La follia istituzionale di un parlamento eletto con una legge incostituzionale che cambia la Costituzione accogliendo l'iniziativa di «due personaggi ambedue sprovvisti di potere propositivo legale, uno perché condannato per truffa a danno dello stato e interdetto dai pubblici uffici, l’altro perché era titolare di una carica che lo rendeva incompatibile col mandato parlamentare».
Il manifesto, 4 marzo 2014
In un Paese civile, un evento senza precedenti nella storia degli stati, come la declaratoria di incostituzionalità del sistema di elezione del Parlamento – cioè della legge che sancisce la forma di stato e inerisce alla forma di governo — avrebbe determinato, immediatamente e senza alcuna esitazione, lo scioglimento immediato delle assemblee elette con quel sistema. Con l’assoluta sicurezza della legittimità del sistema elettorale col quale sarebbero state elette le nuove Camere, stante la fortuna di disporre di un meccanismo elettorale di risulta costituzionalmente corretto e immediatamente utilizzabile, depurato com’è delle disposizioni illegittime.
Siamo, invece, in Italia. Ci tocca quindi constatare che le due Camere del Parlamento restano, spavaldamente, in carica. Per giunta si apprestano a riformare addirittura la Costituzione e intanto a provvedersi di un altro sistema elettorale. A proporlo sono stati due personaggi ambedue sprovvisti di potere propositivo legale. Uno perché condannato per truffa a danno dello stato e interdetto dai pubblici uffici, l’altro perché era titolare di una carica che lo rendeva incompatibile col mandato parlamentare. Ambedue in preda all’ossessione di acquisire, esercitare e incrementare potere personale, anche calpestando norme e principi. Ma non basta. Ad integrare la devastazione giuridica, politica e morale che sta attraversando la nostra Repubblica, si aggiunge il tipo di sistema elettorale che propugnano i due usurpatori dei diritti dei componenti delle due Camere. Sistema che riproduce sfacciatamente le incostituzionalità già accertate dalla Corte, le riveste e le imbelletta con sguaiata volgarità.
Chi scrive, tuttavia, resta imperterrito difensore del parlamentarismo. Al punto da sognare un’estrema improbabilità. Pur se nominati e non eletti, è dal voto alle liste che contenevano i loro nome che i deputati e i senatori in carica derivano i poteri che spettano ai membri del Parlamento. È dal voto delle elettrici e degli elettori, pur se con sistema truffaldino, è dal corpo elettorale, pur se compresso e resecato, è in nome di quel poco che forse resta ancora della sovranità popolare che i deputati e i senatori seggono sugli scanni delle Aule delle due Camere. Potrebbero perciò riscattarsi dall’essere stati nominati e non eletti, potrebbero, per una volta, liberarsi dal dovere di ubbidire a chi li ha inclusi nelle liste e sentirsi obbligati invece a rappresentare «la Nazione senza vincolo di mandato» rifiutando di approvare una legge elettorale progettata da chi ha usurpato il loro potere fondamentale di proposta oltre che di approvazione delle leggi.
Una legge elettorale che si basa su due negazioni, due violazioni dei principi elementari dello stato rappresentativo e della democrazia. Uno è il principio della libertà di voto, quindi di scegliersi chi votare come proprio rappresentante. È menzogna volgare asserire che si è liberi di scegliere in caso di lista bloccata. Lo si sarebbe soltanto… votando per una lista avversaria a quella preferita con il candidato preferito collocato però in una posizione di assoluta improbabilità di elezione.
L’altra negazione è quella occultata dalla idolatria della governabilità, della stabilità, della personalizzazione del potere, tutto a un uomo solo, e di altre mistificazioni della politologia dominante e distruttiva del principio di eguaglianza. Si denomina «premio di maggioranza». Ne va smascherata la verità con forza e continuità per combattere il capovolgimento indotto nel senso comune di una verità elementare. È falso nel nome, nella sostanza e nell’effetto. Non premia affatto una maggioranza, vanifica quella vera. Il principio di maggioranza, come tutti sanno, presuppone il raggiungimento della metà più uno dei voti espressi. Il «premio di maggioranza» non lo si conferisce a chi questi voti li ha acquisiti (che oltretutto non avrebbe bisogno) ma a chi non li ha acquisiti. Lo si conferisce , quindi, a una minoranza, quella che ottiene un solo voto in più di ciascuna altra minoranza. Il «premio» si traduce quindi in un privilegio per una delle minoranze rispetto a tutte le altre. Privilegio che comporta compressione di voti e sottrazione di seggi a quella che risulterà essere la maggioranza reale, vera, perché composta dalla somma delle liste votate, esclusa la minoranza privilegiata. Col renzusconum una lista che ottiene il 37% dei voti, raggiunto magari con altre liste della coalizione che non hanno raggiunto la soglia del 5% dei voti, un<CW-26>a lista quindi che potrebbe aver conseguito solo il 30% dei voti o anche meno, otterrebbe il 53% dei seggi sottraendoli alla rappresentanza dei due terzi degli elettori. Non è l’unica violazione di ogni logica elementare del renzusconum. Ce ne sono altre come le «soglie» di entità esorbitante che perciò vanificano i voti di milioni di elettori che non si riconoscono in nessuna delle due aggregazioni supposte come maggiori. Soglie che operano selettivamente al primo scrutinio, ma scompaiono nel ballottaggio per riservarlo all’esclusivo dominio di tali aggregazioni.
Si sostiene che queste illogicità plateali, queste storture aberranti, si rendono necessarie per assicurare la governabilità anche se sacrificano l’eguaglianza. Un principio fondante (il massimo secondo Costituzione) dovrebbe recedere a fronte di un obiettivo che, al di là del costo altissimo in termini della stessa tollerabilità democratica, è tutt’altro che certo e comunque non sicuramente virtuoso. Lo dimostra l’esperienza disastrosa del governo Berlusconi, che dal 2008 al 2011 disponeva di una maggioranza enorme e ha portato l’Italia sull’orlo del default. Si sostiene anche che la sera dell’elezione gli elettori e le elettrici devono «sapere chi li governa». Mai idiozia così truffaldina fu congegnata. Averla prima inventata e poi diffusa ha determinato il rovesciamento tragico del senso dell’elezione trasmutandola in scelta di colui dal quale si sarà governati, come dire, se … da Francia o da Spagna si otterrà il «magnare». L’elezione non sarà più diretta alla scelta del rappresentante delle domande, dei bisogni, dei progetti di chi compone il corpo elettorale cui spetterebbe la sovranità. La sovranità sarà capovolta, diverrà sudditanza a un capo assoluto. La tragedia della democrazia si rappresenterà con la farsa dell’elezione.
Prima di approvare questa legge ci pensino i parlamentari della Repubblica. Chissà. Potrebbero cogliere l’occasione per rivelarsi tali.
Sapide annotazioni e suggestive rimembranze storiche suscitate dalla mimica del figlio del Cavaliere.
La Repubblica, 4 marzo 2014
Nell’eloquio del premier esordiente ricorrono i gesti esclamativi, abilmente usati. Definiamolo in greco: anziché dal nóos, organo intellettivo, sale dal thumós, sede degli spiriti vitali; volano parole esca cariche d’effetto; e talvolta catturano l’uditorio. Ad esempio, «rottame», da cui il verbo «rottamare»; o «mettere la faccia»; «se questo governo fallisce, la colpa è mia»; annunciava «una riforma al mese». Manca ancora la trama razionale: come stiano effettivamente le cose; quid agendum ossia la scelta del fine e i motivi; fin dove sia conseguibile; con quali risorse; come spenderle ecc.
Perdurando lacune sintattiche, siamo nella sfera del grido o segno mimico: N. batte pugni sul tavolo; solleva un sopracciglio; sta mani in tasca; dà manate sul palmo della mano altrui anziché stringerla. La politica, materia ibrida, ha testa e viscere: gestire l’interesse pubblico richiede mente fredda, acume percettivo, fantasia intellettuale, calcoli esatti; è una scienza ma chi comanda dura finché i sudditi non se lo scrollino, essendosi spenti i carismi che irradiava; e lì siamo sul terreno sensitivo.
La caduta dell’ex premier è caso classico: poco carismatico, teneva banco da 10 mesi, covato dal Quirinale; i punti deboli erano visibili da quando è emerso, sotto pesante parentela, ma pareva inamovibile, così protetto, avendo dalla sua l’inerzia d’una legislatura i cui reddituari, nominati dai partiti, mirano al quinquennio; e d’un colpo risulta fuori gioco.
Quanto influiscano gli sfondi emotivi, spesso determinanti, lo dicono quattro esempi. Nicola nasce nella Roma ancora semigotica, primavera 1313, tra i mulini del Tevere, sotto la Sinagoga, figlio dell’oste Lorenzo (Cola di Rienzo) e impara benissimo l’arte notarile. L’anonimo autore d’una Cronica romanesca lo descrive ferrato latinista: «deh, como e quanto era veloce lettore»; «tutta die» studia epigrafi delle quali pullula l’Urbe; decifra «li antiqui pataffii», interpreta figure, evoca tempi gloriosi. Le lapidi gli servono da scala: ha estro politicante; non ancora trentenne, sale ad Avignone, speaker del governo popolare; e torna con un buono stipendio, notaio del Tesoro comunale. Era posto strategico: in tale veste sferra «luculente » arringhe» contro i magnati, talmente stupidi da subire inerti un colpo di Stato (20 maggio 1347); nominatosi tribuno, governa a mano dura, col favore popolare, ma ha l’Io gonfio. L’inflazione megalomaniaca culmina nella fantasmagoria 31 luglio-1 agosto: cita Sua Santità, l’Imperatore, gli Elettori, i pretendenti; declina titoli immaginari («Candidatus Spiriti Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis, Tribunus Augustus »). Ha dei soprassalti. Venerdì 14 settembre convoca i baroni, li imprigiona e condanna a morte ma l’indomani mattina cambia idea, convitandoli in Campidoglio. S’è candidato all’Impero. Chiama il popolo a parlamento e racconta dei sogni. Se ne stava sgomento quando i baroni vengono alla Porta Tiberina, 29 novembre, avendo complici tra le mura, ma il tentativo fallisce, allora. canta vittoria, sfila, arringa, nega la sepoltura ai tre Colonna morti. In fondo labile, dopo 15 giorni abdica rifugiandosi nel Castello, indi s’imbosca tra Napoli e Roma, ospite dei francescani spirituali sulla Maiella, poi in blanda prigionia boema dall’estate 1350, finché emissari papali lo riconducono ad Avignone (estate 1352). Morto Clemente VI, offre servizi nei domini italiani al successore Innocenzo (stesso numerale) e torna al seguito del cardinale legato. Era capolavoro d’arte ipnotica il modo in cui affascina i due fratelli del terribile e ricchissimo condottiero fra’ Moriale, con i soldi dei quali affitta una compagnia, accolto trionfalmente, ma ormai lo vedono deforme, malfermo, beone. La guerra contro i baroni ristagna. A tradimento cattura fra’ Moriale, decapitato sotto il Campidoglio, sulle cui scale mercoledì mattina 8 ottobre 1354 cade miserabilmente (tentava la fuga, travestito da rivoltoso).
L’impetuoso Francesco Crispi (1818-1901), due volte presidente del Consiglio, va soggetto a lampi allucinatori: teme attacchi dalla flotta francese; crede d’avere acquisito l’Impero etiopico con un imbroglio diplomatico, fallito il quale, manda al macello quattro brigate italiane nella giornata d’Adua, domenica 1 marzo 1896; e trova un culto postumo, quale precursore del Duce.
Il quale rifonda l’Impero e ne sogna uno mediterraneo-atlantico, guadagnato con mille o duemila morti nella scia delle vittorie hitleriane, a spese d’Inghilterra e Francia, paesi capitalisti. Dopo vent’anni d’una sbornia epica all’Italia «proletaria» (già Pascoli la chiamava così) restano gli occhi per piangere, ma gl’irriducibili rimpiangono l’uomo forte, taumaturgo, mago delle vie brevi, finito orribilmente appeso come Cola di Rienzo, perché dove gl’impulsi viscerali prevalgano sulle idee, ci vuol poco a convertirli nel contrario, dall’entusiasmo adorante al ludibrio del cadavere. Rimane costante un’acuta idiosincrasia: non piace chi parli poco, attento ai nessi, contando sul raziocinio; il difetto d’enfasi è piuttosto raro e chi vi cade lo paga.
Vedi Giolitti, aborrito in chiavi multiple: emette prosa secca, mentre gli antagonisti declamano (l’unica volta che cita Dante, molto a proposito, Montecitorio scoppia in una risata); tiene d’occhio i fatti, anziché cantare meraviglie; disegnando un socialismo riformista nell’area governativa, offende oligarchi e piccoli borghesi rampanti, consumatori d’erba retorica dannunziana; e colpa imperdonabile, non vede perché l’Italia debba giocarsi la testa saltando gratuitamente addosso a due potenti paesi dei quali è alleata da trent’anni.
Eravamo partiti dalla lingua politica italiana. Il premier in carica gioca d’effetto innestandovi locuzioni estranee alla parlata ufficiale. L’idem storico non esiste, irripetibile essendo ogni contesto, ma l’analogia aiuta a capire quel che avviene. Il punto interessante è cosa sia pronosticabile sul governo misteriosamente nato dai patti tra mercoledì 12 febbraio e l’indomani.
Lo strumento essenziale della democrazia rappresentativa continua a essere trattato come se il Palazzo si fosse trasformato in un mercato delle vacche (pardon, delle cacche) Il manifesto, 4 marzo 2014
L’intreccio è apparentemente senza soluzione, salvo che una soluzione c’è sempre: prendere un po’ di tempo. La corsa di Renzi sulla legge elettorale — quando era solo il segretario del Pd voleva approvarla in prima lettura entro febbraio, scadenza poi spostata di un mese causa più alto incarico — sbatte contro l’equivoco fondativo del suo governo. I garanti del patto sulle riforme, Berlusconi e Renzi medesimo, hanno interessi opposti a quello del partito che con i suoi 32 senatori tiene in piedi l’esecutivo, il Nuovo centrodestra di Alfano. Al presidente del Consiglio e al Cavaliere interessa tenere sulla corda i partiti con la minaccia di elezioni nel 2015, al ministro dell’interno sta a cuore prolungare la legislatura fino a quando Berlusconi sarà politicamente tramontato (per raccogliere la leadership che non può contendere). I primi hanno fretta, il secondo rallenta. Con Alfano sta la minoranza Pd che vuole mettere in crisi l’asse tra Firenze ed Arcore, oltre che una straordinaria ragione di buonsenso: l’Italicum applicato al bicameralismo paritario peggiora i suoi già numerosi difetti. Ecco spiegati gli emendamenti dei bersaniani Lauricella e D’Attorre, che rinviano l’operatività della nuova legge elettorale all’entrata in vigore della riforma del senato. Altra promessa, o minaccia, renziana.
L’aula della camera affronterà l’argomento oggi pomeriggio, partendo dal voto degli emendamenti al testo del relatore Sisto (Fi) che rispecchia il vecchio accordo Pd-Fi-Ncd. Ci sono i tempi contingentati e Renzi spera ancora di chiudere il discorso entro fine settimana. Stamattina il comitato dei nove della commissione affari costituzionali deciderà sull’ammissibilità dei nuovi emendamenti che andranno ad aggiungerci agli oltre duecento da votare. Tra questi nuovi quello D’Attorre che trasforma l’Italicum in una legge elettorale valida solo per la camera dei deputati. Dal punto di vista costituzionale nulla impedisce, ne ha impedito, di avere due sistemi diversi per le due camere — anche se la Consulta nella recente sentenza ha sottolineato i rischi per la governabilità. In teoria (ma non si è mai fatto) la Costituzione consentirebbe di sciogliere in anticipo anche una sola camera.
Con l’emendamento D’Attorre in caso di elezioni anticipate a prima della riforma del senato, per palazzo Madama si voterebbe con il sistema uscito dalla sentenza della Consulta, con soglia di sbarramento per le coalizioni persino più alta dell’Italicum (20%) ma più bassa per i partiti coalizzati (3%). E senza premio di maggioranza, quindi il vincitore della camera non avrebbe la garanzia di poter governare senza alleanze successive al voto. Per Renzi questa eventualità appare comunque preferibile rispetto alla proposta Lauricella, che rinvia l’entrata in vigore dell’Italicum alla riforma del senato, per la quale è decisivo ogni singolo voto del Ncd. In ogni caso potrebbe minacciare le elezioni anticipate, accada quel che accada. Il presidente del Consiglio non è però riuscito ancora a convincere il berlusconiano Verdini. Ha ancora qualche ora, perché gli emendamenti in questione, sui quali è possibile un pericoloso voto segreto, sono all’articolo due della legge e dunque non sarebbero stati in ogni caso votati oggi.
Nel frattempo è completamente uscita dai radar la proposta di riforma del senato, che il segretario Pd aveva promesso per metà febbraio. Si sa che persino il presidente della Repubblica ha fatto conoscere i suoi dubbi per la progettata «camera dei sindaci», e che Renzi sta immaginando correzioni. Ha fretta ma non riesce a correre.
Tre incantatori di serpenti raccolgono il 75% dei voti: come mai «folle sterminate di esseri umani preferiscono essere schiavi di un tiranno piuttosto che uomini liberi? Forse la libertà non è altrettanto conveniente quanto la schiavitù». Il manifesto, 4 marzo 2014
La sinistra è scomparsa. A metterla definitivamente fuori combattimento è stata la crisi economica che ha fatto emergere in maniera ancora più clamorosa che in passato la sua vacuità e inadeguatezza a rappresentare gli interessi dei ceti colpiti, la sua vocazione alla sudditanza e al compromesso. Lo spettacolo stringe il cuore. Tanto più che, mentre nelle piazze televisive trionfa una pletora di unti dal Signore (se Renzi è il figlio, Grillo è lo spirito santo), la sinistra non riesce a intonare neppure un mea culpa, a elaborare neanche uno straccio di riflessione autocritica. Come se nessuno fosse responsabile di niente, tutto fosse avvenuto per sentenza celeste e ormai non ci restasse che piangere.
A guardarsi intorno, si direbbe che il fascino perverso del catastrofismo ci abbia presi tutti al laccio: la piovra finanziaria, l’Europa dei forti, i nuovi schiavisti della mondializzazione produttiva sembrano aver eretto, tutti assieme, un muro impossibile da oltrepassare.
Ho partecipato alcune sere fa a una riunione di persone aventi alle spalle un onorevole passato di lotte democratiche, insomma di forte impegno politico. Non ho sentito echeggiare una sola parola di tipo propositivo, e ancor meno relativa agli errori commessi, ai comportamenti sbagliati, alle debolezze anche di tipo etico mostrate, si badi, non soltanto da questa o da quella organizzazione politica ma dai singoli, da tutti noi. Avrei voluto prendere la parola ma non ho osato, intimidito a mia volta dalla cupa atmosfera generale determinatasi, credo, in forza del prevalente sentire pessimistico dei presenti.
Le parole, lo sappiamo tutti, sono importanti, scalfiscono le nostre coscienze. Soprattutto quando vengono ossessivamente reiterate come fanno i giornali ogni mattina con questo lemma abusivo, come fa la televisione, come fanno i politici, i cittadini e come facciamo inconsapevolmente noi stessi attribuendo in tal modo, senza ritegno, quarti di nobiltà a politiche che meriterebbero ben altre definizioni.
Le parole devono corrispondere esattamente alle cose: guai se ciò non accade. Mi vengono a mente alcuni straordinari versi di Juan Ramon Jimenez: Intelligenza, dammi/ il nome esatto delle cose!/ … che la mia parola sia/ la cosa stessa…
Per noi infatti era «la cosa stessa», soprattutto se ci si riferisce al contenuto etico della parola «austerità», che da sempre si contrappone a «dissolutezza» e «corruzione» ed è metafora di costumi irreprensibili. Apparteneva insomma al nostro vocabolario (chi più di noi può amare e praticare l’austerità?): abbiamo lasciato senza colpo ferire che diventasse l’altrui foglia di fico. Anzi peggio: che diventasse la nostra parola «nemica», la bandiera da abbattere.
Diceva Andreotti: a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Ecco perchè B. preferisce governare così.
Il Fatto quotidiano, 2 marzo 2014
A gennaio, quando Renzi incontrò il pregiudicato interdetto decaduto Berlusconi nella sede Pd per discutere la nuova legge elettorale e le riforme collegate (Senato e Regioni), scrivemmo pur fra mille dubbi che non era proprio uno scandalo. Le leggi elettorali appartengono agli elettori, non agli eletti, dunque era impensabile tagliar fuori il maggior partito di centrodestra.
Inoltre, stante lindisponibilità dei 5Stelle persi nella Rete, per sbloccare l'impasse non restava che rivolgersi al terzo partito, Forza Italia: l'unico che poteva assicurare una maggioranza in Parlamento. Renzi, appena plebiscitato segretario del Pd, giurava che l'accordo con B. era per una legge che ci mettesse al riparo da altri governi con B.
Intanto, mentre lui e B. si occu-pavano delle riforme, Letta poteva governare sereno. Non restava che prenderne atto e aspettarlo al varco, cioè alla prova dei fatti: per quanto inedita, lipotesi che un politico italiano dicesse la verità non andava scartata a priori. Ora, meno di due mesi dopo e alla luce dei fatti, possiamo tranquillamente affermare che Renzi mentiva.
L'accordo con B., quasi sempre intermediato dal comune amico Denis Verdini, è ben più vasto e stringente di unintesa tecnica per quelle tre riforme. È un patto d'acciaio le cui clausole restano occulte, anche se i risultati si manifestano ogni giorno più chiari.
Il Caimano sa che il 10 aprile si riunisce il Tribunale di sorveglianza per decidere dove sconterà i 7 mesi di pena (quel che resta della condanna a 4 anni, detratti i 3 anni di indulto e i 5 mesi di liberazione anticipata extralarge sancita dallo svuotacarceri Cancellieri): in galera, o ai domiciliari, o ai servizi sociali. Forse, per non alimentare il suo vittimismo durante la campagna elettorale per le Europee, il verdetto slitterà di un paio di mesi. In ogni caso il pregiudicato sarà politicamente fuori gioco sino a fine anno: guiderà il partito per interposto Toti. Intanto tenterà il colpaccio: candidarsi ugualmente alle Europee in barba alla legge Severino e sfidare gli uffici elettorali della Corte dappello a depennarlo, con una prova muscolare che mira a resuscitare il vecchio nemico, le toghe rosse; a incendiare una spenta campagna elettorale; e a mettere in difficoltà l’amico Matteo.
Per portare a termine il piano, B. ha bisogno di un governo che regga almeno un anno, dandogli modo di tornare come nuovo a Natale e di organizzare l’unica campagna che gli sta a cuore: quella delle politiche, che non fa mistero di auspicare per il 2015. Il governo Letta questa garanzia non gliel’assicurava: stava insieme con lo sputo, passava di gaffe in scandalo, non aveva più l’appoggio del Pd, poteva sfasciarsi da un momento all'altro. E, se anche fosse durato fino al 2015, avrebbe costretto il quasi ottantenne Caimano a sfidare un giovane come Renzi, che ha la metà dei suoi anni, per giunta intonso da esperienze governative e dunque molto più fresco e popolare di lui. Una partita persa in partenza.
L'ideale era che Renzi subentrasse a Letta sputtanandosi con un colpo di palazzo senza passare dal voto, risputtanandosi con estenuanti trattative con i partiti e i partitini di una maggioranza Brancaleone, arcisputtanandosi con un governicchio impresentabile e ultrasputtanandosi con grandi promesse e pochi fatti. Lamico Matteo,con ammirevole abnegazione, lha puntualmen-te accontentato. Missione compiuta. Già che ce-ra, gli ha pure regalato il controllo militare sui ministeri della Giustizia (con i berlusconiani Costa & Ferri), delle Infrastrutture (con i diversamente berlusconiani Lupi & Gentile) e delle Attività produttive (con la berlusconiana Guidi che veglia anche sulle Comunicazioni).
Così B. potrà seguitare a governare sui propri interessi e “gratis”, senza nemmeno il fastidio di entrare nella maggioranza, metterci la faccia e sporcarsi le mani.
suo partito. Ma la sinistra è un'altra cosa. Il manifesto, 2 marzo 2014
Chissà se al compagno Renzi sarà andato di traverso il pop-corn quando Martin Schulz, a conclusione del congresso-convenscion del Pse, ha esordito con «Cari compagni…», rivolgendosi naturalmente anche alla folta delegazione di un partito, che ha cancellato la parola sinistra dal suo nome. Il libraio di Wurselen è da ieri il candidato alla presidenza della Commissione europea. Lo ha designato l’assise di Roma, alla fine delle tre giornate convocate per accendere i motori di una campagna elettorale difficile, decisiva, con una posta altissima per la sinistra e per le sorti stesse dell’Europa.
Nella sala del palazzo dei congressi quello di Schulz è risuonato come un discorso d’altri tempi, più vicino alle corde di un socialismo lombardiano d’altri tempi che a quelle di un liberismo blairiano, ispiratore del nuovo corso renziano. Contro una crisi che ha fatto «i ricchi sempre più ricchi», che ha prodotto «120 milioni di poveri, 27 milioni di disoccupati», Schulz ha chiesto ai rappresentanti del socialismo europeo se erano «ancora in grado di sentire il dolore di chi con la crisi ha perso il lavoro, la casa, la certezza di poter sfamare i propri figli», perché «solo se saremo in grado di condividere questo dolore — ha avvertito il leader socialdemocratico — potremo meritare di vincere le elezioni».
Questo socialista che milita nell’Spd dall’età di diciannove anni, ha parlato del bisogno di ricostruire un’Europa sociale e democratica, aperta nelle sue frontiere, dove «nessun paese dovrà imporsi agli altri», dove «al centro dovrà esserci la parola uguaglianza», contro la “mano invisibile” del mercato che tutto regola, contro una politica che «pensa solo a salvare le banche», contro «i cinici sempre in agguato, e sempre pronti a dire che il voto non conta perché sono gli accordi nascosti», a dettare legge. Dunque il prossimo 25 maggio la sinistra «che si è persa deve ritornare a casa».
Ma Schulz è anche un bravo equilibrista, molto attento a non nominare la revisione dei Trattati, a non citare mai la Bce, a glissare sulle larghe intese che in Germania e in Italia continuano a parlare la lingua del fiscal compact. Una lacuna tempestivamente colmata da Renzi quando, nel suo breve intervento, ha assicurato che prima di tutto l’Italia «deve adempiere ai propri obblighi tenendo i conti in ordine». Tutto il contrario di quel che ispira il candidato della sinistra Alexis Tsipras, simbolo di una battaglia e di una coalizione che mette al centro la critica alla politica economica delle istituzioni monetarie e dei governi che se ne sono arcigni guardiani. E che, dalla Grecia, indica la rotta per un’altra Europa.
Bisogna finanziare la scuola privata perché la scuola pubblica è migliore: le paradossali argomentazioni della nuova ministra del governo Renzi, “giovane” e “rosa” nell’apparenza ma vecchio e nero nella sostanza. L
a Repubblica, 2 marzo 2014
Cambiano i governi non la politica scolastica, che promette di andare verso la graduale eguaglianza delle scuole private a quelle pubbliche. Alcuni governi sono più energici di altri; questo parte con una straordinaria determinazione. Le prime dichiarazioni della nuova ministra della Pubblica istruzione, Stefania Giannini, sono improntate al merito e al bisogno, per usare una fortunata coppia di valori, molto frequentati negli anni ’80. Il merito dovrebbe guidare la diversificazione remunerativa degli insegnati delle scuole pubbliche: coloro che producono di più dovrebbero essere meglio retribuiti, come i dipendenti di una qualunque azienda.
Il criterio per stabilire il merito nell’insegnamento medio e superiore non sarà facile da individuare, a meno che non si adottino criteri discutibili come il numero dei promossi, le ore di servizio alla scuola, o il buon gradimento da parte dei genitori o del dirigente scolastico. Ma è doveroso attendere le proposte prima di giudicare, riservandoci un angolino di scetticismo per le pratiche che vogliono applicare la logica degli incentivi economici a tutte le funzioni indifferentemente, non tenendo conto che ci sono beni di cittadinanza (come la scuola) che non possono essere giudicati con gli stessi criteri della produzione di beni destinati al mercato.
Le dichiarazioni di Stefania Giannini sono invece più esplicite nella parte relativa ai rapporti dello Stato con le scuole private paritarie. Qui la ministra invoca il bisogno. E le posizioni che emergono sono molto preoccupanti benché non nuove. Nuovo è l’armamentario argomentativo, perché pensato non per convincere che le scuole private parificate meritino più finanziamenti, ma per sostenere che esse hanno bisogno dei soldi pubblici e, infine, che il sollievo dal bisogno sarà garantito dal percorso del governo che va verso l’affermazione dell’eguaglianza piena, non più della parità, delle scuole private con quelle pubbliche. Il fine è far cadere ogni barriera che distingue i due ordini di scuola allo scopo di non dover più giustificare i finanziamenti pubblici, che a quel punto sarebbero dovuti. In questa cornice si iscrive la proposta della ministra di rilanciare le scuole private paritarie.
Veniamo alla giustificazione di questa marcia accelerata verso la scuola privata, che come si è detto è basata sul bisogno: in pochi anni le scuole private hanno perso studenti (in cinque anni uno su cinque), e per fermare questa emorragia lo Stato dovrebbe intervenire. E così è. I soldi pubblici sono infatti già stati accreditati alle Regioni, come ha comunicato la Compagnia delle opere (ben rappresentata nel governo): 223 milioni di euro stanziati per l’anno scolastico 2013/2014, in aggiunta a 260 milioni già previsti per lo stesso anno. In tutto, 483 milioni che tengono in piedi un settore in estrema difficoltà. Il pubblico, dunque, “tiene in piedi” la scuola privata in difficoltà. I vescovi e la ministra Giannini all’unisono chiamano questa una politica di «libertà effettiva di scelta educativa dei genitori».
Ma se c’è emorragia di studenti dalle private alle pubbliche, logica vorrebbe che si diano più risorse alle pubbliche, sia perché ne hanno presumibilmente più bisogno sia perché se lo meritano, avendo attratto più studenti, nonostante le “classi pollaio” esito della riforma Gelmini. Se è solo per bisogno che le scuole private devono ricevere i soldi pubblici, ciò significa che lo Stato fa dell’assistenza vera e propria. Non è dunque chiaro con quale logica la ministra applica la coppia merito/ bisogno, perché qui sembra di capire che le pubbliche siano punite proprio per ricevere gli studenti che abbandonano le private, le quali per non saper trattenere gli studenti ricevono invece i finanziamenti. È chiaro che i soldi pubblici servono a tenere queste scuole in vita, non a premiare il merito o il buon rendimento.
Tenerle in vita, si sostiene, perché sono il luogo dove si concretizza la «libertà educativa dei genitori». Ma perché i genitori scelgono di iscrivere i figli alla scuola pubblica? Presumibilmente questa loro scelta libera è dettata da ragioni di merito: la scuola pubblica è, nonostante tutto, migliore e vince sul mercato della libertà educativa. Ma a seguire le parole del ministro sembra di capire che lo Stato interverrebbe quando la scelta è già stata fatta, ovvero per finanziarne il residuo (cioè il risultato di quella scelta) non per garantirla. Qui vediamo in azione l’opposto del criterio del merito e del bisogno legato al merito, e inoltre una stridente contraddizione con il principio della libera scelta.
Un argomento insidioso per giustificare il tampone di emorragia con i soldi pubblici è che un alunno delle scuole private costa meno di un alunno delle scuole pubbliche. Nel contesto di razionalizzazione mercatista della spesa pubblica nella quale ci troviamo, non si fatica a intuire quale sarà il passo successivo: meglio finanziare le scuole private che quelle pubbliche perché costano meno all’erario. Questo sarebbe un epilogo fatale per la scuola pubblica. A giudicare da queste prime dichiarazioni della ministra Giannini, nel settore dell’istruzione il governo promette di essere un governo della restaurazione, ovvero di voler chiudere la disputa tenuta aperta dalla nostra Costituzione, decretando che tutte le scuole sono pubbliche, quelle dello Stato e quelle private parificate, che tutte devono essere “eguali”. La maggioranza parlamentare ha il potere di farlo. Ma l’opinione pubblica e politica ha il dovere di criticare questa scelta e di operare per fermarla o cambiarla.


giuliarodano.eu, 24 febbraio 2014
| Nel governo la metà dei ministri sono donne. Ma io non sto serena. Rimane qualcosa che non mi convince, anzi, per dirla tutta, che mi irrita, un sassolino nella scarpa o una briciola tra le lenzuola. Non sto serena perché solo qualche settimana fa una giovane donna in gamba è rimasta fuori dal Consiglio regionale della Sardegna, nonostante avesse raccolto oltre il 10% dei consensi. E non ho sentito una sola parola di condanna su una legge elettorale così infame, Anzi la Tavola della parità ha ribadito la richiesta di modifiche corporative all’ Italicum, che tanto somiglia alla legge sarda. Non sto serena perché delle donne ministro una è portatrice di clamorosi conflitti di interesse, un’altra intende governare la scuola applicando invece che rovesciando le ricette devastanti dei suoi predecessori e perché della terza non ho sentito una sola parola conto gli F35. E siamo solo alle prime battute. Mi si dirà, ma potrebbero fare altrettanto gli uomini. E vero. E quindi non basta che ci siano le donne per farmi essere serena. Non è questa presenza che fa la novità del governo. Possibile che in un governo con otto ministre non ci sia una parola nel programma per la lotta alle dimissioni in bianco, non vengano pronunciata dal presidente del Consiglio le parole giustizia sociale, o il temine evasione fiscale o la parola precariato o al a disoccupazione intellettuale. Che non ci sia una parola per le ragazze che devono rinunciare alla maternità perché la partita Iva o il contratto a termine non le garantiscono più. Non sto serena. A me avevano insegnato, le tante che mi hanno preceduto e che hanno aperto la strada, che le donne, lottando per la loro liberta, avrebbero contribuito alla liberta di tutte e di tutti. Avrebbero cambiato la politica, le sue forme e i suoi contenuti, avrebbero rovesciato il punto di vista sulle cose, affermando quello di genere. Avrebbe preteso un mondo in cui dove ogni volta che si pensa o di dice uno non può che dirsi e intendersi due. Invece sembra bastarci che ci sia un numero di ministre pari a quello dei ministri, chiunque siano, qualunque cosa facciano e dicano. Sembra bastarci – esattamente come agli uomini - che ci vengano assicurati dei posticini sicuri in una brutta legge elettorale. Non ci interessa che più della metà delle donne sarde siano fuori della rappresentanza. Non ci viene in mente che una legge che esclude i cittadini, escluderà le donne e le escluderà di più. Ma quello che sembra interessarci è essere il 50% dei non esclusi. Le donne non devono salvare il mondo, mi si dice. Ma milioni di donne non sono libere, in Italia. A che pro il 50/50 se loro sempre non libere rimangono? |
«Il Pd non sarà più un partito di centrosinistra, tanto meno di sinistra, quale mai è stato. Sarà sempre più quello che in parte è già oggi: un partito personale, anzi una agenzia di marketing elettorale, nuova fiammante come una Ferrari». Che fare allora? una risposta c'è.
Il manifesto, 1 marzo 2014
«Il tunnel in cui siamo rinchiusi è cementato dal potere lasciato alla finanza e dall’ideologia del mercato, traccia il trentennio liberista che ci ha portato alla depressione. Se ne può uscire soltanto con un cambiamento profondo del modello economico e dell’orizzonte politico».
Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2014
Una moneta senza Stato, la Bce che protegge la finanza dall'inflazione, salva le banche fallite e non protegge dalla recessione. Ma cosa accadrebbe se si tornasse alle valute nazionali?
Se guardiamo indietro, abbiamo venticinque anni di politiche monetarie sbagliate, che hanno fondato su mercato e moneta unica l’intera costruzione europea, abbandonando via via occupazione, modello sociale, diritti, democrazia. Appena dietro di noi abbiamo la più grave crisi del capitalismo dal 1929, da cui nasce la depressione attuale. I paesi che hanno provato a uscirne – Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone – l’hanno fatto creando nuove bolle speculative per la finanza, alimentate dall’introduzione di un’enorme liquidità nell’economia mondiale. Se guardiamo avanti, il buio è fitto. Le promesse di ripresa dell’economia sono state finora illusorie e riguardano soprattutto pochi paesi del nord Europa. A Bruxelles, Berlino e Francoforte la politica resta immutabile: per la periferia d’Europa austerità fiscale, un debito insostenibile anche se gli spread calano, politica monetaria rigida, mano libera per la finanza. Ci muoviamo in un lunghissimo tunnel da cui sembra impossibile uscire.
È il tunnel dell’euro, di una moneta senza stato, di una Banca centrale che protegge la finanza dall’inflazione ma non sa affrontare la recessione, che salva le banche fallite ma rifiuta di sostenere il debito degli stati. È il tunnel di un’Europa asimmetrica nelle forze produttive e nel potere politico, che produce squilibri e ne scarica i costi sulle periferie, costrette a imitare l’impossibile modello d’esportazione della Germania. Il tunnel di una politica – anche quella del nuovo governo di Matteo Renzi, al centro dello speciale della settimana scorsa – che ripete annunci illusori sulla fine della crisi e sui tagli alle tasse, ossessionata dall’austerità quando la disoccupazione giovanile arriva al 40%, una politica che di fronte alle reazioni anti-europee sceglie di cavalcare anch’essa le pulsioni populiste.
Guardando fuori d’Europa il buio è ancora più vasto. L’inizio della restrizione monetaria negli Usa ha già provocato in molti paesi emergenti fughe di capitali, recessione, svalutazioni. Nei confronti del dollaro, nell’ultimo anno la valuta del Brasile si è svalutata del 17%, quelle di India, Indonesia, Russia e Sudafrica di circa il 20%, la lira turca del 22%, il peso argentino del 60%. Sono tutti paesi inondati di capitali dai paesi ricchi che ora si trovano indebitati con l’estero, debiti da rimborsare in valute più costose e a tassi d’interesse crescenti: si direbbe che si prepara una nuova versione della crisi del debito del Terzo mondo degli anni ’80. Facile immaginare che se in Italia avessimo nuovamente la lira, anch’essa sarebbe in balìa della speculazione, con i prezzi delle importazioni gonfiati dalla svalutazione, l’export depresso dalla crisi internazionale, i capitali in fuga da un paese che non cresce da vent’anni.
Non ci sono scorciatoie – come la nostalgia per la lira per uscire dal tunnel. Al di là degli errori commessi sull’euro – che Sbilanciamoci! denunciava già nel suo Rapporto 2002 – il tunnel in cui siamo rinchiusi è cementato dal potere lasciato alla finanza e dall’ideologia del mercato, traccia il trentennio liberista che ci ha portato alla depressione. Se ne può uscire soltanto con un cambiamento profondo del modello economico e dell’orizzonte politico.
È nel mezzo di questo tunnel che andremo al voto alle elezioni europee. Un tentativo di procedere a piccoli passi è quello che propone nell’intervista a pagina due di questo speciale Martin Schultz, candidato socialdemocratico alla presidenza della Commissione europea. Troppo poco e troppo tardi, a sei anni dall’inizio della crisi. L’alternativa di Sbilanciamoci! e della Rete europea degli economisti progressisti (Euro-pen) è presentata a pagina tre: un’unione monetaria da ricostruire con nuove regole per la Banca centrale europea, una garanzia comune sul debito pubblico con l’emissione di eurobond e forme di controllo sui movimenti di capitali, limitando la libertà d’azione della finanza. E, naturalmente, meno poteri ai banchieri e a Berlino, e più democrazia nelle scelte economiche, aprendo la strada alla fine dell’austerità e a politiche industriali e del lavoro disegnate per uno sviluppo sostenibile sul piano sociale e ambientale.
Sono le proposte di cambio di rotta che saranno discusse il 19 marzo al Forum "Un’altra strada per l’Europa" al Parlamento europeo, che qui presentiamo. A discuterne – con esperti, movimenti e sindacati – ci saranno europarlamentari e politici della sinistra – Syriza compresa – verdi e socialdemocratici. Un’occasione per risvegliare la politica, a Bruxelles come a Roma, dare contenuti al dibattito sul voto europeo, e cercare davvero l’uscita dall’euro-tunnel.
Misera e morte per i popoli d’Europa, cominciando dai bambini, le donne, gli anziani, se non cambia la politica che comanda le scelte., Se l’Europa non cambia, in fondo all’abisso andiamo tutti.
La Repubblica, 26 febbraio 2014
IL DOLORE sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità - e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva - ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».
Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista».
Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano «efficaci», e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate. Né è solo «questione di comunicazione » sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati impoveriti: la «fatica delle riforme » ( reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche. Difficile dar torto alle «forti resistenze sociali», se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette). La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Euroto. pa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali «di strada» son passati dal 3-4% al 30%.
S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma. La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali » — «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale ». Nessuno sa quale contributo dia. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.
Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà ». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene
Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell'introduzione alla nuova edizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l'ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro
Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.
Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.
Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.
Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore” (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.
Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega qui accanto l’articolo di Anna Maria Merlo. Nessuna attenzione – si direbbe – invece per Parigi e le periferie dell’Europa, dove Roma potrebbe diventare un importante “contrappeso” rispetto a Berlino. La regola numero uno della finanza è che il cartello lo fanno i creditori, tutti insieme contro chi è in debito, preso da solo. Guai ai debitori che osassero coalizzarsi, e il governo Renzi – come quelli che l’hanno preceduto – riconosce che i poteri della finanza hanno la precedenza sugli interessi materiali del paese più indebitato d’Europa, il nostro.
Il secondo punto cardinale del Renzismo è il sostegno interno – “dall’alto” – da parte del blocco d’interessi che lo sostiene. Rendita finanziaria e immobiliare, le grandi imprese protette dallo stato – dalle banche a Mediaset, dall’energia alle telecomunicazioni –, Confindustria e le piccole imprese con l’acqua alla gola, scivolando nel ceto medio impoverito, che teme di perdere quel poco che ha, più di quanto immagini di poter ottenere in più da lavoro, conoscenza, investimenti. Resta da vedere come si collocheranno gli interessi che, soprattutto nel Mezzogiorno, sconfinano con l’economia criminale. Il Renzismo eredita così buona parte del blocco d’interessi che erano stati garantiti dal Berlusconismo, e ne raccoglie la bandiera unificante dell’ostilità alla tassazione dei patrimoni. Ma nel Renzismo c’è qualcosa di più, il rinnovamento della seduzione imprenditoriale esposta alla Leopolda, da Eataly alla moda, un’“economia dell’offerta” fatta in casa che promette protagonismo a giovani e nuove imprese, temi del primo Berlusconi poi sotterrati da decenni di scandali e manovre di potere.
Il terzo punto cardinale è il suo radicamento “dal basso”. Può questo blocco d’interessi rinnovare l’egemonia, trasformarsi in un blocco sociale che alimenti il consenso al Renzismo? È questo il compito più difficile. Un italiano su sei è oggi senza lavoro, tra chi lavora uno su quattro è precario, l’industria ha perso un quarto della produzione rispetto a prima della crisi, la povertà dilaga. L’agenda economica di Renzi garantisce il dieci per cento più ricco del paese, che possiede quasi metà della ricchezza. Come si può convincere almeno un quarto di italiani impoveriti che ciò che fa bene ad Alain Elkann fa bene anche a loro? Qui non c’è nulla da inventare, è un gioco riuscito a Ronald Reagan 35 anni fa e che ha funzionato abbastanza bene in tutto l’occidente (e oltre), Berlusconismo compreso. Si smontano le identità e gli interessi collettivi – comunità locali, reti di solidarietà, sindacati – e si spiega a tutti che siamo individui che dobbiamo cogliere le opportunità offerte dai mercati globali, siano queste le speculazioni sui derivati o l’emigrazione per fare pizze a Berlino. Lo stato e le sue tasse sono il nemico principale che abbiamo tutti in comune. Se le opportunità si rivelano illusioni – come succede in Italia da vent’anni – sarà soltanto colpa nostra. La politica non ha più la responsabilità di garantire sviluppo, diritti, uguaglianza.
Il quarto punto cardinale è il più efficace: il populismo. Finora c’è stata la “rottamazione” della vecchia politica, ora verranno nuove disinvolte operazioni per impaurire e convincere i perdenti che potrebbero perdere molto di più. Giovani precari a cui distribuire qualche briciola contro vecchi “garantiti” a cui togliere diritti. L’efficienza del privato contro la burocrazia pubblica che blocca il paese. E, naturalmente, gli italiani da tutelare contro gli immigrati. La politica e l’economia sono trasformate in caricature buone per la dichiarazione del giorno in tv. Gli argomenti possono rovesciarsi da un giorno all’altro, retorica e contenuti sono dissociati, accordi e alleanze sono guidate dall’opportunismo.
Con una bussola di questo tipo il Renzismo non ha nulla in comune con la tradizione socialdemocratica e l’esperienza delle coalizioni di centro-sinistra. Margaret Thatcher pensava che il suo risultato politico più importante fosse proprio la nascita del New Labour di Blair, costretto a “trascinarsi nel mondo moderno”, a sostenere “il mercato, le privatizzazioni, la riforma delle leggi sul lavoro e meno tasse su individui e imprese”. Silvio Berlusconi – e il fantasma della Lady di ferro – potrebbero presto dire lo stesso di Matteo Renzi.
La Repubblica, 24 febbraio 2014
Il primo, sessantenne, ha percorso tutte le tappe del cursus honorum dei politici francesi. Brillante negli studi, accede a una carica di alto funzionario e nel 1979 aderisce al partito socialista di François Mitterrand, che servirà fedelmente. Primo segretario del Ps dal 1997 al 2008, François Hollande è un uomo di partito a tutto tondo. Per restare alla guida del Ps ha realizzato di volta in volta sintesi morbide tra le varie correnti. Condizionato com’era dalle molteplici contraddizioni politiche e ideologiche della sinistra francese, ha dovuto attendere il gennaio scorso — un periodo di crescente impopolarità della sua figura e di degrado della situazione economica e sociale in Francia — per esprimere con chiarezza i propri convincimenti social-liberali. Questo professionista della politica, che ha profonde radici nel suo dipartimento, conosce perfettamente i leader e gli eletti dei partiti e sa tutto dei meccanismi e degli arcani della vita politica. Aveva incentrato la sua campagna sul tema del “presidente normale” proprio quando la congiuntura mondiale, europea e francese erano lontanissime dalla normalità, e le istituzioni della V Repubblica avrebbero avuto bisogno di una personalità forte per poter funzionare al meglio. Poco carismatico, legato alla cultura dell’uguaglianza, François Hollande non è a suo agio nella comunicazione moderna; preferisce le riunioni vecchio stile o i dibattiti con un avversario, nei quali brilla per eloquenza e presenza di spirito e per l’efficacia delle sue battute. Intelligente, molto preparato, scaltro, smaliziato, sa essere duro quando serve. Vero artista della tattica, Hollande simboleggia la figura del politico tradizionale di sinistra persino nell’ineleganza dei suoi completi di taglio scadente, con la cravatta perennemente di traverso.
Matteo Renzi è l’esatto opposto, e proprio per questo affascina e intriga, in Italia come all’estero. Con i suoi trentotto anni, gioca la carta del cambiamento generazionale. È riuscito a presentarsi come l’uomo nuovo, pur essendo entrato in politica appena ventunenne, in seno al Ppi e nei comitati di sostegno a Romano Prodi. Per lui il partito è solo un mezzo, che ha dovuto innanzitutto neutralizzare per strumentalizzarlo d’ora in poi al servizio della sua persona e del suo progetto. Vero animale politico, è in sintonia con le attese di molti italiani, e risponde perfettamente al loro bisogno di un uomo nuovo. La profusione dei qualificativim cui ricorrono giornalisti e analisti per tentare di definirlo dà la misura dell’originalità che rappresenta: “erede a sinistra di Berlusconi”, “leader postberlusconiano”, “post-ideologico”, “anti-politico”, “populista”, “outsider” — e l’elenco non finisce qui. Ma si è anche dimostrato un “killer” — avendo cacciato dal Partito democratico gran parte della vecchia guardia — e un abile manovratore: di fatto non ha esitato a fare il contrario di quanto aveva annunciato in relazione al governo di Enrico Letta, ricorrendo a procedimenti degni del costume di quella prima Repubblica che si compiace di aver conosciuto solo indirettamente. Virtuoso della comunicazione e dei media, appare a suo agio sia in tv che sui social network o nei suoi show all’americana. Ha cura della sua immagine disinvolta, usando e abusando del linguaggio dei giovani; ai completi classici preferisce jeans e giubbotti. Il vasto programma di riforme che annuncia a gran voce stravolge i canoni della sinistra classica — ad esempio sulla questione del mercato del lavoro. Matteo Renzi incarna un centro-sinistra disinibito, pragmatico, innovativo, e rivendica senza turbamenti il primato del leader.
Il paradosso sta nel fatto che al di là delle differenze personali e delle diverse caratteristiche dei rispettivi Paesi, Hollande e Renzi devono fare i conti con sfide analoghe: le tre sfide che ogni formazione di sinistra si trova ad affrontare quando va al potere. Innanzitutto, come governare, soprattutto quando si è privi di esperienza in materia, e sempre esposti al sospetto di scarsa competenza? È la grande domanda che si pone Matteo Renzi; la stessa — tuttora irrisolta — posta anche nel caso di François Hollande, che al pari del suo primo ministro, e nonostante la sua lunga carriera, non era mai stato investito di responsabilità a livello nazionale. In secondo luogo, quale politica adottare? Matteo Renzi e il François Hollande del 2014 sono assai vicini tra loro, sia sui temi economici e sociali che su talune riforme della società. Ma come promulgarle, con quali procedimenti e mezzi d’azione, in funzione di quale narrativa? E infine, come dare nuovo slancio all’Europa in crisi di ispirazione?
Quale dei due — la volpe francese o il giovane lupo italiano — sarà in grado di raccogliere queste sfide nel modo più efficace? L’Italia, la Francia e tutta la sinistra europea sono in attesa, con un misto di ansia e speranza.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Un commercialista all'Ambiente, favorevole al nucleare. Una tenace sostenitrice degli F35 alla Difesa, il solito Maurizio Lupi alle infrastrutture, una nuclearista esponente diretta del Caimano allo Eviluppo economico. E poi..e poi...e poi...Siamo proprio ben messi.
Greenreport, 24 febbraio 2014
Sì, in evidenza, perché in pochi lo hanno fatto, andando forse dietro all’idea – che dimostra di avere lo stesso Renzi – che il ministero dell’Ambiente non conti niente: una roba che si deve mettere perché ce l’ha tutta l’Europa ma che può essere lasciato alla fine, come casella da riempire per soddisfare questo o quel partitino post-democristiano. E può darsi pure che sia così, di certo non lo è per noi che lo avremmo sacrificato per un ministero dello Sviluppo sostenibile, ma che in mancanza di quest’ultimo lo riteniamo ancora fondamentale. Per questo la scelta di Galletti appare inadeguata, perché se non si voleva confermare Orlando – che nonostante l’incompetenza iniziale almeno si era fatto ben guidare – c’erano personalità con bel altro pedigree. Facile dire Ermete Realacci [mah...n.d.r], ma non era il solo.
Invece si è preferito pescare una brava persona – ci mancava pure fosse cattiva – dell’Udc, un partito di cui non si sentiva nemmeno più parlare (e non se ne sentiva nemmeno la mancanza) recintato attorno a quel nulla ben vestito di Pierferdinando Casini. La domanda che ingenuamente ci facciamo è semplice: perché? Se la risposta è che è il gioco della politica, per noi è solo la conferma di ciò che pensiamo della spregiudicatezza esibita e rivendicata da Renzi. Se è perché l’idea – per certi versi assolutamente giusta – di sburocratizzare il Paese si vuol far passare da uno yes man al ministero dell’Ambiente, allora c’è anche da preoccuparsi maggiormente. Tertium non datur, ma qualora ci fosse un altro motivo, speriamo ovviamente che sia qualcosa di sorprendentemente positivo e di ambientalmente sostenibile.
Un commercialista all’Ambiente, come la giri la giri, suona assai male anche se un vecchio film ci ricorda che pure loro “hanno un’anima” (con tutto il rispetto per i nostri e gli altrui commercialisti). Speriamo che sia un’anima verde, ma di certo sembra uno mandato lì a fare i conti con quel pochissimo che di solito viene dato al ministero più subissato di tagli della storia italiana.
Poco dopo il suo insediamento Galletti ha detto comunque che «in Italia abbiamo un problema idrogeologico che si perpetua da anni: ritengo che i primi provvedimenti debbano riguardare questo tema», e sarebbe un bell’inizio. Ma facciamo fede a quanto ha detto Renzi, ovvero che questo governo non è quello degli spot, e quindi aspettiamo i fatti, che nel caso significano un piano nazionale e una dote di euro assai pingue. Diversamente saranno pure queste chiacchiere e allora – chiacchiere per chiacchiere – dovremmo tener di conto che il 9 gennaio, lo stesso neo ministro, scrisse perentorio sul suo profilo Twitter che “Se matteorenzi decide di mandare a casa il governo si assume la responsabilità di far tornare il Paese nel caos”. Certo, in quanto a coerenza fa il paio con i tweet di Renzi sul non volere la poltrona di Letta, e malignamente si potrebbe pensare che è su questo modus operandi che si sono trovati.
Sembra di essere dentro ad Alice nel (bel)paese delle meraviglie che ci ricorda come «se io avessi un mondo come piace a me», e forse come piace a Renzi, «là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe, e ciò che non è sarebbe!». Ma purtroppo, come abbiamo già detto, non siamo nelle condizioni, oppure siamo nelle tragiche condizioni, di non potersi di certo augurare che fallisca anche il governo Renzi delle inopinate larghe intese, compresi i ministri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico nuclearisti. Perché appare sempre più come il jolly del mazzo, uscito però per ultimo… e quindi come estrema chance. Dunque non tagliamogli la testa. Ma che fatica essere italiani, ambientalisti poi non ne parliamo.
la Repubblica, 24 febbraio 2014) offrono elementi interessanti, in relazione ad aspetti della crisi che attraversiamo: ambiente, lavoro, welfare, trasformazione dei beni in merci.
In quei numeri tutti i ritardi del nostro paese.
di Chiara Saraceno
Insieme all’ambiente e al capitale fisico, il capitale umano rappresenta il patrimonio di una nazione. Ed ecco perché l’investimento in capitale umano è diventata la parola d’ordine delle politiche sociali europee (ancorché non con la stessa forza e cogenza del pareggio di bilancio). Parallelamente, il concetto di capitale umano e la sua stessa misurazione si sono affinati, superando una visione strettamente economicistica.
I risultati della misurazione fatta dall’Istat sul capitale umano degli italiani sono a prima vista sconcertanti. Se si tiene conto solo del potenziale di reddito, il capitale umano delle donne vale molto meno di quello degli uomini: 231mila euro contro 453mila. Il gap si chiude quasi del tutto solo se si tiene conto delle attività non di mercato. Il valore di questa attività è stimato in 431 mila euro per le donne, 384 mila per gli uomini. La differenza è dovuta principalmente al fatto che le donne svolgono la gran parte del lavoro famigliare, ovvero il lavoro a favore dei membri della famiglia, uomini adulti inclusi. Significa che le donne hanno meno capacità degli uomini e quindi non vale la pena di investire nel capitale umano delle donne, specie nelle dimensioni più rilevanti per la partecipazione al mercato del lavoro (istruzione, servizi)?
Al contrario. Il basso valore di mercato del capitale umano femminile deriva da due fattori molto italiani, che contribuiscono a comprimere il potenziale complessivo del capitale umano italiano. Il primo è il più basso tasso di occupazione femminile, dovuto anche al carico di lavoro famigliare. Il secondo è la minore valorizzazione, a parità di competenze, delle donne che stanno nel mercato del lavoro. In altri termini, in Italia si spreca allegramente una grossa fetta del capitale umano teoricamente disponibile. Allo stesso tempo, le donne contribuiscono parecchio, a titolo gratuito, al benessere complessivo.
Vi è un secondo risultato sconcertante dell’esercizio effettuato dall’Istat. I giovani sono teoricamente portatori di un capitale umano più consistente di chi è più anziano. Non solo, infatti, sono mediamente più istruiti, ma hanno una vita (di lavoro nel mercato) davanti a sé più lunga. Il reddito da loro generato nel corso della vita è stimato in oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Questa stima teorica, tuttavia, come segnala anche l’Istat, non tiene conto della crescente e prolungata disoccupazione giovanile, specie negli anni successivi al 2008. La disoccupazione non solo accorcia la durata del tempo in cui si può mettere a frutto il proprio capitale umano, ma rischia di depauperarlo, invece di farlo ulteriormente sviluppare. Anche nel caso dei giovani, quindi, l’Italia sta minando alle basi la propria ricchezza. Per questo si colloca ultima, per valore del capitale umano, nel gruppo di paesi Ocse che hanno fatto lo stesso esercizio: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna.
Anche senza farne un caso di equità e democrazia, questi due dati dovrebbero indurre i politici italiani ed europei a fare in modo che le politiche di investimento e valorizzazione del capitale umano — istruzione, salute, strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro, di sostegno all’accesso alle risorse di valorizzazione delle capacità — sono altrettanto, se non più, importanti delle politiche di investimento nelle infrastrutture. Perciò devono rientrare a pieno titolo nelle negoziazioni sul patto di stabilità e il pareggio di bilancio.
Ricerca-shock sul capitale umano in Italia
“Una donna vale la metà di un uomo”
di Maria Novella De Luca
Il capitale umano di una donna è esattamente la metà di quello di un uomo. Tradotto in cifre: un maschio in termini economici ha una potenzialità produttiva nell’arco della vita stimata in 453mila euro, una femmina in 231mila euro. In Italia cioè ci vogliono due donne per creare il reddito di un uomo... E poi: il capitale umano di un over sessanta vale, soltanto, 46mila euro. Non importa quanta esperienza o saggezza abbia egli accumulato nella vita già vissuta, il suo futuro è dietro le spalle e quindi parlando di contributo al Pil del paese, è redditizio poco o nulla. Sono i dati, sorprendenti e amari, diffusi ieri dall’Istat che per la prima volta ha calcolato sulla base dei parametri Ocse, “l’ammontare” in euro degli italiani e delle italiane in quanto individui, arrivando a definire il nostro valore medio intorno ai 342mila euro. Mescolando una serie di parametri che sulla base del genere, dell’età, della preparazione scolastica e delle potenzialità professionali, indica il nostro capitale umano, che non è in questo caso una categoria morale, bensì un puro modellomatematico.
Alessandra Righi ricercatrice Istat, ha curato il volume “Il valore monetario dello stock di capitale umano”, promosso dall’Ocse. E spiega: «Sulla base di questi indicatori possiamo monetizzare le potenzialità di un individuo e quindi il suo impatto sul Pil. L’anomalia dell’Italia, che si colloca comunque in basso nella classifica mondiale, è la conferma della distanza profonda tra donne e uomini. Nella quale si manifesta tutto il dramma della disoccupazione femminile». Soltanto il 50% delle donne italiane infatti lavora, e quando anche ha un’occupazione, prosegue Righi, «il suo stipendio è inferiore a quello maschile».
Dunque nel computo del capitale umano il suo “peso” sarà di 231mila euro contro i 453mila del partner. Se invece a questo si sommasse il lavoro invisibile delle donne e cioè quello di cura, la famiglia, i figli, la casa, ecco che ai 231mila euro si dovrebbero aggiungere altri ben 431mila euro di attività domestiche. Il famoso e mai riconosciuto né monetizzato welfare familiare.
«Sono dati che mi indignano ma da studiosa non mi stupiscono», dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’università di Torino. «Nel conteggio del capitale umano l’occupazione
femminile viene ulteriormente penalizzata dalla sottrazione dei periodi di maternità, dai congedi... Le donne subiscono poi una doppia discriminazione: non soltanto negli stipendi, ma anche in quella che si chiama discriminazione preventiva. Sapendo cioè di dover fare una scelta inconciliabile tra famiglia e occupazione, si autoescludono dal mercato. E tutto questo viene naturalmente calcolato nella potenzialità o meno di produrre reddito».
Per arrivare a quantificare in euro il capitale umano, l’Istat si è basato sulla capacità degli individui di generare reddito nell’arco della vita e il valore complessivo che ne viene fuori, riferito al 2008 (non esistono altri aggiornamenti), è di 13.475 miliardi di euro, pari a oltre otto volte e mezzo il Pil dello stesso anno. Una cifra che porta a 340 mila euro a testa il “prezzo” di un italiano medio. Interessante osservare come un giovane tra i 15 e i 34 anni, valga 556mila euro, visto il tempo e le energie che potrà mettere nel fabbricare ricchezza, contro i 139mila euro di una donna over sessanta. La quale comunque in questa età della vita produce assai più di un suo coetaneo maschio, che per le statistiche vale non più di 46mila euro. Tutto abbastanza gelido e terribile se ci si ferma riflettere. E infatti l’economista Del Boca invita a fare delle distinzioni. «Un conto è applicare modelli, e ipotizzare cifre. Altro è intendere il capitale umano come l’insieme anche non monetizzabile di ciò che si è, e di ciò che si è fatto nella vita». Perché infatti questa è un’altra storia.
Una domanda al giovane portavoce fiorentino del neocostituito governo Renzusconi: rinuncerete alle spese di guerra per dare agli italiani lavoro, salute, formazione, sicurezza sociale?
Sbilanciamoci.info, 21 febbraio 2014
721 milioni: è il costo dei contratti di acquisto per gli F-35 che l’Italia ha già sottoscritto tra il 2011 e il 2013. Ovvero nella fase più acuta della crisi, che ha provocato la chiusura di migliaia di piccole imprese, ha cancellato migliaia di posti di lavoro e in cui l’unica ricetta proposta è stata quella della spending review, i soldi per l’acquisto dei cacciabombardieri non sono stati toccati. Non si potevano finanziare i fondi sociali (il Fondo Nazionale per le politiche sociali tra il 2010 e il 2011 praticamente dimezzato con 218 milioni; azzerato nel 2011 il Fondo per la Non Autosufficienza e rifinanziato solo a partire dal 2013 con stanziamenti inadeguati); si doveva “fare cassa” congelando i salari dei dipendenti pubblici per un valore pari a 1 miliardo di euro (2011-2013); si doveva riformare il sistema pensionistico abbandonando a loro stessi i cosiddetti “esodati”; si doveva aumentare l’Iva dal 20% al 22%. Ma il programma di acquisto degli F-35, strumenti di guerra per altro parecchio difettosi, no, quello non si tocca.
In un nuovo dossier “La verità oltre l’opacità”, la campagna Taglia le ali alle armi, ha aggiornato i dati relativi ai costi del programma fornendo per la prima volta informazioni dettagliate sui contratti di acquisto stipulati: i 721 milioni di euro per la sottoscrizione dei contratti di acquisto si aggiungono agli oltre 2,7 miliardi spesi per lo sviluppo e per la costruzione dell’impianto FACO di Cameri). Con un costo medio unitario che tende a crescere nel corso del tempo e che ad oggi la campagna stima prudentemente in 135 milioni di euro.
L’impegno italiano attualmente previsto nel programma per l’acquisto di 8 F35 per il triennio 2014-2016 è pari a 1,950 milioni di euro: 540 milioni nel 2014, 660 milioni nel 2015 e 750 milioni nel 2016, in media 650 milioni l’anno.
Parallelamente, solo per fare un confronto esemplare, la Legge di stabilità 2014 ha previsto per gli anni 2015-2016 un taglio degli stanziamenti per il Servizio Sanitario Nazionale di 1 miliardo e 150 milioni di euro.
Il cittadino comune avrà meno letti a disposizione negli ospedali, dovrà pagare ticket più alti per accedere ai servizi sanitari, ma potrà sempre rifugiarsi sotto l’ala di un F35.
Forse tra qualche giorno si insedierà un nuovo governo. Molte le riforme annunciate.
Con i 650 milioni l’anno previsti per l’acquisto di strumenti di morte si potrebbero fare non tutte, ma almeno una delle cose che servirebbero per attutire gli effetti della crisi e che, ne siamo sicuri, sono quelle richieste da gran parte dei cittadini italiani: rinunciare ai tagli al Servizio Sanitario Nazionale, creare 26.000 posti di lavoro qualificati nel settore della ricerca, mettere in sicurezza circa 600 scuole, oppure costruire 1950 nuovi asili nido creando 17.500 posti di lavoro o ancora garantire il diritto all’abitare recuperando 16.250 alloggi di edilizia residenziale pubblica non agibile.
Il Presidente del Consiglio incaricato avrà il coraggio di prenderne atto inserendo nella sua agenda la cancellazione della partecipazione al programma F-35?
Conto alla rovescia per presentare le candidature alla lista «L’altra Europa, con Tsipras» per le elezioni europee. Entro mezzanotte di oggi i moduli scaricabili sul sito www.listatsipras.eu dovranno essere compilati e inviati all’indirizzo mail sostegno@istipras. it. In questa operazione sono impegnati sia i promotori della lista che associazioni, comitati e partiti (Sel e Rifondazione) che hanno deciso di partecipare insieme a questa esperienza elettorale. Stanno partecipando anche gruppi con almeno 50 aderenti che sono stati invitati a presentare le proposte ad un comitato operativo che inizierà a vagliarle subito dopo la scadenza dei termini stabiliti. Ieri sera erano arrivate 48 candidature, 120 quelle stimate in arrivo, mentre dal sito erano state scaricati 2299 moduli. Alla fine verranno decisi 73 candidati da distribuire sulle cinque circoscrizioni nazionali. I criteri della selezione per quelle che i sei garanti della lista (Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo Flores, Guido Viale, Marco Revelli e Luciano Gallino) chiamano «proposte dal basso» sono la notorietà dell’impegno politico del candidato per determinare le cosiddette «teste di lista»; la sua rappresentatività rispetto ai movimenti di opinione e di lotta negli ultimi anni; la parità di genere e la presenza giovanile. L’altro criterio è quello di non essere stati eletti negli ultimi dieci anni.
Sono state ufficializzate le candidature dell’intellettuale ed ex leader del 77 bolognese Franco Berardi Bifo che sostiene di volersi candidare «con Tsipras e contro l’assolutismo finanziario». Tra le altre ci sono quelle di Franco Arminio e Tonino Perna; di esponenti del comitato «Articolo 33» che ha vinto il referendum sulle scuole paritarie a Bologna, del forum dell’acqua e dei comitati No Triv. Hanno comunicato le loro candidature anche gli attivisti No Tav Nicoletta Dosio e Gigi Richetto. Un’adesione significativa, visto che alle ultime elezioni politiche, il movimento No Tav aveva comunicato il suo appoggio al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Entrambi gli attivisti ribadiscono che i NoTav non sono un movimento assimilabile solo al M5S o solo alla lista dell’«altra Europa, con Tsipras». Sembrano certe le candidature dell’ex portavoce delle tute bianche, e dei centri sociali del Nord-Est, Luca Casarini, del giornalista Loris Campetti e di Franco Gesualdi. I giornalisti Curzio Maltese, Andrea Scanzi, Sandra Bonsanti e Vauro hanno già comunicato il loro sostegno alla lista, così come Gustavo Zagrebelsky, la filosofa Roberta De Monticelli e l’intellettuale Pierfranco Pellizzetti.
Prima casualmente, poi in maniera più lenta ma più convinta, la lista sembra crescere in maniera trasversale alle appartenenze politiche, intellettuali, associative e di movimento talvolta distanti tra loro. Un aspetto che i «garanti» hanno preferito ad una caratterizzazione più netta, e più classica, di «sinistra». La decisione di escludere questo concetto dal logo della lista (il suo restyling definitivo dovrebbe terminare oggi) ha provocato polemiche, soprattutto con Rifondazione Comunista che ha spiegato la sua partecipazione in vista della costituzione di uno «spazio pubblico di sinistra» e non solo una «lista civica antiliberista».
Al momento è arrivato un numero ridotto di candidature femminili. I promotori della lista confidano che aumenteranno nelle prossime ore. Da domani, una volta concluse le operazioni di raccolta, inizierà ad entrare in funzione la macchina organizzativa e, entro la prossima settimana, inizierà la raccolta delle firme circorscrizione per circoscrizione. Il coordinamento è stato affidato a Corrado Oddi, una delle anime del gruppo che riuscì nell’impresa storica di raccogliere le firme necessarie ad ottenere il referendum sull’acqua pubblica e poi a vincerlo nel giugno del 2011. Nelle ultime ore si sta definendo l’albero organizzativo di una struttura nazionale basata su responsabili regionali e provinciali. I tempi saranno da cardiopalma, brevissimi. Si inizierà dalla temutissima Val D’aosta dove, considerata la popolazione, sono necessarie tremila firme per presentare i candidati scelti in lista. Sul sito, ma soprattutto su facebook, stanno nascendo comitato proTsipras un po’ ovunque nel paese. Così come crescono le prime iniziative spontanee: da Torino a Caserta. Domenica è prevista un’assemblea del comitato romano al teatro Valle occupato
Una fulminante invettiva contro le nuove modalità e procedure della cosiddetta politica.
LaRepubblica, 21 febbraio 2013
Terrificante l’idea che la politica “in streaming” possa prendere piede e dilagare, costringendoci a simulare competenza e esprimere giudizi sull’intero scibile tecnico-tattico della nostra faticosa comunità: dagli incontri al vertice alle minute faccende che per fortuna qualcuno ha l’incarico di affrontare anche per nostro conto, grazie a quel geniale espediente che è la delega politica.
Sappiamo bene di avere delegato spesso e volentieri chi difettava di competenza o ci rappresentava male o tradiva il nostro mandato; e che questo è il nodo della presente, drammatica crisi politica. Ma se il rimedio è improvvisarci tutti esperti di questioni inevitabilmente a noi ignote, mipiacciando e midispiacciando con velocità ebete, beh è un rimedio peggiore del male.
Non “il popolo del web”, che non esiste, ma una nuova casta veloce di polpastrello e avida di potere è destinata, in quel caso, a soppiantare la vecchia democrazia rappresentativa. Tutti gli altri - milioni di altri - saranno solo il pubblico (mipiacciante e midispiacciante) di un gioco ancora più ristretto e ancora più oscuro, disputato tra nuove consorterie presuntuose e, nella peggiore delle ipotesi, tra bande di fanatici o di manipolatori.
«Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia.».
La Repubblica, 18 febbraio 2014
PER il modo in cui è stata congegnata, per le doppiezze che l’hanno contraddistinta, per i regolamenti di conti con cui s’è conclusa, l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo ha il sapore di certi cambi di guardia al Cremlino. Un esorbitante partito-Stato si fa macchina di potere, usa i propri uomini come pedine, li uccide politicamente se ingombrano, tradisce la parola data senza spiegazioni. Il tutto avviene «a porte chiuse», come nel dramma claustrofobico di Sartre: lontano dal Parlamento, dalla prova elettorale che era stata assicurata, da una società che il partito-Stato non sa più ascoltare senza vedere, dietro ogni cittadino, l’inferno molesto di qualche populismo. La liquidazione di Enrico Letta è avvenuta in streaming, ma sostanzialmente fuori scena: secondo Carmelo Bene, questa è l’essenza dell’osceno. Non sarà forse così, Renzi riuscirà forse a realizzare quel che promette: un piano lavoro entro marzo, soprattutto. Ma l’inizio incoraggia poco. Per la terza volta, in un Parlamento di nominati, il Pd designa per Palazzo Chigi un nominato.
È già accaduto in passato: basti ricordare il sotterraneo lavorio contro il governo Prodi, nel ’98. E più di recente, in aprile, il tradimento di 101 parlamentari Pd che avevano giurato di votare Prodi capo dello Stato e in un baleno l’affossarono. Colpisce la coazione a ripetere il gesto violento, e a scordare subito i traumi lasciati dalle coltellate. Una famosa giornalista francese, Françoise Giroud, scrisse una volta: «Ogni capo politico deve avere l’istinto dell’assassino». Il coltello non è più un incidente. S’è fatto istinto, tendenza innata. La cosa straordinaria, e solo in apparenza paradossale, è che la macchina del Pd cresce in potenza, man mano che organizza autodafé e perde i contatti con la società. Già da tempo ha smesso di identificarsi con la sinistra: parola da cui fugge, quasi fosse un fuoco che scotta e incenerisce. Già da tempo non si preoccupa di parlare in nome degli oppressi, degli emarginati, ed è mossa da un solo obiettivo: il potere nello Stato, attraverso lo Stato. Letta ha preparato il terreno, ma non guidava il Pd. Ora è un capo-partito a ultimare la metamorfosi: l’abbandono della rappresentatività, la governabilità che diventa movente unico, l’oblio della sinistra e della sua storia. Ovvio che l’istinto a tradire si tramuti in normalità.
Può darsi che Renzi cambi l’Italia in meglio, che renda lo Stato addirittura più giusto. Che non si spenga in lui la memoria del consenso popolare ottenuto alle primarie. Ma il come ancora non lo sappiamo, la coalizione è quella di ieri, e la macchia della defenestrazione di Letta gli resta appiccicata al vestito. Difficile dimenticarla. Difficile dimenticare le parole carpite lunedì a Fabrizio Barca. Il quale grosso modo ha detto questo: «C’è chi mi vuole ministro dell’Economia. Ma per fare che? Per imporre una patrimoniale di 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta e però non è nei piani? ».
Questo svanire della sinistra è un fenomeno europeo diffuso, ma in Italia è particolarmente accentuato. Nell’Unione sono ormai undici i Paesi governati da Grandi Coalizioni, in teoria non siamo molto diversi. Quel che è anomalo, nei connubi ideologici italiani, è il discredito profondissimo gettato sulla stessa parola sinistra, l’annebbiarsi della sua storia, del suo patrimonio, della sua vocazione alla rappresentanza. Altrove la sinistra classica, quella che dà voce ai deboli, possiede ancora uno spazio. Perfino laddove ha le tenebre alle spalle, come in Germania (la Linke è erede di un regime totalitario, nell’Est tedesco) non cancella d’un colpo quel che la lega alla società. Nel Congresso sull’Europa dello scorso fine settimana la Linke ha provato a cambiare la propria storia evolvendo, ha aperto all’Unione che esecrava. Ma il nome che porta non lo cambia. Non così in Italia, dove la sinistra precipita dalle scale e si ritrova vocabolo non grato.
È la vittoria postuma di Bettino Craxi ed è il lascito di Berlusconi, con cui il Pd di Renzi intende riformare la Costituzione. Della grande idea avanzata da Prodi negli anni Novanta - unire il solidarismo universalista cristiano e quello comunista - non resta che brace spenta. La scomparsa della sinistra non significa tuttavia che siano scomparsi i mali che la giustificarono in passato: la questione sociale è di ritorno, la disuguaglianza di redditi e opportunità s’è estesa in questi anni di crisi, nessun Roosevelt è in vista che la freni. E la riduzione della disuguaglianza, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, rimane il più antico e vivo retaggio della sinistra.
È sperabile che il piano-lavoro di Renzi non sacrifichi per l’ennesima volta una lotta che deve essere di rottura, e non per motivi ideologici ma perché l’Italia è rotta da sofferenze e avvilimenti. Che non lasci il proprio elettorato inerme, senza rappresentanza, e non ascolti solo quegli economisti politici che Marx chiamava «bravi sicofanti del capitale», dediti «nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale a cercare mezzi artificiosi per produrre la povertà delle masse ».
Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia. Se le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente, se si parla oggi di un 1% della popolazione che continua imperturbato ad arricchirsi e di un 99% di impoveriti (classi medie comprese), lo si deve alle destre più legate ai mercati ma anche alla Terza Via di Blair. Le ricette di Margaret Thatcher non morirono con il Nuovo Labour, e sopravvissero nella battaglia accanita contro un’Europa più unita e solidale. L’idea thatcheriana che «la società non esiste se non come concetto», che esistono «solo individui e famiglie con doveri e convinzioni», è interiorizzata dal Pd nel preciso momento in cui la realtà l’ha smentita e sconfitta. L’homo novus di Firenze suscita grandi aspettative, ed è vero quel che dice: leadership non è una parolaccia. Ma fin dalla prime sue mosse, negoziando con il pregiudicato Berlusconi la legge elettorale, il leader ha fatto capire che la rappresentatività è un bene minore. Il suo Pd stenta a mediare fra società e Stato. È degenerato in «cartello elettorale stato-centrico», sostiene Piero Ignazi: è parte dello Stato anziché controparte; ha un potere che tanto più si dilata al centro, quanto più si sfilaccia il legame con gli iscritti, le periferie, la democrazia locale (Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza 2012). Per questo l’odierno sviluppo partitocratico è solo in apparenza paradossale. Mandare in fumo l’eredità della sinistra — la lotta alla disuguaglianza, la difesa del bene pubblico — induce il Pd a trascurare l’arma principale evocata da Barca: la tassazione progressiva dei patrimoni più elevati (articolo 53 della Costituzione). L’economista Joseph Stiglitz fa calcoli più che plausibili, anche per l’Italia: «Se chi appartiene al primo 1 per cento incassa più del 20 per cento del reddito della nazione, un incremento del 10 per cento dell’imposta sul reddito (senza possibilità di sfuggirvi) potrebbe generare entrate pari a circa il 2 per cento del Pil del Paese».
Renzi punta sulla propria lontananza dai giochi partitici, sul successo che gli ha garantito la base. Ma quel che avviene nelle ultime ore rischia di vanificare la sua diversità: il Parlamento costretto a tacere sulle modalità bolsceviche della liquidazione di Letta, il cambio deciso «fuori scena», sono segnali nefasti. Torna alla ribalta la politica, ma impoverita democraticamente. Tornano i partiti; mentre i cittadini coi loro rappresentanti stanno a guardare. Come meravigliarsi che la società si radicalizzi, quando è la realtà a farsi sempre più radicale?
Buone notizia dalla Sardegna. In un'intervista del presidente Pìgliaru la conferma che, dopo gli anni infausti della "giunta del mattone" del vicerè di Berlusconi, riprenderà il cammino giusto all'insegna della difesa del lavoro e dell'ambiente.
Il manifesto, 19 febbraio 2014
E' stata una mattinata di relax per il neopresidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru, dopo i festeggiamenti di lunedì sera. Fresco di vittoria, ieri mattina il professore è uscito a piedi di casa per andare a fare visita al rettore dell’università di Cagliari, Giovanni Melis. Pigliaru, infatti, dal 2009 e sino al 6 gennaio scorso ha ricoperto l’incarico di prorettore dell’ateneo del capoluogo, con delega alla ricerca scientifica. Un incontro di cortesia tra professori. Poi di nuovo a piedi verso casa, con qualche sosta forzata con i cittadini che lo hanno incrociato per le strade del centro. Ma già dal pomeriggio sono cominciati i contatti con i partiti della colazione di centrosinistra per disegnare la nuova giunta.
«Innanzitutto le competenze e un equilibro tra uomini e donne», ha più volte detto Pigliaru nel corso della campagna elettorale. Si profila una giunta con diversi tecnici. In cima alla lista dei papabili c’è Raffaele Paci, ordinario di Economia applicata a Cagliari, che dovrebbe andare al bilancio e alla programmazione. Spicca anche il nome di Gian Valerio Sanna (Pd), già assessore all’urbanistica con Soru e padre del piano paesaggistico del 2006, al centro della contestata revisione da parte di Cappellacci proprio negli ultimi giorni della legislatura.
Da queste elezioni arriva un segnale forte innanzitutto sui programmi. Si è vinto sui contenuti? E in particolare su quali?
Abbiamo fatto una proposta seria e non demagogica. La gente l’ha capito e ci ha premiati. Abbiamo parlato fin da principio di competenza e serietà, mettendo da parte un modo di fare politica che non condividiamo ed enunciando con chiarezza pochi capisaldi ma essenziali: semplificazione della burocrazia per far ripartire il mondo imprenditoriale, alleggerimento delle tasse eliminando i balzelli inutili, bonifiche nelle zone industriali e recupero del rispetto per l’ambiente e il paesaggio minacciati da Cappellacci e dalla sua giunta del mattone, pari opportunità per tutti a partire dai primi livelli dell’istruzione. Dobbiamo rimettere in marcia la Sardegna infondendo forti dosi di speranza, a partire dalla qualità dell’istruzione, in luoghi belli e sicuri, e dalla creazione di nuovo lavoro. Dare gambe al piano straordinario per l’istruzione e l’edilizia scolastica significa sostenere il settore delle costruzioni e contemporaneamente investire sulle prossime generazioni. Migliorare l’oggi, guardando al domani. Questo è stato il nostro principio ispiratore. E si è rivelato vincente.
Ma anche i modi hanno avuto una loro importanza: una campagna elettorale ragionata, non gridata. In controtendenza rispetto alla deriva iper mediatica e populista?
Non sono più tempi per le parole vuote o i proclami. La situazione è tale, in Sardegna, che la voce grossa, le promesse irrealizzabili o le barzellette non attecchiscono più. Continuare a voler imbrogliare le persone con specchietti per allodole quali la zona franca integrale, è inaccettabile. Abbiamo fatto bene a mostrare immediatamente l’altra faccia della medaglia, evidenziando che il prezzo da pagare sarebbero stati i tagli alla sanità. Abbiamo voluto avere rispetto per gli elettori attenendoci alla realtà, avanzando proposte realizzabili e oneste, senza nasconderci dietro un dito. La serietà non deve venir mani meno, neanche in campagna elettorale, per il rispetto dovuto ad ogni cittadino, anche di chi si è rifiutato di andare alle urne. Eravamo tutti al corrente che ci sarebbe stata una forte percentuale di astenuti, come è avvenuto. Adesso è un impegno mio, e dev’esserlo di tutta la politica, recuperare i delusi.
Nelle sue dichiarazioni ha sottolineato il ruolo svolto da tutta la coalizione. C’è stato un apporto importante della forze di sinistra?
L’aver ricompattato la coalizione è stata la nostra forza. Gli apporti dalle diverse componenti saranno, d’ora in poi, un’ulteriore ricchezza. Vedo una forte sintonia sulle principali questioni programmatiche. Abbiamo tutti una gran voglia di cambiare la Sardegna, di voltare pagina rispetto ai cinque anni devastanti di governo Cappellacci. Sappiamo come farlo, anche se non ci illudiamo che sarà semplice. Sono certo che metteremo assieme tutte le nostre migliori energie, per questo.
Che rapporto si può ipotizzare tra la sua giunta e il governo nazionale guidato da Matteo Renzi?
I rapporti istituzionali sono importantissimi. La Sardegna ha sofferto molto per colpa delle mascalzonate del governo Berlusconi, reo di averci negato mille occasioni di crescita. Dalle telefonate a Putin al furto del G8 a La Maddalena e dei milioni della vertenza entrate. Avere Matteo Renzi a Palazzo Chigi sarà uno sprint in più perché Renzi è una persona seria e capace. Ho sempre condiviso la sua attenzione verso i temi del lavoro e per le politiche attive. Impegnarsi in questi ambiti, oggi in particolar modo, significa cercare le risposte da dare alla gente. Con il governo nazionale abbiamo da riaprire immediatamente l’importante vertenza sulle entrate, abbandonata da Cappellacci, e l’annosa questione delle servitù militari, che ancora pretende dai sardi, in termini di territorio e potenzialità di sviluppo, sacrifici spropositati ed ingiustificati
Fa discutere l’esclusione della parola «sinistra» dai quattro simboli proposti sul sito lista tsi pras .eu. Tutti su sfondo rosso e con il nome di Alexis Tsipras, leader di Syriza che è un acronimo in greco di «Coalizione della Sinistra-Fronte sociale unitario». Nessuno di questi simboli ripropone però l’augusto concetto. La decisione del comitato dei sei garanti (Guido Viale, Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Marco Revelli, Luciano Gallino, Paolo Flores) è stata accettata da Tsipras, cofirmatario dell’appello per la lista italiana a sostegno della sua candidatura alla presidenza della Commissione Europea che ha raccolto 23 mila adesioni online.
La decisione ha creato malumori tra gli iscritti di Rifondazione Comunista. La segreteria del partito ha diffuso un comunicato in cui critica duramente i garanti. «La nostra richiesta di costruire un percorso democratico nella definizione dei simboli e della composizione della lista è stata completamente disattesa – si legge – È un grave errore politico. Questa è una lista civica antiliberista e non la costruzione di uno spazio pubblico di sinistra». Per i vertici di Rifondazione l’obiettivo delle europee dovrebbe essere l’avvio di un percorso per costruire una «Syriza italiana». Un obiettivo, sia pur ancora non troppo esplicitato, anche di altri ambienti.
Per Rifondazione l’errore politico» dei promotori non mette tuttavia in discussione «l’importanza di fare una lista unitaria contro le politiche di austerità». Lo spettro di una Sel che presenta una lista separata, e del mancato raggiungimento del quorum al 4% segnerebbe un nuovo, tremendo, fallimento per tutti. Il giudizio negativo allora si stempera e il partito di Paolo Ferrero rivendica infine l’operazione politica che ha portato Tsipras a essere il candidato della sinistra europea.
I promotori della lista hanno spiegato la loro decisione perché «la parola sinistra non ha un contenuto programmatico definito — spiega Guido Viale — A questo concetto si appellano sia i Si Tav che i No Tav, i liberisti più scatenati e i comunitaristi più radicali». «Per il suo programma europeista, democratico e radicale — aggiunge Viale — questa lista ha una chiarissima connotazione di sinistra. Riteniamo impossibile che chi si identifichi nella sinistra non possa identificarsi con questi contenuti. La scelta si spiega anche perché intendiamo rivolgerci a una fascia di cittadini che non si identifica direttamente con quella che è stata la sinistra radicale».
Ai «garanti» della lista è stata anche rivolta l’accusa di «dispotismo illuminato». «Sono sciocchezze — risponde Viale — Questo dispotismo lo vorrebbero esercitare i partiti, mettendo le candidature ai voti nelle assemblee che, come abbiamo visto con l’esperienza fallimentare della lista “Cambiare si può”, si trasformano in rodei molto negativi, oppure mobilitando gli iscritti come fa Grillo nelle sue votazioni online, con risultati non sempre brillanti. Da tempo Rifondazione ci critica perché non siamo disponibili per le assemblee. Adesso chiedono che metà dei candidati vengano votati online. Ma per noi è assurdo anche perché non si capisce quali candidati dovrebbero sottoporsi al voto on line e chi a quello dell’assemblea. Per le europee questo discorso è difficile da fare: in circoscrizioni con cinque sei regioni è impossibile contare su candidati conosciuti».
Integrare l’orizzontalità della rete con le pratiche della partecipazione diretta (l’assemblea, ad esempio) rappresenta in effetti uno dei rompicapo della democrazia oggi. I «garanti» hanno affidato la soluzione a un comitato di 15 persone che dal 21 febbraio si riunirà per valutare le candidature caricate sul sito lista tsi pras .eu. Il numero dei partecipanti al comitato nel frattempo dovrebbe aumentare, considerato la quantità dei moduli scaricati in poche ore: 710 alle 18 di ieri. Sulla scelta influiranno, tra gli altri, questi criteri: i candidati non devono essere stati eletti negli ultimi 10 anni, anche se c’è un’apertura agli eletti negli enti locali; la parità dei genere; spazio ai giovani. La consultazione sulla scelta di nome e simbolo è stata posticipata a causa del sovraccarico del server che non ha retto il numero dei contatti.
Il referendum si conclude oggi alle 15, ieri avevano votato solo in 13 mila, probabilmente a causa delle disfunzioni telematiche. «Può anche darsi perché non ci sia il termine sinistra nel simbolo» ipotizza Viale. Si parla della possibilità, tutta da verificare, di candidare anche Andrea Camilleri e Barbara Spinelli
Dalla vittoria di Pìgliaru in Sardegna una speranza non solo per la difesa del territorio e del paesaggio (beni di cui nessuno sembra preoccuparsi) ma anche per una nuova sinistra unita per il dopo-Renzi.
Il manifesto, 18 febbraio 2014
Questo voto parla di una disoccupazione che doppia la percentuale nazionale, di una deindustrializzazione che lascia solo disperazione, di un drammatico dissesto del territorio abbandonato alla furia dell’alluvione, con la credibilità dei politici inghiottita dagli ultimi scandali dei consiglieri regionali. Che ancora un cittadino sardo su due creda nel voto ha del prodigioso, né può stupire che il risultato elettorale sia specchio fedele e crudele della sfiducia profonda verso la classe dirigente, dell’isola e di un paese, il continente, sempre più lontano.
Le ragioni profonde e i fondamenti del programma della lista della sinistra europea per le prossime elezioni nell'intervista di Jacopo Rosatelli all'autorevole sostenitore della lista Tsipras.
Il manifesto, 16 febbraio 2014
«Siamo in un momento cruciale. Ciascuno dia il contributo che è nelle sue possibilità». Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, giurista e intellettuale di fama, guarda con molto interesse all’iniziativa che fa capo ad Alexis Tsipras, in vista delle prossime elezioni europee: «C’è bisogno di un sussulto di consapevolezza. E c’è poco tempo: dedichiamolo a spiegare perché l’Europa ha bisogno di una scossa e a chiarirne i contenuti da presentare agli elettori».
Professore, lei sostiene che questa scossa può venire soltanto da un’affermazione del progetto che incarna il 39enne leader della sinistra greca. Perché?
Prescindiamo un momento dai nomi, guardiamo prima al quadro d’insieme. Alle elezioni di maggio si affronteranno due mastodonti: da una parte, gli antieuropeisti, che sono tali in nome della reazione all’Europa della finanza che sta influendo pesantemente sulle libertà democratiche dei Paesi in difficoltà; dall’altra, l’Europa degli interessi della finanza incarnati dagli Stati forti che impongono la loro legge ai deboli. I primi vogliono il ritorno alle sovranità chiuse, al nazionalismo. Gli altri vogliono il mantenimento dello status quo. Di fronte a questi due giganti, c’è una terza possibilità, rappresentata dall’iniziativa di Tsipras: è il recupero dell’idea di Europa dei padri fondatori, che pensavano che l’integrazione economica fosse solo il primo passo verso una piena integrazione politica. Inoltre, essendo un leader greco, la figura di Tsipras ha anche un aspetto simbolico, sia perché lì stanno le origini della nostra civiltà, sia per la situazione in cui attualmente versa quel Paese: non so se ci rendiamo conto che qualche mese fa ha chiuso l’Università di Atene.
Lei esclude, dunque, che un simile ruolo di rottura possano giocarlo i socialisti guidati dal tedesco Martin Schulz…
Non lo escludo affatto. Temo, però, che se si confronteranno le due forze di cui dicevo — nazionalisti e «mercatisti» — alla fine la socialdemocrazia farà blocco con i conservatori, nella logica delle larghe intese, per far fronte al nemico comune. Sarebbe la paralisi. So bene che quest’iniziativa della lista Tsipras è accusata di essere l’ennesimo tentativo minoritario, settario, che fa il gioco di altri… Ma ormai non se ne può più di questo modo di ragionare. Penso che la questione Europa non si esaurisca nell’allentamento del vincolo del 3% deficit/pil o simili: c’è ben altro in gioco. Intendiamoci: mettere in discussione i rigidi vincoli finanziari, come dicono di voler fare i socialisti, è propedeutico alle necessarie politiche di sviluppo, ma è pur sempre un aggiustamento all’interno della logica che attualmente regge l’Ue. Noi vogliamo riappropriarci dell’idea dei padri fondatori, che non si limitava alla dimensione mercantile, ma mirava a un’idea politico-culturale: l’Europa come punto di riferimento per il mondo, basato sulle sue acquisizioni civili e sociali. E se ciò potesse esistere, sarebbe anche un elemento d’equilibrio nei rapporti internazionali: una dimensione totalmente estranea all’Ue di oggi, che non gioca alcun ruolo nella scena mondiale e che non fa nulla affinché, ad esempio, i diritti sociali siano riconosciuti anche nei Paesi di nuova industrializzazione. Ma per farlo, dovrebbe prima esistere come entità politica: per me, la lista Tsipras, scontrandosi con gli interessi delle nazionalità chiuse e con quelli dei mercati globali de-regolati, è un progetto che ha come primo obbiettivo costruire l’Europa come autentico spazio politico democratico. Siamo persino ancora «al di qua» di una divisione fra destra e sinistra.
Anche lei condivide, come i promotori dell’appello per la lista Tsipras, la necessità di cambiare i trattati, magari attraverso un processo costituente. Sbaglio?
No, non sbaglia. Questo è ciò che dicono giustamente il movimento federalista e, in generale, tutti gli europeisti più avvertiti. Siamo in un momento in cui o si pone seriamente il tema della democratizzazione delle istituzioni europee o andremo incontro a un progressivo deperimento dell’idea di Europa unita».
A proposito del processo costituente non sarebbe come fare una costituzione senza popolo, senza un demos europeo…
Anche secondo me non si può fare una costituzione senza un popolo europeo, che attualmente ancora non c’è. Ma ciò non significa che abbiano ragione coloro che sostengono l’ipotesi «funzionalista». Senza un popolo, c’è solo l’oligarchia. Senza democrazia, c’è solo la tecnocrazia. Non può reggere l’Ue senza una sorta di «patriottismo» europeo, legato alla nostra consapevolezza orgogliosa di quella parte della storia dell’Europa che ha generato tolleranza, diritti civili e sociali, uguale dignità degli esseri umani, amore per scienze e arte, protezione per i deboli, rifiuto di quel darwinismo sociale che, sotto forma di iperliberismo, sta invadendo il mondo. Una storia fatta anche dalle sue culture politiche: illuminismo, socialismo e solidarismo cristiano. Oggi, purtroppo, c’è un impedimento oggettivo alla possibilità di una costituzione europea: l’indisponibilità alla solidarietà fra Paesi. E se non c’è disponibilità dei forti a condividere la fragilità dei deboli, non c’è costituzione che tenga.
Pensa che la Carta dei diritti fondamentali di Nizza sia una leva per aprire delle contraddizioni all’interno del diritto comunitario vigente?
Quella Carta doveva essere la base di tutto, perché fondava la cittadinanza europea. È stata criticata per essere sbilanciata sul piano dei diritti individuali rispetto a quelli sociali, ma il problema è che non è mai entrata davvero nel «sangue» che circola nella Ue: è vigente, ma è anche effettiva? Decisamente più «viva» è la Convenzione europea dei diritti umani, quella su cui vigila la Corte di Strasburgo. Va detto, tuttavia, che il terreno puramente giuridico è importante, ma non è quello determinante: di fronte alla bufera finanziaria, il mondo del diritto non può fare molto. Ha bisogno di essere alimentato dal basso, dalla partecipazione, dal fatto che «si avverta» che le carte e le corti hanno un ruolo. In ogni caso, bisogna certamente insistere sul fatto che una realtà come la troika (Commissione, Bce e Fondo monetario, ndr) non ha alcun fondamento giuridico: in base a cosa vanno a controllare i conti dei Paesi come la Grecia? Non c’è né legittimità né legalità. Eppure, i suoi controlli e responsi contabili contano molto di più dell’Europarlamento, e possono addirittura aprire la strada al fallimento degli stati. Un tema, quello del fallimento, su cui occorre porre molto di più l’attenzione.
In che senso?
Fino a qualche tempo fa, l’accostamento stato-fallimento sarebbe apparso un’aberrazione: lo Stato non poteva fallire. Se oggi non respingiamo questo accostamento è perché accettiamo senza accorgercene la degradazione dello Stato a società commerciale. Ma non può essere così, è una contraddizione in termini: lo Stato è un’altra cosa. Noi non possiamo partecipare a un’istituzione come la Ue se essa prevede, tra i suoi strumenti, il fallimento dei suoi membri: uno strumento capace di annullarne le istituzioni democratiche. Da costituzionalista, osservo che l’adesione dell’Italia alla Ue si fonda sull’art.11 della nostra Costituzione, che dice che si può limitare la sovranità a favore di istituzioni sovranazionali, ma a condizione che esse servano la pace e la giustizia tra i popoli. Se servono non a questi, ma ad altri scopi, che si fa? Diciamo: con la lista Tsipras ci si impegna per sconfiggere i due mastodonti di cui dicevo prima, essendo aperti a ogni possibile collaborazione per una Europa di pace e di giustizia.
C’è chi ha criticato l’idea di questa lista perché sarebbe ostile ai partiti, quasi il frutto di una sorta di grillismo da intellettuali. Come risponde?
Io credo al ruolo insostituibile dei partiti, e penso che la politica — come insegna Max Weber — debba essere anche una professione. Se ci guardiamo attorno, però, dobbiamo dire che in Italia non sempre ciò che si chiama «partito politico», è davvero «politico». Abbiamo idea di che cosa deve essere la politica? Dietro la lista Tsipras, per come la vedo io, c’è invece un’idea pienamente politica di organizzazione di bisogni, interessi e prospettive: mi auguro che questa esperienza possa servire a motivare una parte di elettorato che non va più a votare, sceglie il Movimento 5Stelle o è delusa del partito cui finora ha dato il suo voto. Una parte sempre più grande di popolazione, che — non credo ci sia nemmeno bisogno di dirlo — è composta di molte persone di valore, di una parte buona di società