L'Espresso, 11 dicembre 2015
Con questo post nasce il mio blog "Senza zucchero". Scriverò inchieste, notizie, commenti e analisi sul potere. Senza fronzoli, senza sconti. Per nessuno.
Ordunque è lui, il prefetto di Roma, il mr. Wolf che deve salvarci dai cattivi di Mafia Capitale. È "Peppino", come lo chiama l'ex dg Rai Mauro Masi, l'uomo che deve ripulire i sette colli dalla lordura dei fascio-ladroni e dei politici corrotti. È lui che in questi giorni dichiara e tranquillizza («non scioglierò il comune, sarebbe una vergogna») e che vuole dare la scorta a Marino. È sempre lui, uomo di Stato, che il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha mandato a spulciare le carte degli appalti del Campidoglio.
Epperò sarà davvero Giuseppe Pecoraro l'uomo giusto per l'impresa? Il nocchiere senza macchia che a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana, finita in polemiche continue (dai funerali di Priebke all'annullamento dei matrimoni gay), ma per l'inchiesta napoletana sulla P4. Ossia l'organizzazione capeggiata dal faccendiere Luigi Bisignani che manovrava nell'ombra il potere politico, gli affari milionari e le nomine pubbliche di società di Stato e servizi segreti.
Oggi sembra che se lo siano dimenticati tutti. Ma il nome di Pecoraro fa capolino spesso e volentieri tra le carte dell'inchiesta. E non poche sono le telefonate tra il prefetto e Bisignani, condannato a 1,7 anni i reclusione per una sfilza di reati, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.
Tre anni fa i colloqui tra i due sodali hanno incuriosito non poco il pm Henry John Woodcok, che cercò di capire come mai il prefetto chiamava il faccendiere discutendo di questioni assi sensibilil, come riunioni del Copasir e affari di imprenditori prodiani come Angelo Rovati. Così il magistrato, il 23 febbraio di quell'anno, convocò il prefetto nei suoi uffici (Pecoraro non è mai stato indagato per la vicenda) in modo da avere delucidazioni. Lì il poliziotto, nominato prefetto su proposta dei sottosegretari berlusconiani Nitto Palma e Mantovano, ammise che sì, Bisignani lui lo conosceva bene. «Dal 2004, da quando ero capo della segretaria del capo della Polizia De Gennaro. Io parlo con Bisignani come si parla ad un amico. Siamo amici di famiglia, conosco anche la moglie», spiegò.
Pecoraro, rappresentante dello Stato, frequenta Bisignani anche se sa che il lobbista anni prima è stato arrestato e condannato in via definitiva per il riciclaggio della maxitangente Enimont allo Ior. Incredibilmente, il prefetto nega a Woodcock di sapere che l'amico è stato anche iscritto alla loggia segreta P2. «Mi risulta, però, che sia legato al sottosegretario Gianni Letta...Escludo che il Bisignani si sia speso per farmi ottenere la nomina di Prefetto di Roma: la mia carriera e il mio curriculum sono ineccepibili».
Meno ineccepibile, secondo i pm, è il tenore delle loro conversazioni. I due al telefono parlano di tutto. Se Gigi chiede all'amico di intervenire nella scuola della figlia dell'ex ministro Stefania Prestigiacomo perchè infestata «da cinghiali», Pecoraro cerca di sapere dal lobbista informazioni su un progetto per un Parco Giochi a Val Montone. «Bisignani mi disse che c'era dietro anche Angelo Rovati, che chiamai facendo presente che c'erano problemi di viabilità legati all'apertura del predetto parco. Perchè chiamai Bisignani? È un imprenditore che conosce tutti. Ho richiamato poi direttamente Rovati perchè avevo già parlato con la presidenza del Consiglio senza successo. Rovati lo conosco da tanti anni, non volevo danneggiare l'iniziativa». In realtà è lo stesso Bisignani a spiegare ai magistrati che Pecoraro lo aveva chiamato «per mettere in guardia Rovati, consigliandogli di dirgli di uscire dall'affare». Per i pm napoletani il colloquio telefonico è perfetta metafora del potere della ragnatela del lobbista: «Che un prefetto ritenga normale rivolgersi a un privato cittadino per contattare un imprenditore coinvolto in un procedimento amministrativo di sua competenza la dice lunga sull'anomalia Bisignani».
In altre telefonate Pecoraro spiega al pidduista di aver parlato con il segretario di Letta (ora ai servizi segreti), in un'altra chiede a Bisi di trovare lavoro a un suo amico, «l'ex collega Mario Esposito, prefetto in pensione, che voleva lavorare come consulente in materia di sicurezza». In un'altra telefonata tra i due si parla addirittura di una riunione del Copasir, il comitato di controllo dei nostri 007, che avrebbe dovuto discutere di alcune accuse lanciate da Massimo Ciancimino a De Gennaro. «Appare inquietante» chiosano i magistrati napoletani che indagano sulla P4 «il fatto che il Bisignani e il prefetto Pecoraro parlino dell'ordine del giorno del Copasir, se si pensa che il Bisignani è soggetto assolutamente estraneo alle istituzioni dello Stato».
Pecoraro, però, non è d'accordo: l'amico Gigi lo ha sempre tenuto in gran conto: «Le accuse contro di lui? È un aspetto che non conosco, mi stupisce e mi auguro che non sia vero» disse a "Repubblica" quando Bisi venne arrestato «Detto ciò non voglio esprimere alcun giudizio. Io in questa vicenda ci sono entrato come i cavoli a merenda».
Ma l'uomo che qualcuno vorrebbe commissario di Roma al posto del sindaco Marino s'è fatto notare anche per altre vicende. Se recentemente ha difeso i poliziotti che hanno manganellato gli operai dell'Ast di Terni, lo scorso aprile ha giustificato l'agente immortalato a "camminare" sul costato di una ragazza inerme finita in terra durante una manifestazione. «Il poliziotto non doveva essere lì, è vero, ma forse voleva dare una mano ai suoi colleghi: per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare», disse.
Ma Pecoraro è stato protagonista anche della scandalosa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma e Alua Shalabayeva, un'azione definita «illegale» sia dall'Onu che da Amnesty International e gravata, secondo la Cassazione, da «manifesta illeggittimità originaria». Un abuso, da stato di polizia: la donna aveva i documenti in regola, ma le autorità italiane non vollero vedere. Piegate da motivazioni ancora oscure. Ebbene quel provvedimento, deciso dal ministero dell'Interno, portava la firma del prefetto Pecoraro.
Già. L'intoccabile Peppino, promosso in questi giorni a salvatore della Patria.
Il Fatto Quotidiano.it, 11 dicembre 2014 (m.p.r.)
Si guardano dalle due rive opposte del Tevere, la Conferenza Episcopale Italiana e il Quirinale. E da oggi a dividerli, oltre al fiume, c’è anche la valutazione delle conseguenze che la corruzione comporta per la vita politica nel Paese. Un «politico corrotto» è «più eversivo» di chi fa antipolitica in maniera onesta, ha scandito alla Radio Vaticana Giancarlo Maria Bregantini, arcivescovo di Campobasso Bojano e presidente della Commissione Cei per gli affari sociali e il lavoro. Una precisa risposta a Giorgio Napolitano che con l’opinione pubblica ancora attonita di fonte all’inchiesta “Mondo di mezzo”, l’inchiesta che ha svelato gli indicibili accordi tra la criminalità e la politica romana, ha ritenuto opportuno scagliarsi contro la «antipolitica» che è «patologia eversiva». A poche ore di distanza, la Conferenza dei vescovi è l’unica istituzione a prendere una posizione critica sulle parole dell’inquilino del Colle.
Con la tempesta di Mafia Capitale che soffia furiosa sulle istituzioni e sui palazzi del potere romano, uno dei pochi spiragli di luce sembra arrivare da oltretevere. «Corruzione e antipolitica, alla fine, sono il medesimo risultato triste di un fenomeno di mancanza di etica all’interno della politica – ha spiegato monsignor Bregantini – dobbiamo creare un’economia dove le decisioni non siano prese da pochi in stanze oscure, ma che siano trasparenti. Ci devono essere organi di controllo, la partecipazione della base. E’ il buio che crea la corruzione o l’antipolitica». Le parole dell’arcivescovo suonano come una chiara risposta a Giorgio Napolitano: «La critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obiettività, senso della misura e capacità di distinguere è degenerata in anti-politica, cioè in patologia eversiva», aveva detto il capo dello Stato mercoledì all’Accademia dei Lincei, scatenando la reazione del Movimento 5 Stelle e della rete Internet.
Alla domanda se sia più eversivo un politico corrotto o un antipolitico onesto, il capo-commissione Cei risponde senza titubanze: «Un politico corrotto». «E’ la corruzione che crea entrambi i guai: l’allontanamento dalla politica e poi, di conseguenza, il disservizio – è il punto di partenza del ragionamento di Bregantini – però, non stiamo lì tutti, con l’indice puntato contro pochi; dobbiamo tutti insieme dire: creiamo delle istituzioni partecipative che ci permettano di tenere sotto controllo i politici, non solo additandoli ma condividendo, imparando però anche da noi stessi che il denaro, se non lo sai usare, ti schiavizza». Bregantini si dice preoccupato per la situazione politico-sociale ed economica dell’Italia, «però – aggiunge – c’è anche una fortissima reazione morale che c’è stata, ad esempio, dopo la questione di Roma: ha dimostrato che c’è una società sana, che non si rassegna».
Un intervento che si iscrive nel solco della linea dettata da Papa Francesco fin dai primi mesi di pontificato. Era il 25 luglio 2013 quando da una favela di Rio il pontefice esortava i giovani a «non scoraggiarsi mai» nonostante la «corruzione da persone che, invece di cercare il bene comune, cercano il proprio interesse», e si ripeteva l’8 novembre scagliandosi contro la «dea tangente». Le «forme di corruzione, oggi così capillarmente diffuse offendono gravemente Dio», avvertiva il 12 dicembre mentre i richiami più forti sono arrivati nel 2014, il secondo anno di pontificato, a cominciare dalla messa tenuta in Vaticano per i politici durante la quale il 24 marzo Francesco disse: «No alla corruzione, agli interessi di partito e ai dottori del dovere e ai sepolcri imbiancati». I danni causati dai «corrotti economici, corrotti politici o corrotti ecclesiastici li pagano i poveri», avvertiva Bergoglio il 6 giugno per poi tornare sull’argomento poco più di un mese fa, il 23 ottobre: «Le forme di corruzione che bisogna perseguire con maggiore severità sono quelle che causano gravi danni sociali come le frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione o qualsiasi sorta di ostacolo alla giustizia».
Ha scelto una personalità di alto profilo, la Conferenza Episcopale Italiana, per commentare le parole del presidente della Repubblica. Presidente della Commissione vescovile per gli affari sociali e il lavoro, prima di arrivare a Campobasso nel 2007, Giancarlo Maria Bregantini è stato un vescovo di frontiera: per 13 anni ha guidato la diocesi di Locri, dove scelse per sé un ruolo di forte opposizione alla criminalità organizzata.
Quando nell’ottobre del 2005 venne ucciso Francesco Fortugno, vicepresidente della Regione Calabria, Bregantini aveva incoraggiato i giovani ascendere in piazza e far sentire la loro voce contro la mafia. La sua azione contro la ndrangheta ha guadagnato la ribalta dopo la strage di Duisburg, quando aveva ottenuto che per le vittime ci fossero i funerali pubblici, era riuscito a incidere sulle donne nel tentativo di riportare la pace tra le famiglie della faida di San Luca e si era recato in Germania per incontrare gli emigrati calabresi. Ma sono in molti ancora quelli che lo rimpiangono nella Locride anche per il suo ruolo di organizzatore ed ideatore di tante cooperative sociali che hanno dato lavoro ai giovani dell’area, una delle più povere e violente della regione.
Quest’anno Papa Bergoglio gli ha affidato la redazione delle meditazioni della via crucis al Colosseo e secondo voci che circolano Oltretevere ha le carte in regola per approdare alla guida di una grande diocesi come Roma e Napoli o per un incarico di rilievo all’interno della curia romana.
Si dice da tempo, con cicliche conferme, del divorzio dei cittadini dalla politica. Colpisce però che siano spesso i sindaci – non estranei alla politica – a manifestare sfiducia verso le decisioni prese nei palazzi lontani. Questo giornale ha dato conto della rivolta di amministratori sardi contro “Sblocca-Italia”. Sorpresi che dietro il programma di semplificare i processi per ammodernare il Paese ci sia l'idea di favorire lo sfruttamento intenso del territorio, e quindi l'impoverimento di luoghi, pure dove si vive dalla conservazione della natura. La prima insidia dall'arrembaggio di trivelle per ricavare inezie di gas o petrolio, nulla a che vedere con le pratiche di efficienza energetica a tutela della salute, come vorrebbe il buonsenso prima che la l'Europa.
Il profilo aggressivo di “Sblocca-Italia” è spiegato nel libro online scaricabile da «Altraeconomia» : Rottama Italia, sedici opinioni autorevoli (Settis, Montanari, De Lucia, Salzano, Petrini, ecc.) contro il “doppio salto mortale all’indietro”, la retorica del “fare” oltre le leggi.
Da più parti si pensa di ricorrere alla Consulta contro vari articoli del provvedimento, un insopportabile disegno di spoliazione di beni comuni, di «accumulazione capitalistica per espropriazione», direbbe il geografo-politologo David Harvey. Ma attenzione: all'orizzonte c'è anche una bozza di legge in materia urbanistica presentata dal ministro Maurizio Lupi: del tutto indifferente ai caratteri del territorio italiano che affonda nel fango e nell'incuria (compromessi, nell'ultimo mezzo secolo, 5 milioni di ettari di suolo agricolo). La legge garantisce la distribuzione di crediti edilizi per favorire la speculazione dei suoli (la consustanzialità tra proprietà privata e diritto a costruire – è stato scritto), la dissolvenza della pianificazione comunale con l'istituzione di indennizzi alle trasformazioni negate, la disapplicazione delle disposizioni sugli standard urbanistici; tutta roba sconsigliabile mentre le bolle immobiliari minano l'economia. Così l' accanimento della crisi disorienta e spiana la strada ad iniziative che violano misure di tutela ambientale e paesaggistica convenute in Europa.
Peccato, a proposito di disorientamento, che le manifestazioni siano normalmente contro le manomissioni più immediate e sotto casa, e raramente per difendere le ragioni che presiedono alla conservazione di habitat preziosi. Penso all'insofferenza verso la norme per custodire le biodiversità. In Francia e Germania si festeggia per il riconoscimento di un sito d'interesse comunitario che accresce il prestigio di una regione. Dalle nostre parti la presenza di un Sic incupisce, come la diagnosi di una malattia, un'area ben protetta come il colesterolo alto.
Colpiscono i toni astiosi per le cautele chieste nella realizzazione della Sassari-Olbia nei pressi di un Sic. Non so se le prescrizioni siano eccessive (peraltro a cura di uffici molto competenti). So che sono spropositate le invettive, il sarcasmo a uffa sulla fauna selvatica ai bordi del percorso, che saprebbe dove migrare – ci spiegano i soliti nemici delle regole per lo sviluppo buono.
Ripenso, per dire del disorientamento, allo slogan antipatico “l'uomo prima del muflone” che non ha aiutato le comunità del Gennargentu. Accompagnato dagli auspici estivi per improbabili apparizioni della foca monaca.
Il governo regionale ha coerentemente protestato contro “Sblocca-Italia”, segno di ostilità all'idea di affrancare gli investimenti dalle valutazioni da vicino, pur di realizzare briciole di Pil. E su questa traccia, nello sfondo il principio di sussidiarietà, ha aperto il confronto sul disegno di legge già deliberato dalla giunta, quel piano-casa forever che non persuade. Appunto perché attribuisce direttamente ai proprietari di immobili la facoltà di trasformarli in contrasto con i piani comunali e con impatto casuale su una miriade di situazioni delle quali il legislatore non può ovviamente sapere granché; come lo Stato non sa nulla dell'effetto delle trivellazioni ad Arborea o chissà dove nell'isola.
Il manifesto, 9 dicembre 2014
Come hai scoperto che alcuni tuoi assessori erano corrotti?
Era venuto da me un imprenditore che mi denunciava dei fatti illeciti sugli appalti però senza fare i nomi. La terza volta che viene gli dico: ingegnere’, era un ingegnere, si chiamava Di Leo, ‘o lei fa i nomi o io la denuncio per calunnia’. Lui risponde: ‘non mi rovini, ho famiglia’. ‘Lei è venuto a dirmi che io sono quello del rigore ma non si fida di me. Si fida dei magistrati?’. Mi faccio chiamare il procuratore della Repubblica e gli dico: ‘Le mando questo signore, non me lo spaventi e faccia quello che crede’. Poi però, per paura che l’ingegnere uscito dal municipio cambiasse idea, gli metto appresso un vigile della mia scorta, si chiamava Barbero, che lo accompagni in procura. Dopo tre mesi sono arrivati gli arresti.
Cosa era successo?
Scoprirono un giro di corruzione miserabile. Avevamo un appalto da centinaia di milioni di lire, allora una cifra da capogiro, per l’informatizzazione di tutto il comune, anagrafe, bilancio, servizi sociali. A pagare tangenti e viaggi di piacere era una ditta di informatica americana. Fu arrestato il mio vicesindaco socialista. Alla federazione del Psi fecero letteralmente piazza pulita: tesoriere, il segretario, alcuni assessori. Beccarono anche due dei nostri, due comunisti che si erano limitati a farsi pagare viaggi di piacere. Scoprii che nella lista degli allegri viaggiatori c’era anche il mio nome, ma con me non ci avevano neanche provato, al mio posto avevano offerto il week end a un democristiano.
Ma qui iniziano i tuoi problemi politici.
Craxi venne a Torino e chiese in piazza la mia testa. Disse: ‘Novelli non può più fare il sindaco, non gode più della fiducia del Psi’.
Il Pci, il tuo partito, come reagì?
Qualcuno si è schierato subito con me, come l’allora segretario di federazione Piero Fassino. Craxi mandò alla federazione torinese del Psi un commissario straordinario (fu scelto Giuliano Amato, ndr), fui accusato di non aver «risolto politicamente la questione». I socialisti uscirono dalla giunta, io mi dimisi e formammo una giunta monocolore comunista con qualche indipendente. I socialisti in teoria ci davano l’appoggio esterno, ma mi fecero venire l’esaurimento: ogni giorno non sapevo neanche se in consiglio avevo il numero legale. Siamo andati avanti fino a novembre ‘84 quando hanno convinto, diciamo così, due compagni comunisti di passare al gruppo socialista. Il 25 gennaio dell’85, a tre mesi dalle elezioni, ci fu un ribaltone. E venne eletto un sindaco socialista sostenuto da una giunta pentapartito. Così quello che aveva chiesto Craxi in piazza nel marzo dell’83, e cioè la mia testa, si era avverato.
Poi però il Pci torinese alle elezioni dell’85 ti ricandidò.
Ma il Pci era rimasto isolato, fummo battuti dal pentapartito.
E dal Pci nazionale quali segnali arrivarono?
Al congresso d Milano, che si svolgeva proprio in quei giorni, intervenni e spiegai che l’iniziativa era partita dal sindaco quindi non dovevamo temere nulla: noi ci siamo sempre comportati con rigore. Quando la commissione ristretta del comitato centrale discusse i nomi della direzione del partito, nell’elenco c’era il mio nome. Ma quel nome fu tolto.
Chi lo tolse?
E’ passato molto tempo, lasciamo stare. I protagonisti si saranno emendati. Partì lancia in resta il segretario regionale dell’Emilia che diceva: attenzione, noi abbiamo tutte le giunte con i socialisti, se ora mettiamo Novelli in direzione sembra che lo abbiamo premiato perché ha fatto questa cosa contro il Psi. Ricordo che Nilde Jotti dalla tribuna del comitato centrale si rivolse a me con queste parole: compagno Novelli, quando si hanno incarichi così delicati bisogna saper cantare e portare la croce. Molti anni dopo, leggendo il libro di Luciano Barca, Cronache dall’interno del vertice del Pci (Rubettino, 2005, ndr) ho scoperto com’è andata. Barca scrive così, raccontando del congresso: «La rivelazione di Novelli mette subito allo scoperto che nella Direzione del Pci convivono ormai due posizioni opposte: c’è chi considera il sindaco un giusto che ha fatto il suo dovere e chi, come Macaluso, un “povero cretino moralista”». Barca racconta anche che poi in commissione elettorale sulla proposta di portare me in direzione, sostenuta da Minucci, Pecchioli e Pajetta e con il favore di Berlinguer, «la proposta è respinta sotto l’attacco della destra» (si tratta ovviamente della destra del Pci, ndr).
Ma come può succedere che in un partito non ci si renda conto che il proprio compagno è un mascalzone?
Non so spiegarmelo. Un partito deve sempre tenere alta l’attenzione. Io avvertii i primi sintomi di inquinamento all’inizio degli anni 80. A Torino furono le prime avvisaglie di Tangentopoli, che però arrivò molto dopo. Ma nessuno poteva cadere dal pero: il primo segnale clamoroso lo dette proprio Berlinguer, nel luglio dell’81, nella famosa intervista a Eugenio Scalfari sulla questione morale. Dove dice: «I partiti hanno degenerato».
Il manifesto, 7 dicembre 2014
Eppure le avvertenze alla prudenza vennero fatte anche allora, ma non furono ascoltate. Nel luglio del 2011 sei premi Nobel per l’economia (Kennet Arrow, Peter Diamond, Charles Schultze, William Sharpe, Eric Maskin e Robert Solow) rivolsero un appello al Presidente Obama a non piegarsi alla regola del raggiungimento del pareggio di bilancio annuale, considerandola del tutto disastrosa per una corretta politica economica.
Più modestamente, un’assemblea indetta da giuristi democratici a Roma, in prossimità del voto finale in quarta lettura al Senato, avvenuto nell’aprile 2012, invitava i parlamentari del Pd, facenti parte della maggioranza che sosteneva il governo Monti, benché favorevoli al pareggio di bilancio, ad abbandonare l’aula al momento del voto in modo da non fare scattare la maggioranza dei due terzi che avrebbe impedito la convocazione del referendum cosiddetto confermativo. Un referendum che si applica alle norme di revisione costituzionale che non sono approvate in entrambe le camere con la maggioranza dei due terzi e che – stranezza della nostra legislazione – non prevede, a differenza dei referendum abrogativi di leggi ordinarie, alcun quorum. D’altro canto non era l’Europa a chiedercelo. Infatti quest’ultima si mostrava indifferente al tipo di norma che i paesi membri avrebbero adottato al riguardo, se di livello costituzionale o meno. La Francia ad esempio non seguì la prima strada.
Se il consiglio fosse stato seguito si sarebbe avuta almeno una larga discussione di politica economica nel nostro paese e ogni forza politica sarebbe stata costretta a pronunciarsi apertamente, non potendo ricorrere all’astensione nel voto referendario.
Rispose Anna Finocchiaro, presente all’assemblea nella sua qualità di Presidente del gruppo senatoriale Pd, con un cortese ma fermo discorso, nel quale precisava la diversità dei punti di vista e soprattutto la sua appartenenza ad un partito che non tollerava che, una volta presa una decisione, i suoi parlamentari si comportassero in modo discorde. Motivazione davvero incauta se messa a confronto con quanto sarebbe avvenuto di lì a non molto, quando oltre cento deputati nel segreto dell’urna disobbedirono alla indicazione di voto del loro partito sulla elezione del Presidente della Repubblica.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia. La applicazione della norma tanto invocata prima da Berlusconi, poi da Monti e santificata da maggioranze senza precedenti, inizialmente anticipata addirittura al 2013, è stata poi posticipata da Renzi al 2017. Né sono state da aiuto le elucubrazioni susseguenti alla presentazione del Def 2015 sulla misurazione del Pil potenziale da cui si deriverebbe il c.d output-gap in base a cui si valuterebbe la distanza dal raggiungimento del pareggio strutturale. I contorcimenti sulle differenze fra Pil reale e Pil potenziale, fra pareggio di bilancio contabile e quello strutturale nascondono solo la cattiva coscienza di chi ha compreso che la norma non sta in piedi ma non si rassegna alla brutta figura di fare marcia indietro.
Ma anche questo gioco a nascondino ha il fiato corto. Venerdì un articolo molto puntuale del Sole24Ore gettava la maschera ed affermava chiaramente che “è tempo di ripensare l’utilità del pareggio di bilancio”, fino a definire che l’idea di diminuire il numeratore del rapporto Debito/Pil, su cui si basa tutta la politica di austerità e il famigerato fiscal compact, è “una concezione priva delle più elementari basi logico-razionali”.
Quindi quella norma va abolita. A questo scopo è partita la campagna «col pareggio ci perdi» per la raccolta di firme in calce ad una legge di iniziativa popolare che mette i bisogni delle persone prima della contabilità. Si stanno formando comitati in tutte le città. Se ne tornerà a parlare il 18 dicembre a Roma, alle 17.30 presso l’Auditorium di via Rieti con Stefano Rodotà, Susanna Camusso, Maurizio Landini coordinati da Norma Rangeri
Non tutti questi governi si sono comportati allo stesso modo, ma nessuno ha messo la crisi al primo posto della sua agenda e sta di fatto che stiamo affogando nel capitalismo in crisi. La sinistra è ridotta ai minimi termini, partiti dissolti, sindacati in crisi per la crescita della disoccupazione, le innovazioni tecnologiche, le politiche dei vari governi, fondamentalmente antioperaie. L’attuale governo di Matteo Renzi procede con misure reazionarie, oltre che provinciali. Anche la mondializzazione viene affrontata senza minimamente avere coscienza di come progresso produttivo e tecnologie della comunicazione ci mettono di fronte a una situazione del tutto nuova.
Crisi economica, crisi finanziaria, mancanza di una vera unità europea – la Germania va per i fatti suoi — indebolimento delle banche centrali, compresa la Banca d’Italia, disattrezzate e impotenti di fronte alle novità della crisi. Su questo vorrei citare il prezioso volumetto di Pierluigi Ciocca con un titolo di massima elequenza: “La Banca che ci manca. Le banche centrali, l’euro, l’instabilità del capitalismo”, pubblicato da Donzelli.
In questo quadro difficile, e anche pericoloso, non sono affatto da sottovalutare le tensioni internazionali (Ucraina) e il crescere dei flussi migratori verso paesi che non sono più in grado – come nel passato – di utilizzare questi aumenti di popolazione, con la minaccia di conflitti pericolosi.
E la nostra Italia di oggi? Che sta affondando nelle paludi acide di questa lunga e profonda crisi? Matteo Renzi non durerà a lungo, ma a cosa aprirà le porte? Tempi pericolosi ci aspettano. Bisogna resistere, e per resistere lavorare anche in piccoli gruppi per un’analisi seria della crisi attuale, e su questo impegno formare minoranze attive che portino a iniziative politiche e culturali, soprattutto per tentare di riprendere il cammino verso una società libera dalle catene di un capitalismo in massima crisi. Speriamo
manifesto, 5 dicembre 2014
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono talvolta interessi loschi, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto federazioni di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi e di soffocare in una palude». A quanti sono tornate in mente in queste ore le parole di Enrico Berlinguer nella famosa intervista alla Repubblica del febbraio 1981? Sono trascorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.
Nel venticinquesimo della morte ci si ricorda finalmente di Leonardo Sciascia. Anche Sciascia lanciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: marcia alla conquista del paese. Alludeva al modello siciliano d’impasto tra politica e mafia.
Un impasto nel quale dapprincipio la mafia intimidisce e corrompe, poi penetra le istituzioni e si fa Stato. Ripetutamente Sciascia mise in guardia dal rischio che questo modello si generalizzasse. Oggi fingiamo di scoprire che mafia e ‘ndrangheta si sono stabilite a Milano e controllano vasti settori dell’economia nazionale. E guardiamo atterriti al nuovo romanzo criminale della mafia romana, edizione aggiornata di quell’universo orrendo che ruotava intorno alla banda della Magliana, coinvolgendo anche allora mafia, politica e terrorismo neofascista.
In questi trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana memoria. Della Milano da bere e del patto scellerato tra Stato e capitale privato che aprì le voragini del debito pubblico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata (con la complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari; l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in Costituzione.
Il presidenzialismo negli enti locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento monocratico del comando è andato di pari passo con la disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa delle primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la dimensione partecipativa e la funzione di orientamento culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo, premiando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati sempre più spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un meccanismo analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa nostra di comandare nella Palermo di Lima, Ciancimino e Gioia.
Ma un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie: l’avvento di una politica che si pretende post-ideologica, che ha significato in realtà il congedo di gran parte della sinistra italiana dalle lotte del lavoro e da una prospettiva critica nei confronti degli spiriti animali del capitalismo. Non è necessario, certo, essere comunisti per comprendere che moralità e buona politica sono strettamente connesse tra loro nel segno del primato della giustizia e del bene comune. Né in linea di principio aderire senza riserve alle ragioni del capitalismo impedisce di riconoscere l’importanza della questione morale e di essere «onesti», per riprendere un lemma sul quale si è ancora di recente dibattuto. Ma se della moralità e dell’onestà non si ha una concezione povera e astratta, allora si comprende facilmente che entrambe coinvolgono direttamente il modo in cui si giudicano l’ingiustizia sociale e il persistere dei privilegi.
Oggi come allora la questione morale investe frontalmente la politica anche per questa via: è una faccia della sua complessiva degenerazione. Non si tratta soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte alla devastazione sociale provocata da trenta e passa anni di dominio del mercato, del capitale privato, dell’interesse particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della politica non sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì manifestazioni della stessa patologia
Il manifesto, 3 dicembre 20014 (m.p.r.)
Gli arrestati sono 37, gli indagati 40, ma il conto potrebbe lievitare ulteriormente nei prossimi giorni. Sono nomi pesanti, sia quelli del «mondo di sopra», a partire dall’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, indagato, sia quelli del «mondo di sotto», il sottobosco criminale della capitale, del quale fanno parte Massimo Carminati, arrestato, e Gennaro Mokbel, per il quale la gip Flavia Costantini non ha convalidato la richiesta di arresto.
Il copyright delle definizioni di cui sopra, il «mondo di sopra» e quello di «sotto», è dello stesso Carminati. Le aveva usate nel corso di una conversazione intercettata che ha dato il nome all’inchiesta: «Mondo di Mezzo». Quello in cui si incontrano i colletti bianchi, gli uomini del potere a Roma, e i malavitosi che si sono fatti le ossa sulla strada, sulla piazza già ai tempi lontani della banda della Magliana. Tra i primi ci sono l’ex sindaco Alemanno, il suo capo della segreteria Antonio Lucarelli, Luca Gramazio, ex consigliere comunale e oggi regionale, Luca Odevaine, ex capo della segreteria del sindaco Veltroni, oggi responsabile dell’accoglienza per i richiedenti asilo, Franco Panzironi, ex ad dell’Ama, l’azienda dei rifiuti, Riccardo Mancini, ex ad di Eur spa, i “colletti bianchi” dell’era Alemanno. Tra i secondi lo stesso Carminati, indicato dagli inquirenti come capo dell’organizzazione, Ernesto Diotallevi, un pezzo da novanta della criminalità romana da decenni, Giovanni De Carlo, suo erede, il già ricordato Mokbel.
A tutti è contestata l’associazione mafiosa ex 416bis. Un’imputazione discutibile, e gli stessi inquirenti se ne rendono probabilmente conto, tanto che nell’ordinanza di arresto dissertano a lungo e dottamente per giustificare l’addebito. Agli arrestati e agli indagati, ha chiarito il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, non vengono accreditati rapporti di complicità con la criminalità organizzata, con mafia, camorra e ‘ndrangheta. Neppure la struttura organizzativa è davvero affine a quelle mafiose, impossibile farlo in una città come Roma dove l’organizzazione deve invece essere «reticolare», meno disciplinata e verticistica, e l’uso della violenza è limitato.
Di mafia, insistono tuttavia i magistrati, si deve ugualmente parlare, perché in quella che viene definita «Mafia Capitale» era stato adottato il metodo mafioso, consistente nell’uso «della forza d’intimidazione del vincolo associativo» e nelle «condizioni di assoggettamento e di omertà di cui gli associati si avvalgono». Il dna propriamente mafioso sarebbe poi garantito dal fatto che, a differenza delle cosiddette «nuove mafie», l’autorità e la capacità di intimidazione del gruppo sarebbero radicati nel passato, nella derivazione dei suoi capi dalla Banda della Magliana e dai «fasciocriminali». Sin dalla notizia degli arresti, ieri, si è parlato di «criminalità nera», in parte perché capo della banda sarebbe appunto «il Nero», come Gianfranco De Cataldo aveva ribattezzato nel suo fortunatissimo Romanzo criminale Massimo Carminati. Ieri tutti i media, riprendendo del resto l’ordinanza, lo hanno definito «ex Nar». Per la verità dei Nar Carminati non ha mai fatto parte, ma neofascista e amico sia di molti militanti dei Nar, oltre che vicinissimo alla Magliana, lo era davvero.
In realtà nell’inchiesta sono coinvolti un po’ tutti: ci sono ex brigatisti come Emanuela Bugitti, esponenti di spicco di An e poi del Pdl. Ma anche del Pd come Odevaine, il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti e l’assessore alla casa Daniele Ozzimo (questi ultimi due si sono dimessi dicendosi estranei ai fatti) e il consigliere regionale Eugenio Patanè.
Lo stesso Buzzi, presidente della potentissima cooperativa «29 giugno», l’uomo che dalle indagini risulterebbe il principale complice di Carminati, è un ex detenuto comune politicizzatosi in carcere, ma sul fronte sinistro. Una banda più arcobaleno che nera, da questo punto di vista. Invece l’etichetta nera funziona lo stesso: il momento di snodo, quello che avrebbe permesso al gruppo di spiccare il volo, sono stati gli anni dell’amministrazione Alemanno. Che Carminati e complici abbiano approfittato della ghiotta occasione offerta dalla collocazione in posizione di vertice, in quegli anni, di parecchi esponenti della destra neofascista anni ’70 e ’80, come gli stessi manager Mancini e Panzironi, appare evidente. Per questo Pignatone ha dichiarato senza perifrasi che «alcuni uomini vicini all’ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell’organizzazione mafiosa». Però ha anche aggiunto che «con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato, ma Carminati e Buzzi erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni».
Nello specifico, i reati contestati a vario titolo agli indagati sono di diverso tipo. Tra gli altri, estorsione, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio. Ci sono crimini tipicamente «di strada», come l’usura e il recupero crediti con le cattive. Ci sono faccende di sapore squisitamente tangentaro, come l’indirizzo degli appalti in cambio di tangenti ma anche verso aziende direttamente controllate dall’organizzazione, anche attraverso i classici «prestanome». Le due fasi sembrano però cronologicamente distinte. Partito dall’usura e dai pestaggi per recuperare i crediti, spesso in conto terzi e solo per confermare la propria autorità, il gruppo sembra aver poi aver immensamente ampliato il suo spettro d’azione entrando alla grande nel giro degli appalti di ogni tipo proprio in virtù degli antichi vincoli politici con molte figure chiave dell’amministrazione Alemanno, per poi stringere nuovi e reciprocamente proficui rapporti con i loro successori ai vertici del potere capitolino.
Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2014
Sulle reti Rai sono finalmente partiti gli spot di presentazione di EXPO, l’esposizione universale che si terrà a Milano dal 1° maggio al 31 ottobre 2015. Tema centrale: il cibo. Lo slogan: nutrire il pianeta, energia per la vita.
Le immagini, i suoni, le suggestioni proposte ai telespettatori in pochi secondi sono coinvolgenti. Un ottimo messaggio, degno di una brillante forza politica ecologista. In pochi frame si diffondono impulsi e stimoli sulla necessità di cambiare paradigma: tutelare le risorse naturali, preservarle per le prossime generazioni, garantire a ciascun abitante del pianeta il diritto al cibo pulito e a buon mercato. Questo è quello che milioni di telespettatori guarderanno dai tinelli in formica e dalle sale da pranzo in noce di tutto il Paese. Gli spot saranno sempre di più. Un crescendo rossiniano pervaderà l’immaginario collettivo italiano e convincerà tutti che a Milano andrà in scena un evento straordinario dove l’agricoltura, l’alimentazione sana, il paesaggio e il territorio saranno al centro dei pensieri della politica. Parallelamente sono già diffuse da tempo altre belle favole: quelle che raccontano di benefici sull’economia e di migliaia di posti di lavoro che gemmeranno dal grande evento vetrina.
Ma che cos’è e che cosa sarà veramente EXPO2015? Innanzitutto sono 1.000 ettari di suolo agricolo già cementificati: padiglioni, piazzette tematiche, raccordi autostradali e rotonde. Nutrire il pianeta… colando calcestruzzo e stendendo asfalto su terre fertili. Tutto cemento che paghiamo noi.
Nei padiglioni di EXPO troveranno spazio le multinazionali dell’agroindustria e degli OGM, i soggetti che dominano sulle terre di tutta la terra, che strozzano i piccoli produttori ingabbiati nella filiera della grande distribuzione organizzata, che spesso sottraggono la terra stessa alle popolazioni dei paesi più poveri del mondo.
Lo sponsor ufficiale dell’acqua, altro elemento indispensabile per nutrire il pianeta? Nel paese che ha visto 27 milioni di elettori dire no alla privatizzazione del servizio idrico, tutti si sarebbero aspettati la “Pisapia H2O”. Invece no. Sarà la San Pellegrino SPA, una controllata della multinazionale Nestlè.
Ma si creeranno almeno i posti di lavoro? Certo! Ma a parte quelli nati in Procura della Repubblica per seguire le inchieste su corruzione e infiltrazioni mafiose, i posti di lavori saranno sopratutto precari. Se va bene. Perché è in corso una bella campagna per trovare i “volunteer Expo”. Con buona pace per chi, pur di pagare l’affitto o la retta universitaria, si sarebbe accontentato anche solo di qualche mese da precario, magari da Eataly, che avrà un padiglione da 8 mila metri quadrati. Insomma, cemento, debito e precarietà. Ma questo spot non lo vedrete in tv.
Il manifesto 4 dicembre 2014 (m.p.r.)
Il Senato ha dato il via libera definitivo al con 166 si, 112 no e un astenuto ieri alle 19,43 . Cinque ore prima a pochi metri di distanza, oltre le linee di un esercito di centinaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri, in via delle Botteghe Oscure, la violenza dei manganelli. Uno spettacolo gratuito e inspiegabile quello visto ieri nelle strade di Roma. Il volto più educato, ma ugualmente pregno di contenuti, il governo l’ha mostrato in aula quando il ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha annunciato la fiducia per tagliare le gambe alla sinistra Dem e zittirla sulla riforma del lavoro. Dopo le 14 tra piazza Sant’Andrea della Valle e i binari del tram 8, davanti al teatro Argentina, ha mostrato quello più arbitrario.
Le forze dell’ordine schierate con decine di camionette e un centinaio di uomini hanno negato a trecento persone di tornare a Sant’Andrea della Valle, la piazza concordata con la Questura di Roma fino alle 18. Dopo averli tenuti in ostaggio per più di un’ora, davanti all’insistenza dei manifestanti di uscire dall’accerchiamento, è partita una carica. Due persone sono state fermate, poi rilasciate. Altre picchiate. Erano inermi. La testimonianza di numerosi video da ore in rete mostra la durezza delle scene. «Contenimento per impedire di tornare al Senato» lo definisce una nota della Questura capitolina che sostiene di avere sequestrato 30 petardi e 26 fumogeni. Oggetti evidentemente pericolosi al punto da cancellare la clamorosa sproporzione delle forze in campo. Lasciando defluire un corteo pacifico si sarebbero evitati anche i lanci di petardi e inutili tensioni. Al vaglio ci sono le immagini riprese dalle telecamere montate sulle uniformi degli agenti. Il corteo era partito verso mezzogiorno dal Colosseo con più di cinquecento persone.
«In tutta Europa si manifesta contro leggi che sono ipoteche sul futuro di milioni di persone - ha commentato Francesco Raparelli del laboratorio romano per lo sciopero sociale, uno dei fermati - A Roma no. è vietato manifestare liberamente». «Il nuovo questore di Roma ha esordito in maniera ignobile - ha detto il portavoce Cobas Piero Bernocchi - Non vorrei che quanto accaduto risulti sulla stampa come dipeso da un poliziotto nervoso. Chi ha deciso queste cariche? Renzi è come il padre del Buddha che nascondeva i fiori morti al figlio, non vuole vedere contestazioni e su questo ha messo il carico da undici anche Alfano». «Si è svelata la natura autoritaria del governo, che preferisce far manganellare studenti minorenni che stanno occupando le scuole contro La Buona Scuola e il Jobs Act invece di rispondere ai loro reali bisogni» sostiene Danilo Lampis (Uds). «Questa vicenda non finisce qui - la battaglia proseguirà contro i decreti attuativi della legge delega, per impedire che vengano cancellati diritti e tutele - sostiene il sindacato Usb - la battaglia proseguirà contro i decreti attuativi della legge delega, per impedire che vengano cancellati diritti e tutele».
Decreti che verranno approvati entro giugno. «Le opinioni espresse in parlamento saranno tenute in considerazione nella loro stesura» ha detto Poletti. Saranno cinque e riguardano gli ammortizzatori sociali, i servizi per il lavoro, la semplificazione, il riordino delle forme contrattuali e la conciliazione. Si cancellerà l’articolo 18 sul licenziamento per i neo-assunti che verranno sottoposti alla disciplina del «contratto a tutele crescenti». Le loro tutele saranno vincolate al periodo di lavoro svolto. Meno si lavora, meno soldi si ricevono. Una svolta nella recente, e tribolata, storia del diritto del lavoro sempre più ricalcato sulle esigenze delle imprese. In aula, durante la discussione, i senatori di Sel hanno protestato mostrando cartelli con la scritta: «Jobs Act: ritorno all’800». Per Poletti, invece, «non sono le regole a produrre posti di lavoro, ma siamo convinti che un buon contesto aumenti l’opportunità». Il contesto è quello dove la disoccupazione è arrivata al 13,2%, +286 mila in un anno, e quella giovanile è fuori controllo: 43,3%. Il premier Renzi si è invece complimentato su twitter: «Questa è #lavoltabuona. E noi andiamo avanti». Nella direzione vista ieri a Roma. Il senatore Pd Corradino Mineo non ha votato la fiducia. Lorenza Ricchiuti e Felice Casson (Pd) erano assenti.
Il manifesto, 26 novembre 2014 (m.p.r.)
Il Jobs Act è passato anche alla Camera. Tornerà per l’approvazione definitiva al Senato, ma non si attendono sorprese. Renzi può portare a Bruxelles lo scalpo dell’articolo 18, anzi di tutto l’impianto dello Statuto dei diritti dei lavoratori, perché senza tutela reale ogni altro diritto è di per sé indebolito se non annullato. Hanno votato in 316 a favore del disegno di legge del governo. La maggioranza assoluta, per un voto, di una camera di nominati già politicamente delegittimata dalla bocciatura del porcellum da parte della Corte Costituzionale. Malgrado ciò quella maggioranza si è assunta la responsabilità di cancellare con un pulsante decenni di storia del conflitto sociale che avevano creato il “caso italiano” durante i “trenta anni gloriosi” del capitalismo occidentale.
Eppure questa volta per Renzi non è stato un trionfo. E’ forse esagerato dire che si è trattato di una vittoria di Pirro, ma per la prima volta Renzi ha dovuto incassare il dissenso aperto della minoranza del suo partito. Civati ha votato no, mentre Fassina e Cuperlo hanno trascinato fuori dall’Aula una trentina di deputati, assieme a quelli di Sel, dei Pentastellati e delle opposizioni di destra. A sua volta Bersani ha votato un sì per pura disciplina e palese nulla convinzione. E così sarà stato probabilmente per diversi altri. La presunta mediazione sul testo non ha tenuto né nel merito né politicamente. Il dissenso non è rientrato, è esploso.
Del resto è davvero difficile considerare un miglioramento quanto è stato precisato alla Camera rispetto al Senato. Per i licenziamenti per motivi economici non c’è alcun reintegro, solo l’indennizzo rapportato alla anzianità di servizio. Il reintegro compare solo per i licenziamenti chiaramente discriminatori e per quelli disciplinari risultati privi di fondamento alcuno, secondo tipicizzazioni ulteriori rimandate ai decreti delegati. Chi mai volendo licenziare potrebbe impegolarsi in queste tipologie potendo adagiarsi sull’andamento economico dell’impresa? Qui si colpisce non solo il diritto al lavoro del licenziato, ma anche il ruolo della magistratura nell’ intervento per reintegrare tale diritto. Due piccioni con una fava. Neanche il nemico per eccellenza dei giudici, Berlusconi, avrebbe potuto tanto.
Nel frattempo Squinzi può sognare, si stropiccia gli occhi, ottiene più di quanto pretendeva e sperava. Non ha neppure avuto bisogno di chiederlo. Anzi, Squinzi aveva combattuto per la presidenza della Confindustria contro Bombassei, dichiarando proprio che l’articolo 18 non era una priorità.
Intanto Pier Carlo Padoan aveva già scritto la sua lettera alla Commissione affinché fosse indulgente nel valutare i conti della legge di stabilità. Il giudizio definitivo sarà a marzo, ma intanto il governo si salva, anche grazie alla approvazione del Jobs Act che, secondo il nostro ministro dell’economia, garantirà una ripresa dell’economia e il sostegno al sistema pensionistico. Come ciò possa avvenire a colpi di precariato, che il decreto Poletti e il Jobs Act stesso ampliano a dismisura, è un mistero da rimandare al mittente.
La novità tanto sbandierata è il famoso contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Le modalità della articolazione di queste tutele sono ancora ignote, perché rimandate al testo di decreti delegati che eventualmente passeranno solo dalle commissioni parlamentari — ma non dall’aula — per un parere non vincolante. Tuttavia è fin d’ora scarsamente credibile che un padrone assuma con questa forma, quando può utilizzare, grazie al decreto Poletti, contratti a termine uno in fila all’altro senza doverne motivare la ragione. Paradossalmente, ma non troppo, proprio il contratto indeterminato a tutele crescenti spingerà ancora di più l’acceleratore sulla totale precarizzazione dei rapporti di lavoro per i nuovi assunti.
Fare sindacato e costruire una nuova coalizione sociale per una nuova sinistra sarà più difficile, ma ancora più necessario ed urgente. Una dimensione europea è indispensabile poiché il sistema non sopporta legislazioni nazionali protettive dei diritti e forme contrattuali che vadano al di là del singolo gruppo o azienda. Jobs, più che voler dire lavori, è un acronimo: Jumpstart Our Businesses (come l’omonimo americano del 2012) cioè «mettiamo in moto le nostre imprese». Di contro, quel popolo di sinistra orfano di una vera sinistra popolare ritrovatosi in piazza il 25 ottobre e nelle occasioni successive, si rimette in moto per uno sciopero generale, dopo tanti anni. Questa sarà la risposta.
« Il manifesto, 26 ottobre 2014 (m.p.r.)
Un’alternativa dal basso alla «globalizzazione dell’indifferenza». Questo il senso dell’Incontro mondiale delle organizzazioni popolari che si svolge a Roma da domani al 29 e che accoglie delegati provenienti dai cinque continenti. La conferenza di presentazione, che si è tenuta nella sala stampa del Vaticano, ha messo in luce la particolarità dell’evento, significata dalla presenza al tavolo di due cardinali – Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, e Marcelo Sanchez Sorondo, Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze sociali – e di un attivista argentino, Juan Grabois, della Confederacion de Trabajadores de la Economia Popular (Ctep), una delle strutture che ha organizzato l’incontro internazionale.
Un consesso degli esclusi fortemente appoggiato da papa Bergoglio – ha spiegato padre Federico Lombardi, gesuita come il pontefice argentino. E così, a fianco del Movimiento mundial de Trabajadores Cristianos troviamo i Movimenti delle fabbriche recuperate in Argentina (ci sono anche l’italiana Rimaflow, Communia Network e Genuino clandestino), centri sociali come il Leoncavallo, la Banca etica, e organizzazioni popolari marxiste e laiche, dall’Asia all’Africa, agli Stati uniti e all’America latina: a partire dal Movimento dei Sem Terra, uno dei principali organizzatori.
L’egemonia? Se ne è discusso per qualche mese, non senza defezioni e malumori, ma alla fine ha prevalso la parola «incontro», nel «cammino aperto da papa Francesco, che sostiene di avere molti amici trotskisti e che ci ha aiutato a situare il tema dell’ingiustizia e dell’esclusione», ha detto Monsignor Sorondo, e ha precisato: «D’altronde, Gesù è arrivato prima del marxismo, e poi dopo la caduta del socialismo i marxisti non sono più un pericolo».
E comunque, la chiesa di Bergoglio è tornata a «vedere» quei preti che incrociano il conflitto sociale, e a misurarsi persino coi momenti e coi luoghi in cui è necessario disobbedire. Per l’Incontro mondiale arriverà anche il presidente della Bolivia, Evo Morales, appena rieletto a grande maggioranza: però non come capo di stato, ma come ex sindacalista indigeno e «cocalero».
Dopo la conferenza stampa, Juan Grabois ha spiegato al manifesto che «per superare ostacoli e differenze e affrontare insieme un capitalismo selvaggio che distrugge la natura e condanna i giovani a non avere futuro», si è preferito racchiudere il senso dell’Incontro intorno alle «», terra, casa, e lavoro, «diritti elementari che tutti desideriamo, ma che necessitano di una forte e tenace organizzazione popolare: per spingere i governi progressisti ad approfondirli e combattere quelli che progressisti non sono».
Obiettivi prioritari per i settori sociali maggiormente esclusi: «i lavoratori precari, i migranti, i disoccupati e chi partecipa al settore dell’economia informale e autogestito, senza protezione legale, riconoscimento sindacale o coperture sociali. E poi i contadini, i senza terra, i popoli originari e le persone che rischiano di essere espulse dalle campagne a causa della speculazione agricola e della violenza; le persone che vivono ai margini delle metropoli, dimenticati da una struttura urbana inadeguata». Tra gli obiettivi, c’è dunque «la riforma agraria, quella del lavoro e la costituzione di Consiglio dei movimenti popolari, articolato a livello globale».
In Argentina, il Ctep racchiude oltre 500 organizzazioni, come il Movimento delle fabbriche recuperate, e quello dei Cartoneros, «composto da oltre 5.000 lavoratori che gestiscono il riciclaggio a Buenos Aires e che tengono alle proprie conquiste aperte dalle lotte dei piqueteros nel 2001. Da noi, gli informali sono il 30% della classe lavoratrice, un settore che dev’essere riconosciuto in un nuovo sindacato».
Nessun dubbio, per Grabois, che i movimenti argentini debbano lottare per la sovranità del paese e contro i fondi avvoltoi per ribadire ai poteri forti internazionali «che c’è un limite da non valicare». L’attivista ha al collo un fazzoletto kurdo, e il movimento federalista è presente all’incontro «Lo porto apposta — dice — per appoggiare la loro resistenza contro una banda di mercenari che massacra la popolazione con le armi della Nato. Nella federazione kurda si pratica la democrazia diretta e la parità di genere, un esempio che disturba».
E i movimenti in Europa?«Qui la situazione dei migranti è ben peggiore che da noi, dove almeno possono organizzarsi e lottare. Ne ho visti lavorare in ogni strada di Roma, e come me li vedono tutti, ma restano invisibili e senza diritti. Il cuore di chi ha tutto è chiuso, ma noi dovremmo costruire un’alleanza globale tra giovani precari e migranti e farne la linea principale della battaglia contro l’ingiustizia».
Il manifesto, 25 novembre 2014
Se Italo Calvino avesse scritto oggi il suo insuperabile «Le città invisibili» avrebbe incluso probabilmente un capitolo dedicato alla «città ingovernabile». Questa è infatti la condizione della gran parte delle città italiane negli ultimi cinque anni, da quando la crisi economica ha prodotto crescente disoccupazione, precarietà, disagio e paura crescenti. Da Pisapia a De Magistris, da Doria a Marino, da Orlando a Pizzarotti, non c’è più un sindaco eletto sull’onda ed il bisogno di una svolta radicale che oggi non sia in crisi di consensi. Persino Renato Accorinti, eletto a Messina a furor di popolo un anno e mezzo fa, il sindaco con la maglietta «No Ponte», icona della pace e della difesa dell’ambiente, è oggi a corto di consensi nella sua città malgrado i risultati conseguiti.
Esattamente venti anni fa si inaugurava la cosiddetta «stagione dei sindaci», partendo dalla rinascita della Napoli di Bassolino, passando per la primavera della Palermo del primo Orlando, e poi ancora Bianco a Catania e Falcomatà a Reggio Calabria, per citare i casi più famosi. Coincideva anche con una stagione di risveglio delle popolazioni meridionali a sostegno dei propri sindaci che avevano dato segni concreti di buon governo dopo la fallimentare gestione democristiana. Non a caso tutti rieletti al secondo mandato. Oggi sarebbe impossibile.
Da una parte, i tagli dei trasferimenti statali ai Comuni, inaugurati dal governo Monti e portati alle estreme conseguenze da Renzi, dall’altra un debito insostenibile ereditato dalle amministrazioni passate, rendono impossibile rispondere ai bisogni crescenti della cittadinanza.
Crisi economica e tagli ai bilanci comunali si traducono in una morsa che impedisce di rispondere a un disagio sociale crescente e, soprattutto, all’insofferenza. Gli abitanti delle periferie sono diventati ansiosi e intolleranti dopo aver sopportato decenni di abbandono e degrado. Infatti, bisogna ricordarlo, anche durante la cosiddetta «stagione dei sindaci» le periferie urbane, di Roma, Napoli o Catania erano rimaste sostanzialmente esterne alla riqualificazione urbana diretta soprattutto ai centri storici. Ma, non c’era la pesantezza di questa crisi e le popolazioni delle periferie si aspettavano ancora di essere incluse nel processo di rinascita cittadino. C’era ancora la speranza. In questi anni è stata seppellita.
Oggi non si dice più «piove governo ladro», ma per ogni guasto sociale e ambientale il «punching ball» è il sindaco. Doria a Genova e Marino a Roma, solo per citare gli ultimi casi, avranno pure le loro mancanze ma sono stati messi alla gogna come gli unici responsabili del disastro dell’alluvione o del degrado/razzismo dei quartieri periferici. E non sono fenomeni isolati, ma destinati ad allargarsi perché il governo Renzi ha una strategia politica chiara: scaricare sugli enti locali il costo della crisi e del debito pubblico insostenibile. Ed è una strategia che funziona.
I tagli alla sanità pesano sulle Regioni che si trovano di fronte una forte opposizione sociale alla cosiddetta «razionalizzazione dell’offerta ospedaliera» che comporta la chiusura di decine di ospedali per ogni regione. I tagli ai comuni si abbattono sui servizi sociali, i mezzi di trasporto locale e, soprattutto, aumentano le imposte locali. Quasi tutte le amministrazioni comunali sono diventate le più odiate dai commercianti, dai proprietari di case, dai soggetti deboli privati dell’assistenza necessaria. Risultato finale: lo scollamento/scontro tra popolazioni ed amministrazioni comunali porta al collasso della democrazia reale, perché è proprio a livello locale che è possibile praticare forme di democrazia partecipativa, di gestione dei Beni Comuni , di autogoverno.
Viceversa tutte le cose positive le fa Renzi. E non solo gli 80 euro. Vorrei citare un fatto recentemente accaduto. In provincia di Cosenza una organizzazione cattolica, il Banco delle Opere di Carità, in collaborazione con diversi comuni collinari e montani, sta distribuendo gratuitamente la frutta alle popolazioni di questi comuni periferici (mele, prugne,ecc.) come sostegno economico alle fasce territoriali più povere. Si è sparsa la voce che questo insolito provvedimento (di solito la frutta che non si vendeva finiva sotto il trattore) sia opera del governo, e così la gente dice : «È arrivata la frutta di Renzi».
Naturalmente c’è sempre il rovescio della medaglia. L’attacco al sindacato e ai lavoratori che scioperano toglie consensi al premier, ma non va sottovalutato il fatto che la strategia principe di Palazzo Chigi è tipica di un’azienda capitalistica: esternalizzare i costi, sociali ed ambientali, e internalizzare i profitti (consensi in questo caso). Per questo gli amministratori locali che rischiano in prima persona dovrebbero unirsi contro questo governo con più forza e determinazione di quello che finora hanno fatto, a partire dalla richiesta di ristrutturazione dei debiti ereditati e non più sostenibili.
Il manifesto, 23 novembre 2014
Il nuovo prodotto è pronto. La politica in crisi di consenso deve produrre leader, venderli e produrne di nuovi, per alimentare lo spettacolo dello scontro bipolarista e il flusso illusione-disillusione su cui si basa. Il nuovo prodotto è naturalmente Matteo Salvini. I nuovi prodotti politici vengono sempre lanciati da massicce campagne pubblicitarie, ma forse la campagna per la produzione e per la promozione di Salvini non ha precedenti. D’altra parte si partiva da condizioni difficili: una Lega al 3 per cento. L’avventura era particolarmente affascinante.
Il segretario della Lega è ininterrottamente in televisione, spesso due volte al giorno, dalla campagna elettorale per le europee. Non può essere solo perché «fa audience» (fa audience?). Dopo, ci si produce in continue analisi sul perché la Lega cresca nei sondaggi, celebrando le doti del leader, le sue abilità comunicative, la sua bravura ad intercettare gli umori popolari. La Lega cresce perché Salvini è in televisione due volte al giorno. Una parte secondaria del merito va anche alla sua capacità di individuare poche chiare questioni per posizionarsi sul mercato (No all’Euro e all’immigrazione). Ma nessuno se ne accorgerebbe se non ci fosse la prima condizione.
Si può immaginare quali siano gli effetti sperati di questa campagna di successo. Partiamo dal settore di mercato che deve conquistare: il suo principale destinatario sono i ceti popolari, cioè il principale target di tutte le più recenti campagne per il lancio dei leader, che infatti sono cresciuti elettoralmente innanzitutto in quell’area.
Primo effetto: la Lega, nel suo nuovo vestito lepenista, è in grado di spostare il discorso sulla crisi dal piano sociale a quello della sicurezza. Una funzione fondamentale, mentre riemerge in Italia una dialettica sociale che riguarda il lavoro e le condizioni di vita dei settori popolari. A questo si aggiunga la campagna, lanciata dal Corriere e ripresa dai talk show, sulle case occupate. Primo risultato: la rappresentazione è quella di un mondo popolare infiltrato dalla criminalità e il cui problema principale sono gli immigrati. Il suo secondo e terzo problema sono i politici e i sindacati.
Secondo effetto: Renzi è stato in questi mesi il monopolista del mercato politico. Ma la rappresentazione spettacolare dello sport politico non regge se non c’è un nemico, l’antagonista, lo sfidante, il cattivo. A che cosa appassionarsi altrimenti? Il mercato è competizione, il prodotto vincente deve essere sfidato dal prodotto che lo sostituirà. In più: nella prossima campagna elettorale l’ex monopolista potrà dire che bisogna votare Pd per evitare il pericolo-Lega. Così, mentre l’elettorato di sinistra sarà tentato di votare un nuovo possibile soggetto politico, si potrà ancora ricorrere alla magia del voto utile.
Il tema centrale è dunque lo spostamento del conflitto sociale su altri piani. Il prodotto-Grillo e il prodotto-Renzi l’hanno spostato sul piano delle opposizioni tra vecchio e nuovo, tra sistema (politico) e anti-sistema, tra Casta e anti-Casta. Adesso bisogna trovare qualche nuovo terreno di gioco, non si può fare sempre la stessa gara (il pubblico si annoierebbe e guarderebbe altrove). Ed ecco riemergere la questione-sicurezza, eterna Fenice che risorge nei momenti di possibile mutamento politico. Il Corriere della Sera a questi reality partecipa sempre con entusiasmo e da protagonista: il brand della Casta, come la campagna sulla legalità nelle periferie, è nato sulle sue colonne.
Contemporaneamente, tutti i media celebrano dalla mattina alla sera la messa cantata delle virtù dell’impresa. Gli imprenditori licenziano, chiudono, delocalizzano, non pagano i dipendenti, li forzano a dimettersi, rendono le aziende luoghi invivibili (si trovi qualcuno che è contento del suo lavoro) e privi di libertà, non investono in ricerca, corrompono i politici, cercano unicamente posizioni di mercato protette (la meritocrazia è per qualcun altro, è competizione tra i destinatari di queste campagne pubblicitarie). Ma la rappresentazione unanime degli imprenditori è quella degli eroi (in prima fila, nella messa cantata, c’è Salvini). Nei talk show circola costantemente anche una nuova figura: il giovane startupper, magari emigrato in America per aprire un’impresa innovativa che dà tanti posti di lavoro a giovani di talento (agli altri no, se non hai talento puoi stare a casa). Lo sturtupper, vestito a metà tra il virtuoso dello skateboard e il proprietario di un Fondo investimenti, occupa più o meno la posizione del Messia: lo si mette al centro dello studio, lo si celebra, gli si chiede a bocca aperta «Cosa dobbiamo fare?», si punta il dito verso la telecamera e, soprattutto se si è un giornalista del Corriere della Sera, si dice: giovani, avete capito? Dovete fare così.
In questi anni si è esagerato a celebrare la fine della centralità del conflitto di classe in società che erano e restano capitalistiche. Questo conflitto si presenta sempre in forme spurie, cambia nel tempo, a volte è difficile da leggere, ma incide sempre in modo determinante sulla politica. Molte cose rilevanti possono essere lette a partire da questa chiave, che ovviamente non è mai esaustiva. Per esempio, può essere letta così tutta la traiettoria che va dal Pci al Pd: il suo spostamento dalla centralità del lavoro alla centralità dell’impresa è il nucleo fondamentale di ogni suo cambiamento. Oppure le vicende politiche che vanno dal 2006 a oggi: la campagna per la lotta alla Casta e per la diffusione dell’antipolitica, lanciata mentre in Parlamento c’erano 150 rappresentanti della sinistra radicale; la creazione, nello stesso periodo, del Pd, con la promozione del Veltroni innovatore che correva da solo; la grande coalizione Pd-Forza Italia; Renzi; Salvini. Non si possono leggere questi eventi senza considerarli anche un momento del conflitto di classe dei ricchi contro i poveri (e contro i loro rappresentanti), contemporaneo all’esplodere di una crisi finanziaria, economica e sociale quasi-permanente.
Un nuovo soggetto politico della sinistra può solo ripartire da questo luogo, da questo tema e da questi soggetti. Dagli alleati e dagli avversari che può avere in questo contesto. Bisogna farlo in modo innovativo, certo, ma senza più indugiare su alibi come «la società è cambiata», «non ci sono più le grandi fabbriche», «ormai gli operai votano a destra»
Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2014
Nelle ultime settimane, dopo le frane e le esondazioni che hanno provocato morti e che hanno messo in ginocchio la Liguria, la Toscana, il Piemonte e la Lombardia, si susseguono le trasmissioni e gli editoriali che cercano di individuare responsabilità e di immaginare le cure possibili al dissesto idrogeologico del nostro paese, per risollevare lo stivale dal fango in cui sprofonda.
Di fronte alle immagini apocalittiche del Polcevera, del Bisagno, del Seveso, tutti si indignano e si costernano. E l’elenco delle proposte per porre rimedio è lungo. Bisogna rifare gli argini dei fiumi! Bisogna fare manutenzione a tutta le rete idrica! Bisogna smetterla con i condoni! Bisogna curare i boschi e le montagne! Bisogna trovare i soldi per realizzare le opere necessarie alla messa in sicurezza! Bisogna fare prevenzione e riorganizzare la protezione civile! Bisogna cancellare il patto di stabilità che impedisce ai comuni di intervenire!
Fin qui tutti d’accordo (o quasi, perché sui condoni edilizi, una manina furbetta che scriva l’emendamento nascosto da inserire in qualche provvedimento, si trova sempre…).
Ma se qualcuno si azzarda a dire “bisogna approvare una moratoria immediata del consumo di suolo”, oppure “spostiamo i soldi dalle grandi opere alla cura del territorio” scatta l’allarme rosso. Ed emerge tutta d’un colpo l’ipocrisia di gran parte della politica e di tanti commentatori.
Perché finché si tratta di restare sulle enunciazioni di principio, dicendo cose come “curiamo l’ambiente e sistemiamo gli argini dei fiumi", tutto ok. Applausi bipartisan.
Ma se si esclama “Stop al Consumo di Territorio subito, con decreto legge!”, si riceve come risposta immediata: “Impossibile! Va bene essere ambientalisti ma fino a un certo punto!” Se si propone “usiamo i soldi del TAV in val di Susa, del Terzo Valico o della Orte-Mestre! per sistemare il Polcevera, il Bisagno, il Seveso”, arriva puntuale la controrisposta: “Basta con queste provocazioni! Quelle grandi opere servono per creare posti di lavoro ed essere competitivi! Basta demagogia!”
Certo, perché va bene essere dalla parte del diritto dei cittadini a vivere sicuri di non essere travolti da un’alluvione o da una frana (circa 5,8 milioni di italiani), ma non vorremo mica davvero mettere in discussione il potere «degli energumeni del cemento armato», come li chiamava Antonio Cederna?
La Repubblica, 21 novembre 2014 (m.p.r.)
La Repubblica, 21 novembre 2014
Lettera di Massimo Veltri
Caro Augias, anni fa sono stato capogruppo Pds in Commissione Ambiente e Territorio del Senato. Credo d’aver svolto una buona attività per la difesa del suolo. Mi chiedo oggi con inquietudine perché, fra gli argomenti toccati in relazione alle frane e alluvioni che ci flagellano, è sempre come se dovessimo partire da capo.
Risposta di Corrado Augias
C’è in questa lettera una domanda chiave: perché ci comportiamo sempre come se fosse la prima volta che succede? Ho sentito in tv esponenti di spicco dei vari partiti, a partire dal Pd, fare dichiarazioni piene di lodevoli propositi: vedremo, faremo, bisognerà, è necessario, si dovrà. Aria fritta.
Il manifesto, 20 novembre 2014
Affermare che «i sindacati cercano scuse per scioperare» è una provocazione voluta, però è anche musica per le orecchie di chi osserva dall’alto con sguardo commiserevole tutti quelli che la crisi colpisce più duramente, quelli che vivono e sopravvivono di stipendio, di pensione, di precarietà.
Dire che lui i posti di lavoro «li crea», che in fondo «Camusso e Salvini sono due facce della stessa medaglia» rivela un forcing che dalla rottamazione della «vecchia politica» (che in realtà era soprattutto emarginazione del gruppo dirigente del Pd), ora procede spedito per impaurire e convincere i perdenti che se non stanno con lui avranno da perdere assai di più, in un gioco al rimbalzo del più precario, del più povero. Così si permette, sulla scia del lepenismo in salsa leghista, di sfottere i lavoratori che lo sciopero lo pagano direttamente sul magro salario. Chi dimentica questo aspetto è un reazionario.
Ma il presidente del consiglio, che intende il governo come esercizio di un potere senza opposizione, perché chi osa criticare è solo un gufo, è anche il segretario del Pd, cioè di una forza che in teoria dovrebbe considerare il mondo del lavoro come casa sua. Abbiamo capito, invece, che Renzi si sente a casa quando incontra la Confindustria di Squinzi.
Non risulta che di fronte a questo attacco sistematico verso il mondo del lavoro si sia alzata una voce di risposta. O che un Bersani, massimo rappresentante fino a ieri del Pd, si sia sentito in dovere di replicare altrettanto duramente. Questo imbarazzante silenzio non deve stupire più di tanto, segna una linea di continuità con l’acquiescenza con cui il Pd ha accolto e sottoscritto, da Monti in poi, tutte le politiche di smantellamento dello stato sociale. Come del tutto congruente è la parte in commedia recitata da alcuni parlamentari della minoranza interna, protagonisti di una simil-trattativa sul Jobs Act il cui esito era già scritto nel testo votato dalla stragrande maggioranza della direzione.
L’unica concreta protesta contro le politiche di smantellamento delle tutele e dei diritti residui del lavoro viene oggi dal sindacato di Susanna Camusso e dalla Fiom. Con la manifestazione del 25 ottobre e ora con lo sciopero generale, la Cgil ha messo in campo la possibilità di un’opposizione sociale nel paese. E la scelta della Uil di unirsi al 12 dicembre, è un altro passo importante.
Anziché sfottere, il segretario-presidente farebbe bene ad ascoltare le campane di una protesta che suonano soprattutto per lui.
L'Espresso, 20 settembre 2014
Il sindaco di Roma Ignazio Marino è indifendibile, per tanti motivi. Il puntare tutto sui Fori Imperiali pedonalizzati che in giornate di pioggia come oggi sono ridotti a una risaia asiatica. La Panda rossa e le multe fantasma, più da ridere che da indignarsi. La vanità personale che gli fa dire cose tipo «la linea C della metro è su tutti i giornali del mondo» (sì, ma per la lentezza dei lavori). Il senso di spaesamento che lo accompagna ovunque va, in bicicletta nel centro storico o di fronte alla folla inferocita di Tor Sapienza.
Oggi difendere Marino significa fare come il Marco Antonio nel Julius Caesar di Shakespeare, il capo pugnalato dai suoi dalle parti del Campidoglio: «Vengo a seppellire Cesare, non a lodarlo… Il nobile Bruto v’ha detto che Cesare era ambizioso: se così era, fu un ben grave difetto: e Bruto è uomo d’onore». Ecco, Marino sarà indifendibile, ma chi accusa oggi Marino può vantare più o meno lo stesso onore di Bruto. E minore coerenza, trasparenza. Coraggio politico.
Quello che sta succedendo a Roma è una storia istruttiva per la politica nazionale, per capire cosa è o che cosa potrebbe diventare il Partito della Nazione di Renzi. Venerdì scorso, mentre il sindaco si avventurava con il terrore negli occhi nello sconosciuto viale Giorgio Morandi teatro dei tumulti di Tor Sapienza, dove stanno arrivando gli inviati di guerra e le migliori firme del giornalismo italiano, il Pd, il suo partito, era riunito in largo del Nazareno. Un processo in piena regola con un solo imputato: il dottor Ignazio. La più scatenata era Michela Di Biase, moglie del ministro Dario Franceschini: «Basta essere proni al sindaco, Marino è il più grande gaffeur d’Italia, sta ridicolizzando il Pd». La direzione si è conclusa con una richiesta: il sindaco azzeri la giunta, altrimenti va a casa. Intanto Marino continuava il suo tour in periferia: accanto a lui non un segretario di sezione, un dirigente del partito, un consigliere del municipio (governato dal Pd). Nessuno, a proteggerlo c’era solo un certo Manlio, abitante del quartiere. Serviva coraggio fisico a stare lì, quella sera e tutti gli altri giorni dell’anno.
Nessuno difende Marino. Perché indifendibile, o anche perché il più debole? Davvero sono le gaffe o la Panda rossa il problema? O forse il sindaco gaffeur è semplicemente una persona perbene con molti problemi di comunicazione con la città che però ha detto qualche no di troppo nella giungla della politica romana? Dove l’ex sindaco Gianni Alemanno, impunito, si è organizzato un bel corteo di protesta a nome delle periferie (e contro chi? Contro se stesso?). E il principale partito lascia solo il suo sindaco a prendere gli insulti e approfitta del caos per chiedere l’azzeramento della giunta, ovvero posti negli assessorati.
Ma il Pd romano, lo stesso che per un anno si è spaccato sul nuovo stadio della Roma, tifando per la cordata dell’uno o dell’altro costruttore, non si è limitato a questo. Per sbrogliare la situazione ha chiesto l’intervento della segreteria nazionale, di Matteo Renzi o del vicesegretario Lorenzo Guerini. Marino è stato convocato in largo del Nazareno e oggi con un’intervista il capigruppo del Pd al Senato Luigi Zanda chiede al sindaco di «obbedire» al partito e di cambiare gli assessori, come gli è stato ordinato. E a questo punto la vicenda da romana diventa nazionale.
Era da anni che non si vedeva uno spettacolo del genere. Un sindaco scelto con le primarie e poi eletto dai cittadini viene sbugiardato da una segreteria di partito che vorrebbe imporgli i nomi degli assessori. Dettano legge ras e capetti di corrente che non sono stati votati da nessuno (anzi, molti di loro hanno perso le primarie per cui hanno gareggiato) o hanno conquistato un posto con la riffa delle preferenze. Non per cambiare la città, sia chiaro, o per rovesciare il sindaco ma ammettendo le loro responsabilità. No, si chiede il commissariamento, togliere potere al sindaco incontrollabile e restituirli al partito, anzi, al Partito, cone se esistesse ancora quello con la maiuscola. Dimenticando che Marino fu scelto da Goffredo Bettini e poi eletto sindaco in un momento in cui l’intera segreteria cittadina era dimissionaria, la dirigenza si era volatilizzata e nessuno voleva metterci la faccia. Era la primavera del 2013, Grillo era ancora fortissimo e faceva paura, Alfio Marchini stava macinando voti, all’epoca i coraggiosissimi dirigenti del Pd romano che oggi reclamano le dimissioni si nascosero dietro la figura del chirurgo. Quello che oggi gli viene imputato, di essere un alieno estraneo alla città, un anno e mezzo fa sembrò essere il suo punto di forza. Se Marino avesse vinto, avrebbe trascinato anche il Pd. Se avesse perso, sarebbe stata unicamente colpa sua.
Roma non è l’unico caso nazionale. C’è l’Emilia che sta per andare al voto nell’assoluta disaffezione dell’elettorato. Ma in quel caso dalla segreteria nazionale è arrivata l’indicazione opposta, non disturbare il candidato Stefano Bonaccini, in nome dell’autonomia del partito regionale. Il Pd, il Partito della Nazione, dopo pochi mesi all’ombra della leadership dello Statista internazionale Renzi, sembra già un partito della Prima Repubblica allo stato terminale. Divisa in correnti individuali (i micro-notabili del politologo Mauro Calise vivono, anzi prosperano) e con l’arroganza che deriva dalla certezza dell’impunità (politica). Se c’è un solo partito di governo in campo, quello di Renzi, se non esiste nessuna alternativa, lo scontro si sposterà tutto all’interno, come avveniva nella vecchia Dc. Calcoli miopi, perché poi un’alternativa si trova sempre, a Roma e in Italia, magari dalla parte sbagliata. E infine: come avrebbe reagito il sindaco di Firenze Matteo Renzi se da Roma il Pd lo avesse convocato per consegnargli la lista degli assessori?
Per questo Marino sarà indifendibile. Ma peggio di lui un partito che lo scarica così. Con quale coraggio.
Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2019 (m.p.r.)
La pioggia non ferma la protesta in Basilicata contro lo Sblocca Italia. Anche ieri circa un migliaio tra studenti e cittadini, secondo i dati diffusi dagli organizzatori, hanno manifestato a Potenza, arrivando in corteo fino al palazzo della Regione, per continuare a dire no alle ricerche petrolifere e alle trivellazioni autorizzate dallo Sblocca Italia e che minacciano la regione. Al corteo del capoluogo ieri si è unita anche la protesta di circa un paio di migliaia di cittadini e studenti a Venosa. Il consiglio comunale del centro lucano ha chiesto alla Regione di impugnare anche gli articoli 35, 36 e 37 del decreto Sblocca Italia, per non favorire lobby dei rifiuti oltre a quella del petrolio. È proseguita così anche ieri la protesta, arrivata al sesto giorno consecutivo, che vede gli studenti protagonisti e motore propulsivo. Intanto alla mobilitazione in strada si uniscono i consigli comunali che continuano a pronunciarsi contro lo Sblocca Italia e chiedono al governatore della Basilicata, Marcello Pittella del Pd, fratello di Gianni, capogruppo dei socialdemocratici all’Europarlamento, di impugnare l’articolo 38 e salvare Regione e cittadini dai rischi ambientali e sanitari che comporterebbero le trivellazioni. Il presidente avrebbe rassicurato i cittadini dicendo di non avere intenzione di impugnare l’articolo 38. Ricerche e perforazioni, ha detto Pittella, avverranno nel pieno rispetto della salute dei cittadini e dell’ambiente.
Articolo21.org, 17 novembre 2014
Il governo Renzi, fin qui, ha voluto fortemente quel decreto Sblocca Italia col quale si cerca di far ripartire edilizia e lavori pubblici riducendo o cancellando tutele, vincoli e controlli sull’uso del territorio. L’esatto contrario di quel Salva Italia di cui abbiamo urgente bisogno, cioè del ripristino di strumenti di verifica, della elaborazione di piani nazionali e regionali idrogeologici, della loro pianificata attuazione in un quindicennio. Invece Matteo Renzi vuol “rottamare gli ultimi vent’anni di politica ambientale” con ciò individuando il “nemico” nelle Regioni. Alcune, a cominciare dalla sua Toscana, gli rispondono che una colpa fondamentale ce l’hanno i condoni edilizi e ambientali decisi dal governo. Già, da quale governo negli ultimi vent’anni? Dai governi Berlusconi, dell’ “amico” e alleato Silvio, a partire dal 1994 per chiudere col 2009, a volte edilizio e ambientale, altre edilizio e fiscale. Congedo col Piano Casa che le Regioni stanno ancora riproponendo col “gonfiamento”, fra l’altro, di cubature per l’edilizia esistente. Quindi Renzi dovrebbe anzitutto “rottamare” Berlusconi e i suoi governi. Cerchiamo di fare discorsi un po’ più seri risalendo alle cause, alle origini di questa vicenda pluriennale, dalla quale escono sfasciati sia il territorio che lo Stato italiano.
Novembre 1966: alluvioni tragiche di Firenze e Venezia. 1970: la commissione De Marchi propone un piano pluriennale di “ricostruzione” del Paese per 10.000 miliardi di lire. Maggio 1989: finalmente il Parlamento vara la legge n. 183 che istituisce le Autorità di bacino, nazionali (dal Po al Volturno) e regionali. Subito Regioni e Comuni ricorrono contro di essa sentendosi spogliati della loro “autorità”. A Londra la Themes Authority ha riunito ben 11.000 enti operando con grande efficacia. Da noi le maggiori Autorità studiano e redigono piani di bacino, localmente contestati e parzialmente finanziati. La Lega propone di dividere in quattro segmenti regionali (Piemonte, Lombardia, Emilia, Veneto) la gestione del Po. Il Titolo V della Costituzione pone allo stesso livello Stato, Regioni, Enti locali…Nel 2000 l’Unione Europea istituisce con direttiva le Autorità di Distretto per la pianificazione e la gestione dei bacini fluviali. I piani devono essere completati per il 2009. L’Ungheria ha già presentato il piano per il bacino del Danubio, l’Italia, sei anni dopo, non ha ancora ottemperato alla direttiva, in generale.
Il rimpianto per la buona legge n. 183 dell’89 (i cui punti essenziali possono essere recuperati) è tale che numerosi e qualificati idro-geologi, amministrativisti, ecc. hanno costituito il Gruppo 183 che periodicamente si riunisce per studi, ricerche, convegni. Le loro proposte si articolano così: 1) facilitazione e incentivazione degli interventi e delle azioni preventive di difesa del suolo; 2) restituzione di centralità al tema della manutenzione programmata del territorio; 3) semplificazione delle procedure amministrative, l’accorpamento dei soggetti istituzionali chiamati in causa, la costituzione di coordinamenti efficaci che presidino l’intero percorso che va dalla programmazione all’attuazione, alla manutenzione e al controllo degli interventi di prevenzione; 4) recupero di istituzioni e meccanismi storicamente affidabili e ingiustamente abbandonati; 5) eliminazione degli sprechi nell’utilizzazione delle risorse economiche e umane disponibili.
Un bilancio: l’Istituto Idrografico Nazionale è stato a suo tempo smembrato. Così confusamente che per alcuni anni la Regione Lazio ha sospeso i rilievi dei regimi di piena e di magra del Tevere, un fiume “pazzo”. L’Istituto Geologico Nazionale è riuscito a completare soltanto al 40 % la carta del Paese. L’Istituto Sismico Nazionale è stato inglobato, ai tempi di Bertolaso, nella Protezione Civile, anche per far fuori il suo direttore, Roberto De Marco, notoriamente di sinistra. L’Istituto Meteorologico Civile ancora non esiste. Vogliamo partire da qui per una visione unitaria, nazionale dei problemi? Gli esperti riuniti nel 2012 ai Lincei hanno constatato un “vuoto di competenze”. La stessa Protezione Civile soffre oggi – dopo anni di assurdo espansionismo (fino a gestire il centenario dei Santi) – di notevoli carenze di fondi. Il Corpo dei Vigili del Fuoco, uno dei più efficienti e generosamente disponibili, rischia di essere anch’esso accorpato. Come il Corpo Forestale. Assurdità della spending review all’italiana.
Poi ci sono i punti critici, ormai cronici. Genova è precipitata dagli oltre 800.000 residenti del 1971 agli attuali 582.000 (-31%). Eppure si continua a costruire, a consumare suoli liberi, magari da rimboschire. Persino nel decennio 2001-2011 le costruzioni, pur di poco (+ 0,6%), sono cresciute, mentre i genovesi continuavano a calare (- 3,2 %). Ma chi a vedere “a monte”? Tutti, o quasi, si fermano “a valle”. A Milano l’acqua straripa da tutte le parti. Da sotto e da sopra. La falda è risalita da quando le industrie siderurgiche e tessili, grandi consumatrici d’acqua, hanno chiuso. Essa minaccia costantemente i piani bassi degli ultimi quartieri e la Linea 3 della metro. Era proprio impossibile prevederlo? No. Fra 2001 e 2011 le costruzioni non sono cresciute in città, ma la popolazione comunale è calata di un altro 1,11 % e, rispetto al picco del 1971, segna un – 28,3 %.
Milano poi è seconda nella impressionante classifica delle città più “impermeabilizzate”, appena dopo Napoli, con un pazzesco 61,47 % fra cemento e asfalto e la contigua Monza è quinta col 48,6%. Questa coltre impermeabile ha impedito a tanta acqua piovana di filtrare: in tre anni è successo a 270 milioni di tonn. di piogge in tutta Italia. Ci fermiamo nel consumo di suoli? Macché. Secondo l’Ispra, nel 2009-2012 è stata “impermeabilizzata” una superficie pari a Milano più Firenze, Bologna, Napoli e Palermo. Un record, malgrado la crisi edilizia. Il 7,3 % del Belpaese è ormai perduto, più del 10 % in Lombardia e nel Veneto (anch’esso in allarme continuo per i fiumi). Piani paesaggistici? Soltanto la Regione Toscana l’ha approvato, con la nuova legge urbanistica, fra polemiche furibonde di cavatori, costruttori, speculatori vari.
Quante sono le costruzioni abusive – ecco l’altro nemico spesso sottaciuto da giornali e tv – alzate nelle golene, negli alvei dei corsi d’acqua o su terreni collinari coperti da vincoli idrogeologici? Una quantità enorme, sempre più colossale man mano che si procede verso sud (ma anche nel Po e affluenti non si scherza) . Se questi abusi – che rendono più micidiali le piene – vengono “sanati” , i disastri non potranno che ripetersi. A Olbia, a Ischia o nella costa del Gargano (Parco Nazionale) la maggior parte delle costruzioni, se non la totalità, sono abusive.
Punti fondamentali per ripartire: attuare finalmente la legislazione UE sui Distretti idrografici, redigere progetti seri, inseriti in piani seri, finanziati non a singhiozzo. La Cassa Depositi e Prestiti si dice disposta a finanziarli se l’UE allenterà eccezionalmente i controllo sul bilancio statale. Sarebbe uno Salva Italia, con l’obiettivo, in 15-20 anni, di “ricostruire” il Paese che alla prima pioggia battente vien giù o va sott’acqua, con morti, dispersi, infortunati, sfollati, traumatizzati. A migliaia. Oltre tutto questi sono posti di lavoro, a migliaia, subito pronti, subito utili.
La Repubblica, 17 novembre 2014 (m.p.r.)
Lavoce.info, 14 novembre 2014 (m.p.r.)
Verso Parigi con una delusione non dimenticata
Gli esperti e l’opinione pubblica ricordano ancora la grande delusione di Copenhagen 2009. Da quella riunione si ci aspettava che sbocciasse il nuovo accordo globale sul clima fatto di target di riduzione delle emissioni di gas-serra vincolanti per ciascun paese, dagli Stati Uniti alla Cina, dall’India all’Europa, dal Giappone all’Australia, dal Brasile al Canada. Si trattava della quindicesima riunione della Conferenza delle parti (Cop15), il summit sul clima che ogni anno riunisce attorno a un tavolo oltre 190 paesi. Molti avevano vissuto l’attesa di quel vertice Onu nella convinzione, rivelatasi poi illusione, che quanto gli scienziati indicavano come necessario per ridurre la crescita della temperatura globale fosse di per sé sufficiente a convincere i principali emettitori a firmare un accordo vincolante.
Nonostante questi chiari messaggi, molti, tra cui chi scrive, non si aspettavano uno storico risultato da Parigi 2015. A ben guardare, non sembra che sia cambiato significativamente lo schema dei benefici netti (i payoffs) percepiti da ciascun paese derivanti da un’azione coordinata di mitigazione delle emissioni. In altre parole, le condizioni del dilemma del prigioniero sono ancora lì, sostanzialmente inalterate. Poiché l’orizzonte temporale in cui si determinano i danni del cambiamento climatico è nell’ordine dei decenni e centinaia d’anni, mentre l’orizzonte in cui vanno decise le politiche di mitigazione spesso coincide con il ciclo politico-elettorale, appare difficile attendersi risultati eclatanti. Un’azione più incisiva da parte dei nostri Governi potrà essere indotta solo da un’anticipazione dei danni futuri, come certi episodi di eventi climatici estremi che già si registrano oggi in giro per il mondo, e da un’accresciuta consapevolezza del problema fornita da risultati scientifici sempre meno incerti e più precisi.
Il miracolo inatteso
Chi si occupa di politica, tuttavia, sa che a volte si può produrre all’improvviso il miracolo. E questo potrebbe essere avvenuto nei giorni scorsi. O almeno si sono forse poste le premesse per un miracolo parigino. Al termine del vertice Apec, il presidente americano Barack Obama ha annunciato a sorpresa (sembra dopo mesi di trattative segrete) un accordo con il presidente cinese Xi Jinping secondo cui i due paesi ridurranno le proprie emissioni di gas-serra di circa un terzo nei prossimi due decenni. In particolare, gli Usa ridurrebbero le emissioni del 26-28 per cento entro il 2025 relativamente ai livelli del 2005 con una netta accelerazione rispetto al livello precedentemente dichiarato del 17 per cento (tabella 1). Per parte sua la Cina “intende” cominciare a ridurre le emissioni nel 2030 e fare “del suo meglio” per far sì che in quell’anno raggiungano il picco. Ha anche concordato di aumentare la quota di consumo di energia da fonti non fossili (rinnovabili e nucleare) a circa il 20 per cento entro il 2030. In particolare, il paese procederà a installare 800-1,000 gigawatts aggiuntivi di capacità di generazione elettrica nucleare, eolica, solare e altre tecnologie a emissioni zero entro il 2030, più di tutti gli impianti a carbone esistenti oggi in quel paese.
La questione politica
Rimane ovviamente in piedi la principale questione politica. Riuscirà l’amministrazione Obama a rispettare questo impegno? Qualche tempo fa, l’Epa (l’Agenzia per la protezione ambientale) ha proposto nuove norme per ridurre le emissioni delle centrali elettriche esistenti. È molto poco probabile che sia sufficiente per ottenere una diminuzione del 28 per cento. E da dove verranno gli ulteriori tagli? Il Congresso a maggioranza repubblicana aspetta una risposta, avversa questa mossa perché è scettico sui cambiamenti climatici e ne sottolinea solo i costi economici: non è detto che il presidente Obama abbia tutte le carte in mano per potere fare da solo.