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Con Civati e Fassina, e altri che stanno ancora nel PD, siamo d'accordo sull'Europa: ma «il pro­blema sorge quando dalle dichia­ra­zioni ideali si passa al com­por­ta­mento pra­tico

». Il manifesto, 15 febbraio 2014
Sostiene Ste­fano Fas­sina (vedi il manifesto dell’11 feb­braio), e con ottime ragioni, che l’eurozona è sulla rotta del Tita­nic: l’iceberg è sem­pre più vicino, l’Unione già è frat­tu­rata in più punti. Ma non nascon­dia­moci che a costruire una nave così mal­fatta, e a imboc­care una rotta così rovi­nosa, c’è pur­troppo la sini­stra clas­sica euro­pea, e in prima fila il Pd. Anche per que­sto abbiamo scelto Ale­xis Tsi­pras come punto di rife­ri­mento e imbar­ca­zione alter­na­tiva. Il suo giu­di­zio su social­de­mo­cra­tici e socia­li­sti euro­pei è molto severo, e per parte mia lo condivido.

A par­tire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata pre­ci­sa­mente quella che ci ha por­tato a sbat­tere con­tro l’iceberg. Non dimen­ti­chiamo poi che Tony Blair ha fatto di tutto per sfa­sciare quel poco di unione che c’era in Europa. Ha lavo­rato con­tro ogni pro­po­sta fede­rale nella Con­ven­zione che nego­ziò il Trat­tato di Lisbona; ha siste­ma­ti­ca­mente difeso la rina­zio­na­liz­za­zione delle poli­ti­che comu­ni­ta­rie; ha con­tri­buito in larga misura al ritorno della vec­chia balance of powers nel con­ti­nente: a quell’equilibrio fra sovra­nità nazio­nali asso­lute che lo pre­ci­pitò nel ‘900 in due guerre mon­diali e con­tro cui si sca­glia, da anni, Jür­gen Haber­mas. È que­sta balance of powers ad aver creato un pre­do­mi­nio tede­sco del tutto esor­bi­tante, non una qual­che male­fica natura della Germania.

La linea Blair è oggi vin­cente nell’Unione, ed è distrut­tiva al mas­simo grado. Lo è anche per quanto riguarda la sto­ria della sini­stra: il patri­mo­nio della sini­stra era ed è ancora la bat­ta­glia per l’uguaglianza sociale e il bene pub­blico, e Blair l’ha pol­ve­riz­zato, dando vita a quella che Marco Revelli chiamò, sin dal 1996, la fune­sta riva­lità fra «Due Destre». È all’elettorato in rivolta con­tro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsi­pras, oltre che a tutti gli euro­pei­sti insu­bor­di­nati che — lo dicono i son­daggi — sono in Ita­lia una grande mag­gio­ranza, pre­sente in varie for­ma­zioni poli­ti­che, in ini­zia­tive e comi­tati cit­ta­dini, in gran parte dell’astensionismo. Per inciso, ricordo qui che Tony Blair resta ancor oggi, nono­stante le deva­sta­zioni che ha lasciato in ere­dità, il modello prin­ci­pale cui Mat­teo Renzi pro­mette di atte­nersi. L’involuzione del Pd, con Renzi, non subi­sce bat­tute d’arresto.

So benis­simo che nel Par­tito demo­cra­tico e anche nel gruppo socia­li­sta euro­peo esi­stono forze con­tra­rie a que­sta rotta. Tra que­ste forze ci sono Giu­seppe Civati e – in alcuni momenti e di nuovo nell’articolo che ha scritto sul mani­fe­sto – anche Fas­sina. Il pro­blema sorge quando dalle dichia­ra­zioni ideali si passa al com­por­ta­mento pra­tico. Il Pd, che dal 2011 è tor­nato al governo – prima coa­liz­zato con Ber­lu­sconi, poi con il Cen­tro destra di Alfano, per pre­pa­rarsi oggi a una nuova Grande o Pic­cola Intesa – non ha esi­tato un secondo ad accet­tare, nel 2012, che il Fiscal Com­pact venisse inse­rito nella Costi­tu­zione. La verità è che non c’era obbligo alcuno di farlo. La Com­mis­sione euro­pea s’era limi­tata a dire che tale solu­zione era «pre­fe­ri­bile», e senza pro­vo­care strappi il governo fran­cese si è rifiu­tato di costi­tu­zio­na­liz­zare il pareg­gio di bilan­cio. Di que­sta schia­vitù volon­ta­ria, ter­ri­bil­mente costosa per gli ita­liani già pie­gati dalla crisi, non scorgo trac­cia nell’articolo di Fas­sina, né tan­to­meno nelle parole di Renzi.

Stesso pec­cato di omis­sione per quanto riguarda la tro­jka, che il gruppo socia­li­sta a Stra­sburgo ha recen­te­mente giu­di­cato ille­gale dal punto di vista comu­ni­ta­rio, e fonte di gravi con­flitti di inte­resse (sia per quanto riguarda la Com­mis­sione che la Bce). Ma cri­ti­che simili giun­gono dav­vero in ritardo – la deci­sione di alzare la voce è stata presa solo nel gen­naio scorso! – a disa­stro ormai avve­nuto.
Ana­logo diva­rio tra parole e com­por­ta­menti reali è ritro­va­bile nella poli­tica fin qui seguita da Mar­tin Schulz, candidato-presidente dei socia­li­sti euro­pei e del Pd. Tra le nume­rose sue incoe­renze, vor­rei qui ram­men­tare il ruolo che ha svolto nel nego­ziato per la Grande Coa­li­zione in Ger­ma­nia, dopo le ele­zioni di set­tem­bre: la parte euro­pea dell’accordo lo ha visto pro­ta­go­ni­sta, nella veste di Pre­si­dente del Par­la­mento di Stra­sburgo, e cia­scuno ha potuto con­sta­tare come il capi­tolo euro­peo riprenda in toto le idee di Angela Mer­kel, com­prese le obie­zioni che fin dall’inizio della crisi il suo governo e la Bun­de­sbank hanno mosso a un mag­giore coin­vol­gi­mento della Banca cen­trale euro­pea, agli euro­bond, a una gestione soli­dale dei debiti pub­blici, al Piano Mar­shall che il par­tito social­de­mo­cra­tico aveva difeso in cam­pa­gna elet­to­rale. Se c’è una cer­tezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coa­li­zione social-conservatrice che dipende la sua aspi­ra­zione a essere eletto Pre­si­dente dell’esecutivo euro­peo, o anche solo Commissario.

Detto que­sto, con­cordo su molti punti di sostanza elen­cati da Fas­sina: occorre scar­di­nare gli equi­li­bri esi­stenti nel Par­la­mento euro­peo, uscire dalle chiu­sure della sini­stra radi­cale imper­so­nata dal Gue, sven­tare un’ennesima Larga Intesa fra socia­li­sti e par­tito popo­lare (ma come giu­sti­fica, a que­sto punto, l’intesa Renzi-Alfano-Berlusconi su governo e riforme isti­tu­zio­nali?). Occorre creare un vasto schie­ra­mento di euro­pei­sti con­tro i difen­sori dello sta­tus quo. Uno schie­ra­mento che potrebbe inclu­dere un Gue in mag­giore sin­to­nia con Tsi­pras, dun­que tra­sfor­mato, i Verdi, i socia­li­sti con­trari al patto con il cen­tro destra, i futuri depu­tati Cin­que Stelle, e anche i libe­rali che for­tu­na­ta­mente hanno indi­cato come candidato-Presidente una per­sona di chiara fama euro­pei­sta, Guy Verhofstadt.

Ma prima, toc­cherà vedere quali saranno le forze che emer­ge­ranno dalla com­pe­ti­zione di mag­gio, e se sarà rea­liz­za­bile una mag­gio­ranza tra­sver­sale in favore di scelte essen­ziali, che rias­su­me­rei così: sì all’euro, ma in un’Unione che abban­doni le poli­ti­che di auste­rità e il Fiscal com­pact, che si dia isti­tu­zioni demo­cra­ti­che e dun­que un Par­la­mento costi­tuente, che fac­cia nascere una Banca cen­trale che sia pre­sta­trice di ultima istanza, non con­ti­nua­mente alla mercé del più influente Isti­tuto di emis­sione nazio­nale, la Bun­de­sbank tede­sca. No all’Europa delle Costi­tu­zioni vio­late e dei cit­ta­dini ina­scol­tati, no alla tro­jka Commissione-Banca centrale-Fondo mone­ta­rio; sì a un bilan­cio euro­peo in cre­scita, da uti­liz­zare per piani di comuni inve­sti­menti in una ripresa eco­no­mica eco­so­ste­ni­bile, sulla scia della pro­po­sta «New Deal 4», che pre­vede un’Iniziativa di cit­ta­dini euro­pei (Ice) sulla base dell’articolo 11 del Trat­tato di Lisbona. Il che vuol dire, con­se­guen­te­mente, sì all’’introduzione di una tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie e sull’emissione di ani­dride car­bo­nica, ma con l’impegno a devol­vere il get­tito al comune bilan­cio comu­ni­ta­rio. E ancora: no a un Trat­tato com­mer­ciale con gli Stati Uniti che metta fra paren­tesi le due tasse (Tobin tax e car­bon tax) e sca­val­chi le norme e gli stan­dard di qua­lità che l’Europa impone al com­mer­cio di pro­dotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di ser­vizi pub­blici come acqua o ener­gia. Sì, infine, ai diritti dei vec­chi e nuovi cit­ta­dini euro­pei – e no a un Medi­ter­ra­neo che già oggi è tomba di decine di migliaia di immigrati.

Il Mani­fe­sto per un’altra Europa sug­ge­rito da Fas­sina si costruirà dopo que­sta com­pe­ti­zione fra idee e com­por­ta­menti radi­cal­mente lon­tani, al momento, gli uni dagli altri. Dif­fi­cile pen­sarlo nel momento in cui assi­stiamo all’ennesimo fra­tri­ci­dio avve­nuto den­tro il Pd. Un fra­tri­ci­dio che ci ricon­se­gna la for­mula delle Grande Intese, e un sem­plice cam­bio di maschera al ver­tice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta). Se da que­sto scon­quasso e da que­sti sot­ter­ra­nei tra­di­menti nascerà a Stra­sburgo un accordo sulle linee pro­spet­tate da Fas­sina, sarà una di quelle «divine sor­prese» di cui pren­de­remo atto, senza smet­tere di vigi­lare sulla coe­renza tra parole e azioni

L’Unità, 15 febbraio 2014


Dopo due mesi di (quasi) silenzio dopole primarie dell’8 dicembre, Pippo Civati sembra deciso a tornare a far rumore.Il successo di pubblico del suo no al governo Renzi giovedì in direzione (ilsuo intervento ha ottenuto più visualizzazioni di quello del segretario suYoudem) lo ha spinto ad alzare i toni. E così ieri sul blog è apparso un postdal titolo: «Quasi quasi fondo il Nuovo Centro Sinistra. Recupero una dozzinadi senatori. Poi vado da Renzi e gli dico il contrario di quello che propongonoFormigoni e Sacconi. Nuovo Centro Destra contro Nuovo Centro Sinistra». Segueuna lista di temi di sinistra, dalle nozze gay alla legalizzazione delle drogheleggere. «E vediamo come va a finire...».

Sembra una provocazione, una dellebattute che hanno reso celebre il deputato di Monza. Ma non lo è. È un’idea, ancorain embrione. «Non è una battuta, perché sicuramente noi il protagonismo dentroe fuori il Parlamento lo vorremmo. Quando ci saranno le trattative per questopatto per il governo ci va Renzi e Alfano o c’è anche una soggettività del Pddiversa? C'è ancora la sinistra in questo Paese?», ha detto Civati a Genova,durante un tour nel Nord a sostegno dei suoi candidati alle segreterieregionali. E ancora: «È tutto il giorno che incontro persone che mi chiedono diuscire dal Pd». «Scissione? Più che altro si stanno scindendo gli elettori», haaggiunto Civati. «Noi governiamo il Paese con una maggioranza che nonrappresenta nemmeno il 50% degli elettori. È una cosa enorme. Pensiamo diandare avanti così con un governo non di emergenza ma politico fino alla finedella legislatura? Al congresso del Pd nessuno aveva fatto una proposta diquesto tipo».

Civati si schiera a difesa di Letta,definisce «ingeneroso» il trattamento ricevuto dal premier uscente, una«manovra da vecchia politica». E spiega: «Il problema non è cambiare Letta conRenzi. Il problema è fare un governo di legislatura con Alfano. E le ragionidella sinistra devono pesare almeno quanto quelle di Formigoni...».

I numeridel Senato fanno riflettere. Con Civati si sono schieratialle primarie 7 senatori. Tra questi LauraPuppato, che in direzione ha votato con la maggioranza. Ne restano sei, tra cuiFelice Casson, Walter Tocci e Corradino Mineo. Considerati i margini ristrettidella maggioranza, anche una piccola pattuglia di dissidenti potrebbe renderela vita del nuovo governo complicata. Soprattutto se non arriverà nessunsoccorso da Sel e dal M5S. «Con Ncd non siamo d’accordo su quasi nulla», spiegaCasson. «E in questi mesi gli scontri in Senato sono stati continui. Se ilnuovo governo pensa di appiattirsi sull’asse con Ncd sarà un disastro». «Siamogente responsabile, non abbiamo nessuna intenzione di fare la guerra al Pd e aRenzi», aggiunge l’ex pm. «Ma daremo battaglia sui contenuti, come abbiamofatto su F35 e voto di scambio politico mafioso».

Mineo rincara: «Un governo sotto ilricatto di Alfano non conviene neppure a Renzi, forse fa comodo anche a lui chesi coaguli un’area di sinistra che consenta al premier di riequilibrare il pesodi Ncd. Un’area a cui potrebbero guardare anche i senatori di Sel e alcunidissidenti del M5S». «Noi non vogliamo rompere o sabotare», aggiunge Mineo. «Maserve una mossa per evitare una maggioranza fotocopia di quella di Letta, chesarebbe la fine del Pd».

Parole chiare, conclusione ineccepibile: «Chi vota Renzi in Par­la­mento vota espli­ci­ta­mente per la deca­denza della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in que­sto paese: cioè vota con­tro gli orga­ni­smi stessi in cui vive ed opera» L'unico lumicino è fuori dal PD.

Il manifesto, 15 febbraio 2014.

Ho pas­sato buona parte della mia vita (poli­tica e civile, s’intende) a com­bat­tere le scle­rosi con­ser­va­trici dell’assetto politico-istituzionale ita­liano, la sua gene­tica pro­pen­sione a per­cor­rere e riper­cor­rere senza fine le vec­chie abi­tu­dini e i vec­chi vizi. Dopo il mio ultimo arti­colo (“Nuovi, ma diversi”, il manifesto, 16 gen­naio) sono stato attac­cato da destra e da sini­stra (si fa per dire) come difen­sore intran­si­gente dello sta­tus quo, sordo alle esi­genze del nuovo che avanza. Ancora una volta era tutto il con­tra­rio: mi sono sfor­zato, come sem­pre, di mostrare di quale vec­chiume gron­dasse, die­tro le super­fi­ciali appa­renze, il nuovo che avanza.

Non mi sarei aspet­tato però, — lo dico con grande sin­ce­rità, — che nel giro di pochi giorni il nuovo che avanza sve­lasse così chia­ra­mente il grumo di ottusa bru­ta­lità e di ata­vica ripe­ti­ti­vità, che esso nasconde. Mi rife­ri­sco ovvia­mente a quanto è acca­duto in seno alla (sedi­cente) Dire­zione del Pd, e nei suoi din­torni. Sem­pre più provo l’impressione che inter­preti e com­men­ta­tori della vicenda poli­tica ita­liana, ottusi (in que­sto caso uso il ter­mine in senso stret­ta­mente tec­nico) dal loro lungo mestiere, abbiano perso il senso delle cose che accadono.

Dun­que:
La Dire­zione di un Par­tito rove­scia a lar­ghis­sima mag­gio­ranza un Pre­si­dente del Con­si­glio che fa parte di quella Dire­zione ed è espo­nente auto­re­vole e rispet­tato di quel Partito;
Di tale deci­sione non viene data nes­suna (non intendo dire: nes­suna cre­di­bile, sia poli­tica, sia sociale, sia eco­no­mica, sia per­so­nale; dico nes­suna) spie­ga­zione, che non sia l’energizzazione vita­li­stica del processo;
Non c’è pro­gramma, non c’è pro­po­sta, non c’è dire­zione di mar­cia, non c’è (una pos­si­bile e nuova) meto­do­lo­gia del con­fronto e dell’agire poli­tico, non c’è indi­ca­zione di una nuova maggioranza;
L’energizzazione vita­li­stica del pro­cesso viene per­ciò affi­data inte­ra­mente alle pre­sunte (molto pre­sunte) capa­cità spet­ta­co­lari di un pro­ta­go­ni­sta, Mat­teo Renzi.

Ossia un poli­tico di cui in realtà non si sa nulla, né capa­cità ammi­ni­stra­tive nazio­nali né rela­zioni inter­na­zio­nali né cul­tura poli­tica, ma solo la “smi­su­rata ambi­zione” di rag­giun­gere il “suo” risul­tato il prima pos­si­bile, rove­sciando il tavolo, offrendo i sodali, igno­rando le regole, esi­bendo atti­tu­dini cabarettistiche.

Ma c’è di più, c’è qual­cosa che rende il tutto - in sè grot­te­sco e addi­rit­tura inve­ro­si­mile - peri­co­loso e da guar­dare con il mas­simo dell’attenzione. In un regime democratico-rappresentativo il potere, anche quello per­so­nale, si forma lungo i raggi di una filiera che pre­senta, a ogni suo snodo, un’occasione di veri­fica e, nel caso, di pro­mo­zione. Sap­piamo benis­simo che que­sto modello, — che può anche non esserci pia­ciuto molto in pas­sato, ma di cui finora non s’è tro­vato uno migliore, — è già stato, ed è tut­tora, almeno in Ita­lia, logo­rato da mol­te­plici motivi di deca­denza. Ber­lu­sconi e il ber­lu­sco­ni­smo, Grillo e il gril­li­smo, ne costi­tui­scono gli esempi più clamorosi.

Renzi e il ren­zi­smo costi­tui­scono l’improvviso e improv­vi­sato ade­gua­mento del cen­tro­si­ni­stra e della sini­stra a tale model­liz­za­zione politico-istituzionale non democratico-rappresentativa (forse potremmo dire, da que­sto momento in poi, più fran­ca­mente antidemocratico-rappresentativa). Ma que­sto già lo sape­vamo, e l’abbiamo per giunta già detto. Cos’è suc­cesso allora per stu­pirci e pre­oc­cu­parci di più, molto di più? E’ suc­cesso che lo schema non democratico-rappresentativo viene ora tra­sfe­rito, senza sforzo appa­rente, dal livello di una forza politico-partitica, sia pure di prim’ordine, a quello del governo del paese. Ossia: anche il governo del paese viene sot­tratto al mec­ca­ni­smo delle veri­fi­che e delle pro­mo­zioni con­nesse tra­di­zio­nal­mente con il sistema democratico-rappresentativo, e dele­gato a una pro­ble­ma­tica, anzi oscura con­sul­ta­zione extra-democratico-rappresentativa.

E cioè: l’unica fonte (chiedo a tutti di riflet­tere su que­sta spe­ci­fi­ca­zione che spiega tutto: l’unica, l’unica, l’unica) del potere ren­ziano è il risul­tato delle pri­ma­rie dell’8 dicem­bre 2013, in cui ha scon­fitto i due can­di­dati alter­na­tivi, Cuperlo e Civati. Io con­te­sto (posso farlo tran­quil­la­mente: l’ho fatto da sem­pre) il valore legit­ti­mante, in senso democratico-rappresentativo, delle cosid­dette pri­ma­rie. Le pri­ma­rie pos­sono avere un valore orien­ta­tivo per la scelta di un can­di­dato di coa­li­zione in pre­senza di una prova elet­to­rale. Sono un’aberrazione ine­nar­ra­bile quando ne deri­vano la carica di Segre­ta­rio di un Par­tito, e il pra­tico, con­se­guente impos­ses­sa­mento di que­sto (mag­gio­ranza asso­luta in dire­zione, ecc. ecc.). Sarebbe come se gli organi diri­genti della Shell o dell’Eni fos­sero scelti dai pas­santi che si tro­vano a tran­si­tare in un giorno casual­mente scelto nella strada sotto le loro sedi. Se tale pro­ce­dura, per giunta, è stata messa in sta­tuto, affa­racci loro, e cioè degli stu­pidi uomini della Shell o dell’Eni, o di quel par­tito di cui stiamo par­lando. Ma se il mec­ca­ni­smo viene tra­sfe­rito di peso alla for­ma­zione di un Governo, che dovrebbe rap­pre­sen­tarci tutti, non sono più affa­racci loro, sono affari nostri. Che c’entriamo noi con l’arroganza e insieme con la stu­pi­dità del gruppo diri­gente del Pd, pas­sato e presente?

Di con­se­guenza io con­te­sto dura­mente anche la leg­git­ti­mità di un Governo che sulla base di code­ste pro­ce­dure fondi la genesi della sua costi­tu­zione come for­ma­zione di potere nella gestione delle cose ita­liane, cioè le nostre. E’ la prima volta che accade nella sto­ria dell’Italia repub­bli­cana. Per­fino il Cava­liere è andato più volte al Governo con la forza del voto. Quando non ne aveva abba­stanza, li com­prava. Ma al dun­que, com­prati o no, sem­pre voti in Par­la­mento erano. I voti su cui Renzi fonda la pro­pria pre­tesa di andare ipso facto al Governo sono quelli della massa che poli­ti­ca­mente non si esprime, resta a guar­dare, è capace sol­tanto di quel gesto ple­bi­sci­ta­rio che affida a qual­cuno, il Pre­de­sti­nato, le pro­prie sorti. Disprezzo per la “demo­cra­zia diretta”, per la “demo­cra­zia dal basso”? Figu­ria­moci. Disprezzo sol­tanto per tutto ciò che delega ad altri, senza sfor­zarsi di emer­gere, il pro­prio destino. L’Italia, ahimè, ha una solida tra­di­zione in que­sto campo, e la coa­zione a ripe­tere, in tempi, obiet­ti­va­mente, di crisi interna del sistema democratico-rappresentativo, torna a riemergere.

In attesa di orga­niz­zare una rispo­sta al di fuori della cer­chia attuale del potere, — qual­cosa come sap­piamo si è già comin­ciato a fare, — l’ultima trin­cea resta per ora il Par­la­mento, que­sto Par­la­mento. Dio mio. Una buona discus­sione sull’illegittimità politico-istituzionale e costi­tu­zio­nale delle pro­ce­dure fin qui seguite ser­vi­rebbe comun­que in tale sede a defi­nire, pre­ci­sare e con­fi­nare nei suoi limiti que­sta ine­dita, ed enne­sima, scia­gura ita­liana. Chi vota Renzi in Par­la­mento vota espli­ci­ta­mente per la deca­denza della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in que­sto paese: cioè vota con­tro gli orga­ni­smi stessi in cui vive ed opera.

Né s’invochino, per favore, come ormai si fa da decenni, le sorti poli­ti­che, eco­no­mi­che ed euro­pee della povera Ita­lia. L’ultimo a poterlo fare con qual­che leg­git­ti­mità, almeno for­male, è stato Enrico Letta. Tolto di mezzo Letta, l’Italia sta altrove.

Chi come me non ha smesso di pra­ti­care sonde che con­sen­tono di rile­vare rea­zioni nel corpo vivo del paese, coglie tutt’intorno una stu­pe­fa­zione pro­fonda, un senso di smar­ri­mento senza pari. Forse il (mode­sto) Con­du­ca­tor sta per­dendo la sua ener­gia vita­li­stica pro­prio nel momento in cui essa sem­bre­rebbe por­tarlo al ver­tice. Que­sto paese, cui si vor­rebbe negare tutto, si sta indi­gnando. Non è poco.

«Solo Civati (in sedici hanno votato con­tro) non si è unito al coro. Denun­ciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi defi­ni­ti­va­mente nella palude. Dove solo un ani­male può soprav­vi­vere: il caimano» . Il

manifesto, 14 febbraio 2014

Per pro­fu­mare l’odore acre della mano­vra di palazzo, per dis­si­mu­lare la bru­ta­lità di uno scon­tro fra­tri­cida, per coprire la gra­vità di una crisi extra­par­la­men­tare decisa da un solo par­tito che smen­ti­sce le pri­ma­rie e si fa beffe del dram­ma­tico distacco tra eletti e elet­tori, nel con­clave del Pd la parte del leone l’hanno fatta gli incol­pe­voli poeti. Il segretario-sindaco-futuro pre­mier ne ha tirati in ballo due o tre, per far­gli dire che ambi­zione smi­su­rata e corag­gio sono due virtù, pro­prio quelle che lo spin­gono a cogliere “l’attimo fug­gente” per disar­cio­nare Enrico Letta dalla pol­trona di palazzo Chigi.
L’atto finale è durato un paio d’ore e pochi minuti dopo la vota­zione di un ordine del giorno della dire­zione che gli dava il ben­ser­vito, il pre­si­dente del con­si­glio ha annun­ciato la for­ma­liz­za­zione delle pro­prie dimis­sioni, oggi, nelle mani del Capo dello Stato.

Una mag­gio­ranza che un tempo si sarebbe defi­nita bul­gara ha applau­dito la scelta di una crisi a pre­scin­dere (anche Totò era un poeta ma non ha avuto l’onore della cita­zione). A pre­scin­dere per­ché non una parola è stata spesa per i con­te­nuti di que­sto governo ren­ziano (e tan­to­meno del pro­gramma offerto da Letta alla discus­sione). A pre­scin­dere per­ché niente è stato detto sullo schie­ra­mento alter­na­tivo che dovrebbe sor­reg­gere e giu­sti­fi­care que­sto cam­bio della guar­dia con incor­po­rata garan­zia di blin­da­tura fino al 2018. Tanto che la sini­stra dei Cuperlo e dei Fas­sina ha messo agli atti che se la discon­ti­nuità riven­di­cata da Renzi per la sua ascesa al comando è quella ascol­tata da alcuni inter­venti in dire­zione, «siamo più a destra» del governo che oggi se ne va. Ma solo Civati (in sedici hanno votato con­tro[v. nota in calce]) non si è unito al coro. Denun­ciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi defi­ni­ti­va­mente nella palude. Dove solo un ani­male può soprav­vi­vere: il caimano.

In realtà l’unica vera discon­ti­nuità del governo ren­ziano sta nella sot­to­li­nea­tura della natura non più tec­nica, emer­gen­ziale, ma poli­tica e di legi­sla­tura dell’operazione in corso. In altre parole non più un “governo del pre­si­dente”, con Napo­li­tano ispi­ra­tore della sua mis­sione e di alcuni ministri-chiave, come è avve­nuto per i governi Monti e Letta. Pro­prio l’ipotesi più invisa ai diver­sa­mente ber­lu­sco­niani che ieri, con Alfano, hanno scar­tato que­sta ipo­tesi («accet­te­remo solo un governo d’emergenza»), e chie­sto, come anche Ber­lu­sconi, di par­la­men­ta­riz­zare la crisi, met­tendo sul tavolo la carta delle ele­zioni anticipate.

Per il con­dan­nato resu­sci­tato da Renzi al ruolo di padre costi­tuente delle riforme si apre una fase poli­tica pro­met­tente. Poter spa­rare non su un tra­bal­lante gover­nic­chio di pic­cole intese ma sul ber­sa­glio grosso. Oltre­tutto avendo dalla parte del manico quella mag­gio­ranza per le riforme di cui è sem­pre stato un esperto affossatore.

Dieci mesi dopo la disa­strosa scelta delle lar­ghe, poi pic­cole, intese la fase che si apre è figlia natu­rale di quel pec­cato ori­gi­nale, ne porta addosso tutti i segni, a comin­ciare dal modo, dalle forme in cui si è pro­dotta la crisi. In con­fronto, la repub­blica delle banane è un faro di democrazia

Nota
Ecco chi ha detto no al documento Renzi Pippo Civati, Enzo Martines, Elly Schlein, Paolo Cosseddu, Marco Sarracino, Marina Terragni, Rita Castellani, Carla Rocca, Luca Pastorino, Andrea Ranieri, Maria Carmela Lanzetta, Samuele Agostini, Felice Casson, Annapaola Cova, Brignone Beatrice, Mirko Tutino

Era facile prevedere ciò che è avvenuto. Il casino italiano (epicentro nel PD), esploso il 13 febbraio era già chiaro a chi, come Dominijanni, sa vedere i ciechi prima che finiscano nel burrone.

Idadominijanni.com, 13 febbraio 2014

Una crisi drammatica, una gestione ridicola, scrive Lucia Annunziata sull’Huffington Post commentando «il clima da ragazzi del muretto, sbracato nei modi, nello stile e nella sostanza» che ci tocca respirare. Sullo stile da ragazzi del muretto, argomento tutt’altro che secondario, torno dopo. Prima, due punti sul dramma e sulla farsa.

Primo punto. Salvo improbabili colpi di scena alla direzione del Pd di oggi, fra pochi giorni avremo il terzo presidente del consiglio nominato dal Colle (e stavolta largamente autonominato), senza alcun rapporto, né diretto né indiretto, con il pronunciamento elettorale. Siccome però le cose ripetendosi peggiorano, questa terza volta è peggiore, se possibile, delle due precedenti: non c’è l’emergenza dello spread con cui fu coperta l’operazione Monti, né l’impossibilità di costruire una maggioranza coerente con il voto con cui fu coperta l’operazione Letta. C’è solo, rivendicato da Napolitano a Lisbona, il rifiuto fobico di un ritorno alle urne, unito all’arrogante fretta di Matteo Renzo di insediarsi a Palazzo Chigi, fretta a sua volta accompagnata da un consumismo della leaderhip che ha raggiunto, nel Pd, livelli patologici.

Poco da eccepire se fossimo realmente, come tutt’ora siamo formalmente, in una Repubblica parlamentare, dove i governi li formano le Camere (e tuttavia anche in questo caso tornare alle urne sarebbe a questo punto necessario, essendosi il quadro politico profondamente modificato nell’ultimo anno, con la decadenza di Berlusconi da un lato e l’avvento di Renzi dall’altro, ed avendoci la Consulta liberati dal Porcellum). Ma noi siamo da più di vent’anni in una terra di nessuno, dove la Costituzione formale è continuamente sfidata, contraddetta e delegittimata da un senso comune, di destra e di sinistra, che i governi li vuole eletti, o indicati, dal popolo. Di più: la stessa crisi di questi giorni è figlia di questo senso comune, la leadership di Renzi essendosi costruita precisamente sulla promessa di non varcare la soglia di palazzo Chigi senza mandato popolare, e sull’impegno di varare una legge elettorale che garantisca governi stabili, duraturi e legittimati dal voto. Il paradosso dunque è il seguente: si forma con una manovra di palazzo un governo, il terzo, col mandato di varare le mitiche ‘riforme’ contro le manovre di palazzo (e magari incapace, come i precedenti, di vararle). Un imbroglio che sfugge al principio di non contraddizione.

Secondo punto. Quando il principio di non contraddizione in politica salta, è perché operano altri principi che rispondono ad altre logiche, come quello dei rapporti di forza allo stato duro e puro. Il passaggio dirimente e illuminante di questa crisi resta, da questo punto di vista, quello del cosiddetto scoop della premiata coppia Corriere della Sera- Financial Times. Inconsistente giornalisticamente – si sapeva ed era già stato scritto tutto o quasi già nell’estate del 2011, quando il Corsera peraltro taceva e approvava -, inequivocabile politicamente: una richiesta perentoria di cambio del cavallo spedita dall’establishment che conta a Napolitano, e da Napolitano prontamente raccolta in poche ore con la convocazione accelerata di Renzi al Quirinale. Di nuovo ha ragione Lucia Annunziata: il combinato disposto fra questa traiettoria dei cosiddetti ”poteri forti” – non da oggi privi peraltro di un qualsivoglia progetto sul paese – e il personalismo mediatico degli uomini politici in campo – ma in primis di Matteo Renzi, dico io – accentuano in modo dirompente la deriva oligarchica del sistema-Italia. Oltre a gettare finalmente la luce giusta sull’ideologia della rottamazione: quando il gioco si fa duro, non è ai e alle quarantenni acqua e sapone che lo si lascia in mano. Riportare la gestione della crisi nell’alveo e nelle forme istituzionali è a questo punto il minimo che si possa fare, e bene fa Enrico Letta, con tutti i limiti che gli si possono e devono imputare, ad esigerlo.

Vengo infine allo stile ”ragazzi del muretto”. Sulle cui più patenti manifestazioni – irresponsabilità, leggerezza, senso di onnipotenza, personalismi e maleducazione – non merita neanche insistere. Vale la pena piuttosto di soffermarsi sull’ennesimo capolavoro politico-simbolico che il Pd è riuscito a realizzare ribaltando, anche su questo piano, il vantaggio del rinnovamento in cui si trovava rispetto al partito padronale di Berlusconi in un disastroso svantaggio, complice il coro mediatico affabulato dalla rottamazione di cui sopra, dalla loquace intraprendenza del sindaco di Firenze e dalle garanzie rivoluzionarie delle smart blu. Adesso però non dovrebbe sfuggire a nessuno quanto sia più rassicurante per il grande pubblico la transizione generazionale soft di cui Berlusconi si atteggia a garante rispetto allo spettacolo che la new generation del Pd sta offrendo di sé, superando di molti punti quella precedente già affollata di campioni nella specialità del fratricidio. C’è voluto del talento nel consegnare questo vantaggio al leader decadente e decaduto, amorale e illegale, cinico e gaudente del bunga-bunga. E non è solo un talento maschile. Siamo state tutte adolescenti e tutte sappiamo che sul muretto i ragazzi esagerano finché le ragazze non dicono basta. Ma sul muretto del centrosinistra italiano non ce n’è una sola a dirlo, tutte impegnate come sono o a fare diligentemente da coro o a contare meticolosamente di quante parolacce sono vittime.

La Repubblica, 14 febbraio 2014
ROMA — «Èstato Renzi a rilegittimare Berlusconi... e adesso Napolitano non può dire dino». La pensa così Lorenza Carlassare, la costituzionalista di Padova che si èschierata anche contro la legge elettorale.
Hasentito la notizia che sarà Berlusconi a guidare la delegazione di Forza Italiaal Quirinale?
«Certoche l’ho sentita, e se non fosse un momento tragico sarebbe divertente».

E perchémai?
«Certamentenon è consueto che le consultazioni con il capo dello Stato vengano guidate dauna persona che, a parte i processi in corso,ha subito una condanna definitivaper un reato infamante come la frode fiscale, e che è anche decaduto dasenatore. Tutto è abbastanza inconsueto. Il modo stesso in cui si è fattocadere il governo Letta, del tutto fuori dal Parlamento, quasi che quest’organosia ormai un inutile orpello così come gli elettori, lascia esterrefatti».

Le leggiconsentono a Berlusconi di salire sul Colle perché la sua interdizione daipubblici uffici non è ancora definitiva.
«Dipendese guardiamo alla forma o alla sostanza. È sempre una questione di sensibilità.Certamente, in tal modo, mi sembra che si metta in imbarazzo il Quirinale».

Il capodello Stato potrebbe rifiutare l’incontro con un condannato definitivo?
«È unasituazione talmente inconsueta che non saprei rispondere. L’imbarazzo cresce difronte al fatto che si tratta della persona che guida il terzo partito italianoe, in termini di coalizione, quella che dai sondaggi risulta al primo posto».

La mossadi Berlusconi crea un grave imbarazzo al Colle?
«A mepare proprio di sì, anche perché già la situazione politica e le modalità chehanno determinato la caduta di questo governo già di per sé sono anomale.Quindi ad imbarazzo si aggiunge imbarazzo».

Com’èpossibile che Berlusconi sia decaduto da senatore, ma possa guidare un partito?
«Questofa parte dell’anomalia italiana. Non bisogna dimenticare che la sua potenzialeemarginazione è stata risolta proprio dall’attuale segretario del Pd Renzi, checon lui si è messo d’accordo per la riforma elettorale, portandolo addiritturanella sede del partito. Semprefuori dal Parlamento e tra loro due, hannoconcordato un testo da presentare nella sede istituzionale come un fattocompiuto, visto che i margini di modificabilità sono ristrettissimi».

Se Renziha accettato Berlusconi come interlocutore politico privilegiato questo metteNapolitano di fronte al fatto compiuto di non poter rifiutare di riceverlo?
«Temo chela risposta debba essere affermativa».

Però c’èchi trova anomalo che al Colle salga anche Grillo, visto che anche lui è uncondannato definitivo.

«Anomalia per anomalia... ».

Un'analisi terribilmente acuta d'una inoppugnabile realtà terribile. Ma colpevole è chi non resiste e si oppone il manifesto, 15 febbraio 2014

Stiamo assi­stendo alla presa del potere da parte di una nuova, gio­vane e dina­mica classe diri­gente libera dai legami del pas­sato, senza vin­coli d’appartenenza; anzi impe­gnata a can­cel­lare ogni rela­zione di soli­da­rietà ideo­lo­gica e a ridurre gli spazi di discus­sione anche all’interno delle pro­prie for­ma­zioni poli­ti­che. L’unico rap­porto che resi­dua è quello per­so­nale. Tra i par­titi, ma anche all’interno dello stesso par­tito, quel che conta è l’identificazione con il lea­der: non si è più «demo­cra­tici», ma solo «ren­ziani» (oppure «antirenziani»).

Per­sino una per­sona mite come Enrico Letta alla fine ha perso le staffe. Ed, in effetti, abbiamo assi­stito – nella sostanza se non nella forma — al più aggres­sivo attacco poli­tico per­so­nale den­tro un par­tito e con­tro un governo in carica. Il paral­lelo con il più mal­trat­tato Romano Prodi non regge. Prodi è stato lasciato solo, è stato tra­dito dai fran­chi tira­tori o da impor­tanti espo­nenti poli­tici della «sua» parte, ma mai nes­suno – tra i sodali di governo — lo ha accu­sato di essere ina­de­guato. Dal punto di vista per­so­nale ha fatto bene Letta a riven­di­care il pro­prio ope­rato e a chia­mare in causa la respon­sa­bi­lità poli­tica di cia­scuno: non ha gover­nato da solo e le evi­denti dif­fi­coltà del suo ese­cu­tivo devono essere almeno equa­mente ripar­tite. Il mag­giore par­tito di governo non può essere rite­nuto esente da colpe.

È anche evi­dente però che non v’è una pos­si­bi­lità di dia­logo tra due mondi non più comu­ni­canti. Letta avrebbe avuto ragione se Renzi avesse potuto accet­tare l’idea che esi­ste ancora una respon­sa­bi­lità col­let­tiva, dei par­titi e dei governi intesi come isti­tu­zioni. Ma è pro­prio quel che il nuovo lea­der non vuol più ammet­tere. È solo un pro­blema di per­sone, dun­que un fatto che riguarda esclu­si­va­mente «me» e «te», Mat­teo e Enrico. Non c’è respon­sa­bi­lità di par­tito, né il nuovo segre­ta­rio può essere con­di­zio­nato dall’apparato, dai ruoli o dagli obbli­ghi che essi com­por­tano. Que­sti sono tutti limiti della «vec­chia» poli­tica, intralci che impe­di­scono il cambiamento.

La crisi di governo si sta svol­gendo oltre ogni pre­ce­dente. Non sem­brano nep­pure più ido­nee le tra­di­zio­nali clas­si­fi­ca­zioni che la scienza costi­tu­zio­na­li­stica – ma poi lo stesso lin­guag­gio poli­tico – ha sin qui uti­liz­zato per valu­tare la for­ma­zione degli ese­cu­tivi e il rispetto dei prin­cipi costi­tu­zio­nali. Così, si ripete in que­sti giorni, saremo di fronte ad una «crisi extra­par­la­men­tare», Le tipi­che crisi «extra­par­la­men­tari» sono quelle che – con grande fre­quenza in pas­sato – sca­tu­ri­vano dalla rot­tura del patto di coa­li­zione: erano i diversi par­titi poli­tici – ovvero alcune com­po­nenti di essi — che face­vano venir meno il soste­gno al governo in carica. La crisi nasceva sì fuori dal par­la­mento, ma pur sem­pre in con­se­guenza di una diver­genza tra le diverse forze poli­ti­che della mag­gio­ranza. Per il governo Letta, invece, tutto s’è con­su­mato entro un organo di par­tito (la dire­zione del Pd) che ha sfi­du­ciato il pro­prio pre­mier. Senza alcuna discus­sione con le altre com­po­nenti del governo. Una sorta di auto­dafé. Una crisi con qual­che asso­nanza con la tra­di­zione inglese, più che con quella ita­liana. In Gran Bre­ta­gna, in effetti, sono i par­titi di governo che deci­dono le sorti dei loro pre­mier. Seb­bene, anche in que­sto caso, una dif­fe­renza appare assai rile­vante. La That­cher fu «dimis­sio­nata» dal pro­prio par­tito a seguito di un con­gresso per­duto dalla Lady di ferro. Ma, appunto, ci fu biso­gno di un con­gresso e la cri­tica riguardò l’indirizzo poli­tico del par­tito con­ser­va­tore, non fu una sfi­du­cia alla persona.

Così anche la richie­sta di par­la­men­ta­riz­zare que­sta crisi in que­sto caso non ha molto senso. Que­sta crisi non è par­la­men­ta­riz­za­bile, per­ché non ha nulla a che vedere con le logi­che vir­tuose della rap­pre­sen­tanza politica.

Il diagramma della crisi della sinistra in Italia non è stata lineare: ha avuto molti picchi e molte valli. La cronaca di oggi ne registra una, questo articolo, ne racconta un'altra. che fu l'alba delle "larghe intese".

Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2014

Al professor Romano Prodi, come sempre, bastano poche parole. “Le cose non andarono così e non capisco neppure perché lo abbia fatto”. Si riferisce alla lunghissima lettera al Corriere della Sera nella quale Massimo D’Alema ricostruisce gli ultimi giorni del primo governo Prodi, quando l’allora segretario dei Democratici di sinistra prese il posto a Palazzo Chigi dell’unico esponente del centrosinistra che sia mai riuscito a sconfiggere Silvio Berlusconi.

Il governo guidato dal professore – ministro della Difesa Nino Andreatta, alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un governicchio, per intenderci – restò in carica per due anni, cinque mesi e quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi, che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la possibilità di un governo Ciampi.

Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato: “Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”.

Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale. Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene, ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con lui il futuro del centrosinistra.

In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”.

Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi, D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che – pur essendosi materializzate solo anni dopo – già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra serie di particolari. A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”.

Alcune delle ragioni per cui è necessario votare per il Consiglio d'Europa, per mandarci qualcuno il quale non solo sappia che cosa è un Parlamento, ma anche «non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno».

La Repubblica, 13 febbraio 2014

Sulle condizioni di vita dei cittadini europei, già afflitti dalle politiche di austerità, incombono altri rischi presenti in alcuni trattati che la Ue si accinge a varare o sono appena entrati in vigore. Riguardano i salari pubblici e privati; i diritti del lavoro; le politiche sociali; lo stato della sanità pubblica; il sistema previdenziale; la sicurezza alimentare; infine la possibilità di una crisi economica ancora più grave dell’attuale. Le prossime elezioni europee offrono una importante occasione sia per cominciare finalmente a discutere in pubblico di tali rischi, sia per fermare un paio dei trattati ancora non sottoscritti perché su di essi il Parlamento europeo ha diritto di veto.

Un trattato che potrebbe venire subito bloccato da Strasburgo è quello sull’Unione bancaria. L’idea alla base era valida: impedire che in futuro l’eventuale dissesto di grandi banche private sia di nuovo caricato sul bilancio pubblico dello Stato in cui hanno sede, com’è avvenuto dal 2008 in poi. Ma la bozza varata nel dicembre scorso contiene gravi difetti. L’autorità per accertare se una banca è in difficoltà e avviare al caso una procedura di fallimento o amministrazione controllata (resolution) sarebbe affidata alla sola Bce. Il che da un lato attribuisce alla Bce un potere enorme, dall’altro lascia fuori dall’Unione bancaria il Regno unito, poiché non fa parte dell’Eurozona; il quale non solo è la maggior area finanziaria del continente, con tre banche sulle prime venti (Hsbc, Barclays e Royal Bank of Scotland) che totalizzano 7 mila miliardi di dollari di attivi; è pure il Paese in cui nella primavera 2008, quindi prima ancora che in Usa, si verificarono i maggiori disastri bancari. Inoltre il meccanismo di risoluzione è complicatissimo, e può richiedere mesi per venire attivato, mentre una banca può entrare di crisi in un paio di giorni, e in altrettanti deve essere salvata o lasciata fallire. Il capitale che le banche stesse dovrebbero accantonare - con calma, entro il 2026 - per salvare le consorelle in crisi è di 55 miliardi: somma ridicola, se si pensa che il solo crollo della Hypo Real Estate nel 2009 costò al governo tedesco 142 miliardi.

Ma il difetto peggiore della bozza dell’Unione bancaria consiste nell’avallare l’idea che la crisi apertasi nel 2008 fosse dovuta a difetti di regolazionedel sistema bancario, piuttosto che a un modello d’affari fondato sulla creazione esponenziale di debito. Sulla strada di questo trattato si profila al momento un grosso ostacolo. Infatti il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, ha già dichiarato che lo considera un pessimo errore, per cui il Parlamento voterà no. Ma di certo il suo compatriota-avversario Schäuble insisterà per ripresentarlo dopo le elezioni.

Un’altra minaccia pendente sulla testa degli europei è il Ttip (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti). La Ce ha tenuto centinaia di riunioni riservate con gli americani per varare un accordo che offre alle corporations Usa mano libera nella Ue, scavalcando qualsiasi legge che ostacoli le loro attività in Europa, e a quelle europee di fare altrettanto in Usa. Basti pensare che gli Usa non hanno mai sottoscritto le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro concernentila libertà di associazione sindacale; il diritto a contratti collettivi in tema di salari; la parità di retribuzione uomodonna; il divieto di discriminazione sul lavoro a causa di differenze di etnia, religione, genere, opinione politica.

Se il Ttip fosse approvato, le migliaia di sussidiarie americane operanti in Europa potrebbero rifiutarsi di applicare tali convenzioni. Le medesime società potrebbero anche ignorare la legislazione europea in tema di ambiente, controlli sui generi alimentari, divieto di usare ogm, sostanze nocive negli ambienti di lavoro; una legislazione che nell’insieme è assai più avanzata di quella americana. Pertanto il Ttip è stato accusato da numerose Ong di essere un progetto politico inteso ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario, e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire.

Contro la minaccia del Ttip si ergono fortunatamente degli oppositori di peso. Uno potrebbe essere di nuovo il Parlamento europeo, visto che questo ha già bocciato nel 2012 un progetto analogo che si chiamava Acta (Accordo commerciale contro la contraffazione). Esso avrebbe esteso grandemente la sorveglianza elettronica non solo sui siti web, ma perfino sui pc dei privati. Un altro oppositore è nientemeno che il Senato Usa, dove il leader della maggioranza demo-cratica, Harry Reid, pochi giorni fa ha respinto la richiesta del presidente Obama di aprire all’esame del Ttip (e di un trattato gemello con l’Asia) una “pista veloce”(fast track).

Ciò comporterà un cospicuo allungamento dei tempi per la discussione del Ttip, piaccia o no a Bruxelles.Poi c’è il Patto fiscale, che da quest’anno obbliga gli stati contraenti a ridurre il debito pubblico al 60 per cento del Pil o meno, al ritmo di un ventesimo l’anno. Il Pil italiano 2013 è stato di 1560 miliardi. Il debito si aggira sui 2060 miliardi, pari al 132 per cento del Pil. Gli interessi sul debito superano i 90 miliardi l’anno, con tendenza a crescere, di cui 80 pagati con l’avanzo primario (la differenza tra le tasse che lo stato incassa e quello che spende in stipendi, beni e servizi). Per scendere alla quota richiesta dal Patto, che varrebbe 940 miliardi, bisognerebbe quindi recuperare 1.120 miliardi. Divisi per venti, fanno 56 miliardi l’anno. Dove li prende tanti soldi, per quasi una generazione, uno stato che ha incontrato gravi difficoltà al fine di trovare due o tre miliardi una tantum per eliminare l’Imu? Naturalmente, ecco levarsi il ditino ammonitore degli esperti neoliberali: ciò che conta non è il valore assoluto del debito da scalare, bensì il rapporto debito/Pil. Certo, se il Pil crescesse in termini reali del 4 per cento l’anno, pari a oltre 62 miliardi nel 2014 e poi via a crescere, il Patto fiscale farebbe meno paura. Accade però che le previsioni più ottimistiche non vadano al di là dell’1 per cento o meno per molti anni a venire. Con questo tasso di crescita, risulta impossibile far fronte all’impegno assunto.

Le soluzioni potrebbero essere diverse, tra le quali chiedere alla Ue di ridiscutere il trattato escludendo dal rapporto debito/Pil la colossale spesa per interessi. Ma in fondo il problema non è il suddetto rapporto. È l’idea che a forza di contrarre la spesa pubblica si arrivi a ripagare il debito. Grazie a tale idea perversa, lo stato italiano sottrae all’economia 80 miliardi l’anno, a causa di un iugulatorio avanzo primario usato solo per pagare gli interessi (e non tutti), facendo così precipitare il Paese in una spirale inarrestabile di deflazione. In altre parole, l’austerità imposta da Bruxelles sta soffocando l’economia italiana, dopo la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna. Sarebbe un grande tema da sottoporre al più presto a una discussione pubblica, insieme agli altri indicati sopra, e adattissimo per l’agenda del Parlamento europeo; a condizione, ovviamente, di mandarci qualcuno il quale non pensi che l’austerità e il resto siano una cura mentre sono il malanno.

E’ inutile offendersi per le parolacce degli altri se ogni volta che mettiamo piede nella politica La Repubblica, 12 febbraio 2014 La Repubblica, 12 febbraio 2014
SIAMO scesi proprio in basso, se un vicesegretario di Stato americano, Victoria Nuland, programma la caduta del governo ucraino con il proprio ambasciatore a Kiev e parlando dell’Unione dice, con l’arroganza d’un capo-mandamento a caccia di zone d’influenza: «Che l’Europa si fotta! » («...and you know, fuck the EU»). Già c’era stata, in ottobre, la storia avvilente di Angela Merkel spiata da Washington, tramite controllo del cellulare. Non un incidente di percorso, se pochi mesi dopo l’Europa è declassata così radicalmente dal lessico della Nuland, perché sospettata di troppa prudenza sul regime change ai propri confini.

Simile degenerazione è tuttavia un utile momento di verità. La risposta meno feconda è quella di chi, sgomento, s’offende per le male parole. Lo scontro come momento di verità, di svolta, obbliga invece gli Europei a guardare se stessi, l’occhio non fisso sull’America ma sulle proprie azioni e omissioni che spiegano tanto precipizio. Li costringe a scoprire l’inconsistenza, la vista corta, il grande inganno d’una presenza il più delle volte fittizia nel mondo, ignara delle sue mutazioni, fatta spesso solo di retorica, al rimorchio di un’America sempre più nazionalista, che non riconosce leggi sopra le proprie.

Il dopo-guerra fredda ci lascia in perenne stato d’impotenza, stupore e dipendenza. In questo mondo che cambia non siamo entrati, né come Stati e ancor meno come Unione che agisce in proprio. Non abbiamo una politica estera nemmeno per quanto riguarda la nostra area di frontiera - l’«estero vicino», come viene chiamato in Russia - né a Est della Polonia né a Sud nel Mediterraneo. E quando vogliamo esser presenti, come in Ucraina, applichiamo senza molto pensarci gli schemi neocoloniali adottati nel dopo guerra fredda. Crediamo di pesare se sappiamo imporre cambi di regime: un’esercitazione quasi fine a se stessa, completamente disinteressata alla storia dei paesi di cui pretendiamo occuparci. Appoggiamo questa o quella forza a noi vicina, e sistematicamente sbagliamo alleati. È già avvenuto in Iraq, Libia, Siria. Alberto Negri ha spiegato bene quest’incapacità congenita ad assumersi il rischio che consiste nel fare politica, dunque nell’imparare dai propri errori: «Un po’ di esercizio di memoria, magari tornando agli sviluppi tragici dei Balcani negli anni ’90, dovrebbe suggerire anche la situazione in Ucraina: l’Europa troppo spesso applaude incondizionatamente le rivolte popolari che hanno un sapore democratico e libertario per poi fare da spettatrice muta e inefficace davanti a sanguinosi sviluppi. Non è forse andata in questo modo anche in Siria?» ( Sole 24 ore, 25-1-14).

L’Ucraina è emblematica perché il modello sembra ripetersi. È lo schema del mondo diviso in mandamenti, appunto: in quartieri da accaparrare, e spartire fra capi-picciotti. Se la Nuland usa il linguaggio del padrino è perché in Ucraina va in cerca di clienti, affiliati. Con l’Europa entra in un rapporto di rivalità mimetica, imitativa: di competizione e dominio. La rivolta in sé degli ucraini l’incuriosisce poco, e per questo viene occultata la presenza nei tumulti di destre estreme e neonaziste (il partito Svoboda e il gruppo Pravi Sektor, «Settore di destra»). Importante è mettere proprie bandierine sul tecnocrate ed ex banchiere centrale Arseniy Yatsenyuk, nel caso americano. Su Vitali Klitschko, ex campione di pugilato e capo di Alleanza Democratica per la Riforma nel caso dell’Unione. Fottiti Europa vuol dire che c’è lotta per la conquista di clientes.

Che un intero paese è visto, dagli uni e dagli altri, come cosa nostra. Questa politica neocoloniale, l’Europa la conduce senza metterci né soldi, né intelligenza politica. Ci mette la propria superiorità morale: cioè parole soltanto, anche se belle. Se la prende con la Russia ignorando due cose. Primo: la russofobia di parte del movimento proeuropeo non è diretta contro Mosca o Putin, ma contro gli ucraini di origine russa (22% della popolazione, soprattutto a Est e in Crimea). Secondo: se il paese è lacerato tra Mosca e Bruxelles è perché l’Unione s’è fatta meno attraente. Per gli ucraini — autoctoni e russi — ridotti alla miseria, non è indifferente il prestito annunciato da Putin (15 miliardi di dollari) né la promessa di forniture di energia a costi bassi.

Siamo di fronte a due colonialismi, con la differenza che quello europeo offre poca sostanza e molta ideologia. In realtà non è l’Unione a entrare nel rapporto di rivalità mimetica con Washington. Chi si è attivata è innanzitutto la Merkel, che ha interessi sia partitici sia geopolitici nel proprio retroterra. Accade così che ogni staterello dell’Unione ha il proprio particulare da difendere, e questo rafforza ancor più la convinzione Usa che l’Europa sia un pupazzo, da «fregare» senza farsi scrupoli.

Nel nostro piccolo, noi italiani non siamo da meno e addirittura diventiamo esemplari, come dimostra il caso dei marò processati in India. Sono due anni che Roma insiste per farli tornare a casa: è quasi l’unica nostra attività di politica estera, e anche in questo caso manca qualsiasi strategia politica, che tenga conto del mondo in mutazione e dell’importanza che ha oggi l’India. La giustizia indiana - è vero - sembra messa peggio della nostra. L’accusa di terrorismo è brandita con fini interni. Ma le responsabilità vanno chiarite, e anche qui offendersi e sgomentarsi è vano. Anche qui manca una valutazione fredda della realtà indiana, e di quel che è successo nei mari del Kerala.
Solo nascoste in rete - nel sito Wu Ming - troviamo vere documentazioni sulla vicenda dei marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre: due militari utilizzati dal nazionalismo indiano, ma che hanno pur sempre causato la morte, il 15 febbraio 2012, di due pescatori indiani inermi (hanno anch’essi un nome: Valentine Jalastine e Ajish Binki). È sperabile che la giustizia indiana non li condanni - se colpevoli - a pene pesanti (sulla condanna a morte esiste un veto dell’Unione) ma non ha senso continuare a chiamarli eroi nazionali. È comprensibile la convinzione di Napolitano, anche se da verificare, secondo cui l’affare è stato «gestito in modi contraddittori e sconcertanti» dall’India: l’accusa di terrorismo, se mantenuta, non tiene.
È assai meno comprensibile la promessa che ha fatto telefonicamente ai due fucilieri: «Tornerete (in Italia) con onore». Perché con onore, prima di conoscere il verdetto indiano e le motivazioni di un’eventuale condanna? Può darsi che i marò rientrino in Italia. Non è detto che vi tornino con onore, fino a che non abbiamo prove decisive su quanto accaduto il giorno dell’uccisione dei pescatori indiani. È quello che ha scritto Ferdinando Camon su La Stampa (Perché i marò non hanno un video?, 5 febbraio): i marinai colpiti dai fucilieri sostengono che gli è piovuta addosso una gragnuola di colpi senza preavviso, l’emissario italiano Staffan de Mistura ha ammesso in una tv indiana che «i nostri hanno sparato in acqua, ma purtroppo alcuni colpi sono andati nella direzione sbagliata». Fondatamente Camon sostiene che avrebbero dovuto sparare in aria, cioè a vuoto, se si voleva solo preavvertire: «I colpi orizzontali non sai mai dove finiscono». Non esistono infine video probanti, che certifichino la tesi dell’innocenza. Citiamo il caso dei marò per dire che la politica estera sta divenendo in Europa questione di visibilità partitiche. Giustamente il giornalista Matteo Miavaldi, che vive in Bengala, è caporedattore del sito China Files e ha indagato per Wu Ming i dettagli della storia dei marò, ricorda che le destre di La Russa o Gasparri usano l’affare per propagare risentimenti nazionalisti. In queste condizioni non stupiamoci più di tanto, se d’un tratto s’alza in piedi un vicesegretario di Stato americano per scaraventarci addosso parole oscene.
Sorie di Palazzo che, ove non si conoscevano, si intuivano. Le domande che si aprono sono numerose. la più inquietante è la seguente: se non fossero stati la magistratura o i "complotti", chi avrebbe detronizzato il Caimano?

Il manifesto, 11 febbraio 2014
Sarà anche «fumo, sol­tanto fumo», come scrive, con toni di fredda irri­ta­zione, il pre­si­dente Napo­li­tano nella let­tera di rispo­sta inviata ieri al Cor­riere della Sera. Ma è un fumo denso con un effetto forte e diretto sul brac­cio di ferro in corso per il cam­bio della guar­dia a palazzo Chigi. Un fumo che accre­sce il senso di sof­fo­ca­mento per la con­di­zione di estrema opa­cità che avvolge i palazzi romani alla vigi­lia dell’iter par­la­men­tare di una riforma isti­tu­zio­nale e di una nuova legge elettorale.

Nono­stante a monte del botta e rispo­sta tra via Sol­fe­rino e il Qui­ri­nale ci sia solo un lungo arti­colo del gior­na­li­sta Alan Fried­man che riper­corre i pas­saggi cru­ciali del 2011, quando Ber­lu­sconi fu dimis­sio­nato e Monti pro­mosso da pro­fes­sore della Boc­coni a sena­tore a vita e pre­si­dente del con­si­glio, tut­ta­via aver rie­vo­cato quel momento di estrema fibril­la­zione poli­tica è bastato a far sof­fiare sul debole fuoco dell’impea­ch­ment, acceso dal Movimento5Stelle, anche gli uomini di Forza Ita­lia. In fin dei conti, i ber­lu­sco­niani sono gli unici a poter riven­di­care di aver soste­nuto la stru­men­ta­lità del pas­sag­gio di con­se­gne tra il Ber­lu­sconi deca­dente (anche se all’epoca non ancora deca­duto) e il Monti astro nascente di un rina­sci­mento ita­liano eva­po­rato nello spa­zio di qual­che mese. Gli unici anche se poi si accon­cia­rono a votare il governo Monti.

Tutti gli altri attori di quell’eccezionale momento politico-istituzionale, com­preso il Cor­riere che oggi ne rie­voca i momenti salienti come si trat­tasse di un cla­mo­roso scoop, accol­sero quella scelta del Capo dello Stato, sul filo della Costi­tu­zione e della demo­cra­zia par­la­men­tare, come una salu­tare ini­zia­tiva. Addi­tando chi ne stig­ma­tiz­zava la rot­tura con la prassi demo­cra­tica di un pas­sag­gio elet­to­rale, come irri­du­ci­bile gua­sta­tore, come incu­ra­bile oppo­si­tore di un tra­ghet­ta­mento indo­lore al post-berlusconismo.

Solo che adesso, quando siamo a un altro snodo politico-istituzionale, a un’altra mano­vra di palazzo nel pas­sag­gio di con­se­gne tra un Letta uscente e un Renzi entrante, quando assi­stiamo a un mas­sic­cio spo­sta­mento di poteri (da Con­fin­du­stria in giù) con­tro l’attuale pre­si­dente del con­si­glio, il Qui­ri­nale si ritrova arbi­tro della par­tita, di nuovo chia­mato a evi­tare la con­sul­ta­zione elet­to­rale per mano­vrare una vir­tuale crisi di governo. Con l’aggravante di aver già stres­sato l’assetto isti­tu­zio­nale con un rad­dop­pio del set­ten­nato, e di essere den­tro una mischia poli­tica con una pro­ce­dura di impea­ch­ment che comun­que potrebbe arri­vare a un voto par­la­men­tare. E non si vede quale dia­volo potrebbe for­nir­gli il coper­chio giu­sto per chiu­dere il vaso di pan­dora della poli­tica italiana.

«Di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole».

La Repubblica, 5 febbraio 2014
SON molti a turbarsi, e con ragione, per le offese del Movimento 5 Stelle ai rappresentanti dello Stato. Per la misoginia che colpisce il Presidente della Camera, per il «boia» gridato al Capo dello Stato. Per i libri bruciati in immagine di Corrado Augias, accusato di troppa e incongrua violenza critica. Ma forse è venuto il momento di analizzare quel che sta sotto la pentola di tanto caos. Di capire la fiamma che la surriscalda. Grillo infatti non è la causa del caos. Ne è il prodromo, il sintomo. Se non esaminiamo questi sottosuoli resteremo coi nostri sentimenti: di tristezza, di nudità politica. Alla ferita non sapremo dare un nome, continueremo a pescare solo nel passato. Sintomo, ricordiamolo, significa anche caduta, e comunque la segnala.

Di che cosa, di quale caduta Grillo è sintomo? Di un immane dislocamento tellurico nelle democrazie odierne, che sposta i poteri dagli Stati verso entità incontrollate. Non solo verso l’Europa ancora flebile, ma verso la finanza-mondo e mercati senza regole. La crisi scoppiata nel 2007 ha acuito questo sisma enormemente. Le democrazie ne sono travolte: specie quelle guastate da corruzione, cleptocrazia, mafie con cui occultamente si patteggia. Proprio in questi giorni un rapporto della Commissione Ue ci accusa. Il costo della nostra corruzione è di 60 miliardi l’anno: 4% del pil, metà del costo della corruzione in Europa. Ma ovunque le democrazie degenerano, come spiega Guido Rossi sul Sole 24 Ore: l’effetto inevitabile delle disuguaglianze legate alla crisi «è la svalutazione del potere legislativo e la riduzione degli Stati a semplici mediatori.(...) La più evidente conclusione rivela l’impotenza di ogni singolo Stato di risolvere una crisi sregolata da un disordine di globalizzazione a mosaico, che porta le singole imprese o gli individui a operare un Jurisdiction Shopping ». È un fenomeno accertabile a occhio nudo. In alcuni paesi - Grecia, Portogallo, Cipro, Irlanda - chi oggi guida le scelte economiche è la trojka (Banca centrale europea, Commissione, Fondo monetario).

Princìpi costituzionali decisivi sono ovunque scavalcati. La Germania riesce a custodirli, ma isolandosi senza splendore. Altri paesi, colpevolizzati, sacrificano costituzioni e parlamenti in omaggio diretto o indiretto alle trojke. Nell’aprile 2013 la Corte costituzionale portoghese respinse quattro misure di austerità che violavano il principio di uguaglianza, e Bruxelles la tacitò. Le stesse elezioni son considerate un irritante. Scandalosa fu giudicata, nell’ottobre 2011, la volontà dell’ex premier greco Papandreou di indire un referendum sulle discipline della trojka. Così in Italia. Scopo primario della nuova legge elettorale è la governabilità, ripetono Pd, Berlusconi, Letta. Ma la governabilità «mortifica gravemente la rappresentanza», ha ricordato domenica Eugenio Scalfari.

In questo quadro si colloca la rivolta di 5 Stelle contro la ghigliottina cui è ricorsa Laura Boldrini. Anche se biecamente insultata, è lecito criticarla per aver decapitato il dibattito sul decreto Imu-Bankitalia. Il taglio operato dalla lama è un ennesimo segno del sisma: i parlamenti sono d’ingombro, e negati. Memorabili le parole di Mario Mauro (ministro della Difesa, destra di Alfano) giorni fa a Porta a Porta: «Questa legge elettorale non è contro i piccoli, ma contro un grande partito che oggi rappresenta l’impostazione tripolare del paese. È nata per far fuori Grillo », dunque l’opposizione.

Per questo è così importante che al caos risponda una politica non solo sentimentale, e non solo nazionale. L’alternativa è il predominio di interessi settoriali, anche se globali, radicalmente estranei alla nozione, cruciale in Europa, di bene pubblico. Il continente s’è unito nel dopoguerra proprio per creare uno spazio che consentisse agli Stati di salvare i loro patrimoni democratici, e anzi di potenziarli. Europa federale vuol dire assunzione di regole, stato di diritto. Il commercio, la finanza transnazionale, la moneta: impossibile governarli se l’Europa non ha una politica estera, e una democrazia piena. Altrimenti non è unione ma comitato d’affari e di lobby. Che questa sia la posta in gioco è dimostrato dal negoziato euro-americano sul nuovo Trattato commerciale transatlantico (Ttip): discusso segretamente da ristrette cerchie di esperti della Commissione Ue e del Ministero del Commercio Usa, senza partecipazione democratica. Stupisce che il Movimento di Grillo, sensibile da anni alla globalizzazione, dedichi al tema poca energia. Anch’egli pare concentrarsi sui sintomi della crisi, più che sulla crisi. Eppure, i pericoli del Trattato sono molteplici: quel che si cerca, è la completa libertà delle multinazionali di agire scavalcando le regole e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia.
Queste regole son viste come «generatrici di problemi», «irritanti commerciali» ( trade irritants) dovuti a indebite interferenze del pubblico. Vanno aggirate da comitati e corti ad hoc (ecco lo shopping giuridico citato da Rossi). La tassa sulle transazioni finanziarie, esecrata da Usa e Fondo monetario, è tra i principali «irritanti». La minaccia che incombe è una sorta di Ilva globale, economica e democratica: prima viene la produttività, poi la salute dei cittadini; prima la governabilità, poi la rappresentatività e la dialettica governi-opposizioni. I fautori più settari del Trattato Europa-Usa vogliono imporre «l’eliminazione, la riduzione, la prevenzione di politiche nazionali superflue», scrive un loro documento. Superflue sono le leggi, le Costituzioni, la regolazione della finanza, la lotta per il clima.
Tutto questo in nome di un Progresso che arricchisce pochi e impoverisce i più. Che polverizza norme nate da anni di buona politica comunitaria. Opporre l’Europa a tali sviluppi significa tuttavia cambiarla alle radici: rinvigorire la sua rappresentanza democratica, darle più risorse (un bilancio in crescita, dunque poteri impositivi) per vincere la depressione con un New Deal dell’Unione. E significa rinvigorire la rappresentanza negli Stati, visto che tutti sono chiamati a trovare risposte: maggioranze, minoranze, governi, parlamenti. Tale dev’essere il nuovo patto costituzionale, non solo in Italia. Grillo lo sa. Nei suoi sette punti europei ci sono, oltre al referendum sull’uscita dall’euro, esigenze condivise da molti: no al pareggio di bilancio nella costituzione, sottrazione degli investimenti dal calcolo del debito pubblico, eurobond, finanziamento di agricolture biologiche, politiche comuni tra i paesi del Mediterraneo. Gli euroscettici inquietano, ma come non essere scettici di fronte a un’Unione che dovesse sacrificare le regole, il diritto, e i più poveri che quel diritto protegge!
Al momento dominano i conservatori, ma il futuro è in mano anche a chi chiede un Piano Marshall per l’Europa, come il leader della sinistra greca Alexis Tsipras. Nel 2012 lo Spiegel lo definì eversore, ma per l’Unione è lievito. E di lievito abbiamo bisogno, perché riviva quel che disse Roosevelt nel ’32: «I nostri leader repubblicani ci parlano di leggi economiche - sacre, inviolabili, immutabili - che causano situazioni di panico che nessuno può prevenire. Ma mentre essi blaterano di leggi economiche, uomini e donne muoiono di fame. Dobbiamo essere coscienti del fatto che le leggi economiche non sono state fatte dalla natura. Sono state fatte da esseri umani. Quando - e non se - ne avremo la possibilità, il governo prenderà la guida per debellare la depressione». Se vogliamo «rompere il circolo vizioso» della sola austerity e coinvolgere meglio i cittadini nelle scelte, come ha detto Napolitano ieri a Strasburgo, l’Europa dovrebbe prendere la guida allo stesso modo.

«Il cor­to­cir­cuito tra tv e rete è il campo di bat­ta­glia in cui si svolge que­sta guerra tra lobby in lotta per la con­qui­sta del con­senso. Da una parte la stra­te­gia di Grillo e Casa­leg­gio che pia­ni­fi­cano la loro mac­china da guerra met­tendo in rete la pro­vo­ca­zione ses­si­sta . Dall’altra la tele­vi­sione che risponde met­tendo a dispo­si­zione delle “isti­tu­zioni” i pro­grammi di prima serata».

Il manifesto, 4 febbraio 2014
In un paese abi­tuato a tra­durre il dramma in farsa, la vio­lenta bagarre par­la­men­tare dei 5Stelle, tra­sfor­mata da Grillo in un lin­ciag­gio ses­si­sta con­tro la pre­si­dente della Camera, è diven­tata una ridi­cola rissa dome­ni­cale da talk-show. Tanto più grot­te­sca per­ché arric­chita da una tem­pe­stiva dichia­ra­zione del pre­si­dente del con­si­glio, che pure sape­vamo occu­pa­tis­simo negli Emi­rati per tro­vare un ade­guato acqui­rente della nostra com­pa­gnia di bandiera.

Nono­stante i pres­santi impe­gni inter­na­zio­nali, le dure cri­ti­che di Con­fin­du­stria, il disa­stro del paese sott’acqua, la botta dell’Unione euro­pea con­tro la deva­stante cor­ru­zione, Enrico Letta non ha voluto farci man­care la sua opi­nione sullo scon­tro tra Daria Bignardi, la con­dut­trice del pro­gramma “Le inva­sioni bar­ba­ri­che” (titolo per­fetto), e un ex con­cor­rente del “Grande Fra­tello” (all’epoca ani­mato pro­prio da Bignardi) oggi diven­tato un dipen­dente dell’ufficio stampa dei gruppi par­la­men­tari pen­ta­stel­lati. «E’ scan­da­loso - attacca il pre­si­dente del con­si­glio men­tre ha accanto l’ignaro Sheikh Moha­med bin Zayed Al Nahyan - e non posso non com­men­tare le frasi folli di Grillo verso Daria Bignardi e suo marito».

In sin­tesi è acca­duto che la con­dut­trice abbia ini­ziato l’intervista al par­la­men­tare gril­lino, Di Bat­ti­sta, chie­den­do­gli dei tra­scorsi fasci­sti del padre. Per tutta rispo­sta, l’ex con­cor­rente del “Grande Fra­tello” le ha scritto una let­tera aperta sul Blog di Grillo chie­den­dole come si sen­ti­rebbe lei se un inter­vi­sta­tore le chie­desse che effetto fa aver spo­sato il figlio di un assas­sino (il marito di Bignardi è Luca Sofri, figlio di Adriano). Come si vede siamo finiti nel sot­to­scala del dibat­tito poli­tico, den­tro quel taf­fe­ru­glio media­tico che ha avve­le­nato da gran tempo l’habitat cul­tu­rale nella disa­strosa era ber­lu­sco­niana. E chi, tra i pro­ta­go­ni­sti della tele­no­vela, è senza pec­cato sca­gli pure la prima pietra.

Il cor­to­cir­cuito tra tv e rete è il campo di bat­ta­glia in cui si svolge que­sta guerra tra lobby in lotta per la con­qui­sta del con­senso. Da una parte la stra­te­gia di Grillo e Casa­leg­gio che pia­ni­fi­cano la loro macchina da guerra met­tendo in rete la pro­vo­ca­zione ses­si­sta per testarne l’effetto, pro­pa­garlo in tele­visione e riti­rarlo quando ha avve­le­nato l’aria. Dall’altra la tele­vi­sione che risponde met­tendo a dispo­si­zione delle “isti­tu­zioni” i pro­grammi di prima serata (Laura Bol­drini a Rai­tre da Fazio, a La7 prima Di Bat­ti­sta e subito dopo, a mo’ di con­tro­canto, il giornalista-scrittore Cor­rado Augias, ieri sera chia­mato anche a “Ottoe­mezzo”), per stig­ma­tiz­zare i gril­lini come fascisti-eversori. Da una parte un nichi­li­smo par­la­men­tare fatto appo­sta per non otte­nere alcun risul­tato con­creto che smen­ti­rebbe l’inaffidabilità del par­la­mento. Dall’altra i rap­pre­sen­tanti delle ammac­cate e tra­bal­lanti isti­tu­zioni che hanno buon gioco a mesco­lare insieme il vero fasci­smo (l’incitamento allo stu­pro), con le forme cri­ti­ca­bili, estreme di un’opposizione fasulla.

Lo spet­ta­colo è assi­cu­rato, il tele­cit­ta­dino è intrap­po­lato, pronto per il pros­simo son­dag­gio elettorale.

«L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa».

La Repubblica, 4 febbraio 2014

Una democrazia dei due terzi: è questa la rappresentazione della società che proviene dai dati resi noti da Bankitalia. Si tratta di una conferma dello stato della diseguaglianza socio-economica, che non solo non tende a correggersi, ma si riafferma come caratteristica endogena, un male cronico. L’economia non riesce a stare al passo con la promessa della democrazia. Il problema è che, ora, anche la politica sembra voler seguire le orme dell’economia e cessare di preoccuparsi di quella promessa; anch’essa è sempre meno inclusiva e sempre più preoccupata a rappresentare i molti, non tutti o quanti più è possibile. Avere voce forte è un prerequisito per contare ed essere contati, e le procedure sono sempre più disposte a riflettere questo fatto invece di correggerlo.

È ragionevole tentare un parallelo tra lo squilibrio economico e la fisionomia della democrazia? La domanda è retorica, poiché l’opinione pubblica ha la percezione di questo parallelo, anche se lo stato della ricerca che valga a confermarlo è ancora in fieri. Ci sono tuttavia buoni indizi per tentare una triangolazione tra la crescita della diseguaglianza e della povertà, il restringimento della partecipazione elettorale, e l’inclusività delle regole del gioco. Il massiccio parlare di democrazia, l’ideologia che la vuole come la migliore forma di governo, e la sua solitudine planetaria si accompagnano paradossalmente a una crescita di indifferenza verso la politica e di sfiducia nelle sue attuali procedure di decisione. Rivedere le regole è a un tempo un riflesso e un esito di questa società più diseguale e divisa.

I dati di Bankitalia confermano del resto un trend ventennale che parla di un progressivo peggioramento del reddito familiare medio e di un allargamento della forbice tra chi può (poco o molto) e chi non può (poveri relativi, impoveriti e a rischio di povertà). Il trend è questo: crescita della concentrazione dei redditi e della povertà. I poveri o coloro che non riescono a far fronte ai bisogni minimi sono circa il 14 percento (con punte del 25 percento nel Mezzogiorno); i bilanci delle famiglie sono distribuiti in maniera corrispondente: il 10 percento delle famiglie più ricche possiede quasi la metà della ricchezza netta totale mentre è raddoppiata in quattro anni la fascia di coloro che sono caduti in povertà. Dati che confermano il dubbio: la ricchezza è concentrata nel 64 percento della popolazione; ovvero, per semplificare al rialzo, poco più di due terzi dentro, gli altri fuori.

Benché la correlazione tra diseguaglianza economica e stato della democrazia sia costruita su ipotesi (ma scienziati sociali stanno dovunque lavorando per comprovarla con dati certi), viene spontaneo il dubbio che l’andamento della forbice sociale abbia ricadute più o meno dirette sulla politica. Non è un caso del resto che la partecipazione elettorale abbia subito un declino progressivo negli ultimi due decenni, quasi a seguire la traiettoria dell’eguaglianza economica: alle recenti consultazioni politiche hanno votato circa il 75 percento alla Camera e 70 percento al Senato, cifre che rispecchiano quelle relative al numero delle persone nelle mani delle quali sta la ricchezza. Difficile stabilire una corrispondenza diretta; sufficiente avere squadernata davanti agli occhi la similitudine tra questi due dati.

Dati empirici di alcuni decenni provano che il sistema politico è “usato” o praticato più da chi si posiziona meglio nella società. Ciò non significa, ovviamente, che la democrazia sia “posseduta” da chi la pratica, dagli inclusi o dai meglio rappresentati. Starsene a casa, restare indifferenti alla politica o non avere la propria voce rappresentata non comporta perdere nulla in termini di diritti e uguaglianza legale. Tuttavia si dovrebbe essere allarmati per il deprezzamento della democrazia da parte di una fetta sempre più larga di cittadini, tra l’altro confermato da dati recenti, che parlano di delusi del funzionamento delle istituzioni e di desiderio di governi forti, con pochi esperti e poche sigle partitiche. Forbice tra le classi, forbice tra gli elettori, forbice tra cittadini e politici: una società divisa, con pesi sociali sempre meno proporzionati, e una tendenza alla registrazione ineguale della voce dei cittadini. Una fisionomia sfigurata che mostra il paradosso del trionfo della forma democratica di governo proprio mentre si assiste a un effettivo restringimento del valore inclusivo delle sue istituzioni.

Razzismo, grillismo, populismo, In Italia e altrove. «Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva».

La Repubblica, 4 febbraio 2014

In parallelo, indipendentemente da Beppe Grillo e dai suoi, si moltiplicano le manifestazioni e gli attacchi razzisti contro la ministra Cécile Kyenge. Molti commentatori guardano con preoccupazione a questi fatti, e c’è chi vi scorge un segnale premonitore della rinascita del fascismo. Va detto però che l’Italia non detiene il triste privilegio di questa sindrome inquietante.

Al di là delle Alpi assistiamo a una radicalizzazione delle proteste di piazza. Il 2 febbraio, gli oppositori della legge che autorizza il matrimonio di coppie dello stesso sesso hanno sfilato pacificamente in difesa della famiglia tradizionale; ma già una settimana prima, domenica 26 gennaio, le vie di Parigi avevano assistito a un evento senza precedenti: una manifestazione antigovernativa intitolata “Giorno della collera”, che ha radunato una folla eterogenea di cattolici integralisti, reazionari dichiarati, militanti di estrema destra, amici del comico antisemita Dieudonné, ma anche simpatizzanti dell’ultrasinistra. I manifestanti, non paghi di attaccare il presidente della Repubblica, hanno contestato la sua legittimità, e nella capitale francese, per la prima volta in modo così massiccio dalla fine della seconda guerra mondiale, sono risuonati slogan esplicitamente antisemiti. Di fatto, gli atti e gli insulti razzisti si stanno moltiplicando in ogni direzione: nei confronti di ebrei e musulmani, o contro la ministra della Giustizia Christiane Taubira, francese della Guyana.

Si tratta di eventi diversi che certo non possono essere assimilati tra loro. Lo stesso Movimento 5 Stelle ad esempio presenta una forte ambivalenza ideologica e politica, con un misto di temi della sinistra classica sul piano sociale e di quella postindustriale sulle questioni dell’ambiente e dell’acqua, mentre rivendica una forma diversa di democrazia, benché guidato da un leader quasi onnipotente. E al tempo stesso è combattuto - fenomeno classico per questo tipo di movimenti - tra una funzione di canalizzazione della protesta, legata alla sua stessa accettazione del principio elettorale, e la volontà di rimanere un outsider che infrange le regole, sopprime i tabù e ostenta permanentemente la propria diversità, rifiutando di essere considerato un partito come gli altri.

In Francia, i movimenti di piazza sfuggono per il momento a ogni rappresentanza politica. Il partito dell’ex presidente Sarkozy, l’Ump (Union pour un Mouvement Populaire) ha condannato la manifestazione del 26 gennaio, ma è diviso sull’atteggiamento da adottare nei confronti dei difensori intransigenti della famiglia tradizionale. Martine Le Pen, che in vista di conquistare il potere si è impegnata in una strategia di responsabilizzazione, dà prova di grande prudenza a fronte di queste mobilitazioni.

Ma al di là delle differenze, indubbiamente il clima che si è instaurato, in Italia come in Francia, è pesante. Ormai non si tratta più del sempiterno allarme per l’ascesa dei populismi in Europa. Quello che vediamo potrebbe essere l’inizio di una disgregazione generalizzata dei fondamenti stessi delle nostre società democratiche.

Questa dinamica si spiega con la congiunzione sempre più esplosiva di diversi fattori: l’insufficiente crescita economica e le sue conseguenze sociali - in particolare l’alto livello di disoccupazione e le crescenti disuguaglianze - alimentano le tensioni, il ripiegamento, la diffidenza generalizzata, la ricerca di capri espiatori: gli immigrati, gli ebrei, ma anche l’Europa, che a molti appare al tempo stesso lontana e intrusiva, poco democratica e oramai incapace di assicurare prosperità e protezione. Le istituzioni - parlamentari in Italia, semi-presidenziali in Francia - girano a vuoto; l’astensionismo e il discredito dei partiti guadagnano terreno, e col disinteresse per la cosa pubblica cresce l’attesa del leader forte - l’uomo della Provvidenza. Le classi dirigenti - politica, economica, sociale, culturale, intellettuale - sono delegittimate, contestate, talvolta odiate.

Davanti a questo quadro cupo, è il caso di parlare di un ritorno agli anni Venti e Trenta del secolo scorso? A mente fredda, dobbiamo ricordare che la Storia non si ripete, anche se balbetta. Nel corso del XX secolo l’idea e la prassi della democrazia hanno fatto passi avanti, ma restano fragili, e dovrebbero essere costantemente ripensate, rinnovate, reinventate. Questa è oggi la posta in gioco decisiva. La soluzione non verrà soltanto dalla “società civile”, ritenuta per sua natura buona e virtuosa, benché percorsa da orientamenti contraddittori; dipenderà anche dai responsabili politici, economici, sociali e culturali. Spetta a loro adottare comportamenti esemplari, promulgare riforme di vasta portata nei rispettivi Paesi e in Europa, elaborare un progetto, ricostruire una narrativa mobilitante. Nella speranza che non sia troppo tardi.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Una notizia (dalla stampa locale) e un commento non veneziano scritto per

eddyburg, 3 febbraio 2014. con postilla veneziana

La notizia

ROMA - «Abbiamo preso l'impegno di esplorare l'opportunità di costruire un museo islamico a Venezia nel Canale grande». Lo ha detto il presidente del consiglio Enrico Letta in conferenza stampa da Doha, aggiungendo di aver «discusso di questa opportunità, dobbiamo vedere e fare una valutazione profonda di questo progetto». (la Nuova Venezia, 3 febbraio 2014)

Il commento

di Andrea Costa
Conferenza stampa, assaiilluminante quella del Premier Letta.
Il viaggio in Quatar,emirato assolutista e teocratico, principale alleato degli Stati Uniti nelladestabilizzazione mediterranea (maggiore finanziatore e sostenitore deiFratelli Musulmani in Egitto, Turchia, "primavera"libica etc.), è assai istruttivo sul ruolo ritagliato all'Italianello scacchiere internazionale. Uno staterello "cuscinetto" dalpotenziale industriale assai ridimensionato e dalla sovranità ancor piùridotta, in prima linea nelle prossime guerre volte a scongiurare irifornimenti energetici europei dalla Russia di Putin, in favore delgasdotto South Stream, oggetto dell'alleanza USA-estremismoislamico.

L'ingresso deifondi del Quatar (soci in affari internazionali degli StatiUniti) nelle aziende strategiche italiane ne è l'indispensabilepremessa e condizione, con tutti i corollari che ne conseguiranno ma conun importante antefatto. Dopo aver salvato le decotte imprese automobilistichedi Detroit (con buona parte degli aiuti economici italiani ricevuti in questilustri) dietro importanti pressioni del Dipartimento di Stato americano e delPresidente Obama (altro che liberistici divieti di ingerenze nell'economia!),la Fiat lascia resistibilmente l'Italia, risucchiata in una fusione perincorporazione dove, caso inedito, la parte da padrone la fa il debitore"risanato".

Sembra dunque chiaro comenon solo più per le politiche economiche, ma anche in politica estera, il"pilota automatico" profetizzato da Mario Draghi, l'unicoeuropeo giunto alla vicepresidenza della Goldman Sachs e con dirittodi accesso e confidenze coi Soprasistemi di sicurezza USA, sia l'esclusivamodalità "eterodirezionata" di governo del nostro Paese.

Non poteva mancarel'immancabile regalìa culturale e simbolica, in piena continuità conl'utilizzo disinvolto del nostro patrimonio artistico per"solennizzare" accordi di politica estera. Letta nipote, haproclamato napoleonicamente la nascita di un "museo islamico sulcanal Grande" a Venezia. Dubito che il Sindaco di Venezia ne sappiaqualcosa. Non è un problema: con il pilota automatico pensano a tutto loro.Basta solo allacciare le cinture e godersi il viaggio. Le archistarsono già in subbuglio: Vuoi che dopo aver perduto l'itifallicograttacielo griffato Cardin...Venezia rimanga al riparo dallecommesse internazionali? Sono anche avvertiti i direttori di tuttele più prestigiose biblioteche di Stato italiane, in primis quellaMarciana e dei musei "d'arte orientale": Il Ministero nonha una lira e le collezioni costano...scommettiamo che qualcuno penserà bene diandare a piluccare qua e là per lo stivale, oggetti e antichi codici del nostropatrimonio nazionale?

Non dubito che il sindaco di Venezia, come i suoi immediati precursori, sarà entusiasta dell'idea geniale del geniale premier.

Una lettura giornalistica (e come al solito ricca di punti fermi) delle trasformazioni avvenute nell' Italia degli ultimi decenni: appena al di là della superficie ma non priva di elementi d'interesse.

La Repubblica, 3 febbraio 2014, con postilla

DALLE grandi fabbriche delle metropoli del Nord si è spostato nelle piccole aziende del Nordest — e dell’Italia centrale. Giuseppe De Rita, con il suo linguaggio immaginifico, negli anni Novanta, aveva definito questa tendenza: “cetomedizzazione”. Un processo antropologico, oltre (e più) che socioeconomico. Si spiega attraverso «l’innalzamento di coloro i quali erano alla base della piramide e lo scivolamento di una parte della vecchia elite». In altri termini, a partire dagli anni Ottanta, si è assistito al declino della borghesia urbana e industriale, peraltro, in Italia, tradizionalmente debole. E al parallelo affermarsi di una piccola borghesia, diffusa nel mondo delle piccole imprese e del lavoro autonomo. Distante e ostile rispetto allo Stato e alla politica. Educata ai valori della competizione individuale e, meglio ancora, dell’individualismo possessivo, per citare Macpherson. Questa realtà socio-economica si è trovata, a lungo, sprovvista di rappresentanza.

Non gliela potevano, certamente, dare i partiti di massa della Prima Repubblica, DC e PCI. Integrati nello Stato e nel sistema pubblico. Nelle reti comunitarie del territorio. Nel sistema assistenziale. La “cetomedizzazione” ha, invece, trovato risposta dapprima nella Lega Nord. Nata e cresciuta, appunto, lungo la linea pedemontana, dove, fin dagli anni Ottanta, si è affermato lo sviluppo di piccola impresa. Sul solco della Lega e nel vuoto di rappresentanza lasciato dai partiti della Prima Repubblica si è proiettato, Silvio Berlusconi. Che ha offerto ai ceti-medi: volto, linguaggio. Identità. Berlusconi: l’Imprenditore in politica. Che fa politica. Al posto dei politici di professione. Contro di loro. Trasforma la politica in marketing. Il partito in impresa. La propria impresa in partito. Berlusconi: ha dato rappresentanza alla neo-borghesia, con basi e radici nel Lombardo-Veneto. Condividendo la “missione” della Lega. Anche se, alla fine, ha garantito soprattutto se stesso e i propri interessi. Berlusconi: ha trasformato il ceto medio nella “società media”, il “pubblico” con cui comunicare e a cui fornire identità attraverso i media. Mentre gran parte degli italiani confluiva nell’ampio e indistinto bacino dei “ceti medi”. Ancora nel 2006 quasi il 60% della popolazione (indagine Demos-Coop) si auto-collocava tra i ceti medi. Il 28% nelle classi popolari (i ceti medio-bassi). Il 12% nelle classi più elevate. L’Italia media aveva radici profonde impiantate nel Nord e basi solide tra i lavoratori autonomi e i liberi professionisti (questi ultimi, però, posizionati più in alto). Anche il 60% degli operai, allora, si sentiva “ceto medio”.

Poi è arrivata la crisi. Economica e politica. Ha scosso, con violenza, le basi del ceto medio. Ne ha indebolito la condizione e, al tempo stesso, il sentimento, l’auto-considerazione. Ne ha accentuato il senso di vulnerabilità. Lo stesso, d’altronde, è avvenuto altrove. Anche negli USA, come mostrano le indagini di PEW Research Center, la quota di coloro che si identificano fra i ceti medi dal 53% nel 2008 cala al 44% nel 2014. Poco più di quanti si (auto) posizionano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il doppio rispetto al 2008. Anche e forse soprattutto per questo motivo Obama ha promosso il suo piano di incentivi all’occupazione e all’economia. Tra cui l’innalzamento delle retribuzioni minime di alcune categorie di dipendenti federali. Per alimentare i consumi, ma anche per contrastare il senso di deprivazione relativa che spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale. In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e sostanziale. L’ascensore sociale, in pochi anni, si è inceppato. E oggi la maggioranza assoluta degli italiani ritiene di essere discesa ai piani più bassi della gerarchia sociale (Sondaggio Demos- Fond. Unipolis). Coloro che si sentono “ceti medi” sono, infatti, una minoranza, per quanto ampia. Poco più del 40%. Così, l’Italia non è più cetomedizzata. È un Paese dove le distanze sociali appaiono in rapida crescita. Tanto che l’85% della popolazione (sondaggio Demos-Fond. Unipolis) oggi ritiene che “le differenze fra chi ha poco e molto siano aumentate”.

Non è un caso che questa dinamica abbia coinvolto, in modo particolarmente intenso, le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera “ceto medio”. Oltre il 50%, invece, si percepisce di classe medio-bassa. La stesse misure si osservano nel Nord. La cui distanza sociale, rispetto al Mezzogiorno, sotto questo profilo, appare molto ridotta. Anzi, il peso di coloro che si auto-posizionano in fondo alla scala sociale, nel Nordest (55%) — “patria” della neo-borghesia autonoma — è superiore rispetto al Sud (53%). Gli operai, infine, sono tornati al loro posto. In fondo alla scala sociale (63%). È il declino dell’Italia media e cetomedizzata. Segna il brusco risveglio dal “sogno italiano” interpretato dal berlusconismo. Poter diventare tutti padroni (almeno, di se stessi). Ciascuno nel proprio piccolo (o nel proprio grande). Mentre le questioni territoriali sembrano svanire. E si sente parlare sempre meno della Questione Settentrionale, ma anche di quella Meridionale. Così, per la prima volta nella storia della Repubblica, si afferma una forza politica, i cui consensi sono distribuiti in modo omogeneo in tutto il territorio italiano. Alimentati e unificati dalla sfiducia verso lo Stato e verso la politica. E dalla delusione sociale. Non è un caso che, tra le principali forze politiche, il M5s sia quella dove si osserva la maggiore quota di elettori che si identificano con i ceti più bassi (quasi il 60%) e, per contro, la minore quota di chi si sente ceto medio (39%).

Il declino del ceto medio lascia un Paese senza sogni, incapace di sognare. Dove le distanze sociali hanno ripreso a crescere, mentre il territorio affonda nelle nebbie. Soprattutto il Nordest, capitale della neoborghesia autonoma. Il declino del ceto medio, in Italia, definisce — e impone — una questione “nazionale” che nessuna riforma elettorale potrà risolvere.

Postilla.

Pur nella superficialità giornalistica dell’analisi emergono due dati interessanti a proposito di quel coacervo di ceti sociali che si collocano tra i proprietari e gestori del capitale e quelli della loro forza lavoro: il mitico “ceto medio”. Il primo: mentre nei paesi del Terzo mondo il ceto medio aumenta, la società diventa più complessa, cresce la popolazione che si avvicina al benessere, in Italia accade il contrario. Il secondo. Nel nostro paese (e forse nell’insieme del Primo mondo) la previsione marxiana della crescente pauperizzazione dei gruppi sociali intermedi tra le classi dei capitalisi e dei proletari tende ad avverarsi.

Centinaia di attivisti da tutta Europa riscrivono la nuova Carta dei diritti del migrante, fondata sull'uomo non sulle cose. Dal cuore caldo della società un'iniziativa per affrontare un tema - quella delle nuove forme dello sfruttamento dei popoli - oggi cruciale nella guerra mondiale per il destino di noi tutti.

Il manifesto, 2 febbraio 2014

Sull’isola butta vento di libec­cio. Le onde schiu­mano alte e i tra­ghetti sono rima­sti al sicuro, attrac­cati alle ban­chine di Porto Empe­do­cle. Molti han dovuto abban­do­nare le spe­ranza di rag­giun­gere l’isola. Eppure sono in tanti, qui, gli atti­vi­sti venuti a scri­vere la Carta di Lam­pe­dusa, per dise­gnare dal basso una nuova geo­gra­fia dei diritti. Tanti che, in tutta l’isola, non hanno tro­vato una sala suf­fi­cien­te­mente capiente per con­te­nere tutti i pre­senti, e hanno dovuto così chie­dere lo spa­zio della sala con­fe­renze interna allao scalo aeroportuale.

Solo venerdì, durante la riu­nione intro­dut­tiva dei lavori, i par­te­ci­panti regi­strati erano oltre tre­cento. Que­sto primo incon­tro ha for­nito una impor­tante occa­sione di con­fronto con gli abi­tanti desi­de­rosi di rac­con­tare la vita di chi è costretto a vivere una vita in cui tutto si tra­sforma in emer­genza. L’intervento della sin­daca, Giusi Nico­lini, di cui rac­con­tiamo a lato, è stato seguito da quelli dei rap­pre­sen­tanti degli impren­di­tori e di alcune asso­cia­zioni locali.

«La gente di Lam­pe­dusa non ne può più di tutti quei poli­tici che ven­gono qui a far pas­se­rella: pro­mette mari e monti e poi se ne va, abban­do­nan­doci in un mare di pro­blemi — con­fessa Angelo Man­drac­chia, por­ta­voce degli impren­di­tori -. Il vostro approc­cio però è diverso. Non pre­ten­dete di inse­gnarci come fare acco­glienza. Non pro­met­tete niente. Cri­ti­cate que­ste poli­ti­che migra­to­rie che sca­ri­cano tutto il pro­blema sulle pic­cole comu­nità di fron­tiera. E noi di Lam­pe­dusa siamo i primi a poter dire, come dite voi e pro­prio per­ché lo abbiamo con­sta­tato sulla nostra pelle, che que­ste scia­gu­rate poli­ti­che migra­to­rie sono inu­tili, costose e scon­fitte in par­tenza. Non pos­siamo fare a meno di doman­darci ogni giorno, cosa potremmo rea­liz­zare con tutti i milioni di euro che spen­dono per mili­ta­riz­zare l’isola, se fos­sero invece inve­stiti per una vera acco­glienza e per miglio­rare le con­di­zioni di vita degli abi­tanti. Lo sa lei che basta qual­che set­ti­mana di mal­tempo per lasciarci tutti senza frutta, senza ver­dura e anche senza gas?».

La straor­di­na­ria par­te­ci­pa­zione con la quale i lam­pe­du­sani hanno accolto gli atti­vi­sti sbar­cati nella loro isola da tutta Ita­lia oltre che da tanti altri Paesi d’Europa e del Nor­da­frica, è pro­prio la prima nota da sot­to­li­neare. Le ini­ziali dif­fi­denze sono state supe­rate in tanti incon­tri nelle scuole, nella sede del Comune e, non da ultimo, ai tavo­lini dei bar e delle pastic­ce­rie. Un con­fronto utile per capire come Lam­pe­dusa stia vivendo que­sta sua alta­le­nante e schi­zo­fre­nica con­di­zione di isola caserma e di isola dell’accoglienza allo stesso tempo. Per­ché la bella Lam­pe­dusa è prima di tutto una caserma a cielo aperto e la pre­senza mili­tare in città è a dir poco asfis­siante. Le strada prin­ci­pale che attra­versa il paese, la pedo­nale via Roma, è con­ti­nua­mente attra­ver­sata in senso per­pen­di­co­lare da camio­nette e da blin­dati dei cara­bi­nieri. Sui muri, si con­tano a decine e decine i car­tel­loni con la scritta «Zona mili­tare. Vie­tato l’accesso». E poi eli­cot­teri, mili­tari in assetto da guerra, guar­die di finanza, poli­zia di fron­tiera. Impos­si­bile anche foto­gra­fare il «cimi­tero» dei relitti, quanto resta cioè dei bar­coni che tra­spor­ta­vano i pro­fu­ghi, che ha subito qual­che giorno fa un ten­ta­tivo di incen­dio da parte di ignoti. L’area è pre­si­diata da mili­tari che allon­ta­nano i curiosi. E se spie­ghi che sei un gior­na­li­sta ti rispon­dono: «Pro­prio per questo».

Ieri invece è stato il giorno della scrit­tura della Carta, ini­ziata in una sala sem­pre più stretta che non ha smesso di riem­pirsi per tutta la mat­ti­nata e che fati­cava a con­te­nere tutti. Punto su punto, sono stati discussi e redatti nella loro forma defi­ni­tiva tutti i capi­toli che costi­tui­ranno la Carta di Lam­pe­dusa e sui quali, vale la pena ricor­darlo, è stato svolto nei mesi pre­ce­denti un grande lavoro di scrit­tura col­let­tiva sul web. Una lunga e fati­cosa gior­nata di discus­sioni e di aggiu­sta­menti, tanto per chi for­niva il suo con­tri­buto alla ste­sura del docu­mento che dei tanti atti­vi­sti impe­gnati sul fronte della comu­ni­ca­zione per aggior­nare blog, siti e social net­work. Anche per­ché, le realtà pre­senti erano dav­vero tante. Ed è pro­prio que­sto il secondo punto da evi­den­ziare. La grande mobi­li­ta­zione crea­tasi attorno all’appello lan­ciato dal Pro­getto Mel­ting Pot Europa. Asso­cia­zioni, ita­liane ma anche euro­pee e nor­da­fri­cane, lai­che e cat­to­li­che, movi­menti, sin­da­cati, media indi­pen­denti, sin­goli cit­ta­dini ma anche inviati di ammi­ni­stra­zioni comu­nali , pra­ti­ca­mente l’arcipelago anti­raz­zi­sta che ruota intorno ad un Euro­me­di­ter­ra­neo dise­gnato sulle «fron­tiere» della libera circolazione.

«La ste­sura della Carta è stata un lavoro col­let­tivo ecce­zio­nale — ha con­cluso Nicola Gri­gion di Mel­ting Pot -. Il testo che è un vero e pro­prio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichia­ra­zione pro­gram­ma­tica, frutto di uno forzo di con­di­vi­sione che è già di per sé un fatto poli­tico impor­tan­tis­simo. Ora ci aspet­tano mesi di lotte e cam­pa­gne da con­durre, a par­tire da quelle per la chiu­sura dei cen­tri di deten­zione. Ma anche un periodo in cui affron­tare le poli­ti­che che l’Europa ha costruito nel Medi­ter­rano. Per rove­sciarle. Una sfida che non pos­siamo per­met­terci di perdere

Chi ha chie­sto il voto ai cit­ta­dini ita­liani per farsi eleg­gere in par­la­mento e in quel con­te­sto rap­pre­sen­tare l’opposizione deve sì rispet­tare il man­dato che ha rice­vuto, ma deve poi assu­mersi la respon­sa­bi­lità di osser­vare le regole di quella sede isti­tu­zio­nale e con­durre la pro­pria bat­ta­glia nelle forme con­sen­tite dalla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva (com­preso natu­ral­mente un duro ostru­zio­ni­smo). Tanto più che pro­prio il gril­li­smo obbe­di­sce a una mania­cale atten­zione ai riti e alle forme (inter­net­tiane) con cui sce­gliere gli obiet­tivi dell’azione par­la­men­tare. Ma a che scopo se poi anzi­ché usare la forza dei numeri e la qua­lità degli argo­menti per creare alleanze e farsi motore di un’opposizione vin­cente, tutto si riduce (e si svi­li­sce) nella messa in scena di un po’ di gazzarra?

For­zare il gioco fino a tra­sfor­mare le aule par­la­men­tari in un sur­ro­gato della piazza signi­fica impic­carsi alle pro­prie dif­fi­coltà, rive­lando tutta l’ambiguità e le con­trad­di­zioni di un Movi­mento che poi, alla resa dei conti, obbe­di­sce alla linea pro­cla­mata da Grillo nei comizi: l’unica via è pren­dere la mag­gio­ranza asso­luta dei voti e poi gover­nare da soli. Niente di diverso dal ritor­nello che abbiamo sen­tito ripe­tere in tutti que­sti anni da Ber­lu­sconi: datemi i voti e lascia­temi fare. L’eterna pul­sione dell’uomo solo al comando. La stessa logica che oggi assume le sem­bianze del sin­daco di Firenze, osan­nato da gior­nali e tele­vi­sioni per il ras­si­cu­rante piglio decisionista.

Sal­tare sui ban­chi del governo, costrin­gere la pre­si­dente della camera a chiu­dere i pro­pri uffici per evi­tarne l’occupazione, lan­ciare insulti ses­si­sti con­tro le depu­tate del Pd, fino a usare l’arma estrema dell’impeachment verso il Pre­si­dente della Repub­blica, come si trat­tasse di scri­vere un volan­tino, tutto que­sto serve solo a con­qui­stare i cin­que minuti di cele­brità, offu­scando però la sostanza, il merito delle que­stioni poli­ti­che sol­le­vate. Che pure il M5Stelle ha por­tato nelle aule par­la­men­tari in molte occa­sioni. Per esem­pio sul caso Sha­la­bayeva, sull’acquisto degli F35, sulla truffa delle slot-machine, sul salva-Roma, sui casi Can­cel­lieri e De Giro­lamo, sull’articolo 138 della Costi­tu­zione.

Inten­dia­moci, nes­sun sacra­rio è stato vio­lato e chi parla di squa­dri­smo fasci­stoide gioca allo stesso gioco dei gril­lini. Senza nem­meno avere tutte le carte in regola per dare lezioni di demo­cra­zia, visto che solo l’uscita dal governo delle lar­ghe intese dei fal­chi ber­lu­sco­niani ha tolto di mezzo la pro­gram­mata mano­mis­sione della Costituzione.

Così quel che alla fine il ricco spet­ta­colo media­tico mette in evi­denza è la dif­fi­cile agi­bi­lità di una bat­ta­glia di oppo­si­zione sia nelle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive che nella società. Anche per­ché nelle aule del par­la­mento dei nomi­nati, i par­titi, sem­pre più comi­tati elet­to­rali, non rap­pre­sen­tano più da molti anni la voce del paese. Non vanno nelle scuole, nei luo­ghi di lavoro, nei quar­tieri. E le lotte gene­rose delle asso­cia­zioni, che invece ani­mano la demo­cra­zia di base, incon­trano solo il grande muro di gomma delle nomen­cla­ture che respin­gono il con­flitto o trat­tan­dolo dura­mente come un affare di ordine pub­blico, o facen­dolo gal­leg­giare in un perenne sur­place, in un eterno moto inerziale.

E que­sta sorda cam­pana suona per tutti, gril­lini compresi

L’odio degli straricchi e strapotenti è un buon segnale per i governanti che svolgono il loro compito nell’interesse del loro popolo, come diceva ieri Roosvelt e potrebbe dire oggi Obama. Ma nessun plutocrate odierà Enrico Letta o Matteo Renzi.

La Repubblica, 30 gennaio 2014

La crescente ineguaglianza ha costi economici evidenti: salari stagnanti malgrado produttività in aumento, debito che cresce e ci rende più esposti alla crisi finanziaria. Essa comporta però anche notevoli costi in termini sociali e umani: per esempio, è dimostrato che una grande ineguaglianza conduce a un peggioramento della sanità e a una mortalità più alta.

Ma c’è dell’altro. Si è scoperto che l’ineguaglianza estrema crea una categoria di persone distaccate in maniera inquietante dalla realtà, e al tempo stesso conferisce loro grande potere. L’esempio per il quale in questo periodo molti sono in subbuglio è quello dell’investitore miliardario Tom Perkins, socio fondatore di Kleiner Perkins Caufield & Byers, una società di investimento in capitali di rischio. In una lettera che ha indirizzato al direttore del Wall Street Journal, Perkins biasima le critiche ufficiali mosse nei confronti “dell’uno per cento” - i più abbienti della popolazione - , e le paragona alle aggressioni naziste contro gli ebrei, lasciando intendere che saremmo in dirittura d’arrivo per un’altra Notte dei Cristalli.

Si potrebbe affermare che si tratta soltanto di un altro pazzo tra tanti, e potremmo chiederci anche perché il Wall Street Journal pubblichi contenuti di questo genere. In realtà, Perkins non è un caso anomalo. Non è nemmeno il primo titano della finanza a mettere sullo stesso piano dei nazisti i sostenitori dell’imposizione fiscale progressiva. Già nel 2010 Stephen Schwarzman, presidente e direttore esecutivo del Blackstone Group, aveva dichiarato che le proposte volte a eliminare le scappatoie fiscali per i manager di hedge fund e private equity andavano equiparate «all’invasione da parte di Hitler della Polonia nel 1939».

Ci sono anche numerosi ricchi e potenti che sono riusciti a tener fuori Hitler dalle proprie considerazioni e nondimeno hanno ed esprimono con veemenza opinioni politiche ed economiche nelle quali paranoia e megalomania si mescolano in egual misura. So che quanto dico può sembrare esagerato, ma ascoltate tutti i discorsi e leggete gli articoli di opinione di chi si schiera con Wall Street e accusa il presidente Barack Obama - che non ha fatto nient’altro che dire cose scontate e ovvie, cioè che alcuni banchieri hanno agito male - di demonizzare i più abbienti e di accanirsi contro di loro. E guardate anche quanti di coloro che lanciano queste accuse hanno la pretesa, ridicola ed egocentrica, di affermare che proprio i loro sentimenti feriti (e non altre cose, come l’indebitamento delle famiglie e una precipitosa austerità fiscale) sono il principale fattore che frena l’economia.

Giusto per essere chiari: i più abbienti, e quelli di Wall Street in particolar modo, in effetti sotto Obama stanno peggio di quanto starebbero se nel 2012 avesse vinto Mitt Romney. Tra la parziale riduzione degli sgravi fiscali varati a suo tempo da Bush e l’aumento delle tasse che sovvenziona in parte la riforma sanitaria, le aliquote fiscali dell’uno per cento della popolazione sono tornate più o meno ai livelli pre-Reagan. Per di più, nel corso del 2012 i riformatori del sistema finanziario si sono aggiudicati alcune vittorie strabilianti, e questa è una cattiva notizia per i faccendieri la cui ricchezza proviene in buona parte dallo sfruttamento di una regolamentazione inefficace. In pratica, dunque, si può davvero sostenere che l’uno per cento della popolazione ha perso alcune importanti battaglie politiche.

Ogni gruppo, tuttavia, si trova prima o poi a dover far fronte alle critiche e nelle battaglie politiche finisce sul versante dei perdenti. Questa è la democrazia. La vera domanda da porsi è che cosa accadrà dopo. La gente normale affronta tutto ciò senza battere ciglio e, pur essendo arrabbiata o scontenta dai contrattempi della politica, non va sbraitando di essere perseguitata, non paragona chi la critica ai nazisti, non afferma con insistenza che il mondo ruota attorno ai suoi sentimenti feriti. I ricchi, però, sono diversi da voi e da me.

È vero, in parte sono diversi perché hanno più soldi e il potere che ai soldi sempre si accompagna. Possono circondarsi, e lo fanno fin troppo spesso, di cortigiani che dicono loro quello che vogliono sentirsi dire e che mai e poi mai direbbero loro che sono fatui. Sono abituati a essere trattati con deferenza non soltanto dai sottoposti che assumono, ma anche dai politici che desiderano ardentemente i loro contributi elettorali. Di conseguenza, quando scoprono che con i soldi non si compra tutto né ci si può tutelare da ogni avversità, restano sconvolti. Sospetto anche che gli odierni Padroni dell’Universo a questo punto nutrano perplessità perfino sulla natura del loro successo. Qui non stiamo parlando di capitani d’industria o di persone che fabbricano cose, ma di faccendieri, di persone che comandano a bacchetta e si arricchiscono occultando una parte del loro denaro al fisco. Possono anche vantarsi di creare posti di lavoro, di far girare l’economia, ma creano davvero valore aggiunto? Molti di noi ne dubitano, e così pure, presumo, alcuni dei ricconi stessi, con quella forma di insicurezza che porta a scatenarsi con furia ancora maggiore contro chi muove critiche nei loro confronti.

In ogni caso, queste sono cose che abbiamo già visto. È impossibile leggere sproloqui come quelli di Perkins o di Schwarzman senza che torni in mente il famoso discorso di Franklin D. Roosevelt del 1936 al Madison Square Garden quando, parlando dell’odio di cui era fatto oggetto da parte delle forze del «capitale organizzato», dichiarò: «E io do il benvenuto al loro odio».

Obama, purtroppo, non ha fatto niente di simile a quanto fece Roosevelt per guadagnarsi l’odio di ricchi immeritevoli. Nondimeno, ha fatto molto più di quanto molti progressisti sono disposti a riconoscergli e, come Roosevelt, sia lui sia i progressisti in generale dovrebbero dare il benvenuto a quell’odio, in quanto segno evidente che stanno facendo qualcosa di giusto.

Traduzione di Anna Bissanti © 2014 New York Times News Service

«Un premio pari quasi alla metà dei voti ottenuti viola il principio d’eguaglianza già censurato dalla Corte». Bocceranno anche il Renzuschellum. Giustamente.

La Repubblica, 30 gennaio 2014

Metterebbe un timbro di costituzionalità sull’Italicum di Renzi e Berlusconi?
«Proprio no». Il costituzionalista Alessandro Pace risponde così a Repubblica.
Siamo dentro o fuori la Costituzione?
«Siamo molto fuori».

La principale anomalia?
«La soglia prevista per beneficiare del premio di maggioranza è troppo lontana dal 50,1% per potersi chiamare così».

La correzione necessaria?
«Un premio di maggioranza degno di tal nome dovrebbe spettare solo al partito o alla coalizione che superasse il 45. Data l’attuale situazione politica una soglia “ragionevole” potrebbe essere, a tutto concedere, anche quella del 40. Ma, a stretto rigore, anche questa sarebbe criticabile».

Un consiglio ai parlamentari?

«Se non ci si accorda su una soglia superiore al 40, si deve passare a un altro sistema. Preferibilmente all’uninominale a doppio turno, che garantisce la governabilità senza creare diseguaglianze nel voto. Il ballottaggio dovrebbe essere tra candidati singoli, non tra liste o, peggio, tra coalizioni».

La Consulta ha fissato paletti su premio e preferenze. Può scattare un nuovo ricorso?
«Il tetto al 37% è sicuramente in contrasto con la Corte, e mi meraviglia che il segretario del Pd non se ne sia reso conto. Un premio pari a quasi la metà dei voti ottenuti in sede elettorale non fa che reiterare la violazione del principio d’eguaglianza già censurata dalla Corte nel Porcellum. Anche la mancanza delle preferenze solleva gravi problemi di costituzionalità ».

È positivo che un partito non possa superare il 55%?
«Posto che la Carta prevede 630 deputati, il premio di 31 seggi alla coalizione di maggioranza è francamente eccessivo: garantirebbe la governabilità a troppo caro prezzo “per la rappresentatività dell’assemblea parlamentare”. E cito la Corte».

Le preferenze restano un punto chiave. Averle escluse viola il diritto di voto dei cittadini?
«Certamente sì. La Corte ha bocciato il Porcellum per questo e per l’eccessivo premio di maggioranza. Però, nel referendum del ‘91, gli italiani hanno votato per la preferenza unica, essendo note le irregolarità sottese alle preferenze multiple. Ma tuttora non è assicurata la segretezza del voto nelle circoscrizioni estere, come risultò nel caso Di Girolamo. Né le cose sono cambiate. Quindi, sia in Italia che all’estero, preferenza unica è garanzia della libertà del voto e della sua assoluta segretezza».

Le liste corte non bastano?
«Certo che no».

Le primarie possono sostituire le preferenze?
«Sì. Non si può dimenticare però che i partiti sono associazioni private. Bisognerebbe prima dettare regole sulla democrazia interna. Pertanto, campa cavallo…».

Piccoli partiti. È accettabile lo sbarramento al 4,5%?
«È eccessivo, soprattutto senza il finanziamento pubblico. Che dovrebbe essere legislativamente previsto, ma la cui spettanza va condizionata all’effettiva esistenza di un’organizzazione interna democratica ».

Ecco la legge con cui si preparano a farci votare.Un abito cucito addosso ai partiti della prima e delle seconda repubblica, una camicia di forza per il Parlamento della terza. Passa anche la norma Salva-Lega, altro omaggio a Forza Italia. Ma nel Pd l’opposizione si restringe alla "minoranza della minoranza".Il

manifesto, 30 gennaio 2014

Tre sole modi­fi­che, la legge elet­to­rale rimane sostan­zial­mente quella sot­to­scritta da Renzi e Ber­lu­sconi nello sto­rico incon­tro in casa Pd. La prima modi­fica è quella sulla quale il Cava­liere ha resi­stito di più, dando il via libera finale solo ieri, a ridosso del pranzo. Sale di due punti per­cen­tuali la soglia da rag­giun­gere per chiu­dere le ele­zioni al primo turno: con il 37% e oltre (era il 35%) la prima coa­li­zione si aggiu­dica un 15% omag­gio (era il 18%). Altri­menti bal­lot­tag­gio. La seconda modi­fica è solo un ritoc­chino: scende di 0,5 punti per­cen­tuali la soglia di sbar­ra­mento per i par­titi coa­liz­zati. Prima erano esclusi tutti quelli sotto il 5%, adesso «solo» quelli sotto il 4,5%. Anche secondo l’ultimo son­dag­gio dif­fuso dalle tele­vi­sioni Media­set, ieri sera, è una modi­fica inu­tile. Non c’è nes­sun par­tito che sta sotto il 5% che rie­sce però a rag­giun­gere il 4,5%. Sareb­bero comun­que esclusi Scelta civica, Sel, Udc, Fra­telli d’Italia e Lega. Per la Lega però si farà un’eccezione. Gra­zie alla terza modi­fica. Bat­tez­zata appunto «salva Lega» per­ché apre le porte della camera a quei par­titi che, pur restando sotto la soglia del 5% pre­vi­sta per i par­titi coa­liz­zati, si pre­sen­tano in non più di sette regioni (ad esem­pio quelle del Nord) rag­giun­gendo il 9% in almeno tre.

La dop­pia mano­vra sul pre­mio di mag­gio­ranza, ispi­rata dal Qui­ri­nale, è il risul­tato che porta a casa Renzi dopo una set­ti­mana di trat­ta­tive. Adesso c’è una soglia, il 37% appunto, e anche un limite al pre­mio, il 15%. Sono due rispo­ste a due dei pro­blemi indi­vi­duati dalla Corte Costi­tu­zio­nale nel Por­cel­lum. Pec­cato però che si tratti di limiti solo for­mali. Per­ché nella legge Renzi-Berlusconi è rima­sto il «baco» dei par­titi fan­ta­sma. Cioè tutti quelli che con i loro voti per­met­te­ranno alla coa­li­zione di aggiu­di­carsi il pre­mio, ma non avranno diritto a nean­che un depu­tato per­ché reste­ranno sotto lo sbar­ra­mento del 5%. Più di 150 depu­tati saranno così eletti con i voti dei pic­coli par­titi, ma nelle liste del par­tito più grande che vin­cerà le ele­zioni. Par­tito (Forza Ita­lia o Pd) che a conti fatti avrà un pre­mio di mag­gio­ranza di nuovo poten­zial­mente illi­mi­tato (in linea teo­rica fino al 49,9%, ma è rea­li­stico che si avvi­cini al 30%). Un mec­ca­ni­smo di «scor­poro» dei voti dei par­titi rima­sti sotto la soglia dal con­teg­gio per il pre­mio di mag­gio­ranza era stato pro­po­sto da più parti, ma sul punto né Renzi né Ber­lu­sconi hanno sen­tito ragioni. A loro inte­res­sava espli­ci­ta­mente «met­tere fine al ricatto dei par­titi minori». In par­ti­co­lare a Ber­lu­sconi stava a cuore impe­dire la pos­si­bi­lità che Alfano e Casini ten­tino la strada di una lista o di una coa­li­zione auto­noma. Ed ecco che la soglia, mostruosa, per un par­tito non coa­liz­zato non è stata nem­meno messa in discus­sione: resta all’8% (e al 12% per la coa­li­zione). Un anno fa, pur in pre­senza di un forte asten­sio­ni­smo, l’8% dei voti validi cor­ri­spon­deva a poco meno di tre milioni di elet­tori: con il nuovo sistema saranno com­ple­ta­mente esclusi dalla rap­pre­sen­tanza parlamentare.

Due le con­se­guenze imme­dia­ta­mente pre­ve­di­bili. Nasce­ranno tanti finti par­titi e liste di comodo desti­nati solo a rac­co­gliere voti per il par­tito capo­gruppo, che corre per rag­giun­gere il pre­mio di mag­gio­ranza. E gli elet­tori dei pic­coli par­titi coa­liz­zati, quelli che non hanno spe­ranze di rag­giun­gere il 4,5%, saranno incen­ti­vati a restare a casa se non vogliono rega­lare i loro voti al par­tito ege­mone. L’effetto del riparto nazio­nale dei voti, poi, rega­lerà la sor­presa di eleg­gere con il pro­prio voto non uno dei can­di­dati (da tre a cin­que) che si tro­ve­ranno sulla pro­pria lista cir­co­scri­zio­nale, ma magari uno sco­no­sciuto a cen­ti­naia di chi­lo­me­tri di distanza. Il tutto è stato se pos­si­bile peg­gio­rato ieri, quando Ber­lu­sconi ha dato via libera alle rein­tro­du­zione delle plu­ri­can­di­da­ture chie­ste da Alfano. Alla fine saranno sem­pre i capi­li­sta a sce­gliere chi far entrare in par­la­mento. E infine è rima­sta l’assurda pos­si­bi­lità di can­di­dare alla testa di ogni lista due can­di­dati dello stesso sesso (indo­vi­nate quale), pre­ve­dendo l’alternanza solo a par­tire dalla terza posizione.

Renzi e Ber­lu­sconi si gio­che­ranno così la loro par­tita, nel 2015. Il Cava­liere può ten­tare di vin­cere al primo turno, ma ha biso­gno di tempo per risa­lire nei son­daggi. Il segre­ta­rio del Pd esclude qual­siasi alleanza e dun­que punta da subito al bal­lot­tag­gio. E non ha mai messo in discus­sione la con­ces­sione più grande fatta a Ber­lu­sconi: la rinun­cia alle pre­fe­renze, mal­grado la sen­tenza della Con­sulta dicesse l’opposto, e mal­grado il Pd avrebbe tutto da gua­da­gnarci (non il suo nuovo lea­der che così nomi­nerà i depu­tati). Le terze forze sono tutte sul piede di guerra, dai gril­lini che ieri sera hanno occu­pato anche la prima com­mis­sione ai cen­tri­sti a Sel. Anche il par­tito di Alfano ha qual­che riserva. Ma la mino­ranza Pd ha già fatto sapere che non creerà pro­blemi a Renzi. Il rego­la­mento con­cede però il voto segreto in aula, dove la legge, ancora da emen­dare, arriva oggi pome­rig­gio. Ma è solo una for­ma­lità che serve per accor­ciare i tempi quando si comin­cerà a votare, a feb­braio. «Rapi­dis­si­ma­mente», dice Renzi.

Delocalizzazione Electrolux: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese».

L'Unità, 29 gennaio 2014
«Quando siamo entrate per la prima volta da questi cancelli facevamo 50 pezzi all’ora. Adesso siamo a 94. Il lavoro è aumentato, la paga diminuita. Ora vogliono anche il sangue». Marinella e Sabrina si stringono nei cappotti di pile e sfregano le mani guantate. Fa un bel freddo nel piazzale davanti all’ingresso nord dell’Electrolux di Porcia, in Friuli. Le due operaie, con altri 1.200 colleghi, condividono un paradossale destino: il loro posto di lavoro rischia di sparire perché sono troppo efficienti. La lavatrice che esce da queste linee costa 30 euro di troppo al pezzo. E siccome i ritmi di produzione sono già al massimo, più di 7,5 euro ad elettrodomestico non si riesce a risparmiare. Non rimane altro che mandare a casa le persone.

Nel piano draconiano della multinazionale svedese non sembra esserci posto per quello che, fino a una quindicina di anni fa, era il più grande stabilimento di lavatrici d’Europa. La Fiat del «bianco», che era arrivata a produrre due milioni e mezzo di pezzi all’anno, con marchi come Zanussi, Rex e Zoppas, e che ora, per i dirigenti scandinavi, è schiacciata dai concorrenti asiatici e polacchi. È il vento che soffia dall’Est, quello che fa più male: o vi adeguate ai salari che percepiscono i cugini della Polonia, o andate a casa, è il ragionamento che Electrolux ha presentato ai sindacati. Tagli che possono rendere le buste paga leggere, leggerissime: nell’immediato si tratta di 130-140 euro in meno, ma nel tempo i sindacati calcolano una riduzione fino al 40%. E se su Forlì (800 lavoratori), Susegana (Treviso, 1000 dipendenti), e Solaro (Milano, 900 addetti) si intende ancora investire anche se a condizioni che Fim, Fiom e Uilm bollano come inaccettabili -, alle maestranze di Porcia sembra essere negato anche questo filo di speranza. Fissata anche la deadline: entro fine aprile gli svedesi prenderanno una decisione irrevocabile.

Sciopero, è stata la risposta immediata. E ieri mattina, davanti ai cancelli erano in centinaia. Prima divisi in capannelli, in attesa degli impiegati che entrano più tardi. L’ultima battaglia si combatte tutti uniti. Gente che di sacrifici ne ha sempre fatti, da quando, nel 1984, con la vendita di Zanussi al gruppo scandinavo, «per sei mesi abbiamo dato il nostro stipendio a garanzia dei prestiti delle banche spiega Rodolfo, altro lavoratore di vecchia data -. Alle 10 arrivava il capo a farti firmare il foglio per la banca, e due ore dopo arrivava la busta paga». Adesso, lo spettro del licenziamento, «e poi ci mettono gli opuscoli sull’etica d’impresa», si lamenta un collega. Poi, certo, c’è chi ricorda che, a parte alcune linee, da troppi anni non si facevano investimenti sull’innovazione, nonostante la fabbrica resti fortemente automatizzata. «Come possiamo campare con lo stipendio di un operaio polacco? Tanto vale che ci passino una ciotola di riso per competere coi cinesi», osserva Remo. Considerazione amara, ma che contiene una grande verità: se la competizione è fatta solo sul costo del lavoro, troverai sempre qualcuno più economico di te. Lo dice bene Michela Spera, della Cgil nazionale, aprendo l’assemblea all’aperto: «Non ci vogliono dei professori universitari per dire che si risparmia tagliando i salari e riducendo le pause. Questa vertenza può segnare il futuro delle relazioni sindacali nel nostro Paese». Può rompere un argine che poi non sarebbe facile ricostruire.

“Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta”.

La Repubblica, 29 gennaio 2014
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell’identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.

Eppure gli elementi dell’immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L’ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l’Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi- dittatore ma garantiva più aiuti dell’Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d’energia. Dopodiché tutto s’è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L’insurrezione è senza leader e programmi stabili.

Nel suo torrente nuotano anche gli ultranazionalisti,raccontano i reporter, ma l’aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione Svoboda,nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il «Settore di destra» (Pravi Sektor),che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti delSunday Times lo scrive sullaStampa: per tanti, «l’integrazione nell’Unione europea non è la priorità». Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.

L’inerzia dell’Unione europea risale ai tempi dell’allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell’Unione in modo da frenare i nazionalismi dell’Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l’«estero vicino», si chiama a Mosca: è «estero vicino» anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una «catastrofe storica» la fine dell’impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l’Europa aspetta — per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda — che laprima mossa sia americana.

Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l’Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un’Ucraina ancora erede dell’ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l’era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l’Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L’Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C’è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.

Se l’Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l’Europa e dove precisamente comincia l’Est? Cosa vuol dire confine, e l’EsteroVicino?E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l’Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?

Qui è il guaio: l’Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L’allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l’Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuovi Stati, esclusa la Polonia a partire dal 2010, non hanno capito l’Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l’ignoto, non verso un’autorità comune, solidale, forte di un’autentica politica estera. L’Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l’Unione è un’area di libero scambio, non una potenza politica.

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