nuove opere. Il presidente del Piemonte, Sergio Chiamparino, dice di non sentirsi toccato: «Sono alla guida della Regione da quattro mesi, i problemi sono parecchi e sto provando a risolverli, anche proponendo di sforare il Patto di stabilità».
I governatori leghisti non vogliono fare polemica. Luca Zaia, alla guida del Veneto: «L’Italia ha bisogno di un piano Marshall sulla tutela dal dissesto idrogeologico. In Veneto in quattro anni abbiamo messo in piedi 925 cantieri per realizzare i grandi bacini di laminazione. In un momento di emergenza servirebbero poteri speciali ed esclusivi ai governatori, più risorse ai territori». Quindi Roberto Maroni, presidente della Lombardia: «Tutti hanno responsabilità e Renzi ha un’occasione per dare una risposta concreta. Il governo deve finanziare le vasche per contenere le piene del fiume Seveso a Milano. Ci sono venti milioni della Regione e dieci del Comune, mancano gli ottanta promessi dal governo». Nichi Vendola, dallaPuglia: «Non ci sentiamo chiamati in causa dalle parole del presidente Renzi, il monitoraggio della task force di Palazzo Chigi sul rischio idrogeologico ci dava fra le regioni che avevano realizzato la quasi totalità degli interventi. Questa tipologia di lavori, molto complicata, andrebbe ripensata. Molti interventi di competenza del ministero dell’Ambiente sono bloccati e le parole di Chiamparino sono vere: gli investimenti per la messa in sicurezza del territorio dovrebbero stare fuori dal Patto di stabilità».
In serata Renzi ha voluto fermare il conflitto istituzionale, ma ha ribadito che in alcune regioni si è costruito troppo e male: «Non parlino di condoni a me che da sindaco ho fatto un piano strutturale a volumi zero». Il premier ha poi ricordato di avere appena varato l’unità di missione contro il dissesto idrogeologico: «Ora mettiamo a posto i danni e poi cambieremo le regole». Il verde Angelo Bonelli ha difeso Renzi e ricordato che il presidente della Regione Liguria, Burlando, «ha approvato un piano casa che riempie di cemento la Liguria e ridotto il limite di edificazione dai fiumi a tre metri». Beppe Grillo attacca sul suo blog: «Tra un po’ Genova scivolerà in mare e nessuno avrà alcuna responsabilità. Renzie ( come chiama il premier) e Alfano hanno morti di pioggia sulla coscienza». Oggi il sottosegretario Graziano Delrio e il prefetto Franco Gabrielli saranno a Genova, Alessandria e Milano.
«A sorpresa è arrivata l’intesa Usa-Cina sulla riduzione delle emissioni, con il gigante asiatico che per la prima volta accetta il principio di limitare le proprie. Crescono così le possibilità di un vero accordo globale sul clima. Ma alle parole devono seguire i fatti, soprattutto a Occidente».

Lavoce.info, 14 novembre 2014 (m.p.r.)

Verso Parigi con una delusione non dimenticata

Gli esperti e l’opinione pubblica ricordano ancora la grande delusione di Copenhagen 2009. Da quella riunione si ci aspettava che sbocciasse il nuovo accordo globale sul clima fatto di target di riduzione delle emissioni di gas-serra vincolanti per ciascun paese, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India all’Europa, dal Giappone all’Australia, dal Brasile al Canada. Si trattava della quindicesima riunione della Conferenza delle parti (Cop15), il summit sul clima che ogni anno riunisce attorno a un tavolo oltre 190 paesi. Molti avevano vissuto l’attesa di quel vertice Onu nella convinzione, rivelatasi poi illusione, che quanto gli scienziati indicavano come necessario per ridurre la crescita della temperatura globale fosse di per sé sufficiente a convincere i principali emettitori a firmare un accordo vincolante.

Non andò così. E da allora il negoziato si è trascinato nel tentativo di portare i paesi più recalcitranti – ovvero tutti i grandi emettitori tranne l’Unione Europea – a un negoziato i cui risultati possano sfociare in una nuova architettura del clima globale, come quella che fu dettata dal protocollo di Kyoto. Talvolta ci si illude che piccoli passi e accordi su punti marginali possano improvvisamente e quasi magicamente produrre il miracolo di fare uscire la situazione da quello stallo che gli economisti chiamano dilemma del prigioniero. Perché mai un paese dovrebbe fare sforzi di riduzione delle proprie emissioni se i benefici saranno goduti da tutti, anche da quelli che hanno fatto uno sforzo minore e addirittura nessuno? Così, ancora una volta, si vive questa fase nell’attesa del nuovo summit, la Cop21 di Parigi 2015 dove, per necessità, si dovrà produrre il nuovo accordo. Salvo che nel frattempo le cose sono un po’ cambiate. Quest’anno è stato pubblicato il nuovo rapporto sui cambiamenti climatici dell’Ipcc, il quinto. Allo stesso tempo i paesi avanzati sono entrati in una recessione con pochi precedenti storici e quelli in via di sviluppo hanno rallentato la loro crescita economica. La recessione ha ridotto il ritmo delle emissioni, ma non ha frenato il riscaldamento globale. È utile quindi richiamare alcuni messaggi contenuti nel rapporto dell’Ipcc, per la parte che riguarda le politiche di mitigazione:

  • l’inazione da parte dei Governi appare coerente con un incremento della temperatura nel 2100 di 3,7-4,8°C. Un aumento superiore, meno probabile, rimane possibile;
  • stabilizzare le concentrazioni di gas-serra a un livello compatibile con l’incremento di temperatura a +2°C (circa 450 ppm di CO2eq) entro il 2100 richiede riduzioni delle emissioni nell’ordine del 40-70 per cento entro il 2050 rispetto ai livelli del 2010 e praticamente nulle dopo il 2100;
  • questo obiettivo implica cambiamenti radicali nei sistemi energetici, che comportino un livello triplo o quadruplo della quota di fonti di energia zero e low carbon, come rinnovabili e nucleare;
  • i propositi di riduzione al 2020 delle emissioni dichiarati dai vari paesi nella Cop16, noti come Cancún Pledges, con alta probabilità non sono consistenti con l’obiettivo +2°C (figura 1);
  • ritardare la riduzione delle emissioni al 2030 o più avanti aumenta la difficoltà della transizione e riduce le opzioni disponibili per diminuirle nella misura necessaria;
  • stabilizzare le concentrazioni di gas-serra a 450ppm equivale a una riduzione nella crescita dei consumi nel corso del ventunesimo secolo di circa lo 0,06 per cento all’anno in media (rispetto a una crescita annualizzata dei consumi pari a un valore tra 1,6 e 3 per cento per anno). I costi associati a questo valore aumenterebbero sostanzialmente nel caso di azione ritardata al 2030.

Nonostante questi chiari messaggi, molti, tra cui chi scrive, non si aspettavano uno storico risultato da Parigi 2015. A ben guardare, non sembra che sia cambiato significativamente lo schema dei benefici netti (i payoffs) percepiti da ciascun paese derivanti da un’azione coordinata di mitigazione delle emissioni. In altre parole, le condizioni del dilemma del prigioniero sono ancora lì, sostanzialmente inalterate. Poiché l’orizzonte temporale in cui si determinano i danni del cambiamento climatico è nell’ordine dei decenni e centinaia d’anni, mentre l’orizzonte in cui vanno decise le politiche di mitigazione spesso coincide con il ciclo politico-elettorale, appare difficile attendersi risultati eclatanti. Un’azione più incisiva da parte dei nostri Governi potrà essere indotta solo da un’anticipazione dei danni futuri, come certi episodi di eventi climatici estremi che già si registrano oggi in giro per il mondo, e da un’accresciuta consapevolezza del problema fornita da risultati scientifici sempre meno incerti e più precisi.

Il miracolo inatteso

Chi si occupa di politica, tuttavia, sa che a volte si può produrre all’improvviso il miracolo. E questo potrebbe essere avvenuto nei giorni scorsi. O almeno si sono forse poste le premesse per un miracolo parigino. Al termine del vertice Apec, il presidente americano Barack Obama ha annunciato a sorpresa (sembra dopo mesi di trattative segrete) un accordo con il presidente cinese Xi Jinping secondo cui i due paesi ridurranno le proprie emissioni di gas-serra di circa un terzo nei prossimi due decenni. In particolare, gli Usa ridurrebbero le emissioni del 26-28 per cento entro il 2025 relativamente ai livelli del 2005 con una netta accelerazione rispetto al livello precedentemente dichiarato del 17 per cento (tabella 1). Per parte sua la Cina “intende” cominciare a ridurre le emissioni nel 2030 e fare “del suo meglio” per far sì che in quell’anno raggiungano il picco. Ha anche concordato di aumentare la quota di consumo di energia da fonti non fossili (rinnovabili e nucleare) a circa il 20 per cento entro il 2030. In particolare, il paese procederà a installare 800-1,000 gigawatts aggiuntivi di capacità di generazione elettrica nucleare, eolica, solare e altre tecnologie a emissioni zero entro il 2030, più di tutti gli impianti a carbone esistenti oggi in quel paese.

Si tratta di un annuncio fatto dalle due maggiori economie del pianeta, che sono anche i maggiori consumatori di energia e i maggiori emettitori di gas clima-alteranti (figura 2). Come tali, hanno una particolare responsabilità nel contribuire alla riduzione delle emissioni. L’annuncio segue a distanza ravvicinata la decisione dell’Unione Europea sul proprio nuovo target vincolante di riduzione delle emissioni del 40 per cento entro il 2030 (rispetto ai livelli 1990). Un’analisi più precisa delle implicazioni dell’annuncio, soprattutto da un punto di vista numerico, saranno fornite dagli esperti nelle settimane a venire. Una prima valutazione preliminare suggerirebbe che l’intesa potrebbe evitare le emissioni per circa 640 miliardi di tonnellate di carbonio. La figura 1 riporta i nuovi scenari così come potrebbero venirsi a determinare.
Nel grafico sono riportati:
1) Uno scenario tendenziale tra i molti creati nell’ambito dell’ultimo rapporto Ipcc
2) Un secondo scenario nel quale Stati Uniti e Unione Europea implementano pienamente quanto deciso a Copenaghen, con l’Unione Europea che si spinge oltre raggiungendo il suo recente impegno in più (il 40 per cento ai livelli del 1990 entro il 2030). Gli altri paesi si muovono secondo lo scenario base.
3) Uno scenario che contiene tutto quello compreso negli scenari precedenti con Stati Uniti e Cina pronti a rispettare gli impegni annunciati.
La Cina maturerebbe un picco delle emissioni di CO2 nel 2030 e Stati Uniti riducendo le emissioni del 27 per cento rispetto ai livelli del 2005 entro il 2025.

La questione politica

Rimane ovviamente in piedi la principale questione politica. Riuscirà l’amministrazione Obama a rispettare questo impegno? Qualche tempo fa, l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale) ha proposto nuove norme per ridurre le emissioni delle centrali elettriche esistenti. È molto poco probabile che sia sufficiente per ottenere una diminuzione del 28 per cento. E da dove verranno gli ulteriori tagli? Il Congresso a maggioranza repubblicana aspetta una risposta, avversa questa mossa perché è scettico sui cambiamenti climatici e ne sottolinea solo i costi economici: non è detto che il presidente Obama abbia tutte le carte in mano per potere fare da solo.

Per la prima volta in assoluto, la Cina ha fissato un limite alle sue emissioni e questo è un buon risultato. La formulazione dell’impegno non è definita in modo stringente, ma resta una promessa importante. Affermare di voler realizzare un picco per le emissioni intorno al 2030 (non entro il 2030 ma vicino a quella data) lascia spazio per qualche ulteriore margine. Lavorare per ottenere il 20 per cento della sua energia da fonti non fossili entro il 2030 resta un secondo importante obiettivo. In queste ore, molti analisti sostengono che l’obiettivo della Cina è vago e non abbastanza ambizioso e per di più alcuni modelli suggerivano che le emissioni della Cina avrebbero in ogni caso raggiunto il picco intorno al 2030. D’altra parte, la Cina si era sempre rifiutata di indicare un termine per le proprie politiche e il fatto che ora lo abbia fatto (sebbene in modo non vincolante) rappresenta comunque un passo in avanti. Così come molto impegnativo (forse troppo) è il secondo obiettivo dichiarato: realizzare il 20 per cento della sua energia elettrica da fonti non fossili. Resta un accordo storico, che sapremo leggere meglio nelle prossime settimane. Ma sicuramente costituisce un importantissimo viatico per l’appuntamento di Cop21 a Parigi nel 2015. Per ora, bisogna credere che il bicchiere, una volta tanto, sia mezzo pieno.
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