Con Civati e Fassina, e altri che stanno ancora nel PD, siamo d'accordo sull'Europa: ma «il problema sorge quando dalle dichiarazioni ideali si passa al comportamento pratico
». Il manifesto, 15 febbraio 2014
Sostiene Stefano Fassina (vedi il manifesto dell’11 febbraio), e con ottime ragioni, che l’eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd. Anche per questo abbiamo scelto Alexis Tsipras come punto di riferimento e imbarcazione alternativa. Il suo giudizio su socialdemocratici e socialisti europei è molto severo, e per parte mia lo condivido.
A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg. Non dimentichiamo poi che Tony Blair ha fatto di tutto per sfasciare quel poco di unione che c’era in Europa. Ha lavorato contro ogni proposta federale nella Convenzione che negoziò il Trattato di Lisbona; ha sistematicamente difeso la rinazionalizzazione delle politiche comunitarie; ha contribuito in larga misura al ritorno della vecchia balance of powers nel continente: a quell’equilibrio fra sovranità nazionali assolute che lo precipitò nel ‘900 in due guerre mondiali e contro cui si scaglia, da anni, Jürgen Habermas. È questa balance of powers ad aver creato un predominio tedesco del tutto esorbitante, non una qualche malefica natura della Germania.
La linea Blair è oggi vincente nell’Unione, ed è distruttiva al massimo grado. Lo è anche per quanto riguarda la storia della sinistra: il patrimonio della sinistra era ed è ancora la battaglia per l’uguaglianza sociale e il bene pubblico, e Blair l’ha polverizzato, dando vita a quella che Marco Revelli chiamò, sin dal 1996, la funesta rivalità fra «Due Destre». È all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che — lo dicono i sondaggi — sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo. Per inciso, ricordo qui che Tony Blair resta ancor oggi, nonostante le devastazioni che ha lasciato in eredità, il modello principale cui Matteo Renzi promette di attenersi. L’involuzione del Pd, con Renzi, non subisce battute d’arresto.
So benissimo che nel Partito democratico e anche nel gruppo socialista europeo esistono forze contrarie a questa rotta. Tra queste forze ci sono Giuseppe Civati e – in alcuni momenti e di nuovo nell’articolo che ha scritto sul manifesto – anche Fassina. Il problema sorge quando dalle dichiarazioni ideali si passa al comportamento pratico. Il Pd, che dal 2011 è tornato al governo – prima coalizzato con Berlusconi, poi con il Centro destra di Alfano, per prepararsi oggi a una nuova Grande o Piccola Intesa – non ha esitato un secondo ad accettare, nel 2012, che il Fiscal Compact venisse inserito nella Costituzione. La verità è che non c’era obbligo alcuno di farlo. La Commissione europea s’era limitata a dire che tale soluzione era «preferibile», e senza provocare strappi il governo francese si è rifiutato di costituzionalizzare il pareggio di bilancio. Di questa schiavitù volontaria, terribilmente costosa per gli italiani già piegati dalla crisi, non scorgo traccia nell’articolo di Fassina, né tantomeno nelle parole di Renzi.
Stesso peccato di omissione per quanto riguarda la trojka, che il gruppo socialista a Strasburgo ha recentemente giudicato illegale dal punto di vista comunitario, e fonte di gravi conflitti di interesse (sia per quanto riguarda la Commissione che la Bce). Ma critiche simili giungono davvero in ritardo – la decisione di alzare la voce è stata presa solo nel gennaio scorso! – a disastro ormai avvenuto.
Analogo divario tra parole e comportamenti reali è ritrovabile nella politica fin qui seguita da Martin Schulz, candidato-presidente dei socialisti europei e del Pd. Tra le numerose sue incoerenze, vorrei qui rammentare il ruolo che ha svolto nel negoziato per la Grande Coalizione in Germania, dopo le elezioni di settembre: la parte europea dell’accordo lo ha visto protagonista, nella veste di Presidente del Parlamento di Strasburgo, e ciascuno ha potuto constatare come il capitolo europeo riprenda in toto le idee di Angela Merkel, comprese le obiezioni che fin dall’inizio della crisi il suo governo e la Bundesbank hanno mosso a un maggiore coinvolgimento della Banca centrale europea, agli eurobond, a una gestione solidale dei debiti pubblici, al Piano Marshall che il partito socialdemocratico aveva difeso in campagna elettorale. Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto Presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo Commissario.
Detto questo, concordo su molti punti di sostanza elencati da Fassina: occorre scardinare gli equilibri esistenti nel Parlamento europeo, uscire dalle chiusure della sinistra radicale impersonata dal Gue, sventare un’ennesima Larga Intesa fra socialisti e partito popolare (ma come giustifica, a questo punto, l’intesa Renzi-Alfano-Berlusconi su governo e riforme istituzionali?). Occorre creare un vasto schieramento di europeisti contro i difensori dello status quo. Uno schieramento che potrebbe includere un Gue in maggiore sintonia con Tsipras, dunque trasformato, i Verdi, i socialisti contrari al patto con il centro destra, i futuri deputati Cinque Stelle, e anche i liberali che fortunatamente hanno indicato come candidato-Presidente una persona di chiara fama europeista, Guy Verhofstadt.
Ma prima, toccherà vedere quali saranno le forze che emergeranno dalla competizione di maggio, e se sarà realizzabile una maggioranza trasversale in favore di scelte essenziali, che riassumerei così: sì all’euro, ma in un’Unione che abbandoni le politiche di austerità e il Fiscal compact, che si dia istituzioni democratiche e dunque un Parlamento costituente, che faccia nascere una Banca centrale che sia prestatrice di ultima istanza, non continuamente alla mercé del più influente Istituto di emissione nazionale, la Bundesbank tedesca. No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, no alla trojka Commissione-Banca centrale-Fondo monetario; sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile, sulla scia della proposta «New Deal 4», che prevede un’Iniziativa di cittadini europei (Ice) sulla base dell’articolo 11 del Trattato di Lisbona. Il che vuol dire, conseguentemente, sì all’’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica, ma con l’impegno a devolvere il gettito al comune bilancio comunitario. E ancora: no a un Trattato commerciale con gli Stati Uniti che metta fra parentesi le due tasse (Tobin tax e carbon tax) e scavalchi le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia. Sì, infine, ai diritti dei vecchi e nuovi cittadini europei – e no a un Mediterraneo che già oggi è tomba di decine di migliaia di immigrati.
Il Manifesto per un’altra Europa suggerito da Fassina si costruirà dopo questa competizione fra idee e comportamenti radicalmente lontani, al momento, gli uni dagli altri. Difficile pensarlo nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd. Un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta). Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle «divine sorprese» di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni
Parole chiare, conclusione ineccepibile: «Chi vota Renzi in Parlamento vota esplicitamente per la decadenza della democrazia rappresentativa in questo paese: cioè vota contro gli organismi stessi in cui vive ed opera» L'unico lumicino è fuori dal PD.
Il manifesto, 15 febbraio 2014.
Ho passato buona parte della mia vita (politica e civile, s’intende) a combattere le sclerosi conservatrici dell’assetto politico-istituzionale italiano, la sua genetica propensione a percorrere e ripercorrere senza fine le vecchie abitudini e i vecchi vizi. Dopo il mio ultimo articolo (“Nuovi, ma diversi”, il manifesto, 16 gennaio) sono stato attaccato da destra e da sinistra (si fa per dire) come difensore intransigente dello status quo, sordo alle esigenze del nuovo che avanza. Ancora una volta era tutto il contrario: mi sono sforzato, come sempre, di mostrare di quale vecchiume grondasse, dietro le superficiali apparenze, il nuovo che avanza.
Non mi sarei aspettato però, — lo dico con grande sincerità, — che nel giro di pochi giorni il nuovo che avanza svelasse così chiaramente il grumo di ottusa brutalità e di atavica ripetitività, che esso nasconde. Mi riferisco ovviamente a quanto è accaduto in seno alla (sedicente) Direzione del Pd, e nei suoi dintorni. Sempre più provo l’impressione che interpreti e commentatori della vicenda politica italiana, ottusi (in questo caso uso il termine in senso strettamente tecnico) dal loro lungo mestiere, abbiano perso il senso delle cose che accadono.
Ossia un politico di cui in realtà non si sa nulla, né capacità amministrative nazionali né relazioni internazionali né cultura politica, ma solo la “smisurata ambizione” di raggiungere il “suo” risultato il prima possibile, rovesciando il tavolo, offrendo i sodali, ignorando le regole, esibendo attitudini cabarettistiche.
Ma c’è di più, c’è qualcosa che rende il tutto - in sè grottesco e addirittura inverosimile - pericoloso e da guardare con il massimo dell’attenzione. In un regime democratico-rappresentativo il potere, anche quello personale, si forma lungo i raggi di una filiera che presenta, a ogni suo snodo, un’occasione di verifica e, nel caso, di promozione. Sappiamo benissimo che questo modello, — che può anche non esserci piaciuto molto in passato, ma di cui finora non s’è trovato uno migliore, — è già stato, ed è tuttora, almeno in Italia, logorato da molteplici motivi di decadenza. Berlusconi e il berlusconismo, Grillo e il grillismo, ne costituiscono gli esempi più clamorosi.
Renzi e il renzismo costituiscono l’improvviso e improvvisato adeguamento del centrosinistra e della sinistra a tale modellizzazione politico-istituzionale non democratico-rappresentativa (forse potremmo dire, da questo momento in poi, più francamente antidemocratico-rappresentativa). Ma questo già lo sapevamo, e l’abbiamo per giunta già detto. Cos’è successo allora per stupirci e preoccuparci di più, molto di più? E’ successo che lo schema non democratico-rappresentativo viene ora trasferito, senza sforzo apparente, dal livello di una forza politico-partitica, sia pure di prim’ordine, a quello del governo del paese. Ossia: anche il governo del paese viene sottratto al meccanismo delle verifiche e delle promozioni connesse tradizionalmente con il sistema democratico-rappresentativo, e delegato a una problematica, anzi oscura consultazione extra-democratico-rappresentativa.
E cioè: l’unica fonte (chiedo a tutti di riflettere su questa specificazione che spiega tutto: l’unica, l’unica, l’unica) del potere renziano è il risultato delle primarie dell’8 dicembre 2013, in cui ha sconfitto i due candidati alternativi, Cuperlo e Civati. Io contesto (posso farlo tranquillamente: l’ho fatto da sempre) il valore legittimante, in senso democratico-rappresentativo, delle cosiddette primarie. Le primarie possono avere un valore orientativo per la scelta di un candidato di coalizione in presenza di una prova elettorale. Sono un’aberrazione inenarrabile quando ne derivano la carica di Segretario di un Partito, e il pratico, conseguente impossessamento di questo (maggioranza assoluta in direzione, ecc. ecc.). Sarebbe come se gli organi dirigenti della Shell o dell’Eni fossero scelti dai passanti che si trovano a transitare in un giorno casualmente scelto nella strada sotto le loro sedi. Se tale procedura, per giunta, è stata messa in statuto, affaracci loro, e cioè degli stupidi uomini della Shell o dell’Eni, o di quel partito di cui stiamo parlando. Ma se il meccanismo viene trasferito di peso alla formazione di un Governo, che dovrebbe rappresentarci tutti, non sono più affaracci loro, sono affari nostri. Che c’entriamo noi con l’arroganza e insieme con la stupidità del gruppo dirigente del Pd, passato e presente?
Di conseguenza io contesto duramente anche la leggittimità di un Governo che sulla base di codeste procedure fondi la genesi della sua costituzione come formazione di potere nella gestione delle cose italiane, cioè le nostre. E’ la prima volta che accade nella storia dell’Italia repubblicana. Perfino il Cavaliere è andato più volte al Governo con la forza del voto. Quando non ne aveva abbastanza, li comprava. Ma al dunque, comprati o no, sempre voti in Parlamento erano. I voti su cui Renzi fonda la propria pretesa di andare ipso facto al Governo sono quelli della massa che politicamente non si esprime, resta a guardare, è capace soltanto di quel gesto plebiscitario che affida a qualcuno, il Predestinato, le proprie sorti. Disprezzo per la “democrazia diretta”, per la “democrazia dal basso”? Figuriamoci. Disprezzo soltanto per tutto ciò che delega ad altri, senza sforzarsi di emergere, il proprio destino. L’Italia, ahimè, ha una solida tradizione in questo campo, e la coazione a ripetere, in tempi, obiettivamente, di crisi interna del sistema democratico-rappresentativo, torna a riemergere.
In attesa di organizzare una risposta al di fuori della cerchia attuale del potere, — qualcosa come sappiamo si è già cominciato a fare, — l’ultima trincea resta per ora il Parlamento, questo Parlamento. Dio mio. Una buona discussione sull’illegittimità politico-istituzionale e costituzionale delle procedure fin qui seguite servirebbe comunque in tale sede a definire, precisare e confinare nei suoi limiti questa inedita, ed ennesima, sciagura italiana. Chi vota Renzi in Parlamento vota esplicitamente per la decadenza della democrazia rappresentativa in questo paese: cioè vota contro gli organismi stessi in cui vive ed opera.
Né s’invochino, per favore, come ormai si fa da decenni, le sorti politiche, economiche ed europee della povera Italia. L’ultimo a poterlo fare con qualche leggittimità, almeno formale, è stato Enrico Letta. Tolto di mezzo Letta, l’Italia sta altrove.
«Solo Civati (in sedici hanno votato contro) non si è unito al coro. Denunciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi definitivamente nella palude. Dove solo un animale può sopravvivere: il caimano» . Il
manifesto, 14 febbraio 2014
Una maggioranza che un tempo si sarebbe definita bulgara ha applaudito la scelta di una crisi a prescindere (anche Totò era un poeta ma non ha avuto l’onore della citazione). A prescindere perché non una parola è stata spesa per i contenuti di questo governo renziano (e tantomeno del programma offerto da Letta alla discussione). A prescindere perché niente è stato detto sullo schieramento alternativo che dovrebbe sorreggere e giustificare questo cambio della guardia con incorporata garanzia di blindatura fino al 2018. Tanto che la sinistra dei Cuperlo e dei Fassina ha messo agli atti che se la discontinuità rivendicata da Renzi per la sua ascesa al comando è quella ascoltata da alcuni interventi in direzione, «siamo più a destra» del governo che oggi se ne va. Ma solo Civati (in sedici hanno votato contro[v. nota in calce]) non si è unito al coro. Denunciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi definitivamente nella palude. Dove solo un animale può sopravvivere: il caimano.
In realtà l’unica vera discontinuità del governo renziano sta nella sottolineatura della natura non più tecnica, emergenziale, ma politica e di legislatura dell’operazione in corso. In altre parole non più un “governo del presidente”, con Napolitano ispiratore della sua missione e di alcuni ministri-chiave, come è avvenuto per i governi Monti e Letta. Proprio l’ipotesi più invisa ai diversamente berlusconiani che ieri, con Alfano, hanno scartato questa ipotesi («accetteremo solo un governo d’emergenza»), e chiesto, come anche Berlusconi, di parlamentarizzare la crisi, mettendo sul tavolo la carta delle elezioni anticipate.
Per il condannato resuscitato da Renzi al ruolo di padre costituente delle riforme si apre una fase politica promettente. Poter sparare non su un traballante governicchio di piccole intese ma sul bersaglio grosso. Oltretutto avendo dalla parte del manico quella maggioranza per le riforme di cui è sempre stato un esperto affossatore.
Nota
Ecco chi ha detto no al documento Renzi Pippo Civati, Enzo Martines, Elly Schlein, Paolo Cosseddu, Marco Sarracino, Marina Terragni, Rita Castellani, Carla Rocca, Luca Pastorino, Andrea Ranieri, Maria Carmela Lanzetta, Samuele Agostini, Felice Casson, Annapaola Cova, Brignone Beatrice, Mirko Tutino
Era facile prevedere ciò che è avvenuto. Il casino italiano (epicentro nel PD), esploso il 13 febbraio era già chiaro a chi, come Dominijanni, sa vedere i ciechi prima che finiscano nel burrone.
Idadominijanni.com, 13 febbraio 2014
Una crisi drammatica, una gestione ridicola, scrive Lucia Annunziata sull’Huffington Post commentando «il clima da ragazzi del muretto, sbracato nei modi, nello stile e nella sostanza» che ci tocca respirare. Sullo stile da ragazzi del muretto, argomento tutt’altro che secondario, torno dopo. Prima, due punti sul dramma e sulla farsa.
Primo punto. Salvo improbabili colpi di scena alla direzione del Pd di oggi, fra pochi giorni avremo il terzo presidente del consiglio nominato dal Colle (e stavolta largamente autonominato), senza alcun rapporto, né diretto né indiretto, con il pronunciamento elettorale. Siccome però le cose ripetendosi peggiorano, questa terza volta è peggiore, se possibile, delle due precedenti: non c’è l’emergenza dello spread con cui fu coperta l’operazione Monti, né l’impossibilità di costruire una maggioranza coerente con il voto con cui fu coperta l’operazione Letta. C’è solo, rivendicato da Napolitano a Lisbona, il rifiuto fobico di un ritorno alle urne, unito all’arrogante fretta di Matteo Renzo di insediarsi a Palazzo Chigi, fretta a sua volta accompagnata da un consumismo della leaderhip che ha raggiunto, nel Pd, livelli patologici.
Poco da eccepire se fossimo realmente, come tutt’ora siamo formalmente, in una Repubblica parlamentare, dove i governi li formano le Camere (e tuttavia anche in questo caso tornare alle urne sarebbe a questo punto necessario, essendosi il quadro politico profondamente modificato nell’ultimo anno, con la decadenza di Berlusconi da un lato e l’avvento di Renzi dall’altro, ed avendoci la Consulta liberati dal Porcellum). Ma noi siamo da più di vent’anni in una terra di nessuno, dove la Costituzione formale è continuamente sfidata, contraddetta e delegittimata da un senso comune, di destra e di sinistra, che i governi li vuole eletti, o indicati, dal popolo. Di più: la stessa crisi di questi giorni è figlia di questo senso comune, la leadership di Renzi essendosi costruita precisamente sulla promessa di non varcare la soglia di palazzo Chigi senza mandato popolare, e sull’impegno di varare una legge elettorale che garantisca governi stabili, duraturi e legittimati dal voto. Il paradosso dunque è il seguente: si forma con una manovra di palazzo un governo, il terzo, col mandato di varare le mitiche ‘riforme’ contro le manovre di palazzo (e magari incapace, come i precedenti, di vararle). Un imbroglio che sfugge al principio di non contraddizione.
Secondo punto. Quando il principio di non contraddizione in politica salta, è perché operano altri principi che rispondono ad altre logiche, come quello dei rapporti di forza allo stato duro e puro. Il passaggio dirimente e illuminante di questa crisi resta, da questo punto di vista, quello del cosiddetto scoop della premiata coppia Corriere della Sera- Financial Times. Inconsistente giornalisticamente – si sapeva ed era già stato scritto tutto o quasi già nell’estate del 2011, quando il Corsera peraltro taceva e approvava -, inequivocabile politicamente: una richiesta perentoria di cambio del cavallo spedita dall’establishment che conta a Napolitano, e da Napolitano prontamente raccolta in poche ore con la convocazione accelerata di Renzi al Quirinale. Di nuovo ha ragione Lucia Annunziata: il combinato disposto fra questa traiettoria dei cosiddetti ”poteri forti” – non da oggi privi peraltro di un qualsivoglia progetto sul paese – e il personalismo mediatico degli uomini politici in campo – ma in primis di Matteo Renzi, dico io – accentuano in modo dirompente la deriva oligarchica del sistema-Italia. Oltre a gettare finalmente la luce giusta sull’ideologia della rottamazione: quando il gioco si fa duro, non è ai e alle quarantenni acqua e sapone che lo si lascia in mano. Riportare la gestione della crisi nell’alveo e nelle forme istituzionali è a questo punto il minimo che si possa fare, e bene fa Enrico Letta, con tutti i limiti che gli si possono e devono imputare, ad esigerlo.
Vengo infine allo stile ”ragazzi del muretto”. Sulle cui più patenti manifestazioni – irresponsabilità, leggerezza, senso di onnipotenza, personalismi e maleducazione – non merita neanche insistere. Vale la pena piuttosto di soffermarsi sull’ennesimo capolavoro politico-simbolico che il Pd è riuscito a realizzare ribaltando, anche su questo piano, il vantaggio del rinnovamento in cui si trovava rispetto al partito padronale di Berlusconi in un disastroso svantaggio, complice il coro mediatico affabulato dalla rottamazione di cui sopra, dalla loquace intraprendenza del sindaco di Firenze e dalle garanzie rivoluzionarie delle smart blu. Adesso però non dovrebbe sfuggire a nessuno quanto sia più rassicurante per il grande pubblico la transizione generazionale soft di cui Berlusconi si atteggia a garante rispetto allo spettacolo che la new generation del Pd sta offrendo di sé, superando di molti punti quella precedente già affollata di campioni nella specialità del fratricidio. C’è voluto del talento nel consegnare questo vantaggio al leader decadente e decaduto, amorale e illegale, cinico e gaudente del bunga-bunga. E non è solo un talento maschile. Siamo state tutte adolescenti e tutte sappiamo che sul muretto i ragazzi esagerano finché le ragazze non dicono basta. Ma sul muretto del centrosinistra italiano non ce n’è una sola a dirlo, tutte impegnate come sono o a fare diligentemente da coro o a contare meticolosamente di quante parolacce sono vittime.
«Anomalia per anomalia... ».
Un'analisi terribilmente acuta d'una inoppugnabile realtà terribile. Ma colpevole è chi non resiste e si oppone il manifesto, 15 febbraio 2014
Stiamo assistendo alla presa del potere da parte di una nuova, giovane e dinamica classe dirigente libera dai legami del passato, senza vincoli d’appartenenza; anzi impegnata a cancellare ogni relazione di solidarietà ideologica e a ridurre gli spazi di discussione anche all’interno delle proprie formazioni politiche. L’unico rapporto che residua è quello personale. Tra i partiti, ma anche all’interno dello stesso partito, quel che conta è l’identificazione con il leader: non si è più «democratici», ma solo «renziani» (oppure «antirenziani»).
Persino una persona mite come Enrico Letta alla fine ha perso le staffe. Ed, in effetti, abbiamo assistito – nella sostanza se non nella forma — al più aggressivo attacco politico personale dentro un partito e contro un governo in carica. Il parallelo con il più maltrattato Romano Prodi non regge. Prodi è stato lasciato solo, è stato tradito dai franchi tiratori o da importanti esponenti politici della «sua» parte, ma mai nessuno – tra i sodali di governo — lo ha accusato di essere inadeguato. Dal punto di vista personale ha fatto bene Letta a rivendicare il proprio operato e a chiamare in causa la responsabilità politica di ciascuno: non ha governato da solo e le evidenti difficoltà del suo esecutivo devono essere almeno equamente ripartite. Il maggiore partito di governo non può essere ritenuto esente da colpe.
È anche evidente però che non v’è una possibilità di dialogo tra due mondi non più comunicanti. Letta avrebbe avuto ragione se Renzi avesse potuto accettare l’idea che esiste ancora una responsabilità collettiva, dei partiti e dei governi intesi come istituzioni. Ma è proprio quel che il nuovo leader non vuol più ammettere. È solo un problema di persone, dunque un fatto che riguarda esclusivamente «me» e «te», Matteo e Enrico. Non c’è responsabilità di partito, né il nuovo segretario può essere condizionato dall’apparato, dai ruoli o dagli obblighi che essi comportano. Questi sono tutti limiti della «vecchia» politica, intralci che impediscono il cambiamento.
La crisi di governo si sta svolgendo oltre ogni precedente. Non sembrano neppure più idonee le tradizionali classificazioni che la scienza costituzionalistica – ma poi lo stesso linguaggio politico – ha sin qui utilizzato per valutare la formazione degli esecutivi e il rispetto dei principi costituzionali. Così, si ripete in questi giorni, saremo di fronte ad una «crisi extraparlamentare», Le tipiche crisi «extraparlamentari» sono quelle che – con grande frequenza in passato – scaturivano dalla rottura del patto di coalizione: erano i diversi partiti politici – ovvero alcune componenti di essi — che facevano venir meno il sostegno al governo in carica. La crisi nasceva sì fuori dal parlamento, ma pur sempre in conseguenza di una divergenza tra le diverse forze politiche della maggioranza. Per il governo Letta, invece, tutto s’è consumato entro un organo di partito (la direzione del Pd) che ha sfiduciato il proprio premier. Senza alcuna discussione con le altre componenti del governo. Una sorta di autodafé. Una crisi con qualche assonanza con la tradizione inglese, più che con quella italiana. In Gran Bretagna, in effetti, sono i partiti di governo che decidono le sorti dei loro premier. Sebbene, anche in questo caso, una differenza appare assai rilevante. La Thatcher fu «dimissionata» dal proprio partito a seguito di un congresso perduto dalla Lady di ferro. Ma, appunto, ci fu bisogno di un congresso e la critica riguardò l’indirizzo politico del partito conservatore, non fu una sfiducia alla persona.
Così anche la richiesta di parlamentarizzare questa crisi in questo caso non ha molto senso. Questa crisi non è parlamentarizzabile, perché non ha nulla a che vedere con le logiche virtuose della rappresentanza politica.
Il diagramma della crisi della sinistra in Italia non è stata lineare: ha avuto molti picchi e molte valli. La cronaca di oggi ne registra una, questo articolo, ne racconta un'altra. che fu l'alba delle "larghe intese".
Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2014
Il governo guidato dal professore – ministro della Difesa Nino Andreatta, alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un governicchio, per intenderci – restò in carica per due anni, cinque mesi e quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi, che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la possibilità di un governo Ciampi.
Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato: “Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”.
Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale. Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene, ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con lui il futuro del centrosinistra.
In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”.
Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi, D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che – pur essendosi materializzate solo anni dopo – già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra serie di particolari. A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”.
Alcune delle ragioni per cui è necessario votare per il Consiglio d'Europa, per mandarci qualcuno il quale non solo sappia che cosa è un Parlamento, ma anche «non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno».
La Repubblica, 13 febbraio 2014
Un trattato che potrebbe venire subito bloccato da Strasburgo è quello sull’Unione bancaria. L’idea alla base era valida: impedire che in futuro l’eventuale dissesto di grandi banche private sia di nuovo caricato sul bilancio pubblico dello Stato in cui hanno sede, com’è avvenuto dal 2008 in poi. Ma la bozza varata nel dicembre scorso contiene gravi difetti. L’autorità per accertare se una banca è in difficoltà e avviare al caso una procedura di fallimento o amministrazione controllata (resolution) sarebbe affidata alla sola Bce. Il che da un lato attribuisce alla Bce un potere enorme, dall’altro lascia fuori dall’Unione bancaria il Regno unito, poiché non fa parte dell’Eurozona; il quale non solo è la maggior area finanziaria del continente, con tre banche sulle prime venti (Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland) che totalizzano 7 mila miliardi di dollari di attivi; è pure il Paese in cui nella primavera 2008, quindi prima ancora che in Usa, si verificarono i maggiori disastri bancari. Inoltre il meccanismo di risoluzione è complicatissimo, e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire. Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare - con calma, entro il 2026 - per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi.
Ma il difetto peggiore della bozza dell’Unione bancaria consiste nell’avallare l’idea che la crisi apertasi nel 2008 fosse dovuta a difetti di regolazionedel sistema bancario, piuttosto che a un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito. Sulla strada di questo trattato si profila al momento un grosso ostacolo. Infatti il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha già dichiarato che lo considera un pessimo errore, per cui il Parlamento voterà no. Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni.
Un’altra minaccia pendente sulla testa degli europei è il Ttip (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti). La Ce ha tenuto centinaia di riunioni riservate con gli americani per varare un accordo che offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa, e a quelle europee di fare altrettanto in Usa. Basti pensare che gli Usa non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernentila libertà di associazione sindacale; il diritto a contratti collettivi in tema di salari; la parità di retribuzione uomodonna; il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica.
Se il Ttip fosse approvato, le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni. Le medesime società potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro; una legislazione che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana. Pertanto il Ttip è stato accusato da numerose Ong di essere un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario, e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire.
Contro la minaccia del Ttip si ergono fortunatamente degli oppositori di peso. Uno potrebbe essere di nuovo il Parlamento europeo, visto che questo ha già bocciato nel 2012 un progetto analogo che si chiamava Acta (Accordo commerciale contro la contraffazione). Esso avrebbe esteso grandemente la sorveglianza elettronica non solo sui siti web, ma perfino sui pc dei privati. Un altro oppositore è nientemeno che il Senato Usa, dove il leader della maggioranza demo-cratica, Harry Reid, pochi giorni fa ha respinto la richiesta del presidente Obama di aprire all’esame del Ttip (e di un trattato gemello con l’Asia) una “pista veloce”(fast track).
Ciò comporterà un cospicuo allungamento dei tempi per la discussione del Ttip, piaccia o no a Bruxelles.Poi c’è il Patto fiscale, che da quest’anno obbliga gli stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60 per cento del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1560 miliardi. Il debito si aggira sui 2060 miliardi, pari al 132 per cento del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario (la differenza tra le tasse che lo stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi). Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu? Naturalmente, ecco levarsi il ditino ammonitore degli esperti neoliberali: ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito/Pil. Certo, se il Pil crescesse in termini reali del 4 per cento l’anno, pari a oltre 62 miliardi nel 2014 e poi via a crescere, il Patto fiscale farebbe meno paura. Accade però che le previsioni più ottimistiche non vadano al di là dell’1 per cento o meno per molti anni a venire. Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto.
Le soluzioni potrebbero essere diverse, tra le quali chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito/Pil la colossale spesa per interessi. Ma in fondo il problema non è il suddetto rapporto. È l’idea che a forza di contrarre la spesa pubblica si arrivi a ripagare il debito. Grazie a tale idea perversa, lo stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il Paese in una spirale inarrestabile di deflazione. In altre parole, l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna. Sarebbe un grande tema da sottoporre al più presto a una discussione pubblica, insieme agli altri indicati sopra, e adattissimo per l’agenda del Parlamento europeo; a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno.
E’ inutile offendersi per le parolacce degli altri se ogni volta che mettiamo piede nella politica La Repubblica, 12 febbraio 2014 La Repubblica, 12 febbraio 2014
SIAMO scesi proprio in basso, se un vicesegretario di Stato americano, Victoria Nuland, programma la caduta del governo ucraino con il proprio ambasciatore a Kiev e parlando dell’Unione dice, con l’arroganza d’un capo-mandamento a caccia di zone d’influenza: «Che l’Europa si fotta! » («...and you know, fuck the EU»). Già c’era stata, in ottobre, la storia avvilente di Angela Merkel spiata da Washington, tramite controllo del cellulare. Non un incidente di percorso, se pochi mesi dopo l’Europa è declassata così radicalmente dal lessico della Nuland, perché sospettata di troppa prudenza sul regime change ai propri confini.
Simile degenerazione è tuttavia un utile momento di verità. La risposta meno feconda è quella di chi, sgomento, s’offende per le male parole. Lo scontro come momento di verità, di svolta, obbliga invece gli Europei a guardare se stessi, l’occhio non fisso sull’America ma sulle proprie azioni e omissioni che spiegano tanto precipizio. Li costringe a scoprire l’inconsistenza, la vista corta, il grande inganno d’una presenza il più delle volte fittizia nel mondo, ignara delle sue mutazioni, fatta spesso solo di retorica, al rimorchio di un’America sempre più nazionalista, che non riconosce leggi sopra le proprie.
Il dopo-guerra fredda ci lascia in perenne stato d’impotenza, stupore e dipendenza. In questo mondo che cambia non siamo entrati, né come Stati e ancor meno come Unione che agisce in proprio. Non abbiamo una politica estera nemmeno per quanto riguarda la nostra area di frontiera - l’«estero vicino», come viene chiamato in Russia - né a Est della Polonia né a Sud nel Mediterraneo. E quando vogliamo esser presenti, come in Ucraina, applichiamo senza molto pensarci gli schemi neocoloniali adottati nel dopo guerra fredda. Crediamo di pesare se sappiamo imporre cambi di regime: un’esercitazione quasi fine a se stessa, completamente disinteressata alla storia dei paesi di cui pretendiamo occuparci. Appoggiamo questa o quella forza a noi vicina, e sistematicamente sbagliamo alleati. È già avvenuto in Iraq, Libia, Siria. Alberto Negri ha spiegato bene quest’incapacità congenita ad assumersi il rischio che consiste nel fare politica, dunque nell’imparare dai propri errori: «Un po’ di esercizio di memoria, magari tornando agli sviluppi tragici dei Balcani negli anni ’90, dovrebbe suggerire anche la situazione in Ucraina: l’Europa troppo spesso applaude incondizionatamente le rivolte popolari che hanno un sapore democratico e libertario per poi fare da spettatrice muta e inefficace davanti a sanguinosi sviluppi. Non è forse andata in questo modo anche in Siria?» ( Sole 24 ore, 25-1-14).
L’Ucraina è emblematica perché il modello sembra ripetersi. È lo schema del mondo diviso in mandamenti, appunto: in quartieri da accaparrare, e spartire fra capi-picciotti. Se la Nuland usa il linguaggio del padrino è perché in Ucraina va in cerca di clienti, affiliati. Con l’Europa entra in un rapporto di rivalità mimetica, imitativa: di competizione e dominio. La rivolta in sé degli ucraini l’incuriosisce poco, e per questo viene occultata la presenza nei tumulti di destre estreme e neonaziste (il partito Svoboda e il gruppo Pravi Sektor, «Settore di destra»). Importante è mettere proprie bandierine sul tecnocrate ed ex banchiere centrale Arseniy Yatsenyuk, nel caso americano. Su Vitali Klitschko, ex campione di pugilato e capo di Alleanza Democratica per la Riforma nel caso dell’Unione. Fottiti Europa vuol dire che c’è lotta per la conquista di clientes.
Che un intero paese è visto, dagli uni e dagli altri, come cosa nostra. Questa politica neocoloniale, l’Europa la conduce senza metterci né soldi, né intelligenza politica. Ci mette la propria superiorità morale: cioè parole soltanto, anche se belle. Se la prende con la Russia ignorando due cose. Primo: la russofobia di parte del movimento proeuropeo non è diretta contro Mosca o Putin, ma contro gli ucraini di origine russa (22% della popolazione, soprattutto a Est e in Crimea). Secondo: se il paese è lacerato tra Mosca e Bruxelles è perché l’Unione s’è fatta meno attraente. Per gli ucraini — autoctoni e russi — ridotti alla miseria, non è indifferente il prestito annunciato da Putin (15 miliardi di dollari) né la promessa di forniture di energia a costi bassi.
Siamo di fronte a due colonialismi, con la differenza che quello europeo offre poca sostanza e molta ideologia. In realtà non è l’Unione a entrare nel rapporto di rivalità mimetica con Washington. Chi si è attivata è innanzitutto la Merkel, che ha interessi sia partitici sia geopolitici nel proprio retroterra. Accade così che ogni staterello dell’Unione ha il proprio particulare da difendere, e questo rafforza ancor più la convinzione Usa che l’Europa sia un pupazzo, da «fregare» senza farsi scrupoli.
Sorie di Palazzo che, ove non si conoscevano, si intuivano. Le domande che si aprono sono numerose. la più inquietante è la seguente: se non fossero stati la magistratura o i "complotti", chi avrebbe detronizzato il Caimano?
Il manifesto, 11 febbraio 2014
Sarà anche «fumo, soltanto fumo», come scrive, con toni di fredda irritazione, il presidente Napolitano nella lettera di risposta inviata ieri al Corriere della Sera. Ma è un fumo denso con un effetto forte e diretto sul braccio di ferro in corso per il cambio della guardia a palazzo Chigi. Un fumo che accresce il senso di soffocamento per la condizione di estrema opacità che avvolge i palazzi romani alla vigilia dell’iter parlamentare di una riforma istituzionale e di una nuova legge elettorale.
Nonostante a monte del botta e risposta tra via Solferino e il Quirinale ci sia solo un lungo articolo del giornalista Alan Friedman che ripercorre i passaggi cruciali del 2011, quando Berlusconi fu dimissionato e Monti promosso da professore della Bocconi a senatore a vita e presidente del consiglio, tuttavia aver rievocato quel momento di estrema fibrillazione politica è bastato a far soffiare sul debole fuoco dell’impeachment, acceso dal Movimento5Stelle, anche gli uomini di Forza Italia. In fin dei conti, i berlusconiani sono gli unici a poter rivendicare di aver sostenuto la strumentalità del passaggio di consegne tra il Berlusconi decadente (anche se all’epoca non ancora decaduto) e il Monti astro nascente di un rinascimento italiano evaporato nello spazio di qualche mese. Gli unici anche se poi si acconciarono a votare il governo Monti.
Tutti gli altri attori di quell’eccezionale momento politico-istituzionale, compreso il Corriere che oggi ne rievoca i momenti salienti come si trattasse di un clamoroso scoop, accolsero quella scelta del Capo dello Stato, sul filo della Costituzione e della democrazia parlamentare, come una salutare iniziativa. Additando chi ne stigmatizzava la rottura con la prassi democratica di un passaggio elettorale, come irriducibile guastatore, come incurabile oppositore di un traghettamento indolore al post-berlusconismo.
Solo che adesso, quando siamo a un altro snodo politico-istituzionale, a un’altra manovra di palazzo nel passaggio di consegne tra un Letta uscente e un Renzi entrante, quando assistiamo a un massiccio spostamento di poteri (da Confindustria in giù) contro l’attuale presidente del consiglio, il Quirinale si ritrova arbitro della partita, di nuovo chiamato a evitare la consultazione elettorale per manovrare una virtuale crisi di governo. Con l’aggravante di aver già stressato l’assetto istituzionale con un raddoppio del settennato, e di essere dentro una mischia politica con una procedura di impeachment che comunque potrebbe arrivare a un voto parlamentare. E non si vede quale diavolo potrebbe fornirgli il coperchio giusto per chiudere il vaso di pandora della politica italiana.
«Di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole».
La Repubblica, 5 febbraio 2014
SON molti a turbarsi, e con ragione, per le offese del Movimento 5 Stelle ai rappresentanti dello Stato. Per la misoginia che colpisce il Presidente della Camera, per il «boia» gridato al Capo dello Stato. Per i libri bruciati in immagine di Corrado Augias, accusato di troppa e incongrua violenza critica. Ma forse è venuto il momento di analizzare quel che sta sotto la pentola di tanto caos. Di capire la fiamma che la surriscalda. Grillo infatti non è la causa del caos. Ne è il prodromo, il sintomo. Se non esaminiamo questi sottosuoli resteremo coi nostri sentimenti: di tristezza, di nudità politica. Alla ferita non sapremo dare un nome, continueremo a pescare solo nel passato. Sintomo, ricordiamolo, significa anche caduta, e comunque la segnala.
Di che cosa, di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole. La crisi scoppiata nel 2007 ha acuito questo sisma enormemente. Le democrazie ne sono travolte: specie quelle guastate da corruzione, cleptocrazia, mafie con cui occultamente si patteggia. Proprio in questi giorni un rapporto della Commissione Ue ci accusa. Il costo della nostra corruzione è di 60 miliardi l’anno: 4% del pil, metà del costo della corruzione in Europa. Ma ovunque le democrazie degenerano, come spiega Guido Rossi sul Sole 24 Ore: l’effetto inevitabile delle disuguaglianze legate alla crisi «è la svalutazione del potere legislativo e la riduzione degli Stati a semplici mediatori.(...) La più evidente conclusione rivela l’impotenza di ogni singolo Stato di risolvere una crisi sregolata da un disordine di globalizzazione a mosaico, che porta le singole imprese o gli individui a operare un Jurisdiction Shopping ». È un fenomeno accertabile a occhio nudo. In alcuni paesi - Grecia, Portogallo, Cipro, Irlanda - chi oggi guida le scelte economiche è la trojka (Banca centrale europea, Commissione, Fondo monetario).
Princìpi costituzionali decisivi sono ovunque scavalcati. La Germania riesce a custodirli, ma isolandosi senza splendore. Altri paesi, colpevolizzati, sacrificano costituzioni e parlamenti in omaggio diretto o indiretto alle trojke. Nell’aprile 2013 la Corte costituzionale portoghese respinse quattro misure di austerità che violavano il principio di uguaglianza, e Bruxelles la tacitò. Le stesse elezioni son considerate un irritante. Scandalosa fu giudicata, nell’ottobre 2011, la volontà dell’ex premier greco Papandreou di indire un referendum sulle discipline della trojka. Così in Italia. Scopo primario della nuova legge elettorale è la governabilità, ripetono Pd, Berlusconi, Letta. Ma la governabilità «mortifica gravemente la rappresentanza», ha ricordato domenica Eugenio Scalfari.
In questo quadro si colloca la rivolta di 5 Stelle contro la ghigliottina cui è ricorsa Laura Boldrini. Anche se biecamente insultata, è lecito criticarla per aver decapitato il dibattito sul decreto Imu-Bankitalia. Il taglio operato dalla lama è un ennesimo segno del sisma: i parlamenti sono d’ingombro, e negati. Memorabili le parole di Mario Mauro (ministro della Difesa, destra di Alfano) giorni fa a Porta a Porta: «Questa legge elettorale non è contro i piccoli, ma contro un grande partito che oggi rappresenta l’impostazione tripolare del paese. È nata per far fuori Grillo », dunque l’opposizione.
«Il cortocircuito tra tv e rete è il campo di battaglia in cui si svolge questa guerra tra lobby in lotta per la conquista del consenso. Da una parte la strategia di Grillo e Casaleggio che pianificano la loro macchina da guerra mettendo in rete la provocazione sessista . Dall’altra la televisione che risponde mettendo a disposizione delle “istituzioni” i programmi di prima serata».
Il manifesto, 4 febbraio 2014
In un paese abituato a tradurre il dramma in farsa, la violenta bagarre parlamentare dei 5Stelle, trasformata da Grillo in un linciaggio sessista contro la presidente della Camera, è diventata una ridicola rissa domenicale da talk-show. Tanto più grottesca perché arricchita da una tempestiva dichiarazione del presidente del consiglio, che pure sapevamo occupatissimo negli Emirati per trovare un adeguato acquirente della nostra compagnia di bandiera.
Nonostante i pressanti impegni internazionali, le dure critiche di Confindustria, il disastro del paese sott’acqua, la botta dell’Unione europea contro la devastante corruzione, Enrico Letta non ha voluto farci mancare la sua opinione sullo scontro tra Daria Bignardi, la conduttrice del programma “Le invasioni barbariche” (titolo perfetto), e un ex concorrente del “Grande Fratello” (all’epoca animato proprio da Bignardi) oggi diventato un dipendente dell’ufficio stampa dei gruppi parlamentari pentastellati. «E’ scandaloso - attacca il presidente del consiglio mentre ha accanto l’ignaro Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan - e non posso non commentare le frasi folli di Grillo verso Daria Bignardi e suo marito».
In sintesi è accaduto che la conduttrice abbia iniziato l’intervista al parlamentare grillino, Di Battista, chiedendogli dei trascorsi fascisti del padre. Per tutta risposta, l’ex concorrente del “Grande Fratello” le ha scritto una lettera aperta sul Blog di Grillo chiedendole come si sentirebbe lei se un intervistatore le chiedesse che effetto fa aver sposato il figlio di un assassino (il marito di Bignardi è Luca Sofri, figlio di Adriano). Come si vede siamo finiti nel sottoscala del dibattito politico, dentro quel tafferuglio mediatico che ha avvelenato da gran tempo l’habitat culturale nella disastrosa era berlusconiana. E chi, tra i protagonisti della telenovela, è senza peccato scagli pure la prima pietra.
Il cortocircuito tra tv e rete è il campo di battaglia in cui si svolge questa guerra tra lobby in lotta per la conquista del consenso. Da una parte la strategia di Grillo e Casaleggio che pianificano la loro macchina da guerra mettendo in rete la provocazione sessista per testarne l’effetto, propagarlo in televisione e ritirarlo quando ha avvelenato l’aria. Dall’altra la televisione che risponde mettendo a disposizione delle “istituzioni” i programmi di prima serata (Laura Boldrini a Raitre da Fazio, a La7 prima Di Battista e subito dopo, a mo’ di controcanto, il giornalista-scrittore Corrado Augias, ieri sera chiamato anche a “Ottoemezzo”), per stigmatizzare i grillini come fascisti-eversori. Da una parte un nichilismo parlamentare fatto apposta per non ottenere alcun risultato concreto che smentirebbe l’inaffidabilità del parlamento. Dall’altra i rappresentanti delle ammaccate e traballanti istituzioni che hanno buon gioco a mescolare insieme il vero fascismo (l’incitamento allo stupro), con le forme criticabili, estreme di un’opposizione fasulla.
Lo spettacolo è assicurato, il telecittadino è intrappolato, pronto per il prossimo sondaggio elettorale.
«L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa».
La Repubblica, 4 febbraio 2014
Una democrazia dei due terzi: è questa la rappresentazione della società che proviene dai dati resi noti da Bankitalia. Si tratta di una conferma dello stato della diseguaglianza socio-economica, che non solo non tende a correggersi, ma si riafferma come caratteristica endogena, un male cronico. L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa; anch’essa è sempre meno inclusiva e sempre più preoccupata a rappresentare i molti, non tutti o quanti più è possibile. Avere voce forte è un prerequisito per contare ed essere contati, e le procedure sono sempre più disposte a riflettere questo fatto invece di correggerlo.
È ragionevole tentare un parallelo tra lo squilibrio economico e la fisionomia della democrazia? La domanda è retorica, poiché l’opinione pubblica ha la percezione di questo parallelo, anche se lo stato della ricerca che valga a confermarlo è ancora in fieri. Ci sono tuttavia buoni indizi per tentare una triangolazione tra la crescita della diseguaglianza e della povertà, il restringimento della partecipazione elettorale, e l’inclusività delle regole del gioco. Il massiccio parlare di democrazia, l’ideologia che la vuole come la migliore forma di governo, e la sua solitudine planetaria si accompagnano paradossalmente a una crescita di indifferenza verso la politica e di sfiducia nelle sue attuali procedure di decisione. Rivedere le regole è a un tempo un riflesso e un esito di questa società più diseguale e divisa.
I dati di Bankitalia confermano del resto un trend ventennale che parla di un progressivo peggioramento del reddito familiare medio e di un allargamento della forbice tra chi può (poco o molto) e chi non può (poveri relativi, impoveriti e a rischio di povertà). Il trend è questo: crescita della concentrazione dei redditi e della povertà. I poveri o coloro che non riescono a far fronte ai bisogni minimi sono circa il 14 percento (con punte del 25 percento nel Mezzogiorno); i bilanci delle famiglie sono distribuiti in maniera corrispondente: il 10 percento delle famiglie più ricche possiede quasi la metà della ricchezza netta totale mentre è raddoppiata in quattro anni la fascia di coloro che sono caduti in povertà. Dati che confermano il dubbio: la ricchezza è concentrata nel 64 percento della popolazione; ovvero, per semplificare al rialzo, poco più di due terzi dentro, gli altri fuori.
Benché la correlazione tra diseguaglianza economica e stato della democrazia sia costruita su ipotesi (ma scienziati sociali stanno dovunque lavorando per comprovarla con dati certi), viene spontaneo il dubbio che l’andamento della forbice sociale abbia ricadute più o meno dirette sulla politica. Non è un caso del resto che la partecipazione elettorale abbia subito un declino progressivo negli ultimi due decenni, quasi a seguire la traiettoria dell’eguaglianza economica: alle recenti consultazioni politiche hanno votato circa il 75 percento alla Camera e 70 percento al Senato, cifre che rispecchiano quelle relative al numero delle persone nelle mani delle quali sta la ricchezza. Difficile stabilire una corrispondenza diretta; sufficiente avere squadernata davanti agli occhi la similitudine tra questi due dati.
Dati empirici di alcuni decenni provano che il sistema politico è “usato” o praticato più da chi si posiziona meglio nella società. Ciò non significa, ovviamente, che la democrazia sia “posseduta” da chi la pratica, dagli inclusi o dai meglio rappresentati. Starsene a casa, restare indifferenti alla politica o non avere la propria voce rappresentata non comporta perdere nulla in termini di diritti e uguaglianza legale. Tuttavia si dovrebbe essere allarmati per il deprezzamento della democrazia da parte di una fetta sempre più larga di cittadini, tra l’altro confermato da dati recenti, che parlano di delusi del funzionamento delle istituzioni e di desiderio di governi forti, con pochi esperti e poche sigle partitiche. Forbice tra le classi, forbice tra gli elettori, forbice tra cittadini e politici: una società divisa, con pesi sociali sempre meno proporzionati, e una tendenza alla registrazione ineguale della voce dei cittadini. Una fisionomia sfigurata che mostra il paradosso del trionfo della forma democratica di governo proprio mentre si assiste a un effettivo restringimento del valore inclusivo delle sue istituzioni.
Razzismo, grillismo, populismo, In Italia e altrove. «Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva».
La Repubblica, 4 febbraio 2014
In parallelo, indipendentemente da Beppe Grillo e dai suoi, si moltiplicano le manifestazioni e gli attacchi razzisti contro la ministra Cécile Kyenge. Molti commentatori guardano con preoccupazione a questi fatti, e c’è chi vi scorge un segnale premonitore della rinascita del fascismo. Va detto però che l’Italia non detiene il triste privilegio di questa sindrome inquietante.
Al di là delle Alpi assistiamo a una radicalizzazione delle proteste di piazza. Il 2 febbraio, gli oppositori della legge che autorizza il matrimonio di coppie dello stesso sesso hanno sfilato pacificamente in difesa della famiglia tradizionale; ma già una settimana prima, domenica 26 gennaio, le vie di Parigi avevano assistito a un evento senza precedenti: una manifestazione antigovernativa intitolata “Giorno della collera”, che ha radunato una folla eterogenea di cattolici integralisti, reazionari dichiarati, militanti di estrema destra, amici del comico antisemita Dieudonné, ma anche simpatizzanti dell’ultrasinistra. I manifestanti, non paghi di attaccare il presidente della Repubblica, hanno contestato la sua legittimità, e nella capitale francese, per la prima volta in modo così massiccio dalla fine della seconda guerra mondiale, sono risuonati slogan esplicitamente antisemiti. Di fatto, gli atti e gli insulti razzisti si stanno moltiplicando in ogni direzione: nei confronti di ebrei e musulmani, o contro la ministra della Giustizia Christiane Taubira, francese della Guyana.
Si tratta di eventi diversi che certo non possono essere assimilati tra loro. Lo stesso Movimento 5 Stelle ad esempio presenta una forte ambivalenza ideologica e politica, con un misto di temi della sinistra classica sul piano sociale e di quella postindustriale sulle questioni dell’ambiente e dell’acqua, mentre rivendica una forma diversa di democrazia, benché guidato da un leader quasi onnipotente. E al tempo stesso è combattuto - fenomeno classico per questo tipo di movimenti - tra una funzione di canalizzazione della protesta, legata alla sua stessa accettazione del principio elettorale, e la volontà di rimanere un outsider che infrange le regole, sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di essere considerato un partito come gli altri.
In Francia, i movimenti di piazza sfuggono per il momento a ogni rappresentanza politica. Il partito dell’ex presidente Sarkozy, l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) ha condannato la manifestazione del 26 gennaio, ma è diviso sull’atteggiamento da adottare nei confronti dei difensori intransigenti della famiglia tradizionale. Martine Le Pen, che in vista di conquistare il potere si è impegnata in una strategia di responsabilizzazione, dà prova di grande prudenza a fronte di queste mobilitazioni.
Ma al di là delle differenze, indubbiamente il clima che si è instaurato, in Italia come in Francia, è pesante. Ormai non si tratta più del sempiterno allarme per l’ascesa dei populismi in Europa. Quello che vediamo potrebbe essere l’inizio di una disgregazione generalizzata dei fondamenti stessi delle nostre società democratiche.
Davanti a questo quadro cupo, è il caso di parlare di un ritorno agli anni Venti e Trenta del secolo scorso? A mente fredda, dobbiamo ricordare che la Storia non si ripete, anche se balbetta. Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva. La soluzione non verrà soltanto dalla “società civile”, ritenuta per sua natura buona e virtuosa, benché percorsa da orientamenti contraddittori; dipenderà anche dai responsabili politici, economici, sociali e culturali. Spetta a loro adottare comportamenti esemplari, promulgare riforme di vasta portata nei rispettivi Paesi e in Europa, elaborare un progetto, ricostruire una narrativa mobilitante. Nella speranza che non sia troppo tardi.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Una notizia (dalla stampa locale) e un commento non veneziano scritto per
eddyburg, 3 febbraio 2014. con postilla veneziana
La notizia
ROMA - «Abbiamo preso l'impegno di esplorare l'opportunità di costruire un museo islamico a Venezia nel Canale grande». Lo ha detto il presidente del consiglio Enrico Letta in conferenza stampa da Doha, aggiungendo di aver «discusso di questa opportunità, dobbiamo vedere e fare una valutazione profonda di questo progetto». (la Nuova Venezia, 3 febbraio 2014)
Il commento
Una lettura giornalistica (e come al solito ricca di punti fermi) delle trasformazioni avvenute nell' Italia degli ultimi decenni: appena al di là della superficie ma non priva di elementi d'interesse.
La Repubblica, 3 febbraio 2014, con postilla
Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale. La “cetomedizzazione” ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l’Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la “missione” della Lega. Anche se, alla fine, ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella “società media”, il “pubblico” con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell’ampio e indistinto bacino dei “ceti medi”. Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L’Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva “ceto medio”.
Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l’auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d’altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all’occupazione e all’economia. Tra cui l’innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale. In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L’ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos- Fond. Unipolis). Coloro che si sentono “ceti medi” sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l’Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l’85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che “le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate”.
Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera “ceto medio”. Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) — “patria” della neo-borghesia autonoma — è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%). È il declino dell’Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal “sogno italiano” interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).
Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma. Il declino del ceto medio, in Italia, definisce — e impone — una questione “nazionale” che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.
Postilla.
Pur nella superficialità giornalistica dell’analisi emergono due dati interessanti a proposito di quel coacervo di ceti sociali che si collocano tra i proprietari e gestori del capitale e quelli della loro forza lavoro: il mitico “ceto medio”. Il primo: mentre nei paesi del Terzo mondo il ceto medio aumenta, la società diventa più complessa, cresce la popolazione che si avvicina al benessere, in Italia accade il contrario. Il secondo. Nel nostro paese (e forse nell’insieme del Primo mondo) la previsione marxiana della crescente pauperizzazione dei gruppi sociali intermedi tra le classi dei capitalisi e dei proletari tende ad avverarsi.
Centinaia di attivisti da tutta Europa riscrivono la nuova Carta dei diritti del migrante, fondata sull'uomo non sulle cose. Dal cuore caldo della società un'iniziativa per affrontare un tema - quella delle nuove forme dello sfruttamento dei popoli - oggi cruciale nella guerra mondiale per il destino di noi tutti.
Il manifesto, 2 febbraio 2014
Sull’isola butta vento di libeccio. Le onde schiumano alte e i traghetti sono rimasti al sicuro, attraccati alle banchine di Porto Empedocle. Molti han dovuto abbandonare le speranza di raggiungere l’isola. Eppure sono in tanti, qui, gli attivisti venuti a scrivere la Carta di Lampedusa, per disegnare dal basso una nuova geografia dei diritti. Tanti che, in tutta l’isola, non hanno trovato una sala sufficientemente capiente per contenere tutti i presenti, e hanno dovuto così chiedere lo spazio della sala conferenze interna allao scalo aeroportuale.
Solo venerdì, durante la riunione introduttiva dei lavori, i partecipanti registrati erano oltre trecento. Questo primo incontro ha fornito una importante occasione di confronto con gli abitanti desiderosi di raccontare la vita di chi è costretto a vivere una vita in cui tutto si trasforma in emergenza. L’intervento della sindaca, Giusi Nicolini, di cui raccontiamo a lato, è stato seguito da quelli dei rappresentanti degli imprenditori e di alcune associazioni locali.
«La gente di Lampedusa non ne può più di tutti quei politici che vengono qui a far passerella: promette mari e monti e poi se ne va, abbandonandoci in un mare di problemi — confessa Angelo Mandracchia, portavoce degli imprenditori -. Il vostro approccio però è diverso. Non pretendete di insegnarci come fare accoglienza. Non promettete niente. Criticate queste politiche migratorie che scaricano tutto il problema sulle piccole comunità di frontiera. E noi di Lampedusa siamo i primi a poter dire, come dite voi e proprio perché lo abbiamo constatato sulla nostra pelle, che queste sciagurate politiche migratorie sono inutili, costose e sconfitte in partenza. Non possiamo fare a meno di domandarci ogni giorno, cosa potremmo realizzare con tutti i milioni di euro che spendono per militarizzare l’isola, se fossero invece investiti per una vera accoglienza e per migliorare le condizioni di vita degli abitanti. Lo sa lei che basta qualche settimana di maltempo per lasciarci tutti senza frutta, senza verdura e anche senza gas?».
La straordinaria partecipazione con la quale i lampedusani hanno accolto gli attivisti sbarcati nella loro isola da tutta Italia oltre che da tanti altri Paesi d’Europa e del Nordafrica, è proprio la prima nota da sottolineare. Le iniziali diffidenze sono state superate in tanti incontri nelle scuole, nella sede del Comune e, non da ultimo, ai tavolini dei bar e delle pasticcerie. Un confronto utile per capire come Lampedusa stia vivendo questa sua altalenante e schizofrenica condizione di isola caserma e di isola dell’accoglienza allo stesso tempo. Perché la bella Lampedusa è prima di tutto una caserma a cielo aperto e la presenza militare in città è a dir poco asfissiante. Le strada principale che attraversa il paese, la pedonale via Roma, è continuamente attraversata in senso perpendicolare da camionette e da blindati dei carabinieri. Sui muri, si contano a decine e decine i cartelloni con la scritta «Zona militare. Vietato l’accesso». E poi elicotteri, militari in assetto da guerra, guardie di finanza, polizia di frontiera. Impossibile anche fotografare il «cimitero» dei relitti, quanto resta cioè dei barconi che trasportavano i profughi, che ha subito qualche giorno fa un tentativo di incendio da parte di ignoti. L’area è presidiata da militari che allontanano i curiosi. E se spieghi che sei un giornalista ti rispondono: «Proprio per questo».
Ieri invece è stato il giorno della scrittura della Carta, iniziata in una sala sempre più stretta che non ha smesso di riempirsi per tutta la mattinata e che faticava a contenere tutti. Punto su punto, sono stati discussi e redatti nella loro forma definitiva tutti i capitoli che costituiranno la Carta di Lampedusa e sui quali, vale la pena ricordarlo, è stato svolto nei mesi precedenti un grande lavoro di scrittura collettiva sul web. Una lunga e faticosa giornata di discussioni e di aggiustamenti, tanto per chi forniva il suo contributo alla stesura del documento che dei tanti attivisti impegnati sul fronte della comunicazione per aggiornare blog, siti e social network. Anche perché, le realtà presenti erano davvero tante. Ed è proprio questo il secondo punto da evidenziare. La grande mobilitazione creatasi attorno all’appello lanciato dal Progetto Melting Pot Europa. Associazioni, italiane ma anche europee e nordafricane, laiche e cattoliche, movimenti, sindacati, media indipendenti, singoli cittadini ma anche inviati di amministrazioni comunali , praticamente l’arcipelago antirazzista che ruota intorno ad un Euromediterraneo disegnato sulle «frontiere» della libera circolazione.
«La stesura della Carta è stata un lavoro collettivo eccezionale — ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot -. Il testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica, frutto di uno forzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre, a partire da quelle per la chiusura dei centri di detenzione. Ma anche un periodo in cui affrontare le politiche che l’Europa ha costruito nel Mediterrano. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere
Chi ha chiesto il voto ai cittadini italiani per farsi eleggere in parlamento e in quel contesto rappresentare l’opposizione deve sì rispettare il mandato che ha ricevuto, ma deve poi assumersi la responsabilità di osservare le regole di quella sede istituzionale e condurre la propria battaglia nelle forme consentite dalla democrazia rappresentativa (compreso naturalmente un duro ostruzionismo). Tanto più che proprio il grillismo obbedisce a una maniacale attenzione ai riti e alle forme (internettiane) con cui scegliere gli obiettivi dell’azione parlamentare. Ma a che scopo se poi anziché usare la forza dei numeri e la qualità degli argomenti per creare alleanze e farsi motore di un’opposizione vincente, tutto si riduce (e si svilisce) nella messa in scena di un po’ di gazzarra?
Forzare il gioco fino a trasformare le aule parlamentari in un surrogato della piazza significa impiccarsi alle proprie difficoltà, rivelando tutta l’ambiguità e le contraddizioni di un Movimento che poi, alla resa dei conti, obbedisce alla linea proclamata da Grillo nei comizi: l’unica via è prendere la maggioranza assoluta dei voti e poi governare da soli. Niente di diverso dal ritornello che abbiamo sentito ripetere in tutti questi anni da Berlusconi: datemi i voti e lasciatemi fare. L’eterna pulsione dell’uomo solo al comando. La stessa logica che oggi assume le sembianze del sindaco di Firenze, osannato da giornali e televisioni per il rassicurante piglio decisionista.
Saltare sui banchi del governo, costringere la presidente della camera a chiudere i propri uffici per evitarne l’occupazione, lanciare insulti sessisti contro le deputate del Pd, fino a usare l’arma estrema dell’impeachment verso il Presidente della Repubblica, come si trattasse di scrivere un volantino, tutto questo serve solo a conquistare i cinque minuti di celebrità, offuscando però la sostanza, il merito delle questioni politiche sollevate. Che pure il M5Stelle ha portato nelle aule parlamentari in molte occasioni. Per esempio sul caso Shalabayeva, sull’acquisto degli F35, sulla truffa delle slot-machine, sul salva-Roma, sui casi Cancellieri e De Girolamo, sull’articolo 138 della Costituzione.
Intendiamoci, nessun sacrario è stato violato e chi parla di squadrismo fascistoide gioca allo stesso gioco dei grillini. Senza nemmeno avere tutte le carte in regola per dare lezioni di democrazia, visto che solo l’uscita dal governo delle larghe intese dei falchi berlusconiani ha tolto di mezzo la programmata manomissione della Costituzione.
Così quel che alla fine il ricco spettacolo mediatico mette in evidenza è la difficile agibilità di una battaglia di opposizione sia nelle istituzioni rappresentative che nella società. Anche perché nelle aule del parlamento dei nominati, i partiti, sempre più comitati elettorali, non rappresentano più da molti anni la voce del paese. Non vanno nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei quartieri. E le lotte generose delle associazioni, che invece animano la democrazia di base, incontrano solo il grande muro di gomma delle nomenclature che respingono il conflitto o trattandolo duramente come un affare di ordine pubblico, o facendolo galleggiare in un perenne surplace, in un eterno moto inerziale.
E questa sorda campana suona per tutti, grillini compresi
L’odio degli straricchi e strapotenti è un buon segnale per i governanti che svolgono il loro compito nell’interesse del loro popolo, come diceva ieri Roosvelt e potrebbe dire oggi Obama. Ma nessun plutocrate odierà Enrico Letta o Matteo Renzi.
La Repubblica, 30 gennaio 2014
La crescente ineguaglianza ha costi economici evidenti: salari stagnanti malgrado produttività in aumento, debito che cresce e ci rende più esposti alla crisi finanziaria. Essa comporta però anche notevoli costi in termini sociali e umani: per esempio, è dimostrato che una grande ineguaglianza conduce a un peggioramento della sanità e a una mortalità più alta.
Ma c’è dell’altro. Si è scoperto che l’ineguaglianza estrema crea una categoria di persone distaccate in maniera inquietante dalla realtà, e al tempo stesso conferisce loro grande potere. L’esempio per il quale in questo periodo molti sono in subbuglio è quello dell’investitore miliardario Tom Perkins, socio fondatore di Kleiner Perkins Caufield & Byers, una società di investimento in capitali di rischio. In una lettera che ha indirizzato al direttore del Wall Street Journal, Perkins biasima le critiche ufficiali mosse nei confronti “dell’uno per cento” - i più abbienti della popolazione - , e le paragona alle aggressioni naziste contro gli ebrei, lasciando intendere che saremmo in dirittura d’arrivo per un’altra Notte dei Cristalli.
Si potrebbe affermare che si tratta soltanto di un altro pazzo tra tanti, e potremmo chiederci anche perché il Wall Street Journal pubblichi contenuti di questo genere. In realtà, Perkins non è un caso anomalo. Non è nemmeno il primo titano della finanza a mettere sullo stesso piano dei nazisti i sostenitori dell’imposizione fiscale progressiva. Già nel 2010 Stephen Schwarzman, presidente e direttore esecutivo del Blackstone Group, aveva dichiarato che le proposte volte a eliminare le scappatoie fiscali per i manager di hedge fund e private equity andavano equiparate «all’invasione da parte di Hitler della Polonia nel 1939».
Ci sono anche numerosi ricchi e potenti che sono riusciti a tener fuori Hitler dalle proprie considerazioni e nondimeno hanno ed esprimono con veemenza opinioni politiche ed economiche nelle quali paranoia e megalomania si mescolano in egual misura. So che quanto dico può sembrare esagerato, ma ascoltate tutti i discorsi e leggete gli articoli di opinione di chi si schiera con Wall Street e accusa il presidente Barack Obama - che non ha fatto nient’altro che dire cose scontate e ovvie, cioè che alcuni banchieri hanno agito male - di demonizzare i più abbienti e di accanirsi contro di loro. E guardate anche quanti di coloro che lanciano queste accuse hanno la pretesa, ridicola ed egocentrica, di affermare che proprio i loro sentimenti feriti (e non altre cose, come l’indebitamento delle famiglie e una precipitosa austerità fiscale) sono il principale fattore che frena l’economia.
Ogni gruppo, tuttavia, si trova prima o poi a dover far fronte alle critiche e nelle battaglie politiche finisce sul versante dei perdenti. Questa è la democrazia. La vera domanda da porsi è che cosa accadrà dopo. La gente normale affronta tutto ciò senza battere ciglio e, pur essendo arrabbiata o scontenta dai contrattempi della politica, non va sbraitando di essere perseguitata, non paragona chi la critica ai nazisti, non afferma con insistenza che il mondo ruota attorno ai suoi sentimenti feriti. I ricchi, però, sono diversi da voi e da me.
È vero, in parte sono diversi perché hanno più soldi e il potere che ai soldi sempre si accompagna. Possono circondarsi, e lo fanno fin troppo spesso, di cortigiani che dicono loro quello che vogliono sentirsi dire e che mai e poi mai direbbero loro che sono fatui. Sono abituati a essere trattati con deferenza non soltanto dai sottoposti che assumono, ma anche dai politici che desiderano ardentemente i loro contributi elettorali. Di conseguenza, quando scoprono che con i soldi non si compra tutto né ci si può tutelare da ogni avversità, restano sconvolti. Sospetto anche che gli odierni Padroni dell’Universo a questo punto nutrano perplessità perfino sulla natura del loro successo. Qui non stiamo parlando di capitani d’industria o di persone che fabbricano cose, ma di faccendieri, di persone che comandano a bacchetta e si arricchiscono occultando una parte del loro denaro al fisco. Possono anche vantarsi di creare posti di lavoro, di far girare l’economia, ma creano davvero valore aggiunto? Molti di noi ne dubitano, e così pure, presumo, alcuni dei ricconi stessi, con quella forma di insicurezza che porta a scatenarsi con furia ancora maggiore contro chi muove critiche nei loro confronti.
In ogni caso, queste sono cose che abbiamo già visto. È impossibile leggere sproloqui come quelli di Perkins o di Schwarzman senza che torni in mente il famoso discorso di Franklin D. Roosevelt del 1936 al Madison Square Garden quando, parlando dell’odio di cui era fatto oggetto da parte delle forze del «capitale organizzato», dichiarò: «E io do il benvenuto al loro odio».
Obama, purtroppo, non ha fatto niente di simile a quanto fece Roosevelt per guadagnarsi l’odio di ricchi immeritevoli. Nondimeno, ha fatto molto più di quanto molti progressisti sono disposti a riconoscergli e, come Roosevelt, sia lui sia i progressisti in generale dovrebbero dare il benvenuto a quell’odio, in quanto segno evidente che stanno facendo qualcosa di giusto.
Traduzione di Anna Bissanti © 2014 New York Times News Service
«Un premio pari quasi alla metà dei voti ottenuti viola il principio d’eguaglianza già censurato dalla Corte». Bocceranno anche il Renzuschellum. Giustamente.
La Repubblica, 30 gennaio 2014
La principale anomalia?
«La soglia prevista per beneficiare del premio di maggioranza è troppo lontana dal 50,1% per potersi chiamare così».
Un consiglio ai parlamentari?
La Consulta ha fissato paletti su premio e preferenze. Può scattare un nuovo ricorso?
«Il tetto al 37% è sicuramente in contrasto con la Corte, e mi meraviglia che il segretario del Pd non se ne sia reso conto. Un premio pari a quasi la metà dei voti ottenuti in sede elettorale non fa che reiterare la violazione del principio d’eguaglianza già censurata dalla Corte nel Porcellum. Anche la mancanza delle preferenze solleva gravi problemi di costituzionalità ».
È positivo che un partito non possa superare il 55%?
«Posto che la Carta prevede 630 deputati, il premio di 31 seggi alla coalizione di maggioranza è francamente eccessivo: garantirebbe la governabilità a troppo caro prezzo “per la rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. E cito la Corte».
Le preferenze restano un punto chiave. Averle escluse viola il diritto di voto dei cittadini?
«Certamente sì. La Corte ha bocciato il Porcellum per questo e per l’eccessivo premio di maggioranza. Però, nel referendum del ‘91, gli italiani hanno votato per la preferenza unica, essendo note le irregolarità sottese alle preferenze multiple. Ma tuttora non è assicurata la segretezza del voto nelle circoscrizioni estere, come risultò nel caso Di Girolamo. Né le cose sono cambiate. Quindi, sia in Italia che all’estero, preferenza unica è garanzia della libertà del voto e della sua assoluta segretezza».
Le liste corte non bastano?
«Certo che no».
Le primarie possono sostituire le preferenze?
«Sì. Non si può dimenticare però che i partiti sono associazioni private. Bisognerebbe prima dettare regole sulla democrazia interna. Pertanto, campa cavallo…».
Piccoli partiti. È accettabile lo sbarramento al 4,5%?
«È eccessivo, soprattutto senza il finanziamento pubblico. Che dovrebbe essere legislativamente previsto, ma la cui spettanza va condizionata all’effettiva esistenza di un’organizzazione interna democratica ».
Ecco la legge con cui si preparano a farci votare.Un abito cucito addosso ai partiti della prima e delle seconda repubblica, una camicia di forza per il Parlamento della terza. Passa anche la norma Salva-Lega, altro omaggio a Forza Italia. Ma nel Pd l’opposizione si restringe alla "minoranza della minoranza".Il
manifesto, 30 gennaio 2014
Tre sole modifiche, la legge elettorale rimane sostanzialmente quella sottoscritta da Renzi e Berlusconi nello storico incontro in casa Pd. La prima modifica è quella sulla quale il Cavaliere ha resistito di più, dando il via libera finale solo ieri, a ridosso del pranzo. Sale di due punti percentuali la soglia da raggiungere per chiudere le elezioni al primo turno: con il 37% e oltre (era il 35%) la prima coalizione si aggiudica un 15% omaggio (era il 18%). Altrimenti ballottaggio. La seconda modifica è solo un ritocchino: scende di 0,5 punti percentuali la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati. Prima erano esclusi tutti quelli sotto il 5%, adesso «solo» quelli sotto il 4,5%. Anche secondo l’ultimo sondaggio diffuso dalle televisioni Mediaset, ieri sera, è una modifica inutile. Non c’è nessun partito che sta sotto il 5% che riesce però a raggiungere il 4,5%. Sarebbero comunque esclusi Scelta civica, Sel, Udc, Fratelli d’Italia e Lega. Per la Lega però si farà un’eccezione. Grazie alla terza modifica. Battezzata appunto «salva Lega» perché apre le porte della camera a quei partiti che, pur restando sotto la soglia del 5% prevista per i partiti coalizzati, si presentano in non più di sette regioni (ad esempio quelle del Nord) raggiungendo il 9% in almeno tre.
La doppia manovra sul premio di maggioranza, ispirata dal Quirinale, è il risultato che porta a casa Renzi dopo una settimana di trattative. Adesso c’è una soglia, il 37% appunto, e anche un limite al premio, il 15%. Sono due risposte a due dei problemi individuati dalla Corte Costituzionale nel Porcellum. Peccato però che si tratti di limiti solo formali. Perché nella legge Renzi-Berlusconi è rimasto il «baco» dei partiti fantasma. Cioè tutti quelli che con i loro voti permetteranno alla coalizione di aggiudicarsi il premio, ma non avranno diritto a neanche un deputato perché resteranno sotto lo sbarramento del 5%. Più di 150 deputati saranno così eletti con i voti dei piccoli partiti, ma nelle liste del partito più grande che vincerà le elezioni. Partito (Forza Italia o Pd) che a conti fatti avrà un premio di maggioranza di nuovo potenzialmente illimitato (in linea teorica fino al 49,9%, ma è realistico che si avvicini al 30%). Un meccanismo di «scorporo» dei voti dei partiti rimasti sotto la soglia dal conteggio per il premio di maggioranza era stato proposto da più parti, ma sul punto né Renzi né Berlusconi hanno sentito ragioni. A loro interessava esplicitamente «mettere fine al ricatto dei partiti minori». In particolare a Berlusconi stava a cuore impedire la possibilità che Alfano e Casini tentino la strada di una lista o di una coalizione autonoma. Ed ecco che la soglia, mostruosa, per un partito non coalizzato non è stata nemmeno messa in discussione: resta all’8% (e al 12% per la coalizione). Un anno fa, pur in presenza di un forte astensionismo, l’8% dei voti validi corrispondeva a poco meno di tre milioni di elettori: con il nuovo sistema saranno completamente esclusi dalla rappresentanza parlamentare.
Due le conseguenze immediatamente prevedibili. Nasceranno tanti finti partiti e liste di comodo destinati solo a raccogliere voti per il partito capogruppo, che corre per raggiungere il premio di maggioranza. E gli elettori dei piccoli partiti coalizzati, quelli che non hanno speranze di raggiungere il 4,5%, saranno incentivati a restare a casa se non vogliono regalare i loro voti al partito egemone. L’effetto del riparto nazionale dei voti, poi, regalerà la sorpresa di eleggere con il proprio voto non uno dei candidati (da tre a cinque) che si troveranno sulla propria lista circoscrizionale, ma magari uno sconosciuto a centinaia di chilometri di distanza. Il tutto è stato se possibile peggiorato ieri, quando Berlusconi ha dato via libera alle reintroduzione delle pluricandidature chieste da Alfano. Alla fine saranno sempre i capilista a scegliere chi far entrare in parlamento. E infine è rimasta l’assurda possibilità di candidare alla testa di ogni lista due candidati dello stesso sesso (indovinate quale), prevedendo l’alternanza solo a partire dalla terza posizione.
Renzi e Berlusconi si giocheranno così la loro partita, nel 2015. Il Cavaliere può tentare di vincere al primo turno, ma ha bisogno di tempo per risalire nei sondaggi. Il segretario del Pd esclude qualsiasi alleanza e dunque punta da subito al ballottaggio. E non ha mai messo in discussione la concessione più grande fatta a Berlusconi: la rinuncia alle preferenze, malgrado la sentenza della Consulta dicesse l’opposto, e malgrado il Pd avrebbe tutto da guadagnarci (non il suo nuovo leader che così nominerà i deputati). Le terze forze sono tutte sul piede di guerra, dai grillini che ieri sera hanno occupato anche la prima commissione ai centristi a Sel. Anche il partito di Alfano ha qualche riserva. Ma la minoranza Pd ha già fatto sapere che non creerà problemi a Renzi. Il regolamento concede però il voto segreto in aula, dove la legge, ancora da emendare, arriva oggi pomeriggio. Ma è solo una formalità che serve per accorciare i tempi quando si comincerà a votare, a febbraio. «Rapidissimamente», dice Renzi.
Delocalizzazione Electrolux: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese».
L'Unità, 29 gennaio 2014
«Quando siamo entrate per la prima volta da questi cancelli facevamo 50 pezzi all’ora. Adesso siamo a 94. Il lavoro è aumentato, la paga diminuita. Ora vogliono anche il sangue». Marinella e Sabrina si stringono nei cappotti di pile e sfregano le mani guantate. Fa un bel freddo nel piazzale davanti all’ingresso nord dell’Electrolux di Porcia, in Friuli. Le due operaie, con altri 1.200 colleghi, condividono un paradossale destino: il loro posto di lavoro rischia di sparire perché sono troppo efficienti. La lavatrice che esce da queste linee costa 30 euro di troppo al pezzo. E siccome i ritmi di produzione sono già al massimo, più di 7,5 euro ad elettrodomestico non si riesce a risparmiare. Non rimane altro che mandare a casa le persone.
Nel piano draconiano della multinazionale svedese non sembra esserci posto per quello che, fino a una quindicina di anni fa, era il più grande stabilimento di lavatrici d’Europa. La Fiat del «bianco», che era arrivata a produrre due milioni e mezzo di pezzi all’anno, con marchi come Zanussi, Rex e Zoppas, e che ora, per i dirigenti scandinavi, è schiacciata dai concorrenti asiatici e polacchi. È il vento che soffia dall’Est, quello che fa più male: o vi adeguate ai salari che percepiscono i cugini della Polonia, o andate a casa, è il ragionamento che Electrolux ha presentato ai sindacati. Tagli che possono rendere le buste paga leggere, leggerissime: nell’immediato si tratta di 130-140 euro in meno, ma nel tempo i sindacati calcolano una riduzione fino al 40%. E se su Forlì (800 lavoratori), Susegana (Treviso, 1000 dipendenti), e Solaro (Milano, 900 addetti) si intende ancora investire anche se a condizioni che Fim, Fiom e Uilm bollano come inaccettabili -, alle maestranze di Porcia sembra essere negato anche questo filo di speranza. Fissata anche la deadline: entro fine aprile gli svedesi prenderanno una decisione irrevocabile.
Sciopero, è stata la risposta immediata. E ieri mattina, davanti ai cancelli erano in centinaia. Prima divisi in capannelli, in attesa degli impiegati che entrano più tardi. L’ultima battaglia si combatte tutti uniti. Gente che di sacrifici ne ha sempre fatti, da quando, nel 1984, con la vendita di Zanussi al gruppo scandinavo, «per sei mesi abbiamo dato il nostro stipendio a garanzia dei prestiti delle banche spiega Rodolfo, altro lavoratore di vecchia data -. Alle 10 arrivava il capo a farti firmare il foglio per la banca, e due ore dopo arrivava la busta paga». Adesso, lo spettro del licenziamento, «e poi ci mettono gli opuscoli sull’etica d’impresa», si lamenta un collega. Poi, certo, c’è chi ricorda che, a parte alcune linee, da troppi anni non si facevano investimenti sull’innovazione, nonostante la fabbrica resti fortemente automatizzata. «Come possiamo campare con lo stipendio di un operaio polacco? Tanto vale che ci passino una ciotola di riso per competere coi cinesi», osserva Remo. Considerazione amara, ma che contiene una grande verità: se la competizione è fatta solo sul costo del lavoro, troverai sempre qualcuno più economico di te. Lo dice bene Michela Spera, della Cgil nazionale, aprendo l’assemblea all’aperto: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese». Può rompere un argine che poi non sarebbe facile ricostruire.
“Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta”.
La Repubblica, 29 gennaio 2014
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell’identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.
Eppure gli elementi dell’immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L’ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l’Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi- dittatore ma garantiva più aiuti dell’Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d’energia. Dopodiché tutto s’è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L’insurrezione è senza leader e programmi stabili.
Nel suo torrente nuotano anche gli ultranazionalisti,raccontano i reporter, ma l’aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione Svoboda,nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il «Settore di destra» (Pravi Sektor),che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti delSunday Times lo scrive sullaStampa: per tanti, «l’integrazione nell’Unione europea non è la priorità». Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.
L’inerzia dell’Unione europea risale ai tempi dell’allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell’Unione in modo da frenare i nazionalismi dell’Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l’«estero vicino», si chiama a Mosca: è «estero vicino» anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una «catastrofe storica» la fine dell’impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l’Europa aspetta — per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda — che laprima mossa sia americana.
Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l’Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un’Ucraina ancora erede dell’ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l’era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l’Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L’Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C’è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.
Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l’Europa e dove precisamente comincia l’Est? Cosa vuol dire confine, e l’EsteroVicino?E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l’Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?
Qui è il guaio: l’Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L’allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l’Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuovi Stati, esclusa la Polonia a partire dal 2010, non hanno capito l’Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune, solidale, forte di un’autentica politica estera. L’Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l’Unione è un’area di libero scambio, non una potenza politica.