Compagne e compagni del PD, ricordando Voltaire aiutate la sinistra alternativa a far sentire la sua voce, aiutando la lista “con Tsipras” a raccogliere le firme necessarie per partecipare alle elezioni.
L’Unità, 20 marzo 2014
Povera austerità. Fino a qualche tempo fa era sovrana incontrastata d’Europa, e i governati facevano a gara a inchinarsi ai suoi piedi, nascondendo accuratamente sotto il tappeto i costi sociali dei loro inchini: povertà, disoccupazione, disastro sociale. Oggi la polvere è troppa, non c’è tappeto che tenga; si mischia al polverone di chi vuole sfasciare tutto, per riconsegnare il continente ai nazionalismi. Madame Austerity ha perso lo smalto, la sua compagnia non è più gradita a nessuno: neppure a chi l’ha votata e osannata, come il Pd italiano e la Spd tedesca, il cui leader Martin Schulz è candidato del Pse alla presidenza della Commissione europea. Significa forse che il vincolo del 3% non verrà rispettato, che questi partiti si batteranno per la fine del Fiscal Compact, che in Italia verrà cancellato dalla Costituzione l’obbligo capestro del pareggio di bilancio?
Niente di tutto questo: «L’Italia non vuole cambiare le regole», ha dichiarato Renzi alla Merkel. Neppure, dunque, quella che dal 2015 aggiungerà ai quasi cento miliardi annui che già paghiamo per gli interessi sul debito, altri 45 miliardi l’anno da versare alle banche per cominciare a ridurlo. E dove li prenderemo?
Una Conferenza europea sul debito pubblico, come quella che nel 1953 ne condonò gran parte alla Germania, per consentire la ricostruzione dopo la guerra: questo propone un altro candidato alla presidenza della Commissione, Alexis Tsipras. In Grecia, Tsipras ha costruito il suo consenso proprio sul rifiuto dei vincoli che hanno sprofondato il paese nella povertà, aumentando il debito invece di diminuirlo; in Europa, propone fondi europei per la creazione di posti di lavoro e la riconversione ecologica, la sospensione del Fiscal Compact, una riforma della banca europea e delle politiche sull’immigrazione, e molto altro.
I candidati e candidate dell’Altra Europa sono persone che fanno politica da anni: perfino i più giovani, passati dalle lotte nelle scuole e nell’Università al movimento contro la precarietà e per il reddito minimo. Sono delegate e delegati metalmeccanici, compagne di strada di don Gallo e di Zanotelli, giornalisti, intellettuali, voci autorevoli del pacifismo e del femminismo, dell’Arci e dei Forum sociali.
Pensateci su, care compagne e compagni del Pd e scusatemi se uso questa vecchia parola a me cara. Diceva il filosofo: «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Noi, più modestamente, non vi chiediamo di dare la vita: solo una firma. Un gesto d’amore per la democrazia, e di fiducia in voi stessi: per il gusto di provare a sconfiggerci dopo, in campagna elettorale, con gli argomenti e non con gli sbarramenti.
Il documento era pronto da settimane sulla scrivania del capogruppo del Pd alla camera, Roberto Speranza. Che solo martedì sera ha deciso di farlo conoscere a tutti i deputati democratici: ne dovranno discutere in assemblea entro fine mese. Per il momento le «considerazioni conclusive» firmate dai deputati Pd della commissione difesa sono dirompenti. C’è la richiesta di «rinviare ogni attività contrattuale» relativa ai caccia F35, in vista di «un significativo ridimensionamento» del programma di acquisto. E c’è soprattutto, come anticipato dal manifesto, la scoperta di oltre un miliardo di spese per armamenti «nascoste» al bilancio della difesa, e finite nei capitoli di altri ministeri. In pratica, rivelano i deputati Pd, la spesa per i sistemi d’arma sta già sforando la percentuale del bilancio della difesa considerata ottimale dagli stessi Stati maggiori. Tagliare si può, vedremo se Matteo Renzi saprà farlo.
Ad aprile la commissione difesa scriverà l’ultima parola di questa «indagine conoscitiva sui sistemi d’arma», decisa otto mesi fa come compromesso tra le allora larghe intese per evitare che il Pd seguisse Sel e Cinque stelle nella richiesta di cancellazione del programma F35. Prima l’assemblea dei deputati democratici si esprimerà sul documento. Nel gruppo Pd non mancano i sostenitori dell’accordo con la Lockheed Martin per il caccia americano. Ma c’è anche una componente, specialmente cattolica, che spingerà per confermare le indicazioni che adesso sono diventate pubbliche. Alla fine decideranno le ragioni di bilancio più che quelle del pacifismo e della Costituzione (l’F35 è un aereo esclusivamente d’attacco) o tecniche (nei test l’aereo sta accumulando insuccessi). Tra quest’anno e il prossimo si può recuperare circa un miliardo non dando seguito ai programmi di acquisto con la Lockheed. Soldi preziosi, tenendo conto che gli altri che dovrebbero arrivare dalla difesa sono assai aleatori, come i proventi della sempre annunciata svendita delle caserme.
Con il Pd su queste posizioni, assieme a Sel e M5S, non ci sarebbero problemi per bloccare gli F35 in commissione difesa. L’obiettivo però è arrivare a una mozione in aula che impegni il governo allo stop. E potrebbe persino non bastare, visto il braccio di ferro che gli Stati maggiori e direttamente il presidente della Repubblica hanno ingaggiato da tempo con il parlamento sulla titolarità a decidere sugli investimenti nei sistemi d’arma. La legge del 244 del 2012 ha restituito alle camere l’ultima parola. Ieri il Consiglio supremo della difesa dal Quirinale ha preso sì atto della necessità di risparmiare, ma ha rimandato le scelte concrete alla redazione di un «Libro bianco» della difesa, la cui cura è affidata al ministero. E martedì la ministra Pinotti ha raffreddato gli entusiasmi: non è detto, ha spiegato, che i risparmi arriveranno dagli F35.
Nel documento del Pd, però, non ci sono solo ragioni economiche contro il programma americano. Ma almeno altri otto buoni motivi per cancellare le commesse. Si va dal fatto che «non sono garantiti significativi ritorni industriali» alle considerazioni sull’embargo imposto dagli Usa sulla tecnologia sensibile. Inoltre, quanto al sito italiano di montaggio, «l’occupazione che si genererà non può considerarsi aggiuntiva a quella già attualmente impiegata nel settore aeronautico, ma solo parzialmente sostitutiva». Considerazioni di buon senso, contro le quali si è già alzato il fuoco di sbarramento: proprio ieri uno studio della Pricewaterhouse garantiva che l’assemblaggio degli F35 in Italia, a Cameri, può creare tra i 5 e i 6mila posti di lavoro. Si tratta di uno studio commissionato dalla Lockheed.
Oltre ai caccia, i deputati della commissione difesa del Pd invitano a ripensare il programma dell’esercito Forza Nec, altrimenti noto come «soldato digitale». Il fante italiano del futuro risulta essere progettato (appalto Selex) senza alcuna preoccupazione di interconnettività con le forze armate dei paesi alleati, Nato e Ue. Meglio fermare questo investimento (20 miliardi) fino a quando «i diversi sistemi nazionali saranno in grado di dialogare tra loro». Quanto alle spese per gli armamenti nel loro complesso, come detto, guardando nei capitoli del ministero dello sviluppo econmico, si scopre che sono ben oltre il 25% dei 14 miliardi destinati alla funzione difesa. Ci sono margini per recuperare più di un miliardo. E più di tutto si dovrebbe poter isparmiare in futuro. Se, come propone il documento, si costituirà anche in Italia un’Autorità di controllo sulla spesa per gli armamenti. Posto che i deputati Pd denunciano il «fenomeno ricorrente della presenza di figure apicali del mondo militare che vanno ad assumere posizioni di rilievo al vertice delle industrie della difesa». Su tutte Finmeccanica, presieduta oggi dall’ex capo del Sismi De Gennaro e dall’ex capo di stato maggiore della difesa Venturoni
Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo.
Il manifesto, 189 marzo 2014
Di «passaggio» a Tokyo per una serie di affollatissime conferenze, abbiamo chiesto a Noam Chomsky, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occidente e Oriente, che agitano il pianeta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.
L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin. E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare…
«Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe — per il quale non nutro particolare stima — alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici, parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento e subordinazione al "pensiero comune" che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal) "consigliato" dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che "feroce invasione".
«Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti, dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla storia delle presunte armi di distruzioone di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia? Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo: ma perché continuamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto, quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere la guida – e il gendarme – del mondo».
A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo temere di più?
«Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70% degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc. Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento dal parte del Giappone.
«Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva, esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costrigendole a prostutirsi per «ristorare» le truppe al fronte».
Già, le famose «donne di ristoro», tuttavia ogni paese ha i suoi scheletri. In Italia pochi sanno che siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e americani non scherzano, quanto a crimini di guerra nascosti e/o ignorati
«Assolutamente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi scolastici, un conto è il negazionismo: insomma, in Germania se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giappone se neghi il massacro di Nanchino rischi di diventare premier»
A proposito di Renzi, Hollande, Merkel &C.«Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati».
La Repubblica, 19 marzo 2014
È inutile accusare la tecnocrazia europea per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione, come hanno fatto Renzi e Hollande a Parigi, quando sono i governi a fare e disfare l’Europa secondo le loro convenienze. Ed è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni.
Come non sentirsi sbalestrati, se non beffati, da discorsi così contraddittori? A Parigi Renzi ha accusato gli eurocrati, poi a Berlino ha riconosciuto il primato tedesco, ricordando alla Merkel che non siamo «somari da mettere dietro la lavagna, ma un Paese fondatore che contribuisce a dare la linea». Chi detta legge, in ultima analisi: il tutore tedesco o l’eurocrazia? Chi ha l’ultima parola? Non dirlo a lettere chiare: questo è aggirare i popoli.
L’inganno è più che mai palese alla vigilia delle elezioni europee, che almeno sulla carta dovrebbero essere diverse dalle precedenti. Il trattato di Lisbona infatti è esplicito, e i deputati di Strasburgo l’hanno ribadito: il Presidente della Commissione sarà designato dal Consiglio europeo, ma «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17). Quel che ci si accinge a fare è altra cosa. Ancora una volta, la decisione sarà presa a porte chiuse, senza dibattito pubblico preliminare, dai capi di Stato o di governo. Lo stesso Parlamento europeo è complice dell’inganno, col suo regolamento interno: la scelta delle nomine è a scrutinio segreto; non è prevista discussione pubblica. Condotte simili non si limitano a ignorare i trattati: sono anche del tutto incompatibili con la trasparenza da essi ripetutamente evocata. Riavremo dunque lo stesso occulto mercanteggiamento tra Stati che ha ammorbato l’Unione per decenni. Il Parlamento può certo accampare diritti — può sfiduciare il presidente dell’esecutivo e l’intero collegio — ma il rifiuto avviene dopo la nomina. È più complicato. Non a caso l’assemblea non s’è mai azzardata a sfiduciare la Commissione.
Se davvero credessero in quel che professano, Renzi, Hollande e la Merkel manderebbero in questi giorni ben altro messaggio ai cittadini refrattari che apparentemente li angustiano tanto. Direbbero: «Ci atterremo alle nuove regole, vi ascolteremo sempre più. Quindi rispetteremo il verdetto delle urne». Nessuno di loro osa dirlo. Il dominio che esercitano, nella qualità di sovrani che nominano eurocrati al loro servizio, non vogliono né dismetterlo né spartirlo. Vogliono usarla, la tecnocrazia, come alibi: se le cose vanno male la colpa è sua. Gli Stati hanno potere, non responsabilità.
La mistificazione è massima perché la colpa è interamente loro, se l’Unione è oggi un campo di discordie, di ingiustizie sociali asimmetriche. Sono gli Stati e i governi che hanno fatto propria la teoria, predicata ad alunni somari e non, dell’«ordine» o dei «compiti in casa». È la teoria tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità, perché i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la «casa nazionale», e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà, e comuni regole di uguaglianza sociale. Nelle sedi internazionali, e anche in quella sovranazionale europea, basta insomma «coordinare» le singole linee, esortarsi a vicenda. Il motivo: l’esperienza totalitaria legata a interventi eccessivi dello Stato (memorabile l’accusa rivolta dall’ordoliberista Wilhelm Röpke, negli anni ‘50, all’ideatore dello Stato sociale: «Quello che voi inglesi state preparando, con il piano Beveridge, è una forma di nazismo». Non meno antiliberale fu giudicato il New Deal di Roosevelt).
L’illusione ordoliberista, tuttora diffusa ai vertici degli Stati, è che se ognuno lasciasse fare i mercati, mettendo magari la briglia alla democrazia e a leggi elettorali troppo rappresentative, l’ordine finirebbe col regnare nel mondo. La crisi ha mostrato che solo invertendo le priorità una soluzione è possibile. È dalla solidarietà che urge ripartire, dalla messa in comune di risorse, dopodiché ogni Stato avrà più forze per aggiustare i conti, spalleggiato da istituzioni e bilanci federali. Così gli Usa risolsero la crisi del debito dopo la guerra di indipendenza: mettendo in comune i debiti, passando dalla Confederazione alla Federazione, dandosi una Costituzione.
L’esatto contrario avviene nell’Unione. Sono ancora gli Stati che hanno deliberato, nel febbraio 2013, di congelare il comune bilancio e di impedire l’aumento delle risorse che permetterebbe piani comunitari di ripresa, e soprattutto la conversione della vecchia industrializzazione in sviluppo verde, sostenibile. Una delibera che il Parlamento s’è rifiutato di ratificare, un mese dopo. Ma alla fine la decisione è stata accettata, pur rinviando il dibattito al 2016.
Sono gli Stati che hanno inventato la trojka, organismo che comprende la Banca Centrale europea, la Commissione, e non si sa per quale complesso di inferiorità il Fondo Monetario, e che oggi controlla 4 Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Una trojka la cui sola bussola è la «casa in ordine». Sono infine gli Stati che hanno concordato il fiscal compact, che alcuni Paesi - tra cui l’Italia di Monti - hanno inopinatamente messo nella Costituzione nonostante nessuno l’avesse imposto.
Questo significa che viviamo nella menzogna, sull’Europa esistente e su quella da rifondare. Che chi ha in mano le scelte sono in realtà i mercati: non l’eurocrazia usata come alibi e non i finti Stati sovrani. Lo spiega bene Luciano Gallino, su La Repubblica del 15 marzo: non esiste stato di eccezione che consenta un’indifferenza così totale verso le sofferenze inflitte ai cittadini (Grecia in primis, e Italia, Spagna, Portogallo). Quanto al fiscal compact, si tratta, secondo Gallino, di eliminare dalla Costituzione le norme attuative, come proposto da Rodotà: «L’Italia non è in grado di trovare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare (per 20 anni, ndr). Accadrà quello che è già accaduto altrove: tagli sanitari, bambini affamati, povertà» (intervista al Manifesto, 13-3).
Sono anni che Roma cerca di ingraziarsi Parigi, e forse qui è l’inganno più grande. I governi francesi, di destra o sinistra, hanno una responsabilità speciale: sin da quando, caduto il Muro, risposero sistematicamente no - in nome del mito sovrano gollista - all’unità politica e militare che Kohl chiese con insistenza per puntellare l’euro. Si denunciano le colpe tedesche, nella crisi, ma l’immobile insipienza francese è ancora più nefasta.
L’Europa, non dimentichiamolo, fu fatta grazie ai francesi Jean Monnet, Robert Schuman. Quel che fu creato lo si deve a Parigi. Ma anche quel che non fu fatto, e non si fa. A cominciare dall’unità militare, che consentirebbe all’Europa risparmi enormi: circa il 40%. Insieme si potrebbe valutare se sia sensato dotarsi degli F-35, e che tipo di pax europea vogliamo, autonoma da quella americana.
Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati. Che la Francia è un ostacolo non meno grande di Berlino, anche se governata dai socialisti (Sarkozy almeno ci provò: Hollande sull’Europa è muto). Che l’Unione ha bisogno di una Costituzione vera, che inizi come negli Usa con le parole: «We, the people...»: non con l’elenco dei governi firmatari. Altrimenti non avremo solo il predominio degli Stati più forti. Avremo quella che Gallino chiama la Costituzione di Davos:una costituzione non scritta, i cui governi, vittime di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari a carico dei contribuenti.
Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, deve essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario».
La Repubblica, 18 marzo 2014
È ancora possibile una politica costituzionale? La questione non riguarda soltanto l’Italia, né si esaurisce nel controllo di conformità delle leggi a singole norme della Costituzione. Ma, quando si segnala questo tema, accade spesso di ricevere risposte infastidite, quasi che si volesse mettere la politica sotto una incombente e inammissibile tutela del diritto.
La realtà è del tutto diversa. Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, non dirò del suo primato, non può che essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, appunto quelli che si rinvengono nei documenti costituzionali, dunque espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario. È una questione che ha un rilevante significato generale. E che, nell’attuale situazione italiana, va seriamente discussa, perché è destinata ad incidere fortemente sul modo in cui vengono affrontate la riforma elettorale e quella costituzionale.
Nell’ultima fase storica si è determinato un passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale di diritto, connotato dal controllo di costituzionalità sulle leggi e dalla istituzione di uno spazio dei diritti fondamentali. Proprio questo modello appare oggi in discussione, scosso dalla globalizzazione del mondo e dalla sua riduzione alla dimensione finanziaria. Costituzioni e diritti appaiono un impaccio, lo si proclama talvolta apertamente, sempre più spesso si agisce come se non esistessero. Lo vediamo in Italia, ne abbiamo conferma in Europa, dove la Carta dei diritti fondamentali è stata cancellata, malgrado abbia lo steso valore giuridico dei trattati. Lo Stato costituzionale di diritto sarebbe dunque alla fine, viviamo in una fase in cui la mancanza di un quadro istituzionale riconosciuto favorisce l’espandersi di poteri incontrollati?
Rivolgendo lo sguardo alle cose di casa nostra, vi è un grave rischio di cui è bene avere piena consapevolezza. La corsa ormai senza freni verso soluzioni maggioritarie, con seri rischi di incostituzionalità, può determinare un appannarsi di importanti garanzie costituzionali. Se vi è ancora memoria della nostra storia, si dovrebbe sapere che quelle garanzie erano state affidate dai costituenti a maggioranze calcolate con riferimento ad un sistema elettorale proporzionale, che consentiva un ampio pluralismo delle forze presenti in Parlamento. Di conseguenza, non v’era una concentrazione di potere in un partito o in una coalizione tale da consentire interventi in materia costituzionale affidati ad un solo soggetto, magari costruito artificialmente grazie a premi di maggioranza. Nel 1953, contro la “legge truffa” si adoperò proprio l’argomento di una concentrazione di potere nelle mani dei vincitori che poteva alterare gli equilibri costituzionali. E si deve aggiungere che il rischio oggi è maggiore, visto che quella legge tanto esecrata prevedeva che il premio di maggioranza scattasse solo se la coalizione superava il 50% dei voti.
È indispensabile, allora, una politica costituzionale che ridisegni il quadro delle garanzie, prevedendo maggioranze più larghe per la revisione costituzionale, l’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali, mettendo in sicurezza proprio le istituzioni di garanzia e i diritti fondamentali. Non è un compito da affidare al futuro, ma un processo da avviare in parallelo con l’incombente forzatura maggioritaria. Altrimenti, eletta la “governabilità” a feticcio indiscutibile, sarebbe travolto il sistema delle tutele, alterando in un punto nevralgico gli equilibri democratici.
Ma la politica costituzionale è indispensabile anche per uscire da una schizofrenia che da anni affligge il nostro sistema. I diritti fondamentali sono scomparsi dall’orizzonte parlamentare, dove le poche leggi approvate sono state ideologiche e repressive. La loro tutela è stata tutta affidata alla giurisdizione, Corte costituzionale e Corte di Cassazione, dove per fortuna è rimasta vigile una cultura delle garanzie. Ora il Parlamento deve riassumere le proprie responsabilità, affrontando grandi questioni individuali e sociali, di cui non v’è traccia nell’agenda del Governo. O la necessità di salvaguardare i precari equilibri di maggioranza ci condannano ad una minorità civile? Qualche esempio. Il riconoscimento effettivo delle unioni anche tra persone dello stesso sesso, non come una mancia data a malincuore e al ribasso, ma come tutela di diritti fondamentali, secondo la linea tracciata dai giudici costituzionali e della Cassazione.
Una normativa coerente al posto delle macerie lasciate dalla superideologica e incostituzionale legge sulla procreazione assistita. Una nuova disciplina sugli stupefacenti senza concessioni a furbizie e colpi di mano come quello tentato dalla ministra per la Salute. Regole minime per eliminare ogni dubbio sul diritto di morire con dignità. Altrettanto urgente, dopo il monito del Consiglio d’Europa, è un intervento che cancelli lo scandalo del dilagare delle obiezioni di coscienza dei medici all’aborto, che negano un diritto delle donne che la legge vuole pienamente garantito dalle istituzioni pubbliche. Tutte questioni che toccano “valori non negoziabili” e che mettono a rischio la tenuta dell’attuale maggioranza? Ma qui non v’è nulla da negoziare. Vi è soltanto il dovere di dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, che non possono essere assoggettati a ricatti e convenienze. Ineludibili politiche costituzionali, appunto.
Nello spazio tra i silenzi parlamentari e i provvidi, ma insufficienti, interventi dei giudici si è manifestata negli ultimi tempi una importante attenzione delle istituzioni locali. Una legge della Regione Abruzzo ha aperto la strada all’uso terapeutico della cannabis. Molte delibere comunali saffrontano temi importanti, dai testamenti biologici alle unioni civili, dalla cittadinanza “civica” dei figli degli immigrati alle garanzie per i detenuti (segnalo per la sua ampiezza il “pacchetto” del comune di Parma). A Bologna è stato approvato un regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura dei beni comuni. Iniziative simboliche in alcuni casi, ma sempre politicamente significative, perché volte a ricostruire, attraverso l’attenzione per i diritti e la partecipazione. i rapporti tra istituzioni e cittadini. La politica costituzionale si sta insediando nei luoghi della democrazia di prossimità?
Questa lezione può essere messa a frutto dal Parlamento in molti modi. Rafforzando il suo rapporto con i cittadini con semplici modifiche regolamentari che diano forza alle iniziative legislative popolari (e invece arrivano segnali timidi e inadeguati). Cogliendo tutte le occasioni per mettere in evidenza l’irriducibilità dei diritti fondamentali alla pura logica di mercato (un segnale eloquente è venuto dallo scandalo dei prezzi di farmaci prodotti da Roche e Novartis). Ricostituzionalizzando il diritto del lavoro con la cancellazione dell’articolo che consente negoziati in azienda anche in deroga alla legge, che azzera storiche garanzie, e approvando una legge sulla rappresentanza sulla linea indicata dalla Corte costituzionale. Solo così il Parlamento potrà recuperare un po’ della legittimazione perduta per il fatto d’essere stato eletto con una legge incostituzionale e per l’ormai radicata sfiducia dei cittadini.
«La crisi lavora a dividere. Ma un pensiero di sinistra dovrebbe essere in grado di accogliere le mille sfumature culturali, politiche e sociali che fanno della sinistra l’unica voce critica contro la deriva di un modello fallimentare che ormai si affida al marketing politico».
Il manifesto, 18 marzo 2014
La notizia è insolita e clamorosa. L’Arci, il gigante dell’associazionismo italiano, l’organizzazione ricreativa e culturale nata nel ’57, con 116 comitati provinciali e un milione e centomila soci, dopo quattro giorni di confronto non è riuscita a concludere i lavori del suo sedicesimo congresso. Al momento di comporre le diversità, tra un’anima legata alle case del popolo e ai circoli emiliani e toscani e una sensibilità più movimentista cresciuta nelle lotte sociali, molto al sud contro la criminalità, si è preferito alzare bandiera bianca e rinviare tutto a un congresso bis. Nel frattempo l’associazione sarà governata da un comitato di reggenza diretto dal presidente uscente, Paolo Beni.
Nonostante ci fossero tutti le avvisaglie di un conflitto, testimoniato dalla sfida di due candidati alla successione, tuttavia l’esito di una rottura ha colto di sorpresa chi fino all’ultimo aveva sperato in una possibile convivenza delle differenze. Perché così dovrebbe essere in una associazione ricca di storia, di esperienze sociali, di battaglie civili. Perché l’Arci non è un partito dove questioni di potere spesso fanno premio sui contenuti. Perché siamo in un momento di sbandamento forte della sinistra, e la presa del potere di Renzi è lì a ricordarcelo.
Non essere riusciti nell’impresa di valorizzare i diversi orientamenti per farne la forza dell’associazione, per renderla più capace di coniugare la tradizione, la solidità con i militanti più vicini alle mobilitazioni e ai momenti di lotta di questi anni di crisi (appunto l’obiettivo difficile ma ambizioso del congresso), è un brutto segnale. Purtroppo non l’unico a colpire l’arcipelago della sinistra in questo momento.
Abbiamo appena visto un esordio difficile della Lista per Tsipras, alla quale proprio dall’Arci viene un sostegno forte e capillare già nella raccolta delle firme e nelle candidature. E le cronache di questo fine settimana raccontano di scontri (anche fisici) per i pacchetti di voti nelle urne delle primarie degli organismi periferici del Pd (e in prospettiva per le candidature alle prossime elezioni europee).
Nascondere o addolcire la pillola non serve. Meglio guardare in faccia i nostri limiti e cercare di trarne qualche insegnamento. Come fa, egregiamente, uno spot che pubblicizza la Lista per Tsipras. Un gruppo di ragazzi attorno al tavolo di un bar che iniziano baldanzosi a riferire sulla buona raccolta di firme ma che poi si ritrovano a litigare perché ciascuno pensa che il suo particulare sia il solo, il vero, l’unico degno di essere rappresentato.
La crisi evidentemente lavora a dividere, socialmente innanzitutto e quindi politicamente. Ma un pensiero di sinistra dovrebbe esserne così consapevole da essere in grado di mettere in campo tutti gli anticorpi per neutralizzare divisioni ideologiche che hanno perso da gran tempo la loro forza, per accogliere invece le mille sfumature culturali, politiche e sociali che fanno della sinistra l’unica voce critica contro la deriva di un modello fallimentare che ormai si affida al marketing politico come l’ultima ancora di consenso. La crisi dovrebbe essere un’occasione di rinnovamento, lo specchio in cui leggere gli errori, non l’alibi per raschiare il barile
Renzi e il lavoro: torniamo al bracciantato. Una chiara descrizione del
jobs act del presidente del Consiglio. La rottamazione dei valori fondanti della costituzione, di un secolo di lotte dei lavoratori, prosegue indisturbata, tra qualche mugugno e molte complicità. Dal "diario n. 252" dell'autore
Il governo Renzi, viene rappresentato come l’ultima spiaggia, lui stesso ne è convinto. Si tratta di un punto di vista che lo rafforza, non crede di potere trovare ostacoli e quindi osa.
Ha un’opinione pubblica favorevole, i critici di Renzi, non molti per la verità, si attaccano al suo stile, alle modalità comunicative, all’arroganza, perché non pare concreto (dove troverà le risorse?). Ma sono battuti dalla capacità di trovare slogan accattivanti, quello dei “dieci miliardi in tasca a dieci milioni di italiani” è un capolavoro comunicativo.
Ma se tralasciassimo quello che è un annunzio e ci si soffermasse su gli atti concreti mi sembra che sul quel poco ci sia tanto da dire. L‘unico atto concreto è quello sul lavoro, che mi pare non solo sbagliato in se stesso ma che disegni una società da rigettare. Dopo la riforma Fornero/Monti, non si pensava si potesse andare oltre, ma quella proposta da Renzi/Poletti ha fatto il miracolo.
Vediamo: i contratti a tempo determinato passano dalla durata di un anno a quella di tre anni; prima era possibile solo una proroga con dichiarazione della causale, ora si passa ad otto proroghe senza bisogna di dare spiegazioni sulle cause; prima tra un contratto e un altro dovevano passare 10-20 giorni, ora possono essere continuativi; in precedenza il numero dei contratti a tempo determinato doveva essere stabilito dai contratti collettivi, ora se il contratto collettivo non prevede il limite ci si assesta al 20% dell’organico.
Mi pare di poter dire che il mercato del lavoro viene disegnato sulle spalle dei contratti a termine, il contratto a tempo indeterminato riguarderà solamente l’organico di cui l’azienda non potrà fare a meno sul piano organizzativo e qualitativo, mentre il lavoro di routine, quello pesante, a bassa professionalità verrà assegnata a contratti a tempo determinato, lunghi tre anni nella migliore delle ipotesi, ma sempre insicuri, infatti possono essere interrotti a discrezione dell’azienda. Si può sottolineare che con questi contratti non è possibile che il lavoratore riesca a contrarre un mutuo per la casa, grave ma c’è di peggio. Sembra più grave la civiltà del lavoro che questi contratti delineano: precaria, marginale, sottomesso, ricattato. Non è questa la civiltà del lavoro che la sinistra, per quanto moderna, può accettare.
Se poi a questo capolavoro si aggiunge la parte dell’apprendistato siamo all’improntitudine: non c’è nessun impegno di assumere gli apprendisti, non è previsto un contratto (impegno) scritto, non c’è obbligo di una formazione teorica. L’apprendista è solamente carne da lavoro.
Insomma, non eravamo mai arrivati a fissare le regole secondo le quali l’impiego del lavoratore ricade sotto l’arbitrio del datore di lavoro. Su questa strada si può arrivare al contratto giornaliero, come quello dei braccianti meridionali sotto il caporalato.
I partiti e i populismi si dividono tra quanti non vogliono l'Europa e quantiu predicano l'austerity o l'hanno praticata. Gli italiani vogliono invece una Europa diversa. Solo la lista con Tsipras sembra esprimerli. Il manifesto, 16 marzo 2014
Un recente sondaggio realizzato per la Commissione europea (Eurobarometro standard 80) rivela che per il 74% degli italiani, i 28 stati dell’Unione dovrebbero cooperare di più per risolvere i problemi che l’affliggono; il 65% ritiene che l’Italia non possa affrontare da sola le sfide della globalizzazione; il 53% è favorevole all’Unione economica e monetaria e il 50% crede che per il nostro paese non ci sia un futuro migliore fuori dall’Ue (contro il 30% che lo ritiene possibile).
Tuttavia una quota crescente di italiani, passata dal 46% al 55%, pensa che l’Ue non stia andando nella giusta direzione ed è pessimista sul suo futuro; in particolare, essi ritengono che la disoccupazione sia il principale problema e (il 64%) che l’Ue, fautrice delle politiche di rigore, non stia creando i presupposti per ridurla. In definitiva, la maggioranza degli italiani è molto preoccupata per le politiche comunitarie e i loro effetti negativi; tuttavia, ribadisce la sua convinzione di fondo europeista, la convenienza del nostro paese a puntare sull’Ue e la necessità di accelerane la costruzione, ma cambiando il modo di realizzarla.
Ecco da dove si potrebbero attingere i soldi necessari per finanziare un poderoso "piano del lavoro, rispettando la Costituzione, riducendo gli armamenti e rendendo progressive le tasse.
Il manifesto, 14 luglio 2014
È evidente che queste notizie non sono state inventate e non sono il frutto di una «leggenda metropolitana»: se sono circolate il tema era evidentemente all’ordine del giorno. Più che una resistenza del Dipartimento di Stato americano, sembra che il vero ostacolo sia stato posto dai vertici delle forze armate, dalla ministra della Difesa e dal presidente della Repubblica. Non sembra certo casuale che nel momento in cui si discuteva di tagliare le spese militari per finanziare il taglio dell’Irpef, proprio nello stesso giorno, il presidente Napolitano convocava il Consiglio Supremo di Difesa (per il prossimo 19 marzo) con all’ordine del giorno, tra gli altri punti, la «criticità relative all’attuazione della legge 244 di riforma ed impatto sulla difesa del processo di revisione della spesa pubblica in corso».
La legge 244 (una legge delega approvata alla fine della scorsa legislatura con i decreti di attuazione da poco emessi) è la riforma dello strumento militare in cui, tra l’altro, si prevede un parziale controllo periodico del parlamento sulle scelte relative ai sistemi d’arma, anche gli F35. E tra l’altro la Commissione Difesa ha utilizzato il dispositivo della legge 244 per valutare l’efficacia e la validità di questo sistema d’arma: tra pochi giorni la Commissione concluderà i suoi lavoratori e ci farà sapere a quali conclusioni è giunta. Il messaggio della convocazione — allarmata — del Consiglio Supremo di Difesa è chiaro: uno stop a ogni ipotesi di riduzione delle spese militari (e a Renzi) e la richiesta di superare le «criticità della legge 244» che impone risparmi alle Forze Armate.
Quindi, i cacciabombardieri rimangono quelli — 90 — e sempre 14 miliardi dovremo spendere nei prossimi anni per acquistarli e produrli. In più, ieri il Parlamento ha votato la proroga delle missioni militari all’estero: 600 milioni di costi, altro che riduzione delle spese militari.
Come ha più volte ricordato la campagna Sbilanciamoci ccArriviamo a circa 20 miliardi con i quali finanziare — oltre che il taglio delle tasse sul lavoro — anche un vero piano del lavoro o misure di reddito di cittadinanza. Tutto questo avrebbe un significato sostanziale veramente importante: per la prima volta si taglierebbero in modo sostanziale le spese militari e non la sanità e le pensioni. Sarebbe stata la «svolta buona», ma sarà per un’altra volta.
Sotto accusa gli attuali dirigenti dell’Unione europea per crimini contro l’umanità e contro l’economia: distruggere il welfare mediante
l'austerity aumenta la miseria e la morte e non risana l'economia. La Repubblica, 15 marzo 2014
A fine 2012 un gruppo di giornalisti e politici greci presentava alla corte penale internazionale dell’aja una denuncia per sospetti crimini contro l’umanità a carico del presidente della commissione europea (Barroso), della direttrice del fmi (Lagarde), del presidente del consiglio europeo (Van Rompuy), nonché della cancelliera Merkel e del suo ministro delle finanze Schäuble. A sua volta un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello statuto di Roma della Corte penale dell’Aja. Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone; dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, sino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un altro documento ancora che accusa i vertici UE di gravi forme d’illegalità, simili a quelle testé indicate ma senza etichettarle come crimini contro l’umanità, è stato pubblicato a fine 2013 dal Centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del lavoro di Vienna.
Per quanto è dato sapere i documenti citati sopra giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari. Di recente sono però intervenuti fatti nuovi che potrebbero indurre qualche ong o formazione politica a rilanciare le citate denunce. Si veda il rapporto uscito a fine febbraio su Lancet, numero uno delle riviste mediche, circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni ue. Chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose. La quota di bambini a rischio povertà supera il 30 per cento. Sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi. I suicidi sono aumentati del 45 per cento. Chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione HIV rilevati sono passati da 15 nel 2009 a 484 nel 2012.
Un secondo fatto nuovo è che l’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia. Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati. Molti rinviano o rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli. Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket. Molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte.
L’intera questione si può quindi riassumere in questo modo: le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli stati membri dai vertici ue, ovvero dalla cosiddetta troika (bce, fmi e commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. Come si legge nel rapporto di Lancet, “se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto [perfino] il FMI”. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna, Portogallo, la disoccupazione e l’occupazione precaria hanno toccato livelli altissimi. Il PIL ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori, quali la deflazione, ossia una forte caduta del livello dei prezzi in molti settori, la domanda aggregata stagnante, più una crescita del PIL che nei prossimi anni continuerà a registrare tassi dell’1 per cento o meno, sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro.
In altre parole, non soltanto i vertici UE hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette: dette politiche si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate. La questione presenta alcuni punti di contatto con la crisi finanziaria esplosa nel 2008. Allora diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma il caso odierno della ue presenta una differenza abissale. Nel caso della crisi finanziaria gli attori erano soggetti privati. Nel caso della crisi europea si tratta dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della UE, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi. Nello svolgere detto impegno essi hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi; hanno scelto di favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni ue; hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte; hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche. È mai possibile che non siano chiamate a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?
Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici UE, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’ONU e l’Organizzazione internazionale del lavoro. Senza dimenticare che di crimini e illegalità della UE parlano anche in modo sbrigativo i partiti nazionalisti, ma con una radicale differenza rispetto alle iniziative sopra citate: mediante tali accuse essi vogliono distruggere la UE, mentre lo scopo dovrebbe essere quello di cacciare gli attuali dirigenti della troika e sostituirli con altri, dopo aver proceduto a una approfondita revisione del trattati europei. Mediante la quale si ribadisca sin dall’inizio che nel loro stesso interesse costitutivo, come scrivono i giuristi di Brema, le istituzioni europee debbono prendere sul serio le questioni sociali esistenziali delle cittadine e dei cittadini dell’unione. Non esiste stato di eccezione che possa esentarle da tale dovere, come invece esse stanno facendo con le politiche di austerità.
Nessun taglio, diversamente da quanto annunciato, ai cacciabombardieri F35 americani. Il governo italiano è intenzionato ad andare avanti, nonostante i costi e nonostante le denunce, da parte degli Usa, di numerosi problemi tecnici. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole.
wwwSbilancialoci.info, newsletter, 14 marzo 2014
Matteo Renzi si è accorto che tra i tagli possibili ci sono i cacciabombardieri F35 americani. Ma l'annuncio, come nel suo stile, è durato lo spazio di una dichiarazione. Nessun pericolo per la Lockheed Martin e per i generali italiani. Eppure gli F35 sono la sintesi di tutti gli errori possibili, d'Italia e d'Europa. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole. Hanno costi enormi e gli stessi vertici Usa ne denunciano i problemi tecnici non risolti. Sono già stati cancellati o ridimensionati da vari paesi, ma l'Italia è determinata ad andare avanti. Riflettono il monopolio militare americano e il fallimento dell'integrazione europea nella difesa. Mettono l'integrazione delle armi in ambito Nato davanti a quella europea.
L'Europa è sempre più "nano politico", ma le sue armi continuano a crescere, al servizio del potere americano, degli interessi geopolitici dei paesi più ambiziosi – Francia e Gran Bretagna innanzi tutto, le due potenze nucleari del continente – e degli apparati militari-industriali di ciascun paese.
Il "nano politico" si è visto all'opera in Ucraina: subalterno alle ambizioni della Nato, con una politica estera ridotta agli accordi commerciali, ma trascinato poi – era già avvenuto nell'ex-Jugoslavia – nei conflitti innescati da frammentazione politica, declino economico e nazionalismi. Ancora peggio è andata in Siria o in Libia: divisioni europee, pressioni sbagliate per interventi militari, nessuna soluzione politica capace di costruire stabilità e democrazia.
Manca – in Europa come in Italia – la politica: l'idea che la sicurezza possa essere assicurata non dalle armi ma dalle relazioni politiche, economiche e sociali tra diversi – tra stati e all'interno degli stati.
Incapace di accrescere la sua statura politica, il "nano" si arma: l'industria militare ha risentito meno di altre della crisi, le esportazioni verso i conflitti del sud del mondo continuano a crescere, nel suo momento più drammatico la Grecia, che stava tagliando tutto, ha confermato l'acquisto dalla Germania di inutili sottomarini militari. Così vediamo una spesa militare che quasi ovunque non è stata fermata dall'austerità: in Italia si stabilizza mentre cadono le spese sociali, le missioni militari all'estero – nuova vocazione nazionale – si moltiplicano, alla ricerca di ruolo internazionale e nuovi affari. Intanto, nei paesi emergenti la tentazione delle armi si diffonde, il sistema militare si rafforza e con esso instabilità e conflitti.
Un'alternativa all'impotenza della politica e al potere del complesso militare-indistriale c'è: una politica più disarmata e più capace di affrontare i conflitti. Al posto degli F35 ci vogliono corpi di pace e servizio civile europeo. Al posto della liberalizzazione commerciale, accordi per sostenere uno sviluppo sostenibile nei paesi vicini all'Europa, all'est come nel Mediterraneo e in Africa. Al posto del cortocircuito mediatico tra poteri autoritari e conflitti violenti, la pratica di più democrazia.
Il manifesto, 14 marzo
Piano casa. Mutare in «alloggi sociali» ogni edificio esistente o in corso di realizzazione, non risolverà la crisi abitativa perché chi versa in grave disagio non potrà mai accedere a questo segmento di mercato. Si consente soltanto alla speculazione immobiliare di liberarsi di un immenso patrimonio invenduto
Si chiama «Misure urgenti per l’emergenza abitativa» il decreto legge sulla casa approvato dal governo Renzi. Nella relazione di accompagnamento si parla a più riprese della grave crisi della casa: famiglie che non riescono a pagare l’affitto e giovani senza prospettive di futuro, e cioè le vittime principali delle politiche abitative che da venti anni vengono applicare come un dogma. Politiche sostenute da un forte tasso di retorica: solo l’iniziativa privata, si disse, è in grado di risolvere il problema della casa. A venti anni di distanza devono intervenire sull’emergenza a dimostrazione del fallimento delle ricette liberiste. Ma qui come in altri settori, l’ideologia ancora dominante non cerca con onestà intellettuale di fare i conti con il fallimento. Pretende di risolverlo aumentando la dose della cura: ad esempio si incrementa la vendita del patrimonio immobiliare pubblico (art. 3), ma il cuore del decreto sta nel quinto comma dell’articolo 11, eloquente esempio di come si tenti di sfruttare le sofferenze sociali per miserabili tornaconti.
In quell’articolo si parla della volontà di incrementare gli «alloggi sociali» che in una delle tante leggi di privatizzazione (Dm 2.4.2008) vengono definiti quelli «realizzati o recuperati da operatori pubblici e privati, con il ricorso a contributi o agevolazioni pubbliche quali esenzioni fiscali, assegnazione di aree od immobili, fondi di garanzia, agevolazioni di tipo urbanistico». Abitazioni private a canone concordato, dunque, che si collocano pur sempre all’interno del «mercato». Il decreto Renzi afferma che si possono realizzare «case sociali» sul patrimonio esistente attraverso demolizione e ricostruzione e cambio di destinazione d’uso, mentre al comma quattro dice che queste politiche si applicano anche agli alloggi in costruzione o «AC150» addirittura — alle convenzioni urbanistiche in itinere.
Vediamo di orientarci. Oggi il mercato abitativo è pressochè fermo per eccesso di offerta e il mercato degli uffici langue per mancanza di domanda. Con quell’articolo si permette di mutare in «alloggi sociali» ogni edificio esistente o in corso di realizzazione, ottenendo perfino agevolazioni procedurali, finanziamenti pubblici e agevolazioni fiscali (art. 6 e 9). In questo modo non si risolverà l’emergenza abitativa perché chi versa in grave disagio economico e sociale non potrà mai accedere a questo segmento di mercato: si consente soltanto alla speculazione immobiliare di liberarsi di un immenso patrimonio invenduto.
I sapienti estensori del decreto si accaniscono poi in modo indegno proprio contro i teorici destinatari della legge. In questi anni non sono state costruite case pubbliche e l’unico strumento a disposizione delle famiglie povere e dei giovani è stato l’occupazione di edifici abbandonati. Gesti dolorosi per chi le pratica condannato a una precarietà senza prospettive. Ebbene, all’articolo 5 si dice che gli occupanti non possono avere la residenza l’allaccio dell’acqua o della luce. Chi non ha reddito non ha diritto di lavarsi o di far studiare i propri bambini con una lampadina accesa. Questo atteggiamento culturale che in altri tempi sarebbe stato bollato di odio sociale viene giustificato nella relazione con «l’esigenza del ripristino della legalità». Ottimo sentimento che sarebbe forse opportuno indirizzare nel ripristino delle sanzioni sul falso in bilancio, reato ben più grave delle occupazioni di necessità.
Nel 1903 l’approvazione dello straordinario principio delle case popolari fu merito di Luigi Luzzatti, esponente di spicco della destra storica italiana. Pur essendo economista e fondatore di banche, scriveva che solo la mano pubblica era in grado di risolvere il problema delle abitazioni per i ceti poveri. Ma era appunto un economista liberale non un famelico speculatore neoliberista come coloro che hanno ispirato e scritto la legge. Sul Presidente del consiglio è infine meglio tacere: temiamo che non riesca neppure a comprendere l’urgenza di mettere mano ad un organico provvedimento legislativo che inverta il fallimentare ventennio liberista ad iniziare dalle poste di bilancio ferme a pochi spiccioli. Renzi continua con «non ci sono i soldi» e «tanto ci pensa il privato».
Se vuoi la guerra prepara la guerra. Il capo dello Stato ha inserito tra i punti all'ordine del giorno del prossimo Consiglio supremo di difesa le "criticità relative all'attuazione della Legge 244", che assicura ai parlamentari il potere di controllo sulle spese militari.
Il Fatto quotidiano, 14 marzo 2014
Giorgio Napolitano prepara un nuovo colpo di mano a difesa degli F35, rischiando di scatenare un grave scontro istituzionale con il Parlamento. Dopo le insistenti voci circolate nei giorni scorsi sul possibile taglio all’acquisito dei cacciabombardieri americani per recuperare risorse finanziarie da destinare al “Piano Renzi” (voci che hanno fatto molto innervosire i nostri generali e gli americani), il presidente della Repubblica ha convocato per mercoledì prossimo il Consiglio supremo di difesa mettendo all’ordine del giorno le “criticità relative all’attuazione della Legge 244″. Tradotto: non è il caso che il Parlamento, come previsto da quella legge approvata nel 2012, abbia potere di controllo sulle spese della Difesa.
Questo diktat presidenziale era già calato lo scorso luglio, all’indomani dell’approvazione delle mozioni parlamentari che, proprio in virtù dell’articolo 4 della legge 244, istituivano un’indagine conoscitiva sulle spese militari in generale e sugli F35 in particolare. Allora i parlamentari reagirono con fermezza, in particolare il capogruppo Pd in commissione Difesa, Giampiero Scanu, che parlò di un intervento fuori luogo, non essendo competenza del Consiglio supremo di difesa sollevare obiezioni su una legge del Parlamento, controfirmata tra l’altro dal presidente della Repubblica.
Stavolta si profila un vero e proprio scontro istituzionale, poiché l’indagine conoscitiva della commissione parlamentare è in fase conclusiva e sulla scrivania di Matteo Renzi c’è già la relazione finale targata Pd che chiede il dimezzamento del programma F35 a vantaggio del programma alternativo Eurofighter. Proprio ieri, mentre Napolitano preparava la sua mossa, il ministro della Difesa Roberta Pinotti, pur non citando gli F35, dichiarava alla stampa che “il governo è pronto a rivedere, ridurre o ripensare anche grandi progetti avviati o ipotizzati, qualora mutati scenari internazionali o economici lo indicheranno come opportuno, nel rispetto del ruolo del Parlamento e delle sue prerogative, così come previsto anche nella stessa legge delega 244″. Tra pochi giorni si capirà se sarà così.
Se Napolitano e Renzi sceglieranno di cedere al pressing di Washington e dei nostri generali decidendo di confermare l’intero programma F35, la loro scelta rischia tra l’altro di costarci ancor più cara del previsto poiché la conseguente cancellazione definitiva della Tranche 3B di Eurofighter (25 aerei per circa due miliardi) comporterebbe il pagamento di una salatissima penale, come dimostra il caso tedesco (richiesto quasi un miliardo di penale su un ordine annullato di tre miliardi) e come confermano fonti industriali.
Se invece l’Italia scegliesse di puntare ancora sugli Eurofighter, che tutti gli esperti considerano nettamente superiori agli F35 (e con ricadute tecnologiche e occupazionali nemmeno paragonabili), il numero di questi nuovi aerei multi-ruolo in dotazione all’Aeronautica salirebbe a 93: con i sei F35 che la Difesa ha ormai già acquistato in modo irreversibile, si avrebbe una flotta aerea più che sufficiente a rimpiazzare il centinaio di Tornado e Amx che andranno in pensione a metà del prossimo decennio, senza dover spendere altre decine di miliardi in F35. Rimarrebbe aperta solo la questione dei quindici F35 a decollo verticale destinati alla Marina in sostituzione degli Harrier imbarcati sulla portaerei Cavour: quella che in cinque anni di servizio è stata usata solo per due missioni “commercial-umanitarie” sponsorizzate da privati perché la Difesa non ha i soldi per pagare il gasolio. Il primo capitolo del Libro Bianco della Difesa di cui tanto si parla dovrebbe intitolarsi “Spese inutili che non ci possiamo permettere”.
il Fattoquotidiano, 9 marzo 2014
Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in unacucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè algelsomino. E capita pure che l'intervistato t'interroghi all'improvviso suiromanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà,Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo saràsalvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stessotempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky,Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l'orrore in cuivivevano gl'immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i proprisimili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell'Ilva, non è nellecondizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamoin un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dallaviolenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Chesalvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti,l'hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell'Oscar a Lagrande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non direnulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è dettoin certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, unaragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo neivalori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c'è nel tempopresente”.
Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?
Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par divedere, dietro una girandola di parole, il blocco d'una politica che gira avuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta Eugenio Scalfarie Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchicodel potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’.Un'interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulladifensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaroche occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno.Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voistessi, a non prendere troppo sul serio la vostra novità.
Il governo Monti qualche disastro tecnico l'ha fatto.
La tecnica come surrogato della politica è un'illusione. Se lei chiama unidraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato,lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all'idraulico di cambiarle lacucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. Igoverni tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l'esistentefacendolo funzionare . Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucinanuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società,programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi comequello che attraversiamo, perfino modelli di società.
Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un'idea del mondo
.“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in unademocrazia.
Larghe intese versus Grillo.
Quindi siamo senza futuro.
Senza speranza, dunque?
Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro aisottosegretari indagati?
Lei è mai stato tentato dalla politica?Ciò cui mi sento più adatto è l'insegnamento. Per la politica, soprattutto perla politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza di MaxWeber intitolata, per l'appunto, la politica come professione-vocazione? Ecco:non sento la vocazione. C'è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflittod'interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere disinteressatopersonalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di metterese stesso, e i suoi interessi, davanti all'oggetto dei suoi studi. Potrebbeesserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non per amore della verità(la piccola verità che si può andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quelpotente che ti può offrire, arruolandoti, una carriera politica.
Perché la politica non attrae più i migliori?Una volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere uncardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti ‘rifiutieccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se la politica nonha prospettive ma è semplicemente un girone d'affari, non servono politici,servono affaristi.
Vota?
Ho sempre votato, malgrado tutto. C'è una pagina di Non c'è futuro senzaperdono del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo,Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo Paese che,acquistati i diritti politici dopo l'apartheid, per la prima volta vanno avotare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un orpello.
Cosa pensa dell'Italicum nato dall'accordo tra il Pd e Forza Italia?
E l'idea di “diminuire” il Senato?
Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.
Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal rapporto tra Rai epolitica: è una commissione parlamentare che vigila sul servizio pubblico – esull'informazione che produce – e non il contrario. Ben più che un paradosso.
Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommoquale l'autonomia?Le risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C'è però,credo, la tentazione dell'apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’:pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato aNorimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il nazismoa essere schmittiano’.
Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?
Il manifesto, 12 marzo 2014
Quello che più si sarebbe dovuto scongiurare sta invece purtroppo accadendo. Ancora una volta è il rovesciamento secco di un abusato detto latino a dominare la scena politica italiana: ubi minor maior cessat. Certo, lo sappiamo, quando ci si avventura sul terreno elettorale sono le liste, le candidature, l’equilibrio tra correnti e componenti, le bandiere e i distintivi, la visibilità degli uni e degli altri, a dettare legge. Quando la partecipazione è una firma e l’azione un voto può accadere questo, e anche di peggio.
E quando a competere non sono solo e soprattutto i partiti, ma anche gli esponenti della cosìddetta società civile le cose non sembrano poi cambiare di molto. Si poteva sperare però che la lista Tsipras, scegliendo di parlare d’Europa in greco, riuscisse almeno a introdurre un diverso ordine del discorso. Riuscisse cioè a sacrificare le tensioni, le rivalità, le controversie, che da sempre attraversano la nostra provincia, a una sorta di “unità antinazionale”. Ma gli ultimi eventi, il ritiro delle candidature, per diverse ragioni, di Valeria Grasso e Antonia Battaglia, nonché le conseguenti dimissioni di Paolo Flores d’Arcais e Andrea Camilleri dal comitato dei garanti, sembrano muovere in tutt’altra direzione. Quella che risponde ai diversi desiderata di chi si illude di stare lavorando, per questa via traversa, alla rifondazione di una sinistra che più italiana non si può.
Su una scala europea sarebbe, infatti, un chiaro indizio di follia pensare di passare al vaglio i currcula e i quarti di nobiltà politica di tutti i candidati delle liste che appoggiano Alexis Tsipras. Ma non è forse questo lo spazio dell’azione a cui aspiriamo? Lo ribadisce lo stesso Alexis Tsipras in una cortese lettera di risposta a Flores e Camilleri nella quale insiste sull’unità necessaria a proiettarsi nella dimensione continentale, «superando continue tensioni e polemiche» e dichiarandosi fino in fondo al fianco di Barbara Spinelli, non a caso la figura più lontana ed estranea agli equilibrismi politici nazionali.
Possiamo capire che Paolo Flores e Andrea Camilleri tengano a quella purezza di immagine cara agli intellettuali democratici. Ma è già meno comprensibile che una militante impegnata sul territorio come Antonia Battaglia non faccia distinzione tra il piano materiale delle lotte, nella fattispecie l’Ilva di Taranto, sul quale è bene non fare sconti a chi ha governato quella regione e quella questione, e il piano delle elezioni europee, dove la presenza di candidati provenienti da Sel è del tutto irrilevante rispetto ai contenuti europeisti e antiliberisti che dovrebbero ispirare la lista Tsipras. La perdita di questa distinzione di piani risulta nefasta per entrambi. Spingendo da una parte i movimenti a farsi carico di una qualche eco elettorale delle proprie azioni e, dall’altra, le liste a rispecchiare equilibri e idiosincrasie delle diverse componenti di movimento, pretendendo, poi, di rappresentarle e raccoglierne le “istanze”.
E’ uno scenario cupo a cui già abbiamo assistito tra il 2001 e il 2003. Lo scopo della campagna elettorale sotto le insegne di Tsipras è, in primo luogo, quello di favorire la diffusione di una cultura europea antiliberista restia a trovare rifugio nel ritorno alle sovranità nazionali, cercando di attrarre in quest’orbita il più ampio ventaglio di forze possibili. Non certo quello di sostituire le diverse espressioni del conflitto sociale nei territori d’Europa. E’ bene chiarirlo per tempo, prima che voli qualche pietra ad Atene, Londra, Berlino o Roma, mettendo in subbuglio e in allarme gli “europeisti insubordinati”, ma non troppo. Siamo ancora in tempo a ragionare e a correggere il tiro.
Il film di Sorrentino esprime il vuoto d'una certa Roma che difficilmente si immagina dall'esterno: una società sfatta. Ma lo sfacelo di quella Roma (di quella' Italia) è sottolineato dai commenti elogiastici raccolti da Travaglio: per una volta con troppo garbo.
Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2014
Eppure Johnny Riotta, sulla Stampa, vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio B., poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’’”avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. Ora magari Ghedini e Coppi allegheranno l’Oscar all’istanza di revisione del processo al Cainano.
“Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino – ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano sente “l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, erede diretto dei Vandali, Visigoti e Lanzichenecchi, vaneggia di “investire nella bellezza di Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”. Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande bellezza”. Il sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così difficile distinguere un film da una guida turistica della proloco?
In realtà, come scrive Stenio Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.
«Per eliminare ogni equivoco dico subito che sosterrò la lista Tsipras e la voterò». Stefano Rodotà chiarisce la natura delle osservazioni pubblicate in un recente articolo da «La Repubblica» che hanno scatenato una ridda di interpretazioni «in base ad un titolo che non era mio – afferma – In realtà ho cercato di fare un tentativo di analisi politica. Ci viene detto che siamo in emergenza, che i numeri non ci sono e che Renzi è l’ultima spiaggia. Questo è un modo per blindare il suo governo. Una cosa inammissibile. Io ritengo invece che il ruolo della politica stia proprio nel progettare vie d’uscita dalle situazioni presentate come emergenziali. E non credo, come invece fanno alcune interpretazioni dietrologiche, che la lista Tsipras, i transfughi del Movimento 5 Stelle, i deputati di Civati o Sel possano divenire una stampella per il Pd. È un ragionamento politicistico che francamente non mi interessa».
Qual è il primo problema che vede?
Questa lista di cittadinanza sarà un taxi che porterà, come mi auguro, dei parlamentari a Bruxelles, ma che in seguito si ripartiranno in gruppi diversi? È un’ipotesi, certo, che secondo me non dovrebbe essere confusa con il necessario pluralismo che una lista simile deve esprimere. Ma se questa operazione, che è importantissima per l’Italia, dovesse dissolversi subito dopo il voto, sarebbe certamente un problema.
Sono state sollevate perplessità sulla scelta di persone note come Barbara Spinelli, Adriano Prosperi o Moni Ovadia di dimettersi dopo l’eventuale elezione. Non crede che bisognerebbe evitare i «candidati civetta»?
Hanno giustificato questa decisione per un fatto di onestà e di trasparenza per gli elettori. Così facendo vogliono dare il massimo sostegno e responsabilità a chi partecipa alla lista. Ho apprezzato molto le loro ragioni. Altri, a cominciare da Berlusconi, si sono fatti eleggere per trainare una lista e poi non sono mai andati a Bruxelles. La mia non è un obiezione, e non intendo calvacare chi la sta facendo. Si tratta però di un tema già sollevato nei mondi a cui fa riferimento la lista Tsipras e rischia di essere riproposto. Non voglio fare l’elogio dell’importanza della comunicazione, ma bisogna usare il linguaggio più adeguato.
È stato dato rilievo alla contrapposizione tra le candidature di Sonia Alfano e Luca Casarini, un conflitto improprio considerate le regole poste dagli stessi «garanti» della lista per i quali Alfano era già in partenza incandidabile per avere ricoperto incarichi politici precedenti. Un episodio che sembra tradurre due idee di sinistra: la prima incentrata sulla legalità e la società civile, la seconda sui diritti sociali e i movimenti. Potranno mai coesistere?
Di certo non sono incompatibili. Tra l’altro, questo sta già avvenendo da tempo, ad esempio con «Libera» di Don Luigi Ciotti. Ma il discorso è senz’altro più ampio e riguarda la grande questione dell’unione tra diritti civili e sociali, tra i diritti delle persone e quelli del lavoro. Il problema riguarda il modo in cui è possibile saldare diritti costituzionali e diritti sociali. È la prospettiva sollevata da Gustavo Zagrebelsky in una recente intervista su Il Manifesto, una persona che non mi sembra affatto insensibile al rispetto della logica della legalità. Su questo punto nemmeno io sono reticente. La legalità richiede un’idea forte di moralità pubblica, non c’è alcun dubbio.
Parlare di coalizioni sociali significa anche interloquire con i movimenti della casa e per il reddito. In occasione della manifestazione sulla «Via maestra» del 12 ottobre e di quella del 19 ottobre è emersa una certa contrapposizione che sembra tornare oggi nella critica dell’elitarismo dei promotori della lista e i loro riferimenti alla «società civile». Si riuscirà mai ad impostare un lavoro comune?
Me lo auguro, anche perché in questi casi il riferimento ai diritti fondamentali, la casa o il reddito, è fortissimo, come altrove. Se questa lista andrà oltre la soglia del 4% si apriranno opportunità per tutti. Chiamarsi fuori va benissimo, ma vorrei rovesciare l’accusa.
La manifestazione a difesa della Costituzione del 12 ottobre non ha prodotto un seguito. In che modo pensate di riavviarne il percorso, visto che Pd, Forza Italia e Ncd continuano a propore nuove e rischiose riforme?
Ci stiamo riorganizzando e pensiamo di insistere su una serie di proposte di leggi popolari sulla partecipazione, sull’iniziativa legislativa popolare, sul reddito di cittadinanza anche se declinato oggi nella forma più semplice del reddito minimo. Stiamo studiando le possibilità di un referendum che riguardi il pareggio di bilancio introdotto nell’articolo 81 della Costituzione in maniera frettolosa e senza alcuna discussione. Non era obbligatorio, altri paesi come la Francia non l’hanno fatto. Ma è una misura terribile che schiaccerà questo paese sotto il peso dell’austerità. Visto che oggi esiste la lista Tsipras non ho dubbi che questa prospettiva possa essere interessante politicamente anche per loro
«Non un’opinione europea, ma somma di opinioni nazionali non comunicanti. Solo sulla carta partiti, sindacati, media europei (meglio i movimenti). Ogni parlamentare o commissario risponde al suo frammento, non all’Europa».
Il manifesto, “Sbilanciamo l’Europa”, 7 marzo 2014.
Che adesso, attraverso il voto, sia possibile indicare chi dovrà essere presidente della Commissione europea è un passo in avanti nella democratizzazione dell’Unione. Che tale elezione sia ora il frutto di una maggioranza parlamentare politicizza la scelta, finalmente sottratta al rito falsamente neutrale secondo cui fino ad oggi i governi, pur diversi fra loro, si accordavano sul nome più adatto. Un meccanismo che esasperava ulteriormente la presunzione su cui si basa la costruzione comunitaria, secondo cui quanto muove ogni decisione sarebbe procedimento puramente tecnico. E tuttavia che sia sufficiente accrescere i poteri del Parlamento per democratizzare la Ue è ipotesi francamente un po’ semplicista. Ci vuole ben altro.
Innanzitutto per la buona ragione che sin dalla sua nascita, nel ’57, ma in modo più evidente con l’introduzione dell’art. 102 del Trattato di Maastricht del ’93 (nella sua sostanza pienamente recepito dagli atti fondamentali successivi), si è tolto alla politica il potere di regolare gran parte della vita della Comunità (e dunque valore a ogni decisione parlamentare). Quell’articolo costituzionalizza infatti il primato della competitività nel mercato su ogni altra considerazione, e taglia così fuori l’economia dalla sfera delle decisioni politiche. La sovranità su questo decisivo settore, che determina ogni altra scelta, è stata così trasferita direttamente alle mani (invisibili) del mercato, non alle istituzioni europee. Il compito affidato agli esecutivi, e sottoposto al controllo del parlamento, è dunque solo quello di montare la guardia, attraverso una quantità di regole e sorveglianze, affinché il mercato venga liberato da ogni intrusione intesa a garantire alla politica - e cioè agli umani - il governo della società. Fin quando il principio ispiratore dell’Unione resterà la competitività costi quel che costi, possiamo dotare il Parlamento di tutti i poteri che vogliamo ma la politica, dunque la democrazia, non sarà reintrodotta.
Sarebbe bene riflettere sul fatto che a ingoiare quell’articolo 102 e la filosofia che lo accompagna sono stati parlamenti nazionali pur dotati di ogni potere e che pure non l’hanno esercitato per cancellare l’ispirazione di un Trattato che pure comportava la scelta suicida di non poter più legiferare se non al servizio della massima competitività e dunque solo su dettagli marginali, la scelta di fondo essendo stata fatta una volta per tutte con la costituzionalizzazione dell’obbligo di adottare una linea iperliberista. Ci si dovrebbe interrogare su come poté accadere che a questo siano addivenuti parlamenti di paesi dove pur forte era la tradizione di politiche fondate su un incisivo intervento pubblico in funzione regolamentatrice dell’economia. È accaduto anche in Italia, dove quel Trattato è stato votato da una schiacciante maggioranza contro solo gli antieuropeisti del Msi e gli europeisti di Rifondazione comunista che pure, tuttavia, ha accettato che tutto si risolvesse in una sbrigativa seduta e senza che l’opinione pubblica fosse minimamente allertata. E informata.
Tutto questo naturalmente si può cambiare ed è quello che in molti cerchiamo di fare. Ma avendo chiaro cosa serve per democratizzare l’Europa. E per cominciare qualcosa che dipende direttamente da noi. Se fino ad ora l’opinione pubblica italiana così come degli altri paese è stata così disattenta (e dunque inefficace) rispetto alle pur gravi scelte adottate a livello europeo (liberalizzazione del movimento dei capitali senza contemporanea creazione di uno spazio unico sociale e fiscale, tanto per fare l’esempio più macroscopico) è perché non esiste un’opinione pubblica europea, ma una somma di opinioni nazionali che non comunicano, perché solo sulla carta esistono partiti, sindacati, media realmente europei (un po’ meglio i movimenti). Ogni parlamentare e ogni commissario risponde al suo frammento, non a tutta l’Europa. E perciò a nessuno. Né, di conseguenza, una decisione assunta a Bruxelles acquista la stessa legittimazione di una legge nazionale. Senza questi corpi intermedi fra società civile e istituzioni - aveva acutamente notato la sentenza della Corte Costituzionale tedesca all’epoca del varo del Trattato di Maastricht - la democrazia (per non parlare di solidarietà) non esiste. Costruirli dipende anche da noi.
Una replica a Rodotà: «L’obiettivo della lista è quello di portare nelle istituzioni europee, e non solo, una posizione aspramente critica nei confronti della Ue, per modificare radicalmente i trattati e cambiare il segno delle politiche economiche e sociali, senza essere antieuropea».
Il manifesto7 marzo 2014
In effetti il ragionamento di Rodotà è ben più ampio. Egli prende atto dei significativi cambiamenti intervenuti nelle dinamiche del quadro politico italiano e vuole «gettare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo alle spalle». Per questo smonta puntualmente la costruzione renziana, evidenziando come il tentativo di ritorno ad un sistema bipolare – che passa anche attraverso l’Italicum e il più recente mostruoso compromesso della riforma elettorale in una camera sola — si riduca semplicemente alla rilegittimazione di Berlusconi, pienamente rientrato in campo come deuteragonista, se non addirittura come deus ex machina. Questo comporta una insensibilità, quando non aperta ostilità, da parte di Renzi verso ciò che si muove alla sua sinistra, malgrado le speranze da più d’uno coltivate da quelle parti. Ecco dunque, secondo Rodotà, aprirsi una prateria per le forze di una potenziale sinistra che egli definisce, restringendola, come formata da «Sel, il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsipras e i parlamentari (e non solo) che si allontanano dal Movimento 5Stelle».
Tale restrizione è del tutto indebita. Non tanto perché lascia fuori qualche pezzo della nomenclatura della tradizionale sinistra radicale, ma soprattutto perché non tiene conto della sinistra diffusa e del protagonismo dei movimenti. Di quelle stesse forze, insomma, che hanno animato le tante lotte sociali, locali e nazionali, sviluppatesi in questi anni, che hanno dato vita alle manifestazioni del 12 e del 19 ottobre 2013 — scelleratamente ma non obbligatoriamente contrapposte tra loro – e alle ultime vittoriose battaglie referendarie. Tutti questi movimenti e queste coscienze diffuse non entrano in un processo di ricostruzione di uno spazio politico di sinistra in modo passivo, ma o ne sono protagonisti da subito o questo spazio e questo processo non si aprono né si realizzano.
Rodotà afferma esplicitamente che tale processo dovrebbe e potrebbe essere finalizzato alla costruzione di un Nuovo Centro Sinistra, basato sulla liberazione del Pd dall’abbraccio con il Nuovo Centro Destra (le maiuscole sono sue). Qui le distanze sono ancora maggiori. Legare il processo di ricostruzione di una sinistra alla riconquista del Pd, inchiodarlo nel letto di Procuste di un eterno centrosinistra, cui l’aggettivo nuovo sta come il prezzemolo, è esattamente il motivo per il quale tale processo non è mai potuto sorgere. Anche quando ve ne sarebbero state le possibilità, sia oggettive che soggettive — come all’inizio della formazione di Sel — è stata precisamente quella mancanza di autonomia ideale e progettuale a soffocare il bimbo nella culla. La verità è che continua ad essere assente una sincera e approfondita discussione sulla natura del Pd (spunti ve ne sono, manca l’affondo), che vada al di là dell’esame delle volatili dichiarazioni dei suoi dirigenti e che invece si ponga in relazione ai nuovi assetti interni e internazionali del capitalismo e di un sistema istituzionale deprivato di una vera democrazia.
La lista Tsipras da un lato poggia proprio su quella sinistra diffusa e sulle migliori esperienze di quei movimenti (le candidature scelte vanno lette e giudicate in questa luce, fermo restando che la perfezione in questo campo non esiste e strascichi polemici sono inevitabili) e dall’altro dichiaratamente non ha la presunzione di guidare un processo di ricostruzione di un nuovo soggetto di sinistra. Bene lo ha compreso Marco Bascetta, rispondendo su questo giornale a un’antipatizzante lettera di Carlo Formenti. L’obiettivo della lista, questo sì alla sua portata, è quello di portare nelle istituzioni europee, e non solo, una posizione aspramente critica nei confronti della Ue, per modificare radicalmente i trattati e cambiare il segno delle politiche economiche e sociali, senza essere antieuropea. Se avrà successo potrà anche avere un effetto collaterale, ovviamente desiderabile e desiderato, ma che non può essere scambiato per il suo target: quello di invertire la tendenza alla frantumazione della sinistra, di spostare l’elaborazione e l’azione della medesima in una dimensione internazionale, di battersi per la ricostruzione dell’Europa avviando una campagna costituente tra i cittadini europei e non come somma di vittorie in ambito nazionale. Scusate se è poco.
«In campo. Presentate a Roma le candidature dell’Altra Europa con Tsipras: 37 uomini, 36 donne; 59 candidati espressi da movimenti, associazioni e «società civile», 14 dai partiti. Nel programma: riscrivere lo statuto della Bce, investimenti pubblici e tutele sociali, un’Europa che non cede al neoliberismo e ai nazionalismi».
Il manifesto, 6 marzo 2014
La lista «L’Altra Europa con Tsipras» ha presentato 73 candidature per le elezioni europee di maggio. Ci sono 37 uomini, 36 sono le donne; 59 candidati sono stati espressi da movimenti, associazioni e «società civile», 14 dai partiti che sostengono la lista: Sel e Rifondazione comunista. Sono state raccolte oltre 200 proposte, ciascuna delle quali sottoscritta da associazioni, comitati, gruppi o partiti che hanno aderito alla lista. Oltre 7 mila sono state le firme a sostegno delle candidature, un dato che conferma l’interesse per un esperimento in controtendenza con i recenti e disastrosi fallimenti della «sinistra radicale». L’obiettivo è raggiungere un risultato a due cifre, anche se il 6–7% dei voti che i primi sondaggi attribuiscono alla lista «ci rendono molto contenti».
Lo ha detto ieri Barbara Spinelli, capolista in tre circoscrizioni su 5. «Io di mestiere scrivo – ha detto – Ho pensato che queste capacità dovevo comunicarle diversamente per metterle a disposizione degli invisibili, testimoniando per chi non ha voce, per farli diventare combattenti per un’Europa radicalmente diversa da quella che ci hanno consegnato i conservatori e da quella che vuole ritornare alle sovranità nazionali. Queste forze oggi sono complici e vogliono garantire lo status quo». Per Spinelli questo ragionamento traccia la linea degli «euroinsubordinati». Un traiettoria che parte da sinistra con la candidatura di Tsipras, designato alla presidenza della Commissione europea dalla sinistra europea nel congresso tenuto a Madrid e rivendicato da Rifondazione Comunista, e che ambisce a conquistarsi una posizione autonoma rispetto ai socialisti e democratici europei (dove si trova il Pd di Matteo Renzi), ai conservatori e ai liberali. Con Verhostadt, candidato dell’Alde, come con lo stesso Schultz candidato dei socialisti, Spinelli non ha tuttavia escluso contatti.
I primi due mesi di vita dell’«Altra Europa» sono stati intensi. 30 mila firme raccolte da un appello dei «garanti» della lista: Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli, Guido Viale, Spinelli oltre allo stesso Tsipras. Poi ci sono state le polemiche prima sull’esclusione dal logo della lista (il restyling ora è completo) tra i «garanti» e Rifondazione Comunista; poi quelle tra i garanti stessi a proposito dell’esclusione della candidatura dell’eurodeputata Idv Sonia Alfano (incandidabile secondo una delle regole proposte: non avere avuto incarichi politici negli ultimi 10 anni) e Luca Casarini, la cui candidatura è stata invece confermata con voto a maggioranza nella circoscrizione del Centro-Italia.
Sul ritiro della candidatura di Camilleri, le spiegazioni sono state forse poco convincenti. Averla comunicata il 2 marzo, per poi smentirla subito dopo, è attribuito alla «gioia che si candidava». Mentre in realtà quella decisione non era stata ancora presa. Spinelli si è scusata per l’«intempestività» e assicura che Camilleri continuerà a sostenere la lista. Spinelli ha infine spiegato la sua decisione di ritirarsi dopo l’eventuale elezione. Di solito questo avviene a urne chiuse quando i politici nazionali cedono il posto alle seconde file. Averlo annunciato prima, ha detto Spinelli, «permette di eleggere i più votati e competenti. Lo permette il metodo delle preferenze».
Agli «euroinsubordinati» la giornalista e scrittrice, figlia di Altiero Spinelli, propone un ragionamento politico complesso, ma che rientra nelle corde della sinistra europea. Dimostrare che esiste, oggi, la possibilità di essere contro l’austerità senza cedere ai populismi che con ogni probabilità mieteranno successi alle prossime elezioni. Il movimento 5 Stelle di Grillo e Casaleggio, considerato ad oggi il depositario delle posizioni anti-austerità, viene dato in una forbice tra il 20–25%. Su questa base sono riemerse ieri parole che non ascoltavamo da almeno un decennio in una sede politica italiana: l’idea dell’Europa non prigioniera del neoliberismo e del suo determinismo economicista. Un’Europa dove la perdita della sovranità degli Stati-nazione non è preliminare all’esproprio della decisione politica dei popoli, come degli individui, bensì ad una redistribuzione della ricchezza e dei poteri a livello sovranazionale e in maniera democratica.
Un’Europa, infine, politica, che sappia cioè rivedere di sana pianta i suoi trattati; rovesciare i mandati costitutivi della Bce di Mario Draghi; avviare un piano neo-keynesiano di investimenti pubblici; applicare le tutele sociali minime a partire da un salario e da un reddito minimo per 19 milioni di disoccupati e perlomeno il doppio di precari e lavoratori autonomi. Tsipras ha proposto una conferenza europea sul debito per i paesi dell’Europa del Sud, simile a quella che nel 1953 alleviò il peso che gravava sulla Germania del Dopoguerra. Una proposta ripresa dalla lista italiana, potenzialmente capace di rompere ogni schema di politica economica adottata in Italia.
Un altro mondo, inconcepibile. Sapendo che il vero banco di prova sarà il dopo-elezioni. Nascerà una prospettiva costituente, e uno spazio politico, tra le compagini che stanno dando vita a questa esperienza, ma soprattutto oltre
Un titolo strumentalmente forzato per un’analisi a tutto campo del sistema politico italiano, da Renzi Berlusconi e Letta, a Civati e alla lista Tsipras. I timori, e le speranze e le scommesse.
La Repubblica, 6 marzo 2014
DINAMICHE forti attraversano il sistema politico italiano, e lo stanno cambiando profondamente. Ma, se pure questo processo è stato accelerato dalle iniziative di Renzi, per comprenderlo bisogna andare oltre la stretta attualità, gettare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo allespalle.
Altrimenti si rimane prigionieri di formule ingannevoli — «Aspettiamo Renzi alla prova dei fatti», «Se fallisce, è la fine» — che rivelano non tanto una deriva personalistica, quanto piuttosto una sfiducia nella possibilità stessa di condurre analisi politiche. E invece proprio dalla politica bisogna ripartire, registrando che siamo alla fine di un ciclo che si è dipanato attraverso l’emergenza montiana, le larghe intese e le piccole intese, senza offrire né soluzioni a breve né prospettive, sì che Renzi finisce con l’apparire come una sorta di curatore fallimentare. Il suo obiettivo è visibilmente quello di strutturare il sistema politico intorno a due poli, non due partiti, e proprio qui scatta l’impossibilità di liberarsi con una mossa tutta volontaristica dell’eredità del passato. “Padrone”, almeno nelle apparenze, di un partito che aveva conquistato senza combattere, Renzi ha poi rivolto lo sguardo dall’altra parte e, muovendo da una sottovalutazione del suo partner di governo, il Nuovo Centro Destra, si è lanciato verso la rilegittimazione di Berlusconi, impigliandosi però nei prevedibili conflitti determinati dall’affidarsi all’astuzia della “doppia maggioranza”.
Ora la nuova “intesa” intorno alla legge elettorale mostra come egli non debba solo fare i conti con i fallimenti del passato, ma pure con l’esito infelice del suo stesso azzardo. Indicata come un passaggio necessario per un chiarimento del quadro politico, la nuova fase della riforma elettorale produce, al contrario, una inquietante confusione istituzionale, destinata a sfociare in conflitti (ricatti?) incrociati, rendendo più soggetta a condizionamenti l’azione di governo e più esposta la nuova soluzione a chiari vizi di incostituzionalità. Frutto evidente di pure strumentalità partitiche, dissolve la logica, già precaria, della doppia maggioranza, spinge tanto Berlusconi quanto Alfano a perseguire le proprie convenienze, a rafforzare la propria identità, aprendo la via a conflitti inevitabilmente destinati ad influire su tempi e scelte del governo. L’apertura a Berlusconi era stata, nei fatti, una evidente sfida ad Alfano, così come la precedente apertura su lavoro e diritti civili lo era stata nei confronti di Letta. Cambiati i ruoli, mutato Renzi da sostanziale sfidante ad alleato obbligato di Alfano, quale sarà in concreto la linea della maggioranza ora rinsaldata?
Bisogna tornare, a questo punto, alla questione dei due poli, in vista dei quali è stata confezionata la nuova legge elettorale, con chiusure conservatrici a favore di chi già è insediato all’interno del sistema, introducendo così una ulteriore rigidità di cui, prigionieri di una poco riflessiva furia “riformatrice”, non sembra siano stati adeguatamente valutati tutti gli effetti. Sul versante berlusconiano, è evidente l’intenzione di costruire una coalizione nella quale sarà obbligato ad entrare tutto il pulviscolo dei gruppi e gruppetti che si agitano a destra in questo momento per dare l’impressione di una autonomia del tutto finta, poiché sanno benissimo che la nuova legge elettorale, quali che siano le soglie fissate, precluderà loro ogni possibilità di accesso al Parlamento. Si creano così le premesse per negoziati opachi, per contropartite d’ogni genere, mantenendo le condizioni che hanno in passato inquinato il nostro sistema politico e anticipando alla fase preelettorale il potere dei gruppi marginali, ma indispensabili per assicurare il successo della coalizione. Inoltre, l’alta soglia dell’8%, imposta alle liste autonome, diventa un potente disincentivo per avventure solitarie del Nuovo Centro Destra.
Diversa si presenta la situazione nel centrosinistra, dove Renzi sembra aver ripreso la logica della “vocazione maggioritaria” e, fidando sul proprio appeal, non manifesta aperture verso le diverse realtà esistenti, mostrandosi piuttosto interessato al recupero di una parte dell’elettorato del Movimento 5Stelle (strategia peraltro analoga a quella di Silvio Berlusconi). Peraltro, la sua sbrigativa rilettura di quel che oggi sarebbe la sinistra, unita ai quotidiani slittamenti ai quali lo obbliga la convivenza con gli alfaniani, ha creato condizioni propizie all’apertura di un processo che oggi, sia pure in forme ancora da chiarire, vede coinvolti Sel e il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsipras e i parlamentari (e non solo) che si allontanano dal Movimento 5Stelle.
Sono realtà diverse, ciascuna delle quali meriterebbe una analisi specifica, ma di cui qui può essere indicato quello che appare un possibile terreno comune. Civati, con quella che non è soltanto una battuta, ha parlato di Nuovo Centro Sinistra, ponendo così un problema: è possibile un processo, tutt’altro che semplice e breve, che abbia come primo obiettivo quello di liberare il Pd dal legame pericoloso con il Nuovo Centro Destra e, in prospettiva, consenta di lavorare intorno ad una ipotesi di sinistra nuova e non velleitaria? Di questo si dovrebbe tener conto, senza rifugiarsi nelle troppo comode obiezioni “realistiche” che, negli ultimi tempi, hanno privato il centrosinistra di ogni capacità di creare le condizioni pur minime per non essere sempre succube di stati di necessità, veri o costruiti. La politica è anche, talora soprattutto, capacità di assumersi rischi, senza la quale nessuna vera innovazione è possibile. Forse è qui che il proclamato “coraggio” di Renzi dovrebbe esercitarsi pure in questa direzione. E si potrebbe anche cominciare a ragionare fuori da un’altra pesante ambiguità, l’indicazione della durata del governo fino al 2018, che sembra un artificio per tener buono Alfano. Qualora al Senato si creassero le condizioni per liberarsi da questa ingombrante tutela, si potrebbe ragionevolmente discutere di un programma limitato e di un ritorno alle urne secondo una logica politica, e non puramente strumentale, anche se ora contro questa possibilità si leva il pasticcio dell’eventuale elezione differenziata di Camera e Senato.
Ripeto. È un processo non facile, che tuttavia può permettere di avviare un cammino che faccia uscire dal deserto politico nel quale continuiamo ad aggirarci. In questa prospettiva si presenta come assai impegnativa l’iniziativa della lista Tsipras perché, in particolare, la partecipazione alle elezioni europee significherà sottoporsi ad un vero confronto pubblico. È una impresa rischiosa e, proprio per questo, vorrebbe dai suoi promotori un rigore estremo. Dal passato vengono esempi che ammoniscono sul rischio legato a logiche autoreferenziali (il fallimento nelle ultime due elezioni politiche dalla Sinistra arcobaleno e della lista Ingroia). Dal presente viene l’obbligo a riflettere su che cosa significhi, al di là del fatto simbolico, il riferimento a Tsipras e al suo partito, Syriza. Si tratta di una esperienza maturata attraverso un lavoro politico non breve e che si è consolidato grazie ad una intensa presenza sociale. Condizioni, queste, che non trovano corrispondenza nella lista italiana e nella variegata coalizione che la sostiene, che peraltro non ha dato una esaltante prova di sé proprio nella scelta delle candidature, come attestano le cronache di ieri. Per tutti quelli che vogliano andare oltre la semplice critica al governo Renzi, si apre una stagione assai impegnativa. Ma proprio con queste difficoltà bisognerà misurarsi.
Finalmente parole chiare sull’Ucraina, la Russia, i Rapporti con gli Usa e l’Europa. E sui numerosi errori compiuti nel vecchio Continente che si dibatte nelle sue incertezze.
La Repubblica, 5 marzo 2014
IN PARTE per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante.Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni.
È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina — quella insorta in piazza a Kiev - vuole «entrare in Europa». Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale - non denunciato a Occidente - forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice Premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ’39 collaborò con Hitler.
È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché «abitate da filorussi». Non sono filo- russi ma russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino).
È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%).
Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è «nostra» vittoria, se Mosca è sconfitta. Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica - non ancora tentata - che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov.
L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla. Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un «occidente » senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi.
Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi. Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni.
«Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su Pagina 99 (25-2-14). Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze ( balance of power) che regnava in Europa fino al ’45: i Grandi Giochi dell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti.
L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il «nemico esistenziale». Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata. Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo.
L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente. Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà.
Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata. L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ’700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ’90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti).
Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo. Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi.
Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni-Stato distruttivi come in passato. Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà «filo-europei» neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.
«L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie». I
l manifesto, 5 marzo 2014
1. La querelle nata in questi mesi – e divenuta drammatica in questi giorni- intorno al decreto cosiddetto “Salva Roma”, dimostra come uno dei nodi cruciali della guerra alla società, dichiarata dalle lobby finanziarie con la trappola della crisi del debito pubblico, veda da subito al centro gli enti locali, i loro beni e servizi, il loro ruolo. Infatti, poiché l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie, che ha portato alla crisi globale di questi anni, ha stringente necessità di trovare nuovi asset sui quali investire, è intorno ai beni degli enti locali che le mire sono ogni giorno più che manifeste.
2. Già nel rapporto “Guadagni, concorrenza e crescita”, presentato da Deutsche Bank nel dicembre 2011 alla Commissione Europea, si scriveva a proposito del nostro Paese : “ (..) I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. In una relazione presentata alla fine di settembre 2011 dal Ministero dell’ Economia e delle Finanze si stima che le rimanenti imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro (pari a circa il 5,2% del PIL). Inoltre, il piano di concessioni potrebbe generare circa 70 miliardi di entrate. E questa operazione potrebbe rafforzare la concorrenza. (..) Particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici. La Cassa Depositi e Prestiti dice che il loro valore totale corrente arriva a 421 miliardi e che una parte corrispondente a 42 miliardi non è attualmente in uso. Per questa ragione potrebbe probabilmente essere messa in vendita con relativamente poco sforzo o spesa. Dal momento che il settore immobiliare appartiene in gran parte ai Comuni, il governo dovrebbe impostare un processo ben strutturato in anticipo. (..) Quindi, secondo le informazioni ufficiali, il patrimonio pubblico potrebbe raggiungere in valore complessivo di 571 miliardi, vicino al 37% del PIL. Naturalmente, il potenziale può anche essere ampliato.”
3. La spoliazione degli enti locali è naturalmente avviata da almeno un quindicennio e vi hanno concorso diversi fattori. Il primo è stato il Patto di Stabilità e Crescita interno, ovvero le diverse misure, annualmente stabilite, per far concorrere gli enti locali agli obiettivi di stabilità finanziaria decisi dallo Stato in accordo con l’Unione Europea. Quel patto ha visto in una prima fase una durissima contrazione delle possibilità di assunzione del personale da parte degli enti locali, riducendone drasticamente la qualità del servizio e contribuendo in questo modo a costruire una campagna ideologica sull’inefficienza del “pubblico”; in un secondo momento è finita sotto attacco la possibilità e la capacità di investimento da parte degli enti locali che, con l’alibi di non doversi indebitare, sono stati costretti e ridurre al lumicino le opere da realizzare; infine, nell’attualità, perfino la capacità di spesa corrente trova draconiane limitazioni, mettendo definitivamente a rischio il funzionamento stesso degli enti locali. Classificati da ora in avanti in “virtuosi” e “non virtuosi”, gli enti locali saranno costretti, per entrare nella prima categoria, ad aumentare le tasse locali e le tariffe, a ridurre ulteriormente l’occupazione, a dismettere il patrimonio pubblico e a privatizzare i servizi pubblici locali.
4. Il secondo fattore è dovuto alla spending review, ovvero i drastici tagli lineari che, anziché riorganizzare la spesa eliminando gli sprechi e le corruttele, comportano un’automatica riduzione di tutti i servizi erogabili senza alcuna scala di priorità e senza la benché minima programmazione. Il terzo fattore è stata l’approvazione del Fiscal Compact, ovvero l’obiettivo sottoscritto in sede europea di portare entro venti anni al 60% il rapporto debito/pil che oggi è pari al 133% . Ciò significa annualmente una riduzione secca di tale rapporto del 3,3% , con un costo di oltre 50 miliardi/anno. Se a questo si aggiunge l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione –di fatto, la costituzionalizzazione della dottrina liberista- il quadro è decisamente chiaro.
5. La tesi qui sostenuta è che l’attacco agli enti locali sia sistemico e abbia come ultimo obiettivo la scomparsa della funzione pubblica e sociale dell’ente locale, come sin qui lo abbiamo conosciuto, trasformandone il ruolo da erogatore di servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione della sfera di influenza dei capitali finanziari e da garante dell’interesse collettivo a sentinella del controllo sociale delle comunità. Una trasformazione autoritaria necessaria per permettere, attraverso la drastica riduzione della democrazia di prossimità, la totale spoliazione dei beni comuni delle comunità locali. Per queste ragioni, l’ente locale è destinato a diventare uno dei luoghi fondamentali dello scontro sociale nei prossimi mesi.
6. L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie Un processo che avviene attraverso diversi ma convergenti percorsi. Cosa posseggono infatti gli enti locali? Territorio, patrimonio e servizi, ed è su questi che si sta giocando, e sempre più lo si farà nel prossimo periodo, la guerra contro la società.
7. Il territorio è da tempo strumento di valorizzazione finanziaria, in due diverse modalità di scala. La prima attraverso la continua cementificazione del suolo, favorita da una norma, da anni reiterata in Parlamento, che consente di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni : in pratica, anche solo per garantire l’ordinario funzionamento dell’ente locale, gli amministratori sono invogliati a consegnare porzioni di territorio alla speculazione immobiliare, arrivando al paradosso che, mentre fino a qualche anno fa erano i costruttori a fare la questua negli uffici comunali per ottenere cambi di destinazione d’uso di terreni, oggi sono i sindaci a inseguire i costruttori per poter firmare convenzioni che consentano di mettere in cassa i relativi oneri. La seconda è quella dei grandi eventi e delle grandi opere : che siano basi militari (Muos di Catania, Dal Molin di Vicenza), che siano mega-progetti infrastrutturali (Tav, Ponte sullo stretto, 35 nuovi progetti autostradali) o “eventi” (Giubileo di Roma, Expo di Milano), l’unico obiettivo è la consegna del territorio alla valorizzazione finanziaria e alla speculazione immobiliare.
8. Il patrimonio pubblico in mano agli enti locali ha, come abbiamo visto, dimensioni enormi (421 miliardi). La sua svendita, cominciata da tempo, è oggi considerata da Governo e Sindaci un vero e proprio piano strategico e, attraverso l’alibi della crisi del debito pubblico, sono ormai in adozione in tutti i Comuni piani di dismissione all’unico scopo di fare cassa. Anche i servizi pubblici locali sono da molto tempo sotto attacco e a rischio privatizzazione. Su questo terreno, come anche Deutsche Bank nel suo rapporto citato all’inizio ha dovuto riconoscere, la straordinaria vittoria referendaria del movimento per l’acqua nel giugno 2011 ha complicato molto i piani, senza tuttavia far desistere le grandi lobby finanziarie.
9. Cassa Depositi e Prestiti, ovvero l’ente (ora SpA, con all’interno le fondazioni bancarie) che raccoglie il risparmio postale (240 miliardi) di quasi 24 milioni di persone, è il vero e proprio braccio operativo di questo processo. Cassa Depositi e Prestiti interviene infatti sulla valorizzazione finanziaria del territorio, finanziando direttamente, o attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture, partecipato al 16% da Cdp), molte delle grandi opere, in particolare autostradali, in corso o in progetto nel nostro Paese; così come, attraverso FIV(Fondo Investimenti per le Valorizzazioni) di CDPI sgr si propone agli enti locali come partner ideale per la valorizzazione degli immobili da immettere sul mercato, fissandone un prezzo ed impegnandosi ad acquisirli, qualora dopo bando l’ente locale non riesca a venderli (FIV comparto Plus) o acquisendoli direttamente (FIV comparto Extra); altrettanto determinante è il ruolo assunto da Cdp nei processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali, essendo da tempo impegnata attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture) da una parte e FSI (Fondo strategico Italiano, interamente controllato da Cdp), in operazioni di ingresso nel capitale sociale delle aziende di gestione del servizio idrico e dei servizi pubblici locali per favorirne fusioni societarie e il rilancio in Borsa.
10. Se il luogo dello scontro sociale del prossimo periodo sarà dunque l’ente locale, il nodo intorno al quale si dipanerà sarà quello del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti. Se sotto attacco è la stessa funzione sociale degli enti locali come luoghi di prossimità degli abitanti di un territorio, altrettanto sotto scacco è l’utilizzo della ricchezza sociale prodotta nel Paese, in particolare quella del risparmio postale dei cittadini, che invece di essere utilizzata per gli investimenti volti al soddisfacimento dei bisogni sociali e ambientali delle comunità locali, viene interamente indirizzata come leva per l’espansione dei mercati finanziari e finalizzata all’espropriazione dei beni comuni. Si comprende meglio, a questo punto, anche il senso profondo della progressiva riduzione degli spazi di democrazia, che vede nell’accentramento istituzionale da una parte e in una furbesca campagna contro la “casta” e relativa riduzione della rappresentanza dall’altra, il progressivo distanziamento dei luoghi della decisionalità collettiva dalla vita concreta delle persone. L’obiettivo è chiaro : se ciò che è in atto è un mastodontico processo di spoliazione delle comunità locali, diviene necessario rendere loro sempre più ardua qualsiasi forma di organizzazione e di protesta, trasformando in rassegnata solitudine quella che potrebbe altrimenti divenire lotta per la riappropriazione sociale.
11. Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio senza zone d’ombra : devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione che dalla Troika discende verso i governi e scivola giù fino agli enti locali o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi. Ma, indipendentemente dalla consapevolezza dei propri sindaci e amministratori, le donne e gli uomini di ogni comunità locale di questo Paese devono sapere che la lotta collettiva e generalizzata contro la trappola del debito, per una nuova finanza pubblica e sociale, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, è interamente nelle loro mani. E che da essa dipende il destino della democrazia reale.
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Una valutazione sintetica ma esauriente del gioco delle tre carte con la quale stanno per concludere la dissoluzione della democrazia nella triste penisola. E gli eredi della sinistra, quando non guidano la truffa, tacendo acconsentono.
Il Fatto quotidiano, 5 marzo 2014L’accordo truffaldino tra un premier diventato tale con una manovra di Palazzo (privo com’è di consenso elettorale) con un partitino di scissionisti nominati dal precedente padrone realizza l’abusivismo perfetto in una democrazia ormai per modo di dire: ci prendiamo il governo e vi sequestriamo il voto, tiè. Non lo chiameremo golpe perché non c’è dramma, trattandosi di un misero gioco delle tre carte. Si strombazza l’Italicum per la Camera, ma da usare solo quando il Senato sarà abolito, forse tra 18 mesi o forse mai. Un obbrobrio mai visto, incostituzionale col botto.
Del resto, è il sogno a lungo cullato lassù sul Colle che pur di non far esprimere gli italiani ha preferito affidarsi a maggioranze artificiali (Monti, Letta) che infatti si sono autodissolte con imperdonabile spreco di tempo e di energie. Adesso tocca al fenomeno Renzi inventarsi un sistema elettorale ad personam che scandalizza perfino uno specialista come Berlusconi. Il turbo fiorentino ha la mania dei record. Cinque riforme in cinque mesi (se sono tutte così…). Due maggioranze, una per le riforme e una per i giorni feriali.
E a ben guardare, nel suo governo di governi ce ne sono tre, uno dentro l’altro come le matrioske. Il primo è quello della bella presenza: il più giovane, il più snello, il più rosa, buono per i titoli sui giornali. Il secondo è quello che conta e fa di conto. Guidato dal ministro dell’Economia Padoan, presidia via XX Settembre con un blocco di tecnici che dovranno piacere a Bruxelles e a Berlino. Il terzo è il sottogoverno degli affari e degli inciuci, quello dei sottosegretari così impresentabili che perfino Alfano è costretto a cacciarne uno (il prode Gentile). A Renzi avevamo creduto quando aveva letto il successo alle primarie del Pd come l’ultima spiaggia di un Paese giunto allo stremo. In molti abbiamo pensato: questo fa sul serio. Ora si sta giocando tutto il capitale tra pasticci e imbrogli vari. Non si dura nascondendo le elezioni in un cassetto. E per governare non basta qualche tweet.