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La follia istituzionale di un parlamento eletto con una legge incostituzionale che cambia la Costituzione accogliendo l'iniziativa di «due per­so­naggi ambe­due sprov­vi­sti di potere pro­po­si­tivo legale, uno per­ché con­dan­nato per truffa a danno dello stato e inter­detto dai pub­blici uffici, l’altro per­ché era tito­lare di una carica che lo ren­deva incom­pa­ti­bile col man­dato par­la­men­tare».

Il manifesto, 4 marzo 2014

In un Paese civile, un evento senza pre­ce­denti nella sto­ria degli stati, come la decla­ra­to­ria di inco­sti­tu­zio­na­lità del sistema di ele­zione del Par­la­mento – cioè della legge che san­ci­sce la forma di stato e ine­ri­sce alla forma di governo — avrebbe deter­mi­nato, imme­dia­ta­mente e senza alcuna esi­ta­zione, lo scio­gli­mento imme­diato delle assem­blee elette con quel sistema. Con l’assoluta sicu­rezza della legit­ti­mità del sistema elet­to­rale col quale sareb­bero state elette le nuove Camere, stante la for­tuna di disporre di un mec­ca­ni­smo elet­to­rale di risulta costi­tu­zio­nal­mente cor­retto e imme­dia­ta­mente uti­liz­za­bile, depu­rato com’è delle dispo­si­zioni illegittime.

Siamo, invece, in Ita­lia. Ci tocca quindi con­sta­tare che le due Camere del Par­la­mento restano, spa­val­da­mente, in carica. Per giunta si appre­stano a rifor­mare addi­rit­tura la Costi­tu­zione e intanto a prov­ve­dersi di un altro sistema elet­to­rale. A pro­porlo sono stati due per­so­naggi ambe­due sprov­vi­sti di potere pro­po­si­tivo legale. Uno per­ché con­dan­nato per truffa a danno dello stato e inter­detto dai pub­blici uffici, l’altro per­ché era tito­lare di una carica che lo ren­deva incom­pa­ti­bile col man­dato par­la­men­tare. Ambe­due in preda all’ossessione di acqui­sire, eser­ci­tare e incre­men­tare potere per­so­nale, anche cal­pe­stando norme e prin­cipi. Ma non basta. Ad inte­grare la deva­sta­zione giu­ri­dica, poli­tica e morale che sta attra­ver­sando la nostra Repub­blica, si aggiunge il tipo di sistema elet­to­rale che pro­pu­gnano i due usur­pa­tori dei diritti dei com­po­nenti delle due Camere. Sistema che ripro­duce sfac­cia­ta­mente le inco­sti­tu­zio­na­lità già accer­tate dalla Corte, le rive­ste e le imbel­letta con sgua­iata volgarità.

Chi scrive, tut­ta­via, resta imper­ter­rito difen­sore del par­la­men­ta­ri­smo. Al punto da sognare un’estrema impro­ba­bi­lità. Pur se nomi­nati e non eletti, è dal voto alle liste che con­te­ne­vano i loro nome che i depu­tati e i sena­tori in carica deri­vano i poteri che spet­tano ai mem­bri del Par­la­mento. È dal voto delle elet­trici e degli elet­tori, pur se con sistema truf­fal­dino, è dal corpo elet­to­rale, pur se com­presso e rese­cato, è in nome di quel poco che forse resta ancora della sovra­nità popo­lare che i depu­tati e i sena­tori seg­gono sugli scanni delle Aule delle due Camere. Potreb­bero per­ciò riscat­tarsi dall’essere stati nomi­nati e non eletti, potreb­bero, per una volta, libe­rarsi dal dovere di ubbi­dire a chi li ha inclusi nelle liste e sen­tirsi obbli­gati invece a rap­pre­sen­tare «la Nazione senza vin­colo di man­dato» rifiu­tando di appro­vare una legge elet­to­rale pro­get­tata da chi ha usur­pato il loro potere fon­da­men­tale di pro­po­sta oltre che di appro­va­zione delle leggi.

Una legge elet­to­rale che si basa su due nega­zioni, due vio­la­zioni dei prin­cipi ele­men­tari dello stato rap­pre­sen­ta­tivo e della demo­cra­zia. Uno è il prin­ci­pio della libertà di voto, quindi di sce­gliersi chi votare come pro­prio rap­pre­sen­tante. È men­zo­gna vol­gare asse­rire che si è liberi di sce­gliere in caso di lista bloc­cata. Lo si sarebbe sol­tanto… votando per una lista avver­sa­ria a quella pre­fe­rita con il can­di­dato pre­fe­rito col­lo­cato però in una posi­zione di asso­luta impro­ba­bi­lità di elezione.

L’altra nega­zione è quella occul­tata dalla ido­la­tria della gover­na­bi­lità, della sta­bi­lità, della per­so­na­liz­za­zione del potere, tutto a un uomo solo, e di altre misti­fi­ca­zioni della poli­to­lo­gia domi­nante e distrut­tiva del prin­ci­pio di egua­glianza. Si deno­mina «pre­mio di mag­gio­ranza». Ne va sma­sche­rata la verità con forza e con­ti­nuità per com­bat­tere il capo­vol­gi­mento indotto nel senso comune di una verità ele­men­tare. È falso nel nome, nella sostanza e nell’effetto. Non pre­mia affatto una mag­gio­ranza, vani­fica quella vera. Il prin­ci­pio di mag­gio­ranza, come tutti sanno, pre­sup­pone il rag­giun­gi­mento della metà più uno dei voti espressi. Il «pre­mio di mag­gio­ranza» non lo si con­fe­ri­sce a chi que­sti voti li ha acqui­siti (che oltre­tutto non avrebbe biso­gno) ma a chi non li ha acqui­siti. Lo si con­fe­ri­sce , quindi, a una mino­ranza, quella che ottiene un solo voto in più di cia­scuna altra mino­ranza. Il «pre­mio» si tra­duce quindi in un pri­vi­le­gio per una delle mino­ranze rispetto a tutte le altre. Pri­vi­le­gio che com­porta com­pres­sione di voti e sot­tra­zione di seggi a quella che risul­terà essere la mag­gio­ranza reale, vera, per­ché com­po­sta dalla somma delle liste votate, esclusa la mino­ranza pri­vi­le­giata. Col ren­zu­sco­num una lista che ottiene il 37% dei voti, rag­giunto magari con altre liste della coa­li­zione che non hanno rag­giunto la soglia del 5% dei voti, un<CW-26>a lista quindi che potrebbe aver con­se­guito solo il 30% dei voti o anche meno, otter­rebbe il 53% dei seggi sot­traen­doli alla rap­pre­sen­tanza dei due terzi degli elet­tori. Non è l’unica vio­la­zione di ogni logica ele­men­tare del ren­zu­sco­num. Ce ne sono altre come le «soglie» di entità esor­bi­tante che per­ciò vani­fi­cano i voti di milioni di elet­tori che non si rico­no­scono in nes­suna delle due aggre­ga­zioni sup­po­ste come mag­giori. Soglie che ope­rano selet­ti­va­mente al primo scru­ti­nio, ma scom­pa­iono nel bal­lot­tag­gio per riser­varlo all’esclusivo domi­nio di tali aggregazioni.

Si sostiene che que­ste illo­gi­cità pla­teali, que­ste stor­ture aber­ranti, si ren­dono neces­sa­rie per assi­cu­rare la gover­na­bi­lità anche se sacri­fi­cano l’eguaglianza. Un prin­ci­pio fon­dante (il mas­simo secondo Costi­tu­zione) dovrebbe rece­dere a fronte di un obiet­tivo che, al di là del costo altis­simo in ter­mini della stessa tol­le­ra­bi­lità demo­cra­tica, è tutt’altro che certo e comun­que non sicu­ra­mente vir­tuoso. Lo dimo­stra l’esperienza disa­strosa del governo Ber­lu­sconi, che dal 2008 al 2011 dispo­neva di una mag­gio­ranza enorme e ha por­tato l’Italia sull’orlo del default. Si sostiene anche che la sera dell’elezione gli elet­tori e le elet­trici devono «sapere chi li governa». Mai idio­zia così truf­fal­dina fu con­ge­gnata. Averla prima inven­tata e poi dif­fusa ha deter­mi­nato il rove­scia­mento tra­gico del senso dell’elezione tra­smu­tan­dola in scelta di colui dal quale si sarà gover­nati, come dire, se … da Fran­cia o da Spa­gna si otterrà il «magnare». L’elezione non sarà più diretta alla scelta del rap­pre­sen­tante delle domande, dei biso­gni, dei pro­getti di chi com­pone il corpo elet­to­rale cui spet­te­rebbe la sovra­nità. La sovra­nità sarà capo­volta, diverrà sud­di­tanza a un capo asso­luto. La tra­ge­dia della demo­cra­zia si rap­pre­sen­terà con la farsa dell’elezione.

Prima di appro­vare que­sta legge ci pen­sino i par­la­men­tari della Repub­blica. Chissà. Potreb­bero cogliere l’occasione per rive­larsi tali.

Sapide annotazioni e suggestive rimembranze storiche suscitate dalla mimica del figlio del Cavaliere.

La Repubblica, 4 marzo 2014

Nell’eloquio del premier esordiente ricorrono i gesti esclamativi, abilmente usati. Definiamolo in greco: anziché dal nóos, organo intellettivo, sale dal thumós, sede degli spiriti vitali; volano parole esca cariche d’effetto; e talvolta catturano l’uditorio. Ad esempio, «rottame», da cui il verbo «rottamare»; o «mettere la faccia»; «se questo governo fallisce, la colpa è mia»; annunciava «una riforma al mese». Manca ancora la trama razionale: come stiano effettivamente le cose; quid agendum ossia la scelta del fine e i motivi; fin dove sia conseguibile; con quali risorse; come spenderle ecc.

Perdurando lacune sintattiche, siamo nella sfera del grido o segno mimico: N. batte pugni sul tavolo; solleva un sopracciglio; sta mani in tasca; dà manate sul palmo della mano altrui anziché stringerla. La politica, materia ibrida, ha testa e viscere: gestire l’interesse pubblico richiede mente fredda, acume percettivo, fantasia intellettuale, calcoli esatti; è una scienza ma chi comanda dura finché i sudditi non se lo scrollino, essendosi spenti i carismi che irradiava; e lì siamo sul terreno sensitivo.

La caduta dell’ex premier è caso classico: poco carismatico, teneva banco da 10 mesi, covato dal Quirinale; i punti deboli erano visibili da quando è emerso, sotto pesante parentela, ma pareva inamovibile, così protetto, avendo dalla sua l’inerzia d’una legislatura i cui reddituari, nominati dai partiti, mirano al quinquennio; e d’un colpo risulta fuori gioco.

Quanto influiscano gli sfondi emotivi, spesso determinanti, lo dicono quattro esempi. Nicola nasce nella Roma ancora semigotica, primavera 1313, tra i mulini del Tevere, sotto la Sinagoga, figlio dell’oste Lorenzo (Cola di Rienzo) e impara benissimo l’arte notarile. L’anonimo autore d’una Cronica romanesca lo descrive ferrato latinista: «deh, como e quanto era veloce lettore»; «tutta die» studia epigrafi delle quali pullula l’Urbe; decifra «li antiqui pataffii», interpreta figure, evoca tempi gloriosi. Le lapidi gli servono da scala: ha estro politicante; non ancora trentenne, sale ad Avignone, speaker del governo popolare; e torna con un buono stipendio, notaio del Tesoro comunale. Era posto strategico: in tale veste sferra «luculente » arringhe» contro i magnati, talmente stupidi da subire inerti un colpo di Stato (20 maggio 1347); nominatosi tribuno, governa a mano dura, col favore popolare, ma ha l’Io gonfio. L’inflazione megalomaniaca culmina nella fantasmagoria 31 luglio-1 agosto: cita Sua Santità, l’Imperatore, gli Elettori, i pretendenti; declina titoli immaginari («Candidatus Spiriti Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis, Tribunus Augustus »). Ha dei soprassalti. Venerdì 14 settembre convoca i baroni, li imprigiona e condanna a morte ma l’indomani mattina cambia idea, convitandoli in Campidoglio. S’è candidato all’Impero. Chiama il popolo a parlamento e racconta dei sogni. Se ne stava sgomento quando i baroni vengono alla Porta Tiberina, 29 novembre, avendo complici tra le mura, ma il tentativo fallisce, allora. canta vittoria, sfila, arringa, nega la sepoltura ai tre Colonna morti. In fondo labile, dopo 15 giorni abdica rifugiandosi nel Castello, indi s’imbosca tra Napoli e Roma, ospite dei francescani spirituali sulla Maiella, poi in blanda prigionia boema dall’estate 1350, finché emissari papali lo riconducono ad Avignone (estate 1352). Morto Clemente VI, offre servizi nei domini italiani al successore Innocenzo (stesso numerale) e torna al seguito del cardinale legato. Era capolavoro d’arte ipnotica il modo in cui affascina i due fratelli del terribile e ricchissimo condottiero fra’ Moriale, con i soldi dei quali affitta una compagnia, accolto trionfalmente, ma ormai lo vedono deforme, malfermo, beone. La guerra contro i baroni ristagna. A tradimento cattura fra’ Moriale, decapitato sotto il Campidoglio, sulle cui scale mercoledì mattina 8 ottobre 1354 cade miserabilmente (tentava la fuga, travestito da rivoltoso).

L’impetuoso Francesco Crispi (1818-1901), due volte presidente del Consiglio, va soggetto a lampi allucinatori: teme attacchi dalla flotta francese; crede d’avere acquisito l’Impero etiopico con un imbroglio diplomatico, fallito il quale, manda al macello quattro brigate italiane nella giornata d’Adua, domenica 1 marzo 1896; e trova un culto postumo, quale precursore del Duce.

Il quale rifonda l’Impero e ne sogna uno mediterraneo-atlantico, guadagnato con mille o duemila morti nella scia delle vittorie hitleriane, a spese d’Inghilterra e Francia, paesi capitalisti. Dopo vent’anni d’una sbornia epica all’Italia «proletaria» (già Pascoli la chiamava così) restano gli occhi per piangere, ma gl’irriducibili rimpiangono l’uomo forte, taumaturgo, mago delle vie brevi, finito orribilmente appeso come Cola di Rienzo, perché dove gl’impulsi viscerali prevalgano sulle idee, ci vuol poco a convertirli nel contrario, dall’entusiasmo adorante al ludibrio del cadavere. Rimane costante un’acuta idiosincrasia: non piace chi parli poco, attento ai nessi, contando sul raziocinio; il difetto d’enfasi è piuttosto raro e chi vi cade lo paga.

Vedi Giolitti, aborrito in chiavi multiple: emette prosa secca, mentre gli antagonisti declamano (l’unica volta che cita Dante, molto a proposito, Montecitorio scoppia in una risata); tiene d’occhio i fatti, anziché cantare meraviglie; disegnando un socialismo riformista nell’area governativa, offende oligarchi e piccoli borghesi rampanti, consumatori d’erba retorica dannunziana; e colpa imperdonabile, non vede perché l’Italia debba giocarsi la testa saltando gratuitamente addosso a due potenti paesi dei quali è alleata da trent’anni.

Eravamo partiti dalla lingua politica italiana. Il premier in carica gioca d’effetto innestandovi locuzioni estranee alla parlata ufficiale. L’idem storico non esiste, irripetibile essendo ogni contesto, ma l’analogia aiuta a capire quel che avviene. Il punto interessante è cosa sia pronosticabile sul governo misteriosamente nato dai patti tra mercoledì 12 febbraio e l’indomani.

Lo strumento essenziale della democrazia rappresentativa continua a essere trattato come se il Palazzo si fosse trasformato in un mercato delle vacche (pardon, delle cacche) Il manifesto, 4 marzo 2014

La legge con la quale è stato eletto que­sto par­la­mento è in vigore da otto anni ed è gene­ral­mente cri­ti­cata da almeno sette. Molti pro­getti di riforma si sono suc­ce­duti ma nes­suno era arri­vato ad essere discusso da un’aula par­la­men­tare. Oggi que­sta discus­sione comin­cia a Mon­te­ci­to­rio. Nel frat­tempo la Corte Costi­tu­zio­nale ha fatto a pezzi la legge, dise­gnan­done una nuova: pro­por­zio­nale con soglie di sbar­ra­mento, una pre­fe­renza e niente pre­mio di mag­gio­ranza. È una legge appli­ca­bile, tut­ta­via una mag­gio­ranza più ampia di quella di governo vuole scri­vere un sistema nuovo. Solo che, a dispetto della lunga attesa, non c’è accordo su quando que­sta riforma possa essere uti­liz­za­bile. Subito, o tra 12–18 mesi? Le trat­ta­tive vanno avanti, ma ancora ieri sera Renzi doveva rico­no­scere che restano «varie difficoltà».

L’intreccio è appa­ren­te­mente senza solu­zione, salvo che una solu­zione c’è sem­pre: pren­dere un po’ di tempo. La corsa di Renzi sulla legge elet­to­rale — quando era solo il segre­ta­rio del Pd voleva appro­varla in prima let­tura entro feb­braio, sca­denza poi spo­stata di un mese causa più alto inca­rico — sbatte con­tro l’equivoco fon­da­tivo del suo governo. I garanti del patto sulle riforme, Ber­lu­sconi e Renzi mede­simo, hanno inte­ressi oppo­sti a quello del par­tito che con i suoi 32 sena­tori tiene in piedi l’esecutivo, il Nuovo cen­tro­de­stra di Alfano. Al pre­si­dente del Con­si­glio e al Cava­liere inte­ressa tenere sulla corda i par­titi con la minac­cia di ele­zioni nel 2015, al mini­stro dell’interno sta a cuore pro­lun­gare la legi­sla­tura fino a quando Ber­lu­sconi sarà poli­ti­ca­mente tra­mon­tato (per rac­co­gliere la lea­der­ship che non può con­ten­dere). I primi hanno fretta, il secondo ral­lenta. Con Alfano sta la mino­ranza Pd che vuole met­tere in crisi l’asse tra Firenze ed Arcore, oltre che una straor­di­na­ria ragione di buon­senso: l’Italicum appli­cato al bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio peg­giora i suoi già nume­rosi difetti. Ecco spie­gati gli emen­da­menti dei ber­sa­niani Lau­ri­cella e D’Attorre, che rin­viano l’operatività della nuova legge elet­to­rale all’entrata in vigore della riforma del senato. Altra pro­messa, o minac­cia, renziana.

L’aula della camera affron­terà l’argomento oggi pome­rig­gio, par­tendo dal voto degli emen­da­menti al testo del rela­tore Sisto (Fi) che rispec­chia il vec­chio accordo Pd-Fi-Ncd. Ci sono i tempi con­tin­gen­tati e Renzi spera ancora di chiu­dere il discorso entro fine set­ti­mana. Sta­mat­tina il comi­tato dei nove della com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali deci­derà sull’ammissibilità dei nuovi emen­da­menti che andranno ad aggiun­gerci agli oltre due­cento da votare. Tra que­sti nuovi quello D’Attorre che tra­sforma l’Italicum in una legge elet­to­rale valida solo per la camera dei depu­tati. Dal punto di vista costi­tu­zio­nale nulla impe­di­sce, ne ha impe­dito, di avere due sistemi diversi per le due camere — anche se la Con­sulta nella recente sen­tenza ha sot­to­li­neato i rischi per la gover­na­bi­lità. In teo­ria (ma non si è mai fatto) la Costi­tu­zione con­sen­ti­rebbe di scio­gliere in anti­cipo anche una sola camera.

Con l’emendamento D’Attorre in caso di ele­zioni anti­ci­pate a prima della riforma del senato, per palazzo Madama si vote­rebbe con il sistema uscito dalla sen­tenza della Con­sulta, con soglia di sbar­ra­mento per le coa­li­zioni per­sino più alta dell’Italicum (20%) ma più bassa per i par­titi coa­liz­zati (3%). E senza pre­mio di mag­gio­ranza, quindi il vin­ci­tore della camera non avrebbe la garan­zia di poter gover­nare senza alleanze suc­ces­sive al voto. Per Renzi que­sta even­tua­lità appare comun­que pre­fe­ri­bile rispetto alla pro­po­sta Lau­ri­cella, che rin­via l’entrata in vigore dell’Italicum alla riforma del senato, per la quale è deci­sivo ogni sin­golo voto del Ncd. In ogni caso potrebbe minac­ciare le ele­zioni anti­ci­pate, accada quel che accada. Il pre­si­dente del Con­si­glio non è però riu­scito ancora a con­vin­cere il ber­lu­sco­niano Ver­dini. Ha ancora qual­che ora, per­ché gli emen­da­menti in que­stione, sui quali è pos­si­bile un peri­co­loso voto segreto, sono all’articolo due della legge e dun­que non sareb­bero stati in ogni caso votati oggi.

Nel frat­tempo è com­ple­ta­mente uscita dai radar la pro­po­sta di riforma del senato, che il segre­ta­rio Pd aveva pro­messo per metà feb­braio. Si sa che per­sino il pre­si­dente della Repub­blica ha fatto cono­scere i suoi dubbi per la pro­get­tata «camera dei sin­daci», e che Renzi sta imma­gi­nando cor­re­zioni. Ha fretta ma non rie­sce a correre.

Tre incantatori di serpenti raccolgono il 75% dei voti: come mai «folle sterminate di esseri umani pre­fe­riscono essere schiavi di un tiranno piuttosto che uomini liberi? Forse la libertà non è altret­tanto con­ve­niente quanto la schiavitù». Il manifesto, 4 marzo 2014

Ormai è farsa con­ti­nua. Abbiamo pra­ti­ca­mente rag­giunto l’incerta linea di con­fine che separa, e per­ciò intrec­cia e con­fonde, com­me­dia e tra­ge­dia, riso e pianto, buo­nu­more e dispe­ra­zione. Tutta colpa di Renzi, Ber­lu­sconi, Grillo e di non so quanti altri attori del tea­trino politico-istituzionale nostrano? Pur­troppo no. Come viene detto nell’Amleto, c’è del mar­cio in Dani­marca, cioè in Ita­lia. Renzi, Ber­lu­sconi e Grillo fanno il loro mestiere di incan­ta­tori di ser­penti, ma che ne sarebbe di loro se noi non li votas­simo, se non ci rico­no­sces­simo nelle loro facce, se non li amas­simo appas­sio­na­ta­mente, soprat­tutto se li con­tra­stas­simo senza ambi­guità? La domanda non è sol­tanto legit­tima, è vec­chia di almeno cin­que secoli, quanti ne sono tra­scorsi dal giorno in cui Etienne de La Boé­tie scrisse il suo Discorso sulla ser­vitù volon­ta­ria nel quale si chie­deva come mai – in nome di che cosa — folle ster­mi­nate di esseri umani pre­fe­ris­sero essere schiavi di un tiranno piut­to­sto che uomini liberi. E con­clu­deva affer­mando che forse la libertà non è altret­tanto con­ve­niente quanto la schia­vitù.
È una con­clu­sione oggi meno vera di ieri? Sap­piamo tutti che no, che le cose non sono affatto cam­biate. Soprat­tutto chez nous, dove l’attrazione per il cosid­detto «uomo forte», a furia di essere un’abitudine, è diven­tata una vocazione.
Secondo cal­coli gros­so­lani, i tre incan­ta­tori di ser­penti sopra citati rie­scono a rac­co­gliere il set­tan­ta­cinque per cento dei voti espressi dagli ita­liani: così, senza che da parte loro venga offerto alcun serio pro­getto di futuro, venga pro­spet­tato un solo tra­guardo di rilievo vero­si­mile, uni­ca­mente in nome del loro pre­sunto appeal.
Chiedo a un amico: ma per­ché ti piace Renzi? Risponde: per­ché è sim­pa­tico e ruspante, sa quel che vuole. Obietto: lui forse sa quel che vuole, ma per­ché non lo rac­conta anche a noi? Fac­cio la stessa domanda a una mili­tante di Forza Ita­lia: ma che ci trova, signora, di così coin­vol­gente in Sil­vio Ber­lusconi? Rispo­sta: tutto! È un grande sta­ti­sta, non ruba per­ché è ricco ed è anche un bell’uomo! A un mio gio­vane con­giunto, che vota per il Movi­mento 5 Stelle, rim­pro­vero siste­ma­ti­ca­mente (quanto inu­tilmente) la sua pas­sione per Grillo: pos­si­bile che non abbia in testa altra stra­te­gia che quella di trion­fare, lui da solo, su tutto e su tutti? Ma chi si crede d’essere il tuo comico con quella sua fac­cia spi­ri­tata e quei ric­cio­loni di nar­ciso sca­te­nato? Replica: faremo a tutti un culo così.
Siamo al trionfo del deli­rio auto-celebrativo. Al disco­no­sci­mento di ogni alte­rità. Addio, logos. Altro che Etienne de La Boé­tie: oggi le cose vanno di gran lunga peg­gio di un tempo. Dap­per­tutto, temo. Ma in spe­cial modo qui da noi dove santa romana Chiesa ci ha espro­priato di ogni senso di respon­sa­bi­lità, degra­dan­doci a sud­diti da cit­ta­dini che era­vamo (mi è capi­tato di scri­vere un libro al riguardo, inti­to­lato La fab­brica dell’obbedienza, il lato oscuro e com­plice degli ita­liani).

La sini­stra è scom­parsa. A met­terla defi­ni­ti­va­mente fuori com­bat­ti­mento è stata la crisi eco­no­mica che ha fatto emer­gere in maniera ancora più cla­mo­rosa che in pas­sato la sua vacuità e ina­de­gua­tezza a rap­pre­sen­tare gli inte­ressi dei ceti col­piti, la sua voca­zione alla sud­di­tanza e al com­pro­messo. Lo spet­ta­colo stringe il cuore. Tanto più che, men­tre nelle piazze tele­vi­sive trionfa una ple­tora di unti dal Signore (se Renzi è il figlio, Grillo è lo spi­rito santo), la sini­stra non rie­sce a into­nare nep­pure un mea culpa, a ela­bo­rare nean­che uno strac­cio di rifles­sione auto­cri­tica. Come se nes­suno fosse respon­sa­bile di niente, tutto fosse avve­nuto per sen­tenza cele­ste e ormai non ci restasse che piangere.

A guar­darsi intorno, si direbbe che il fascino per­verso del cata­stro­fi­smo ci abbia presi tutti al lac­cio: la pio­vra finan­zia­ria, l’Europa dei forti, i nuovi schia­vi­sti della mon­dia­liz­za­zione pro­dut­tiva sem­brano aver eretto, tutti assieme, un muro impos­si­bile da oltrepassare.

Ho par­te­ci­pato alcune sere fa a una riu­nione di per­sone aventi alle spalle un ono­re­vole pas­sato di lotte demo­cra­ti­che, insomma di forte impe­gno poli­tico. Non ho sen­tito echeg­giare una sola parola di tipo pro­po­si­tivo, e ancor meno rela­tiva agli errori com­messi, ai com­por­ta­menti sba­gliati, alle debo­lezze anche di tipo etico mostrate, si badi, non sol­tanto da que­sta o da quella orga­niz­za­zione poli­tica ma dai sin­goli, da tutti noi. Avrei voluto pren­dere la parola ma non ho osato, inti­mi­dito a mia volta dalla cupa atmo­sfera gene­rale deter­mi­na­tasi, credo, in forza del pre­va­lente sen­tire pes­si­mi­stico dei pre­senti.

Siamo tutti vera­mente pri­gio­nieri di una situa­zione irri­me­dia­bile? Que­sto avrei voluto dire. Ma non sol­tanto que­sto. Avrei voluto par­lare dei nostri errori, del fatto che la sini­stra, come un pugile suo­nato, ormai non è più in grado di tute­lare nep­pure il pro­prio patri­mo­nio lin­gui­stico, come sta a dimo­strare la spre­giu­di­cata appro­pria­zione della parola «auste­rità» da parte di una destra euro­pea tanto cana­glia quanto truf­fal­dina, che se ne è ser­vita per con­fe­rire una par­venza di ono­ra­bi­lità ai pro­pri dik­tat eco­no­mici. E tutto que­sto senza che da parte degli eco­no­mi­sti demo­cra­tici si levasse un solo grido di pro­te­sta, una sola accusa di «furto ideologico».

Le parole, lo sap­piamo tutti, sono impor­tanti, scal­fi­scono le nostre coscienze. Soprat­tutto quando ven­gono osses­si­va­mente rei­te­rate come fanno i gior­nali ogni mat­tina con que­sto lemma abu­sivo, come fa la tele­vi­sione, come fanno i poli­tici, i cit­ta­dini e come fac­ciamo incon­sa­pe­vol­mente noi stessi attri­buendo in tal modo, senza rite­gno, quarti di nobiltà a poli­ti­che che meri­te­reb­bero ben altre defi­ni­zioni.
Le parole devono cor­ri­spon­dere esat­ta­mente alle cose: guai se ciò non accade. Mi ven­gono a mente alcuni straor­di­nari versi di Juan Ramon Jime­nez: Intel­li­genza, dammi/ il nome esatto delle cose!/ … che la mia parola sia/ la cosa stessa…

Per noi infatti era «la cosa stessa», soprat­tutto se ci si rife­ri­sce al con­te­nuto etico della parola «auste­rità», che da sem­pre si con­trap­pone a «dis­so­lu­tezza» e «cor­ru­zione» ed è meta­fora di costumi irre­pren­si­bili. Appar­te­neva insomma al nostro voca­bo­la­rio (chi più di noi può amare e pra­ti­care l’austerità?): abbiamo lasciato senza colpo ferire che diven­tasse l’altrui foglia di fico. Anzi peg­gio: che diven­tasse la nostra parola «nemica», la ban­diera da abbat­tere.

Sve­glia, sini­stra, apri gli occhi!
Diceva Andreotti: a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Ecco perchè B. preferisce governare così.

Il Fatto quotidiano, 2 marzo 2014
A gennaio, quando Renzi incontrò il pregiudicato interdetto decaduto Berlusconi nella sede Pd per discutere la nuova legge elettorale e le riforme collegate (Senato e Regioni), scrivemmo pur fra mille dubbi che non era proprio uno scandalo. Le leggi elettorali appartengono agli elettori, non agli eletti, dunque era impensabile tagliar fuori il maggior partito di centrodestra.

Inoltre, stante lindisponibilità dei 5Stelle persi nella Rete, per sbloccare l'impasse non restava che rivolgersi al terzo partito, Forza Italia: l'unico che poteva assicurare una maggioranza in Parlamento. Renzi, appena plebiscitato segretario del Pd, giurava che l'accordo con B. era per una legge che ci mettesse al riparo da altri governi con B.

Intanto, mentre lui e B. si occu-pavano delle riforme, Letta poteva governare sereno. Non restava che prenderne atto e aspettarlo al varco, cioè alla prova dei fatti: per quanto inedita, lipotesi che un politico italiano dicesse la verità non andava scartata a priori. Ora, meno di due mesi dopo e alla luce dei fatti, possiamo tranquillamente affermare che Renzi mentiva.

L'accordo con B., quasi sempre intermediato dal comune amico Denis Verdini, è ben più vasto e stringente di unintesa tecnica per quelle tre riforme. È un patto d'acciaio le cui clausole restano occulte, anche se i risultati si manifestano ogni giorno più chiari.

Il Caimano sa che il 10 aprile si riunisce il Tribunale di sorveglianza per decidere dove sconterà i 7 mesi di pena (quel che resta della condanna a 4 anni, detratti i 3 anni di indulto e i 5 mesi di liberazione anticipata extralarge sancita dallo svuotacarceri Cancellieri): in galera, o ai domiciliari, o ai servizi sociali. Forse, per non alimentare il suo vittimismo durante la campagna elettorale per le Europee, il verdetto slitterà di un paio di mesi. In ogni caso il pregiudicato sarà politicamente fuori gioco sino a fine anno: guiderà il partito per interposto Toti. Intanto tenterà il colpaccio: candidarsi ugualmente alle Europee in barba alla legge Severino e sfidare gli uffici elettorali della Corte dappello a depennarlo, con una prova muscolare che mira a resuscitare il vecchio nemico, le toghe rosse; a incendiare una spenta campagna elettorale; e a mettere in difficoltà l’amico Matteo.

Per portare a termine il piano, B. ha bisogno di un governo che regga almeno un anno, dandogli modo di tornare come nuovo a Natale e di organizzare l’unica campagna che gli sta a cuore: quella delle politiche, che non fa mistero di auspicare per il 2015. Il governo Letta questa garanzia non gliel’assicurava: stava insieme con lo sputo, passava di gaffe in scandalo, non aveva più l’appoggio del Pd, poteva sfasciarsi da un momento all'altro. E, se anche fosse durato fino al 2015, avrebbe costretto il quasi ottantenne Caimano a sfidare un giovane come Renzi, che ha la metà dei suoi anni, per giunta intonso da esperienze governative e dunque molto più fresco e popolare di lui. Una partita persa in partenza.

L'ideale era che Renzi subentrasse a Letta sputtanandosi con un colpo di palazzo senza passare dal voto, risputtanandosi con estenuanti trattative con i partiti e i partitini di una maggioranza Brancaleone, arcisputtanandosi con un governicchio impresentabile e ultrasputtanandosi con grandi promesse e pochi fatti. Lamico Matteo,con ammirevole abnegazione, lha puntualmen-te accontentato. Missione compiuta. Già che ce-ra, gli ha pure regalato il controllo militare sui ministeri della Giustizia (con i berlusconiani Costa & Ferri), delle Infrastrutture (con i diversamente berlusconiani Lupi & Gentile) e delle Attività produttive (con la berlusconiana Guidi che veglia anche sulle Comunicazioni).

Così B. potrà seguitare a governare sui propri interessi e “gratis”, senza nemmeno il fastidio di entrare nella maggioranza, metterci la faccia e sporcarsi le mani.

Resta da capire che cosa ci guadagni Renzi da questa catastrofe, e magari un giorno lo capiremo. Ma è una vecchia storia. Lo scienziato capace di isolare il virus che porta al suicidio tutti i leader del centrosinistra vince il Nobel.


Qualche differenza ancora c'è tra le socialdemocrazie europee e il liberalsocialismo forzitaliota di Matteo Renzi e del

suo partito. Ma la sinistra è un'altra cosa. Il manifesto, 2 marzo 2014

Chissà se al com­pa­gno Renzi sarà andato di tra­verso il pop-corn quando Mar­tin Schulz, a con­clu­sione del congresso-convenscion del Pse, ha esor­dito con «Cari com­pa­gni…», rivol­gen­dosi natu­ral­mente anche alla folta dele­ga­zione di un par­tito, che ha can­cel­lato la parola sini­stra dal suo nome. Il libraio di Wur­se­len è da ieri il can­di­dato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea. Lo ha desi­gnato l’assise di Roma, alla fine delle tre gior­nate con­vo­cate per accen­dere i motori di una cam­pa­gna elet­to­rale dif­fi­cile, deci­siva, con una posta altis­sima per la sini­stra e per le sorti stesse dell’Europa.

Nella sala del palazzo dei con­gressi quello di Schulz è risuo­nato come un discorso d’altri tempi, più vicino alle corde di un socia­li­smo lom­bar­diano d’altri tempi che a quelle di un libe­ri­smo blai­riano, ispi­ra­tore del nuovo corso ren­ziano. Con­tro una crisi che ha fatto «i ric­chi sem­pre più ric­chi», che ha pro­dotto «120 milioni di poveri, 27 milioni di disoc­cu­pati», Schulz ha chie­sto ai rap­pre­sen­tanti del socia­li­smo euro­peo se erano «ancora in grado di sen­tire il dolore di chi con la crisi ha perso il lavoro, la casa, la cer­tezza di poter sfa­mare i pro­pri figli», per­ché «solo se saremo in grado di con­di­vi­dere que­sto dolore — ha avver­tito il lea­der social­de­mo­cra­tico — potremo meri­tare di vin­cere le elezioni».

Que­sto socia­li­sta che milita nell’Spd dall’età di dician­nove anni, ha par­lato del biso­gno di rico­struire un’Europa sociale e demo­cra­tica, aperta nelle sue fron­tiere, dove «nes­sun paese dovrà imporsi agli altri», dove «al cen­tro dovrà esserci la parola ugua­glianza», con­tro la “mano invi­si­bile” del mer­cato che tutto regola, con­tro una poli­tica che «pensa solo a sal­vare le ban­che», con­tro «i cinici sem­pre in agguato, e sem­pre pronti a dire che il voto non conta per­ché sono gli accordi nasco­sti», a det­tare legge. Dun­que il pros­simo 25 mag­gio la sini­stra «che si è persa deve ritor­nare a casa».

Ma Schulz è anche un bravo equi­li­bri­sta, molto attento a non nomi­nare la revi­sione dei Trat­tati, a non citare mai la Bce, a glis­sare sulle lar­ghe intese che in Ger­ma­nia e in Ita­lia con­ti­nuano a par­lare la lin­gua del fiscal com­pact. Una lacuna tem­pe­sti­va­mente col­mata da Renzi quando, nel suo breve inter­vento, ha assi­cu­rato che prima di tutto l’Italia «deve adem­piere ai pro­pri obbli­ghi tenendo i conti in ordine». Tutto il con­tra­rio di quel che ispira il can­di­dato della sini­stra Ale­xis Tsi­pras, sim­bolo di una bat­ta­glia e di una coa­li­zione che mette al cen­tro la cri­tica alla poli­tica eco­no­mica delle isti­tu­zioni mone­ta­rie e dei governi che se ne sono arci­gni guar­diani. E che, dalla Gre­cia, indica la rotta per un’altra Europa.

Bisogna finanziare la scuola privata perché la scuola pubblica è migliore: le paradossali argomentazioni della nuova ministra del governo Renzi, “giovane” e “rosa” nell’apparenza ma vecchio e nero nella sostanza. L

a Repubblica, 2 marzo 2014

Cambiano i governi non la politica scolastica, che promette di andare verso la graduale eguaglianza delle scuole private a quelle pubbliche. Alcuni governi sono più energici di altri; questo parte con una straordinaria determinazione. Le prime dichiarazioni della nuova ministra della Pubblica istruzione, Stefania Giannini, sono improntate al merito e al bisogno, per usare una fortunata coppia di valori, molto frequentati negli anni ’80. Il merito dovrebbe guidare la diversificazione remunerativa degli insegnati delle scuole pubbliche: coloro che producono di più dovrebbero essere meglio retribuiti, come i dipendenti di una qualunque azienda.

Il criterio per stabilire il merito nell’insegnamento medio e superiore non sarà facile da individuare, a meno che non si adottino criteri discutibili come il numero dei promossi, le ore di servizio alla scuola, o il buon gradimento da parte dei genitori o del dirigente scolastico. Ma è doveroso attendere le proposte prima di giudicare, riservandoci un angolino di scetticismo per le pratiche che vogliono applicare la logica degli incentivi economici a tutte le funzioni indifferentemente, non tenendo conto che ci sono beni di cittadinanza (come la scuola) che non possono essere giudicati con gli stessi criteri della produzione di beni destinati al mercato.

Le dichiarazioni di Stefania Giannini sono invece più esplicite nella parte relativa ai rapporti dello Stato con le scuole private paritarie. Qui la ministra invoca il bisogno. E le posizioni che emergono sono molto preoccupanti benché non nuove. Nuovo è l’armamentario argomentativo, perché pensato non per convincere che le scuole private parificate meritino più finanziamenti, ma per sostenere che esse hanno bisogno dei soldi pubblici e, infine, che il sollievo dal bisogno sarà garantito dal percorso del governo che va verso l’affermazione dell’eguaglianza piena, non più della parità, delle scuole private con quelle pubbliche. Il fine è far cadere ogni barriera che distingue i due ordini di scuola allo scopo di non dover più giustificare i finanziamenti pubblici, che a quel punto sarebbero dovuti. In questa cornice si iscrive la proposta della ministra di rilanciare le scuole private paritarie.

Veniamo alla giustificazione di questa marcia accelerata verso la scuola privata, che come si è detto è basata sul bisogno: in pochi anni le scuole private hanno perso studenti (in cinque anni uno su cinque), e per fermare questa emorragia lo Stato dovrebbe intervenire. E così è. I soldi pubblici sono infatti già stati accreditati alle Regioni, come ha comunicato la Compagnia delle opere (ben rappresentata nel governo): 223 milioni di euro stanziati per l’anno scolastico 2013/2014, in aggiunta a 260 milioni già previsti per lo stesso anno. In tutto, 483 milioni che tengono in piedi un settore in estrema difficoltà. Il pubblico, dunque, “tiene in piedi” la scuola privata in difficoltà. I vescovi e la ministra Giannini all’unisono chiamano questa una politica di «libertà effettiva di scelta educativa dei genitori».

Ma se c’è emorragia di studenti dalle private alle pubbliche, logica vorrebbe che si diano più risorse alle pubbliche, sia perché ne hanno presumibilmente più bisogno sia perché se lo meritano, avendo attratto più studenti, nonostante le “classi pollaio” esito della riforma Gelmini. Se è solo per bisogno che le scuole private devono ricevere i soldi pubblici, ciò significa che lo Stato fa dell’assistenza vera e propria. Non è dunque chiaro con quale logica la ministra applica la coppia merito/ bisogno, perché qui sembra di capire che le pubbliche siano punite proprio per ricevere gli studenti che abbandonano le private, le quali per non saper trattenere gli studenti ricevono invece i finanziamenti. È chiaro che i soldi pubblici servono a tenere queste scuole in vita, non a premiare il merito o il buon rendimento.

Tenerle in vita, si sostiene, perché sono il luogo dove si concretizza la «libertà educativa dei genitori». Ma perché i genitori scelgono di iscrivere i figli alla scuola pubblica? Presumibilmente questa loro scelta libera è dettata da ragioni di merito: la scuola pubblica è, nonostante tutto, migliore e vince sul mercato della libertà educativa. Ma a seguire le parole del ministro sembra di capire che lo Stato interverrebbe quando la scelta è già stata fatta, ovvero per finanziarne il residuo (cioè il risultato di quella scelta) non per garantirla. Qui vediamo in azione l’opposto del criterio del merito e del bisogno legato al merito, e inoltre una stridente contraddizione con il principio della libera scelta.

Un argomento insidioso per giustificare il tampone di emorragia con i soldi pubblici è che un alunno delle scuole private costa meno di un alunno delle scuole pubbliche. Nel contesto di razionalizzazione mercatista della spesa pubblica nella quale ci troviamo, non si fatica a intuire quale sarà il passo successivo: meglio finanziare le scuole private che quelle pubbliche perché costano meno all’erario. Questo sarebbe un epilogo fatale per la scuola pubblica. A giudicare da queste prime dichiarazioni della ministra Giannini, nel settore dell’istruzione il governo promette di essere un governo della restaurazione, ovvero di voler chiudere la disputa tenuta aperta dalla nostra Costituzione, decretando che tutte le scuole sono pubbliche, quelle dello Stato e quelle private parificate, che tutte devono essere “eguali”. La maggioranza parlamentare ha il potere di farlo. Ma l’opinione pubblica e politica ha il dovere di criticare questa scelta e di operare per fermarla o cambiarla.


Un po' di vernice rosa non basta affatto per qualificare un governo. Anzi. Se le donne sono tante certi silenzi sono ancora più gravi.

giuliarodano.eu, 24 febbraio 2014

Nel governo la metà dei ministri sono donne. Ma io non sto serena. Rimane qualcosa che non mi convince, anzi, per dirla tutta, che mi irrita, un sassolino nella scarpa o una briciola tra le lenzuola.
Non sto serena perché solo qualche settimana fa una giovane donna in gamba è rimasta fuori dal Consiglio regionale della Sardegna, nonostante avesse raccolto oltre il 10% dei consensi. E non ho sentito una sola parola di condanna su una legge elettorale così infame, Anzi la Tavola della parità ha ribadito la richiesta di modifiche corporative all’ Italicum, che tanto somiglia alla legge sarda.
Non sto serena perché delle donne ministro una è portatrice di clamorosi conflitti di interesse, un’altra intende governare la scuola applicando invece che rovesciando le ricette devastanti dei suoi predecessori e perché della terza non ho sentito una sola parola conto gli F35. E siamo solo alle prime battute. Mi si dirà, ma potrebbero fare altrettanto gli uomini. E vero. E quindi non basta che ci siano le donne per farmi essere serena. Non è questa presenza che fa la novità del governo. Possibile che in un governo con otto ministre non ci sia una parola nel programma per la lotta alle dimissioni in bianco, non vengano pronunciata dal presidente del Consiglio le parole giustizia sociale, o il temine evasione fiscale o la parola precariato o al a disoccupazione intellettuale. Che non ci sia una parola per le ragazze che devono rinunciare alla maternità perché la partita Iva o il contratto a termine non le garantiscono più. Non sto serena.

A me avevano insegnato, le tante che mi hanno preceduto e che hanno aperto la strada, che le donne, lottando per la loro liberta, avrebbero contribuito alla liberta di tutte e di tutti. Avrebbero cambiato la politica, le sue forme e i suoi contenuti, avrebbero rovesciato il punto di vista sulle cose, affermando quello di genere. Avrebbe preteso un mondo in cui dove ogni volta che si pensa o di dice uno non può che dirsi e intendersi due.

Invece sembra bastarci che ci sia un numero di ministre pari a quello dei ministri, chiunque siano, qualunque cosa facciano e dicano.

Sembra bastarci – esattamente come agli uomini - che ci vengano assicurati dei posticini sicuri in una brutta legge elettorale. Non ci interessa che più della metà delle donne sarde siano fuori della rappresentanza. Non ci viene in mente che una legge che esclude i cittadini, escluderà le donne e le escluderà di più. Ma quello che sembra interessarci è essere il 50% dei non esclusi.

Le donne non devono salvare il mondo, mi si dice. Ma milioni di donne non sono libere, in Italia. A che pro il 50/50 se loro sempre non libere rimangono?

«Il Pd non sarà più un par­tito di cen­tro­si­ni­stra, tanto meno di sini­stra, quale mai è stato. Sarà sem­pre più quello che in parte è già oggi: un par­tito per­so­nale, anzi una agen­zia di mar­ke­ting elet­to­rale, nuova fiam­mante come una Fer­rari». Che fare allora? una risposta c'è.

Il manifesto, 1 marzo 2014

Ammet­tiamo pure che Renzi rie­sca, come ormai si dice, quasi fosse un biscaz­ziere che tenta la for­tuna. Un lin­guag­gio, appli­cato a un pre­si­dente del Con­si­glio e rela­tivo alle sorti di un grande paese, che segnala il punto ultimo di bana­liz­za­zione e sca­di­mento cui è giunta la vita poli­tica nazio­nale. Ammet­tia­molo, ipo­tiz­zando che il suc­cesso possa venire da qual­che riforma isti­tu­zio­nale riu­scita, da qual­che rat­toppo legi­sla­tivo e da altri risul­tati par­ziali sfrut­ta­bili sul piano della pro­pa­ganda media­tica. Que­sto è il mas­simo che un osser­va­tore otti­mi­stico può con­ce­dere alla pro­pria imma­gi­na­zione fidu­ciosa. Assai più pro­ba­bile è che il governo Renzi costi­tui­sca una replica, certo più vivace sotto il pro­filo comu­ni­ca­tivo, del governo Letta. Ci sono infatti tutte le con­di­zioni per­ché la situa­zione eco­no­mica di una parte cre­scente della popo­la­zione tendi a peg­gio­rare, la disoc­cu­pa­zione rimanga inscal­fita almeno per tutto il 2014 (pre­vi­sioni della Banca d’Italia) e le poli­ti­che di rigore dell’Ue riman­gano entro i vin­coli dog­ma­tici che hanno gene­rato la bufera della defla­zione euro­pea. Quelle poli­ti­che che Renzi non si sogna nep­pure di con­te­stare. Come già con i pre­ce­denti governi, di cen­tro­de­stra e di lar­ghe intese, in que­sti anni di tra­collo dell’economia, il volto della poli­tica con­ti­nua a mostrarsi feroce nei con­fronti delle popo­la­zioni e mite nei riguardi delle imprese e del potere finan­zia­rio. Forte con i deboli e debole con i forti come qual­cuno ebbe a dire in un tempo ormai remoto.

Ma, qua­lun­que sia lo sce­na­rio del Paese nei pros­simi due-tre anni, una cosa appare ormai certa e pre­ve­di­bile nel sue pros­sime evo­lu­zioni. Il Pd non sarà più un par­tito di cen­tro­si­ni­stra, tanto meno di sini­stra, quale mai è stato. Sarà sem­pre più quello che in parte è già oggi, come osser­vato da tanti com­men­ta­tori: un par­tito per­so­nale, anzi nep­pure un par­tito (la liqui­da­zione di que­sto ter­mine infa­mante è stata annun­ciata), ma una agen­zia di mar­ke­ting elet­to­rale, nuova fiam­mante come una Fer­rari uscita di fab­brica. E che que­sto stia acca­dendo e acca­drà a pre­scin­dere dalle dichia­rate inten­zioni di Renzi e del suo gruppo lo dicono i fatti osser­vati. Non c’è solo da pren­dere atto che Renzi, for­mando un nuovo governo senza pas­sare per le urne, replica e ampli­fica il tra­di­mento nei con­fronti degli elet­tori del Pd, già con­su­mato da Letta. Non rea­lizza sol­tanto le lar­ghe intese, per limi­tati e tran­si­tori atti di governo, ma mette in piedi un ese­cu­tivo di legi­sla­tura, esten­dendo a Ber­lu­sconi la pre­senza sostan­ziale in un dise­gno di riforma costi­tu­zio­nale. Gli elet­tori del Pd ne saranno edi­fi­cati. Ma, si ricor­derà, den­tro quel par­tito, prima dell’avvento di Renzi, 101 par­la­men­tari hanno tra­dito il loro impe­gno, non votando Prodi alla pre­si­denza della Repub­blica, inflig­gendo un vul­nus incac­cel­la­bile all’ onore di quel orga­ni­smo. Ora Renzi, che aveva ras­si­cu­rato sino a pochi giorni prima il suo com­pa­gno Letta, lo cac­cia via senza una qual­che plau­si­bile ragione che non sia di pura forza.
Dun­que, che mes­sag­gio lan­cia a tutti i suoi com­pa­gni? Che cosa resta, den­tro il Pd di quella spe­ciale stoffa che tesse i rap­porti umani, un tempo defi­nita morale? Se il par­tito non è di sini­stra, per­ché non per­se­gue ideali di ugua­glianza, non si schiera dalla parte dei lavo­ra­tori – gli uomini e le donne che fati­cano dalla mat­tina alla sera per miseri salari, gene­rando la ric­chezza di que­sto Paese — quale col­lante lo tiene insieme? Che cosa se non l’interesse dei sin­goli per fina­lità di car­riera per­so­nale ani­merà il col­let­tivo? Ed è facile imma­gi­nare, anche per­ché è già in atto, quale logica dar­wi­niana ispi­rerà la sele­zione dei gruppi diri­genti nella peri­fe­ria del par­tito, che evi­den­te­mente pre­mierà i carat­teri gene­ti­ca­mente domi­nanti della spre­giu­di­ca­tezza, della capa­cità di mano­vra e di con­qui­sta. Ricordo som­mes­sa­mente che cono­sciamo già i tratti tra­gici di que­sta vicenda. Essa ha già per­corso la sto­ria nazio­nale, lascian­doci in ere­dità magni­fi­che rovine. Bet­tino Craxi fece qual­cosa di simile con il Psi. E la distru­zione di quel par­tito — dive­nuto ben pre­sto il bastone del Capo – così come il danno incal­co­la­bile alla sini­stra e al Paese, fu tanto più facile e pos­si­bile quanto il ten­ta­tivo venne pre­miato dal suc­cesso per­so­nale e dai risul­tati poli­tici ini­ziali. Tanto la riu­scita che l’insuccesso di Renzi apre ugual­mente sce­nari inquie­tanti e inde­si­de­ra­bili, quanto meno per la sini­stra ita­liana. Schie­ra­mento poli­tico la cui sorte a me non appare sepa­ra­bile da quella del Paese.
Ma tanto l’uno che l’altro esito non inter­ro­gano anche noi? Noi sini­stra radi­cale, costel­la­zione divisa e dispersa di movi­menti, gruppi, pic­coli par­titi, per­so­na­lità? Noi che da almeno un decen­nio con­du­ciamo lotte, vin­ciamo refe­ren­dum di por­tata sto­rica, eleg­giamo qual­che sin­daco signi­fi­ca­tivo, pro­du­ciamo idee e cul­tura poli­tica nuova, espri­miamo figure intel­let­tuali di pri­mis­simo piano, diamo un con­tri­buto di prim’ordine all’analisi del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, ma non riu­sciamo a orga­niz­zare que­sta fram­men­tata ric­chezza in un orga­ni­smo poli­tico comun­que deno­mi­nato?
In que­sto momento que­sta vasta area sta com­piendo un pic­colo mira­colo. Sta por­tando in porto la can­di­da­tura di Ale­xis Tsi­pras alla Com­mis­sione euro­pea e sele­zio­nando la lista dei can­di­dati che dovranno accom­pa­gnarlo nella com­pe­ti­zione del pros­simo mag­gio. L’idea di un comi­tato pro­mo­tore che diventa comi­tato di garanti, per la felice ini­zia­tiva di Bar­bara Spi­nelli, sta fun­zio­nando, anche se biso­gnerà met­tere nel conto qual­che errore e qual­che sba­va­tura per i tempi stret­tis­simi entro cui esso è costretto a ope­rare. Ma que­sta breve espe­rienza ci dice alcune cose su cui occor­rerà riflet­tere, da cui par­tire per ten­tare il grande mare di un pos­si­bile pro­getto poli­tico. Intanto occorre com­pia­cersi di un dato non scon­tato in par­tenza: il fatto che l’autorevolezza dei mem­bri che com­pon­gono il comi­tato non sia stata messo in discus­sione. Nes­suno ne ha con­te­stato la legit­ti­mità. È un suc­cesso impor­tante, un prin­ci­pio d’autorità neces­sa­rio. È la con­ferma di un fatto noto: esi­ste nell’area della sini­stra un folto gruppo di per­so­na­lità di larga popo­la­rità e spesso di indi­scussa auto­re­vo­lezza. È un patri­mo­nio pre­zioso, un punto di par­tenza rile­vante. Ebbene, lo usiamo solo per rispon­dere all’iniziativa dell’avversario, per difen­dere la Costi­tu­zione – come è acca­duto, certo con suc­cesso – per l’esperienza della Via mae­stra di Rodotà e Lan­dini? E poi ripo­niamo la spada nel fodero e tutti a casa? Lo met­tiamo in campo solo per sele­zio­nare e fre­nare la rissa dei can­di­dati in occa­sione delle com­pe­ti­zioni elet­to­rali? E sta­remo nei pros­simi mesi, una volta con­clu­sasi la cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea, a osser­vare i segni di cedi­mento den­tro il Pd, ad atten­dere qual­che pro­ba­bile scis­sione den­tro quell’organismo? Non dob­biamo cam­biare pro­spet­tiva?
Io credo che oggi dovremmo pun­tare a una più grande e urgente ambi­zione: creare un grande tavolo di discus­sione, di con­fronto, di ricerca tra tutte le forze in campo. Una sorta di Costi­tuente della sini­stra dove si con­fron­tino idee, posi­zioni, pro­po­ste, senza avere sul capo l’urgenza defor­mante di una cam­pa­gna elet­to­rale alle porte. So bene quanto sia dif­fi­cile la riu­scita di un simile labo­ra­to­rio, che dovrebbe pun­tare alla crea­zione di una forma poli­tica nuova, una fede­ra­zione di forze tenuta insieme da vin­coli e regole severe e ben defi­nite. So bene quanta ris­so­sità, set­ta­ri­smo, super­fi­cia­lità, alberga tra le nostre file. Ma se non si tenta adesso una tale strada, in pre­senza di una delle più grandi crisi della nostra sto­ria, con fon­da­menti della nazione in pezzi (la scuola, l’Università, la pic­cola indu­stria, la giu­sti­zia ammi­ni­stra­tiva, la lega­lità repub­bli­cana, il ter­ri­to­rio), quando mai si ten­terà la prov­vida avven­tura? Lasce­remo a Grillo, oppo­si­zione urlante e poli­ti­ca­mente inetta il com­pito di rac­co­gliere il grido di dolore di milioni di ita­liani? E non dob­biamo pen­sare che quando giun­gerà il momento delle ele­zioni nazio­nali – se que­sto governo dovesse durare – c’è il rischio che il Paese sia ricon­se­gnato alle destre o sia reso ingovernabile?

«Il tunnel in cui siamo rinchiusi è cementato dal potere lasciato alla finanza e dall’ideologia del mercato, traccia il trentennio liberista che ci ha portato alla depressione. Se ne può uscire soltanto con un cambiamento profondo del modello economico e dell’orizzonte politico».

Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2014
Una moneta senza Stato, la Bce che protegge la finanza dall'inflazione, salva le banche fallite e non protegge dalla recessione. Ma cosa accadrebbe se si tornasse alle valute nazionali?

Se guardiamo indietro, abbiamo venticinque anni di politiche monetarie sbagliate, che hanno fondato su mercato e moneta unica l’intera costruzione europea, abbandonando via via occupazione, modello sociale, diritti, democrazia. Appena dietro di noi abbiamo la più grave crisi del capitalismo dal 1929, da cui nasce la depressione attuale. I paesi che hanno provato a uscirne – Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone – l’hanno fatto creando nuove bolle speculative per la finanza, alimentate dall’introduzione di un’enorme liquidità nell’economia mondiale. Se guardiamo avanti, il buio è fitto. Le promesse di ripresa dell’economia sono state finora illusorie e riguardano soprattutto pochi paesi del nord Europa. A Bruxelles, Berlino e Francoforte la politica resta immutabile: per la periferia d’Europa austerità fiscale, un debito insostenibile anche se gli spread calano, politica monetaria rigida, mano libera per la finanza. Ci muoviamo in un lunghissimo tunnel da cui sembra impossibile uscire.

È il tunnel dell’euro, di una moneta senza stato, di una Banca centrale che protegge la finanza dall’inflazione ma non sa affrontare la recessione, che salva le banche fallite ma rifiuta di sostenere il debito degli stati. È il tunnel di un’Europa asimmetrica nelle forze produttive e nel potere politico, che produce squilibri e ne scarica i costi sulle periferie, costrette a imitare l’impossibile modello d’esportazione della Germania. Il tunnel di una politica – anche quella del nuovo governo di Matteo Renzi, al centro dello speciale della settimana scorsa – che ripete annunci illusori sulla fine della crisi e sui tagli alle tasse, ossessionata dall’austerità quando la disoccupazione giovanile arriva al 40%, una politica che di fronte alle reazioni anti-europee sceglie di cavalcare anch’essa le pulsioni populiste.

Guardando fuori d’Europa il buio è ancora più vasto. L’inizio della restrizione monetaria negli Usa ha già provocato in molti paesi emergenti fughe di capitali, recessione, svalutazioni. Nei confronti del dollaro, nell’ultimo anno la valuta del Brasile si è svalutata del 17%, quelle di India, Indonesia, Russia e Sudafrica di circa il 20%, la lira turca del 22%, il peso argentino del 60%. Sono tutti paesi inondati di capitali dai paesi ricchi che ora si trovano indebitati con l’estero, debiti da rimborsare in valute più costose e a tassi d’interesse crescenti: si direbbe che si prepara una nuova versione della crisi del debito del Terzo mondo degli anni ’80. Facile immaginare che se in Italia avessimo nuovamente la lira, anch’essa sarebbe in balìa della speculazione, con i prezzi delle importazioni gonfiati dalla svalutazione, l’export depresso dalla crisi internazionale, i capitali in fuga da un paese che non cresce da vent’anni.

Non ci sono scorciatoie – come la nostalgia per la lira per uscire dal tunnel. Al di là degli errori commessi sull’euro – che Sbilanciamoci! denunciava già nel suo Rapporto 2002 – il tunnel in cui siamo rinchiusi è cementato dal potere lasciato alla finanza e dall’ideologia del mercato, traccia il trentennio liberista che ci ha portato alla depressione. Se ne può uscire soltanto con un cambiamento profondo del modello economico e dell’orizzonte politico.

È nel mezzo di questo tunnel che andremo al voto alle elezioni europee. Un tentativo di procedere a piccoli passi è quello che propone nell’intervista a pagina due di questo speciale Martin Schultz, candidato socialdemocratico alla presidenza della Commissione europea. Troppo poco e troppo tardi, a sei anni dall’inizio della crisi. L’alternativa di Sbilanciamoci! e della Rete europea degli economisti progressisti (Euro-pen) è presentata a pagina tre: un’unione monetaria da ricostruire con nuove regole per la Banca centrale europea, una garanzia comune sul debito pubblico con l’emissione di eurobond e forme di controllo sui movimenti di capitali, limitando la libertà d’azione della finanza. E, naturalmente, meno poteri ai banchieri e a Berlino, e più democrazia nelle scelte economiche, aprendo la strada alla fine dell’austerità e a politiche industriali e del lavoro disegnate per uno sviluppo sostenibile sul piano sociale e ambientale.

Sono le proposte di cambio di rotta che saranno discusse il 19 marzo al Forum "Un’altra strada per l’Europa" al Parlamento europeo, che qui presentiamo. A discuterne – con esperti, movimenti e sindacati – ci saranno europarlamentari e politici della sinistra – Syriza compresa – verdi e socialdemocratici. Un’occasione per risvegliare la politica, a Bruxelles come a Roma, dare contenuti al dibattito sul voto europeo, e cercare davvero l’uscita dall’euro-tunnel.

Misera e morte per i popoli d’Europa, cominciando dai bambini, le donne, gli anziani, se non cambia la politica che comanda le scelte., Se l’Europa non cambia, in fondo all’abisso andiamo tutti.

La Repubblica, 26 febbraio 2014

IL DOLORE sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’Economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al Wall Street Journal, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità - e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva - ma l’ultimo numero di Lancet, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».

Lancet non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di Repubblica), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista».

Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano «efficaci», e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate. Né è solo «questione di comunicazione » sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati impoveriti: la «fatica delle riforme » ( reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche. Difficile dar torto alle «forti resistenze sociali», se solo guardiamo le cifre fornite su Lancet dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette). La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi, come Islanda e Finlandia, che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Euroto. pa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro. Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali «di strada» son passati dal 3-4% al 30%.

S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. Lancet non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma. La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali » — «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale ». Nessuno sa quale contributo dia. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.

Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza […], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà ». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene

Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell'introduzione alla nuova edizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l'ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro

Si conclude, con il nuovo governo e la sua carta di identità allegata su Repubblica da Matteo Renzi, l’ultimo giro di boa simbolico del Pd. Simbolico, perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo, ma dare il vero nome ai fatti non è cosa da poco (non è passatempo da giorni festivi, come verseggia Eliot a proposito del nome da dare al proprio gatto). Che il Pd precisi come la sua immagine non debba più essere a sinistra, o di sinistra, riconoscendo come sola discriminante culturale e sociale “il nuovo e il vecchio” non è una gran novità, il concetto ci svolazza attorno da un bel pezzo, ma affermare che il Pd non intende più collocarsi a sinistra resta uno scatto simbolico rilevante. Non solo infatti, come taluni vagheggiavano, non è più in grado di compiere scelte di sinistra, poniamo, da Monti, ma neppure mira più a farle e a questo scopo ha scelto come proprio leader “Matteo” per chiarirlo una volta per tutte. Non in parlamento – nessuno, a cominciare da Giorgio Napolitano ha tempo da perdere – ma su un giornale amico e a governo varato.

Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.

Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.

Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.

Un'analisi acuta del cuore del renzismo. «Meno attenzione per Parigi e le periferie europee e più legami con la City di Londra. Il sostegno dall'alto di un blocco di interessi che va dalla rendita finanziaria e immobiliare alla Confindustria fino alle piccole imprese con l'acqua alla gola». Sbilanciamoci.info, 24 febbraio 2014

Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore” (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.

Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega qui accanto l’articolo di Anna Maria Merlo. Nessuna attenzione – si direbbe – invece per Parigi e le periferie dell’Europa, dove Roma potrebbe diventare un importante “contrappeso” rispetto a Berlino. La regola numero uno della finanza è che il cartello lo fanno i creditori, tutti insieme contro chi è in debito, preso da solo. Guai ai debitori che osassero coalizzarsi, e il governo Renzi – come quelli che l’hanno preceduto – riconosce che i poteri della finanza hanno la precedenza sugli interessi materiali del paese più indebitato d’Europa, il nostro.

Il secondo punto cardinale del Renzismo è il sostegno interno – “dall’alto” – da parte del blocco d’interessi che lo sostiene. Rendita finanziaria e immobiliare, le grandi imprese protette dallo stato – dalle banche a Mediaset, dall’energia alle telecomunicazioni –, Confindustria e le piccole imprese con l’acqua alla gola, scivolando nel ceto medio impoverito, che teme di perdere quel poco che ha, più di quanto immagini di poter ottenere in più da lavoro, conoscenza, investimenti. Resta da vedere come si collocheranno gli interessi che, soprattutto nel Mezzogiorno, sconfinano con l’economia criminale. Il Renzismo eredita così buona parte del blocco d’interessi che erano stati garantiti dal Berlusconismo, e ne raccoglie la bandiera unificante dell’ostilità alla tassazione dei patrimoni. Ma nel Renzismo c’è qualcosa di più, il rinnovamento della seduzione imprenditoriale esposta alla Leopolda, da Eataly alla moda, un’“economia dell’offerta” fatta in casa che promette protagonismo a giovani e nuove imprese, temi del primo Berlusconi poi sotterrati da decenni di scandali e manovre di potere.

Il terzo punto cardinale è il suo radicamento “dal basso”. Può questo blocco d’interessi rinnovare l’egemonia, trasformarsi in un blocco sociale che alimenti il consenso al Renzismo? È questo il compito più difficile. Un italiano su sei è oggi senza lavoro, tra chi lavora uno su quattro è precario, l’industria ha perso un quarto della produzione rispetto a prima della crisi, la povertà dilaga. L’agenda economica di Renzi garantisce il dieci per cento più ricco del paese, che possiede quasi metà della ricchezza. Come si può convincere almeno un quarto di italiani impoveriti che ciò che fa bene ad Alain Elkann fa bene anche a loro? Qui non c’è nulla da inventare, è un gioco riuscito a Ronald Reagan 35 anni fa e che ha funzionato abbastanza bene in tutto l’occidente (e oltre), Berlusconismo compreso. Si smontano le identità e gli interessi collettivi – comunità locali, reti di solidarietà, sindacati – e si spiega a tutti che siamo individui che dobbiamo cogliere le opportunità offerte dai mercati globali, siano queste le speculazioni sui derivati o l’emigrazione per fare pizze a Berlino. Lo stato e le sue tasse sono il nemico principale che abbiamo tutti in comune. Se le opportunità si rivelano illusioni – come succede in Italia da vent’anni – sarà soltanto colpa nostra. La politica non ha più la responsabilità di garantire sviluppo, diritti, uguaglianza.

Il quarto punto cardinale è il più efficace: il populismo. Finora c’è stata la “rottamazione” della vecchia politica, ora verranno nuove disinvolte operazioni per impaurire e convincere i perdenti che potrebbero perdere molto di più. Giovani precari a cui distribuire qualche briciola contro vecchi “garantiti” a cui togliere diritti. L’efficienza del privato contro la burocrazia pubblica che blocca il paese. E, naturalmente, gli italiani da tutelare contro gli immigrati. La politica e l’economia sono trasformate in caricature buone per la dichiarazione del giorno in tv. Gli argomenti possono rovesciarsi da un giorno all’altro, retorica e contenuti sono dissociati, accordi e alleanze sono guidate dall’opportunismo.

Con una bussola di questo tipo il Renzismo non ha nulla in comune con la tradizione socialdemocratica e l’esperienza delle coalizioni di centro-sinistra. Margaret Thatcher pensava che il suo risultato politico più importante fosse proprio la nascita del New Labour di Blair, costretto a “trascinarsi nel mondo moderno”, a sostenere “il mercato, le privatizzazioni, la riforma delle leggi sul lavoro e meno tasse su individui e imprese”. Silvio Berlusconi – e il fantasma della Lady di ferro – potrebbero presto dire lo stesso di Matteo Renzi.

La Repubblica, 24 febbraio 2014

Il primo, sessantenne, ha percorso tutte le tappe del cursus honorum dei politici francesi. Brillante negli studi, accede a una carica di alto funzionario e nel 1979 aderisce al partito socialista di François Mitterrand, che servirà fedelmente. Primo segretario del Ps dal 1997 al 2008, François Hollande è un uomo di partito a tutto tondo. Per restare alla guida del Ps ha realizzato di volta in volta sintesi morbide tra le varie correnti. Condizionato com’era dalle molteplici contraddizioni politiche e ideologiche della sinistra francese, ha dovuto attendere il gennaio scorso — un periodo di crescente impopolarità della sua figura e di degrado della situazione economica e sociale in Francia — per esprimere con chiarezza i propri convincimenti social-liberali. Questo professionista della politica, che ha profonde radici nel suo dipartimento, conosce perfettamente i leader e gli eletti dei partiti e sa tutto dei meccanismi e degli arcani della vita politica. Aveva incentrato la sua campagna sul tema del “presidente normale” proprio quando la congiuntura mondiale, europea e francese erano lontanissime dalla normalità, e le istituzioni della V Repubblica avrebbero avuto bisogno di una personalità forte per poter funzionare al meglio. Poco carismatico, legato alla cultura dell’uguaglianza, François Hollande non è a suo agio nella comunicazione moderna; preferisce le riunioni vecchio stile o i dibattiti con un avversario, nei quali brilla per eloquenza e presenza di spirito e per l’efficacia delle sue battute. Intelligente, molto preparato, scaltro, smaliziato, sa essere duro quando serve. Vero artista della tattica, Hollande simboleggia la figura del politico tradizionale di sinistra persino nell’ineleganza dei suoi completi di taglio scadente, con la cravatta perennemente di traverso.

Matteo Renzi è l’esatto opposto, e proprio per questo affascina e intriga, in Italia come all’estero. Con i suoi trentotto anni, gioca la carta del cambiamento generazionale. È riuscito a presentarsi come l’uomo nuovo, pur essendo entrato in politica appena ventunenne, in seno al Ppi e nei comitati di sostegno a Romano Prodi. Per lui il partito è solo un mezzo, che ha dovuto innanzitutto neutralizzare per strumentalizzarlo d’ora in poi al servizio della sua persona e del suo progetto. Vero animale politico, è in sintonia con le attese di molti italiani, e risponde perfettamente al loro bisogno di un uomo nuovo. La profusione dei qualificativim cui ricorrono giornalisti e analisti per tentare di definirlo dà la misura dell’originalità che rappresenta: “erede a sinistra di Berlusconi”, “leader postberlusconiano”, “post-ideologico”, “anti-politico”, “populista”, “outsider” — e l’elenco non finisce qui. Ma si è anche dimostrato un “killer” — avendo cacciato dal Partito democratico gran parte della vecchia guardia — e un abile manovratore: di fatto non ha esitato a fare il contrario di quanto aveva annunciato in relazione al governo di Enrico Letta, ricorrendo a procedimenti degni del costume di quella prima Repubblica che si compiace di aver conosciuto solo indirettamente. Virtuoso della comunicazione e dei media, appare a suo agio sia in tv che sui social network o nei suoi show all’americana. Ha cura della sua immagine disinvolta, usando e abusando del linguaggio dei giovani; ai completi classici preferisce jeans e giubbotti. Il vasto programma di riforme che annuncia a gran voce stravolge i canoni della sinistra classica — ad esempio sulla questione del mercato del lavoro. Matteo Renzi incarna un centro-sinistra disinibito, pragmatico, innovativo, e rivendica senza turbamenti il primato del leader.

Il paradosso sta nel fatto che al di là delle differenze personali e delle diverse caratteristiche dei rispettivi Paesi, Hollande e Renzi devono fare i conti con sfide analoghe: le tre sfide che ogni formazione di sinistra si trova ad affrontare quando va al potere. Innanzitutto, come governare, soprattutto quando si è privi di esperienza in materia, e sempre esposti al sospetto di scarsa competenza? È la grande domanda che si pone Matteo Renzi; la stessa — tuttora irrisolta — posta anche nel caso di François Hollande, che al pari del suo primo ministro, e nonostante la sua lunga carriera, non era mai stato investito di responsabilità a livello nazionale. In secondo luogo, quale politica adottare? Matteo Renzi e il François Hollande del 2014 sono assai vicini tra loro, sia sui temi economici e sociali che su talune riforme della società. Ma come promulgarle, con quali procedimenti e mezzi d’azione, in funzione di quale narrativa? E infine, come dare nuovo slancio all’Europa in crisi di ispirazione?

Quale dei due — la volpe francese o il giovane lupo italiano — sarà in grado di raccogliere queste sfide nel modo più efficace? L’Italia, la Francia e tutta la sinistra europea sono in attesa, con un misto di ansia e speranza.

Traduzione di Elisabetta Horvat

Un commercialista all'Ambiente, favorevole al nucleare. Una tenace sostenitrice degli F35 alla Difesa, il solito Maurizio Lupi alle infrastrutture, una nuclearista esponente diretta del Caimano allo Eviluppo economico. E poi..e poi...e poi...Siamo proprio ben messi.

Greenreport, 24 febbraio 2014

Non è competente in materia; nelle rare occasioni in cui se ne è occupato lo ha fatto per schierarsi a favore del nucleare; la sua nomina è molto più degna del manuale Cencelli della primissima repubblica che del rottamatore della seconda; però è una brava persona. Di chi stiamo parlando? Ma del neo ministro all’Ambiente Gianluca Galletti, naturalmente, e di come i lettori di greenreport hanno interpretato la sua nomina. Una notizia che in migliaia hanno voluto approfondire proprio sul nostro giornale, che abbiamo avuto se non altro il merito di metterla in evidenza.

Sì, in evidenza, perché in pochi lo hanno fatto, andando forse dietro all’idea – che dimostra di avere lo stesso Renzi – che il ministero dell’Ambiente non conti niente: una roba che si deve mettere perché ce l’ha tutta l’Europa ma che può essere lasciato alla fine, come casella da riempire per soddisfare questo o quel partitino post-democristiano. E può darsi pure che sia così, di certo non lo è per noi che lo avremmo sacrificato per un ministero dello Sviluppo sostenibile, ma che in mancanza di quest’ultimo lo riteniamo ancora fondamentale. Per questo la scelta di Galletti appare inadeguata, perché se non si voleva confermare Orlando – che nonostante l’incompetenza iniziale almeno si era fatto ben guidare – c’erano personalità con bel altro pedigree. Facile dire Ermete Realacci [mah...n.d.r], ma non era il solo.

Invece si è preferito pescare una brava persona – ci mancava pure fosse cattiva – dell’Udc, un partito di cui non si sentiva nemmeno più parlare (e non se ne sentiva nemmeno la mancanza) recintato attorno a quel nulla ben vestito di Pierferdinando Casini. La domanda che ingenuamente ci facciamo è semplice: perché? Se la risposta è che è il gioco della politica, per noi è solo la conferma di ciò che pensiamo della spregiudicatezza esibita e rivendicata da Renzi. Se è perché l’idea – per certi versi assolutamente giusta – di sburocratizzare il Paese si vuol far passare da uno yes man al ministero dell’Ambiente, allora c’è anche da preoccuparsi maggiormente. Tertium non datur, ma qualora ci fosse un altro motivo, speriamo ovviamente che sia qualcosa di sorprendentemente positivo e di ambientalmente sostenibile.

Un commercialista all’Ambiente, come la giri la giri, suona assai male anche se un vecchio film ci ricorda che pure loro “hanno un’anima” (con tutto il rispetto per i nostri e gli altrui commercialisti). Speriamo che sia un’anima verde, ma di certo sembra uno mandato lì a fare i conti con quel pochissimo che di solito viene dato al ministero più subissato di tagli della storia italiana.

Poco dopo il suo insediamento Galletti ha detto comunque che «in Italia abbiamo un problema idrogeologico che si perpetua da anni: ritengo che i primi provvedimenti debbano riguardare questo tema», e sarebbe un bell’inizio. Ma facciamo fede a quanto ha detto Renzi, ovvero che questo governo non è quello degli spot, e quindi aspettiamo i fatti, che nel caso significano un piano nazionale e una dote di euro assai pingue. Diversamente saranno pure queste chiacchiere e allora – chiacchiere per chiacchiere – dovremmo tener di conto che il 9 gennaio, lo stesso neo ministro, scrisse perentorio sul suo profilo Twitter che “Se matteorenzi decide di mandare a casa il governo si assume la responsabilità di far tornare il Paese nel caos”. Certo, in quanto a coerenza fa il paio con i tweet di Renzi sul non volere la poltrona di Letta, e malignamente si potrebbe pensare che è su questo modus operandi che si sono trovati.

Sembra di essere dentro ad Alice nel (bel)paese delle meraviglie che ci ricorda come «se io avessi un mondo come piace a me», e forse come piace a Renzi, «là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe, e ciò che non è sarebbe!». Ma purtroppo, come abbiamo già detto, non siamo nelle condizioni, oppure siamo nelle tragiche condizioni, di non potersi di certo augurare che fallisca anche il governo Renzi delle inopinate larghe intese, compresi i ministri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico nuclearisti. Perché appare sempre più come il jolly del mazzo, uscito però per ultimo… e quindi come estrema chance. Dunque non tagliamogli la testa. Ma che fatica essere italiani, ambientalisti poi non ne parliamo.

la Repubblica, 24 febbraio 2014) offrono elementi interessanti, in relazione ad aspetti della crisi che attraversiamo: ambiente, lavoro, welfare, trasformazione dei beni in merci.

In quei numeri tutti i ritardi del nostro paese.
di Chiara Saraceno

Insieme all’ambiente e al capitale fisico, il capitale umano rappresenta il patrimonio di una nazione. Ed ecco perché l’investimento in capitale umano è diventata la parola d’ordine delle politiche sociali europee (ancorché non con la stessa forza e cogenza del pareggio di bilancio). Parallelamente, il concetto di capitale umano e la sua stessa misurazione si sono affinati, superando una visione strettamente economicistica.

I risultati della misurazione fatta dall’Istat sul capitale umano degli italiani sono a prima vista sconcertanti. Se si tiene conto solo del potenziale di reddito, il capitale umano delle donne vale molto meno di quello degli uomini: 231mila euro contro 453mila. Il gap si chiude quasi del tutto solo se si tiene conto delle attività non di mercato. Il valore di questa attività è stimato in 431 mila euro per le donne, 384 mila per gli uomini. La differenza è dovuta principalmente al fatto che le donne svolgono la gran parte del lavoro famigliare, ovvero il lavoro a favore dei membri della famiglia, uomini adulti inclusi. Significa che le donne hanno meno capacità degli uomini e quindi non vale la pena di investire nel capitale umano delle donne, specie nelle dimensioni più rilevanti per la partecipazione al mercato del lavoro (istruzione, servizi)?

Al contrario. Il basso valore di mercato del capitale umano femminile deriva da due fattori molto italiani, che contribuiscono a comprimere il potenziale complessivo del capitale umano italiano. Il primo è il più basso tasso di occupazione femminile, dovuto anche al carico di lavoro famigliare. Il secondo è la minore valorizzazione, a parità di competenze, delle donne che stanno nel mercato del lavoro. In altri termini, in Italia si spreca allegramente una grossa fetta del capitale umano teoricamente disponibile. Allo stesso tempo, le donne contribuiscono parecchio, a titolo gratuito, al benessere complessivo.

Vi è un secondo risultato sconcertante dell’esercizio effettuato dall’Istat. I giovani sono teoricamente portatori di un capitale umano più consistente di chi è più anziano. Non solo, infatti, sono mediamente più istruiti, ma hanno una vita (di lavoro nel mercato) davanti a sé più lunga. Il reddito da loro generato nel corso della vita è stimato in oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Questa stima teorica, tuttavia, come segnala anche l’Istat, non tiene conto della crescente e prolungata disoccupazione giovanile, specie negli anni successivi al 2008. La disoccupazione non solo accorcia la durata del tempo in cui si può mettere a frutto il proprio capitale umano, ma rischia di depauperarlo, invece di farlo ulteriormente sviluppare. Anche nel caso dei giovani, quindi, l’Italia sta minando alle basi la propria ricchezza. Per questo si colloca ultima, per valore del capitale umano, nel gruppo di paesi Ocse che hanno fatto lo stesso esercizio: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna.

Anche senza farne un caso di equità e democrazia, questi due dati dovrebbero indurre i politici italiani ed europei a fare in modo che le politiche di investimento e valorizzazione del capitale umano — istruzione, salute, strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro, di sostegno all’accesso alle risorse di valorizzazione delle capacità — sono altrettanto, se non più, importanti delle politiche di investimento nelle infrastrutture. Perciò devono rientrare a pieno titolo nelle negoziazioni sul patto di stabilità e il pareggio di bilancio.

Ricerca-shock sul capitale umano in Italia
“Una donna vale la metà di un uomo”
di Maria Novella De Luca

Il capitale umano di una donna è esattamente la metà di quello di un uomo. Tradotto in cifre: un maschio in termini economici ha una potenzialità produttiva nell’arco della vita stimata in 453mila euro, una femmina in 231mila euro. In Italia cioè ci vogliono due donne per creare il reddito di un uomo... E poi: il capitale umano di un over sessanta vale, soltanto, 46mila euro. Non importa quanta esperienza o saggezza abbia egli accumulato nella vita già vissuta, il suo futuro è dietro le spalle e quindi parlando di contributo al Pil del paese, è redditizio poco o nulla. Sono i dati, sorprendenti e amari, diffusi ieri dall’Istat che per la prima volta ha calcolato sulla base dei parametri Ocse, “l’ammontare” in euro degli italiani e delle italiane in quanto individui, arrivando a definire il nostro valore medio intorno ai 342mila euro. Mescolando una serie di parametri che sulla base del genere, dell’età, della preparazione scolastica e delle potenzialità professionali, indica il nostro capitale umano, che non è in questo caso una categoria morale, bensì un puro modellomatematico.

Alessandra Righi ricercatrice Istat, ha curato il volume “Il valore monetario dello stock di capitale umano”, promosso dall’Ocse. E spiega: «Sulla base di questi indicatori possiamo monetizzare le potenzialità di un individuo e quindi il suo impatto sul Pil. L’anomalia dell’Italia, che si colloca comunque in basso nella classifica mondiale, è la conferma della distanza profonda tra donne e uomini. Nella quale si manifesta tutto il dramma della disoccupazione femminile». Soltanto il 50% delle donne italiane infatti lavora, e quando anche ha un’occupazione, prosegue Righi, «il suo stipendio è inferiore a quello maschile».

Dunque nel computo del capitale umano il suo “peso” sarà di 231mila euro contro i 453mila del partner. Se invece a questo si sommasse il lavoro invisibile delle donne e cioè quello di cura, la famiglia, i figli, la casa, ecco che ai 231mila euro si dovrebbero aggiungere altri ben 431mila euro di attività domestiche. Il famoso e mai riconosciuto né monetizzato welfare familiare.

«Sono dati che mi indignano ma da studiosa non mi stupiscono», dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’università di Torino. «Nel conteggio del capitale umano l’occupazione

femminile viene ulteriormente penalizzata dalla sottrazione dei periodi di maternità, dai congedi... Le donne subiscono poi una doppia discriminazione: non soltanto negli stipendi, ma anche in quella che si chiama discriminazione preventiva. Sapendo cioè di dover fare una scelta inconciliabile tra famiglia e occupazione, si autoescludono dal mercato. E tutto questo viene naturalmente calcolato nella potenzialità o meno di produrre reddito».

Per arrivare a quantificare in euro il capitale umano, l’Istat si è basato sulla capacità degli individui di generare reddito nell’arco della vita e il valore complessivo che ne viene fuori, riferito al 2008 (non esistono altri aggiornamenti), è di 13.475 miliardi di euro, pari a oltre otto volte e mezzo il Pil dello stesso anno. Una cifra che porta a 340 mila euro a testa il “prezzo” di un italiano medio. Interessante osservare come un giovane tra i 15 e i 34 anni, valga 556mila euro, visto il tempo e le energie che potrà mettere nel fabbricare ricchezza, contro i 139mila euro di una donna over sessanta. La quale comunque in questa età della vita produce assai più di un suo coetaneo maschio, che per le statistiche vale non più di 46mila euro. Tutto abbastanza gelido e terribile se ci si ferma riflettere. E infatti l’economista Del Boca invita a fare delle distinzioni. «Un conto è applicare modelli, e ipotizzare cifre. Altro è intendere il capitale umano come l’insieme anche non monetizzabile di ciò che si è, e di ciò che si è fatto nella vita». Perché infatti questa è un’altra storia.

Una domanda al giovane portavoce fiorentino del neocostituito governo Renzusconi: rinuncerete alle spese di guerra per dare agli italiani lavoro, salute, formazione, sicurezza sociale?

Sbilanciamoci.info, 21 febbraio 2014

721 milioni: è il costo dei contratti di acquisto per gli F-35 che l’Italia ha già sottoscritto tra il 2011 e il 2013. Ovvero nella fase più acuta della crisi, che ha provocato la chiusura di migliaia di piccole imprese, ha cancellato migliaia di posti di lavoro e in cui l’unica ricetta proposta è stata quella della spending review, i soldi per l’acquisto dei cacciabombardieri non sono stati toccati. Non si potevano finanziare i fondi sociali (il Fondo Nazionale per le politiche sociali tra il 2010 e il 2011 praticamente dimezzato con 218 milioni; azzerato nel 2011 il Fondo per la Non Autosufficienza e rifinanziato solo a partire dal 2013 con stanziamenti inadeguati); si doveva “fare cassa” congelando i salari dei dipendenti pubblici per un valore pari a 1 miliardo di euro (2011-2013); si doveva riformare il sistema pensionistico abbandonando a loro stessi i cosiddetti “esodati”; si doveva aumentare l’Iva dal 20% al 22%. Ma il programma di acquisto degli F-35, strumenti di guerra per altro parecchio difettosi, no, quello non si tocca.

In un nuovo dossier “La verità oltre l’opacità”, la campagna Taglia le ali alle armi, ha aggiornato i dati relativi ai costi del programma fornendo per la prima volta informazioni dettagliate sui contratti di acquisto stipulati: i 721 milioni di euro per la sottoscrizione dei contratti di acquisto si aggiungono agli oltre 2,7 miliardi spesi per lo sviluppo e per la costruzione dell’impianto FACO di Cameri). Con un costo medio unitario che tende a crescere nel corso del tempo e che ad oggi la campagna stima prudentemente in 135 milioni di euro.

L’impegno italiano attualmente previsto nel programma per l’acquisto di 8 F35 per il triennio 2014-2016 è pari a 1,950 milioni di euro: 540 milioni nel 2014, 660 milioni nel 2015 e 750 milioni nel 2016, in media 650 milioni l’anno.

Parallelamente, solo per fare un confronto esemplare, la Legge di stabilità 2014 ha previsto per gli anni 2015-2016 un taglio degli stanziamenti per il Servizio Sanitario Nazionale di 1 miliardo e 150 milioni di euro.

Il cittadino comune avrà meno letti a disposizione negli ospedali, dovrà pagare ticket più alti per accedere ai servizi sanitari, ma potrà sempre rifugiarsi sotto l’ala di un F35.

Forse tra qualche giorno si insedierà un nuovo governo. Molte le riforme annunciate.

Con i 650 milioni l’anno previsti per l’acquisto di strumenti di morte si potrebbero fare non tutte, ma almeno una delle cose che servirebbero per attutire gli effetti della crisi e che, ne siamo sicuri, sono quelle richieste da gran parte dei cittadini italiani: rinunciare ai tagli al Servizio Sanitario Nazionale, creare 26.000 posti di lavoro qualificati nel settore della ricerca, mettere in sicurezza circa 600 scuole, oppure costruire 1950 nuovi asili nido creando 17.500 posti di lavoro o ancora garantire il diritto all’abitare recuperando 16.250 alloggi di edilizia residenziale pubblica non agibile.

Il Presidente del Consiglio incaricato avrà il coraggio di prenderne atto inserendo nella sua agenda la cancellazione della partecipazione al programma F-35?

Col fiato sul collo (la scadenza è vicinissima) avviata la formazione delle liste di candidati alle elezioni del Parlamento europeo: per un'Europa dei popoli, non dei governi. Il manifesto, 21 febbraio 2014

Conto alla rove­scia per pre­sen­tare le can­di­da­ture alla lista «L’altra Europa, con Tsi­pras» per le ele­zioni euro­pee. Entro mez­za­notte di oggi i moduli sca­ri­ca­bili sul sito www.listatsipras.eu dovranno essere com­pi­lati e inviati all’indirizzo mail sostegno@istipras. it. In que­sta ope­ra­zione sono impe­gnati sia i pro­mo­tori della lista che asso­cia­zioni, comi­tati e par­titi (Sel e Rifon­da­zione) che hanno deciso di par­te­ci­pare insieme a que­sta espe­rienza elet­to­rale. Stanno par­te­ci­pando anche gruppi con almeno 50 ade­renti che sono stati invi­tati a pre­sen­tare le pro­po­ste ad un comi­tato ope­ra­tivo che ini­zierà a vagliarle subito dopo la sca­denza dei ter­mini sta­bi­liti. Ieri sera erano arri­vate 48 can­di­da­ture, 120 quelle sti­mate in arrivo, men­tre dal sito erano state sca­ri­cati 2299 moduli. Alla fine ver­ranno decisi 73 can­di­dati da distri­buire sulle cin­que cir­co­scri­zioni nazio­nali. I cri­teri della sele­zione per quelle che i sei garanti della lista (Bar­bara Spi­nelli, Andrea Camil­leri, Paolo Flo­res, Guido Viale, Marco Revelli e Luciano Gal­lino) chia­mano «pro­po­ste dal basso» sono la noto­rietà dell’impegno poli­tico del can­di­dato per deter­mi­nare le cosid­dette «teste di lista»; la sua rap­pre­sen­ta­ti­vità rispetto ai movi­menti di opi­nione e di lotta negli ultimi anni; la parità di genere e la pre­senza gio­va­nile. L’altro cri­te­rio è quello di non essere stati eletti negli ultimi dieci anni.

Sono state uffi­cia­liz­zate le can­di­da­ture dell’intellettuale ed ex lea­der del 77 bolo­gnese Franco Berardi Bifo che sostiene di volersi can­di­dare «con Tsi­pras e con­tro l’assolutismo finan­zia­rio». Tra le altre ci sono quelle di Franco Armi­nio e Tonino Perna; di espo­nenti del comi­tato «Arti­colo 33» che ha vinto il refe­ren­dum sulle scuole pari­ta­rie a Bolo­gna, del forum dell’acqua e dei comi­tati No Triv. Hanno comu­ni­cato le loro can­di­da­ture anche gli atti­vi­sti No Tav Nico­letta Dosio e Gigi Richetto. Un’adesione signi­fi­ca­tiva, visto che alle ultime ele­zioni poli­ti­che, il movi­mento No Tav aveva comu­ni­cato il suo appog­gio al Movi­mento 5 Stelle di Beppe Grillo. Entrambi gli atti­vi­sti riba­di­scono che i NoTav non sono un movi­mento assi­mi­la­bile solo al M5S o solo alla lista dell’«altra Europa, con Tsi­pras». Sem­brano certe le can­di­da­ture dell’ex por­ta­voce delle tute bian­che, e dei cen­tri sociali del Nord-Est, Luca Casa­rini, del gior­na­li­sta Loris Cam­petti e di Franco Gesualdi. I gior­na­li­sti Cur­zio Mal­tese, Andrea Scanzi, San­dra Bon­santi e Vauro hanno già comu­ni­cato il loro soste­gno alla lista, così come Gustavo Zagre­bel­sky, la filo­sofa Roberta De Mon­ti­celli e l’intellettuale Pier­franco Pellizzetti.

Prima casual­mente, poi in maniera più lenta ma più con­vinta, la lista sem­bra cre­scere in maniera tra­sver­sale alle appar­te­nenze poli­ti­che, intel­let­tuali, asso­cia­tive e di movi­mento tal­volta distanti tra loro. Un aspetto che i «garanti» hanno pre­fe­rito ad una carat­te­riz­za­zione più netta, e più clas­sica, di «sini­stra». La deci­sione di esclu­dere que­sto con­cetto dal logo della lista (il suo resty­ling defi­ni­tivo dovrebbe ter­mi­nare oggi) ha pro­vo­cato pole­mi­che, soprat­tutto con Rifon­da­zione Comu­ni­sta che ha spie­gato la sua par­te­ci­pa­zione in vista della costi­tu­zione di uno «spa­zio pub­blico di sini­stra» e non solo una «lista civica antiliberista».

Al momento è arri­vato un numero ridotto di can­di­da­ture fem­mi­nili. I pro­mo­tori della lista con­fi­dano che aumen­te­ranno nelle pros­sime ore. Da domani, una volta con­cluse le ope­ra­zioni di rac­colta, ini­zierà ad entrare in fun­zione la mac­china orga­niz­za­tiva e, entro la pros­sima set­ti­mana, ini­zierà la rac­colta delle firme cir­cor­scri­zione per cir­co­scri­zione. Il coor­di­na­mento è stato affi­dato a Cor­rado Oddi, una delle anime del gruppo che riu­scì nell’impresa sto­rica di rac­co­gliere le firme neces­sa­rie ad otte­nere il refe­ren­dum sull’acqua pub­blica e poi a vin­cerlo nel giu­gno del 2011. Nelle ultime ore si sta defi­nendo l’albero orga­niz­za­tivo di una strut­tura nazio­nale basata su respon­sa­bili regio­nali e pro­vin­ciali. I tempi saranno da car­dio­palma, bre­vis­simi. Si ini­zierà dalla temu­tis­sima Val D’aosta dove, con­si­de­rata la popo­la­zione, sono neces­sa­rie tre­mila firme per pre­sen­tare i can­di­dati scelti in lista. Sul sito, ma soprat­tutto su face­book, stanno nascendo comi­tato pro­Tsi­pras un po’ ovun­que nel paese. Così come cre­scono le prime ini­zia­tive spon­ta­nee: da Torino a Caserta. Dome­nica è pre­vi­sta un’assemblea del comi­tato romano al tea­tro Valle occupato

Una fulminante invettiva contro le nuove modalità e procedure della cosiddetta politica.

LaRepubblica, 21 febbraio 2013

Terrificante l’idea che la politica “in streaming” possa prendere piede e dilagare, costringendoci a simulare competenza e esprimere giudizi sull’intero scibile tecnico-tattico della nostra faticosa comunità: dagli incontri al vertice alle minute faccende che per fortuna qualcuno ha l’incarico di affrontare anche per nostro conto, grazie a quel geniale espediente che è la delega politica.

Sappiamo bene di avere delegato spesso e volentieri chi difettava di competenza o ci rappresentava male o tradiva il nostro mandato; e che questo è il nodo della presente, drammatica crisi politica. Ma se il rimedio è improvvisarci tutti esperti di questioni inevitabilmente a noi ignote, mipiacciando e midispiacciando con velocità ebete, beh è un rimedio peggiore del male.

Non “il popolo del web”, che non esiste, ma una nuova casta veloce di polpastrello e avida di potere è destinata, in quel caso, a soppiantare la vecchia democrazia rappresentativa. Tutti gli altri - milioni di altri - saranno solo il pubblico (mipiacciante e midispiacciante) di un gioco ancora più ristretto e ancora più oscuro, disputato tra nuove consorterie presuntuose e, nella peggiore delle ipotesi, tra bande di fanatici o di manipolatori.

«Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia.».

La Repubblica, 18 febbraio 2014
PER il modo in cui è stata congegnata, per le doppiezze che l’hanno contraddistinta, per i regolamenti di conti con cui s’è conclusa, l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo ha il sapore di certi cambi di guardia al Cremlino. Un esorbitante partito-Stato si fa macchina di potere, usa i propri uomini come pedine, li uccide politicamente se ingombrano, tradisce la parola data senza spiegazioni. Il tutto avviene «a porte chiuse», come nel dramma claustrofobico di Sartre: lontano dal Parlamento, dalla prova elettorale che era stata assicurata, da una società che il partito-Stato non sa più ascoltare senza vedere, dietro ogni cittadino, l’inferno molesto di qualche populismo. La liquidazione di Enrico Letta è avvenuta in streaming, ma sostanzialmente fuori scena: secondo Carmelo Bene, questa è l’essenza dell’osceno. Non sarà forse così, Renzi riuscirà forse a realizzare quel che promette: un piano lavoro entro marzo, soprattutto. Ma l’inizio incoraggia poco. Per la terza volta, in un Parlamento di nominati, il Pd designa per Palazzo Chigi un nominato.

È già accaduto in passato: basti ricordare il sotterraneo lavorio contro il governo Prodi, nel ’98. E più di recente, in aprile, il tradimento di 101 parlamentari Pd che avevano giurato di votare Prodi capo dello Stato e in un baleno l’affossarono. Colpisce la coazione a ripetere il gesto violento, e a scordare subito i traumi lasciati dalle coltellate. Una famosa giornalista francese, Françoise Giroud, scrisse una volta: «Ogni capo politico deve avere l’istinto dell’assassino». Il coltello non è più un incidente. S’è fatto istinto, tendenza innata. La cosa straordinaria, e solo in apparenza paradossale, è che la macchina del Pd cresce in potenza, man mano che organizza autodafé e perde i contatti con la società. Già da tempo ha smesso di identificarsi con la sinistra: parola da cui fugge, quasi fosse un fuoco che scotta e incenerisce. Già da tempo non si preoccupa di parlare in nome degli oppressi, degli emarginati, ed è mossa da un solo obiettivo: il potere nello Stato, attraverso lo Stato. Letta ha preparato il terreno, ma non guidava il Pd. Ora è un capo-partito a ultimare la metamorfosi: l’abbandono della rappresentatività, la governabilità che diventa movente unico, l’oblio della sinistra e della sua storia. Ovvio che l’istinto a tradire si tramuti in normalità.

Può darsi che Renzi cambi l’Italia in meglio, che renda lo Stato addirittura più giusto. Che non si spenga in lui la memoria del consenso popolare ottenuto alle primarie. Ma il come ancora non lo sappiamo, la coalizione è quella di ieri, e la macchia della defenestrazione di Letta gli resta appiccicata al vestito. Difficile dimenticarla. Difficile dimenticare le parole carpite lunedì a Fabrizio Barca. Il quale grosso modo ha detto questo: «C’è chi mi vuole ministro dell’Economia. Ma per fare che? Per imporre una patrimoniale di 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta e però non è nei piani? ».

Questo svanire della sinistra è un fenomeno europeo diffuso, ma in Italia è particolarmente accentuato. Nell’Unione sono ormai undici i Paesi governati da Grandi Coalizioni, in teoria non siamo molto diversi. Quel che è anomalo, nei connubi ideologici italiani, è il discredito profondissimo gettato sulla stessa parola sinistra, l’annebbiarsi della sua storia, del suo patrimonio, della sua vocazione alla rappresentanza. Altrove la sinistra classica, quella che dà voce ai deboli, possiede ancora uno spazio. Perfino laddove ha le tenebre alle spalle, come in Germania (la Linke è erede di un regime totalitario, nell’Est tedesco) non cancella d’un colpo quel che la lega alla società. Nel Congresso sull’Europa dello scorso fine settimana la Linke ha provato a cambiare la propria storia evolvendo, ha aperto all’Unione che esecrava. Ma il nome che porta non lo cambia. Non così in Italia, dove la sinistra precipita dalle scale e si ritrova vocabolo non grato.

È la vittoria postuma di Bettino Craxi ed è il lascito di Berlusconi, con cui il Pd di Renzi intende riformare la Costituzione. Della grande idea avanzata da Prodi negli anni Novanta - unire il solidarismo universalista cristiano e quello comunista - non resta che brace spenta. La scomparsa della sinistra non significa tuttavia che siano scomparsi i mali che la giustificarono in passato: la questione sociale è di ritorno, la disuguaglianza di redditi e opportunità s’è estesa in questi anni di crisi, nessun Roosevelt è in vista che la freni. E la riduzione della disuguaglianza, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, rimane il più antico e vivo retaggio della sinistra.

È sperabile che il piano-lavoro di Renzi non sacrifichi per l’ennesima volta una lotta che deve essere di rottura, e non per motivi ideologici ma perché l’Italia è rotta da sofferenze e avvilimenti. Che non lasci il proprio elettorato inerme, senza rappresentanza, e non ascolti solo quegli economisti politici che Marx chiamava «bravi sicofanti del capitale», dediti «nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale a cercare mezzi artificiosi per produrre la povertà delle masse ».

Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia. Se le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente, se si parla oggi di un 1% della popolazione che continua imperturbato ad arricchirsi e di un 99% di impoveriti (classi medie comprese), lo si deve alle destre più legate ai mercati ma anche alla Terza Via di Blair. Le ricette di Margaret Thatcher non morirono con il Nuovo Labour, e sopravvissero nella battaglia accanita contro un’Europa più unita e solidale. L’idea thatcheriana che «la società non esiste se non come concetto», che esistono «solo individui e famiglie con doveri e convinzioni», è interiorizzata dal Pd nel preciso momento in cui la realtà l’ha smentita e sconfitta. L’homo novus di Firenze suscita grandi aspettative, ed è vero quel che dice: leadership non è una parolaccia. Ma fin dalla prime sue mosse, negoziando con il pregiudicato Berlusconi la legge elettorale, il leader ha fatto capire che la rappresentatività è un bene minore. Il suo Pd stenta a mediare fra società e Stato. È degenerato in «cartello elettorale stato-centrico», sostiene Piero Ignazi: è parte dello Stato anziché controparte; ha un potere che tanto più si dilata al centro, quanto più si sfilaccia il legame con gli iscritti, le periferie, la democrazia locale (Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza 2012). Per questo l’odierno sviluppo partitocratico è solo in apparenza paradossale. Mandare in fumo l’eredità della sinistra — la lotta alla disuguaglianza, la difesa del bene pubblico — induce il Pd a trascurare l’arma principale evocata da Barca: la tassazione progressiva dei patrimoni più elevati (articolo 53 della Costituzione). L’economista Joseph Stiglitz fa calcoli più che plausibili, anche per l’Italia: «Se chi appartiene al primo 1 per cento incassa più del 20 per cento del reddito della nazione, un incremento del 10 per cento dell’imposta sul reddito (senza possibilità di sfuggirvi) potrebbe generare entrate pari a circa il 2 per cento del Pil del Paese».

Renzi punta sulla propria lontananza dai giochi partitici, sul successo che gli ha garantito la base. Ma quel che avviene nelle ultime ore rischia di vanificare la sua diversità: il Parlamento costretto a tacere sulle modalità bolsceviche della liquidazione di Letta, il cambio deciso «fuori scena», sono segnali nefasti. Torna alla ribalta la politica, ma impoverita democraticamente. Tornano i partiti; mentre i cittadini coi loro rappresentanti stanno a guardare. Come meravigliarsi che la società si radicalizzi, quando è la realtà a farsi sempre più radicale?

Buone notizia dalla Sardegna. In un'intervista del presidente Pìgliaru la conferma che, dopo gli anni infausti della "giunta del mattone" del vicerè di Berlusconi, riprenderà il cammino giusto all'insegna della difesa del lavoro e dell'ambiente.

Il manifesto, 19 febbraio 2014

E' stata una mat­ti­nata di relax per il neo­pre­si­dente della Regione Sar­de­gna, Fran­ce­sco Pigliaru, dopo i festeg­gia­menti di lunedì sera. Fre­sco di vit­to­ria, ieri mat­tina il pro­fes­sore è uscito a piedi di casa per andare a fare visita al ret­tore dell’università di Cagliari, Gio­vanni Melis. Pigliaru, infatti, dal 2009 e sino al 6 gen­naio scorso ha rico­perto l’incarico di pro­ret­tore dell’ateneo del capo­luogo, con delega alla ricerca scien­ti­fica. Un incon­tro di cor­te­sia tra pro­fes­sori. Poi di nuovo a piedi verso casa, con qual­che sosta for­zata con i cit­ta­dini che lo hanno incro­ciato per le strade del cen­tro. Ma già dal pome­rig­gio sono comin­ciati i con­tatti con i par­titi della cola­zione di cen­tro­si­ni­stra per dise­gnare la nuova giunta.

«Innan­zi­tutto le com­pe­tenze e un equi­li­bro tra uomini e donne», ha più volte detto Pigliaru nel corso della cam­pa­gna elet­to­rale. Si pro­fila una giunta con diversi tec­nici. In cima alla lista dei papa­bili c’è Raf­faele Paci, ordi­na­rio di Eco­no­mia appli­cata a Cagliari, che dovrebbe andare al bilan­cio e alla pro­gram­ma­zione. Spicca anche il nome di Gian Vale­rio Sanna (Pd), già asses­sore all’urbanistica con Soru e padre del piano pae­sag­gi­stico del 2006, al cen­tro della con­te­stata revi­sione da parte di Cap­pel­lacci pro­prio negli ultimi giorni della legislatura.

Da que­ste ele­zioni arriva un segnale forte innan­zi­tutto sui pro­grammi. Si è vinto sui con­te­nuti? E in par­ti­co­lare su quali?
Abbiamo fatto una pro­po­sta seria e non dema­go­gica. La gente l’ha capito e ci ha pre­miati. Abbiamo par­lato fin da prin­ci­pio di com­pe­tenza e serietà, met­tendo da parte un modo di fare poli­tica che non con­di­vi­diamo ed enun­ciando con chia­rezza pochi capi­saldi ma essen­ziali: sem­pli­fi­ca­zione della buro­cra­zia per far ripar­tire il mondo impren­di­to­riale, alleg­ge­ri­mento delle tasse eli­mi­nando i bal­zelli inu­tili, boni­fi­che nelle zone indu­striali e recu­pero del rispetto per l’ambiente e il pae­sag­gio minac­ciati da Cap­pel­lacci e dalla sua giunta del mat­tone, pari oppor­tu­nità per tutti a par­tire dai primi livelli dell’istruzione. Dob­biamo rimet­tere in mar­cia la Sar­de­gna infon­dendo forti dosi di spe­ranza, a par­tire dalla qua­lità dell’istruzione, in luo­ghi belli e sicuri, e dalla crea­zione di nuovo lavoro. Dare gambe al piano straor­di­na­rio per l’istruzione e l’edilizia sco­la­stica signi­fica soste­nere il set­tore delle costru­zioni e con­tem­po­ra­nea­mente inve­stire sulle pros­sime gene­ra­zioni. Miglio­rare l’oggi, guar­dando al domani. Que­sto è stato il nostro prin­ci­pio ispi­ra­tore. E si è rive­lato vincente.

Ma anche i modi hanno avuto una loro impor­tanza: una cam­pa­gna elet­to­rale ragio­nata, non gri­data. In con­tro­ten­denza rispetto alla deriva iper media­tica e populista?
Non sono più tempi per le parole vuote o i pro­clami. La situa­zione è tale, in Sar­de­gna, che la voce grossa, le pro­messe irrea­liz­za­bili o le bar­zel­lette non attec­chi­scono più. Con­ti­nuare a voler imbro­gliare le per­sone con spec­chietti per allo­dole quali la zona franca inte­grale, è inac­cet­ta­bile. Abbiamo fatto bene a mostrare imme­dia­ta­mente l’altra fac­cia della meda­glia, evi­den­ziando che il prezzo da pagare sareb­bero stati i tagli alla sanità. Abbiamo voluto avere rispetto per gli elet­tori atte­nen­doci alla realtà, avan­zando pro­po­ste rea­liz­za­bili e one­ste, senza nascon­derci die­tro un dito. La serietà non deve venir mani meno, nean­che in cam­pa­gna elet­to­rale, per il rispetto dovuto ad ogni cit­ta­dino, anche di chi si è rifiu­tato di andare alle urne. Era­vamo tutti al cor­rente che ci sarebbe stata una forte per­cen­tuale di aste­nuti, come è avve­nuto. Adesso è un impe­gno mio, e dev’esserlo di tutta la poli­tica, recu­pe­rare i delusi.

Nelle sue dichia­ra­zioni ha sot­to­li­neato il ruolo svolto da tutta la coa­li­zione. C’è stato un apporto impor­tante della forze di sinistra?
L’aver ricom­pat­tato la coa­li­zione è stata la nostra forza. Gli apporti dalle diverse com­po­nenti saranno, d’ora in poi, un’ulteriore ric­chezza. Vedo una forte sin­to­nia sulle prin­ci­pali que­stioni pro­gram­ma­ti­che. Abbiamo tutti una gran voglia di cam­biare la Sar­de­gna, di vol­tare pagina rispetto ai cin­que anni deva­stanti di governo Cap­pel­lacci. Sap­piamo come farlo, anche se non ci illu­diamo che sarà sem­plice. Sono certo che met­te­remo assieme tutte le nostre migliori ener­gie, per questo.

Che rap­porto si può ipo­tiz­zare tra la sua giunta e il governo nazio­nale gui­dato da Mat­teo Renzi?

I rap­porti isti­tu­zio­nali sono impor­tan­tis­simi. La Sar­de­gna ha sof­ferto molto per colpa delle mascal­zo­nate del governo Ber­lu­sconi, reo di averci negato mille occa­sioni di cre­scita. Dalle tele­fo­nate a Putin al furto del G8 a La Mad­da­lena e dei milioni della ver­tenza entrate. Avere Mat­teo Renzi a Palazzo Chigi sarà uno sprint in più per­ché Renzi è una per­sona seria e capace. Ho sem­pre con­di­viso la sua atten­zione verso i temi del lavoro e per le poli­ti­che attive. Impe­gnarsi in que­sti ambiti, oggi in par­ti­co­lar modo, signi­fica cer­care le rispo­ste da dare alla gente. Con il governo nazio­nale abbiamo da ria­prire imme­dia­ta­mente l’importante ver­tenza sulle entrate, abban­do­nata da Cap­pel­lacci, e l’annosa que­stione delle ser­vitù mili­tari, che ancora pre­tende dai sardi, in ter­mini di ter­ri­to­rio e poten­zia­lità di svi­luppo, sacri­fici spro­po­si­tati ed ingiustificati

Si discute sul rosso della lista Tsipras per l'Europa. Per fortuna idee e persone disposte a lottare per una alternativa al neoliberismo ci sono. Il manifesto, 18 febbraio 2014

Fa discu­tere l’esclusione della parola «sini­stra» dai quat­tro sim­boli pro­po­sti sul sito lista tsi pras .eu. Tutti su sfondo rosso e con il nome di Ale­xis Tsi­pras, lea­der di Syriza che è un acro­nimo in greco di «Coa­li­zione della Sinistra-Fronte sociale uni­ta­rio». Nes­suno di que­sti sim­boli ripro­pone però l’augusto con­cetto. La deci­sione del comi­tato dei sei garanti (Guido Viale, Bar­bara Spi­nelli, Andrea Camil­leri, Marco Revelli, Luciano Gal­lino, Paolo Flo­res) è stata accet­tata da Tsi­pras, cofir­ma­ta­rio dell’appello per la lista ita­liana a soste­gno della sua can­di­da­tura alla pre­si­denza della Com­mis­sione Euro­pea che ha rac­colto 23 mila ade­sioni online.

La deci­sione ha creato malu­mori tra gli iscritti di Rifon­da­zione Comu­ni­sta. La segre­te­ria del par­tito ha dif­fuso un comu­ni­cato in cui cri­tica dura­mente i garanti. «La nostra richie­sta di costruire un per­corso demo­cra­tico nella defi­ni­zione dei sim­boli e della com­po­si­zione della lista è stata com­ple­ta­mente disat­tesa – si legge – È un grave errore poli­tico. Que­sta è una lista civica anti­li­be­ri­sta e non la costru­zione di uno spa­zio pub­blico di sini­stra». Per i ver­tici di Rifon­da­zione l’obiettivo delle euro­pee dovrebbe essere l’avvio di un per­corso per costruire una «Syriza ita­liana». Un obiet­tivo, sia pur ancora non troppo espli­ci­tato, anche di altri ambienti.

Per Rifon­da­zione l’errore poli­tico» dei pro­mo­tori non mette tut­ta­via in discus­sione «l’importanza di fare una lista uni­ta­ria con­tro le poli­ti­che di auste­rità». Lo spet­tro di una Sel che pre­senta una lista sepa­rata, e del man­cato rag­giun­gi­mento del quo­rum al 4% segne­rebbe un nuovo, tre­mendo, fal­li­mento per tutti. Il giu­di­zio nega­tivo allora si stem­pera e il par­tito di Paolo Fer­rero riven­dica infine l’operazione poli­tica che ha por­tato Tsi­pras a essere il can­di­dato della sini­stra europea.

I pro­mo­tori della lista hanno spie­gato la loro deci­sione per­ché «la parola sini­stra non ha un con­te­nuto pro­gram­ma­tico defi­nito — spiega Guido Viale — A que­sto con­cetto si appel­lano sia i Si Tav che i No Tav, i libe­ri­sti più sca­te­nati e i comu­ni­ta­ri­sti più radi­cali». «Per il suo pro­gramma euro­pei­sta, demo­cra­tico e radi­cale — aggiunge Viale — que­sta lista ha una chia­ris­sima con­no­ta­zione di sini­stra. Rite­niamo impos­si­bile che chi si iden­ti­fi­chi nella sini­stra non possa iden­ti­fi­carsi con que­sti con­te­nuti. La scelta si spiega anche per­ché inten­diamo rivol­gerci a una fascia di cit­ta­dini che non si iden­ti­fica diret­ta­mente con quella che è stata la sini­stra radicale».

Ai «garanti» della lista è stata anche rivolta l’accusa di «dispo­ti­smo illu­mi­nato». «Sono scioc­chezze — risponde Viale — Que­sto dispo­ti­smo lo vor­reb­bero eser­ci­tare i par­titi, met­tendo le can­di­da­ture ai voti nelle assem­blee che, come abbiamo visto con l’esperienza fal­li­men­tare della lista “Cam­biare si può”, si tra­sfor­mano in rodei molto nega­tivi, oppure mobi­li­tando gli iscritti come fa Grillo nelle sue vota­zioni online, con risul­tati non sem­pre bril­lanti. Da tempo Rifon­da­zione ci cri­tica per­ché non siamo dispo­ni­bili per le assem­blee. Adesso chie­dono che metà dei can­di­dati ven­gano votati online. Ma per noi è assurdo anche per­ché non si capi­sce quali can­di­dati dovreb­bero sot­to­porsi al voto on line e chi a quello dell’assemblea. Per le euro­pee que­sto discorso è dif­fi­cile da fare: in cir­co­scri­zioni con cin­que sei regioni è impos­si­bile con­tare su can­di­dati conosciuti».

Inte­grare l’orizzontalità della rete con le pra­ti­che della par­te­ci­pa­zione diretta (l’assemblea, ad esem­pio) rap­pre­senta in effetti uno dei rom­pi­capo della demo­cra­zia oggi. I «garanti» hanno affi­dato la solu­zione a un comi­tato di 15 per­sone che dal 21 feb­braio si riu­nirà per valu­tare le can­di­da­ture cari­cate sul sito lista tsi pras .eu. Il numero dei par­te­ci­panti al comi­tato nel frat­tempo dovrebbe aumen­tare, con­si­de­rato la quan­tità dei moduli sca­ri­cati in poche ore: 710 alle 18 di ieri. Sulla scelta influi­ranno, tra gli altri, que­sti cri­teri: i can­di­dati non devono essere stati eletti negli ultimi 10 anni, anche se c’è un’apertura agli eletti negli enti locali; la parità dei genere; spa­zio ai gio­vani. La con­sul­ta­zione sulla scelta di nome e sim­bolo è stata posti­ci­pata a causa del sovrac­ca­rico del ser­ver che non ha retto il numero dei contatti.

Il refe­ren­dum si con­clude oggi alle 15, ieri ave­vano votato solo in 13 mila, pro­ba­bil­mente a causa delle disfun­zioni tele­ma­ti­che. «Può anche darsi per­ché non ci sia il ter­mine sini­stra nel sim­bolo» ipo­tizza Viale. Si parla della pos­si­bi­lità, tutta da veri­fi­care, di can­di­dare anche Andrea Camil­leri e Bar­bara Spinelli

Dalla vittoria di Pìgliaru in Sardegna una speranza non solo per la difesa del territorio e del paesaggio (beni di cui nessuno sembra preoccuparsi) ma anche per una nuova sinistra unita per il dopo-Renzi.

Il manifesto, 18 febbraio 2014

Un forte vento di bur­ra­sca batte la Sar­de­gna, una delle regioni ita­liane più col­pite dalla crisi eco­no­mica e dalla vorace colo­niz­za­zione della gens ber­lu­sco­niana. E’ il vento gelido dell’astensionismo che lascia lon­tano dal seg­gio elet­to­rale un elet­tore su due, facendo pre­ci­pi­tare la per­cen­tuale di chi è rima­sto a casa dal 33% del 2009 al 48% di oggi, gon­fiando del 15% l’area del non voto. L’iceberg gril­lino che alle ele­zioni poli­ti­che del 2013 aveva sfio­rato il 30% è rima­sto con­ge­lato, lon­tano dal richiamo del pur largo ven­ta­glio di liste e volti nuovi, come quello della scrit­trice Michela Mur­gia che resta fuori dal Consiglio.

Que­sto voto parla di una disoc­cu­pa­zione che dop­pia la per­cen­tuale nazio­nale, di una dein­du­stria­liz­za­zione che lascia solo dispe­ra­zione, di un dram­ma­tico dis­se­sto del ter­ri­to­rio abban­do­nato alla furia dell’alluvione, con la cre­di­bi­lità dei poli­tici inghiot­tita dagli ultimi scan­dali dei con­si­glieri regio­nali. Che ancora un cit­ta­dino sardo su due creda nel voto ha del pro­di­gioso, né può stu­pire che il risul­tato elet­to­rale sia spec­chio fedele e cru­dele della sfi­du­cia pro­fonda verso la classe diri­gente, dell’isola e di un paese, il con­ti­nente, sem­pre più lon­tano.

Quel che oggi basta al can­di­dato Fran­ce­sco Pigliaru per brin­dare alla vit­to­ria (il 43%) è pro­prio la per­cen­tuale che segnò la scon­fitta di Renato Soru (e le suc­ces­sive dimis­sioni del segre­ta­rio di allora, Wal­ter Vel­troni) alle regio­nali del 2009. Quando si cele­bra­vano i fasti del G8, con le bande del Cava­liere e di pezzi della Con­fin­du­stria sguin­za­gliati nell’arrembaggio dei gio­ielli natu­rali, salvo poi tra­sfe­rirsi tra le red­di­ti­zie mace­rie dell’Aquila ter­re­mo­tata lasciando ai sardi l’indelebile ricordo del loro passaggio.

E sem­brano tanto più stri­denti, di fronte alla cru­dezza dei numeri, le dichia­ra­zioni trion­fa­li­sti­che dei fede­lis­simi di Mat­teo Renzi, seguite all’immancabile tweet di feli­ci­ta­zioni del segre­ta­rio a Pigliaru («comin­ciamo il domani»). Tra par­titi più pena­liz­zati dallo scon­tento spicca pro­prio il Pd che perde il 2,5 rispetto alle poli­ti­che e il 2 rispetto alle regio­nali. Solo il Pdl oggi Forza Ita­lia fa peg­gio scen­dendo di 2,4 sul 2013 e del 12,5 sulle regionali.
Se dun­que un effetto-Renzi c’è stato non sem­bra di buon auspi­cio per il futuro di un Pd che anche in Sar­de­gna paga il prezzo, salato, alla cami­cia di forza delle lar­ghe intese. Come del resto si rende evi­dente dall’avanzamento, vice­versa, delle forze di sini­stra, Sel e Rifon­da­zione, ma anche delle espres­sioni di sini­stra delle liste auto­no­mi­ste. A riprova del fatto che se oggi, Ugo Cap­pel­lacci, il can­di­dato ex com­mer­cia­li­sta di Ber­lu­sconi perde la pre­si­denza della regione, di que­sta scon­fitta dob­biamo rin­gra­ziare, a livello regio­nale, quel che viene per­vi­ca­ce­mente negato nel nuovo-vecchio governo nazio­nale in for­ma­zione: la spinta vin­cente del cen­tro­si­ni­stra, un soc­corso rosso che com­pensa pro­prio la per­dita di voti del Pd renziano
Le ragioni profonde e i fondamenti del programma della lista della sinistra europea per le prossime elezioni nell'intervista di Jacopo Rosatelli all'autorevole sostenitore della lista Tsipras.

Il manifesto, 16 febbraio 2014

«Siamo in un momento cru­ciale. Cia­scuno dia il con­tri­buto che è nelle sue pos­si­bi­lità». Gustavo Zagre­bel­sky, ex pre­si­dente della Corte costi­tu­zio­nale, giu­ri­sta e intel­let­tuale di fama, guarda con molto inte­resse all’iniziativa che fa capo ad Ale­xis Tsi­pras, in vista delle pros­sime ele­zioni euro­pee: «C’è biso­gno di un sus­sulto di con­sa­pe­vo­lezza. E c’è poco tempo: dedi­chia­molo a spie­gare per­ché l’Europa ha biso­gno di una scossa e a chia­rirne i con­te­nuti da pre­sen­tare agli elettori».

Pro­fes­sore, lei sostiene che que­sta scossa può venire sol­tanto da un’affermazione del pro­getto che incarna il 39enne lea­der della sini­stra greca. Perché?

Pre­scin­diamo un momento dai nomi, guar­diamo prima al qua­dro d’insieme. Alle ele­zioni di mag­gio si affron­te­ranno due masto­donti: da una parte, gli anti­eu­ro­pei­sti, che sono tali in nome della rea­zione all’Europa della finanza che sta influendo pesan­te­mente sulle libertà demo­cra­ti­che dei Paesi in dif­fi­coltà; dall’altra, l’Europa degli inte­ressi della finanza incar­nati dagli Stati forti che impon­gono la loro legge ai deboli. I primi vogliono il ritorno alle sovra­nità chiuse, al nazio­na­li­smo. Gli altri vogliono il man­te­ni­mento dello sta­tus quo. Di fronte a que­sti due giganti, c’è una terza pos­si­bi­lità, rap­pre­sen­tata dall’iniziativa di Tsi­pras: è il recu­pero dell’idea di Europa dei padri fon­da­tori, che pen­sa­vano che l’integrazione eco­no­mica fosse solo il primo passo verso una piena inte­gra­zione poli­tica. Inol­tre, essendo un lea­der greco, la figura di Tsi­pras ha anche un aspetto sim­bo­lico, sia per­ché lì stanno le ori­gini della nostra civiltà, sia per la situa­zione in cui attual­mente versa quel Paese: non so se ci ren­diamo conto che qual­che mese fa ha chiuso l’Università di Atene.

Lei esclude, dun­que, che un simile ruolo di rot­tura pos­sano gio­carlo i socia­li­sti gui­dati dal tede­sco Mar­tin Schulz…

Non lo escludo affatto. Temo, però, che se si con­fron­te­ranno le due forze di cui dicevo — nazio­na­li­sti e «mer­ca­ti­sti» — alla fine la social­de­mo­cra­zia farà blocco con i con­ser­va­tori, nella logica delle lar­ghe intese, per far fronte al nemico comune. Sarebbe la para­lisi. So bene che quest’iniziativa della lista Tsi­pras è accu­sata di essere l’ennesimo ten­ta­tivo mino­ri­ta­rio, set­ta­rio, che fa il gioco di altri… Ma ormai non se ne può più di que­sto modo di ragio­nare. Penso che la que­stione Europa non si esau­ri­sca nell’allentamento del vin­colo del 3% deficit/pil o simili: c’è ben altro in gioco. Inten­dia­moci: met­tere in discus­sione i rigidi vin­coli finan­ziari, come dicono di voler fare i socia­li­sti, è pro­pe­deu­tico alle neces­sa­rie poli­ti­che di svi­luppo, ma è pur sem­pre un aggiu­sta­mento all’interno della logica che attual­mente regge l’Ue. Noi vogliamo riap­pro­priarci dell’idea dei padri fon­da­tori, che non si limi­tava alla dimen­sione mer­can­tile, ma mirava a un’idea politico-culturale: l’Europa come punto di rife­ri­mento per il mondo, basato sulle sue acqui­si­zioni civili e sociali. E se ciò potesse esi­stere, sarebbe anche un ele­mento d’equilibrio nei rap­porti inter­na­zio­nali: una dimen­sione total­mente estra­nea all’Ue di oggi, che non gioca alcun ruolo nella scena mon­diale e che non fa nulla affin­ché, ad esem­pio, i diritti sociali siano rico­no­sciuti anche nei Paesi di nuova indu­stria­liz­za­zione. Ma per farlo, dovrebbe prima esi­stere come entità poli­tica: per me, la lista Tsi­pras, scon­tran­dosi con gli inte­ressi delle nazio­na­lità chiuse e con quelli dei mer­cati glo­bali de-regolati, è un pro­getto che ha come primo obbiet­tivo costruire l’Europa come auten­tico spa­zio poli­tico demo­cra­tico. Siamo per­sino ancora «al di qua» di una divi­sione fra destra e sinistra.

Anche lei con­di­vide, come i pro­mo­tori dell’appello per la lista Tsi­pras, la neces­sità di cam­biare i trat­tati, magari attra­verso un pro­cesso costi­tuente. Sbaglio?

No, non sba­glia. Que­sto è ciò che dicono giu­sta­mente il movi­mento fede­ra­li­sta e, in gene­rale, tutti gli euro­pei­sti più avver­titi. Siamo in un momento in cui o si pone seria­mente il tema della demo­cra­tiz­za­zione delle isti­tu­zioni euro­pee o andremo incon­tro a un pro­gres­sivo depe­ri­mento dell’idea di Europa unita».

A pro­po­sito del pro­cesso costi­tuente non sarebbe come fare una costi­tu­zione senza popolo, senza un demos europeo…

Anche secondo me non si può fare una costi­tu­zione senza un popolo euro­peo, che attual­mente ancora non c’è. Ma ciò non signi­fica che abbiano ragione coloro che sosten­gono l’ipotesi «fun­zio­na­li­sta». Senza un popolo, c’è solo l’oligarchia. Senza demo­cra­zia, c’è solo la tec­no­cra­zia. Non può reg­gere l’Ue senza una sorta di «patriot­ti­smo» euro­peo, legato alla nostra con­sa­pe­vo­lezza orgo­gliosa di quella parte della sto­ria dell’Europa che ha gene­rato tol­le­ranza, diritti civili e sociali, uguale dignità degli esseri umani, amore per scienze e arte, pro­te­zione per i deboli, rifiuto di quel dar­wi­ni­smo sociale che, sotto forma di iper­li­be­ri­smo, sta inva­dendo il mondo. Una sto­ria fatta anche dalle sue cul­ture poli­ti­che: illu­mi­ni­smo, socia­li­smo e soli­da­ri­smo cri­stiano. Oggi, pur­troppo, c’è un impe­di­mento ogget­tivo alla pos­si­bi­lità di una costi­tu­zione euro­pea: l’indisponibilità alla soli­da­rietà fra Paesi. E se non c’è dispo­ni­bi­lità dei forti a con­di­vi­dere la fra­gi­lità dei deboli, non c’è costi­tu­zione che tenga.

Pensa che la Carta dei diritti fon­da­men­tali di Nizza sia una leva per aprire delle con­trad­di­zioni all’interno del diritto comu­ni­ta­rio vigente?

Quella Carta doveva essere la base di tutto, per­ché fon­dava la cit­ta­di­nanza euro­pea. È stata cri­ti­cata per essere sbi­lan­ciata sul piano dei diritti indi­vi­duali rispetto a quelli sociali, ma il pro­blema è che non è mai entrata dav­vero nel «san­gue» che cir­cola nella Ue: è vigente, ma è anche effet­tiva? Deci­sa­mente più «viva» è la Con­ven­zione euro­pea dei diritti umani, quella su cui vigila la Corte di Stra­sburgo. Va detto, tut­ta­via, che il ter­reno pura­mente giu­ri­dico è impor­tante, ma non è quello deter­mi­nante: di fronte alla bufera finan­zia­ria, il mondo del diritto non può fare molto. Ha biso­gno di essere ali­men­tato dal basso, dalla par­te­ci­pa­zione, dal fatto che «si avverta» che le carte e le corti hanno un ruolo. In ogni caso, biso­gna cer­ta­mente insi­stere sul fatto che una realtà come la troika (Com­mis­sione, Bce e Fondo mone­ta­rio, ndr) non ha alcun fon­da­mento giu­ri­dico: in base a cosa vanno a con­trol­lare i conti dei Paesi come la Gre­cia? Non c’è né legit­ti­mità né lega­lità. Eppure, i suoi con­trolli e responsi con­ta­bili con­tano molto di più dell’Europarlamento, e pos­sono addi­rit­tura aprire la strada al fal­li­mento degli stati. Un tema, quello del fal­li­mento, su cui occorre porre molto di più l’attenzione.

In che senso?

Fino a qual­che tempo fa, l’accostamento stato-fallimento sarebbe apparso un’aberrazione: lo Stato non poteva fal­lire. Se oggi non respin­giamo que­sto acco­sta­mento è per­ché accet­tiamo senza accor­ger­cene la degra­da­zione dello Stato a società com­mer­ciale. Ma non può essere così, è una con­trad­di­zione in ter­mini: lo Stato è un’altra cosa. Noi non pos­siamo par­te­ci­pare a un’istituzione come la Ue se essa pre­vede, tra i suoi stru­menti, il fal­li­mento dei suoi mem­bri: uno stru­mento capace di annul­larne le isti­tu­zioni demo­cra­ti­che. Da costi­tu­zio­na­li­sta, osservo che l’adesione dell’Italia alla Ue si fonda sull’art.11 della nostra Costi­tu­zione, che dice che si può limi­tare la sovra­nità a favore di isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali, ma a con­di­zione che esse ser­vano la pace e la giu­sti­zia tra i popoli. Se ser­vono non a que­sti, ma ad altri scopi, che si fa? Diciamo: con la lista Tsi­pras ci si impe­gna per scon­fig­gere i due masto­donti di cui dicevo prima, essendo aperti a ogni pos­si­bile col­la­bo­ra­zione per una Europa di pace e di giustizia.

C’è chi ha cri­ti­cato l’idea di que­sta lista per­ché sarebbe ostile ai par­titi, quasi il frutto di una sorta di gril­li­smo da intel­let­tuali. Come risponde?

Io credo al ruolo inso­sti­tui­bile dei par­titi, e penso che la poli­tica — come inse­gna Max Weber — debba essere anche una pro­fes­sione. Se ci guar­diamo attorno, però, dob­biamo dire che in Ita­lia non sem­pre ciò che si chiama «par­tito poli­tico», è dav­vero «poli­tico». Abbiamo idea di che cosa deve essere la poli­tica? Die­tro la lista Tsi­pras, per come la vedo io, c’è invece un’idea pie­na­mente poli­tica di orga­niz­za­zione di biso­gni, inte­ressi e pro­spet­tive: mi auguro che que­sta espe­rienza possa ser­vire a moti­vare una parte di elet­to­rato che non va più a votare, sce­glie il Movi­mento 5Stelle o è delusa del par­tito cui finora ha dato il suo voto. Una parte sem­pre più grande di popo­la­zione, che — non credo ci sia nem­meno biso­gno di dirlo — è com­po­sta di molte per­sone di valore, di una parte buona di società

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