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Ogni giorno ci domandiamo se è peggio essere comandati dal Caimano direttamente o attraverso il suo pupazzo. Il

manifesto, 27 gennaio 2014

Ver­dini e Ber­lu­sconi li ha ascol­tati volen­tieri, ma le osser­va­zioni cri­ti­che dei mag­giori costi­tu­zio­na­li­sti ita­liani no: quelle lo hanno fatto inner­vo­sire. Mat­teo Renzi ha preso male l’appello dei giu­ri­sti con­tro il suo pro­getto di riforma elet­to­rale; lo hanno fir­mato da Azza­riti a Car­las­sare, da Fer­ra­joli a Fer­rara, da Rodotà a Vil­lone e il mani­fe­sto lo ha pub­bli­cato dome­nica. «Un mani­polo di scien­ziati del diritto», li ha defi­niti sprez­zante il segre­ta­rio del Pd, usando il lin­guag­gio che gli serve a inten­dersi con il Cava­liere.
Cava­liere che per le sue «por­cate» elet­to­rali o ad per­so­nam del resto faceva lo stesso. Tirava avanti comun­que, per poi sbat­tere rego­lar­mente con­tro la Corte Costi­tu­zio­nale. A quel punto, però, quelle leggi ave­vano già fatto danni. Per l’Italicum si intra­vede un destino simile. In effetti è ancora una legge fir­mata Berlusconi.

Chi avesse preso sul serio gli infi­niti discorsi di Renzi sull’importanza del «merito», con­trap­po­sto al par­lar vano della poli­tica, avrebbe di che sor­pren­dersi ascol­tan­dolo adesso inso­len­tirsi per le cri­ti­che nel merito dei giu­ri­sti. «Se non si fa que­sta legge elet­to­rale ci tocca il governo con Ber­lu­sconi», spiega spic­cio il segre­ta­rio. A guar­dare sotto la spoc­chia les­si­cale que­sto è il suo unico argo­mento. Cioè, una riforma che ampli­fica i disa­stri della legge Cal­de­roli, ignora le osser­va­zioni della Con­sulta e regala a una mino­ranza un pre­mio spro­po­si­tato è una neces­sità poli­tica? Tac­cia allora chi si pre­oc­cupa dei prin­cipi costi­tu­zio­nali. Ma se al sin­daco di Firenze inte­ressa que­sto e basta, vin­cere il famoso giorno dopo le ele­zioni, o meglio ancora quello prima, se il rispetto della volontà popo­lare è solo una fisima degli «scien­ziati del diritto», allora ha pos­si­bi­lità infi­ni­ta­mente mag­giori. Ver­dini è un buon gio­ca­tore ma Ber­lu­sconi è un po’ appan­nato, per­ché Renzi non se la gioca a poker?

La Corte Costi­tu­zio­nale ha appena scritto che «le assem­blee par­la­men­tari si fon­dano sull’espressione del voto e quindi della sovra­nità popo­lare». Renzi risponde pro­po­nendo un senato di ammi­ni­stra­tori locali non eletti ma coop­tati e una camera dove appli­cando l’Italicum all’ultimo son­dag­gio viene fuori che con il 22% dei voti al primo turno, e tutti i suoi alleati sotto la soglia, Forza Ita­lia può pren­dere il 52% dei seggi.

Un pre­mio del 30% che tra­sforma in cigno anche il Por­cel­lum, che in fondo non è andato oltre un più 25% (comun­que troppo per la Con­sulta). Così almeno era la legge che il segre­ta­rio del Pd ha pre­sen­tato al suo par­tito, accom­pa­gnan­dola con un peren­to­rio «pren­dere o lasciare». Un ulti­ma­tum che ha già dovuto riti­rare. Le soglie assurde che pos­sono lasciar fuori par­titi con due milioni e mezzo di voti si vanno abbas­sando. L’editto che riscrive l’aritmetica tra­sfor­mando per legge il 35% in mag­gio­ranza si può cor­reg­gere. Anche quel Ghino di Tacco tro­vava i suoi osta­coli e Renzi, bul­li­smi a parte, deve ras­se­gnarsi a ridurre almeno un po’ il suo danno.

Ma il danno resta. Soprat­tutto per­ché alla crisi della rap­pre­sen­tanza, al mon­tare dei popu­li­smi e all’esplosione dell’astensionismo, Renzi con­ti­nua a rispon­dere con la droga tutta ita­liana del mag­gio­ri­ta­rio spinto. Non cam­bia verso, torna indie­tro. Ci riporta all’inizio del tun­nel ber­lu­sco­niano. Disprezza le ragioni del diritto e della Costi­tu­zione, que­sto è chiaro. Ma con la poli­tica non va meglio.

A proposito della riforma della legge elettorale che Berlusconi e Renzi vogliono imporre al popolo italiano L’appello dei più autorevoli costituzionalisti italiani ai parlamentari. Sotto accusa premio di maggioranza, liste bloccate e sbarramento. il manifesto, 25 gennaio 2014

La pro­po­sta di riforma elet­to­rale depo­si­tata alla Camera a seguito dell’accordo tra il segre­ta­rio del Par­tito Demo­cra­tico Mat­teo Renzi e il lea­der di Forza Ita­lia Sil­vio Ber­lu­sconi con­si­ste sostan­zial­mente, con pochi cor­ret­tivi, in una rifor­mu­la­zione della vec­chia legge elet­to­rale – il cosid­detto “Por­cel­lum” – e pre­senta per­ciò vizi ana­lo­ghi a quelli che di que­sta hanno moti­vato la dichia­ra­zione di inco­sti­tu­zio­na­lità ad opera della recente sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale n.1 del 2014.

Que­sti vizi, afferma la sen­tenza, erano essen­zial­mente due.

Il primo con­si­steva nella lesione dell’uguaglianza del voto e della rap­pre­sen­tanza poli­tica deter­mi­nata, in con­tra­sto con gli arti­coli 1, 3, 48 e 67 della Costi­tu­zione, dall’enorme pre­mio di mag­gio­ranza – il 55% per cento dei seggi della Camera – asse­gnato, pur in assenza di una soglia minima di suf­fragi, alla lista che avesse rag­giunto la mag­gio­ranza rela­tiva. La pro­po­sta di riforma intro­duce una soglia minima, ma sta­bi­len­dola nella misura del 35% dei votanti e attri­buendo alla lista che la rag­giunge il pre­mio del 53% dei seggi rende insop­por­ta­bil­mente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del prin­ci­pio di rap­pre­sen­tanza lamen­tata dalla Corte: il voto del 35% degli elet­tori, tra­du­cen­dosi nel 53% dei seggi, ver­rebbe infatti a valere più del dop­pio del voto del restante 65% degli elet­tori deter­mi­nando, secondo le parole della Corte, “un’alterazione pro­fonda della com­po­si­zione della rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica sulla quale si fonda l’intera archi­tet­tura dell’ordinamento costi­tu­zio­nale vigente” e com­pro­met­tendo la “fun­zione rap­pre­sen­ta­tiva dell’Assemblea”. Senza con­tare che, in pre­senza di tre schie­ra­menti poli­tici cia­scuno dei quali può rag­giun­gere la soglia del 35%, le ele­zioni si tra­sfor­me­reb­bero in una roulette.

Il secondo pro­filo di ille­git­ti­mità della vec­chia legge con­si­steva nella man­cata pre­vi­sione delle pre­fe­renze, la quale, afferma la sen­tenza, ren­deva il voto “sostan­zial­mente indi­retto” e pri­vava i cit­ta­dini del diritto di “inci­dere sull’elezione dei pro­pri rap­pre­sen­tanti”. Que­sto mede­simo vizio è pre­sente anche nell’attuale pro­po­sta di riforma, nella quale pari­menti sono escluse le pre­fe­renze, pur pre­ve­den­dosi liste assai più corte. La desi­gna­zione dei rap­pre­sen­tanti è per­ciò nuo­va­mente ricon­se­gnata alle segre­te­rie dei par­titi. Viene così ripri­sti­nato lo scan­dalo del “Par­la­mento di nomi­nati”; e poi­ché le nomine, ove non avven­gano attra­verso con­sul­ta­zioni pri­ma­rie impo­ste a tutti e tas­sa­ti­va­mente rego­late dalla legge, saranno decise dai ver­tici dei par­titi, le ele­zioni rischie­ranno di tra­sfor­marsi in una com­pe­ti­zione tra capi e infine nell’investitura popo­lare del capo vincente.

C’è poi un altro fat­tore che aggrava i due vizi sud­detti, com­pro­met­tendo ulte­rior­mente l’uguaglianza del voto e la rap­pre­sen­ta­ti­vità del sistema poli­tico, ben più di quanto non fac­cia la stessa legge appena dichia­rata inco­sti­tu­zio­nale. La pro­po­sta di riforma pre­vede un innal­za­mento a più del dop­pio delle soglie di sbar­ra­mento: men­tre la vec­chia legge, per que­sta parte tut­tora in vigore, richiede per l’accesso alla rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare almeno il 2% alle liste coa­liz­zate e almeno il 4% a quelle non coa­liz­zate, l’attuale pro­po­sta richiede il 5% alle liste coa­liz­zate, l’8% alle liste non coa­liz­zate e il 12% alle coa­li­zioni. Tutto que­sto com­por­terà la pro­ba­bile scom­parsa dal Par­la­mento di tutte le forze minori, di cen­tro, di sini­stra e di destra e la rap­pre­sen­tanza delle sole tre forze mag­giori affi­data a gruppi par­la­men­tari com­po­sti inte­ra­mente da per­sone fedeli ai loro capi.

Insomma que­sta pro­po­sta di riforma con­si­ste in una rie­di­zione del por­cel­lum, che da essa è sotto taluni aspetti – la fis­sa­zione di una quota minima per il pre­mio di mag­gio­ranza e le liste corte – miglio­rato, ma sotto altri – le soglie di sbar­ra­mento, enor­me­mente più alte – peg­gio­rato. L’abilità del segre­ta­rio del Par­tito demo­cra­tico è con­si­stita, in breve, nell’essere riu­scito a far accet­tare alla destra più o meno la vec­chia legge elet­to­rale da essa stessa varata nel 2005 e oggi dichia­rata incostituzionale.

Di fronte all’incredibile pervicacia con cui il sistema politico sta tentando di riprodurre con poche varianti lo stesso sistema elettorale che la Corte ha appena annullato perché in contrasto con tutti i principi della democrazia rappresentativa, i sottoscritti esprimono il loro sconcerto e la loro protesta

Con­tro la pre­tesa che l’accordo da cui è nata la pro­po­sta non sia emen­da­bile in Par­la­mento, ricor­dano il divieto del man­dato impe­ra­tivo sta­bi­lito dall’art.67 della Costi­tu­zione e la respon­sa­bi­lità poli­tica che, su una que­stione deci­siva per il futuro della nostra demo­cra­zia, cia­scun par­la­men­tare si assu­merà con il voto. E segna­lano la con­creta pos­si­bi­lità – nella spe­ranza che una simile pro­spet­tiva possa ricon­durre alla ragione le mag­giori forze poli­ti­che – che una simile rie­di­zione pale­se­mente ille­git­tima della vec­chia legge possa pro­vo­care in tempi più o meno lun­ghi una nuova pro­nun­cia di ille­git­ti­mità da parte della Corte costi­tu­zio­nale e, ancor prima, un rin­vio della legge alle Camere da parte del Pre­si­dente della Repub­blica onde sol­le­ci­tare, in base all’art.74 Cost., una nuova deli­be­ra­zione, con un mes­sag­gio moti­vato dai mede­simi vizi con­te­stati al Por­cel­lum dalla sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale. Con con­se­guente, ulte­riore discre­dito del nostro già scre­di­tato ceto politico.

Primi fir­ma­tari:

Gae­tano Azza­riti, Mauro Bar­be­ris, Miche­lan­gelo Bovero, Erne­sto Bet­ti­nelli, Fran­ce­sco Bilan­cia, Lorenza Car­las­sare, Paolo Caretti, Gio­vanni Cocco, Clau­dio De Fio­res, Mario Dogliani, Gianni Fer­rara, Luigi Fer­ra­joli, Angela Musu­meci, Ales­san­dro Pace, Ste­fano Rodotà, Luigi Ven­tura, Mas­simo Vil­lone, Ermanno Vitale.Pie­tro Adami, Anna Fal­cone, Gio­vanni Incor­vati, Raniero La Valle, Roberto La Mac­chia, Dome­nico Gallo, Fabio Mar­celli, Valen­tina Pazè, Paolo Solimeno

Per ade­rire inviare una mail a: perlademocraziacostituzionale@ gmail. com

Cio’ che sarebbe avvenuto se non potessimo giovarci d’ una magistratura autonoma rispetto ai partiti, e ciò che invece, per fortuna, è accaduto. Ma “del diman non v’è certezza”.

La Repubblica, 25 gennaio 2014
Nelle riflessioni sul da farsi vengono utili storie virtuali, ossia come staremmo se anziché X, fosse avvenuto Y.

Invertiamo la freccia del tempo rivivendo giovedì 1 agosto 2013: da sette ore, cinque ermellini deliberano in camera di consiglio sul ricorso contro la condanna a 4 anni, inflitta dalla Corte d’appello milanese all’ex premier; rispondeva d’una lunga frode fiscale consumata negli Usa, essendo già “statista”; il grosso della condotta delittuosa svaniva, estinto dalla prescrizione, tanto utile agli acrobati illegalisti. Corrono previsioni d’annullamento con rinvio, nel qual caso tutto finirebbe nel solito poco onorevole proscioglimento: il delitto c’era ma non è più punibile; se li mangia il tempo. Stiamo supponendo che la Corte esaudisca l’augurio: Deo gratias, esclamano molti eletti (li nominava il partito, come nella mussoliniana Camera dei Fasci e Corporazioni): temevano una fine abortiva della legislatura; questo rassicurante evento blinda le “larghe intese”. La posta era terribile: vedi l’allarme lanciato dal Corriere, 24 luglio 2013; povera Italia, in preda ai mercati se cadesse il governo.

La questione è chi abbia vinto. Ovvio, Berlusco Magnus, più forte della legge: da vent’anni combattevano due poteri e soccombe la compagnia in toga; siamo liberi, plaudono gli addetti al culto d’Arcore. Vanno in soffitta antiche massime giacobine, che vigano regole uniformi. Nossignori, è tempo d’una versatile empiria, attenta alle persone. Qualche politologo dai pochi scrupoli la chiama «moderna democrazia». Il redivivo aveva sfiorato la vittoria con una strepitosa rimonta: grazie al Porcellum sarebbe padrone nella Camera bassa solo che la campagna elettorale fosse durata ancora qualche giorno; i Pd calavano a vista d’occhio. Ormai egemone, terrà in piedi questa larva d’un governo finché gli conviene, logorando i consorti, nelle cui file impianta colonie.

La prospettiva lascia pochi dubbi: a sinistra il disgusto alimenta l’astensione; hanno buon gioco proteste selvatiche (l’attuale premier, molto dialogante, auspicava che l’Olonese togliesse alle Cinque Stelle i voti non acquisibili dal Pd); la fortezza è un Pdl integrato dal satellite centrosinistro sotto oligarchi sicuri (in numeri meno divaricati, la funzione dei partiti minori nei vecchi governi a guida democristiana). Fiorisce un regime consortile: il senior partner comanderà finché abbia spirito animale, formidabile nei caimani; après lui, gli osservatori pronosticano guerre di successione.

Tale sarebbe il quadro se le sentenze corrispondessero ai calcoli nei luoghi del potere politico. Che il Pd sia timido davanti all’uomo forte, consta da precedenti indecorosi: non era eleggibile alle Camere, finché fosse in atto una concessione amministrativa economicamente rilevante (art. 10, c. 1, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361), ma oligarchi ex comunisti gli garantivano le aziende; Montecitorio chiude gli occhi, intendendo l’incompatibilità nel senso ridicolo che tocchi solo Fedele Confalonieri, titolare della concessione, senza effetti rispetto al padrone, irresistibile autocrate. Fosse meno visibile, lo diremmo imprenditore occulto.

Era storia virtuale. La sera del 1° agosto le cose vanno diversamente. Gli ermellini rientrano e avviene tutto in pochi minuti, nemmeno fosse un caso qualunque, risolubile in equazioni legali: cade la pena accessoria (sarà rideterminata dalla Corte milanese); respinti i 47 motivi del ricorso; passa in giudicato la condanna a 4 anni (3 coperti da indulto). Inorridiscono i sedicenti moderati.

Qui la commedia prende ritmi indiavolati. L’alto stratega delle “larghe intese” appare stupito: una sua fulminea nota contiene lodi al condannato, degno homme d’État, e calcando la mano sull’altro piatto, raccomanda riforme della giustizia (cospicua gaffe, sia permesso dirlo). Furibondo, lui sbraita da Porta a porta: è atto «irresponsabile» condannarlo in primo, secondo, terzo grado; da vent’anni serve l’ingrata Italia (arricchendosi a dismisura e l’ha lasciata in bolletta); abitiamo un paese guasto ma lo ripulirà cominciando dai tribunali. Ai bei tempi esibiva una volgarità sorridente. Adesso ringhia, torvo e nero. Secondo recenti norme, votate anche dai suoi (d.P.R. 31 dicembre 2012 n. 235), e se ne vantavano qualificandosi «partito degli onesti», l’ormai irrevocabile condanna gli toglie il seggio al Senato, dove sedeva immune da eventuali misure cautelari o investigative: non è più candidabile; e a parte l’effetto morale, l’anno da scontare causa intuibili disturbi. Era sua l’idea d’un secondo settennio dell’uscente dal Quirinale: adombrando misteriosi accordi, vuol estorcere interventi che lo riqualifichino, come niente fosse; e nella retorica d’Arcore questo bagno catartico diventa «pacificazione », invocata dal «popolo della libertà». Gli riaprano i palchi dello spettacolo politico o cade il governo: esige la grazia, subito, motu Praesidentis, doveroso rimedio alla lesa maestà (cinque «impiegati » s’erano permessi d’applicargli uno stupido comma), e non basta perché pendono altre accuse; noncurante dell’elementare grammatica giuridica, chiede d’essere garantito da ogni rischio penale, né più, né meno. Nelle dicerie d’amnistia mettono becco ministro della difesa, uomo dai vari colori, e madama guardasigilli, mano quirinalesca.

Imperversa tre mesi la battaglia in Senato: l’esclusione dall’assemblea, cantano i suoi a piena gola, è una pena, quindi irrogabile solo ai fatti post 5 gennaio 2013 (entrata in vigore della relativa legge); decida in proposito la Consulta; e se ne riparla tra un anno; chi vivrà, vedrà. Pronta, la guardasigilli interloquisce ad adiuvandum: il diritto è «materia d’approfondimento», no?; e volano ciarle da portineria. Il voto segreto in assemblea lascerebbe più d’uno spiraglio all’inamovibile, dato l’umore malsicuro nel gruppo Pd, ma gli elettori incutono paura. Voto palese, quindi, e come Dio vuole, mercoledì 27 novembre, Re Lanterna perde il laticlavio: mese infausto; sabato 12 novembre 2011 usciva da Palazzo Chigi. La fase seguente, prossima al punto climaterico, pone gravi questioni.

Non fu un Presidente del consiglio, partner autorevole del PD di Napolitano ed Epifani e sodale "in profonda sintonia" del PD di Renzi e Renzi a proclamare che non è giusto pagare le tasse, e a darne il buon esempio tanto da essere condannato da tre tribunali per frode fiscale? Il manifesto, 24 gennaio 2014

L’evasione fiscale accer­tata dalla guar­dia di Finanza nel 2013 è di 52 miliardi di euro, pari ad almeno tre leggi di sta­bi­lità di importo pari a quella licen­ziata dal governo Letta a fine dicem­bre: poco più di 14 miliardi di euro. Nel rap­porto annuale dif­fuso ieri, le Fiamme Gialle sosten­gono di avere indi­vi­duato 12.726 respon­sa­bili di reati fiscali e 8.315 eva­sori totali che hanno occul­tato al fisco red­diti per 16,1 miliardi di euro. Si stima che i ricavi non con­ta­bi­liz­zati e i costi non dedu­ci­bili rile­vati agli altri tipi di eva­sione siano pari a 20,7 miliardi di euro. L’Iva è stata evasa per 4,9 miliardi di euro. Almeno due sono ricon­du­ci­bili alle cosid­dette «frodi caro­sello», cioè quelle ope­ra­zioni ille­gali basate su fit­ti­zie tran­sa­zioni com­mer­ciali con l’estero. L’importo dell’evasione fiscale inter­na­zio­nale ammon­te­rebbe a 15,1 miliardi di euro.

Sugli oltre 12 mila denun­ciati per reati fiscali, 202 sono stati arre­stati per falsa fat­tu­ra­zione fat­ture (pari a 5.776 vio­la­zioni); 534 sono i casi di chi non ha ver­sato l’Iva (534 casi); 2903 le vio­la­zioni di chi ha omesso di pre­sen­tare la dichia­ra­zione dei red­diti; 1.967 i casi di chi ha nasco­sto la con­ta­bi­lità. Sono state inol­tre avviate pro­ce­dure di seque­stro pari a 4,6 miliardi di euro nei con­fronti di chi è stato rico­no­sciuto respon­sa­bile di frodi fiscali, di beni mobili, immo­bili, valuta e conti cor­renti pari per 4,6 miliardi. Nel corso del 2013 sono stati ese­guiti prov­ve­di­menti che hanno per­messo di ripor­tare 1,4 miliardi, al patri­mo­nio dello Stato. Magra con­so­la­zione, visto che com­ples­si­va­mente si tratta di 5,6 miliardi, un decimo dell’importo che si ritiene sia stato nascosto.

Quanto al con­trollo degli scon­trini e rice­vute fiscali negli eser­cizi com­mer­ciali, la Guar­dia di Finanza sostiene di avere effet­tuato 400 mila con­trolli. Nel 32% dei casi sono stati rila­sciati in maniera irre­go­lare, poco più di uno su tre. Sono stati inter­cet­tati oltre 298 milioni in con­tanti e titoli ille­ci­ta­mente tra­spor­tati attra­verso i con­fini nazio­nali. Rispetto al 2012 que­ste ope­ra­zioni sono quasi tri­pli­cate. Nel 2013 ne sono state indi­vi­duate il 140% in più rispetto all’anno pre­ce­dente, pari ad oltre 258 milioni. Le Fiamme Gialle sosten­gono che que­sto aumento sia stato dovuto alla seve­rità della entrata in vigore nel 2012.

Un’altra parte dell’attività dei mili­tari si è rivolta al con­tra­sto del lavoro nell’economia som­mersa. Sono stati sco­perti 14.220 lavo­ra­tori total­mente in nero, 13.385 sono gli irre­go­lari. I datori di lavoro che li hanno sfrut­tati sono 5.338. Anche il capi­tolo delle vio­la­zioni fiscali è quello rap­pre­sen­tato dal set­tore eco­no­mico dei gio­chi e delle scom­messe, in espan­sione e da tempo al cen­tro delle atten­zioni della finanza pub­blica. Nel 2013 la Gdf ha effet­tuato oltre 9mila inter­venti e ha denun­ciato 3.500 casi di vio­la­zione a carico di 10 mila respon­sa­bili. Le scom­messe «al nero», cioè non sog­gette alle impo­ste pre­vi­ste in que­sti casi, sono state pari a 123 milioni di euro.

Com­men­tando i dati il segre­ta­rio con­fe­de­rale della Cisl, Mau­ri­zio Petric­cioli ha chie­sto «un impe­gno sup­ple­tivo e straor­di­na­rio da parte del Governo e del Par­la­mento». Il depu­tato Pd Michele Pelillo, segre­ta­rio della com­mis­sione Finanze, ha sug­ge­rito usare la delega fiscale, appro­vata alla Camera e ora al vaglio del Senato, per il con­tra­sto dell’evasione. «I numeri che ci dà oggi la GdF sull’evasione fiscale sono impres­sio­nanti. Dob­biamo dun­que pren­dere atto che que­sti sforzi sono stati insuf­fi­cienti e che dob­biamo fare di più».

In un docu­mento appro­vato dalla com­mis­sione par­la­men­tare di vigi­lanza sull’anagrafe tri­bu­ta­ria nella XVI legi­sla­tura (2008–2012) aveva quan­ti­fi­cato l’entità dell’economia som­mersa tra i 230 e 250 miliardi di euro. In una audi­zione alla com­mis­sione Finanze del Senato nel 2012 il pre­si­dente della Corte dei Conti ha indi­cato una cifra più con­te­nuta pari a 180 miliardi di euro annui, citando una stima basata sui dati Ocse. È stata anche rea­liz­zata una simu­la­zione della distri­bu­zione ter­ri­to­riale dell’evasione.

Nell’aprile 2012 all’Unità di infor­ma­zione finan­zia­ria (UiF), un uffi­cio della Banca d’Italia, risul­tava che la media dell’evasione è di 38,19 euro su 100 euro di impo­ste pagate. Que­sta media cre­sce in regioni come il Molise, la Basi­li­cata e la Puglia (64 su 100), poi c’è la Cam­pa­nia con il 59 e la Sici­lia con il 56, a seguire tutte le altre. Un’altra carat­te­ri­stica deter­mi­nante di que­sta massa mone­ta­ria è quella di sti­mo­lare o di favo­rire la cre­scita delle eco­no­mie cri­mi­nali e i sistemi di rici­clag­gio del denaro sporco. Due facce della stessa meda­glia, sostiene l’Ocse dal 2012. Se a que­sta cifra aggiun­giamo quella dell’elusione fiscale, pari a 150 miliardi di euro all’ano, si com­prende facil­mente le dimen­sioni finan­zia­rie di un feno­meno che è anche alla base di un’economia paral­lela che finan­zia atti­vità cri­mi­nali o quelle appa­ren­te­mente legali. Secondo la Corte dei Conti l’Italia è primo in Europa per eva­sione fiscale. Nel mondo ci sono solo Tur­chia e Messico

È incredibile pensare che siamo da tempo schiavi di un paradosso. La colpa è di chi è tanto bue da scegliere "democraticamente" i padroni che da trent'anni ci comandano.

La Repubblica, 24 gennaio 2014

Un terremoto fa aumentare il Pil perché crea nuove attività e occupazione: questo paradosso sintetizza meglio di qualsiasi discorso l’assurdità dell’indicatore che condiziona tutte le decisioni di politica economica. Il Prodotto Interno Lordo rappresenta la misura delle transazioni monetarie e la sua variazione indica se un’economia si sta arricchendo oppure no. Ma se venisse lanciato un piano di trasporti volto ad incentivare l’uso della bicicletta e dei mezzi pubblici al posto dei veicoli privati, l’effetto contabile sarebbe quello di una drastica diminuzione dei consumi di energia e quindi del Pil e del gettito fiscale. Tutto ciò farebbe peggiorare i conti pubblici e il rapporto tra debito e reddito spingendo il governo a varare delle pesanti manovre per contenere la spesa ed innalzare le tasse. Il miglioramento della qualità della vita e la salvaguardia dell’ambiente che potrebbero derivare da una riduzione del trasporto privato avrebbero dunque effetti negativi sulla politica economica.

Se prendiamo il caso italiano, possiamo osservare che l’attenzione è concentrata sulla crescita del prodotto interno – automobili, case, beni di consumo – mentre la qualità delle infrastrutture e del capitale come il territorio, l’acqua, l’aria, il patrimonio artistico e l’istruzione, è completamente ignorata. Il settore privato non ha alcun incentivo ad investire per valorizzare lo stock di capitale, mentre lo Stato non ha i soldi per farlo. Se, invece, la qualità del capitale fosse calcolata nel Prodotto Interno Lordo, il risultato sarebbe ben diverso perché in tal modo ne risulterebbe accresciuta la ricchezza nazionale riducendo il peso del debito. Il nostro Paese diventerebbe migliore sia sotto il profilo della qualità della vita che per l’affidabilità di fronte ai famigerati mercati finanziari.

Le critiche al Pil sono ormai contenute in una letteratura sterminata eppure non si è ancora riusciti a fare il passo decisivo: abbandonare il Pil per utilizzare altri indicatori in grado di orientare in modo più intelligente le decisioni di politica economica. Siamo convinti che bisognerebbe seguire un criterio diverso: fissare gli obiettivi sucuimisurarel’efficaciadellepolitiche economiche. Ciò significa che un presunto criterio di misurazione oggettiva andrebbe sostituito con un approccio squisitamente normativo epolitico:lacontabilitàdovrebbeavere il compito di misurare gli impegni e gli obiettivi stabiliti in sede politica. Si tratta dunque di individuare una serie di indicatori che siano in grado di fornire informazioni sulla direzione in cui il sistema intende procedere e sul futuro che vogliamo costruire.

Siamo ben consapevoli che il principale ostacolo ad una tale impostazione è rappresentato dal problema dei confronti: come adottare degli standard omogenei e quindi delle politiche coordinate tra i vari Paesi? L’indicatore che in questa fase di crisi dovrebbe essere assunto come stella polare per misurare l’efficacia delle politiche economiche è il tasso di disoccupazione. L’obiettivofondamentale della politica economica dunque dovrebbe essere quello di creare occupazione equamente retribuita per tutta la forza lavoro attiva sul territorio europeo.Ilmodopercrearenuovaoccupazione dipende in primo luogo dall’espansione della domanda sia pubblica che privata. A sua volta, l’espansione della domanda ha bisogno di risorse finanziarie per aumentare la spesa e l’occupazione nel settore pubblico, per diminuire le tasse sul lavoro e sulle imprese e per garantire finanziamenti adeguati agli investimenti delle imprese.

Quando l’obiettivo della piena occupazione sarà raggiunto, allora la politica economica potrà individuare altri traguardi e altre sfide utilizzando nuovi indicatori.

Riferimenti
Ricordate la definizione che Robert Kennedy diede del mitico Prodotto Interno Lordo?

L'unica speranza du impedire che vinca questa proposta renzusconiana è che ciò che resta di sinistra nel PD lo faccia esplodere, anzichè limitarsi a tentar di depeggiorarne i prodotti.

il manifesto, 23 gennaio 2014

L’unica inco­sti­tu­zio­na­lità che ren­ziani e ber­lu­sco­niani si sono pre­oc­cu­pati di cor­reg­gere, rispetto al testo fir­mato sabato nella sede del Pd, è stata quella sul sesso dei can­di­dati. Si erano infatti dimen­ti­cati che la riforma dell’articolo 51 della Costi­tu­zione impone le pari oppor­tu­nità tra uomini e donne. E così il cosid­detto Ita­li­cum è stato cor­retto rispetto a quanto annun­ciato da Renzi alla dire­zione del Pd: c’è adesso l’obbligo per i par­titi di can­di­dare lo stesso numero di donne e uomini nei col­legi. Ma c’è anche il trucco per con­ti­nuare a pena­liz­zare le donne: non è obbli­ga­to­ria l’alternanza tra i sessi e alla testa delle liste potranno col­lo­carsi ancora due uomini. A parte que­sta mezza novità, il testo unico di riforma elet­to­rale depo­si­tato ieri con le firme del Pd, di Forza Ita­lia e del Nuovo cen­tro­de­stra resta quello annun­ciato. E restano anche tutti gli altri, forti, sospetti di incostituzionalità.

Due soli arti­coli, lun­ghis­simi. Il rela­tore che è anche il pre­si­dente della prima com­mis­sione della camera, il ber­lu­sco­niano Fran­ce­sco Paolo Sisto, ha attratto a sé l’attenzione per tutta la gior­nata. Prima ha mostrato le occhiaie ai gior­na­li­sti, frutto ha detto di una notte di lavoro. Poi ha annun­ciato a più riprese che stava limando gli ultimi commi. Nel frat­tempo Ver­dini per Ber­lu­sconi e Bressa per Renzi face­vano sul serio. Reca­pi­tando il testo defi­ni­tivo con gran ritardo, e costrin­gendo così Sisto a pre­sen­tarsi in com­mis­sione solo alle otto di sera. Con quella che for­mal­mente è la 23esima pro­po­sta di legge di riforma del sistema di voto, ma che con buona pace del rego­la­mento è stata imme­dia­ta­mente pro­po­sta come testo base (si voterà oggi). Del resto, secondo il pre­si­dente Sisto, i tempi per la pre­sen­ta­zione degli emen­da­menti sono comin­ciati a decor­rere prima che fosse noto il testo da emen­dare. Dopo la pausa del fine set­ti­mana si vuole chiu­dere in due, tre giorni di discus­sione. Per licen­ziare la legge per l’aula entro fine gennaio.

Il ritardo di ieri è dovuto alla Lega. Ver­dini si è ricor­dato degli alleati troppo tardi. E ha pro­vato a inse­rire nel testo una modi­fica per sal­varli, visto che nei son­daggi viag­giano abbon­dan­te­mente sotto il 5%. La solu­zione sarebbe stata quella di intro­durre una nuova soglia di sbar­ra­mento, magari lo stesso 8% già pre­vi­sto per le forze non coa­liz­zate, da rac­co­gliere in almeno tre regioni (ipo­tesi che avrebbe ten­tato anche i cen­tri­sti che man­ten­gono un con­senso con­cen­trato al sud). Il Pd aveva anche detto di sì. È stato il Nuovo cen­tro­de­stra di Alfano a fer­mare il «salva Lega» che nel frat­tempo Bossi aveva giu­di­cato indi­spen­sa­bile. Più che altro per fare un dispetto al nuovo segre­ta­rio leghi­sta Sal­vini che, infor­mato del fal­li­mento della trat­ta­tiva, stava già dichia­rando che al Car­roc­cio non ser­vono aiutini.

Nel testo è con­fer­mato il con­teg­gio dei seggi su base nazio­nale e sono con­fer­mate le tre soglie di sbar­ra­mento: 5% per i par­titi coa­liz­zati, 8% per i non coa­liz­zati e 12% per le coa­li­zioni. La soglia per aver diritto al pre­mio di mag­gio­ranza del 18% resta fis­sata al 35%. Altri­menti bal­lot­tag­gio, e chi vince (vie­tati appa­ren­ta­menti) gua­da­gna auto­ma­ti­ca­mente 327 seggi, che è anche più del 51% annun­ciato (quasi il 52%). La novità è che all’interno della coa­li­zione che supera lo sbar­ra­mento (12%), dev’esserci almeno un par­tito che supera il 5% per con­cor­rere al pre­mio di mag­gio­ranza. Secondo l’ultimo son­dag­gio dell’istituto di fidu­cia di Ber­lu­sconi (Euro­me­dia, due giorni fa) né il cen­tro­de­stra né il cen­tro­si­ni­stra sono in que­sta con­di­zione. Anche nel caso in cui uno dei due con­ten­denti dovesse affer­rare il 35% (Ber­lu­sconi sarebbe adesso al 34%) si dovrebbe andare al bal­lot­tag­gio. Al ter­mine del quale, quindi, anche un par­tito votato al primo turno solo dal 22% degli elet­tori (come Forza Ita­lia, sem­pre secondo il son­dag­gio Data­me­dia), esclusi tutti i suoi alleati rima­sti sotto la soglia, con­qui­ste­rebbe tutti per sé il 52% dei seggi. Pre­mio di mag­gio­ranza «reale»: 52–32=30%.

Resta ancora da fare il lavoro sulle cir­co­scri­zioni, tutte da ride­fi­nire attorno alle 110 pro­vin­cie e alle dieci città metro­po­li­tane. Avranno da tre a sei can­di­dati e almeno la legge esclude le can­di­da­ture in più cir­co­scri­zioni. Ma resta il fatto che con il riparto nazio­nale il voto di un elet­tore paler­mi­tano alla sua lista, corta quanto si vuole, può far eleg­gere un can­di­dato veneto della stessa lista, ma a lui sco­no­sciuto. Con il primo voto di sta­sera, quando sarà adot­tato come testo base, l’Italicum di Renzi comin­cia la sua corsa. Lo attende al varco quella decina di depu­tati del Pd non ren­ziani che in com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali sono la mag­gio­ranza, o quasi, della dele­ga­zione del par­tito. Pre­sen­te­ranno emen­da­menti per intro­durre le pre­fe­renze e alzare la quota sopra la quale si ha diritto al pre­mio di mag­gio­ranza. Sul primo punto tro­ve­ranno gli alfa­niani, sul secondo i mon­tiani. La corsa è a ostacoli

Ancora una volta ci salverà la magistratura invece della politica? La Repubblica, 23 gennaio 2014

Una riflessione che pesa. Ovviamente se a farla è un giudice della Consulta. E soprattutto se la sua opinione è condivisa da molti suoi colleghi. Praticamente da tutti quelli, un’ampia maggioranza della Corte, che il 4 gennaio hanno confermato la bocciatura del Porcellum. Decisa il 4 dicembre, confermata e motivata un mese dopo. La riflessione è questa: «Non sarei troppo sicuro nel ritenere che c’è un nostro pieno via libera a una legge elettorale in cui non sia prevista almeno una preferenza». E allora quel riferimento alle liste corte, alla spagnola, quindi con candidati riconoscibili? «Quello era un esempio per dimostrare quanto grande fosse lo svarione contenuto nel Porcellum, con le sue liste lunghe e bloccate».

L’interrogativo seguente è d’obbligo: quindi c’è il rischio che la futura legge elettorale,quell’Italicum frutto dell’incontro Renzi-Berlusconi, possa finire di nuovo davanti alla Consulta per un vizio di costituzionalità almeno sulla questione delle preferenze? Qui si raccolgono affermazioni convinte. E preoccupanti. Sulle quali riflettere. Del tipo: «La Corte ha aperto una porta importante per porre subito la questione di costituzionalità. Se il ricorrente Bozzi è dovuto arrivare in Cassazione per veder recepita la sua istanza, adesso la faccenda è cambiata. Un nuovo ricorso potrebbe arrivare sui nostri tavoli anche subito». Come andrebbe a finire? Anche in questo caso la risposta è assai pregnante: «La Corte, sta scritto nelle carte, non ha sdoganato un sistema senza preferenza».È settimana “bianca” alla Consulta. Ma i giudici lavorano ugualmente. È troppo fresca la bocciatura del Porcellum per non interrogarsi su che sta succedendo adesso. Anche se la premessa è necessaria: «La Corte non dà patenti di costituzionalità sulle leggi in itinere o approvate nella loro interezza. I giudici valutano il singolo punto. Su quello si pronunciano. Proprio com’è avvenuto per il Porcellum». Già, sul premio di maggioranza e sulle preferenze, giusto i due fantasmi di potenziale incostituzionalità che cominciano ad agitarsi in queste ore. La preferenza che non c’è. La soglia minima per il premio di maggioranza, quel 35%, valutato come «ancora troppo basso».

Ma è la preferenza il vero scoglio. Perché, come dicono alla Corte, il passaggio che riguarda la necessità che ce ne sia almeno una viene considerato del tutto inequivoco. Anzi, chiarissimo. Ovviamente i giudici sono stati attenti, nelle motivazioni, a non “sposare” un sistema elettorale, né avrebbero potuto farlo. Ma hanno valutato il diritto costituzionale di un cittadino ad esprimere un suo pieno voto e quindi una sua scelta. Per questo, alla Corte, ci si meraviglia sulla convinzione del palazzo della Politica che, sin dal primo momento, ha ritenuto che i giudici avessero sponsorizzato il sistema spagnolo e dato il via libera a quelle liste corte, da 3 a 6 candidati, che adesso fanno bella mostra di sé nel nuovo testo della legge elettorale. Ma questo via libera invece non c’è. «Quello era solo un esempio di un sistema diverso da quello previsto dal Porcellum». Tutto qui. «Ma non significava affatto che un sistema senza le preferenze sia costituzionale».

«La bat­ta­glia con­tro il nuo­vi­smo non si com­batte con la vec­chia logica cor­ren­ti­zia o con le trap­pole par­la­men­tari, la com­pe­ti­zione con una lea­der­ship ple­bi­sci­ta­ria non si svi­luppa in appar­tate riu­nioni di gruppi diri­genti».

Il manifesto, 22 gennaio 2014

Fa impres­sione il coro di una­nime con­senso della stampa, dal Gior­nale a Repub­blica, per la grande riforma, per il frutto sboc­ciato dalla pro­fonda sin­to­nia tra Renzi e Berlusconi. Evi­den­te­mente chi pen­sava che il capo di Forza Ita­lia è la stessa per­sona pronta a can­cel­lare la Costi­tu­zione sovie­tica, chi è andato in piazza del Popolo, con Rodotà e Zagre­bel­sky, per difen­derla dagli attac­chi di un ven­ten­nio, non aveva capito niente.

Irre­fre­na­bile è scat­tato l’applausometro per la nuova legge elet­to­rale, infe­lice fin dal nome (l’hanno bat­tez­zata Ita­li­cum), un con­cen­trato che, tra pre­mio di mag­gio­ranza e soglie di sbar­ra­mento, tiene stretta la cami­cia di forza alla nostra asfit­tica demo­cra­zia (in quale paese se prendi il 35% dei voti hai il 60% dei seggi?). Tutto in nome di un bipo­la­ri­smo coatto, già spe­ri­men­tato nel 2008 da Vel­troni, che recu­però un po’ di voti al Pd, fece tabula rasa alla sua sini­stra e perse, con un distacco, quello sì sto­rico, con Berlusconi.

Al pre­giu­di­cato mira­co­lato dal rot­ta­ma­tore non sem­bra vero di essere tor­nato al cen­tro della scena. Ne dà testi­mo­nianza inviando atte­stati di stima al lea­der della parte avversa men­tre intanto si pre­para a repli­care il sor­passo, pun­tando a vin­cere le ele­zioni al primo turno gra­zie alla lunga filiera delle for­ma­zioni di destra.

Del resto una legge elet­to­rale di que­sta natura è lo spec­chio fedele del ren­zi­smo, di una poli­tica che va per le spicce, che mal sop­porta quel che resta del par­tito e dei par­titi, che vor­rebbe fare piazza pulita delle resi­due resi­stenze e veder­sela nella sfida con il vec­chio leone. Nella riu­nione della dire­zione del Pd, Renzi ha difeso la pro­fonda sin­to­nia col Cava­liere, e raf­for­zato il con­cetto: «Esprimo la mia gra­ti­tu­dine a Ber­lu­sconi per aver accet­tato di discu­tere». Ma se a discu­tere è il pre­si­dente del Pd, se Gianni Cuperlo non si inchina alla grande svolta e pole­mizza, allora il segre­ta­rio lo zit­ti­sce in malo modo, e l’altro anzi­ché tenere il campo e repli­care, stiz­zito getta la spu­gna e dà le dimissioni.

Che lo stile del sin­daco di Firenze sia un po’ bul­le­sco, che usi, verso chi lo cri­tica, argo­menti tipi­ca­mente ber­lu­sco­niani (io rispondo solo ai milioni che mi votano) non c’è chi non lo veda. Ma che l’opposizione interna sia messa male è altret­tanto evi­dente. Invece di dare bat­ta­glia sui con­te­nuti, Fas­sina prima e Cuperlo a ruota, con le dimis­sioni a catena sono evi­den­te­mente lon­ta­nis­simi dall’intercettare la sfida all’altezza in cui Renzi gliela lancia.

La bat­ta­glia con­tro il nuo­vi­smo non si com­batte con la vec­chia logica cor­ren­ti­zia o con le trap­pole par­la­men­tari, la com­pe­ti­zione con una lea­der­ship ple­bi­sci­ta­ria non si svi­luppa in appar­tate riu­nioni di gruppi diri­genti. Qui l’asticella è molto più alta, è tra chi sa par­lare alla gente attra­verso la tele­vi­sione e i cin­guet­tii e chi si attarda nelle litur­gie dell’organizzazione. Tra il ber­lu­sco­niano e il dale­miano, tra l’uomo nuovo e il chie­rico, non è dif­fi­cile pre­ve­dere chi è che si con­danna alla defi­ni­tiva irrilevanza

La Repubblica, 22 gennaio 2014

DIFFICILEpensare che un politico accorto, abituato a vincere, usi le parole a casaccio.Che si spinga fino a dire, come Renzi dopo l’incontro con Berlusconi alNazareno, che nel colloquio è emersa «profonda sintonia». Sintonia si ha quandoil suono che emetti s’accorda perfettamente con un altro. Se poi è addirittura profonda,ogni incongruenza diventa schiuma delle cose. Schiuma la condanna giudiziariadel Cavaliere; schiuma l’imperio della legge. Armonia regna. La Grande Trattativapuò iniziare.
Se fosseuna fiaba, e non un pezzo emblematico di storia italiana, le incongruenzesarebbero normali: la montagna che scali è in realtà una pianura, i sassolinibianchi che raccogli nel bosco ti fanno dimenticare che la madre ti ha scacciatoe gettato nella notte. Stoffa delle fiabe è anche il ripetersi del perturbante,che risbuca uguale a se stesso finché l’incanto si spezza.

Non cosìin politica, dove il perturbante stride: per alcuni insopportabile, per altriincomprensibile. Quando la politica prescinde così platealmente dallagiustizia, quest’ultima evapora. Negoziare non solo la legge elettorale maanche la Costituzione con un pregiudicato è difficilmente giustificabile perchégli italiani si diranno: ma come, Berlusconi non era interdetto? incandidabile?Che ne è, della maestà della Legge?
La fiaba,dice Cristina Campo, è una professione di fede; è «incredulità nellaonnipotenza del visibile». Non fidarti di quel che vedi, credi piuttostonell’invisibile, nel sotterraneo. Non è successo nulla nei tribunali,Berlusconi s’è candidato alle europee e nessuno inarca il sopracciglio. Quelche hai visto al Nazareno, la favola lo rende possibile: la politica più cheautonoma è sconnessa dalla giustizia,
Berlusconiha milioni di elettori e solo questo conta. Lui l’ha sempre preteso.La sintoniaaffiorò subito, quando il manager entrò in politica col suo enorme conflitto diinteressi e gli fu condonato. A più riprese fu poi protetto; in momenti criticiNapolitano gli diede tempo per rialzarsi; ogni volta lo scettro gli furestituito. Lo stesso accade oggi, sei mesi dopo la sentenza: il condannatos’accampa sugli schermi come cofondatore, addirittura, di nuove Costituzioni.

«Lapacificazione che non è riuscita a Letta è andata in porto con Renzi», sicompiace Forza Italia.La pacificazione copre punti cruciali, a cominciare dallalegge elettorale. Per Berlusconi l’Italia deve essere bipolare, perfinobipartitica: sempre ha detto che l’esecutivo non va imbrigliato. Solo direcente ha accettato, per convenienza, larghe intese. Renzi gli fa eco:l’accordo «garantisce la governabilità, il bipolarismo, ed elimina il ricattodei partiti piccoli».
Larappresentatività neanche è menzionata. Forza Italia recupererà Alfano, ma ilPd chi recupererà? Non solo: Berlusconi ha sempre voluto Camere di nominati, econ le liste boccate (sia pur piccole) i nominati torneranno. Forse Renzi ciripenserà. Al momento, anch’egli sogna deputati controllabili. Ha tirato fuoriil doppio turno: che evita gli inciuci, non i parlamenti blindati.

Unaminoranza del Pd s’indigna («Mi sono vergognato », ha detto Fassina, e Cuperlosi è dimesso da Presidente). Ma anche qui regna l’infingimento fiabesco. Chis’offende ha fatto le stesse cose, per vent’anni, senza vergogna in eccesso.Agì nell’identico modo Veltroni, quando nel gennaio 2008 proclamò a Orvieto cheil Pd rompeva le alleanze e «correva da solo» contro Berlusconi. Meno diquattro mesi dopo il governo Prodi cadeva, Berlusconi saliva al trono. Néfurono meno corrivi D’Alema, Violante, che ignorarono la legge sul conflittod’interessi aprendo le porte al capo d’un imperotelevisivo. Dicono alcuni cheRenzi può patteggiare, essendo «nato-dopo» questa storia di compromessi. Ma inati-dopo sono responsabilidella Storia (compresa la non elezione di Prodi eRodotà al Quirinale, compreso il tradimento dei 101) anche se personalmenteincolpevoli. Da quando guida il Pd, l’incolpevole risponde del passato, e diun’autocritica storica che tarda a venire.

SostieneRenzi che tutto è diverso, oggi: la sintonia è semplice accordo, obbligato e«fatto alla luce del sole». La consolazione è magra. Berlusconi esce dallanotte ed entra nel giorno, con lui si rifanno leggi elettorali e anchecostituzioni. Smetterà d’essere considerato un pregiudicato e dunque infido.Già ha smesso: è il senso simbolico-fatato dellaGrande Trattativa.Conta aquesto punto sapere l’oggetto del patto. Per alcuni è la salvezza del boss daigiudici, vil razza dannata.

Più nelprofondo, è la consacrazione di nuovi padri costituenti. Tra loro ha da essercichi, anche se condannato, s’ostina a definire desueta la Costituzione del ’48.L’ha ribadito l’11 gennaio: «Abbiamo fiducia, con una legge elettorale che diail premio di governabilità del 15%, di arrivare da soli ad avere la maggioranzain Parlamento, per poter farequello di cui l’Italia ha bisogno dal 1948 aoggi». Il ’48, in altre parole, fu un inizio nefasto. Non si sa se la sintoniaprofonda copra anche questo. Renzi parla solo di Senato e regioni, ma quelchesuccederà dopo non è chiaro.Chiaro è però l’approdo: l’Italia deve esserebipolare, bipartitica, e i governi non destabilizzabili da coalizioniinsidiose. Un’ambizione legittima, se l’Italia politica fosse davvero divisa indue. Ma è divisa in tre: la crisi ha partorito Grillo. Semplificare quel che ècomplesso è la molla di Berlusconi, di Renzi, di Letta, anche del Colle. Ilfine è un comando oligarchico, non prigioniero delle troppo frammentate volontàcittadine. La soglia elettorale dell’8 per cento per i partiti solitari è unamannaia. Grillo non temerà concorrenti.

Nel suoultimo libro, Luciano Gallino dà un nome alla nuova Costituzione cui tantitendono: la chiama costituzione di Davos.Il termine lo coniò in una riunione aDavos Renato Ruggiero, ex direttore dell’Organizzazione mondiale per ilcommercio: «Noi non stiamo più scrivendo le regole dell’interazione traeconomie nazionali separate. Noi stiamo scrivendo la costituzione di unasingola economia globale». Un obiettivo non riprovevole in sé (anche Kant l’immaginò),se lo scopo non fosse quello di «proteggere un’unica categoria di cittadini,l’investitore societario globale. Gli interessi di altre parti in causa —lavoratori, comunità, società civile e altri i cui diritti duramenteconquistati vennero finalmente istituzionalizzati nelle società democratiche —sono stati esclusi»(Gallino, Il colpo diStato di banche e governi,Einaudi 2013).Non stupisce che 5 Stelle (o altrimovimenti alternativi) disturbino i semplificatori. Sia pure caoticamente, lasocietà civile — quella vera — s’interessa alla politica perché vede minacciatinon interessi di parte ma il pubblico bene,come definito da Machiavelli:proprio il bene ignorato dalla costituzione di Davos.

Nonstupisce nemmeno che nelle mappe raffiguranti l’odierno Parlamento, lo spicchiodi 5 Stelle perda spesso il nome: è occupato da «Altri». Era così nelle mappedel decimo secolo. Dove cominciavano terre sconosciute, specie asiatiche, siscriveva : Hic abundant leones, quiabbondano i leoni. Questo forse intendeva il capo dello Stato, dopo leamministrative del ‘12, quando di Grillo disse: «Non vedo boom».I leoni sonoora in Parlamento, e ci torneranno. Possono dire qualcosa, difendere laCostituzione del ’48, la legalità. È grave che non agiscano, lasciando che laSintonia sia ancor più vasta. Il loro sbigottimento di fronte all’incontro cheha rilegittimato un politico condannato lo si può capire.

È vero, «l’Italia èin preda alle allucinazioni e ai déjà-vu».Ma lo stato di stupore non è sufficiente. Alla lunga paralizza. La GrandeTrattativa non è scongiurata: davanti a tanti volti trasecolati, può proseguirenei più imprevedibili dei modi.

... e la Costituzione violata una volta ancora. Sarà l'ultima, perchè il Porcellum n.2 è costruito per cancellarla del tutto.

Il manifesto, 21 gennaio 2014

Fu vera e pro­fonda sin­to­nia tra Renzi e Ber­lu­sconi? Vor­remmo dubi­tarne, anche se la pro­po­sta appro­vata dalla dire­zione del Pd ha subito avuto il «sin­cero e pieno apprez­za­mento» di Ber­lu­sconi. Ma poco importa. Conta invece capire se la pro­po­sta è com­pa­ti­bile con la Costituzione.

Dob­biamo anzi­tutto con­si­de­rare che con la sen­tenza 1/2014 la Corte costi­tu­zio­nale ha tra­sfor­mato il tema elet­to­rale da que­stione sostan­zial­mente rimessa alla deci­sione legi­sla­tiva e delle forze poli­ti­che in una que­stione di diritti fon­da­men­tali giu­sti­zia­bili davanti alla stessa Corte.

Quei diritti — in spe­cie gli artt. 48, 49, 51 — qua­li­fi­cano la Repub­blica come demo­cra­tica, e assi­cu­rano la rap­pre­sen­ta­ti­vità delle sue isti­tu­zioni. Dopo la sen­tenza, l’intervento del legi­sla­tore deve tro­vare giu­sti­fi­ca­zione in un obiet­tivo costi­tu­zio­nal­mente accet­ta­bile (prin­ci­pio di neces­sità) e rag­giun­gere l’obiettivo con il minimo di non arbi­tra­rio sacri­fi­cio (prin­ci­pio di ragio­ne­vo­lezza e pro­por­zio­na­lità). In ogni caso, senza ledere il nucleo pre­scrit­tivo incom­pri­mi­bile del diritto stesso. Non bastano più a soste­nere una pro­po­sta i man­tra del bipo­la­ri­smo e della governabilità.

Veniamo alla pro­po­sta: tre soglie di accesso al 5, 8 e 12%; pre­mio di mag­gio­ranza del 18% con soglia del 35%, e fino a con­cor­renza del 55% dei seggi; dop­pio turno per il pre­mio se nes­suno rag­giunge il 35% dei voti; mini­col­legi e liste bloc­cate brevi, con pri­ma­rie per la scelta dei can­di­dati. Si direbbe un sistema a metà strada tra il Por­cel­lum e il sin­daco d’Italia, con soglie per l’accesso e per il pre­mio accor­ta­mente costruite sui son­daggi secondo le con­ve­nienze dei due par­titi maggiori.

Due le domande: se la pro­po­sta è costi­tu­zio­nal­mente com­pa­ti­bile, e se fun­ziona. Sul primo punto il dub­bio di inco­sti­tu­zio­na­lità è forte. Il mix tra alti sbar­ra­menti, forte pre­mio di mag­gio­ranza e dop­pio turno rende l’accesso alle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive un per­corso minato per tutti, salvo i due mag­giori par­titi desti­nati a con­fron­tarsi nell’eventuale bal­lot­tag­gio. E non sem­bra un obiet­tivo costi­tu­zio­nal­mente accet­ta­bile che una legge elet­to­rale sia volta a favo­rire deci­si­va­mente que­sto o quel par­tito, con­du­cendo alla ste­ri­liz­za­zione di con­sensi rice­vuti da altri par­titi. Né sem­bra neces­sa­ria, ragio­ne­vole e pro­por­zio­nata la com­pres­sione dei diritti — pur sem­pre diritti fon­da­men­tali della per­sona — in fun­zione dell’interesse dei par­titi mag­giori.

Una soglia di sbar­ra­mento volta a ridurre la fram­men­ta­zione non è di per sé costi­tu­zio­nal­mente pre­clusa. Ma altra cosa è inse­rire una soglia molto alta in un mec­ca­ni­smo volto a con­cen­trare la com­pe­ti­zione poli­tica tra due sole forze di grandi dimen­sione. Per di più pren­dendo, con­clu­si­va­mente, chi ha il 35% dei voti per dar­gli con ope­ra­zione pura­mente arit­me­tica il 53% dei seggi, con il paral­lelo effetto di divi­dere il 47% dei seggi tra chi ha col­let­ti­va­mente con­se­guito il 65% dei voti. La distor­sione della rap­pre­sen­tanza è forte, certa e predeterminata.

Anche sulle liste bloc­cate brevi pesa l’ombra della inco­sti­tu­zio­na­lità. Comun­que sot­trag­gono — som­man­dosi — l’intera rap­pre­sen­tanza poli­tica alla scelta dell’elettore. Che inol­tre, non volendo soste­nere una pre­senza sgra­dita tra i com­po­nenti di una lista, deve cam­biare il voto, o non votare affatto. Effetti nega­tivi per niente cor­retti dalla pre­vi­sione di pri­ma­rie. Non essen­doci iden­tità di pla­tea tra votanti nelle pri­ma­rie ed elet­tori, il pro­blema della pre­clu­sione di ogni scelta per l’elettore rimane tal quale.

Ma, almeno, fun­ziona? Pro­ba­bil­mente no. L’esperienza del dop­pio turno per i sin­daci ha evi­den­ziato come il pre­mio di mag­gio­ranza esalti la fram­men­ta­zione e spinga ad anti­ci­pare già al primo turno la for­ma­zione di coa­li­zioni. Le schede elet­to­rali sem­brano len­zuoli. Gli effetti nega­tivi riman­gono, incluso in spe­cie il ricatto dei par­ti­tini. Men­tre la distor­sione sulla rap­pre­sen­ta­ti­vità dei con­si­gli comu­nali può essere fortissima.

Sono da tempo con­vinto che la vera rispo­sta è abban­do­nare l’opzione di un sistema elet­to­rale che con­ceda deci­sivi e arti­fi­ciosi van­taggi a que­sto o quel par­tito. Ripri­sti­nare una rap­pre­sen­tanza che in prin­ci­pio rico­no­sca a cia­scun sog­getto poli­tico una pre­senza nelle isti­tu­zioni com­mi­su­rata al con­senso. E dare voce, non negare la parola, soprat­tutto quando la poli­tica è chia­mata a scelte dif­fi­cili e dolo­rose, come oggi accade in tempi di grave crisi. La gover­na­bi­lità è un bene impor­tante, che va però rife­rito non solo alle isti­tu­zioni, quanto al paese.

Renzi ha anche offerto un con­ten­tino a Letta, con una riforma del senato che può dare al governo l’agognato anno di vita. Pec­cato che sia una pro­po­sta pes­sima. Un senato non elet­tivo: che dif­fe­renza c’è con una camera di nomi­nati? Meglio chiu­derlo. O, forse, meglio aprire le teste a qual­che pen­siero vera­mente inno­va­tivo. Que­sta sì che sarebbe una riforma.

Noi avremmo titolato: "Male, senza dubbio". Corriere della sera, 21 gennaio 2014

C’è differenza tra un illusionista e un prestigiatore? Sì che c’è: il primo ti fa credere a una realtà che non esiste, il secondo rende invisibile la realtà visibile, quella che avresti sotto gli occhi, se non t’abbagliasse il trucco del prestigiatore. E che cos’è la nuova legge elettorale, un’illusione o un gioco di prestigio? Davvero Renzi ha tirato fuori dal cappello il coniglio che la politica cerca da tre legislature?
Per scoprirlo, non resta che guardare nel cappello. Fin qui ne avevamo osservato soltanto la réclame , con il sospetto che si trattasse di pubblicità ingannevole. Perché aleggiava la promessa d’azzerare i veto players , il potere d’interdizione dei piccoli partiti, ma con l’assenso dei piccoli partiti. Di non ripetere le malefatte del Porcellum , ripetendo tuttavia liste bloccate e premi inventati dal Porcellum . E infine una promessa di governi stabili; anche se per afferrare la Chimera non basta una buona legge elettorale, serve la riforma della Costituzione. Con due Camere gemelle però espresse da elettorati differenti, non ci riuscirebbe neppure mago Zurlì.
E allora interroghiamo il coniglietto su tre parole chiave, cominciando per l’appunto dalla domanda di governabilità. L’avrebbe forse saziata il sistema spagnolo, che non impedisce tuttavia la divisione della torta in tre fettone uguali, replicando il presente per tutti i secoli dei secoli. Ma l’Italicum va meglio, molto meglio. Un doppio turno «eventuale»: se prendi il 35% diventi maggioranza con il premio, altrimenti ballottaggio fra le due coalizioni più votate. Bravo il prestigiatore, bene, bis. Sia per essere riuscito a ipnotizzare Berlusconi, che del doppio turno non ne voleva sapere. Sia per la soglia di sbarramento (5%), un antidoto contro la frantumazione della squadra di governo. Sia perché al ballottaggio il premio te lo mettono in tasca gli elettori, non la legge.
Secondo: la rappresentatività del Parlamento. È il punto su cui batte e ribatte la Consulta, nella sentenza con cui ha arrostito il Porcellum . Significa che i congegni elettorali non possono causare effetti troppo distorsivi rispetto alle scelte dei votanti, come accadeva con un premio di maggioranza senza soglia. E il premio brevettato da Renzi? 18%, mica poco: fanno quattro volte i seggi della Lega, recati in dono a chi vince la lotteria delle elezioni. Crepi l’avarizia, ma in questo caso rischia di crepare pure la giustizia.
Terzo: la sovranità. Spetta al popolo votante, non certo al popolo votato. Da qui l’incostituzionalità delle pluricandidature, dove il plurieletto decideva l’eletto; ma su questo punto Renzi tace, e speriamo che non sia un silenzio-assenso. Da qui, soprattutto, l’incostituzionalità delle liste bloccate. Tuttavia la Consulta ha acceso il verde del semaforo quando i bloccati siano pochi, rendendosi così riconoscibili davanti agli elettori. Quanto pochi? Secondo la scuola pitagorica il numero perfetto è 3; qui invece sono quasi il doppio. Un po’ troppi per fissarne a mente i connotati.
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C’è infatti un confine, una frontiera impercettibile, dove la quantità diventa qualità. Vale per il premio di maggioranza, perché il 40% dei consensi sarebbe di gran lunga più accettabile rispetto al 35%. E vale per le liste bloccate, che si sbloccherebbero aumentando i 120 collegi elettorali. In caso contrario, il prestigiatore rischia di trasformarsi in un illusionista. Ma gli sarà difficile illudere di nuovo la Consulta, oltre che gli italiani.
l nuovo leader del PD non è confrontabile con Massimo D'Alema: l'inciucio avvenne quando Berlusconi era in maggioranza, Renzi lo ha resuscitato quando era ormai fuori dal gioco perché condannato per frode fiscale. Dal blog

idomini, 19 gennaio 2014

Basta leggere i giornali di centrodestra di oggi, e meglio ancora il ‘mattinale’ di Forza Italia, per fare al volo il conto dei vantaggi e degli svantaggi innescati dall’incontro di ieri fra Renzi e Berlusconi. Fanno sorridere in verità le accorte profezie sulla durata del governo Letta, da ieri ”ancorato” a un programma di riforme istituzionali che dovrebbe tenerlo in vita per almeno un anno. La verità è che d’un balzo i pesi dei giocatori in campo sono stati completamente redistribuiti. Letta (nipote) avrà pure più tempo davanti (e poi chissà, vatti a fidare), ma dipende in tutto e per tutto da Renzi e dal patto di Renzi con Berlusconi (e con Letta zio), non più da Giorgio Napolitano il quale esce a sua volta a dir poco ridimensionato, se non strategicamente sconfitto, dallo storico incontro. Angelino Alfano ha praticamente un cappio alla gola, e se aveva fatto conto, per sopravvivere, su una svolta proporzionalista adesso deve cominciare a meditare i termini di un rientro nella casa bipolare del Capo. Silvio Berlusconi è di nuovo al centro della scena (qualcuno aveva davvero creduto che ne restasse fuori solo perché giuridicamente decaduto?). Il Pd, che solo domani discuterà la proposta di legge elettorale messa a punto dal suo segretario col Cavaliere, è ridotto a quello cui ha voluto ridursi, un’appendice del leader (ricorda qualcosa?). La legge elettorale infine, posta in gioco solo apparente dello storico incontro, è più che mai in alto mare, perché è tutta da verificare la congruenza fra il disegno di R-B e le indicazioni della Corte costituzionale: e dunque, alla fine, anche il come e il quando delle prossime elezioni è tutto da vedere.

Fine del conto al volo. Il quale spazza via in un batter d’occhio l’isterica caciara formalistica fra antirenziani e antiberlusconiani da un lato e filorenziani e filoberlusconiani dall’altro sull’opportunità o meno dell’incontro che ha tenuto banco nelle quarantotto ore precedenti. Dimostrando l’ovvio, e cioè che se è lecito, e perfino dovuto, consultare sulla legge elettorale il leader (decaduto per frode fiscale) del secondo partito, che quest’ultimo ne esca più o meno rilegittimato dipende dal ”come” della consultazione stessa. E il ”come” non si riduce affatto al luogo dell’incontro, alla soglia simbolica del Nazareno o alle (poche) uova marce lanciate contro il Cavaliere. Il come è sostanza, e sta nelle due paroline magiche che Renzi ha scelto per siglare la serata: ”profonda sintonia”. Una sintonia che non va riferita purtroppo solo al risultato dell’incontro, ma alle sue premesse.

Giova fare in proposito un esercizio – impopolare – di confronto col passato. Non sono pochi coloro, a partire da Marco Travaglio, che oggi derubricano le responsabilità di Renzi riconducendole alle ventennali responsabilità dei leader del Pds-Ds-Pd, in primis Massimo D’Alema, nel ”legittimare” Berlusconi. Il rottamatore non avrebbe fatto altro, in sostanza, che allinearsi con i rottamati. Peccato che il paragone fra Renzi e D’Alema non stia in piedi. Nel ’96, quando prese inizio l’avventura spericolata della Bicamerale che avrebbe dovuto riscrivere con Berlusconi mezza Costituzione, Berlusconi aveva la maggioranza assoluta dei voti: aveva stravinto le elezioni nel ’94, le aveva perse nel 96 ma d’un soffio, e non per un calo di voti. L’impatto revisionista della sua ”nuova destra” – che agitava, va ricordato e non lo si ricorda mai, la minaccia di un’assemblea costituente in cui sarebbe stata maggioranza – era enorme, e il tentativo di ”imbrigliarlo” nella riscrittura delle regole era volto non a legittimarlo, ma a contenerlo. Fu un tentativo perdente, perché il progetto di Berlusconi era un progetto eversivo, irriducibile alla legalità e al galateo costituzionale: e questa è storia del ventennio passato. Ma oggi, Berlusconi non ha la stessa forza elettorale di allora, e il suo progetto eversivo nemmeno: la sua irriducibilità alla legalità, com’è noto, gli si è rivoltata contro, il suo declino è stato sancito giuridicamente, le sue ricette neoliberiste non hanno retto alla prova tragica della crisi degli ultimi anni, la sua riforma della Costituzione, approvata senza l’apporto del centrosinistra, è stata sconfitta dal referendum del 2006. Oggi sì, dunque, richiamarlo in campo significa ri-legittimarlo ben al di là della sua legittimazione effettiva. E significa soprattutto un’altra cosa: che questa rilegittimazione è possibile perché implica una completa interiorizzazione della sua agenda. ”Profonda sintonia”, appunto: non solo – si badi – sulla legge elettorale, ma sulla revisione della Costituzione, della forma di Stato (la riforma del federalismo) e di governo (il combinato disposto far legge elettorale e riforma del bicameralismo).

Il tema dunque va spostato: dalla ”resurrezione” di Berlusconi – che per quanto sia stupefacente non è una novità, data la pervicacia del centrosinistra nell’ucciderlo giudiziariamente senza seppellirlo politicamente – all’intronamento a furor di media e di primarie di Matteo Renzi. Spiace per quanti, a partire da Repubblica, avevano salutato nel giovane segretario del Pd l’avvento del tempo nuovo e oggi si ritrovano risospinti improvvisamente nel vecchio: ma per chi avesse occhi per vedere, la ”profonda sintonia” fra l’agenda di Renzi e quella di Berlusconi era chiara, chiarissima, ben prima dello storico incontro. Paradossalmente non ha tutti i torti il cinismo dei giovani dirigenti più vicini al segretario, quando dicono che Renzi può ricevere il Cavaliere senza temerne l’impatto personale. In gioco infatti non c’è solo né tanto la rilegittimazione della persona Berlusconi, quanto la legittimazione da sinistra della sua eredità. Ovvero l’ammissione, da sinistra, che tutto sommato aveva ragione lui su tutto, e che basta fare meglio di lui le cose che voleva fare lui per ”cambiare verso” al paese. Questo e non altro è il senso della ”profonda sintonia”.

L’Unità, 19 gennaio 2014

Comunque vada per lui èun successo, al netto di un paio di uova marce all’entrata e qualche «ladrone» all’uscita.Trattandosi della tana del nemico di sempre, poteva andare sicuramente peggio.Basta vederlo, Berlusconi, salire le scale a chiocciola della sede del Pd alargo del Nazareno alle quattro del pomeriggio e captare quella leggera piegadella bocca che dice: eccomi qua, cacciato dal Parlamento con la targa del truffatore,sono tornato al tavolo di gioco e ci sono anch’io a dare le carte. È al terzopatto del suo ventennio politico: quello della “crostata” azzoppò D’Alema;quello più neutrale, in Parlamento, con Veltroni nel 2008 si rivelò un cappotto(a favore di Berlusconi); stavolta, dicono i suoi, «per lui è quasi irrilevantequello che succederà sotto il profilo tecnico. L’unica cosa che conta è che sialì».
Quale legge,quale sistema elettorale, quali soglie e quale premio è tutta roba cheBerlusconi delega durante l’incontro con Renzi all’esperto Gianni Letta,testimone di tutti i patti, e poi, per la limatura finale, a Denis Verdini chelo aspetta a palazzo Grazioli subito dopo il Nazareno. Il Cavaliere esce alle18 e 30 dall’uscita laterale della sede del Pd contentissimo di esserci stato(«magnifico palazzo, suggestiva terrazza» avrebbe commentato) e con unacertezza e due dubbi nella tasca della giacca blu. La certezza, ha spiegato unavolta tornato a palazzo Grazioli è che «due sono le calamite sulla scena politica,io e Matteo, gli altri si dovranno adeguare». Angelino & c, dovranno, sevorranno, tornare all’ovile.

I dubbi sonostati manifestati anche durante la riunione. Il primo riguarda il Pd: «Siamosicuri è stato detto al tavolo che adesso voi reggete questo ennesimo strappocon la vostra parte sinistra?». Il Cavaliere avrebbe deposto ogni intenzione diandare al voto a maggio per rinnovare il Parlamento. Ha davanti a sé dieci mesidi pena da espiare, qualche altra grana giudiziaria e non sarebbe in condizionedi affrontare una campagna elettorale. In questo senso è lui a chiederegaranzie a Renzi. Che gliele conferma.

Ilsecondo dubbio riguarda il Senato. Berlusconi farebbe esattamente quello chevuole Renzi: via tutto, cariche, elezione, indennità e soprattutto voto difiducia, mettere a lavorare i consiglieri regionali e creare un posto cherisolve a propri i conflitti tra Stato e Regioni. I due, in fondo, hanno intesta lo stesso concetto di semplificazione: decisamente lineare. «Il problemaha osservato al tavolo è farlo capire ai miei senatori...». Su questo avrebbechiesto a Renzi di essere lui a far la parte del poliziotto cattivo. Cosa cheinfatti il leader democrat ha fatto subito dopo in conferenza stampa: «Profondasintonia con Forza Italia: stop ai piccoli partiti, tagli alla politica graziealla riforma del Titolo V con deleghe specifiche per tagliare spese inutili etrasformazione del Senato in una camera per l’autonome delle Regioni, senzaindennità, senza cariche elettive e senza potere di fiducia».
Chissà chepensavano sopra le loro teste Ernesto Che Guevara e Fidel Castro seppur intentia giocare a golf nella famosa foto, ingrandita, di Roberto Korda che arreda, dasempre, la stanza del segretario democrat.

Lasciato ilNazareno, Berlusconi è tornato a palazzo Grazioli dove lo aspettavano DenisVerdini, l’uomo che da settimane tratta con Renzi con la mediazione del professorD’Alimonte sui contenuti tecnici della legge elettorale, e Niccolò Ghedini, ilsenatore avvocato ormai notaio di ogni passaggio chiave nella vita del Cavaliere.

Poco dopo,comunque dopo la conferenza stampa flash di Renzi, viene confezionato un videomessaggio. Che dice un po’ meno ma più o meno le stesse cose del segretario Pd.Prima di tutto c’è la benedizione di un metodo che è esattamente il suo, delCavaliere, se solo glielo avessero lasciato fare. «Si tratta di riformepuntualizza Berlusconi che il centro-destra da me guidato ha sempre ricercato eche la nostra maggioranza aveva approvato in Parlamento già nel 2006 ma che lasinistra vanificò con un referendum interrompendo così il percorso dirinnovamento avviato. Siamo quindi lieti, oggi, di prendere atto delcambiamento di rotta del Partito Democratico». E questo giusto per ribadire ilprimato di chi ha avuto l’intuizione giusta.

Berlusconi, anzi «ForzaItalia», dice anche di essere «molto soddisfatto per il metodo scelto dalPartito democratico per avviare un rapido e costruttivo confronto sulle riformeistituzionali. L'accordo con Renzi prevede una nuova legge elettorale che portial consolidamento dei grandi partiti in un’ottica di semplificazione delloscenario politico». L’auspicio è che la legge elettorale «sia largamentecondivisa». La promessa è che Forza Italia «appoggerà le riforme in Parlamento,trasformazione del Senato e alla modifica del Titolo Quinto della Costituzione.Due riforme indispensabili per ridare efficienza al nostro sistemaistituzionale, ridurre drasticamente i costi della politica e modernizzare ilPaese».

Il Cavalieredisarcionato, invecchiato, condannato, ha esercitato, come sempre, il suoincanto. Vedremo se, anche stavolta, si trasformerà in inganno. Quel paio didubbi, in ogni caso sono già alibi perfettamente serviti per far saltare ancheil terzo patto. Firmato, è il caso di ricordare, nel ventennale della firma dalnotaio per la nascita di Forza Italia. «Oggi nasce la terza repubblica» hatwittato Capezzone. Simbologia e ricorrenze vanno sempre rispettate.

Una lista con Tsipras alla Commissione Europea, l’appello degli intellettuali. La promuovono Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale. L'appello (i

l fatto quotidiano) e lr prime adesioni (il manifesto), 18 e 19 gennaio 2014

Il Fatto quotidiano, 18 gennaio 2014

Oggi rendiamo pubblico questo appello corredato dalle sole firme dei suoi estensori. Nei prossimi giorni renderemo pubblica anche la lista delle adesioni che stiamo raccogliendo, e che sono già ora, prima ancora del suo lancio, molto numerose e qualificate.

La lista per le elezioni europee a cui proponiamo di dar vita con questo documento sarà una lista di cittadinanza assolutamente autonoma, promossa da personalità della cultura, dell’arte e della scienza e da esponenti di comitati, associazioni, movimenti e organismi della società civile che ne condividono gli obiettivi e i contenuti, e che non verrà “negoziata” con alcun partito. Questo sia per segnare una netta discontinuità con il passato, sia per sottolineare la novità di questa proposta: l’adesione a questa lista elettorale non deve essere confusa con l’affiliazione ad alcuno dei partiti esistenti o in fieri e non ha alcuna pretesa identitaria.

Questa lista avrà un comitato di garanti formato tra i firmatari dell’appello, che non si candideranno. Avrà un comitato promotore, con compiti operativi.

Su questa base le realtà organizzate come i partiti, o loro strutture, le associazioni politiche o culturali, i centri sociali – che vorranno sostenere questo progetto sono le benvenute e possono contribuire al suo successo anche presentando proposte di candidatura di propri iscritti, purché rispondenti alle caratteristiche indicate nell’appello. E potranno sostenere la lista, la raccolta delle firme e le attività connesse alla campagna elettorale, costituendosi in uno o più comitati di sostegno dotati della più ampia autonomia, seguendo il modello già adottato nella campagna per i referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei sevizi pubblici locali, modalità che ha garantito il successo in quella iniziativa referendaria.

L'APPELLO

L’Europa al bivio
L’Europa è a un bivio, i suoi cittadini devono riprendersela. Dicono i cultori dell’immobilità che sono solo due le risposte al male che in questi anni di crisi ha frantumato il progetto d’unità nato a Ventotene nell’ultima guerra, ha spento le speranze dei suoi popoli, ha risvegliato i nazionalismi e l’equilibrio fra potenze che la Comunità doveva abbattere. La prima risposta è di chi si compiace: passo dopo passo, con aggiustamenti minimi, l’Unione sta guarendo grazie alle terapie di austerità. La seconda risposta è catastrofista: una comunità solidale si è rivelata impossibile, urge riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente sacrificata e uscire dall’Euro. Noi siamo convinti che ambedue le risposte siano conservatrici, e proponiamo un’alternativa di tipo rivoluzionario. È nostra convinzione che la crisi non sia solo economica e finanziaria, ma essenzialmente politica e sociale. L’Euro non resisterà, se non diventa la moneta di un governo democratico sovranazionale e di politiche non calate dall’alto, ma discusse a approvate dalle donne e dagli uomini europei. È nostra convinzione che l’Europa debba restare l’orizzonte, perché gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più. Solo attraverso l’Europa gli europei possono ridivenire padroni di sé.

Per questo facciamo nostre le proposte di Alexis Tsipras, leader del partito unitario greco Syriza, e nelle elezioni europee del 25 maggio lo indichiamo come nostro candidato alla presidenza della Commissione Europea. Il suo paese, la Grecia, è stato utilizzato come cavia durante la crisi ed è stato messo a terra: in quanto tale è nostro portabandiera. Tsipras ha detto che l’Europa, se vuol sopravvivere, deve cambiare fondamentalmente. Deve darsi i mezzi finanziari per un piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro con comuni piani di investimento e colmi il divario tra l’Europa che ce la fa e l’Europa che non ce la fa, offrendo sostegno a quest’ultima. Deve divenire unione politica, dunque darsi una nuova Costituzione: scritta non più dai governi ma dal suo Parlamento, dopo un’ampia consultazione di tutte le organizzazioni associative e di base presenti nei paesi europei.

Deve respingere il fiscal compact che oggi punisce il Sud Europa considerandolo peccatore e addestrandolo alla sudditanza, e che domani punirà, probabilmente, anche i paesi che si sentono più forti. Al centro di tutto, deve mettere il superamento della disuguaglianza, lo stato di diritto, la comune difesa di un patrimonio culturale e artistico che l’Italia ha malridotto e maltrattato per troppo tempo. La Banca centrale europea dovrà avere poteri simili a quelli esercitati dalla Banca d’Inghilterra o dalla FED, garantendo non solo prezzi stabili ma lo sviluppo del reddito e dell’occupazione, la salvaguardia dell’ambiente, della cultura, delle autonomie locali e dei servizi sociali, e divenendo prestatrice di ultima istanza in tempi di recessione. Non dimentichiamo che la Comunità nacque per debellare le dittature e la povertà. Le due cose andavano insieme allora, e di nuovo oggi.

Oggi abbiamo di fronte una grande questione ambientale di dimensioni planetarie, che può travolgere tutti i popoli, e un insieme di politiche tese a svalutare il lavoro, mentre una corretta politica ambientale può essere fonte di nuova occupazione, di redditi adeguati, di maggiore benessere e di riappropriazione dei beni comuni. È il motivo per cui contesteremo duramente il mito della crescita economica così come l’abbiamo fin qui conosciuta. Esigeremo investimenti su ricerca, energie rinnovabili, formazione, trasporti comuni, difesa del patrimonio culturale. Sappiamo che per una riconversione così vasta avremo bisogno di più, non di meno Europa.

Proprio come Tsipras dice riferendosi alla Grecia, in Italia tutto questo significa rimettere in questione due patti-capestro. Primo, il fiscal compact: il pareggio di bilancio che esso prescrive è entrato proditoriamente nella nostra costituzione, l’Europa non ce lo chiedeva, limitandosi a indicare sue «preferenze». Secondo, il patto di complicità che lega il nostro sistema politico cleptocratico alle domande dei mercati: chiediamo una politica di contrasto contro le mafie, il riciclaggio, l’evasione fiscale, la protezione e l’anonimato di capitali grigi, la corruzione, in un’Europa dove non sia più consentito opporre il segreto bancario alle indagini della magistratura. Significa infine difendere la Costituzione nata dalla Resistenza, e non violarne i principi base come suggerito dalla JP Morgan in un rapporto del 28 maggio 2013, cui i governanti italiani hanno assentito col loro silenzio. Significa metter fine ai morti nel Mediterraneo: i migranti non sono un peso ma il sale della crescita diversa che vogliamo. Significa darsi una politica estera, non più al rimorchio di un paese– gli Stati Uniti– che perde potenza ma non prepotenza. La pax americana produce guerre, caos, stati di sorveglianza. È ora di fondare una pax europea.

Le larghe intese, le rifiutiamo in Italia e in Europa: sono fatte per conservare l’esistente. Per questo diciamo no alla grande coalizione parlamentare che si prepara fra socialisti e democristiani europei, presentandoci alle elezioni di maggio con una piattaforma di sinistra alternativa e di rottura. Nostro scopo: un Parlamento costituente, che si divida fra immobilisti e innovatori. Siamo sicuri fin d’ora che gran parte dei cittadini voglia proprio questo: non l’Unione mal ricucita, non la fuga dall’Euro, ma un’altra Europa, rifatta alle radici. La chiediamo subito: il tempo è scaduto e la casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio nella sua tana minuscola e illusoria.

L’Italia al bivio

Questo è l’orizzonte. A partire da qui avanziamo la proposta di dare vita in Italia a una lista che alle prossime elezioni europee faccia valere i principi e i programmi delineati.

Una lista promossa da movimenti e personalità della società civile, autonoma dagli apparati partitici, che sia una risposta radicale alla debolezza italiana. Una lista composta in coerenza con il programma, che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio.

Una lista che sostiene Tsipras ma non fa parte del Partito della Sinistra Europea che lo ha espresso come candidato. I nostri eletti siederanno nell’europarlamento nel gruppo con Tsipras (GUE-Sinistra Unitaria europea). Una lista che potrà essere sostenuta, come nel referendum acqua, dal più grande insieme di realtà organizzate e che non si manterrà con i rimborsi elettorali.

Una lista che con Tsipras candidato mobiliti cittadine e cittadini verso un’Altra Europa.


il manifesto, 19 gennaio 2014
UNA LISTA PER TSIPRAS
LE PRIME ADESIONI

Sono nume­rose le ade­sioni all’appello «A sini­stra, una lista per Tsi­pras» lan­ciato ieri da Andrea Camil­leri, Paolo Flo­res d’Arcais, Luciano Gal­lino, Marco Revelli, Bar­bara Spi­nelli e Guido Viale. In questa pagina ren­diamo note le prime, ma la pub­bli­ca­zione con­ti­nuerà nei pros­simi giorni.

La lista per le ele­zioni euro­pee a cui i pro­mo­tori dell’appello pro­pon­gono di dar vita con il loro docu­mento sarà una lista di cit­ta­di­nanza asso­lu­ta­mente auto­noma, pro­mossa da per­so­na­lità della cul­tura, dell’arte e della scienza e da espo­nenti di comi­tati, asso­cia­zioni, movi­menti e orga­ni­smi della società civile che ne con­di­vi­dono gli obiet­tivi e i con­te­nuti, e che non verrà «nego­ziata» con alcun par­tito. Que­sto sia per segnare una netta discon­ti­nuità con il pas­sato, sia per sot­to­li­neare la novità di que­sta pro­po­sta: l’adesione alla lista elet­to­rale non deve essere con­fusa con l’affiliazione ad alcuno dei par­titi esi­stenti o in fieri e non ha alcuna pre­tesa identitaria.

Que­sta lista avrà un comi­tato di garanti for­mato tra i fir­ma­tari dell’appello, che non si candideranno.

Avrà un comi­tato pro­mo­tore, con com­piti ope­ra­tivi. Su que­sta base le realtà orga­niz­zate — e i par­titi, o loro strut­ture, le asso­cia­zioni poli­ti­che o cul­tu­rali, i cen­tri sociali — che vor­ranno soste­nere que­sto pro­getto sono le ben­ve­nute e pos­sono con­tri­buire al suo suc­cesso anche pre­sen­tando pro­po­ste di can­di­datura di pro­pri iscritti, pur­ché rispon­denti alle carat­te­ri­sti­che indi­cate nell’appello. E potranno soste­nere la lista, la rac­colta delle firme e le atti­vità con­nesse alla cam­pa­gna elet­to­rale, costi­tuen­dosi in uno o più comi­tati di soste­gno dotati della più ampia auto­no­mia, seguendo il modello già adot­tato nella cam­pa­gna per i refe­ren­dum con­tro la pri­va­tiz­za­zione dell’acqua e dei sevizi pub­blici locali, moda­lità che ha garan­tito il suc­cesso in quella ini­zia­tiva referendaria.

Di seguito il primo nucleo di adesioni:

Mario Ago­sti­nelli, Andreina Albano, Gae­tano Azza­riti, Giu­liana Bel­trame, Alberto Bur­gio, Loris Campetti, Luca Casa­rini, Franco Chiarello,Giovanni Car­ro­sio, Furio Colombo, Gildo Claps, Emma­nuele Curti, Gior­gio Dal Fiume, Marco D’Eramo, Tom­maso Di Fran­ce­sco, Monica Di Sisto, Andrea Di Ste­fano, Gianni Fer­rara, Carlo Frec­cero, Fran­ce­sco Gari­baldo, Dome­nico Gat­tuso, Alfonso Gianni, Ales­san­dro Gilioli, Paul Gin­sborg, Fabio Grossi, Leo Gul­lotta, Monica Lan­franco, Teresa Masciopinto, Katia Mastan­tuono, Vale­rio Mastran­drea, Anto­nio Maz­zeo, San­dro Medici, Tomaso Mon­ta­nari, Roberto Musac­chio, Maso Nota­rianni, Gio­vanni Orlan­dini, Moni Ova­dia, Gio­vanni Palom­ba­rini, Gior­gio Parisi, Angela Pascucci, Anto­nello Patti, Ful­vio Perini, Tonino Perna, Paolo Pie­tran­geli, Nico­letta Pirotta, Felice Roberto Piz­zuti, Gabriele Polo, Gianni Rinal­dini, Tiziano Rinal­dini, Umberto Roma­gnoli, Ric­cardo Rossi, Edoardo Sal­zano, Anto­nia Sani, Andrea Segre, Patri­zia Sen­ti­nelli, Ste­fano Sylos Labini, Anna Simone, Mas­simo Torelli, Giolì Vidigni.

Secondo il fondatore di Repubblica Matteo Renzi ha riportato Berlusconi al centro della politica italiana, gli concedendo al colpevole di furto allo Stato l'atto di clemenza che Giorgio Napolitano gli ha negato, e tuttavia va bene così. Viviamo in un mondo di poeti, se è vero che “è del poeta il fin la meraviglia”. La Repubblica, 19 gennaio 2014

IERI si è combattuto il giorno interosulla legge elettorale, anche il giorno prima si era combattuto e anche oggi edomani si continuerà perché lo scontro avverrà su un compromesso ed anche icompromessi contemplano molte varianti.Per abbreviare il linguaggio politico emediatico il confronto avviene attorno al modello della legge elettoralespagnola definita Ispanico, scritto con la maiuscola. Mi viene in mente uncelebre film il cui protagonista era l’attore Crowe, generale delle legioni esupposto successore di Marc’Aurelio il quale però venne ucciso dal figlioCommodo che diventò imperatore. L’ex generale fu ridotto in schiavitù echiamato Ispanico; dopo varie vicende affrontò lo stesso Commodo nell’arena delColosseo. Si uccisero reciprocamente e il film si chiude con l’arrivo diIspanico nei Campi Elisi dove ritrova sua moglie e i suoi figli.

Resta ora da capire per noi che viviamoduemila anni dopo questa romanzesca vicenda, chi sia l’Ispanico di oggi: seBerlusconi o Renzi o Letta. Personalmente propendo per Berlusconi, somigliaall’Ispanico del film sia come capo di legioni sia nella fase della schiavitù(condannato dalla Cassazione e deposto dal Senato) sia nel ritorno ai CampiElisi. C’è tornato infatti ieri sera nell’incontro con Renzi nell’ufficio cheera stato di Bersani, e ci resterà ormai per sempre, quali che siano irisultati dell’incontro.

Berlusconi l’Ispanico. Renzi l’hariportato al centro della politica italiana. Compiendo quell’atto di clemenzache il Cavaliere aveva invano atteso da un «motu proprio» di Napolitano e cheil Presidente si è sempre rifiutato di concedere per la semplice ragione chenon può ignorare le sentenze definitive della magistratura, rafforzate dalledecisioni altrettanto definitive del Senato della Repubblica. La clemenza «motuproprio» gliel’ha accordata Matteo Renzi. Nessuno lo obbligava, la leggeelettorale ha carattere ordinario, non costituzionale, anche se è direttamentelegata alla trasformazione del Senato in Camera delle regioni, senza di cheresterebbe in piedi la trappola del bicameralismo perfetto che non esiste innessuna democrazia occidentale, neppure in quella presidenzialistica americana. Allora perché il sindaco di Firenze hadeciso di riportare nei Campi Elisi l’Ispanico Berlusconi, con la sua fidanzataFrancesca Pascale e il cagnolino Dudù?
Ho letto con molto interesse qualche giorno faun articolo di Asor Rosa sul Manifesto: un articolo decisamente anti-renziano ealtrettanto decisamente filo-lettiano pur essendo Asor Rosa un intellettualeche vagheggia una nuova sinistra- sinistra. Non è paradossale che unapersonalità come Asor Rosa arrivi ad una conclusione così contraddittoria?Seguendo quale logica? Rosa lo dice: il Pd non c’è più, è un partito laceratoda correnti, correntine e spifferi di corrente, che si è consegnato di fatto aMatteo Renzi, sia in quelli che lo appoggiano sia in quelli che lo contrastano.In entrambi i casi le varie fazioni agiscono alla cieca o per interessi propri.I più contrari a Renzi, come Fassina o Civati, auspicano elezioni immediate ecoincidono in questo punto di fondo con il sindaco di Firenze.

Il partito non c’è più, c’è Renzi, ilquale deve portare a casa riforme che facciano colpo sull’immaginario deglielettori. La legge elettorale interessa assai poco la gente, i lavoratori, lefamiglie che non arrivano alla fine del mese, i poveri e i poverissimi ma anchegli agiati che vivono con l’incubo di precipitare in basso. Questa gente non haalcuna stima della politica ma resterebbe colpita dal fatto che un politico dinuovo conio porta a casa un risultato concreto. Quale che sia, interessi o menola gente, è pur sempre un risultato, ottenuto in pochi giorni. La gente nesarebbe stupefatta se questo avvenisse. Il renzismo guadagnerebbe fiducia tantopiù che il nuovo leader promette anche obiettivi economici «a portata di mano». Chi ha esaminato a mente fredda quelle promesse ha capito che non sono affatto a portata di mano, ma una buona parte degli italiani ha sempre creduto che i miracoli si fanno, la bacchetta magica esiste e anche l’asino che vola c’è da qualche parte. Se così non fosse, non ci sarebbe un venti per cento di elettori che vota ancora per Silvio. Silvio c’è e se non ha fatto miracoli è perché finora gliel’hanno impedito i suoi nemici toghe rosse e comunisti. Meno male che Silvio c’è e dunque anche meno male che c’è Renzi. Si somigliano? Sì, si somigliano e anche molto.

La vera — e formidabile — bravura di Silvio è sempre stata quella d’incantare la gente, ma è la stessa bravura di Matteo che sa incantare la gente come Silvio e anche di più ora che Silvio è vecchio e fisicamente un po’ provato. Matteo è un Silvio giovane dal punto di vista dell’incantamento e quindi più efficace.

Adesso il suo problema sarà quello di convincere Alfano a contentarsi. Gli ha offerto uno stock di seggi basati sul proporzionale ma corretti da un maggioritario assicurato dal premio di maggioranza che le liste dei partiti maggiori otterranno. Alfano avrà meno di quanto sperasse col doppio turno continuando tuttavia ad esistere, ma con Silvio l’Ispanico restituito al suo ruolo di salvatore della Patria. È terribilmente scomoda per Alfano una convivenza di questo genere. O si oppone al compromesso che gli viene proposto o il suo movimento finirà di nuovo nelle braccia di Berlusconi. Questo è il dilemma che dovrà sciogliere nelle prossime quarantott’ore.

C’è tuttavia un aspetto di questa situazione politica: è interesse della democrazia italiana l’esistenza d’una destra moderata, repubblicana ed europeista, che restauri l’alternanza tra le due ali dello schieramento nell’ambito di quei principi sui quali è nata la democrazia europea simboleggiata dalla bandiera tricolore: libertà, giustizia, fraternità. In Italia ci fu la destra storica dopo la quale cominciò il gioco malandrino del trasformismo con interruzioni di governi autoritari comunque mascherati. Alfano può non piacere, non è certo un personaggio attraente, carisma zero, intelligenza politica dubitabile, ma non c’è solo lui in questa prima esperienza di destra moderata, ci sono Lupi, Cicchitto, Quagliariello. Siamo comunque ad un primo esperimento, ma merita di non essere schiacciato e ributtato indietro. È una mossa intelligente quella di Renzi di avergli offerto una ciambella di salvataggio, ma la ciambella funziona se il mare è calmo e la costa è vicina. Con Berlusconi risuscitato la costa è assai lontana e il mare in tempesta. Questo è il punto che Alfano e i suoi dovranno valutare con la massima attenzione.

Nel frattempo la recessione economica sembra aver toccato il fondo cominciando a risalire. I dati per la prima volta registrano un aumento dei fatturati; la speranza è che i consumi riprendano e il «credit crunch» delle banche abbia finalmente una fine. La Commissione della Ue, si spera ed è probabile, darà un giudizio favorevole sulla politica economica italiana, specialmente per quanto riguarda le privatizzazioni e la revisione delle spese superflue. Le privatizzazioni consentiranno una diminuzione consistente del debito pubblico, la riduzione della spesa e l’appoggio dell’Europa potrebbero liberare risorse per incentivare la domanda interna ed anche quella estera. Il trattato con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche di quel Paese è vicino alla sua conclusione e ci darà una congrua disponibilità di nuove risorse.

Insomma tra un anno il rilancio dello sviluppo potrebbe essere consolidato e i riflessi su investimenti e occupazione potrebbero essere consistenti. Non siamo certo in grado di giudicare se Renzi sarà lieto di questo risultato, ma tutti gli italiani ne saranno confortati e la rabbia sociale sarà confinata in piccole minoranze. Il Silvio Ispanico si attribuirà tutti i meriti. È sempre avvenuto e sarà ancora una volta così. Speriamo soltanto che gli italiani che credono nelle favole siano meno numerosi di oggi e i partiti più idonei a capire le differenze tra cultura politica e improvvisazione. Ci vogliono tutte e due queste capacità, una sola è una sciagura.

Che altro dire! Se non che ha ragione chi dice che il fomdo dell'abisso è sempre più in basso di quanto si potesse pensare.

Il manifesto, 18 gennaio 2014

E' sboc­ciato un amore, una «pro­fonda sin­to­nia» fra il Pd e Forza ita­lia. O meglio, fra Mat­teo Renzi e Sil­vio Ber­lu­sconi. Forse non è ancora un accordo, i det­ta­gli sono tutti da defi­nire, e potreb­bero essere la buc­cia di banana su cui far sci­vo­lare il governo verso le ele­zioni. Ma quando una sin­to­nia è «pro­fonda» risulta molto dif­fi­cile per chiun­que — soprat­tutto nella mag­gio­ranza di governo — distur­barla facendo «la voce grossa». Spe­cial­mente quando si hanno per­cen­tuali elet­to­rali a una cifra («non per­met­te­remo il ricatto dei pic­coli par­titi», è l’avvertimento di Renzi).

Dopo più di due ore di fac­cia a fac­cia e una breve dichia­ra­zione ai gior­na­li­sti, il segre­ta­rio del Pd ha dato appun­ta­mento a lunedì quando nella dire­zione del par­tito arri­verà la pro­po­sta di legge elet­to­rale e di riforma costi­tu­zio­nale. Dun­que manca qual­che ora per cer­care un «patto» nella mag­gio­ranza. Tut­ta­via den­tro la par­tita poli­tica ieri se ne è gio­cata un’altra, for­te­mente simbolica.

Nes­suna tele­ca­mera ha mostrato imma­gini dell’incontro (per pudore resi­duo, per ver­go­gna, per paura dell’impopolarità?), che nes­suno poteva imma­gi­nare qual­che set­ti­mana fa, soprat­tutto dopo la cac­ciata di un pre­giu­di­cato dal Par­la­mento: la scelta di Renzi ha di fatto ria­bi­li­tato un lea­der dimez­zato dai guai giudiziari.

Forse il segre­ta­rio del Pd voleva can­cel­lare la sua pro­fonda incoe­renza, facendo dimen­ti­care certe frasi roboanti che appena qual­che mese fa era diven­tate titoli di prima pagina. Dopo la sen­tenza della Cas­sa­zione «per Ber­lu­sconi la par­tita è finita, game over», disse com­pia­ciuto per aver azzec­cato la bat­tuta giu­sta. Ma per i poli­tici la coe­renza non è una virtù e il gio­vane Renzi con­trad­dice cla­mo­ro­sa­mente la sua liqui­da­to­ria bat­tuta rice­vendo il lea­der di Forza Ita­lia addi­rit­tura nella sede del Par­tito demo­cra­tico. Un atto di arro­ganza dun­que verso il suo stesso par­tito, anche se non verso la sto­ria, basti ricor­dare i rap­porti con D’Alema e con Veltroni.

Ma ora la situa­zione è diversa: in nes­sun paese nor­male può acca­dere che a deci­dere le riforme (elet­to­rali e costi­tu­zio­nali) venga chia­mato un per­so­nag­gio che i magi­strati stanno per asse­gnare ai ser­vizi sociali o agli arre­sti domi­ci­liari. E sic­come la forma è sostanza que­sta sfida sim­bo­lica dice molto dell’invulnerabilità da cui Renzi si sente pro­tetto. Un uomo solo al comando dopo il ple­bi­scito delle pri­ma­rie. Che umi­lia almeno una parte dell’elettorato del Pd.

Il brac­cio di ferro tra il segre­ta­rio, il pre­si­dente del con­si­glio e la mag­gio­ranza di governo è arri­vato al punto di mas­sima ten­sione, mol­ti­pli­ca­tore di un con­flitto nel Par­tito demo­cra­tico ancora fra­stor­nato dal cam­bio dei ver­tici e dalla geo­gra­fia mobile delle cor­renti. Per certi versi sem­bra di assi­stere ai vec­chi riti demo­cri­stiani quando il segre­ta­rio Dc attac­cava il governo Dc le cui sorti erano alla fine decise dal gioco delle cor­renti di piazza del Gesù.

Per­ché somi­glia molto ad un gioco demo­cri­stiano que­sta trian­go­la­zione tra Letta, Renzi e Alfano che cer­cano di farsi lo sgam­betto per poi meglio accor­darsi e chiu­dere la par­tita della legge elet­to­rale in modo che sod­di­sfi le esi­genze di tutti. Però quando al tavolo è seduto anche Ber­lu­sconi c’è sem­pre il rischio che decida di ribal­tarlo. E a pen­sarci bene, che a deci­dere sul futuro del nostro Paese sia un pre­giu­di­cato non è umi­liante solo per un par­tito, ma per tutti.

Dopo la sentenza della Corte costituzionale la legge elettorale c'é e non produce "frantumazione parlamentare". In realtà vogliono che la maggioranza relativa diventi maggioranza assoluta e domini indisturbata: come fece Mussolini nel 1924 e tentò Scelba nel 1953 con la "legge truffa". L'Unità, 17 gennaio 2014

Caro Direttore,
ora che la Consulta ha depositato le motivazioni della sentenza ed il «premio di maggioranza» è stato archiviato come «incostituzionale», le conseguenze di questo passaggio d’epoca che chiude il ventennio «maggioritario» meritano di essere messe in chiaro.


1) Ormai la legge elettorale c’è;
 è falso che sia urgente inventarne una, quasi a colmare un vuoto. Non c’è un vuoto legislativo. In forza della sentenza, perfezionata a tutti gli effetti con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è attualmente in vigore un sistema proporzionale con sbarramento al 4%. Infatti lo sbarramento attualmente vigente non era compreso nella materia sottoposta al vaglio della Corte: e dunque resta in piedi.

2) È deplorevole che questo specifico dato venga nascosto ai cittadini dai mezzi di comunicazione. Se lo si scrivesse a chiare lettere, i cittadini si chiederebbero che senso abbia l’attuale frenesia alla ricerca di una legge elettorale visto che non solo ce n’è già una, ma c’è anche l’agognato «sbarramento» atto a tranquillizzare chi finge di preoccuparsi della «frantumazione» partitica additata di norma (in discreta malafede) come patologia tipica proporzionale. Frantumazione non ci può dunque essere perché comunque è in vigore lo «sbarramento» al 4%.

Dunque cosa vogliono? Vogliono una legge che consenta ad una maggioranza relativa di diventare, in sede parlamentare, maggioranza assoluta: nel che risiedeva il nucleo fondamentale della legge Acerbo voluta da Mussolini nel 1923 e messa in atto alle elezioni mortifere del 1924. Veicolo di tale miracolo (una minoranza di elettori che produce una maggioranza di eletti) è il famigerato «premio di maggioranza». Per lo meno, la improvvida «legge truffa», bocciata dagli elettori il 7 giugno del 1953, dava il «premio» alla lista (o coalizione) che avesse superato, sia pure di un solo voto, il 50% dei suffragi!

Fingere che si debba escogitare una nuova legge elettorale perché in questo momento ne siamo privi è anche un sopruso: è quasi circonvenzione, come di incapaci, della gran parte dei cittadini-elettori. Il ruolo di stampa, radio, tv può risultare di vera e consapevole complicità.

L’argomento che si ode più spesso ripetere al fine di esorcizzare la legge elettorale proporzionale (con sbarramento) attualmente vigente è che si avrebbe daccapo un Parlamento ingovernabile dato l’arroccamento semi-aventiniano e fatuamente sterile dei «cinquestellanti». Ma già oggi, con un Parlamento eletto con un sistema ultramaggioritario («Porcellum»), il risultato è uguale: l’impossibilità di dar vita ad una maggioranza politica definibile come tale! Dunque si dovrebbe inventare addirittura qualcosa di più mostruoso, di più aberrante del «Porcellum», per superare una siffatta difficoltà.

Essa è dovuta alla scelta di un partito (al quale si accredita un terzo dell’elettorato) di tirarsi fuori da ogni alleanza: tecnica adoperata già dal movimento hitleriano negli ultimi anni di Weimar. Ma una tale scelta non la si sconfigge a colpi di trucchi elettorali, bensì politicamente. Se si è capaci di ciò. E invece su questo terreno per ora nessuno seriamente si cimenta.

Bisogna dunque smetterla di escogitare leggi elettorali più o meno alchemiche fondate sul presupposto seguente: siccome prevedo il risultato, devo provvedere a truccarlo!

Un'intervista alla coraggiosa combattente per la difesa di una Repubblica che rispetti la propria Costituzione e i più elementari diritti umani.

Il manifesto, 16 gennaio 2013

Forse la Lega di Mat­teo Sal­vini che va a brac­cetto con Marine Le Pen ha pas­sato il segno. La mini­stra per l’Integrazione Cécile Kyenge, non fosse altro che per una que­stione di toni, que­sta volta sem­bra decisa a pre­ten­dere un’azione più decisa con­tro il raz­zi­smo. Non per una que­stione per­so­nale, “non sono solo io il ber­sa­glio di certi attac­chi raz­zi­sti, è la demo­cra­zia stessa ad essere in peri­colo”. Se tanta deter­mi­na­zione avrà un seguito, allora forse ci dovremo abi­tuare a una mini­stra che non si limi­terà a glis­sare con classe, o con iro­nia, alle pro­vo­ca­zioni cui viene sot­to­po­sta ogni volta che par­te­cipa a un dibat­tito pub­blico. Kyenge è arrabbiata.

Mini­stra, gli insulti raz­zi­sti e le frasi imbe­cilli con­ti­nuano. Siamo arri­vati al punto che la poli­zia deve blin­dare i luo­ghi che lei fre­quenta. Lei ha detto che devono essere fer­mati. In che modo? Pensa che ci siano gli estremi per impe­dire l’assedio dei leghisti?

A que­sto punto penso che sia neces­sa­rio e urgente met­tere in campo un’azione poli­tica forte, dico que­sto non solo per difen­dere la mia per­sona ma soprat­tutto per tute­lare ogni tipo di diver­sità da que­sti attac­chi intol­le­ra­bili. La mini­stra Kyenge è solo un pre­te­sto, io vengo attac­cata e stru­men­ta­liz­zata per col­pire un sim­bolo che va ben al di là della mia per­sona: il vero obiet­tivo è la demo­cra­zia. Rico­pro un ruolo poli­tico con una carica impor­tante, sono un mini­stro della Repub­blica ita­liana, e vengo col­pita per por­tare avanti un discorso peri­co­lo­sis­simo che genera paura e intol­le­ranza. E’ que­sto un ten­ta­tivo che biso­gna asso­lu­ta­mente fer­mare in ogni modo. Dob­biamo ritro­vare l’orgoglio delle nostre istituzioni.

Per Roberto Maroni anche gli insulti sono solo cri­ti­che legit­time e nes­sun leghi­sta sem­bra pen­tito per il basso livello di certi attacchi.

Prima di tutto vor­rei ricor­dar­gli che lui è un lea­der di un gruppo poli­tico e recen­te­mente ha anche rico­perto un ruolo impor­tante e deli­cato come mini­stro degli Interni, per que­sto dovrebbe cogliere l’opportunità di dire cose diverse a que­sto pro­po­sito. Que­sti sono fatti gravi che non riguar­dano solo la mia per­sona e un poli­tico serio li deve sem­pre condannare.

Cosa intende quando dice che serve una rea­zione poli­tica forte? In Ita­lia esi­ste già una legge che puni­sce il reato di isti­ga­zione all’odio razziale.

Sì certo, esi­ste, ma io credo che ci siano delle moda­lità di inter­vento ancora più inci­sive per sen­si­bi­liz­zare la popo­la­zione sul tema del raz­zi­smo. E’ in atto una cam­pa­gna media­tica elet­to­rale molto vio­lenta, la stanno facendo sulla pelle di qual­cuno per col­pire i valori della demo­cra­zia e della con­vi­venza. Tutti devono com­pren­dere la gra­vità della situa­zione. Quando un depu­tato arriva a tin­gersi di nero la fac­cia in par­la­mento, allora signi­fica che siamo andati oltre e che abbiamo pas­sato il segno.

Appunto, e quindi?

Dob­biamo arri­vare ad esclu­dere pro­grammi poli­tici che isti­gano al raz­zi­smo. Sia in Ita­lia che in Europa.

Il para­gone forse non è così azzar­dato: in Fran­cia hanno vie­tato gli spet­ta­coli raz­zi­sti del comico Dieu­donné. Hanno fatto bene?

Si tratta di una que­stione molto deli­cata e con­tro­versa. Serve una discus­sione appro­fon­dita a livello euro­peo. Il mio mini­stero sta por­tando avanti un patto per l’Europa, si tratta di un docu­mento pro­gram­ma­tico che invita tutti i paesi a raf­for­zare i per­corsi cul­tu­rali neces­sari per fare argine al raz­zi­smo. Lo pre­sen­te­remo tra poco. Ciò non esclude, per tor­nare in Ita­lia, anche un raf­for­za­mento della legge Man­cino, lo ritengo neces­sa­rio, ma per­so­nal­mente ci tengo a sot­to­li­neare soprat­tutto l’utilità dei per­corsi di for­ma­zione e di sensibilizzazione.

Un’incursione nella poli­tica. In par­la­mento ci sono i numeri per abo­lire il reato di clan­de­sti­nità, un reato odioso per cui nes­suno però va in galera (è pre­vi­sta solo un’ammenda). Il punto vero è capire se ci sono i mar­gini per abo­lire la Bossi-Fini. Pensa che il Pd sia maturo al punto di rischiare una crisi di governo per abro­gare que­sta legge?

Il mio par­tito su que­sti temi ha indi­cato degli obiet­tivi ben pre­cisi, è chiaro che nell’ambito del patto di coa­li­zione adesso si aprirà una discus­sione impor­tante anche sulla Bossi-Fini.

Ma è evi­dente che il mini­stro Alfano non ci sta.

Il nostro obiet­tivo è riu­scire ad avere un governo diverso e forte anche su que­sti temi, ci impe­gne­remo per questo.

Che ne dice dell’esito del refe­ren­dum online del M5S sull’abolizione del reato di clan­de­sti­nità? Se lo aspettava?

La società evi­den­te­mente è cam­biata. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che quel reato sia total­mente privo di senso. Anche l’esito di quella con­sul­ta­zione dice che biso­gna avere il corag­gio di affron­tare la realtà

La vergogna gettata sul nostro paese da una manciata di farneticanti. Il timore è che siano la punta di un iceberg. La Repubblica, 16 gennaio 2014
UNA duplice, speciale vigliaccheria contraddistingue la campagna orchestrata dalla Lega contro Cécile Kyenge.

Vigliaccheria numero uno: prima ancora che la linea politica, viene presa di mira la persona in quanto tale, accusata perfino di «favorire la negritudine ». Così ieri a Montecitorio il deputato Gianluca Buonanno è giunto a tingersi il volto per insinuare che per ottenere vantaggi in Italia bisognerebbe farsi «un po’ più scuri». Vigliaccheria numero due: i leghisti agiscono surrettiziamente, pubblicando l’agenda della Kyenge sul giornale di partito senza neanche avere il coraggio di scrivere a che scopo lo fanno. Dico e non dico, lancio il sasso e ritiro la mano. Vigliacchi, appunto.

Un’ipocrisia evidenziata dal segretario Salvini che sogghigna rifugiandosi dietro al diritto alla libertà d’informazione: che male c’è a divulgare degli appuntamenti pubblici? Mentre Roberto Maroni, che pure sarebbe il presidente di una grande regione europea come la Lombardia, finge di cascare dalle nuvole: «Non capisco perché contestare il ministro Kyenge sia un atto di razzismo». Non capisce, poverino?

Per carità, la Lega non è razzista. Con gli africani è dispostissima a stringere affari. Lo ha rivelato un’inchiesta di Claudio Gatti su “Il Sole 24 Ore”: subito dopo l’accordo italo-libico del 2008 per il respingimento in mare dei migranti, il suo tesoriere Belsito — che guarda caso la Lega aveva inserito nel cda della Fincantieri — si diede da fare per vendere al regime di Gheddafi pattugliatori e corvette sulle cui commesse tentò di lucrare col meccanismo dei retropagamenti. Un po’ a te e un po’ a me. La magistratura sta ancora indagando. Se invece una cittadina italiana nata in Congo viene incaricata dal governo di operare per l’integrazione degli immigrati, allora si grida allo scandalo. La si addita al pubblico ludibrio.

La Lega si protende nel disperato tentativo di recuperare uno spazio elettorale all’estrema destra. Ieri Salvini ha stretto alleanza a Strasburgo con Marine Le Pen, leader ultranazionalista d’oltralpe, e chi se ne importa della coerenza federalista. Le stesse camicie verdi che un mese fa al Lingotto di Torino scandivano in coro “Italia vaffa…” non esitano a scendere in piazza coi Forconi che sventolano il tricolore. E quando si fa la posta alla Kyenge gli va benissimo di ritrovarsi fianco a fianco coi fascisti di Forza Nuova.

Resta da chiedersi quale possa essere l’esito di questa offensiva razzista. L’intenzione è evidentemente quella di far dimenticare l’onta del partito arraffapoltrone, funestato dalle ruberie, marginalizzato a Roma ma tuttora bene inserito in tutte le postazioni di sottogoverno nel Nord. Salvini confida nella memoria corta degli esasperati e degli incattiviti dalla crisi che morde. Intuisce che a destra oggi c’è il vuoto e che l’Italia impoverita rimane territorio aperto per le scorrerie dell’antipolitica.

Si tratta di un’operazione non solo cinica, ma pericolosissima. Il classico caso dell’apprendista stregone. Perché è molto improbabile che l’agitazione delle tematiche xenofobe e antieuropee possa resuscitare un movimento screditato innanzitutto fra la gente che per un quarto di secolo aveva illuso, traendone un potere esercitato maldestramente. Assai più probabile, purtroppo, è che la crisi del forzaleghismo su cui s’innesta una tale velenosa campagna di diseducazione di massa, favorisca l’avvento di una nuova destra estrema in grado di rivendicare la sua verginità politica. Fa paura anche solo evocarla, perché il suo biglietto da visita è una violenza che da verbale, “futurista”, fa in fretta a diventare squadrismo.

L’odio diffuso contro Cécile Kyenge — se non verrà rintuzzato al più presto — piuttosto che beneficiare i suoi propalatori leghisti è più facile che generi fenomeni marginali ma devastanti di militarizzazione. L’exploit greco di Alba Dorata sta lì a dimostrarlo.

Il ritornello che già si sente ripetere perfino dai megafoni televisivi, è un’accusa dal sapore beffardo: l’aver nominato ministro una donna con la pelle nera viene additato come episodio di un non meglio precisato «razzismo all’incontrario ». Anche Buonanno, il deputato che si è tinto la faccia a Montecitorio, ha adoperato questa espressione che non significa nulla, «razzismo all’incontrario». Quasi che la ovvia parità di diritti naturalmente assegnata dalla cittadinanza italiana fosse un privilegio insopportabile, un torto inflitto alla maggioranza dei “bianchi”.

Il razzismo ipocrita della Lega non è dissimile, nelle sue modalità espressive, dall’antisemitismo del comico francese Dieudonné. Fermiamoli finché siamo in tempo.

Una intelligente analisi del renzismo, con una conclusione molti "politicistica" secondo il suo stesso audace autore.

Il manifesto, 16 gennaio 2014

Prima di entrare nel merito della deli­cata mate­ria poli­tica, cui que­sto arti­colo intende fare rife­ri­mento, devo con­fes­sare una mia per­so­nale dif­fi­coltà, o sto­rico disa­gio, che potrebbe ren­dere quanto segue alta­mente opi­na­bile. E cioè: quando il dis­senso poli­tico diventa abis­sale, si tra­sforma in una dif­fe­renza antro­po­lo­gica, che lo fonda e giu­sti­fica. Per quanto mi riguarda è così che io guardo Mat­teo Renzi, il nuovo e bril­lante lea­der della sini­stra ita­liana. E’ come se lui ed io appar­te­nes­simo a mondi diversi, inco­mu­ni­ca­bili. Per­ciò dicevo della mia dif­fi­coltà di costruirci un discorso ragio­ne­vole sopra. Sarebbe come se al mar­ziano di Fla­iano si fosse chie­sto di for­mu­lare un ocu­lato giu­di­zio poli­tico sui fre­quen­ta­tori dei caffè di Via Veneto, o anche vice­versa (ai tempi suoi, s’intende: adesso anche lì è tutt’altra cosa).

Tutto ciò — lo dico senza iro­nia e senza nes­suna auto­con­di­scen­denza affa­bu­la­to­ria — pende gra­ve­mente a mio sfa­vore. Lui è il nuovo che avanza, con tutta la forza dirom­pente della sua totale (anche ana­gra­fica) igno­ranza del pas­sato. Io sono il pas­sato che guarda con sbi­got­ti­mento al pre­sente, con la pre­tesa, oggi total­mente, anzi comi­ca­mente vana, che la cono­scenza del pas­sato, e il tenerne conto, come si faceva una volta, pos­sano por­tare ancora qual­che pic­colo ele­mento di pre­vi­sione, e di azione, per il pre­sente. Ma allora, se della poli­tica abbiamo due nozioni e cre­denze net­ta­mente oppo­ste, per­ché pre­su­mere di giu­di­care una delle due poli­ti­che dalla spe­cola di osser­va­zione di una con­ce­zione della poli­tica che le è esat­ta­mente oppo­sta? Sap­pia per­ciò il let­tore — lo dico per one­stà intel­let­tuale — che que­sto arti­colo sarà mar­cato nega­ti­va­mente da que­sta forte pregiudiziale .

Ridurrò il resto ad alcune con­si­de­ra­zioni basi­lari, anzi, a que­sta sparsa “let­tura del testo”, che illu­mini (forse) il punto in cui siamo.

1. L’ho già detto in altre occa­sioni, ma in esor­dio voglio tor­nare e ricor­darlo. Renzi, e il ren­zi­smo, il quale già gli è nato e anzi pro­spera vigo­ro­sa­mente accanto, rap­pre­senta l’approdo finale della lunga para­bola ini­ziata ven­ti­cin­que anni fa con la Bolo­gnina di Achille Occhetto. Qual è l’essenza di que­sta para­bola? L’essenza di que­sta para­bola è la can­cel­la­zione, oggi ormai totale e irre­ver­si­bile, della tanto vitu­pe­rata “diver­sità comu­ni­sta” (cioè della pre­tesa, abo­mi­ne­vole agli occhi di molti, di fare poli­tica in modo diverso per obiet­tivi diversi).
Que­sta can­cel­la­zione incide tanto più pesan­te­mente sul pano­rama poli­tico ita­liano in quanto non ha dato luogo, come si poteva pen­sare e spe­rare, alla nascita di un’opzione socia­li­sta. Il crollo del vec­chio socia­li­smo, in ragione fon­da­men­tale (ma non solo) della cam­pa­gna giu­di­zia­ria di Mani pulite, e il rifiuto, da stu­diare ancora fino in fondo, della diri­genza post-comunista di suben­trar­gli in quel ruolo, hanno pro­dotto que­sto uni­cum nella sto­ria euro­pea degli ultimi due secoli: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui non esi­ste un par­tito socia­li­sta.
Il con­ti­nuo decalage auto­de­fi­ni­to­rio — Pci, Pds, Ds, Pd… — e cioè in buona sostanza l’incertezza pro­fonda su cosa si è e soprat­tutto su cosa si vuole essere o diven­tare, ha pro­dotto la per­dita di qual­siasi iden­tità cul­tu­rale e ideale. Il ren­zi­smo replica: che biso­gno ce n’è? La poli­tica ne pre­scinde. Intanto andiamo avanti a tutta birra. Poi, even­tual­mente, si vedrà.

2. Come già accen­navo, la chiave di tutta que­sta sto­ria sta nell’incredibile serie di errori com­messi dalla vec­chia diri­genza post comu­ni­sta (che non abbiamo né spa­zio né voglia di appro­fon­dire in que­sta sede, ma diamo ormai per sto­ri­ca­mente appu­rati). L’ultimo sopras­salto iden­ti­ta­rio si veri­fica quando Ber­sani scon­figge net­ta­mente Renzi alle pri­ma­rie del 2012. Il genio del ren­zi­smo con­si­ste nell’avere colto il momento in cui lo sfi­ni­mento del vec­chio gruppo diri­gente lascia aperte le porte al più dra­stico dei rove­scia­menti. Tale rove­scia­mento con­si­ste essen­zial­mente di tre aspetti:

a) Renzi sosti­tui­sce la forza ple­bi­sci­ta­ria del con­senso alla gerar­chia orga­niz­zata e sca­lare (e tal­volta un po’ omer­tosa) del Par­tito. Cioè, in sostanza, nega l’utilità e l’opportunità in re del Par­tito, il quale resta come un puro guscio, la ban­diera da sven­to­lare (ma nean­che troppo, spesso quasi per niente) nelle occa­sioni uffi­ciali. Cioè: cam­bia la nozione stessa di demo­cra­zia, che que­sto paese bene o male ha pra­ti­cato dal ’45 a oggi (tute­lata, se non erro, da certi aspetti non irri­le­vanti della nostra Costituzione);

b) Insieme con l’utilità e l’opportunità del pro­prio Par­tito (e, più in gene­rale, della forma par­tito in quanto tale), nega l’utilità e l’opportunità della rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare. Infatti, tra­di­zio­nal­mente, fra il corpo degli eletti, i quali, almeno teo­ri­ca­mente, dovreb­bero rap­pre­sen­tare l’autentica volontà popo­lare, e la dire­zione del Par­tito cor­ri­spon­dente c’è sem­pre stata (almeno dopo la chiu­sura, per il Pci, della fase sta­li­niana) una dia­let­tica di con­fronto e di scam­bio. Oggi la rap­pre­sen­tanza par­la­men­tare viene trat­tata alla stre­gua di una sem­plice ese­cu­trice dei dik­tat pro­ve­nienti dalla dire­zione renziana;

c) La poli­tica si dispiega, per il verbo ren­ziano, come la serie di atti che ser­vono a rag­giun­gere il più rapi­da­mente ed effi­ca­ce­mente pos­si­bile quel deter­mi­nato risul­tato. La dire­zione di mar­cia dell’intero pro­cesso, e i suoi riflessi sulla situa­zione sociale, cul­tu­rale ed etico-politica del paese, restano nell’ombra. Pro­ba­bil­mente ci sono, ma meno si vedono e meglio è (o forse, se si vedes­sero, sarebbe molto peg­gio). Come si dice a Roma “famo a fidasse”.

3. Se le osser­va­zioni pre­ce­denti sono mini­ma­mente fon­date, salta all’occhio che le carat­te­ri­sti­che “nuove” del ren­zi­smo (cioè la velo­cis­sima rivo­lu­zione acca­duta negli ultimi due anni nel campo della sini­stra mode­rata) sono enor­me­mente simili a quelle già veri­fi­ca­tesi nel corso degli anni pre­ce­denti nel centro-destra e nella realtà poli­tica del dis­senso e dell’opposizione popo­lari.

Per vin­cere Sil­vio Ber­lu­sconi e Beppe Grillo — cosa che non era sta­bil­mente acca­duta mai alla vec­chia diri­genza post-comunista e post-democristiana — occor­reva seguirli sul loro stesso ter­reno. Que­sto mi pare dav­vero incon­fu­ta­bile: lea­de­ri­smo asso­luto, popu­li­smo ple­bi­sci­ta­rio, discreto disprezzo dei mec­ca­ni­smi isti­tu­zio­nali e costi­tu­zio­nali, rifiuto del sistema-partito e del sistema-partiti, rot­tura degli schemi della vec­chia, logora e con­sunta imma­gine del poli­tico ancien régime, sono i punti di forza del “nuovo poli­tico” al di là e al di qua dei tra­di­zio­nali, anch’essi ter­ri­bil­mente obso­leti, limiti politico-ideali, destra, sini­stra, e quant’altro ci viene dal pas­sato. Il “nuovo poli­tico” non ha avver­sari: ha solo con­cor­renti, da bat­tere più o meno sul loro stesso ter­reno. Fra loro potreb­bero per­sino inten­dersi: e non è detto che almeno su certi ter­reni, per esem­pio la nuova legge elet­to­rale, que­sto non accada.

4. Il dato forse più signi­fi­ca­tivo di tale pro­cesso è che esso ha acqui­sito rapi­da­mente un vasto con­senso popo­lare. Il “popolo” (insomma, più esat­ta­mente, un quo­ziente piut­to­sto vasto dell’elettorato del Pd, con rami­fi­ca­zioni signi­fi­ca­tive negli altri elet­to­rati) segue Renzi su que­sta strada. Da più parti si sente ripe­tere: «Con Renzi si vince». Importa meno sapere “cosa si vince”, pur­ché sia rag­giunta una ragio­ne­vole sicu­rezza che “con Renzi si vince”. Dun­que, lea­de­ri­smo, popu­li­smo ple­bi­sci­ta­rio, liqui­da­zione dei par­titi, un discreto disprezzo per il gioco par­la­men­tare e per le isti­tu­zioni che lo garan­ti­scono, hanno fatto brec­cia in pro­fon­dità. Media — organi di stampa, tele­vi­sioni, opi­nion makers — si alli­neano sem­pre più entu­sia­sti­ca­mente. Uomini ine­qui­vo­ca­bil­mente di sini­stra (Ven­dola, Lan­dini) sem­brano guar­dare con sim­pa­tia alle pos­si­bi­lità di mano­vra, che il “nuo­vi­smo” ren­ziano con­sente loro (per forza, meglio che star fermi, oppure restare per sem­pre marginali!).

5. Dun­que, c’è stato, come sem­pre accade in que­sti casi, un pro­cesso di reci­proco rico­no­sci­mento tra il lea­der nascente e le masse mutanti (ne hanno discorso recen­te­mente Euge­nio Scal­fari ed Erne­sto Galli della Log­gia rispet­ti­va­mente su la Repub­blica e il Cor­riere della Sera: tor­nerò pros­si­ma­mente su tale argo­mento). Si potrebbe ragio­nare a lungo su tali pro­cessi. Quel che conta è però che siano avve­nuti. Con­sta­tarlo non signi­fica però sapere come con­trap­por­visi. Anzi: è dif­fi­cile inter­porsi soprat­tutto nel momento stesso in cui, come accade ora, tale con­giun­gi­mento avviene. E tut­ta­via, il momento in cui il con­giun­gi­mento avviene è però anche quello in cui una pos­si­bile inter­po­si­zione va ela­bo­rata e pre­sen­tata; altri­menti la par­tita è chiusa come minimo per un decen­nio. Ma qui con­ciano i dolenti lai. Non si tratta infatti di con­trap­porre sol­tanto un’ipotesi poli­tica a un’altra, per ora pre­va­lente. Si tratta, per rie­su­mare una vec­chia, dete­sta­tis­sima ter­mi­no­lo­gia, di ricreare una cul­tura poli­tica della sini­stra, anco­rata alla tra­di­zione (tutto quel che c’è di buono al mondo ha un pas­sato e una sto­ria) e al tempo stesso moderna, moder­nis­sima, più dell’altra che, tutto som­mato, non vede molto più al di là della punta del pro­prio naso. Ossia. comin­ciare a dire ragio­ne­vol­mente quel che si vuole e prima di dire come lo si vuole. Resta dun­que qual­cosa del pas­sato: diversi. Ma nuovi: non più comu­ni­sti. Que­sta è la scom­messa. Resta tutto som­mato cre­di­bile dal fatto che in Ita­lia di così ce ne sono tanti, li cono­sco e ci lavoro insieme. Dif­fi­cile è sten­dere la rete fra le loro non sem­pre facil­mente assi­mi­la­bili diver­sità. ma se si deve fare, si farà. In tempi di duris­sima care­stia è esat­ta­mente quello che biso­gna tor­nare a fare.

6. Prima di chiu­dere vor­rei esi­birmi nell’ultima far­ne­ti­ca­zione poli­tica, anzi poli­ti­ci­stica. Se le cose stanno come il pas­sa­ti­sta dice, biso­gne­rebbe evi­tare a ogni costo che il governo Letta cada e si vada, come gli homi­nes novi più o meno con­cor­de­mente auspi­cano, al voto.

Per tre motivi (almeno): a) biso­gna evi­tare che la destra si ricom­patti; b) biso­gna ela­bo­rare una buona legge elet­to­rale che senza equi­voci assi­curi in que­sto paese l’alternanza: il dop­pio turno e le pre­fe­renze (pos­si­bil­mente più di una), sono l’unico sistema in grado di farlo, e per otte­nerlo ci vorrà più tempo di quanto si pensi; c) abbiamo biso­gno di tempo per ela­bo­rare, pro­porre e imporre una nuova cul­tura poli­tica, della sini­stra, con le con­se­guenze che un tale pro­cesso potrebbe avere sull’intero assetto poli­tico e civile del paese.

Sono argo­men­ta­zioni para­dos­sali per uno che invita a resu­sci­tare la vecchio-nuova sini­stra? Sì, è vero. Ma il para­dosso è la nostra attuale con­di­zione di vita — per­sino della vita pub­blica e civile (tal­volta per­so­nale), oltre che poli­tica. Fare a meno del para­dosso oggi non si può. Per­ciò è neces­sa­rio astu­ta­mente governarlo

«Dal 2005 grazie alla “cura” berlusconiana l’Italia è una democrazia violata». Come ne usciamo? questo è il problema. Prevarranno gli interessi del Palazzo o degli elettori? La Repubblica, 14 gennaio 2014

Insieme a molti altri disastri politici e istituzionali e ad altrettanti guasti economici e morali, questa è dunque la drammatica eredità che una destra populista e “sfascista” regala al paese. La corte costituzionale lo dice con assoluta chiarezza, spiegando le censure di illegittimità che riguardano i due vizi fondamentali di quella legge. L’abnorme premio di maggioranza , che in assenza di una ragionevole soglia minima di voti per competere all’assegnazione del premio stesso ha finito per «determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla costituzione». Il meccanismo delle liste bloccate, che rimettendo la scelta esclusiva dei candidati ai partiti ha privato «l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti», e ha ferito «la logica della rappresentanza consegnata nella costituzione».

Il porcellum è stato un veleno scientificamente inoculato nelle vene della nazione. Ha intossicato il parlamento, riempiendolo di “nominati” al servizio delle segreterie. Ha innescato una micidiale crisi di rigetto nella società civile, spingendo moltitudini di elettori a cercare l’antidoto nell’anti-politica. Il dramma è che con questo “mostro” concepito dalla resistibile armata del cavaliere abbiamo già votato due volte, eleggendo due parlamenti. È vero che la consulta si premura di chiarire ora che il principio di «continuità dello stato» è comunque assicurato, e che la sua pronuncia non inficia le ultime tornate elettorali né delegittima le camere appena elette.

Ma questo non è balsamo. Semmai è altro sale sulla ferita. Dal 2005, grazie alla “cura” berlusconiana, l’italia è una democrazia violata. La legge elettorale, cioè la “regola” fondamentale che disciplina l’esercizio di un diritto inalienabile dei cittadini, ha violato palesemente la costituzione. Ci sono voluti quasi dieci anni per certificare quello che era già chiaro allora. Meglio tardi che mai. Ma il rammarico resta, insieme all’indignazione.

Le motivazioni della corte erano importanti non solo per comprendere le ragioni dell’incostituzionalità del porcellum. Ma anche e soprattutto per capire quali paletti avrebbe fissato, nella prospettiva della riforma elettorale. I giudici hanno adottato una soluzione “aperta”, che di fatto non preclude nessuno dei modelli possibili, né il proporzionale né il maggioritario, variamente corretti e integrati. Purché il premio di maggioranza abbia una soglia minima, e a condizione che l’elettore abbia il diritto di scegliere. Riaffermati questi principi irrinunciabili, le motivazioni della corte non sbarrano la strada a nessuna delle ipotesi messe in campo da Matteo Renzi. Il modello spagnolo può funzionare (purché le liste prevedano circoscrizioni ridotte e con pochi candidati), così come il mattarellum corretto (purché si gradui adeguatamente il premio della parte proporzionale) o il doppio turno di lista (ribattezzato impropriamente il “sindaco d’Italia”, e purché sia introdotto il voto di preferenza o il listino “corto”).

Questa exit strategy indicata dalla consulta è da un lato un’opportunità. Ma dall’altro lato un problema. Chi pensava (o sperava) che la corte togliesse le castagne dal fuoco alla politica rimane deluso. La palla torna interamente nella metà campo dei partiti. E questo costringe il leader del pd ad accelerare i tempi, e a rompere gli indugi. Renzi deve portare a casa un risultato entro il 20 gennaio, quando il dibattito approderà in commissione alla camera, e poi una settimana dopo in aula. Il leader, da solo, non ha i voti per fare una qualunque riforma. Ha bisogno di alleati. E ferma restando l’indisponibilità di Grillo, ha solo due forni ai quali rivolgersi. Quello di Berlusconi e quello di Alfano. Ma l’uno, per ora, è alternativo all’altro. E l’uno e l’altro sono pericolosi.

Berlusconi può discutere forse solo di modello spagnolo, che è tendenzialmente bipartitico, ma non vuole né il mattarellum corretto né il doppio turno di lista (gli elettori di destra storicamente non vanno a votare due volte in due settimane). Alfano può discutere del “sindaco d’Italia”, ma non vuole né il mattarellum corretto (con i collegi uninominali sarebbe costretto a tornare nelle braccia del cavaliere) né il modello spagnolo (con uno sbarramento al 15% rischierebbe di star fuori dal parlamento). Renzi ha avuto il merito di forzare il modulo, e di mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, offrendo tre ipotesi di intesa possibile.

Ma ora, nell’indecisione altrui, è costretto a scegliere. Se tratta con alfano, deve smettere di bastonare quotidianamente il nuovo centrodestra, e appiattirsi su un governo letta dal quale invece si vuole sistematicamente e ostinatamente distinguere. Se tratta con berlusconi, deve accettare l’idea dell’eventuale «patto col diavolo». Ma sapendo bene cosa l’aspetta. Non solo una probabile crisi di governo (eventualità cui alfano sarebbe costretto per la rottura del patto di coalizione). Ma anche una possibile imboscata (“specialità” nella quale il cavaliere è maestro indiscusso). Berlusconi potrebbe portare il sindaco di Firenze a un passo dall’accordo sul modello spagnolo, per poi far saltare il tavolo all’ultimo minuto, incassando in un colpo solo la caduta del governo delle strette intese e le elezioni anticipate con il proporzionale puro (cioè la morte politica di Renzi).

È un rischio concreto e non fantapolitica. Per convincersene, basta chiedere al D’Alema della bicamerale e al Veltroni del 2008. Una “lezione” che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.

Tra le bizzarrie del duce dei grillini la sua concezione della democrazia è certamente quella più innovativa. E l'"innovazione" piace molto, di questi tempi.

Il manifesto, 14 gennaio 2014

Un voto fast-food, una demo­cra­zia à la carte, una con­sul­ta­zione ora­rio uffi­cio. Si o no, favo­re­vole o con­tra­rio al reato di clan­de­sti­nità? Non è una burla, né una per­for­mance sati­rica, è come, in Ita­lia, un par­tito con otto milioni di voti, con un gruppo par­la­men­tare di 150 eletti, tra sena­tori e depu­tati, sce­glie di risol­vere una que­stione così impor­tante, di quelle che bastano e avan­zano per trac­ciare una linea (o per sca­vare un fos­sato) tra destra e sinistra.

Oggi, giunta final­mente al voto la legge sulle «depe­na­liz­za­zioni» com­pren­siva dell’abolizione della ver­go­gna ita­liana del reato di clan­de­sti­nità, ecco la mossa a sor­presa, la votazione-lampo orga­niz­zata da Grillo e Casa­leg­gio.

La fedele cop­pia di cara­bi­nieri, guar­dia e guar­dia scelta del bot­tino elet­to­rale con­qui­stato alle ele­zioni poli­ti­che dello scorso feb­braio, indice un refe­ren­dum dalle 10 del mat­tino alle 18 del pome­rig­gio. Il ten­ta­tivo è di evi­tare che l’abolizione del reato di clan­de­sti­nità porti la firma gril­lina. Come già era lim­pi­da­mente emerso in otto­bre quando due sena­tori pen­ta­stel­lati ebbero l’ardire di pro­porre l’emendamento incri­mi­nato con­tro il fami­ge­rato fiore all’occhiello della legge Bossi-Fini.

Su di loro si sca­tenò l’ira fune­sta del padre-padrone e del suo pre­sunto ideo­logo inter­net­tiano. Se aves­simo soste­nuto l’abolizione del reato di clan­de­sti­nità in cam­pa­gna elet­to­rale – sostenne allora il tan­dem – «avremmo avuto per­cen­tuali da pre­fisso tele­fo­nico». Siamo con­trari «nel merito e nel metodo», aggiun­sero per chia­rire che quell’emendamento avreb­bero dovuto riman­giar­selo. In cima ai pen­sieri di que­sti per­fetti impren­di­tori della paura, c’era, e resta, il cal­colo elet­to­rale, l’inseguimento delle pul­sioni peg­giori del popu­li­smo con­tro gli immi­grati, il non schie­rarsi né a destra, né a sini­stra, per gua­da­gnare il mas­simo con­senso dalla crisi dei par­titi.

Non che Grillo e Casa­leg­gio deb­bano per forza leg­gere i sacri testi sulla demo­cra­zia, o ispi­rarsi alla defi­ni­zione che Bob­bio ne sug­ge­riva («un insieme di regole, pri­ma­rie o fon­da­men­tali, che sta­bi­li­scono chi è auto­riz­zato a pren­dere le deci­sioni col­let­tive e con quali pro­ce­dure», spie­gando che la deci­sone spetta a «un numero molto alto di sog­getti»). Ma almeno rispet­tare la Costi­tu­zione che scio­glie gli eletti dai vin­coli di man­dato, lascian­doli liberi di esprimersi.

E visto che alla fine quelle poche migliaia di voti (circa 24 mila) in mag­gio­ranza (poco meno di 16 mila) hanno appog­giato l’abolizione dell’odioso reato (9 mila quelli che, invece, avreb­bero voluto con­fer­marlo), forse Grillo e Casa­leg­gio dovranno ras­se­gnarsi a comin­ciare a resti­tuire una parte dei con­sensi sot­tratti alle destre leghi­ste. E magari domani vedersi sfug­gire anche quelli avuti in dono dal Pd di Ber­sani. Se l’abile e astuta stra­te­gia di Renzi riu­scirà a essere più effi­cace della pro­pa­ganda gril­lina sul finan­zia­mento pub­blico e la legge elet­to­rale, nem­meno le maglie strette del con­trollo della rete riu­sci­ranno a trat­te­nere il bot­tino elet­to­rale con­qui­stato caval­cando la grande paura

Del resto, nella storia della Penisola i barbari sono sempre venuti dal Nord; ma dal di là delle Alpi.

La Repubblica, 12 gennaio 2014

PERCHÉ l’assessore per l’immigrazione della Lombardia non vuole partecipare a un incontro sull’immigrazione con il ministro per l’immigrazione? La risposta è dello stesso assessore, la leghista Simona Bordonali: “Ritengo le tematiche non prioritarie”. Può essere anche divertente domandarsi quali tematiche, se non l'immigrazione, siano “prioritarie” per un assessore all'immigrazione.

Ma è più interessante notare come la poco partecipata ma molto dura contestazione di ieri, a Brescia, contro il ministro Kyenge, forse per la prima volta abbia compattato i rappresentanti politici e in qualche caso istituzionali di tutta la destra nazionale, da Forza Nuova alle camicie verdi ai neomissini di Fratelli d'Italia a militanti della rinata Forza Italia (che, a prenderli in parola, sarebbero i veri eredi dei “moderati”).

La ministra “congolese”, si sa, è il bersaglio prediletto, oltre che il più ovvio, degli umori xenofobi del nostro Paese. In quanto italiana figlia dell'immigrazione e in quanto nera è ritenuta, piuttosto che una persona a conoscenza dei fatti, una provocazione vivente, un insulto a un'idea di “italianità” puramente virtuale, al pari di ogni astrazione razzista, ma violentemente ribadita, al pari di ogni astrazione razzista. Quanto al fatto che proprio nelle scorse settimane la rivista americana Foreign Policy abbia inserito la Kyenge tra le cento personalità mondiali più influenti in funzione del cambiamento può valere, negli ambienti dell'isolazionismo italiano, solo come conferma del complotto “mondialista” ai danni della retta conduzione di ogni nazione.

Ieri a Brescia si è rischiato che la gazzarra trascendesse in botte da orbi, essendo il presidio anti-Kyenge venuto quasi a contatto con gruppi di immigrati e “militanti dei centri sociali” non meglio identificati, gli uni e gli altri. È stata una breve e intensa rappresentazione di strada, in carne e ossa, dell'odio e degli insulti che dilagano sui social network, per una volta avvantaggiati dalla loro virtualità, nel senso che, almeno, sul web le parole grevi e i concetti violenti non hanno il supporto delle urla stridule, e dei volti trasfigurati dall'eccitazione, che i telegiornali della sera ci hanno documentato. Tenuti a bada dalle forze dell'ordine (accusate da un signore quasi apoplettico per la rabbia di “proteggere solo i negri e i comunisti”), gli xenofobi di popolo e di Palazzo (c’erano anche l'assessore Beccalossi e il consigliere regionale Rolfi) si sono allontanati furibondi, e certamente convinti di essere stati discriminati nonostante incarnino la voce popolare.

Nei fatti, sempre che i fatti contino, il vero problema, per loro, non è certo uno spintone di troppo da parte della polizia; né i loro veri antagonisti coincidono, se non in piccola parte, con i ragazzi antirazzisti e gli immigrati che ieri gli si sono opposti in strada, avendo uguale diritto di manifestare. Il vero problema, per la destra lombarda e italiana, è che Kyenge era stata invitata, oltre che da un paio di enti locali, dall'Azione Cattolica di Brescia, vale a dire da quel cattolicesimo sociale che in Lombardia è molto presente e molto influente; ed è, soprattutto, profondamente “popolare”, non certo riducibile alle detestate lobby mondialiste o salottiere o comuniste o bancarie o gay o altro che, nella visione piuttosto paranoica della destra xenofoba, regola le cose del mondo con subdola protervia.

Mentre la Beccalossi, la Bordonali e Rolfi (e Maroni? ha un'opinione in proposito, Maroni?) vorrebbero dare alla Kyenge il foglio di via, e il loro manipolo di ripulitori etnici sventolava un grande biglietto di aereo “Italia-Congo” da consegnare al ministro, Azione Cattolica la invita a Brescia e le mette a disposizione un microfono e un vasto pubblico, in una delle città più cattoliche e più ex democristiane di Italia. Specie sotto un papato come questo, antifondamentalista ed ecumenico (mondialista?), i veri grattacapi, per gli xenofobi padani e italiani, non verranno dai “comunisti” dei centri sociali.

Il manifesto, 10 gennaio 2014

Con la bozza del Job­sAct, Mat­teo Renzi ha ini­ziato a ren­dere chiaro il peri­me­tro cul­tu­rale in cui intende muo­versi. E oltre alle pun­tuali osser­va­zioni cri­ti­che sul tema dell’occupazione scritte da Giu­seppe Alle­gri sul manifesto di ieri, c’è un punto della bozza – il capi­tolo 7 “buro­cra­zia” della parte dedi­cata al “sistema” — che apre un velo pre­oc­cu­pante sulle inten­zioni dell’astro nascente dell’afittica poli­tica italiana.
In que­sto caso al cen­tro della scena non ci sono i ragio­na­menti e le pro­po­ste sul lavoro. Al punto 7 si afferma che si intende appli­care alle strut­ture dema­niali ciò che vale oggi per gli inter­venti mili­tari. E’ scritto pro­prio così, e per essere ancora più chiaro: «I sin­daci deci­dono desti­na­zioni, parere in 60 giorni di tutti i sog­getti inte­res­sati, e poi nes­suno può inter­rom­pere il processo».
Il deli­cato pro­blema della deci­sione sull’utilizzazione degli immo­bili pub­blici dismessi diventa dun­que un pro­blema simile alla sicu­rezza mili­tare e a deci­dere deve essere una sola per­sona, il sin­daco, cal­pe­stando regole e demo­cra­zia, per­ché i con­si­gli comu­nali non sono nep­pure citati.
C’è in que­sta pro­po­sta una con­vinta aper­tura alla grande sven­dita dei beni pub­blici, un fatto di per sé molto grave e spe­riamo che den­tro il Pd si alzino voci con­tra­rie. Ma c’è soprat­tutto una gigan­te­sca que­stione democratica.
Il gruppo dei pen­sa­tori attorno al sin­daco di Firenze pensa evi­den­te­mente — spiace scri­verlo, ma è pro­prio così– al modello isti­tu­zio­nale del ven­ten­nio fasci­sta in cui era il pode­stà a deci­dere senza l’inutile impac­cio dei con­si­gli comunali.
Come è noto, è in atto una for­tis­sima pres­sione da parte dei grandi poteri eco­no­mici e finan­ziari per acca­par­rarsi a pochi soldi le pro­prietà pub­bli­che, dalle caserme ai beni dema­niali, come abbiamo visto nella recente discus­sione sul patto di sta­bi­lità quando tra le nuove misure era com­parsa (poi for­tu­na­ta­mente can­cel­lata) per­fino la ven­dita delle spiagge. Renzi si schiera dalla parte di que­sti poteri.
Il Job­sAct è ancora in forma di bozza, l’invito è a dare sug­ge­ri­menti e magari diranno che sul punto si sono sba­gliati: ma dalla sua prima scrit­tura si com­prende meglio quali siano i motivi pro­fondi dell’entusiasmo che Renzi ha riscosso da parte del sistema domi­nante eco­no­mico e della comu­ni­ca­zione: nep­pure Ber­lu­sconi, pur avendo appro­vato decine di leggi dero­ga­to­rie, era riu­scito a pen­sare una norma di que­sto tipo.
Renzi va oltre, rompe ogni indu­gio e si accre­dita come colui che demo­lirà ogni resi­dua regola nelle città e nell’ambiente. Il modello della riforma elet­to­rale chia­mato del “sin­daco d’Italia” non poteva avere peg­gior preludio.

E per meglio pre­ci­sare il con­cetto di demo­cra­zia che ha in mente, il gruppo ren­ziano, alla con­clu­sione del citato arti­colo 7 afferma che non sarà più pos­si­bile chie­dere «la sospen­siva nel giu­di­zio ammi­ni­stra­tivo». I comi­tati che ani­mano le ini­zia­tive in tutta Ita­lia sono ser­viti: non deb­bono distur­bare il mano­vra­tore. Una norma pale­se­mente insen­sata e inco­sti­tu­zio­nale, per­ché non si pos­sono scon­vol­gere regole e il codice civile con la scusa della ven­dita degli immo­bili pub­blici: cor­re­ranno ai ripari, ma fin d’ora con­verrà stare molto attenti al Sin­daco d’Italia.
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