Ogni giorno ci domandiamo se è peggio essere comandati dal Caimano direttamente o attraverso il suo pupazzo. Il
manifesto, 27 gennaio 2014
Verdini e Berlusconi li ha ascoltati volentieri, ma le osservazioni critiche dei maggiori costituzionalisti italiani no: quelle lo hanno fatto innervosire. Matteo Renzi ha preso male l’appello dei giuristi contro il suo progetto di riforma elettorale; lo hanno firmato da Azzariti a Carlassare, da Ferrajoli a Ferrara, da Rodotà a Villone e il manifesto lo ha pubblicato domenica. «Un manipolo di scienziati del diritto», li ha definiti sprezzante il segretario del Pd, usando il linguaggio che gli serve a intendersi con il Cavaliere.
Cavaliere che per le sue «porcate» elettorali o ad personam del resto faceva lo stesso. Tirava avanti comunque, per poi sbattere regolarmente contro la Corte Costituzionale. A quel punto, però, quelle leggi avevano già fatto danni. Per l’Italicum si intravede un destino simile. In effetti è ancora una legge firmata Berlusconi.
Chi avesse preso sul serio gli infiniti discorsi di Renzi sull’importanza del «merito», contrapposto al parlar vano della politica, avrebbe di che sorprendersi ascoltandolo adesso insolentirsi per le critiche nel merito dei giuristi. «Se non si fa questa legge elettorale ci tocca il governo con Berlusconi», spiega spiccio il segretario. A guardare sotto la spocchia lessicale questo è il suo unico argomento. Cioè, una riforma che amplifica i disastri della legge Calderoli, ignora le osservazioni della Consulta e regala a una minoranza un premio spropositato è una necessità politica? Taccia allora chi si preoccupa dei principi costituzionali. Ma se al sindaco di Firenze interessa questo e basta, vincere il famoso giorno dopo le elezioni, o meglio ancora quello prima, se il rispetto della volontà popolare è solo una fisima degli «scienziati del diritto», allora ha possibilità infinitamente maggiori. Verdini è un buon giocatore ma Berlusconi è un po’ appannato, perché Renzi non se la gioca a poker?
La Corte Costituzionale ha appena scritto che «le assemblee parlamentari si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare». Renzi risponde proponendo un senato di amministratori locali non eletti ma cooptati e una camera dove applicando l’Italicum all’ultimo sondaggio viene fuori che con il 22% dei voti al primo turno, e tutti i suoi alleati sotto la soglia, Forza Italia può prendere il 52% dei seggi.
Un premio del 30% che trasforma in cigno anche il Porcellum, che in fondo non è andato oltre un più 25% (comunque troppo per la Consulta). Così almeno era la legge che il segretario del Pd ha presentato al suo partito, accompagnandola con un perentorio «prendere o lasciare». Un ultimatum che ha già dovuto ritirare. Le soglie assurde che possono lasciar fuori partiti con due milioni e mezzo di voti si vanno abbassando. L’editto che riscrive l’aritmetica trasformando per legge il 35% in maggioranza si può correggere. Anche quel Ghino di Tacco trovava i suoi ostacoli e Renzi, bullismi a parte, deve rassegnarsi a ridurre almeno un po’ il suo danno.
Ma il danno resta. Soprattutto perché alla crisi della rappresentanza, al montare dei populismi e all’esplosione dell’astensionismo, Renzi continua a rispondere con la droga tutta italiana del maggioritario spinto. Non cambia verso, torna indietro. Ci riporta all’inizio del tunnel berlusconiano. Disprezza le ragioni del diritto e della Costituzione, questo è chiaro. Ma con la politica non va meglio.
A proposito della riforma della legge elettorale che Berlusconi e Renzi vogliono imporre al popolo italiano L’appello dei più autorevoli costituzionalisti italiani ai parlamentari. Sotto accusa premio di maggioranza, liste bloccate e sbarramento. il manifesto, 25 gennaio 2014
La proposta di riforma elettorale depositata alla Camera a seguito dell’accordo tra il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi e il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi consiste sostanzialmente, con pochi correttivi, in una riformulazione della vecchia legge elettorale – il cosiddetto “Porcellum” – e presenta perciò vizi analoghi a quelli che di questa hanno motivato la dichiarazione di incostituzionalità ad opera della recente sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014.
Questi vizi, afferma la sentenza, erano essenzialmente due.
Il primo consisteva nella lesione dell’uguaglianza del voto e della rappresentanza politica determinata, in contrasto con gli articoli 1, 3, 48 e 67 della Costituzione, dall’enorme premio di maggioranza – il 55% per cento dei seggi della Camera – assegnato, pur in assenza di una soglia minima di suffragi, alla lista che avesse raggiunto la maggioranza relativa. La proposta di riforma introduce una soglia minima, ma stabilendola nella misura del 35% dei votanti e attribuendo alla lista che la raggiunge il premio del 53% dei seggi rende insopportabilmente vistosa la lesione dell’uguaglianza dei voti e del principio di rappresentanza lamentata dalla Corte: il voto del 35% degli elettori, traducendosi nel 53% dei seggi, verrebbe infatti a valere più del doppio del voto del restante 65% degli elettori determinando, secondo le parole della Corte, “un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente” e compromettendo la “funzione rappresentativa dell’Assemblea”. Senza contare che, in presenza di tre schieramenti politici ciascuno dei quali può raggiungere la soglia del 35%, le elezioni si trasformerebbero in una roulette.
Il secondo profilo di illegittimità della vecchia legge consisteva nella mancata previsione delle preferenze, la quale, afferma la sentenza, rendeva il voto “sostanzialmente indiretto” e privava i cittadini del diritto di “incidere sull’elezione dei propri rappresentanti”. Questo medesimo vizio è presente anche nell’attuale proposta di riforma, nella quale parimenti sono escluse le preferenze, pur prevedendosi liste assai più corte. La designazione dei rappresentanti è perciò nuovamente riconsegnata alle segreterie dei partiti. Viene così ripristinato lo scandalo del “Parlamento di nominati”; e poiché le nomine, ove non avvengano attraverso consultazioni primarie imposte a tutti e tassativamente regolate dalla legge, saranno decise dai vertici dei partiti, le elezioni rischieranno di trasformarsi in una competizione tra capi e infine nell’investitura popolare del capo vincente.
C’è poi un altro fattore che aggrava i due vizi suddetti, compromettendo ulteriormente l’uguaglianza del voto e la rappresentatività del sistema politico, ben più di quanto non faccia la stessa legge appena dichiarata incostituzionale. La proposta di riforma prevede un innalzamento a più del doppio delle soglie di sbarramento: mentre la vecchia legge, per questa parte tuttora in vigore, richiede per l’accesso alla rappresentanza parlamentare almeno il 2% alle liste coalizzate e almeno il 4% a quelle non coalizzate, l’attuale proposta richiede il 5% alle liste coalizzate, l’8% alle liste non coalizzate e il 12% alle coalizioni. Tutto questo comporterà la probabile scomparsa dal Parlamento di tutte le forze minori, di centro, di sinistra e di destra e la rappresentanza delle sole tre forze maggiori affidata a gruppi parlamentari composti interamente da persone fedeli ai loro capi.
Insomma questa proposta di riforma consiste in una riedizione del porcellum, che da essa è sotto taluni aspetti – la fissazione di una quota minima per il premio di maggioranza e le liste corte – migliorato, ma sotto altri – le soglie di sbarramento, enormemente più alte – peggiorato. L’abilità del segretario del Partito democratico è consistita, in breve, nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa stessa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale.
Di fronte all’incredibile pervicacia con cui il sistema politico sta tentando di riprodurre con poche varianti lo stesso sistema elettorale che la Corte ha appena annullato perché in contrasto con tutti i principi della democrazia rappresentativa, i sottoscritti esprimono il loro sconcerto e la loro protesta
Contro la pretesa che l’accordo da cui è nata la proposta non sia emendabile in Parlamento, ricordano il divieto del mandato imperativo stabilito dall’art.67 della Costituzione e la responsabilità politica che, su una questione decisiva per il futuro della nostra democrazia, ciascun parlamentare si assumerà con il voto. E segnalano la concreta possibilità – nella speranza che una simile prospettiva possa ricondurre alla ragione le maggiori forze politiche – che una simile riedizione palesemente illegittima della vecchia legge possa provocare in tempi più o meno lunghi una nuova pronuncia di illegittimità da parte della Corte costituzionale e, ancor prima, un rinvio della legge alle Camere da parte del Presidente della Repubblica onde sollecitare, in base all’art.74 Cost., una nuova deliberazione, con un messaggio motivato dai medesimi vizi contestati al Porcellum dalla sentenza della Corte costituzionale. Con conseguente, ulteriore discredito del nostro già screditato ceto politico.
Primi firmatari:
Gaetano Azzariti, Mauro Barberis, Michelangelo Bovero, Ernesto Bettinelli, Francesco Bilancia, Lorenza Carlassare, Paolo Caretti, Giovanni Cocco, Claudio De Fiores, Mario Dogliani, Gianni Ferrara, Luigi Ferrajoli, Angela Musumeci, Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Luigi Ventura, Massimo Villone, Ermanno Vitale.Pietro Adami, Anna Falcone, Giovanni Incorvati, Raniero La Valle, Roberto La Macchia, Domenico Gallo, Fabio Marcelli, Valentina Pazè, Paolo Solimeno
Cio’ che sarebbe avvenuto se non potessimo giovarci d’ una magistratura autonoma rispetto ai partiti, e ciò che invece, per fortuna, è accaduto. Ma “del diman non v’è certezza”.
La Repubblica, 25 gennaio 2014
Nelle riflessioni sul da farsi vengono utili storie virtuali, ossia come staremmo se anziché X, fosse avvenuto Y.
Invertiamo la freccia del tempo rivivendo giovedì 1 agosto 2013: da sette ore, cinque ermellini deliberano in camera di consiglio sul ricorso contro la condanna a 4 anni, inflitta dalla Corte d’appello milanese all’ex premier; rispondeva d’una lunga frode fiscale consumata negli Usa, essendo già “statista”; il grosso della condotta delittuosa svaniva, estinto dalla prescrizione, tanto utile agli acrobati illegalisti. Corrono previsioni d’annullamento con rinvio, nel qual caso tutto finirebbe nel solito poco onorevole proscioglimento: il delitto c’era ma non è più punibile; se li mangia il tempo. Stiamo supponendo che la Corte esaudisca l’augurio: Deo gratias, esclamano molti eletti (li nominava il partito, come nella mussoliniana Camera dei Fasci e Corporazioni): temevano una fine abortiva della legislatura; questo rassicurante evento blinda le “larghe intese”. La posta era terribile: vedi l’allarme lanciato dal Corriere, 24 luglio 2013; povera Italia, in preda ai mercati se cadesse il governo.
La questione è chi abbia vinto. Ovvio, Berlusco Magnus, più forte della legge: da vent’anni combattevano due poteri e soccombe la compagnia in toga; siamo liberi, plaudono gli addetti al culto d’Arcore. Vanno in soffitta antiche massime giacobine, che vigano regole uniformi. Nossignori, è tempo d’una versatile empiria, attenta alle persone. Qualche politologo dai pochi scrupoli la chiama «moderna democrazia». Il redivivo aveva sfiorato la vittoria con una strepitosa rimonta: grazie al Porcellum sarebbe padrone nella Camera bassa solo che la campagna elettorale fosse durata ancora qualche giorno; i Pd calavano a vista d’occhio. Ormai egemone, terrà in piedi questa larva d’un governo finché gli conviene, logorando i consorti, nelle cui file impianta colonie.
Tale sarebbe il quadro se le sentenze corrispondessero ai calcoli nei luoghi del potere politico. Che il Pd sia timido davanti all’uomo forte, consta da precedenti indecorosi: non era eleggibile alle Camere, finché fosse in atto una concessione amministrativa economicamente rilevante (art. 10, c. 1, d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361), ma oligarchi ex comunisti gli garantivano le aziende; Montecitorio chiude gli occhi, intendendo l’incompatibilità nel senso ridicolo che tocchi solo Fedele Confalonieri, titolare della concessione, senza effetti rispetto al padrone, irresistibile autocrate. Fosse meno visibile, lo diremmo imprenditore occulto.
Era storia virtuale. La sera del 1° agosto le cose vanno diversamente. Gli ermellini rientrano e avviene tutto in pochi minuti, nemmeno fosse un caso qualunque, risolubile in equazioni legali: cade la pena accessoria (sarà rideterminata dalla Corte milanese); respinti i 47 motivi del ricorso; passa in giudicato la condanna a 4 anni (3 coperti da indulto). Inorridiscono i sedicenti moderati.
Qui la commedia prende ritmi indiavolati. L’alto stratega delle “larghe intese” appare stupito: una sua fulminea nota contiene lodi al condannato, degno homme d’État, e calcando la mano sull’altro piatto, raccomanda riforme della giustizia (cospicua gaffe, sia permesso dirlo). Furibondo, lui sbraita da Porta a porta: è atto «irresponsabile» condannarlo in primo, secondo, terzo grado; da vent’anni serve l’ingrata Italia (arricchendosi a dismisura e l’ha lasciata in bolletta); abitiamo un paese guasto ma lo ripulirà cominciando dai tribunali. Ai bei tempi esibiva una volgarità sorridente. Adesso ringhia, torvo e nero. Secondo recenti norme, votate anche dai suoi (d.P.R. 31 dicembre 2012 n. 235), e se ne vantavano qualificandosi «partito degli onesti», l’ormai irrevocabile condanna gli toglie il seggio al Senato, dove sedeva immune da eventuali misure cautelari o investigative: non è più candidabile; e a parte l’effetto morale, l’anno da scontare causa intuibili disturbi. Era sua l’idea d’un secondo settennio dell’uscente dal Quirinale: adombrando misteriosi accordi, vuol estorcere interventi che lo riqualifichino, come niente fosse; e nella retorica d’Arcore questo bagno catartico diventa «pacificazione », invocata dal «popolo della libertà». Gli riaprano i palchi dello spettacolo politico o cade il governo: esige la grazia, subito, motu Praesidentis, doveroso rimedio alla lesa maestà (cinque «impiegati » s’erano permessi d’applicargli uno stupido comma), e non basta perché pendono altre accuse; noncurante dell’elementare grammatica giuridica, chiede d’essere garantito da ogni rischio penale, né più, né meno. Nelle dicerie d’amnistia mettono becco ministro della difesa, uomo dai vari colori, e madama guardasigilli, mano quirinalesca.
Imperversa tre mesi la battaglia in Senato: l’esclusione dall’assemblea, cantano i suoi a piena gola, è una pena, quindi irrogabile solo ai fatti post 5 gennaio 2013 (entrata in vigore della relativa legge); decida in proposito la Consulta; e se ne riparla tra un anno; chi vivrà, vedrà. Pronta, la guardasigilli interloquisce ad adiuvandum: il diritto è «materia d’approfondimento», no?; e volano ciarle da portineria. Il voto segreto in assemblea lascerebbe più d’uno spiraglio all’inamovibile, dato l’umore malsicuro nel gruppo Pd, ma gli elettori incutono paura. Voto palese, quindi, e come Dio vuole, mercoledì 27 novembre, Re Lanterna perde il laticlavio: mese infausto; sabato 12 novembre 2011 usciva da Palazzo Chigi. La fase seguente, prossima al punto climaterico, pone gravi questioni.
Non fu un Presidente del consiglio, partner autorevole del PD di Napolitano ed Epifani e sodale "in profonda sintonia" del PD di Renzi e Renzi a proclamare che non è giusto pagare le tasse, e a darne il buon esempio tanto da essere condannato da tre tribunali per frode fiscale? Il manifesto, 24 gennaio 2014
L’evasione fiscale accertata dalla guardia di Finanza nel 2013 è di 52 miliardi di euro, pari ad almeno tre leggi di stabilità di importo pari a quella licenziata dal governo Letta a fine dicembre: poco più di 14 miliardi di euro. Nel rapporto annuale diffuso ieri, le Fiamme Gialle sostengono di avere individuato 12.726 responsabili di reati fiscali e 8.315 evasori totali che hanno occultato al fisco redditi per 16,1 miliardi di euro. Si stima che i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili rilevati agli altri tipi di evasione siano pari a 20,7 miliardi di euro. L’Iva è stata evasa per 4,9 miliardi di euro. Almeno due sono riconducibili alle cosiddette «frodi carosello», cioè quelle operazioni illegali basate su fittizie transazioni commerciali con l’estero. L’importo dell’evasione fiscale internazionale ammonterebbe a 15,1 miliardi di euro.
Sugli oltre 12 mila denunciati per reati fiscali, 202 sono stati arrestati per falsa fatturazione fatture (pari a 5.776 violazioni); 534 sono i casi di chi non ha versato l’Iva (534 casi); 2903 le violazioni di chi ha omesso di presentare la dichiarazione dei redditi; 1.967 i casi di chi ha nascosto la contabilità. Sono state inoltre avviate procedure di sequestro pari a 4,6 miliardi di euro nei confronti di chi è stato riconosciuto responsabile di frodi fiscali, di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti pari per 4,6 miliardi. Nel corso del 2013 sono stati eseguiti provvedimenti che hanno permesso di riportare 1,4 miliardi, al patrimonio dello Stato. Magra consolazione, visto che complessivamente si tratta di 5,6 miliardi, un decimo dell’importo che si ritiene sia stato nascosto.
Quanto al controllo degli scontrini e ricevute fiscali negli esercizi commerciali, la Guardia di Finanza sostiene di avere effettuato 400 mila controlli. Nel 32% dei casi sono stati rilasciati in maniera irregolare, poco più di uno su tre. Sono stati intercettati oltre 298 milioni in contanti e titoli illecitamente trasportati attraverso i confini nazionali. Rispetto al 2012 queste operazioni sono quasi triplicate. Nel 2013 ne sono state individuate il 140% in più rispetto all’anno precedente, pari ad oltre 258 milioni. Le Fiamme Gialle sostengono che questo aumento sia stato dovuto alla severità della entrata in vigore nel 2012.
Un’altra parte dell’attività dei militari si è rivolta al contrasto del lavoro nell’economia sommersa. Sono stati scoperti 14.220 lavoratori totalmente in nero, 13.385 sono gli irregolari. I datori di lavoro che li hanno sfruttati sono 5.338. Anche il capitolo delle violazioni fiscali è quello rappresentato dal settore economico dei giochi e delle scommesse, in espansione e da tempo al centro delle attenzioni della finanza pubblica. Nel 2013 la Gdf ha effettuato oltre 9mila interventi e ha denunciato 3.500 casi di violazione a carico di 10 mila responsabili. Le scommesse «al nero», cioè non soggette alle imposte previste in questi casi, sono state pari a 123 milioni di euro.
Commentando i dati il segretario confederale della Cisl, Maurizio Petriccioli ha chiesto «un impegno suppletivo e straordinario da parte del Governo e del Parlamento». Il deputato Pd Michele Pelillo, segretario della commissione Finanze, ha suggerito usare la delega fiscale, approvata alla Camera e ora al vaglio del Senato, per il contrasto dell’evasione. «I numeri che ci dà oggi la GdF sull’evasione fiscale sono impressionanti. Dobbiamo dunque prendere atto che questi sforzi sono stati insufficienti e che dobbiamo fare di più».
In un documento approvato dalla commissione parlamentare di vigilanza sull’anagrafe tributaria nella XVI legislatura (2008–2012) aveva quantificato l’entità dell’economia sommersa tra i 230 e 250 miliardi di euro. In una audizione alla commissione Finanze del Senato nel 2012 il presidente della Corte dei Conti ha indicato una cifra più contenuta pari a 180 miliardi di euro annui, citando una stima basata sui dati Ocse. È stata anche realizzata una simulazione della distribuzione territoriale dell’evasione.
Nell’aprile 2012 all’Unità di informazione finanziaria (UiF), un ufficio della Banca d’Italia, risultava che la media dell’evasione è di 38,19 euro su 100 euro di imposte pagate. Questa media cresce in regioni come il Molise, la Basilicata e la Puglia (64 su 100), poi c’è la Campania con il 59 e la Sicilia con il 56, a seguire tutte le altre. Un’altra caratteristica determinante di questa massa monetaria è quella di stimolare o di favorire la crescita delle economie criminali e i sistemi di riciclaggio del denaro sporco. Due facce della stessa medaglia, sostiene l’Ocse dal 2012. Se a questa cifra aggiungiamo quella dell’elusione fiscale, pari a 150 miliardi di euro all’ano, si comprende facilmente le dimensioni finanziarie di un fenomeno che è anche alla base di un’economia parallela che finanzia attività criminali o quelle apparentemente legali. Secondo la Corte dei Conti l’Italia è primo in Europa per evasione fiscale. Nel mondo ci sono solo Turchia e Messico
È incredibile pensare che siamo da tempo schiavi di un paradosso. La colpa è di chi è tanto bue da scegliere "democraticamente" i padroni che da trent'anni ci comandano.
La Repubblica, 24 gennaio 2014
Un terremoto fa aumentare il Pil perché crea nuove attività e occupazione: questo paradosso sintetizza meglio di qualsiasi discorso l’assurdità dell’indicatore che condiziona tutte le decisioni di politica economica. Il Prodotto Interno Lordo rappresenta la misura delle transazioni monetarie e la sua variazione indica se un’economia si sta arricchendo oppure no. Ma se venisse lanciato un piano di trasporti volto ad incentivare l’uso della bicicletta e dei mezzi pubblici al posto dei veicoli privati, l’effetto contabile sarebbe quello di una drastica diminuzione dei consumi di energia e quindi del Pil e del gettito fiscale. Tutto ciò farebbe peggiorare i conti pubblici e il rapporto tra debito e reddito spingendo il governo a varare delle pesanti manovre per contenere la spesa ed innalzare le tasse. Il miglioramento della qualità della vita e la salvaguardia dell’ambiente che potrebbero derivare da una riduzione del trasporto privato avrebbero dunque effetti negativi sulla politica economica.
Se prendiamo il caso italiano, possiamo osservare che l’attenzione è concentrata sulla crescita del prodotto interno – automobili, case, beni di consumo – mentre la qualità delle infrastrutture e del capitale come il territorio, l’acqua, l’aria, il patrimonio artistico e l’istruzione, è completamente ignorata. Il settore privato non ha alcun incentivo ad investire per valorizzare lo stock di capitale, mentre lo Stato non ha i soldi per farlo. Se, invece, la qualità del capitale fosse calcolata nel Prodotto Interno Lordo, il risultato sarebbe ben diverso perché in tal modo ne risulterebbe accresciuta la ricchezza nazionale riducendo il peso del debito. Il nostro Paese diventerebbe migliore sia sotto il profilo della qualità della vita che per l’affidabilità di fronte ai famigerati mercati finanziari.
Le critiche al Pil sono ormai contenute in una letteratura sterminata eppure non si è ancora riusciti a fare il passo decisivo: abbandonare il Pil per utilizzare altri indicatori in grado di orientare in modo più intelligente le decisioni di politica economica. Siamo convinti che bisognerebbe seguire un criterio diverso: fissare gli obiettivi sucuimisurarel’efficaciadellepolitiche economiche. Ciò significa che un presunto criterio di misurazione oggettiva andrebbe sostituito con un approccio squisitamente normativo epolitico:lacontabilitàdovrebbeavere il compito di misurare gli impegni e gli obiettivi stabiliti in sede politica. Si tratta dunque di individuare una serie di indicatori che siano in grado di fornire informazioni sulla direzione in cui il sistema intende procedere e sul futuro che vogliamo costruire.
Siamo ben consapevoli che il principale ostacolo ad una tale impostazione è rappresentato dal problema dei confronti: come adottare degli standard omogenei e quindi delle politiche coordinate tra i vari Paesi? L’indicatore che in questa fase di crisi dovrebbe essere assunto come stella polare per misurare l’efficacia delle politiche economiche è il tasso di disoccupazione. L’obiettivofondamentale della politica economica dunque dovrebbe essere quello di creare occupazione equamente retribuita per tutta la forza lavoro attiva sul territorio europeo.Ilmodopercrearenuovaoccupazione dipende in primo luogo dall’espansione della domanda sia pubblica che privata. A sua volta, l’espansione della domanda ha bisogno di risorse finanziarie per aumentare la spesa e l’occupazione nel settore pubblico, per diminuire le tasse sul lavoro e sulle imprese e per garantire finanziamenti adeguati agli investimenti delle imprese.
Quando l’obiettivo della piena occupazione sarà raggiunto, allora la politica economica potrà individuare altri traguardi e altre sfide utilizzando nuovi indicatori.
Riferimenti
Ricordate la definizione che Robert Kennedy diede del mitico Prodotto Interno Lordo?
L'unica speranza du impedire che vinca questa proposta renzusconiana è che ciò che resta di sinistra nel PD lo faccia esplodere, anzichè limitarsi a tentar di depeggiorarne i prodotti.
il manifesto, 23 gennaio 2014
Due soli articoli, lunghissimi. Il relatore che è anche il presidente della prima commissione della camera, il berlusconiano Francesco Paolo Sisto, ha attratto a sé l’attenzione per tutta la giornata. Prima ha mostrato le occhiaie ai giornalisti, frutto ha detto di una notte di lavoro. Poi ha annunciato a più riprese che stava limando gli ultimi commi. Nel frattempo Verdini per Berlusconi e Bressa per Renzi facevano sul serio. Recapitando il testo definitivo con gran ritardo, e costringendo così Sisto a presentarsi in commissione solo alle otto di sera. Con quella che formalmente è la 23esima proposta di legge di riforma del sistema di voto, ma che con buona pace del regolamento è stata immediatamente proposta come testo base (si voterà oggi). Del resto, secondo il presidente Sisto, i tempi per la presentazione degli emendamenti sono cominciati a decorrere prima che fosse noto il testo da emendare. Dopo la pausa del fine settimana si vuole chiudere in due, tre giorni di discussione. Per licenziare la legge per l’aula entro fine gennaio.
Il ritardo di ieri è dovuto alla Lega. Verdini si è ricordato degli alleati troppo tardi. E ha provato a inserire nel testo una modifica per salvarli, visto che nei sondaggi viaggiano abbondantemente sotto il 5%. La soluzione sarebbe stata quella di introdurre una nuova soglia di sbarramento, magari lo stesso 8% già previsto per le forze non coalizzate, da raccogliere in almeno tre regioni (ipotesi che avrebbe tentato anche i centristi che mantengono un consenso concentrato al sud). Il Pd aveva anche detto di sì. È stato il Nuovo centrodestra di Alfano a fermare il «salva Lega» che nel frattempo Bossi aveva giudicato indispensabile. Più che altro per fare un dispetto al nuovo segretario leghista Salvini che, informato del fallimento della trattativa, stava già dichiarando che al Carroccio non servono aiutini.
Nel testo è confermato il conteggio dei seggi su base nazionale e sono confermate le tre soglie di sbarramento: 5% per i partiti coalizzati, 8% per i non coalizzati e 12% per le coalizioni. La soglia per aver diritto al premio di maggioranza del 18% resta fissata al 35%. Altrimenti ballottaggio, e chi vince (vietati apparentamenti) guadagna automaticamente 327 seggi, che è anche più del 51% annunciato (quasi il 52%). La novità è che all’interno della coalizione che supera lo sbarramento (12%), dev’esserci almeno un partito che supera il 5% per concorrere al premio di maggioranza. Secondo l’ultimo sondaggio dell’istituto di fiducia di Berlusconi (Euromedia, due giorni fa) né il centrodestra né il centrosinistra sono in questa condizione. Anche nel caso in cui uno dei due contendenti dovesse afferrare il 35% (Berlusconi sarebbe adesso al 34%) si dovrebbe andare al ballottaggio. Al termine del quale, quindi, anche un partito votato al primo turno solo dal 22% degli elettori (come Forza Italia, sempre secondo il sondaggio Datamedia), esclusi tutti i suoi alleati rimasti sotto la soglia, conquisterebbe tutti per sé il 52% dei seggi. Premio di maggioranza «reale»: 52–32=30%.
Resta ancora da fare il lavoro sulle circoscrizioni, tutte da ridefinire attorno alle 110 provincie e alle dieci città metropolitane. Avranno da tre a sei candidati e almeno la legge esclude le candidature in più circoscrizioni. Ma resta il fatto che con il riparto nazionale il voto di un elettore palermitano alla sua lista, corta quanto si vuole, può far eleggere un candidato veneto della stessa lista, ma a lui sconosciuto. Con il primo voto di stasera, quando sarà adottato come testo base, l’Italicum di Renzi comincia la sua corsa. Lo attende al varco quella decina di deputati del Pd non renziani che in commissione affari costituzionali sono la maggioranza, o quasi, della delegazione del partito. Presenteranno emendamenti per introdurre le preferenze e alzare la quota sopra la quale si ha diritto al premio di maggioranza. Sul primo punto troveranno gli alfaniani, sul secondo i montiani. La corsa è a ostacoli
L’interrogativo seguente è d’obbligo: quindi c’è il rischio che la futura legge elettorale,quell’Italicum frutto dell’incontro Renzi-Berlusconi, possa finire di nuovo davanti alla Consulta per un vizio di costituzionalità almeno sulla questione delle preferenze? Qui si raccolgono affermazioni convinte. E preoccupanti. Sulle quali riflettere. Del tipo: «La Corte ha aperto una porta importante per porre subito la questione di costituzionalità. Se il ricorrente Bozzi è dovuto arrivare in Cassazione per veder recepita la sua istanza, adesso la faccenda è cambiata. Un nuovo ricorso potrebbe arrivare sui nostri tavoli anche subito». Come andrebbe a finire? Anche in questo caso la risposta è assai pregnante: «La Corte, sta scritto nelle carte, non ha sdoganato un sistema senza preferenza».È settimana “bianca” alla Consulta. Ma i giudici lavorano ugualmente. È troppo fresca la bocciatura del Porcellum per non interrogarsi su che sta succedendo adesso. Anche se la premessa è necessaria: «La Corte non dà patenti di costituzionalità sulle leggi in itinere o approvate nella loro interezza. I giudici valutano il singolo punto. Su quello si pronunciano. Proprio com’è avvenuto per il Porcellum». Già, sul premio di maggioranza e sulle preferenze, giusto i due fantasmi di potenziale incostituzionalità che cominciano ad agitarsi in queste ore. La preferenza che non c’è. La soglia minima per il premio di maggioranza, quel 35%, valutato come «ancora troppo basso».
Ma è la preferenza il vero scoglio. Perché, come dicono alla Corte, il passaggio che riguarda la necessità che ce ne sia almeno una viene considerato del tutto inequivoco. Anzi, chiarissimo. Ovviamente i giudici sono stati attenti, nelle motivazioni, a non “sposare” un sistema elettorale, né avrebbero potuto farlo. Ma hanno valutato il diritto costituzionale di un cittadino ad esprimere un suo pieno voto e quindi una sua scelta. Per questo, alla Corte, ci si meraviglia sulla convinzione del palazzo della Politica che, sin dal primo momento, ha ritenuto che i giudici avessero sponsorizzato il sistema spagnolo e dato il via libera a quelle liste corte, da 3 a 6 candidati, che adesso fanno bella mostra di sé nel nuovo testo della legge elettorale. Ma questo via libera invece non c’è. «Quello era solo un esempio di un sistema diverso da quello previsto dal Porcellum». Tutto qui. «Ma non significava affatto che un sistema senza le preferenze sia costituzionale».
«La battaglia contro il nuovismo non si combatte con la vecchia logica correntizia o con le trappole parlamentari, la competizione con una leadership plebiscitaria non si sviluppa in appartate riunioni di gruppi dirigenti».
Il manifesto, 22 gennaio 2014
Irrefrenabile è scattato l’applausometro per la nuova legge elettorale, infelice fin dal nome (l’hanno battezzata Italicum), un concentrato che, tra premio di maggioranza e soglie di sbarramento, tiene stretta la camicia di forza alla nostra asfittica democrazia (in quale paese se prendi il 35% dei voti hai il 60% dei seggi?). Tutto in nome di un bipolarismo coatto, già sperimentato nel 2008 da Veltroni, che recuperò un po’ di voti al Pd, fece tabula rasa alla sua sinistra e perse, con un distacco, quello sì storico, con Berlusconi.
Al pregiudicato miracolato dal rottamatore non sembra vero di essere tornato al centro della scena. Ne dà testimonianza inviando attestati di stima al leader della parte avversa mentre intanto si prepara a replicare il sorpasso, puntando a vincere le elezioni al primo turno grazie alla lunga filiera delle formazioni di destra.
Del resto una legge elettorale di questa natura è lo specchio fedele del renzismo, di una politica che va per le spicce, che mal sopporta quel che resta del partito e dei partiti, che vorrebbe fare piazza pulita delle residue resistenze e vedersela nella sfida con il vecchio leone. Nella riunione della direzione del Pd, Renzi ha difeso la profonda sintonia col Cavaliere, e rafforzato il concetto: «Esprimo la mia gratitudine a Berlusconi per aver accettato di discutere». Ma se a discutere è il presidente del Pd, se Gianni Cuperlo non si inchina alla grande svolta e polemizza, allora il segretario lo zittisce in malo modo, e l’altro anziché tenere il campo e replicare, stizzito getta la spugna e dà le dimissioni.
Che lo stile del sindaco di Firenze sia un po’ bullesco, che usi, verso chi lo critica, argomenti tipicamente berlusconiani (io rispondo solo ai milioni che mi votano) non c’è chi non lo veda. Ma che l’opposizione interna sia messa male è altrettanto evidente. Invece di dare battaglia sui contenuti, Fassina prima e Cuperlo a ruota, con le dimissioni a catena sono evidentemente lontanissimi dall’intercettare la sfida all’altezza in cui Renzi gliela lancia.
La battaglia contro il nuovismo non si combatte con la vecchia logica correntizia o con le trappole parlamentari, la competizione con una leadership plebiscitaria non si sviluppa in appartate riunioni di gruppi dirigenti. Qui l’asticella è molto più alta, è tra chi sa parlare alla gente attraverso la televisione e i cinguettii e chi si attarda nelle liturgie dell’organizzazione. Tra il berlusconiano e il dalemiano, tra l’uomo nuovo e il chierico, non è difficile prevedere chi è che si condanna alla definitiva irrilevanza
... e la Costituzione violata una volta ancora. Sarà l'ultima, perchè il Porcellum n.2 è costruito per cancellarla del tutto.
Il manifesto, 21 gennaio 2014
Fu vera e profonda sintonia tra Renzi e Berlusconi? Vorremmo dubitarne, anche se la proposta approvata dalla direzione del Pd ha subito avuto il «sincero e pieno apprezzamento» di Berlusconi. Ma poco importa. Conta invece capire se la proposta è compatibile con la Costituzione.
Dobbiamo anzitutto considerare che con la sentenza 1/2014 la Corte costituzionale ha trasformato il tema elettorale da questione sostanzialmente rimessa alla decisione legislativa e delle forze politiche in una questione di diritti fondamentali giustiziabili davanti alla stessa Corte.
Quei diritti — in specie gli artt. 48, 49, 51 — qualificano la Repubblica come democratica, e assicurano la rappresentatività delle sue istituzioni. Dopo la sentenza, l’intervento del legislatore deve trovare giustificazione in un obiettivo costituzionalmente accettabile (principio di necessità) e raggiungere l’obiettivo con il minimo di non arbitrario sacrificio (principio di ragionevolezza e proporzionalità). In ogni caso, senza ledere il nucleo prescrittivo incomprimibile del diritto stesso. Non bastano più a sostenere una proposta i mantra del bipolarismo e della governabilità.
Veniamo alla proposta: tre soglie di accesso al 5, 8 e 12%; premio di maggioranza del 18% con soglia del 35%, e fino a concorrenza del 55% dei seggi; doppio turno per il premio se nessuno raggiunge il 35% dei voti; minicollegi e liste bloccate brevi, con primarie per la scelta dei candidati. Si direbbe un sistema a metà strada tra il Porcellum e il sindaco d’Italia, con soglie per l’accesso e per il premio accortamente costruite sui sondaggi secondo le convenienze dei due partiti maggiori.
Due le domande: se la proposta è costituzionalmente compatibile, e se funziona. Sul primo punto il dubbio di incostituzionalità è forte. Il mix tra alti sbarramenti, forte premio di maggioranza e doppio turno rende l’accesso alle istituzioni rappresentative un percorso minato per tutti, salvo i due maggiori partiti destinati a confrontarsi nell’eventuale ballottaggio. E non sembra un obiettivo costituzionalmente accettabile che una legge elettorale sia volta a favorire decisivamente questo o quel partito, conducendo alla sterilizzazione di consensi ricevuti da altri partiti. Né sembra necessaria, ragionevole e proporzionata la compressione dei diritti — pur sempre diritti fondamentali della persona — in funzione dell’interesse dei partiti maggiori.
Anche sulle liste bloccate brevi pesa l’ombra della incostituzionalità. Comunque sottraggono — sommandosi — l’intera rappresentanza politica alla scelta dell’elettore. Che inoltre, non volendo sostenere una presenza sgradita tra i componenti di una lista, deve cambiare il voto, o non votare affatto. Effetti negativi per niente corretti dalla previsione di primarie. Non essendoci identità di platea tra votanti nelle primarie ed elettori, il problema della preclusione di ogni scelta per l’elettore rimane tal quale.
Ma, almeno, funziona? Probabilmente no. L’esperienza del doppio turno per i sindaci ha evidenziato come il premio di maggioranza esalti la frammentazione e spinga ad anticipare già al primo turno la formazione di coalizioni. Le schede elettorali sembrano lenzuoli. Gli effetti negativi rimangono, incluso in specie il ricatto dei partitini. Mentre la distorsione sulla rappresentatività dei consigli comunali può essere fortissima.
Sono da tempo convinto che la vera risposta è abbandonare l’opzione di un sistema elettorale che conceda decisivi e artificiosi vantaggi a questo o quel partito. Ripristinare una rappresentanza che in principio riconosca a ciascun soggetto politico una presenza nelle istituzioni commisurata al consenso. E dare voce, non negare la parola, soprattutto quando la politica è chiamata a scelte difficili e dolorose, come oggi accade in tempi di grave crisi. La governabilità è un bene importante, che va però riferito non solo alle istituzioni, quanto al paese.
Renzi ha anche offerto un contentino a Letta, con una riforma del senato che può dare al governo l’agognato anno di vita. Peccato che sia una proposta pessima. Un senato non elettivo: che differenza c’è con una camera di nominati? Meglio chiuderlo. O, forse, meglio aprire le teste a qualche pensiero veramente innovativo. Questa sì che sarebbe una riforma.
l nuovo leader del PD non è confrontabile con Massimo D'Alema: l'inciucio avvenne quando Berlusconi era in maggioranza, Renzi lo ha resuscitato quando era ormai fuori dal gioco perché condannato per frode fiscale. Dal blog
idomini, 19 gennaio 2014
Basta leggere i giornali di centrodestra di oggi, e meglio ancora il ‘mattinale’ di Forza Italia, per fare al volo il conto dei vantaggi e degli svantaggi innescati dall’incontro di ieri fra Renzi e Berlusconi. Fanno sorridere in verità le accorte profezie sulla durata del governo Letta, da ieri ”ancorato” a un programma di riforme istituzionali che dovrebbe tenerlo in vita per almeno un anno. La verità è che d’un balzo i pesi dei giocatori in campo sono stati completamente redistribuiti. Letta (nipote) avrà pure più tempo davanti (e poi chissà, vatti a fidare), ma dipende in tutto e per tutto da Renzi e dal patto di Renzi con Berlusconi (e con Letta zio), non più da Giorgio Napolitano il quale esce a sua volta a dir poco ridimensionato, se non strategicamente sconfitto, dallo storico incontro. Angelino Alfano ha praticamente un cappio alla gola, e se aveva fatto conto, per sopravvivere, su una svolta proporzionalista adesso deve cominciare a meditare i termini di un rientro nella casa bipolare del Capo. Silvio Berlusconi è di nuovo al centro della scena (qualcuno aveva davvero creduto che ne restasse fuori solo perché giuridicamente decaduto?). Il Pd, che solo domani discuterà la proposta di legge elettorale messa a punto dal suo segretario col Cavaliere, è ridotto a quello cui ha voluto ridursi, un’appendice del leader (ricorda qualcosa?). La legge elettorale infine, posta in gioco solo apparente dello storico incontro, è più che mai in alto mare, perché è tutta da verificare la congruenza fra il disegno di R-B e le indicazioni della Corte costituzionale: e dunque, alla fine, anche il come e il quando delle prossime elezioni è tutto da vedere.
Fine del conto al volo. Il quale spazza via in un batter d’occhio l’isterica caciara formalistica fra antirenziani e antiberlusconiani da un lato e filorenziani e filoberlusconiani dall’altro sull’opportunità o meno dell’incontro che ha tenuto banco nelle quarantotto ore precedenti. Dimostrando l’ovvio, e cioè che se è lecito, e perfino dovuto, consultare sulla legge elettorale il leader (decaduto per frode fiscale) del secondo partito, che quest’ultimo ne esca più o meno rilegittimato dipende dal ”come” della consultazione stessa. E il ”come” non si riduce affatto al luogo dell’incontro, alla soglia simbolica del Nazareno o alle (poche) uova marce lanciate contro il Cavaliere. Il come è sostanza, e sta nelle due paroline magiche che Renzi ha scelto per siglare la serata: ”profonda sintonia”. Una sintonia che non va riferita purtroppo solo al risultato dell’incontro, ma alle sue premesse.
Giova fare in proposito un esercizio – impopolare – di confronto col passato. Non sono pochi coloro, a partire da Marco Travaglio, che oggi derubricano le responsabilità di Renzi riconducendole alle ventennali responsabilità dei leader del Pds-Ds-Pd, in primis Massimo D’Alema, nel ”legittimare” Berlusconi. Il rottamatore non avrebbe fatto altro, in sostanza, che allinearsi con i rottamati. Peccato che il paragone fra Renzi e D’Alema non stia in piedi. Nel ’96, quando prese inizio l’avventura spericolata della Bicamerale che avrebbe dovuto riscrivere con Berlusconi mezza Costituzione, Berlusconi aveva la maggioranza assoluta dei voti: aveva stravinto le elezioni nel ’94, le aveva perse nel 96 ma d’un soffio, e non per un calo di voti. L’impatto revisionista della sua ”nuova destra” – che agitava, va ricordato e non lo si ricorda mai, la minaccia di un’assemblea costituente in cui sarebbe stata maggioranza – era enorme, e il tentativo di ”imbrigliarlo” nella riscrittura delle regole era volto non a legittimarlo, ma a contenerlo. Fu un tentativo perdente, perché il progetto di Berlusconi era un progetto eversivo, irriducibile alla legalità e al galateo costituzionale: e questa è storia del ventennio passato. Ma oggi, Berlusconi non ha la stessa forza elettorale di allora, e il suo progetto eversivo nemmeno: la sua irriducibilità alla legalità, com’è noto, gli si è rivoltata contro, il suo declino è stato sancito giuridicamente, le sue ricette neoliberiste non hanno retto alla prova tragica della crisi degli ultimi anni, la sua riforma della Costituzione, approvata senza l’apporto del centrosinistra, è stata sconfitta dal referendum del 2006. Oggi sì, dunque, richiamarlo in campo significa ri-legittimarlo ben al di là della sua legittimazione effettiva. E significa soprattutto un’altra cosa: che questa rilegittimazione è possibile perché implica una completa interiorizzazione della sua agenda. ”Profonda sintonia”, appunto: non solo – si badi – sulla legge elettorale, ma sulla revisione della Costituzione, della forma di Stato (la riforma del federalismo) e di governo (il combinato disposto far legge elettorale e riforma del bicameralismo).
Il tema dunque va spostato: dalla ”resurrezione” di Berlusconi – che per quanto sia stupefacente non è una novità, data la pervicacia del centrosinistra nell’ucciderlo giudiziariamente senza seppellirlo politicamente – all’intronamento a furor di media e di primarie di Matteo Renzi. Spiace per quanti, a partire da Repubblica, avevano salutato nel giovane segretario del Pd l’avvento del tempo nuovo e oggi si ritrovano risospinti improvvisamente nel vecchio: ma per chi avesse occhi per vedere, la ”profonda sintonia” fra l’agenda di Renzi e quella di Berlusconi era chiara, chiarissima, ben prima dello storico incontro. Paradossalmente non ha tutti i torti il cinismo dei giovani dirigenti più vicini al segretario, quando dicono che Renzi può ricevere il Cavaliere senza temerne l’impatto personale. In gioco infatti non c’è solo né tanto la rilegittimazione della persona Berlusconi, quanto la legittimazione da sinistra della sua eredità. Ovvero l’ammissione, da sinistra, che tutto sommato aveva ragione lui su tutto, e che basta fare meglio di lui le cose che voleva fare lui per ”cambiare verso” al paese. Questo e non altro è il senso della ”profonda sintonia”.
L’Unità, 19 gennaio 2014
Una lista con Tsipras alla Commissione Europea, l’appello degli intellettuali. La promuovono Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale. L'appello (i
l fatto quotidiano) e lr prime adesioni (il manifesto), 18 e 19 gennaio 2014
Il Fatto quotidiano, 18 gennaio 2014
La lista per le elezioni europee a cui proponiamo di dar vita con questo documento sarà una lista di cittadinanza assolutamente autonoma, promossa da personalità della cultura, dell’arte e della scienza e da esponenti di comitati, associazioni, movimenti e organismi della società civile che ne condividono gli obiettivi e i contenuti, e che non verrà “negoziata” con alcun partito. Questo sia per segnare una netta discontinuità con il passato, sia per sottolineare la novità di questa proposta: l’adesione a questa lista elettorale non deve essere confusa con l’affiliazione ad alcuno dei partiti esistenti o in fieri e non ha alcuna pretesa identitaria.
Questa lista avrà un comitato di garanti formato tra i firmatari dell’appello, che non si candideranno. Avrà un comitato promotore, con compiti operativi.
Su questa base le realtà organizzate come i partiti, o loro strutture, le associazioni politiche o culturali, i centri sociali – che vorranno sostenere questo progetto sono le benvenute e possono contribuire al suo successo anche presentando proposte di candidatura di propri iscritti, purché rispondenti alle caratteristiche indicate nell’appello. E potranno sostenere la lista, la raccolta delle firme e le attività connesse alla campagna elettorale, costituendosi in uno o più comitati di sostegno dotati della più ampia autonomia, seguendo il modello già adottato nella campagna per i referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei sevizi pubblici locali, modalità che ha garantito il successo in quella iniziativa referendaria.
L'APPELLO
Per questo facciamo nostre le proposte di Alexis Tsipras, leader del partito unitario greco Syriza, e nelle elezioni europee del 25 maggio lo indichiamo come nostro candidato alla presidenza della Commissione Europea. Il suo paese, la Grecia, è stato utilizzato come cavia durante la crisi ed è stato messo a terra: in quanto tale è nostro portabandiera. Tsipras ha detto che l’Europa, se vuol sopravvivere, deve cambiare fondamentalmente. Deve darsi i mezzi finanziari per un piano Marshall dell’Unione, che crei posti di lavoro con comuni piani di investimento e colmi il divario tra l’Europa che ce la fa e l’Europa che non ce la fa, offrendo sostegno a quest’ultima. Deve divenire unione politica, dunque darsi una nuova Costituzione: scritta non più dai governi ma dal suo Parlamento, dopo un’ampia consultazione di tutte le organizzazioni associative e di base presenti nei paesi europei.
Deve respingere il fiscal compact che oggi punisce il Sud Europa considerandolo peccatore e addestrandolo alla sudditanza, e che domani punirà, probabilmente, anche i paesi che si sentono più forti. Al centro di tutto, deve mettere il superamento della disuguaglianza, lo stato di diritto, la comune difesa di un patrimonio culturale e artistico che l’Italia ha malridotto e maltrattato per troppo tempo. La Banca centrale europea dovrà avere poteri simili a quelli esercitati dalla Banca d’Inghilterra o dalla FED, garantendo non solo prezzi stabili ma lo sviluppo del reddito e dell’occupazione, la salvaguardia dell’ambiente, della cultura, delle autonomie locali e dei servizi sociali, e divenendo prestatrice di ultima istanza in tempi di recessione. Non dimentichiamo che la Comunità nacque per debellare le dittature e la povertà. Le due cose andavano insieme allora, e di nuovo oggi.
Oggi abbiamo di fronte una grande questione ambientale di dimensioni planetarie, che può travolgere tutti i popoli, e un insieme di politiche tese a svalutare il lavoro, mentre una corretta politica ambientale può essere fonte di nuova occupazione, di redditi adeguati, di maggiore benessere e di riappropriazione dei beni comuni. È il motivo per cui contesteremo duramente il mito della crescita economica così come l’abbiamo fin qui conosciuta. Esigeremo investimenti su ricerca, energie rinnovabili, formazione, trasporti comuni, difesa del patrimonio culturale. Sappiamo che per una riconversione così vasta avremo bisogno di più, non di meno Europa.
Proprio come Tsipras dice riferendosi alla Grecia, in Italia tutto questo significa rimettere in questione due patti-capestro. Primo, il fiscal compact: il pareggio di bilancio che esso prescrive è entrato proditoriamente nella nostra costituzione, l’Europa non ce lo chiedeva, limitandosi a indicare sue «preferenze». Secondo, il patto di complicità che lega il nostro sistema politico cleptocratico alle domande dei mercati: chiediamo una politica di contrasto contro le mafie, il riciclaggio, l’evasione fiscale, la protezione e l’anonimato di capitali grigi, la corruzione, in un’Europa dove non sia più consentito opporre il segreto bancario alle indagini della magistratura. Significa infine difendere la Costituzione nata dalla Resistenza, e non violarne i principi base come suggerito dalla JP Morgan in un rapporto del 28 maggio 2013, cui i governanti italiani hanno assentito col loro silenzio. Significa metter fine ai morti nel Mediterraneo: i migranti non sono un peso ma il sale della crescita diversa che vogliamo. Significa darsi una politica estera, non più al rimorchio di un paese– gli Stati Uniti– che perde potenza ma non prepotenza. La pax americana produce guerre, caos, stati di sorveglianza. È ora di fondare una pax europea.
Le larghe intese, le rifiutiamo in Italia e in Europa: sono fatte per conservare l’esistente. Per questo diciamo no alla grande coalizione parlamentare che si prepara fra socialisti e democristiani europei, presentandoci alle elezioni di maggio con una piattaforma di sinistra alternativa e di rottura. Nostro scopo: un Parlamento costituente, che si divida fra immobilisti e innovatori. Siamo sicuri fin d’ora che gran parte dei cittadini voglia proprio questo: non l’Unione mal ricucita, non la fuga dall’Euro, ma un’altra Europa, rifatta alle radici. La chiediamo subito: il tempo è scaduto e la casa di tutti noi è in fiamme, anche se ognuno cercasse rifugio nella sua tana minuscola e illusoria.
L’Italia al bivio
Questo è l’orizzonte. A partire da qui avanziamo la proposta di dare vita in Italia a una lista che alle prossime elezioni europee faccia valere i principi e i programmi delineati.
Una lista promossa da movimenti e personalità della società civile, autonoma dagli apparati partitici, che sia una risposta radicale alla debolezza italiana. Una lista composta in coerenza con il programma, che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio.
Una lista che sostiene Tsipras ma non fa parte del Partito della Sinistra Europea che lo ha espresso come candidato. I nostri eletti siederanno nell’europarlamento nel gruppo con Tsipras (GUE-Sinistra Unitaria europea). Una lista che potrà essere sostenuta, come nel referendum acqua, dal più grande insieme di realtà organizzate e che non si manterrà con i rimborsi elettorali.
Una lista che con Tsipras candidato mobiliti cittadine e cittadini verso un’Altra Europa.
Sono numerose le adesioni all’appello «A sinistra, una lista per Tsipras» lanciato ieri da Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli e Guido Viale. In questa pagina rendiamo note le prime, ma la pubblicazione continuerà nei prossimi giorni.
Questa lista avrà un comitato di garanti formato tra i firmatari dell’appello, che non si candideranno.
Avrà un comitato promotore, con compiti operativi. Su questa base le realtà organizzate — e i partiti, o loro strutture, le associazioni politiche o culturali, i centri sociali — che vorranno sostenere questo progetto sono le benvenute e possono contribuire al suo successo anche presentando proposte di candidatura di propri iscritti, purché rispondenti alle caratteristiche indicate nell’appello. E potranno sostenere la lista, la raccolta delle firme e le attività connesse alla campagna elettorale, costituendosi in uno o più comitati di sostegno dotati della più ampia autonomia, seguendo il modello già adottato nella campagna per i referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei sevizi pubblici locali, modalità che ha garantito il successo in quella iniziativa referendaria.
Di seguito il primo nucleo di adesioni:
Mario Agostinelli, Andreina Albano, Gaetano Azzariti, Giuliana Beltrame, Alberto Burgio, Loris Campetti, Luca Casarini, Franco Chiarello,Giovanni Carrosio, Furio Colombo, Gildo Claps, Emmanuele Curti, Giorgio Dal Fiume, Marco D’Eramo, Tommaso Di Francesco, Monica Di Sisto, Andrea Di Stefano, Gianni Ferrara, Carlo Freccero, Francesco Garibaldo, Domenico Gattuso, Alfonso Gianni, Alessandro Gilioli, Paul Ginsborg, Fabio Grossi, Leo Gullotta, Monica Lanfranco, Teresa Masciopinto, Katia Mastantuono, Valerio Mastrandrea, Antonio Mazzeo, Sandro Medici, Tomaso Montanari, Roberto Musacchio, Maso Notarianni, Giovanni Orlandini, Moni Ovadia, Giovanni Palombarini, Giorgio Parisi, Angela Pascucci, Antonello Patti, Fulvio Perini, Tonino Perna, Paolo Pietrangeli, Nicoletta Pirotta, Felice Roberto Pizzuti, Gabriele Polo, Gianni Rinaldini, Tiziano Rinaldini, Umberto Romagnoli, Riccardo Rossi, Edoardo Salzano, Antonia Sani, Andrea Segre, Patrizia Sentinelli, Stefano Sylos Labini, Anna Simone, Massimo Torelli, Giolì Vidigni.
Secondo il fondatore di Repubblica Matteo Renzi ha riportato Berlusconi al centro della politica italiana, gli concedendo al colpevole di furto allo Stato l'atto di clemenza che Giorgio Napolitano gli ha negato, e tuttavia va bene così. Viviamo in un mondo di poeti, se è vero che “è del poeta il fin la meraviglia”. La Repubblica, 19 gennaio 2014
La vera — e formidabile — bravura di Silvio è sempre stata quella d’incantare la gente, ma è la stessa bravura di Matteo che sa incantare la gente come Silvio e anche di più ora che Silvio è vecchio e fisicamente un po’ provato. Matteo è un Silvio giovane dal punto di vista dell’incantamento e quindi più efficace.
Adesso il suo problema sarà quello di convincere Alfano a contentarsi. Gli ha offerto uno stock di seggi basati sul proporzionale ma corretti da un maggioritario assicurato dal premio di maggioranza che le liste dei partiti maggiori otterranno. Alfano avrà meno di quanto sperasse col doppio turno continuando tuttavia ad esistere, ma con Silvio l’Ispanico restituito al suo ruolo di salvatore della Patria. È terribilmente scomoda per Alfano una convivenza di questo genere. O si oppone al compromesso che gli viene proposto o il suo movimento finirà di nuovo nelle braccia di Berlusconi. Questo è il dilemma che dovrà sciogliere nelle prossime quarantott’ore.
C’è tuttavia un aspetto di questa situazione politica: è interesse della democrazia italiana l’esistenza d’una destra moderata, repubblicana ed europeista, che restauri l’alternanza tra le due ali dello schieramento nell’ambito di quei principi sui quali è nata la democrazia europea simboleggiata dalla bandiera tricolore: libertà, giustizia, fraternità. In Italia ci fu la destra storica dopo la quale cominciò il gioco malandrino del trasformismo con interruzioni di governi autoritari comunque mascherati. Alfano può non piacere, non è certo un personaggio attraente, carisma zero, intelligenza politica dubitabile, ma non c’è solo lui in questa prima esperienza di destra moderata, ci sono Lupi, Cicchitto, Quagliariello. Siamo comunque ad un primo esperimento, ma merita di non essere schiacciato e ributtato indietro. È una mossa intelligente quella di Renzi di avergli offerto una ciambella di salvataggio, ma la ciambella funziona se il mare è calmo e la costa è vicina. Con Berlusconi risuscitato la costa è assai lontana e il mare in tempesta. Questo è il punto che Alfano e i suoi dovranno valutare con la massima attenzione.
Nel frattempo la recessione economica sembra aver toccato il fondo cominciando a risalire. I dati per la prima volta registrano un aumento dei fatturati; la speranza è che i consumi riprendano e il «credit crunch» delle banche abbia finalmente una fine. La Commissione della Ue, si spera ed è probabile, darà un giudizio favorevole sulla politica economica italiana, specialmente per quanto riguarda le privatizzazioni e la revisione delle spese superflue. Le privatizzazioni consentiranno una diminuzione consistente del debito pubblico, la riduzione della spesa e l’appoggio dell’Europa potrebbero liberare risorse per incentivare la domanda interna ed anche quella estera. Il trattato con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche di quel Paese è vicino alla sua conclusione e ci darà una congrua disponibilità di nuove risorse.
Insomma tra un anno il rilancio dello sviluppo potrebbe essere consolidato e i riflessi su investimenti e occupazione potrebbero essere consistenti. Non siamo certo in grado di giudicare se Renzi sarà lieto di questo risultato, ma tutti gli italiani ne saranno confortati e la rabbia sociale sarà confinata in piccole minoranze. Il Silvio Ispanico si attribuirà tutti i meriti. È sempre avvenuto e sarà ancora una volta così. Speriamo soltanto che gli italiani che credono nelle favole siano meno numerosi di oggi e i partiti più idonei a capire le differenze tra cultura politica e improvvisazione. Ci vogliono tutte e due queste capacità, una sola è una sciagura.
Che altro dire! Se non che ha ragione chi dice che il fomdo dell'abisso è sempre più in basso di quanto si potesse pensare.
Il manifesto, 18 gennaio 2014
E' sbocciato un amore, una «profonda sintonia» fra il Pd e Forza italia. O meglio, fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Forse non è ancora un accordo, i dettagli sono tutti da definire, e potrebbero essere la buccia di banana su cui far scivolare il governo verso le elezioni. Ma quando una sintonia è «profonda» risulta molto difficile per chiunque — soprattutto nella maggioranza di governo — disturbarla facendo «la voce grossa». Specialmente quando si hanno percentuali elettorali a una cifra («non permetteremo il ricatto dei piccoli partiti», è l’avvertimento di Renzi).
Dopo più di due ore di faccia a faccia e una breve dichiarazione ai giornalisti, il segretario del Pd ha dato appuntamento a lunedì quando nella direzione del partito arriverà la proposta di legge elettorale e di riforma costituzionale. Dunque manca qualche ora per cercare un «patto» nella maggioranza. Tuttavia dentro la partita politica ieri se ne è giocata un’altra, fortemente simbolica.
Nessuna telecamera ha mostrato immagini dell’incontro (per pudore residuo, per vergogna, per paura dell’impopolarità?), che nessuno poteva immaginare qualche settimana fa, soprattutto dopo la cacciata di un pregiudicato dal Parlamento: la scelta di Renzi ha di fatto riabilitato un leader dimezzato dai guai giudiziari.
Forse il segretario del Pd voleva cancellare la sua profonda incoerenza, facendo dimenticare certe frasi roboanti che appena qualche mese fa era diventate titoli di prima pagina. Dopo la sentenza della Cassazione «per Berlusconi la partita è finita, game over», disse compiaciuto per aver azzeccato la battuta giusta. Ma per i politici la coerenza non è una virtù e il giovane Renzi contraddice clamorosamente la sua liquidatoria battuta ricevendo il leader di Forza Italia addirittura nella sede del Partito democratico. Un atto di arroganza dunque verso il suo stesso partito, anche se non verso la storia, basti ricordare i rapporti con D’Alema e con Veltroni.
Ma ora la situazione è diversa: in nessun paese normale può accadere che a decidere le riforme (elettorali e costituzionali) venga chiamato un personaggio che i magistrati stanno per assegnare ai servizi sociali o agli arresti domiciliari. E siccome la forma è sostanza questa sfida simbolica dice molto dell’invulnerabilità da cui Renzi si sente protetto. Un uomo solo al comando dopo il plebiscito delle primarie. Che umilia almeno una parte dell’elettorato del Pd.
Il braccio di ferro tra il segretario, il presidente del consiglio e la maggioranza di governo è arrivato al punto di massima tensione, moltiplicatore di un conflitto nel Partito democratico ancora frastornato dal cambio dei vertici e dalla geografia mobile delle correnti. Per certi versi sembra di assistere ai vecchi riti democristiani quando il segretario Dc attaccava il governo Dc le cui sorti erano alla fine decise dal gioco delle correnti di piazza del Gesù.
Perché somiglia molto ad un gioco democristiano questa triangolazione tra Letta, Renzi e Alfano che cercano di farsi lo sgambetto per poi meglio accordarsi e chiudere la partita della legge elettorale in modo che soddisfi le esigenze di tutti. Però quando al tavolo è seduto anche Berlusconi c’è sempre il rischio che decida di ribaltarlo. E a pensarci bene, che a decidere sul futuro del nostro Paese sia un pregiudicato non è umiliante solo per un partito, ma per tutti.
Dopo la sentenza della Corte costituzionale la legge elettorale c'é e non produce "frantumazione parlamentare". In realtà vogliono che la maggioranza relativa diventi maggioranza assoluta e domini indisturbata: come fece Mussolini nel 1924 e tentò Scelba nel 1953 con la "legge truffa". L'Unità, 17 gennaio 2014
Caro Direttore, ora che la Consulta ha depositato le motivazioni della sentenza ed il «premio di maggioranza» è stato archiviato come «incostituzionale», le conseguenze di questo passaggio d’epoca che chiude il ventennio «maggioritario» meritano di essere messe in chiaro.
1) Ormai la legge elettorale c’è; è falso che sia urgente inventarne una, quasi a colmare un vuoto. Non c’è un vuoto legislativo. In forza della sentenza, perfezionata a tutti gli effetti con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, è attualmente in vigore un sistema proporzionale con sbarramento al 4%. Infatti lo sbarramento attualmente vigente non era compreso nella materia sottoposta al vaglio della Corte: e dunque resta in piedi.
2) È deplorevole che questo specifico dato venga nascosto ai cittadini dai mezzi di comunicazione. Se lo si scrivesse a chiare lettere, i cittadini si chiederebbero che senso abbia l’attuale frenesia alla ricerca di una legge elettorale visto che non solo ce n’è già una, ma c’è anche l’agognato «sbarramento» atto a tranquillizzare chi finge di preoccuparsi della «frantumazione» partitica additata di norma (in discreta malafede) come patologia tipica proporzionale. Frantumazione non ci può dunque essere perché comunque è in vigore lo «sbarramento» al 4%.
Dunque cosa vogliono? Vogliono una legge che consenta ad una maggioranza relativa di diventare, in sede parlamentare, maggioranza assoluta: nel che risiedeva il nucleo fondamentale della legge Acerbo voluta da Mussolini nel 1923 e messa in atto alle elezioni mortifere del 1924. Veicolo di tale miracolo (una minoranza di elettori che produce una maggioranza di eletti) è il famigerato «premio di maggioranza». Per lo meno, la improvvida «legge truffa», bocciata dagli elettori il 7 giugno del 1953, dava il «premio» alla lista (o coalizione) che avesse superato, sia pure di un solo voto, il 50% dei suffragi!
Fingere che si debba escogitare una nuova legge elettorale perché in questo momento ne siamo privi è anche un sopruso: è quasi circonvenzione, come di incapaci, della gran parte dei cittadini-elettori. Il ruolo di stampa, radio, tv può risultare di vera e consapevole complicità.
L’argomento che si ode più spesso ripetere al fine di esorcizzare la legge elettorale proporzionale (con sbarramento) attualmente vigente è che si avrebbe daccapo un Parlamento ingovernabile dato l’arroccamento semi-aventiniano e fatuamente sterile dei «cinquestellanti». Ma già oggi, con un Parlamento eletto con un sistema ultramaggioritario («Porcellum»), il risultato è uguale: l’impossibilità di dar vita ad una maggioranza politica definibile come tale! Dunque si dovrebbe inventare addirittura qualcosa di più mostruoso, di più aberrante del «Porcellum», per superare una siffatta difficoltà.
Essa è dovuta alla scelta di un partito (al quale si accredita un terzo dell’elettorato) di tirarsi fuori da ogni alleanza: tecnica adoperata già dal movimento hitleriano negli ultimi anni di Weimar. Ma una tale scelta non la si sconfigge a colpi di trucchi elettorali, bensì politicamente. Se si è capaci di ciò. E invece su questo terreno per ora nessuno seriamente si cimenta.
Bisogna dunque smetterla di escogitare leggi elettorali più o meno alchemiche fondate sul presupposto seguente: siccome prevedo il risultato, devo provvedere a truccarlo!
Un'intervista alla coraggiosa combattente per la difesa di una Repubblica che rispetti la propria Costituzione e i più elementari diritti umani.
Il manifesto, 16 gennaio 2013
Forse la Lega di Matteo Salvini che va a braccetto con Marine Le Pen ha passato il segno. La ministra per l’Integrazione Cécile Kyenge, non fosse altro che per una questione di toni, questa volta sembra decisa a pretendere un’azione più decisa contro il razzismo. Non per una questione personale, “non sono solo io il bersaglio di certi attacchi razzisti, è la democrazia stessa ad essere in pericolo”. Se tanta determinazione avrà un seguito, allora forse ci dovremo abituare a una ministra che non si limiterà a glissare con classe, o con ironia, alle provocazioni cui viene sottoposta ogni volta che partecipa a un dibattito pubblico. Kyenge è arrabbiata.
Ministra, gli insulti razzisti e le frasi imbecilli continuano. Siamo arrivati al punto che la polizia deve blindare i luoghi che lei frequenta. Lei ha detto che devono essere fermati. In che modo? Pensa che ci siano gli estremi per impedire l’assedio dei leghisti?
A questo punto penso che sia necessario e urgente mettere in campo un’azione politica forte, dico questo non solo per difendere la mia persona ma soprattutto per tutelare ogni tipo di diversità da questi attacchi intollerabili. La ministra Kyenge è solo un pretesto, io vengo attaccata e strumentalizzata per colpire un simbolo che va ben al di là della mia persona: il vero obiettivo è la democrazia. Ricopro un ruolo politico con una carica importante, sono un ministro della Repubblica italiana, e vengo colpita per portare avanti un discorso pericolosissimo che genera paura e intolleranza. E’ questo un tentativo che bisogna assolutamente fermare in ogni modo. Dobbiamo ritrovare l’orgoglio delle nostre istituzioni.
Per Roberto Maroni anche gli insulti sono solo critiche legittime e nessun leghista sembra pentito per il basso livello di certi attacchi.
Prima di tutto vorrei ricordargli che lui è un leader di un gruppo politico e recentemente ha anche ricoperto un ruolo importante e delicato come ministro degli Interni, per questo dovrebbe cogliere l’opportunità di dire cose diverse a questo proposito. Questi sono fatti gravi che non riguardano solo la mia persona e un politico serio li deve sempre condannare.
Cosa intende quando dice che serve una reazione politica forte? In Italia esiste già una legge che punisce il reato di istigazione all’odio razziale.
Sì certo, esiste, ma io credo che ci siano delle modalità di intervento ancora più incisive per sensibilizzare la popolazione sul tema del razzismo. E’ in atto una campagna mediatica elettorale molto violenta, la stanno facendo sulla pelle di qualcuno per colpire i valori della democrazia e della convivenza. Tutti devono comprendere la gravità della situazione. Quando un deputato arriva a tingersi di nero la faccia in parlamento, allora significa che siamo andati oltre e che abbiamo passato il segno.
Appunto, e quindi?
Dobbiamo arrivare ad escludere programmi politici che istigano al razzismo. Sia in Italia che in Europa.
Il paragone forse non è così azzardato: in Francia hanno vietato gli spettacoli razzisti del comico Dieudonné. Hanno fatto bene?
Si tratta di una questione molto delicata e controversa. Serve una discussione approfondita a livello europeo. Il mio ministero sta portando avanti un patto per l’Europa, si tratta di un documento programmatico che invita tutti i paesi a rafforzare i percorsi culturali necessari per fare argine al razzismo. Lo presenteremo tra poco. Ciò non esclude, per tornare in Italia, anche un rafforzamento della legge Mancino, lo ritengo necessario, ma personalmente ci tengo a sottolineare soprattutto l’utilità dei percorsi di formazione e di sensibilizzazione.
Un’incursione nella politica. In parlamento ci sono i numeri per abolire il reato di clandestinità, un reato odioso per cui nessuno però va in galera (è prevista solo un’ammenda). Il punto vero è capire se ci sono i margini per abolire la Bossi-Fini. Pensa che il Pd sia maturo al punto di rischiare una crisi di governo per abrogare questa legge?
Il mio partito su questi temi ha indicato degli obiettivi ben precisi, è chiaro che nell’ambito del patto di coalizione adesso si aprirà una discussione importante anche sulla Bossi-Fini.
Ma è evidente che il ministro Alfano non ci sta.
Il nostro obiettivo è riuscire ad avere un governo diverso e forte anche su questi temi, ci impegneremo per questo.
Che ne dice dell’esito del referendum online del M5S sull’abolizione del reato di clandestinità? Se lo aspettava?
La società evidentemente è cambiata. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che quel reato sia totalmente privo di senso. Anche l’esito di quella consultazione dice che bisogna avere il coraggio di affrontare la realtà
La vergogna gettata sul nostro paese da una manciata di farneticanti. Il timore è che siano la punta di un iceberg. La Repubblica, 16 gennaio 2014
UNA duplice, speciale vigliaccheria contraddistingue la campagna orchestrata dalla Lega contro Cécile Kyenge.
Vigliaccheria numero uno: prima ancora che la linea politica, viene presa di mira la persona in quanto tale, accusata perfino di «favorire la negritudine ». Così ieri a Montecitorio il deputato Gianluca Buonanno è giunto a tingersi il volto per insinuare che per ottenere vantaggi in Italia bisognerebbe farsi «un po’ più scuri». Vigliaccheria numero due: i leghisti agiscono surrettiziamente, pubblicando l’agenda della Kyenge sul giornale di partito senza neanche avere il coraggio di scrivere a che scopo lo fanno. Dico e non dico, lancio il sasso e ritiro la mano. Vigliacchi, appunto.
Un’ipocrisia evidenziata dal segretario Salvini che sogghigna rifugiandosi dietro al diritto alla libertà d’informazione: che male c’è a divulgare degli appuntamenti pubblici? Mentre Roberto Maroni, che pure sarebbe il presidente di una grande regione europea come la Lombardia, finge di cascare dalle nuvole: «Non capisco perché contestare il ministro Kyenge sia un atto di razzismo». Non capisce, poverino?
Per carità, la Lega non è razzista. Con gli africani è dispostissima a stringere affari. Lo ha rivelato un’inchiesta di Claudio Gatti su “Il Sole 24 Ore”: subito dopo l’accordo italo-libico del 2008 per il respingimento in mare dei migranti, il suo tesoriere Belsito — che guarda caso la Lega aveva inserito nel cda della Fincantieri — si diede da fare per vendere al regime di Gheddafi pattugliatori e corvette sulle cui commesse tentò di lucrare col meccanismo dei retropagamenti. Un po’ a te e un po’ a me. La magistratura sta ancora indagando. Se invece una cittadina italiana nata in Congo viene incaricata dal governo di operare per l’integrazione degli immigrati, allora si grida allo scandalo. La si addita al pubblico ludibrio.
La Lega si protende nel disperato tentativo di recuperare uno spazio elettorale all’estrema destra. Ieri Salvini ha stretto alleanza a Strasburgo con Marine Le Pen, leader ultranazionalista d’oltralpe, e chi se ne importa della coerenza federalista. Le stesse camicie verdi che un mese fa al Lingotto di Torino scandivano in coro “Italia vaffa…” non esitano a scendere in piazza coi Forconi che sventolano il tricolore. E quando si fa la posta alla Kyenge gli va benissimo di ritrovarsi fianco a fianco coi fascisti di Forza Nuova.
Resta da chiedersi quale possa essere l’esito di questa offensiva razzista. L’intenzione è evidentemente quella di far dimenticare l’onta del partito arraffapoltrone, funestato dalle ruberie, marginalizzato a Roma ma tuttora bene inserito in tutte le postazioni di sottogoverno nel Nord. Salvini confida nella memoria corta degli esasperati e degli incattiviti dalla crisi che morde. Intuisce che a destra oggi c’è il vuoto e che l’Italia impoverita rimane territorio aperto per le scorrerie dell’antipolitica.
Si tratta di un’operazione non solo cinica, ma pericolosissima. Il classico caso dell’apprendista stregone. Perché è molto improbabile che l’agitazione delle tematiche xenofobe e antieuropee possa resuscitare un movimento screditato innanzitutto fra la gente che per un quarto di secolo aveva illuso, traendone un potere esercitato maldestramente. Assai più probabile, purtroppo, è che la crisi del forzaleghismo su cui s’innesta una tale velenosa campagna di diseducazione di massa, favorisca l’avvento di una nuova destra estrema in grado di rivendicare la sua verginità politica. Fa paura anche solo evocarla, perché il suo biglietto da visita è una violenza che da verbale, “futurista”, fa in fretta a diventare squadrismo.
L’odio diffuso contro Cécile Kyenge — se non verrà rintuzzato al più presto — piuttosto che beneficiare i suoi propalatori leghisti è più facile che generi fenomeni marginali ma devastanti di militarizzazione. L’exploit greco di Alba Dorata sta lì a dimostrarlo.
Il ritornello che già si sente ripetere perfino dai megafoni televisivi, è un’accusa dal sapore beffardo: l’aver nominato ministro una donna con la pelle nera viene additato come episodio di un non meglio precisato «razzismo all’incontrario ». Anche Buonanno, il deputato che si è tinto la faccia a Montecitorio, ha adoperato questa espressione che non significa nulla, «razzismo all’incontrario». Quasi che la ovvia parità di diritti naturalmente assegnata dalla cittadinanza italiana fosse un privilegio insopportabile, un torto inflitto alla maggioranza dei “bianchi”.
Il razzismo ipocrita della Lega non è dissimile, nelle sue modalità espressive, dall’antisemitismo del comico francese Dieudonné. Fermiamoli finché siamo in tempo.
Una intelligente analisi del renzismo, con una conclusione molti "politicistica" secondo il suo stesso audace autore.
Il manifesto, 16 gennaio 2014
Prima di entrare nel merito della delicata materia politica, cui questo articolo intende fare riferimento, devo confessare una mia personale difficoltà, o storico disagio, che potrebbe rendere quanto segue altamente opinabile. E cioè: quando il dissenso politico diventa abissale, si trasforma in una differenza antropologica, che lo fonda e giustifica. Per quanto mi riguarda è così che io guardo Matteo Renzi, il nuovo e brillante leader della sinistra italiana. E’ come se lui ed io appartenessimo a mondi diversi, incomunicabili. Perciò dicevo della mia difficoltà di costruirci un discorso ragionevole sopra. Sarebbe come se al marziano di Flaiano si fosse chiesto di formulare un oculato giudizio politico sui frequentatori dei caffè di Via Veneto, o anche viceversa (ai tempi suoi, s’intende: adesso anche lì è tutt’altra cosa).
Tutto ciò — lo dico senza ironia e senza nessuna autocondiscendenza affabulatoria — pende gravemente a mio sfavore. Lui è il nuovo che avanza, con tutta la forza dirompente della sua totale (anche anagrafica) ignoranza del passato. Io sono il passato che guarda con sbigottimento al presente, con la pretesa, oggi totalmente, anzi comicamente vana, che la conoscenza del passato, e il tenerne conto, come si faceva una volta, possano portare ancora qualche piccolo elemento di previsione, e di azione, per il presente. Ma allora, se della politica abbiamo due nozioni e credenze nettamente opposte, perché presumere di giudicare una delle due politiche dalla specola di osservazione di una concezione della politica che le è esattamente opposta? Sappia perciò il lettore — lo dico per onestà intellettuale — che questo articolo sarà marcato negativamente da questa forte pregiudiziale .
Ridurrò il resto ad alcune considerazioni basilari, anzi, a questa sparsa “lettura del testo”, che illumini (forse) il punto in cui siamo.
1. L’ho già detto in altre occasioni, ma in esordio voglio tornare e ricordarlo. Renzi, e il renzismo, il quale già gli è nato e anzi prospera vigorosamente accanto, rappresenta l’approdo finale della lunga parabola iniziata venticinque anni fa con la Bolognina di Achille Occhetto. Qual è l’essenza di questa parabola? L’essenza di questa parabola è la cancellazione, oggi ormai totale e irreversibile, della tanto vituperata “diversità comunista” (cioè della pretesa, abominevole agli occhi di molti, di fare politica in modo diverso per obiettivi diversi).
Questa cancellazione incide tanto più pesantemente sul panorama politico italiano in quanto non ha dato luogo, come si poteva pensare e sperare, alla nascita di un’opzione socialista. Il crollo del vecchio socialismo, in ragione fondamentale (ma non solo) della campagna giudiziaria di Mani pulite, e il rifiuto, da studiare ancora fino in fondo, della dirigenza post-comunista di subentrargli in quel ruolo, hanno prodotto questo unicum nella storia europea degli ultimi due secoli: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui non esiste un partito socialista.
Il continuo decalage autodefinitorio — Pci, Pds, Ds, Pd… — e cioè in buona sostanza l’incertezza profonda su cosa si è e soprattutto su cosa si vuole essere o diventare, ha prodotto la perdita di qualsiasi identità culturale e ideale. Il renzismo replica: che bisogno ce n’è? La politica ne prescinde. Intanto andiamo avanti a tutta birra. Poi, eventualmente, si vedrà.
2. Come già accennavo, la chiave di tutta questa storia sta nell’incredibile serie di errori commessi dalla vecchia dirigenza post comunista (che non abbiamo né spazio né voglia di approfondire in questa sede, ma diamo ormai per storicamente appurati). L’ultimo soprassalto identitario si verifica quando Bersani sconfigge nettamente Renzi alle primarie del 2012. Il genio del renzismo consiste nell’avere colto il momento in cui lo sfinimento del vecchio gruppo dirigente lascia aperte le porte al più drastico dei rovesciamenti. Tale rovesciamento consiste essenzialmente di tre aspetti:
a) Renzi sostituisce la forza plebiscitaria del consenso alla gerarchia organizzata e scalare (e talvolta un po’ omertosa) del Partito. Cioè, in sostanza, nega l’utilità e l’opportunità in re del Partito, il quale resta come un puro guscio, la bandiera da sventolare (ma neanche troppo, spesso quasi per niente) nelle occasioni ufficiali. Cioè: cambia la nozione stessa di democrazia, che questo paese bene o male ha praticato dal ’45 a oggi (tutelata, se non erro, da certi aspetti non irrilevanti della nostra Costituzione);
b) Insieme con l’utilità e l’opportunità del proprio Partito (e, più in generale, della forma partito in quanto tale), nega l’utilità e l’opportunità della rappresentanza parlamentare. Infatti, tradizionalmente, fra il corpo degli eletti, i quali, almeno teoricamente, dovrebbero rappresentare l’autentica volontà popolare, e la direzione del Partito corrispondente c’è sempre stata (almeno dopo la chiusura, per il Pci, della fase staliniana) una dialettica di confronto e di scambio. Oggi la rappresentanza parlamentare viene trattata alla stregua di una semplice esecutrice dei diktat provenienti dalla direzione renziana;
c) La politica si dispiega, per il verbo renziano, come la serie di atti che servono a raggiungere il più rapidamente ed efficacemente possibile quel determinato risultato. La direzione di marcia dell’intero processo, e i suoi riflessi sulla situazione sociale, culturale ed etico-politica del paese, restano nell’ombra. Probabilmente ci sono, ma meno si vedono e meglio è (o forse, se si vedessero, sarebbe molto peggio). Come si dice a Roma “famo a fidasse”.
3. Se le osservazioni precedenti sono minimamente fondate, salta all’occhio che le caratteristiche “nuove” del renzismo (cioè la velocissima rivoluzione accaduta negli ultimi due anni nel campo della sinistra moderata) sono enormemente simili a quelle già verificatesi nel corso degli anni precedenti nel centro-destra e nella realtà politica del dissenso e dell’opposizione popolari.
Per vincere Silvio Berlusconi e Beppe Grillo — cosa che non era stabilmente accaduta mai alla vecchia dirigenza post-comunista e post-democristiana — occorreva seguirli sul loro stesso terreno. Questo mi pare davvero inconfutabile: leaderismo assoluto, populismo plebiscitario, discreto disprezzo dei meccanismi istituzionali e costituzionali, rifiuto del sistema-partito e del sistema-partiti, rottura degli schemi della vecchia, logora e consunta immagine del politico ancien régime, sono i punti di forza del “nuovo politico” al di là e al di qua dei tradizionali, anch’essi terribilmente obsoleti, limiti politico-ideali, destra, sinistra, e quant’altro ci viene dal passato. Il “nuovo politico” non ha avversari: ha solo concorrenti, da battere più o meno sul loro stesso terreno. Fra loro potrebbero persino intendersi: e non è detto che almeno su certi terreni, per esempio la nuova legge elettorale, questo non accada.
4. Il dato forse più significativo di tale processo è che esso ha acquisito rapidamente un vasto consenso popolare. Il “popolo” (insomma, più esattamente, un quoziente piuttosto vasto dell’elettorato del Pd, con ramificazioni significative negli altri elettorati) segue Renzi su questa strada. Da più parti si sente ripetere: «Con Renzi si vince». Importa meno sapere “cosa si vince”, purché sia raggiunta una ragionevole sicurezza che “con Renzi si vince”. Dunque, leaderismo, populismo plebiscitario, liquidazione dei partiti, un discreto disprezzo per il gioco parlamentare e per le istituzioni che lo garantiscono, hanno fatto breccia in profondità. Media — organi di stampa, televisioni, opinion makers — si allineano sempre più entusiasticamente. Uomini inequivocabilmente di sinistra (Vendola, Landini) sembrano guardare con simpatia alle possibilità di manovra, che il “nuovismo” renziano consente loro (per forza, meglio che star fermi, oppure restare per sempre marginali!).
5. Dunque, c’è stato, come sempre accade in questi casi, un processo di reciproco riconoscimento tra il leader nascente e le masse mutanti (ne hanno discorso recentemente Eugenio Scalfari ed Ernesto Galli della Loggia rispettivamente su la Repubblica e il Corriere della Sera: tornerò prossimamente su tale argomento). Si potrebbe ragionare a lungo su tali processi. Quel che conta è però che siano avvenuti. Constatarlo non significa però sapere come contrapporvisi. Anzi: è difficile interporsi soprattutto nel momento stesso in cui, come accade ora, tale congiungimento avviene. E tuttavia, il momento in cui il congiungimento avviene è però anche quello in cui una possibile interposizione va elaborata e presentata; altrimenti la partita è chiusa come minimo per un decennio. Ma qui conciano i dolenti lai. Non si tratta infatti di contrapporre soltanto un’ipotesi politica a un’altra, per ora prevalente. Si tratta, per riesumare una vecchia, detestatissima terminologia, di ricreare una cultura politica della sinistra, ancorata alla tradizione (tutto quel che c’è di buono al mondo ha un passato e una storia) e al tempo stesso moderna, modernissima, più dell’altra che, tutto sommato, non vede molto più al di là della punta del proprio naso. Ossia. cominciare a dire ragionevolmente quel che si vuole e prima di dire come lo si vuole. Resta dunque qualcosa del passato: diversi. Ma nuovi: non più comunisti. Questa è la scommessa. Resta tutto sommato credibile dal fatto che in Italia di così ce ne sono tanti, li conosco e ci lavoro insieme. Difficile è stendere la rete fra le loro non sempre facilmente assimilabili diversità. ma se si deve fare, si farà. In tempi di durissima carestia è esattamente quello che bisogna tornare a fare.
6. Prima di chiudere vorrei esibirmi nell’ultima farneticazione politica, anzi politicistica. Se le cose stanno come il passatista dice, bisognerebbe evitare a ogni costo che il governo Letta cada e si vada, come gli homines novi più o meno concordemente auspicano, al voto.
Per tre motivi (almeno): a) bisogna evitare che la destra si ricompatti; b) bisogna elaborare una buona legge elettorale che senza equivoci assicuri in questo paese l’alternanza: il doppio turno e le preferenze (possibilmente più di una), sono l’unico sistema in grado di farlo, e per ottenerlo ci vorrà più tempo di quanto si pensi; c) abbiamo bisogno di tempo per elaborare, proporre e imporre una nuova cultura politica, della sinistra, con le conseguenze che un tale processo potrebbe avere sull’intero assetto politico e civile del paese.
Sono argomentazioni paradossali per uno che invita a resuscitare la vecchio-nuova sinistra? Sì, è vero. Ma il paradosso è la nostra attuale condizione di vita — persino della vita pubblica e civile (talvolta personale), oltre che politica. Fare a meno del paradosso oggi non si può. Perciò è necessario astutamente governarlo
Il porcellum è stato un veleno scientificamente inoculato nelle vene della nazione. Ha intossicato il parlamento, riempiendolo di “nominati” al servizio delle segreterie. Ha innescato una micidiale crisi di rigetto nella società civile, spingendo moltitudini di elettori a cercare l’antidoto nell’anti-politica. Il dramma è che con questo “mostro” concepito dalla resistibile armata del cavaliere abbiamo già votato due volte, eleggendo due parlamenti. È vero che la consulta si premura di chiarire ora che il principio di «continuità dello stato» è comunque assicurato, e che la sua pronuncia non inficia le ultime tornate elettorali né delegittima le camere appena elette.
Ma questo non è balsamo. Semmai è altro sale sulla ferita. Dal 2005, grazie alla “cura” berlusconiana, l’italia è una democrazia violata. La legge elettorale, cioè la “regola” fondamentale che disciplina l’esercizio di un diritto inalienabile dei cittadini, ha violato palesemente la costituzione. Ci sono voluti quasi dieci anni per certificare quello che era già chiaro allora. Meglio tardi che mai. Ma il rammarico resta, insieme all’indignazione.
Le motivazioni della corte erano importanti non solo per comprendere le ragioni dell’incostituzionalità del porcellum. Ma anche e soprattutto per capire quali paletti avrebbe fissato, nella prospettiva della riforma elettorale. I giudici hanno adottato una soluzione “aperta”, che di fatto non preclude nessuno dei modelli possibili, né il proporzionale né il maggioritario, variamente corretti e integrati. Purché il premio di maggioranza abbia una soglia minima, e a condizione che l’elettore abbia il diritto di scegliere. Riaffermati questi principi irrinunciabili, le motivazioni della corte non sbarrano la strada a nessuna delle ipotesi messe in campo da Matteo Renzi. Il modello spagnolo può funzionare (purché le liste prevedano circoscrizioni ridotte e con pochi candidati), così come il mattarellum corretto (purché si gradui adeguatamente il premio della parte proporzionale) o il doppio turno di lista (ribattezzato impropriamente il “sindaco d’Italia”, e purché sia introdotto il voto di preferenza o il listino “corto”).
Questa exit strategy indicata dalla consulta è da un lato un’opportunità. Ma dall’altro lato un problema. Chi pensava (o sperava) che la corte togliesse le castagne dal fuoco alla politica rimane deluso. La palla torna interamente nella metà campo dei partiti. E questo costringe il leader del pd ad accelerare i tempi, e a rompere gli indugi. Renzi deve portare a casa un risultato entro il 20 gennaio, quando il dibattito approderà in commissione alla camera, e poi una settimana dopo in aula. Il leader, da solo, non ha i voti per fare una qualunque riforma. Ha bisogno di alleati. E ferma restando l’indisponibilità di Grillo, ha solo due forni ai quali rivolgersi. Quello di Berlusconi e quello di Alfano. Ma l’uno, per ora, è alternativo all’altro. E l’uno e l’altro sono pericolosi.
Berlusconi può discutere forse solo di modello spagnolo, che è tendenzialmente bipartitico, ma non vuole né il mattarellum corretto né il doppio turno di lista (gli elettori di destra storicamente non vanno a votare due volte in due settimane). Alfano può discutere del “sindaco d’Italia”, ma non vuole né il mattarellum corretto (con i collegi uninominali sarebbe costretto a tornare nelle braccia del cavaliere) né il modello spagnolo (con uno sbarramento al 15% rischierebbe di star fuori dal parlamento). Renzi ha avuto il merito di forzare il modulo, e di mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, offrendo tre ipotesi di intesa possibile.
Ma ora, nell’indecisione altrui, è costretto a scegliere. Se tratta con alfano, deve smettere di bastonare quotidianamente il nuovo centrodestra, e appiattirsi su un governo letta dal quale invece si vuole sistematicamente e ostinatamente distinguere. Se tratta con berlusconi, deve accettare l’idea dell’eventuale «patto col diavolo». Ma sapendo bene cosa l’aspetta. Non solo una probabile crisi di governo (eventualità cui alfano sarebbe costretto per la rottura del patto di coalizione). Ma anche una possibile imboscata (“specialità” nella quale il cavaliere è maestro indiscusso). Berlusconi potrebbe portare il sindaco di Firenze a un passo dall’accordo sul modello spagnolo, per poi far saltare il tavolo all’ultimo minuto, incassando in un colpo solo la caduta del governo delle strette intese e le elezioni anticipate con il proporzionale puro (cioè la morte politica di Renzi).
È un rischio concreto e non fantapolitica. Per convincersene, basta chiedere al D’Alema della bicamerale e al Veltroni del 2008. Una “lezione” che non possiamo e non dobbiamo dimenticare.
Tra le bizzarrie del duce dei grillini la sua concezione della democrazia è certamente quella più innovativa. E l'"innovazione" piace molto, di questi tempi.
Il manifesto, 14 gennaio 2014
Oggi, giunta finalmente al voto la legge sulle «depenalizzazioni» comprensiva dell’abolizione della vergogna italiana del reato di clandestinità, ecco la mossa a sorpresa, la votazione-lampo organizzata da Grillo e Casaleggio.
Su di loro si scatenò l’ira funesta del padre-padrone e del suo presunto ideologo internettiano. Se avessimo sostenuto l’abolizione del reato di clandestinità in campagna elettorale – sostenne allora il tandem – «avremmo avuto percentuali da prefisso telefonico». Siamo contrari «nel merito e nel metodo», aggiunsero per chiarire che quell’emendamento avrebbero dovuto rimangiarselo. In cima ai pensieri di questi perfetti imprenditori della paura, c’era, e resta, il calcolo elettorale, l’inseguimento delle pulsioni peggiori del populismo contro gli immigrati, il non schierarsi né a destra, né a sinistra, per guadagnare il massimo consenso dalla crisi dei partiti.
E visto che alla fine quelle poche migliaia di voti (circa 24 mila) in maggioranza (poco meno di 16 mila) hanno appoggiato l’abolizione dell’odioso reato (9 mila quelli che, invece, avrebbero voluto confermarlo), forse Grillo e Casaleggio dovranno rassegnarsi a cominciare a restituire una parte dei consensi sottratti alle destre leghiste. E magari domani vedersi sfuggire anche quelli avuti in dono dal Pd di Bersani. Se l’abile e astuta strategia di Renzi riuscirà a essere più efficace della propaganda grillina sul finanziamento pubblico e la legge elettorale, nemmeno le maglie strette del controllo della rete riusciranno a trattenere il bottino elettorale conquistato cavalcando la grande paura
Del resto, nella storia della Penisola i barbari sono sempre venuti dal Nord; ma dal di là delle Alpi.
La Repubblica, 12 gennaio 2014
PERCHÉ l’assessore per l’immigrazione della Lombardia non vuole partecipare a un incontro sull’immigrazione con il ministro per l’immigrazione? La risposta è dello stesso assessore, la leghista Simona Bordonali: “Ritengo le tematiche non prioritarie”. Può essere anche divertente domandarsi quali tematiche, se non l'immigrazione, siano “prioritarie” per un assessore all'immigrazione.
Ma è più interessante notare come la poco partecipata ma molto dura contestazione di ieri, a Brescia, contro il ministro Kyenge, forse per la prima volta abbia compattato i rappresentanti politici e in qualche caso istituzionali di tutta la destra nazionale, da Forza Nuova alle camicie verdi ai neomissini di Fratelli d'Italia a militanti della rinata Forza Italia (che, a prenderli in parola, sarebbero i veri eredi dei “moderati”).
La ministra “congolese”, si sa, è il bersaglio prediletto, oltre che il più ovvio, degli umori xenofobi del nostro Paese. In quanto italiana figlia dell'immigrazione e in quanto nera è ritenuta, piuttosto che una persona a conoscenza dei fatti, una provocazione vivente, un insulto a un'idea di “italianità” puramente virtuale, al pari di ogni astrazione razzista, ma violentemente ribadita, al pari di ogni astrazione razzista. Quanto al fatto che proprio nelle scorse settimane la rivista americana Foreign Policy abbia inserito la Kyenge tra le cento personalità mondiali più influenti in funzione del cambiamento può valere, negli ambienti dell'isolazionismo italiano, solo come conferma del complotto “mondialista” ai danni della retta conduzione di ogni nazione.
Nei fatti, sempre che i fatti contino, il vero problema, per loro, non è certo uno spintone di troppo da parte della polizia; né i loro veri antagonisti coincidono, se non in piccola parte, con i ragazzi antirazzisti e gli immigrati che ieri gli si sono opposti in strada, avendo uguale diritto di manifestare. Il vero problema, per la destra lombarda e italiana, è che Kyenge era stata invitata, oltre che da un paio di enti locali, dall'Azione Cattolica di Brescia, vale a dire da quel cattolicesimo sociale che in Lombardia è molto presente e molto influente; ed è, soprattutto, profondamente “popolare”, non certo riducibile alle detestate lobby mondialiste o salottiere o comuniste o bancarie o gay o altro che, nella visione piuttosto paranoica della destra xenofoba, regola le cose del mondo con subdola protervia.
Mentre la Beccalossi, la Bordonali e Rolfi (e Maroni? ha un'opinione in proposito, Maroni?) vorrebbero dare alla Kyenge il foglio di via, e il loro manipolo di ripulitori etnici sventolava un grande biglietto di aereo “Italia-Congo” da consegnare al ministro, Azione Cattolica la invita a Brescia e le mette a disposizione un microfono e un vasto pubblico, in una delle città più cattoliche e più ex democristiane di Italia. Specie sotto un papato come questo, antifondamentalista ed ecumenico (mondialista?), i veri grattacapi, per gli xenofobi padani e italiani, non verranno dai “comunisti” dei centri sociali.