loader
menu
© 2025 Eddyburg
Compagne e compagni del PD, ricordando Voltaire aiutate la sinistra alternativa a far sentire la sua voce, aiutando la lista “con Tsipras” a raccogliere le firme necessarie per partecipare alle elezioni.

L’Unità, 20 marzo 2014
Povera austerità. Fino a qualche tempo fa era sovrana incontrastata d’Europa, e i governati facevano a gara a inchinarsi ai suoi piedi, nascondendo accuratamente sotto il tappeto i costi sociali dei loro inchini: povertà, disoccupazione, disastro sociale. Oggi la polvere è troppa, non c’è tappeto che tenga; si mischia al polverone di chi vuole sfasciare tutto, per riconsegnare il continente ai nazionalismi. Madame Austerity ha perso lo smalto, la sua compagnia non è più gradita a nessuno: neppure a chi l’ha votata e osannata, come il Pd italiano e la Spd tedesca, il cui leader Martin Schulz è candidato del Pse alla presidenza della Commissione europea. Significa forse che il vincolo del 3% non verrà rispettato, che questi partiti si batteranno per la fine del Fiscal Compact, che in Italia verrà cancellato dalla Costituzione l’obbligo capestro del pareggio di bilancio?

Niente di tutto questo: «L’Italia non vuole cambiare le regole», ha dichiarato Renzi alla Merkel. Neppure, dunque, quella che dal 2015 aggiungerà ai quasi cento miliardi annui che già paghiamo per gli interessi sul debito, altri 45 miliardi l’anno da versare alle banche per cominciare a ridurlo. E dove li prenderemo?


Una Conferenza europea sul debito pubblico, come quella che nel 1953 ne condonò gran parte alla Germania, per consentire la ricostruzione dopo la guerra: questo propone un altro candidato alla presidenza della Commissione, Alexis Tsipras. In Grecia, Tsipras ha costruito il suo consenso proprio sul rifiuto dei vincoli che hanno sprofondato il paese nella povertà, aumentando il debito invece di diminuirlo; in Europa, propone fondi europei per la creazione di posti di lavoro e la riconversione ecologica, la sospensione del Fiscal Compact, una riforma della banca europea e delle politiche sull’immigrazione, e molto altro.

Sarebbe interessante, se si aprisse in Italia un dibattito vero, sulle differenze fra le scelte del Pse e queste proposte, sostenute in Italia dalla lista «L’Altra Europa con Tsipras». «Europeisti insubordinati», li ha definiti la loro capolista Barbara Spinelli. Nei sondaggi, il sostegno a questa insubordinazione è dato attorno al 6 per cento: è o non è il segno di una domanda politica? Una domanda di piattaforme concrete, per dare finalmente una voce unitaria a ciò che si muove a sinistra delle larghe intese, siano esse italiane o tedesche. E la domanda di un’Altra Politica, alternativa a quella dominante ma anche all’anti-politica dell’Uomo Qualunque, totalmente ignorante di cosa pubblica e fiero di esserlo.

I candidati e candidate dell’Altra Europa sono persone che fanno politica da anni: perfino i più giovani, passati dalle lotte nelle scuole e nell’Università al movimento contro la precarietà e per il reddito minimo. Sono delegate e delegati metalmeccanici, compagne di strada di don Gallo e di Zanotelli, giornalisti, intellettuali, voci autorevoli del pacifismo e del femminismo, dell’Arci e dei Forum sociali.

Il cemento che li tiene insieme è molto più forte, di un cartello elettorale. È una pratica unitaria difficile, ma consolidata nei movimenti, fra soggetti diversi che condividono uno stesso obiettivo: dall’acqua pubblica ai beni comuni, dall’antimafia alla difesa della Costituzione e dei diritti di tutti e tutte. Sarebbe davvero interessante, se nei prossimi mesi crescesse a sinistra un confronto paritario e sereno anche su questo: su cosa accomuna e differenzia queste pratiche di «partecipazione nella lotta» e una partecipazione centrata tutta sulle primarie per la scelta del leader. Sarebbe, ma il confronto paritario non è.
A differenza dei partiti già presenti in Parlamento, per partecipare alle elezioni la lista «L’Altra Europa con Tsipras» deve raccogliere in un mese 150.000 firme, di cui almeno 3000 in ogni regione, anche le più piccole. Se l’obiettivo dovesse essere mancato, chi oggi ha riposto nell’Altra Europa le proprie speranze si ritroverebbe escluso, consegnato all’astensionismo e alla rabbia. È un esito auspicabile, per la nostra democrazia?

Pensateci su, care compagne e compagni del Pd e scusatemi se uso questa vecchia parola a me cara. Diceva il filosofo: «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo». Noi, più modestamente, non vi chiediamo di dare la vita: solo una firma. Un gesto d’amore per la democrazia, e di fiducia in voi stessi: per il gusto di provare a sconfiggerci dopo, in campagna elettorale, con gli argomenti e non con gli sbarramenti.

Il manifesto, 20 marzo 2014

Il docu­mento era pronto da set­ti­mane sulla scri­va­nia del capo­gruppo del Pd alla camera, Roberto Spe­ranza. Che solo mar­tedì sera ha deciso di farlo cono­scere a tutti i depu­tati demo­cra­tici: ne dovranno discu­tere in assem­blea entro fine mese. Per il momento le «con­si­de­ra­zioni con­clu­sive» fir­mate dai depu­tati Pd della com­mis­sione difesa sono dirom­penti. C’è la richie­sta di «rin­viare ogni atti­vità con­trat­tuale» rela­tiva ai cac­cia F35, in vista di «un signi­fi­ca­tivo ridi­men­sio­na­mento» del pro­gramma di acqui­sto. E c’è soprat­tutto, come anti­ci­pato dal mani­fe­sto, la sco­perta di oltre un miliardo di spese per arma­menti «nasco­ste» al bilan­cio della difesa, e finite nei capi­toli di altri mini­steri. In pra­tica, rive­lano i depu­tati Pd, la spesa per i sistemi d’arma sta già sfo­rando la per­cen­tuale del bilan­cio della difesa con­si­de­rata otti­male dagli stessi Stati mag­giori. Tagliare si può, vedremo se Mat­teo Renzi saprà farlo.

Ad aprile la com­mis­sione difesa scri­verà l’ultima parola di que­sta «inda­gine cono­sci­tiva sui sistemi d’arma», decisa otto mesi fa come com­pro­messo tra le allora lar­ghe intese per evi­tare che il Pd seguisse Sel e Cin­que stelle nella richie­sta di can­cel­la­zione del pro­gramma F35. Prima l’assemblea dei depu­tati demo­cra­tici si espri­merà sul docu­mento. Nel gruppo Pd non man­cano i soste­ni­tori dell’accordo con la Loc­kheed Mar­tin per il cac­cia ame­ri­cano. Ma c’è anche una com­po­nente, spe­cial­mente cat­to­lica, che spin­gerà per con­fer­mare le indi­ca­zioni che adesso sono diven­tate pub­bli­che. Alla fine deci­de­ranno le ragioni di bilan­cio più che quelle del paci­fi­smo e della Costi­tu­zione (l’F35 è un aereo esclu­si­va­mente d’attacco) o tec­ni­che (nei test l’aereo sta accu­mu­lando insuc­cessi). Tra quest’anno e il pros­simo si può recu­pe­rare circa un miliardo non dando seguito ai pro­grammi di acqui­sto con la Loc­kheed. Soldi pre­ziosi, tenendo conto che gli altri che dovreb­bero arri­vare dalla difesa sono assai alea­tori, come i pro­venti della sem­pre annun­ciata sven­dita delle caserme.

Con il Pd su que­ste posi­zioni, assieme a Sel e M5S, non ci sareb­bero pro­blemi per bloc­care gli F35 in com­mis­sione difesa. L’obiettivo però è arri­vare a una mozione in aula che impe­gni il governo allo stop. E potrebbe per­sino non bastare, visto il brac­cio di ferro che gli Stati mag­giori e diret­ta­mente il pre­si­dente della Repub­blica hanno ingag­giato da tempo con il par­la­mento sulla tito­la­rità a deci­dere sugli inve­sti­menti nei sistemi d’arma. La legge del 244 del 2012 ha resti­tuito alle camere l’ultima parola. Ieri il Con­si­glio supremo della difesa dal Qui­ri­nale ha preso sì atto della neces­sità di rispar­miare, ma ha riman­dato le scelte con­crete alla reda­zione di un «Libro bianco» della difesa, la cui cura è affi­data al mini­stero. E mar­tedì la mini­stra Pinotti ha raf­fred­dato gli entu­sia­smi: non è detto, ha spie­gato, che i risparmi arri­ve­ranno dagli F35.

Nel docu­mento del Pd, però, non ci sono solo ragioni eco­no­mi­che con­tro il pro­gramma ame­ri­cano. Ma almeno altri otto buoni motivi per can­cel­lare le com­messe. Si va dal fatto che «non sono garan­titi signi­fi­ca­tivi ritorni indu­striali» alle con­si­de­ra­zioni sull’embargo impo­sto dagli Usa sulla tec­no­lo­gia sen­si­bile. Inol­tre, quanto al sito ita­liano di mon­tag­gio, «l’occupazione che si gene­rerà non può con­si­de­rarsi aggiun­tiva a quella già attual­mente impie­gata nel set­tore aero­nau­tico, ma solo par­zial­mente sosti­tu­tiva». Con­si­de­ra­zioni di buon senso, con­tro le quali si è già alzato il fuoco di sbar­ra­mento: pro­prio ieri uno stu­dio della Pri­cewa­te­rhouse garan­tiva che l’assemblaggio degli F35 in Ita­lia, a Cameri, può creare tra i 5 e i 6mila posti di lavoro. Si tratta di uno stu­dio com­mis­sio­nato dalla Lockheed.

Oltre ai cac­cia, i depu­tati della com­mis­sione difesa del Pd invi­tano a ripen­sare il pro­gramma dell’esercito Forza Nec, altri­menti noto come «sol­dato digi­tale». Il fante ita­liano del futuro risulta essere pro­get­tato (appalto Selex) senza alcuna pre­oc­cu­pa­zione di inter­con­net­ti­vità con le forze armate dei paesi alleati, Nato e Ue. Meglio fer­mare que­sto inve­sti­mento (20 miliardi) fino a quando «i diversi sistemi nazio­nali saranno in grado di dia­lo­gare tra loro». Quanto alle spese per gli arma­menti nel loro com­plesso, come detto, guar­dando nei capi­toli del mini­stero dello svi­luppo econ­mico, si sco­pre che sono ben oltre il 25% dei 14 miliardi desti­nati alla fun­zione difesa. Ci sono mar­gini per recu­pe­rare più di un miliardo. E più di tutto si dovrebbe poter ispar­miare in futuro. Se, come pro­pone il docu­mento, si costi­tuirà anche in Ita­lia un’Autorità di con­trollo sulla spesa per gli arma­menti. Posto che i depu­tati Pd denun­ciano il «feno­meno ricor­rente della pre­senza di figure api­cali del mondo mili­tare che vanno ad assu­mere posi­zioni di rilievo al ver­tice delle indu­strie della difesa». Su tutte Fin­mec­ca­nica, pre­sie­duta oggi dall’ex capo del Sismi De Gen­naro e dall’ex capo di stato mag­giore della difesa Venturoni

Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo.

Il manifesto, 189 marzo 2014

Di «pas­sag­gio» a Tokyo per una serie di affol­la­tis­sime con­fe­renze, abbiamo chie­sto a Noam Chom­sky, pro­fes­sore eme­rito di lin­gui­stica al Mas­sa­chu­setts Insti­tute of Tech­no­logy, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occi­dente e Oriente, che agi­tano il pia­neta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.

L’Occidente sem­bra essere pre­oc­cu­pato da quello che qual­cuno ha defi­nito il «fasci­smo» di Putin. E men­tre tor­nano i toni da guerra fredda, la situa­zione, in Cri­mea, rischia di precipitare…

«Non solo in Cri­mea, direi che anche qui, in Asia orien­tale, la ten­sione è altis­sima, tira una brut­tis­sima aria. Il recente rife­ri­mento del pre­mier Shinzo Abe — per il quale non nutro par­ti­co­lare stima — alla situa­zione dell’Europa prima del primo con­flitto mon­diale è più che giu­sti­fi­cato. Per­ché le guerre pos­sono anche scop­piare per caso, o a seguito di un inci­dente, più o meno pro­vo­cato. Quanto alla Cri­mea, fac­cio dav­vero fatica ad asso­ciarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in que­sti giorni edi­to­riali assurdi, a livello di guerra fredda, che accu­sano i russi di essere tor­nati sovie­tici, par­lano di Ceco­slo­vac­chia, Afgha­ni­stan. Ma dico, scher­ziamo? Per un gior­na­li­sta, un com­men­ta­tore poli­tico, scri­vere una cosa del genere, oggi, signi­fica avere svi­lup­pato una capa­cità di asser­vi­mento e subor­di­na­zione al "pen­siero comune" che nem­meno Orwell avrebbe potuto imma­gi­nare. Ma come si fa? Mi sem­bra di essere tor­nato ai tempi della Geor­gia, quando i russi, entrando in Osse­zia e occu­pando tem­po­ra­nea­mente parte della Geor­gia, fer­ma­rono quel pazzo di Sha­kaa­sh­vili, a sua volta (mal) "con­si­gliato" dagli Usa. I russi, all’epoca, evi­ta­rono l’estensione del con­flitto, altro che "feroce invasione".

«Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si per­met­tono gli Stati uniti, dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver men­tito spu­do­ra­ta­mente al mondo intero sulla sto­ria delle pre­sunte armi di distru­zioone di massa, sono inter­ve­nuti senza un man­dato Onu a migliaia di chi­lo­me­tri di distanza per sov­ver­tire un regime – a pro­te­stare, oggi, con­tro la Rus­sia? Voglio dire, non mi sem­bra che ci siano state stragi, puli­zie etni­che, vio­lenze dif­fuse. Io mi chiedo: ma per­ché con­ti­nuamo a con­si­de­rare il mondo intero come nostro ter­ri­to­rio, che abbiamo il diritto, quasi il dovere di «con­trol­lare» e, nel caso, modi­fi­care a seconda dei nostri inte­ressi? Non è cam­biato nulla, alla Casa Bianca e al Pen­ta­gono, sono ancora con­vinti che l’America sia e debba essere la guida – e il gen­darme – del mondo».

A pro­po­sito di minacce, oltre alla Rus­sia, anche la Cina e il Giap­pone fanno paura? Chi dob­biamo temere di più?

«Dob­biamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dub­bio, e del resto è quanto riten­gono il 70% degli inter­vi­stati di un recente son­dag­gio inter­na­zio­nale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc. Subito dopo ci sono Paki­stan e India, la Cina è solo quarta. E il Giap­pone non c’è pro­prio. Que­sto non signi­fica che quello che stanno facendo, anzi per ora, per for­tuna, solo dicendo i nuovi lea­der giap­po­nesi non siano peri­co­lose e inac­cet­ta­bili pro­vo­ca­zioni. Il Giap­pone ha un pas­sato recente che non è ancora riu­scito a supe­rare e di cui i paesi vicini, soprat­tutto Corea e Cina non con­si­de­rano chiuso, in assenza di serie scuse e soprat­tutto atti di con­creto rav­ve­di­mento dal parte del Giappone.

«Pro­prio in que­sti giorni leggo sui gior­nali che il governo, su pro­po­sta di alcuni par­la­men­tari, ha inten­zione di rive­dere la cosid­detta «dichia­ra­zione Kono», una delle poche dichia­ra­zioni che ammet­teva, espri­mendo con­tri­zione e rav­ve­di­mento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrel­lare decine di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazio­na­lità e costri­gen­dole a pro­stu­tirsi per «risto­rare» le truppe al fronte».

Già, le famose «donne di ristoro», tut­ta­via ogni paese ha i suoi sche­le­tri. In Ita­lia pochi sanno che siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e ame­ri­cani non scher­zano, quanto a cri­mini di guerra nasco­sti e/o ignorati

«Asso­lu­ta­mente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi sco­la­stici, un conto è il nega­zio­ni­smo: insomma, in Ger­ma­nia se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giap­pone se neghi il mas­sa­cro di Nan­chino rischi di diven­tare premier»

A proposito di Renzi, Hollande, Merkel &C.«Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati».

La Repubblica, 19 marzo 2014

È inutile accusare la tecnocrazia europea per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione, come hanno fatto Renzi e Hollande a Parigi, quando sono i governi a fare e disfare l’Europa secondo le loro convenienze. Ed è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni.

Come non sentirsi sbalestrati, se non beffati, da discorsi così contraddittori? A Parigi Renzi ha accusato gli eurocrati, poi a Berlino ha riconosciuto il primato tedesco, ricordando alla Merkel che non siamo «somari da mettere dietro la lavagna, ma un Paese fondatore che contribuisce a dare la linea». Chi detta legge, in ultima analisi: il tutore tedesco o l’eurocrazia? Chi ha l’ultima parola? Non dirlo a lettere chiare: questo è aggirare i popoli.

L’inganno è più che mai palese alla vigilia delle elezioni europee, che almeno sulla carta dovrebbero essere diverse dalle precedenti. Il trattato di Lisbona infatti è esplicito, e i deputati di Strasburgo l’hanno ribadito: il Presidente della Commissione sarà designato dal Consiglio europeo, ma «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17). Quel che ci si accinge a fare è altra cosa. Ancora una volta, la decisione sarà presa a porte chiuse, senza dibattito pubblico preliminare, dai capi di Stato o di governo. Lo stesso Parlamento europeo è complice dell’inganno, col suo regolamento interno: la scelta delle nomine è a scrutinio segreto; non è prevista discussione pubblica. Condotte simili non si limitano a ignorare i trattati: sono anche del tutto incompatibili con la trasparenza da essi ripetutamente evocata. Riavremo dunque lo stesso occulto mercanteggiamento tra Stati che ha ammorbato l’Unione per decenni. Il Parlamento può certo accampare diritti — può sfiduciare il presidente dell’esecutivo e l’intero collegio — ma il rifiuto avviene dopo la nomina. È più complicato. Non a caso l’assemblea non s’è mai azzardata a sfiduciare la Commissione.

Se davvero credessero in quel che professano, Renzi, Hollande e la Merkel manderebbero in questi giorni ben altro messaggio ai cittadini refrattari che apparentemente li angustiano tanto. Direbbero: «Ci atterremo alle nuove regole, vi ascolteremo sempre più. Quindi rispetteremo il verdetto delle urne». Nessuno di loro osa dirlo. Il dominio che esercitano, nella qualità di sovrani che nominano eurocrati al loro servizio, non vogliono né dismetterlo né spartirlo. Vogliono usarla, la tecnocrazia, come alibi: se le cose vanno male la colpa è sua. Gli Stati hanno potere, non responsabilità.

La mistificazione è massima perché la colpa è interamente loro, se l’Unione è oggi un campo di discordie, di ingiustizie sociali asimmetriche. Sono gli Stati e i governi che hanno fatto propria la teoria, predicata ad alunni somari e non, dell’«ordine» o dei «compiti in casa». È la teoria tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità, perché i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la «casa nazionale», e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà, e comuni regole di uguaglianza sociale. Nelle sedi internazionali, e anche in quella sovranazionale europea, basta insomma «coordinare» le singole linee, esortarsi a vicenda. Il motivo: l’esperienza totalitaria legata a interventi eccessivi dello Stato (memorabile l’accusa rivolta dall’ordoliberista Wilhelm Röpke, negli anni ‘50, all’ideatore dello Stato sociale: «Quello che voi inglesi state preparando, con il piano Beveridge, è una forma di nazismo». Non meno antiliberale fu giudicato il New Deal di Roosevelt).

L’illusione ordoliberista, tuttora diffusa ai vertici degli Stati, è che se ognuno lasciasse fare i mercati, mettendo magari la briglia alla democrazia e a leggi elettorali troppo rappresentative, l’ordine finirebbe col regnare nel mondo. La crisi ha mostrato che solo invertendo le priorità una soluzione è possibile. È dalla solidarietà che urge ripartire, dalla messa in comune di risorse, dopodiché ogni Stato avrà più forze per aggiustare i conti, spalleggiato da istituzioni e bilanci federali. Così gli Usa risolsero la crisi del debito dopo la guerra di indipendenza: mettendo in comune i debiti, passando dalla Confederazione alla Federazione, dandosi una Costituzione.

L’esatto contrario avviene nell’Unione. Sono ancora gli Stati che hanno deliberato, nel febbraio 2013, di congelare il comune bilancio e di impedire l’aumento delle risorse che permetterebbe piani comunitari di ripresa, e soprattutto la conversione della vecchia industrializzazione in sviluppo verde, sostenibile. Una delibera che il Parlamento s’è rifiutato di ratificare, un mese dopo. Ma alla fine la decisione è stata accettata, pur rinviando il dibattito al 2016.

Sono gli Stati che hanno inventato la trojka, organismo che comprende la Banca Centrale europea, la Commissione, e non si sa per quale complesso di inferiorità il Fondo Monetario, e che oggi controlla 4 Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Una trojka la cui sola bussola è la «casa in ordine». Sono infine gli Stati che hanno concordato il fiscal compact, che alcuni Paesi - tra cui l’Italia di Monti - hanno inopinatamente messo nella Costituzione nonostante nessuno l’avesse imposto.

Questo significa che viviamo nella menzogna, sull’Europa esistente e su quella da rifondare. Che chi ha in mano le scelte sono in realtà i mercati: non l’eurocrazia usata come alibi e non i finti Stati sovrani. Lo spiega bene Luciano Gallino, su La Repubblica del 15 marzo: non esiste stato di eccezione che consenta un’indifferenza così totale verso le sofferenze inflitte ai cittadini (Grecia in primis, e Italia, Spagna, Portogallo). Quanto al fiscal compact, si tratta, secondo Gallino, di eliminare dalla Costituzione le norme attuative, come proposto da Rodotà: «L’Italia non è in grado di trovare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare (per 20 anni, ndr). Accadrà quello che è già accaduto altrove: tagli sanitari, bambini affamati, povertà» (intervista al Manifesto, 13-3).

Sono anni che Roma cerca di ingraziarsi Parigi, e forse qui è l’inganno più grande. I governi francesi, di destra o sinistra, hanno una responsabilità speciale: sin da quando, caduto il Muro, risposero sistematicamente no - in nome del mito sovrano gollista - all’unità politica e militare che Kohl chiese con insistenza per puntellare l’euro. Si denunciano le colpe tedesche, nella crisi, ma l’immobile insipienza francese è ancora più nefasta.

L’Europa, non dimentichiamolo, fu fatta grazie ai francesi Jean Monnet, Robert Schuman. Quel che fu creato lo si deve a Parigi. Ma anche quel che non fu fatto, e non si fa. A cominciare dall’unità militare, che consentirebbe all’Europa risparmi enormi: circa il 40%. Insieme si potrebbe valutare se sia sensato dotarsi degli F-35, e che tipo di pax europea vogliamo, autonoma da quella americana.

Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati. Che la Francia è un ostacolo non meno grande di Berlino, anche se governata dai socialisti (Sarkozy almeno ci provò: Hollande sull’Europa è muto). Che l’Unione ha bisogno di una Costituzione vera, che inizi come negli Usa con le parole: «We, the people...»: non con l’elenco dei governi firmatari. Altrimenti non avremo solo il predominio degli Stati più forti. Avremo quella che Gallino chiama la Costituzione di Davos:una costituzione non scritta, i cui governi, vittime di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari a carico dei contribuenti.

Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, deve essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario».

La Repubblica, 18 marzo 2014
È ancora possibile una politica costituzionale? La questione non riguarda soltanto l’Italia, né si esaurisce nel controllo di conformità delle leggi a singole norme della Costituzione. Ma, quando si segnala questo tema, accade spesso di ricevere risposte infastidite, quasi che si volesse mettere la politica sotto una incombente e inammissibile tutela del diritto.

La realtà è del tutto diversa. Oggi la politica appare come l’ancella dell’economia, è declassata ad amministrazione, è affidata alla tecnica. Il recupero della sua autonomia, non dirò del suo primato, non può che essere affidato alla sua capacità di tornare ad essere espressione visibile di principi democraticamente definiti, appunto quelli che si rinvengono nei documenti costituzionali, dunque espressione di un progetto che ingloba il futuro, né volubile, né arbitrario. È una questione che ha un rilevante significato generale. E che, nell’attuale situazione italiana, va seriamente discussa, perché è destinata ad incidere fortemente sul modo in cui vengono affrontate la riforma elettorale e quella costituzionale.

Nell’ultima fase storica si è determinato un passaggio dallo Stato di diritto allo Stato costituzionale di diritto, connotato dal controllo di costituzionalità sulle leggi e dalla istituzione di uno spazio dei diritti fondamentali. Proprio questo modello appare oggi in discussione, scosso dalla globalizzazione del mondo e dalla sua riduzione alla dimensione finanziaria. Costituzioni e diritti appaiono un impaccio, lo si proclama talvolta apertamente, sempre più spesso si agisce come se non esistessero. Lo vediamo in Italia, ne abbiamo conferma in Europa, dove la Carta dei diritti fondamentali è stata cancellata, malgrado abbia lo steso valore giuridico dei trattati. Lo Stato costituzionale di diritto sarebbe dunque alla fine, viviamo in una fase in cui la mancanza di un quadro istituzionale riconosciuto favorisce l’espandersi di poteri incontrollati?

Rivolgendo lo sguardo alle cose di casa nostra, vi è un grave rischio di cui è bene avere piena consapevolezza. La corsa ormai senza freni verso soluzioni maggioritarie, con seri rischi di incostituzionalità, può determinare un appannarsi di importanti garanzie costituzionali. Se vi è ancora memoria della nostra storia, si dovrebbe sapere che quelle garanzie erano state affidate dai costituenti a maggioranze calcolate con riferimento ad un sistema elettorale proporzionale, che consentiva un ampio pluralismo delle forze presenti in Parlamento. Di conseguenza, non v’era una concentrazione di potere in un partito o in una coalizione tale da consentire interventi in materia costituzionale affidati ad un solo soggetto, magari costruito artificialmente grazie a premi di maggioranza. Nel 1953, contro la “legge truffa” si adoperò proprio l’argomento di una concentrazione di potere nelle mani dei vincitori che poteva alterare gli equilibri costituzionali. E si deve aggiungere che il rischio oggi è maggiore, visto che quella legge tanto esecrata prevedeva che il premio di maggioranza scattasse solo se la coalizione superava il 50% dei voti.

È indispensabile, allora, una politica costituzionale che ridisegni il quadro delle garanzie, prevedendo maggioranze più larghe per la revisione costituzionale, l’elezione del Presidente della Repubblica e dei giudici costituzionali, mettendo in sicurezza proprio le istituzioni di garanzia e i diritti fondamentali. Non è un compito da affidare al futuro, ma un processo da avviare in parallelo con l’incombente forzatura maggioritaria. Altrimenti, eletta la “governabilità” a feticcio indiscutibile, sarebbe travolto il sistema delle tutele, alterando in un punto nevralgico gli equilibri democratici.

Serve una “ricostituzionalizza-zione”, analoga a quella necessaria in Europa ridando il suo ruolo alla Carta dei diritti fondamentali. Bisogna ricostruire il nesso tra le varie parti della Costituzione, cancellato da una sottocultura che vede la “macchina” dello Stato come dotata di una logica che può essere manipolata secondo gli interessi di una maggioranza transitoria, e non come lo strumento per realizzare i principi e i diritti sui quali la Costituzione si fonda.

Ma la politica costituzionale è indispensabile anche per uscire da una schizofrenia che da anni affligge il nostro sistema. I diritti fondamentali sono scomparsi dall’orizzonte parlamentare, dove le poche leggi approvate sono state ideologiche e repressive. La loro tutela è stata tutta affidata alla giurisdizione, Corte costituzionale e Corte di Cassazione, dove per fortuna è rimasta vigile una cultura delle garanzie. Ora il Parlamento deve riassumere le proprie responsabilità, affrontando grandi questioni individuali e sociali, di cui non v’è traccia nell’agenda del Governo. O la necessità di salvaguardare i precari equilibri di maggioranza ci condannano ad una minorità civile? Qualche esempio. Il riconoscimento effettivo delle unioni anche tra persone dello stesso sesso, non come una mancia data a malincuore e al ribasso, ma come tutela di diritti fondamentali, secondo la linea tracciata dai giudici costituzionali e della Cassazione.

Una normativa coerente al posto delle macerie lasciate dalla superideologica e incostituzionale legge sulla procreazione assistita. Una nuova disciplina sugli stupefacenti senza concessioni a furbizie e colpi di mano come quello tentato dalla ministra per la Salute. Regole minime per eliminare ogni dubbio sul diritto di morire con dignità. Altrettanto urgente, dopo il monito del Consiglio d’Europa, è un intervento che cancelli lo scandalo del dilagare delle obiezioni di coscienza dei medici all’aborto, che negano un diritto delle donne che la legge vuole pienamente garantito dalle istituzioni pubbliche. Tutte questioni che toccano “valori non negoziabili” e che mettono a rischio la tenuta dell’attuale maggioranza? Ma qui non v’è nulla da negoziare. Vi è soltanto il dovere di dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, che non possono essere assoggettati a ricatti e convenienze. Ineludibili politiche costituzionali, appunto.

Nello spazio tra i silenzi parlamentari e i provvidi, ma insufficienti, interventi dei giudici si è manifestata negli ultimi tempi una importante attenzione delle istituzioni locali. Una legge della Regione Abruzzo ha aperto la strada all’uso terapeutico della cannabis. Molte delibere comunali saffrontano temi importanti, dai testamenti biologici alle unioni civili, dalla cittadinanza “civica” dei figli degli immigrati alle garanzie per i detenuti (segnalo per la sua ampiezza il “pacchetto” del comune di Parma). A Bologna è stato approvato un regolamento per la collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura dei beni comuni. Iniziative simboliche in alcuni casi, ma sempre politicamente significative, perché volte a ricostruire, attraverso l’attenzione per i diritti e la partecipazione. i rapporti tra istituzioni e cittadini. La politica costituzionale si sta insediando nei luoghi della democrazia di prossimità?

Questa lezione può essere messa a frutto dal Parlamento in molti modi. Rafforzando il suo rapporto con i cittadini con semplici modifiche regolamentari che diano forza alle iniziative legislative popolari (e invece arrivano segnali timidi e inadeguati). Cogliendo tutte le occasioni per mettere in evidenza l’irriducibilità dei diritti fondamentali alla pura logica di mercato (un segnale eloquente è venuto dallo scandalo dei prezzi di farmaci prodotti da Roche e Novartis). Ricostituzionalizzando il diritto del lavoro con la cancellazione dell’articolo che consente negoziati in azienda anche in deroga alla legge, che azzera storiche garanzie, e approvando una legge sulla rappresentanza sulla linea indicata dalla Corte costituzionale. Solo così il Parlamento potrà recuperare un po’ della legittimazione perduta per il fatto d’essere stato eletto con una legge incostituzionale e per l’ormai radicata sfiducia dei cittadini.

«La crisi lavora a divi­dere. Ma un pen­siero di sini­stra dovrebbe essere in grado di acco­gliere le mille sfu­ma­ture cul­tu­rali, poli­ti­che e sociali che fanno della sini­stra l’unica voce cri­tica con­tro la deriva di un modello fal­li­men­tare che ormai si affida al mar­ke­ting poli­tico».

Il manifesto, 18 marzo 2014
La noti­zia è inso­lita e cla­mo­rosa. L’Arci, il gigante dell’associazionismo ita­liano, l’organizzazione ricrea­tiva e cul­tu­rale nata nel ’57, con 116 comi­tati pro­vin­ciali e un milione e cen­to­mila soci, dopo quat­tro giorni di con­fronto non è riu­scita a con­clu­dere i lavori del suo sedi­ce­simo con­gresso. Al momento di com­porre le diver­sità, tra un’anima legata alle case del popolo e ai cir­coli emi­liani e toscani e una sen­si­bi­lità più movi­men­ti­sta cre­sciuta nelle lotte sociali, molto al sud con­tro la cri­mi­na­lità, si è pre­fe­rito alzare ban­diera bianca e rin­viare tutto a un con­gresso bis. Nel frat­tempo l’associazione sarà gover­nata da un comi­tato di reg­genza diretto dal pre­si­dente uscente, Paolo Beni.

Nono­stante ci fos­sero tutti le avvi­sa­glie di un con­flitto, testi­mo­niato dalla sfida di due can­di­dati alla suc­ces­sione, tut­ta­via l’esito di una rot­tura ha colto di sor­presa chi fino all’ultimo aveva spe­rato in una pos­si­bile con­vi­venza delle dif­fe­renze. Per­ché così dovrebbe essere in una asso­cia­zione ricca di sto­ria, di espe­rienze sociali, di bat­ta­glie civili. Per­ché l’Arci non è un par­tito dove que­stioni di potere spesso fanno pre­mio sui con­te­nuti. Per­ché siamo in un momento di sban­da­mento forte della sini­stra, e la presa del potere di Renzi è lì a ricordarcelo.

Non essere riu­sciti nell’impresa di valo­riz­zare i diversi orien­ta­menti per farne la forza dell’associazione, per ren­derla più capace di coniu­gare la tra­di­zione, la soli­dità con i mili­tanti più vicini alle mobi­li­ta­zioni e ai momenti di lotta di que­sti anni di crisi (appunto l’obiettivo dif­fi­cile ma ambi­zioso del con­gresso), è un brutto segnale. Pur­troppo non l’unico a col­pire l’arcipelago della sini­stra in que­sto momento.

Abbiamo appena visto un esor­dio dif­fi­cile della Lista per Tsi­pras, alla quale pro­prio dall’Arci viene un soste­gno forte e capil­lare già nella rac­colta delle firme e nelle can­di­da­ture. E le cro­na­che di que­sto fine set­ti­mana rac­con­tano di scon­tri (anche fisici) per i pac­chetti di voti nelle urne delle pri­ma­rie degli orga­ni­smi peri­fe­rici del Pd (e in pro­spet­tiva per le can­di­da­ture alle pros­sime ele­zioni europee).

Nascon­dere o addol­cire la pil­lola non serve. Meglio guar­dare in fac­cia i nostri limiti e cer­care di trarne qual­che inse­gna­mento. Come fa, egre­gia­mente, uno spot che pub­bli­cizza la Lista per Tsi­pras. Un gruppo di ragazzi attorno al tavolo di un bar che ini­ziano bal­dan­zosi a rife­rire sulla buona rac­colta di firme ma che poi si ritro­vano a liti­gare per­ché cia­scuno pensa che il suo par­ti­cu­lare sia il solo, il vero, l’unico degno di essere rappresentato.

La crisi evi­den­te­mente lavora a divi­dere, social­mente innan­zi­tutto e quindi poli­ti­ca­mente. Ma un pen­siero di sini­stra dovrebbe esserne così con­sa­pe­vole da essere in grado di met­tere in campo tutti gli anti­corpi per neu­tra­liz­zare divi­sioni ideo­lo­gi­che che hanno perso da gran tempo la loro forza, per acco­gliere invece le mille sfu­ma­ture cul­tu­rali, poli­ti­che e sociali che fanno della sini­stra l’unica voce cri­tica con­tro la deriva di un modello fal­li­men­tare che ormai si affida al mar­ke­ting poli­tico come l’ultima ancora di con­senso. La crisi dovrebbe essere un’occasione di rin­no­va­mento, lo spec­chio in cui leg­gere gli errori, non l’alibi per raschiare il barile

Renzi e il lavoro: torniamo al bracciantato. Una chiara descrizione del

jobs act del presidente del Consiglio. La rottamazione dei valori fondanti della costituzione, di un secolo di lotte dei lavoratori, prosegue indisturbata, tra qualche mugugno e molte complicità. Dal "diario n. 252" dell'autore

Il governo Renzi, viene rappresentato come l’ultima spiaggia, lui stesso ne è convinto. Si tratta di un punto di vista che lo rafforza, non crede di potere trovare ostacoli e quindi osa.

Ha un’opinione pubblica favorevole, i critici di Renzi, non molti per la verità, si attaccano al suo stile, alle modalità comunicative, all’arroganza, perché non pare concreto (dove troverà le risorse?). Ma sono battuti dalla capacità di trovare slogan accattivanti, quello dei “dieci miliardi in tasca a dieci milioni di italiani” è un capolavoro comunicativo.

Ma se tralasciassimo quello che è un annunzio e ci si soffermasse su gli atti concreti mi sembra che sul quel poco ci sia tanto da dire. L‘unico atto concreto è quello sul lavoro, che mi pare non solo sbagliato in se stesso ma che disegni una società da rigettare. Dopo la riforma Fornero/Monti, non si pensava si potesse andare oltre, ma quella proposta da Renzi/Poletti ha fatto il miracolo.

Vediamo: i contratti a tempo determinato passano dalla durata di un anno a quella di tre anni; prima era possibile solo una proroga con dichiarazione della causale, ora si passa ad otto proroghe senza bisogna di dare spiegazioni sulle cause; prima tra un contratto e un altro dovevano passare 10-20 giorni, ora possono essere continuativi; in precedenza il numero dei contratti a tempo determinato doveva essere stabilito dai contratti collettivi, ora se il contratto collettivo non prevede il limite ci si assesta al 20% dell’organico.

Mi pare di poter dire che il mercato del lavoro viene disegnato sulle spalle dei contratti a termine, il contratto a tempo indeterminato riguarderà solamente l’organico di cui l’azienda non potrà fare a meno sul piano organizzativo e qualitativo, mentre il lavoro di routine, quello pesante, a bassa professionalità verrà assegnata a contratti a tempo determinato, lunghi tre anni nella migliore delle ipotesi, ma sempre insicuri, infatti possono essere interrotti a discrezione dell’azienda. Si può sottolineare che con questi contratti non è possibile che il lavoratore riesca a contrarre un mutuo per la casa, grave ma c’è di peggio. Sembra più grave la civiltà del lavoro che questi contratti delineano: precaria, marginale, sottomesso, ricattato. Non è questa la civiltà del lavoro che la sinistra, per quanto moderna, può accettare.

Se poi a questo capolavoro si aggiunge la parte dell’apprendistato siamo all’improntitudine: non c’è nessun impegno di assumere gli apprendisti, non è previsto un contratto (impegno) scritto, non c’è obbligo di una formazione teorica. L’apprendista è solamente carne da lavoro.

Insomma, non eravamo mai arrivati a fissare le regole secondo le quali l’impiego del lavoratore ricade sotto l’arbitrio del datore di lavoro. Su questa strada si può arrivare al contratto giornaliero, come quello dei braccianti meridionali sotto il caporalato.

I partiti e i populismi si dividono tra quanti non vogliono l'Europa e quantiu predicano l'austerity o l'hanno praticata. Gli italiani vogliono invece una Europa diversa. Solo la lista con Tsipras sembra esprimerli. Il manifesto, 16 marzo 2014

L’entusiasmo per l’Unione euro­pea è com­pren­si­bil­mente in calo per il modo ini­quo e con­tro­pro­du­cente in cui la si sta costruendo. Tut­ta­via, l’europeismo e la con­sa­pe­vo­lezza dei van­taggi dell’unificazione man­ten­gono radici più dif­fuse nei cit­ta­dini di quanto i poli­tici per­ce­pi­scono. Si è creato un ulte­riore carenza di rap­pre­sen­tanza demo­cra­tica che la lista L’altra Europa con Tsi­pras potrebbe riempire.

Un recente son­dag­gio rea­liz­zato per la Com­mis­sione euro­pea (Euro­ba­ro­me­tro stan­dard 80) rivela che per il 74% degli ita­liani, i 28 stati dell’Unione dovreb­bero coo­pe­rare di più per risol­vere i pro­blemi che l’affliggono; il 65% ritiene che l’Italia non possa affron­tare da sola le sfide della glo­ba­liz­za­zione; il 53% è favo­re­vole all’Unione eco­no­mica e mone­ta­ria e il 50% crede che per il nostro paese non ci sia un futuro migliore fuori dall’Ue (con­tro il 30% che lo ritiene possibile).

Tut­ta­via una quota cre­scente di ita­liani, pas­sata dal 46% al 55%, pensa che l’Ue non stia andando nella giu­sta dire­zione ed è pes­si­mi­sta sul suo futuro; in par­ti­co­lare, essi riten­gono che la disoc­cu­pa­zione sia il prin­ci­pale pro­blema e (il 64%) che l’Ue, fau­trice delle poli­ti­che di rigore, non stia creando i pre­sup­po­sti per ridurla. In defi­ni­tiva, la mag­gio­ranza degli ita­liani è molto pre­oc­cu­pata per le poli­ti­che comu­ni­ta­rie e i loro effetti nega­tivi; tut­ta­via, riba­di­sce la sua con­vin­zione di fondo euro­pei­sta, la con­ve­nienza del nostro paese a pun­tare sull’Ue e la neces­sità di acce­le­rane la costru­zione, ma cam­biando il modo di realizzarla.

La que­stione su cui riflet­tere è che que­ste valu­ta­zioni lar­ga­mente dif­fuse tra gli ita­liani tro­vano una scar­sis­sima rap­pre­sen­tanza nelle forze poli­ti­che pre­senti nel nostro Par­la­mento.
Come è noto, Forza Ita­lia – che esprime circa il 25% dell’elettorato - ha posi­zioni tra­di­zio­nal­mente euro­scet­ti­che e il governo Ber­lu­sconi, non solo ha con­di­viso le poli­ti­che di rigore della Com­mis­sione euro­pea (che a parole cri­tica), ma è andato oltre, inse­rendo nella Costi­tu­zione il vin­colo del bilan­cio pub­blico in pareg­gio.
Nel Par­tito Demo­cra­tico — quasi il 30% degli elet­tori — le posi­zioni euro­pei­ste sono gene­ra­liz­zate, ma pur con inte­res­santi ecce­zioni pre­vale l’adesione con­for­mi­stica alla visione rigo­ri­sta comu­ni­ta­ria che giu­sta­mente pre­oc­cupa la mag­gio­ranza degli ita­liani. D’altra parte, le deci­sioni iper­rea­li­ste dei governi Ber­lu­sconi e Monti sono pas­sate in Par­la­mento con i voti deter­mi­nanti del Pd.
Grillo – le cui posi­zioni fanno testo per il Movi­mento 5 Stelle, che esprime il 20–25% dell’elettorato — vuole non solo uscire dall’Euro e dall’Ue, ma anche rom­pere l’unità d’Italia. I pic­coli par­titi di destra e di cen­tro — che arri­vano a circa il 15% — o sono con­trari all’Unione euro­pea (come Lega e Fra­telli d’Italia) o con­di­vi­dono le poli­ti­che di rigore (come Ncd e Udc).
E’ in que­sto qua­dro con­trad­dit­to­rio tra le posi­zioni dei cit­ta­dini e quelle delle forze poli­ti­che che stiamo andando alle ele­zioni euro­pee; è in esso che s’inserisce la nuova lista L’altra Europa con Tsi­pras. Essa si è costi­tuita per soste­nere nel Par­la­mento euro­peo un pro­gramma che rigetta la con­tro­pro­du­cente logica eco­no­mica del rigore; vuole cam­biare i trat­tati intrisi della logica che ha por­tato alla crisi e ne impe­di­sce la solu­zione; intende rilan­ciare la cre­scita e l’occupazione su basi social­mente ed eco­lo­gi­ca­mente accet­ta­bili; chiede per l’Ue isti­tu­zioni (anche eco­no­mi­che) demo­cra­ti­ca­mente rap­pre­sen­ta­tive, in grado d’interagire più effi­ca­ce­mente con i mer­cati e con­tra­starne le spe­cu­la­zioni che arric­chi­scono pochis­sime per­sone a danno dello svi­luppo com­ples­sivo.
La distanza tra le posi­zioni mag­gio­ri­ta­rie tra gli ita­liani (gli euro­pei) sull’Unione euro­pea e quelle euro­scet­ti­che o euro­con­for­mi­ste che pre­val­gono tra le forze poli­ti­che allarga il vuoto di rap­pre­sen­tanza democratica. L’altra Europa con Tsi­pras - che nasce rifiu­tando non la poli­tica, ma il suo distacco dalla società cau­sato da molti suoi «pro­fes­sio­ni­sti» - se non rica­drà in quelle pato­lo­gie, in nuove forme di auto­re­fe­ren­zia­lità, nella ripro­po­si­zione di logi­che mino­ri­ta­rie e per­so­na­li­smi, potrà col­mare quel vuoto.

Ecco da dove si potrebbero attingere i soldi necessari per finanziare un poderoso "piano del lavoro, rispettando la Costituzione, riducendo gli armamenti e rendendo progressive le tasse.

Il manifesto, 14 luglio 2014

Sull’home page di un impor­tante quo­ti­diano nazio­nale, per tutta la gior­nata di mer­co­ledì, si ripor­tava la noti­zia che i prov­ve­di­menti di Renzi sareb­bero stati signi­fi­ca­ti­va­mente coperti in que­sto modo: ridu­zione di 1,5 miliardi (per 10 anni per un totale di 15 miliardi) della spesa mili­tare, dimez­za­mento degli F35 (da 90 a 45), ces­sione di una por­tae­rei. Altri gior­nali e agen­zie ripor­ta­vano anti­ci­pa­zioni simili. Alla Camera, depu­tati e espo­nenti del governo avva­lo­ra­vano que­sta ipo­tesi. Qual­cuno aveva per­sino par­lato di una tele­fo­nata tra Renzi e Obama durante la quale il nostro pre­si­dente del con­si­glio avrebbe spie­gato i motivi della ridu­zione dell’acquisto degli F35.

È evi­dente che que­ste noti­zie non sono state inven­tate e non sono il frutto di una «leg­genda metro­po­li­tana»: se sono cir­co­late il tema era evi­den­te­mente all’ordine del giorno. Più che una resi­stenza del Dipar­ti­mento di Stato ame­ri­cano, sem­bra che il vero osta­colo sia stato posto dai ver­tici delle forze armate, dalla mini­stra della Difesa e dal pre­si­dente della Repub­blica. Non sem­bra certo casuale che nel momento in cui si discu­teva di tagliare le spese mili­tari per finan­ziare il taglio dell’Irpef, pro­prio nello stesso giorno, il pre­si­dente Napo­li­tano con­vo­cava il Con­si­glio Supremo di Difesa (per il pros­simo 19 marzo) con all’ordine del giorno, tra gli altri punti, la «cri­ti­cità rela­tive all’attuazione della legge 244 di riforma ed impatto sulla difesa del pro­cesso di revi­sione della spesa pub­blica in corso».

La legge 244 (una legge delega appro­vata alla fine della scorsa legi­sla­tura con i decreti di attua­zione da poco emessi) è la riforma dello stru­mento mili­tare in cui, tra l’altro, si pre­vede un par­ziale con­trollo perio­dico del par­la­mento sulle scelte rela­tive ai sistemi d’arma, anche gli F35. E tra l’altro la Com­mis­sione Difesa ha uti­liz­zato il dispo­si­tivo della legge 244 per valu­tare l’efficacia e la vali­dità di que­sto sistema d’arma: tra pochi giorni la Com­mis­sione con­clu­derà i suoi lavo­ra­tori e ci farà sapere a quali con­clu­sioni è giunta. Il mes­sag­gio della con­vo­ca­zione — allar­mata — del Con­si­glio Supremo di Difesa è chiaro: uno stop a ogni ipo­tesi di ridu­zione delle spese mili­tari (e a Renzi) e la richie­sta di supe­rare le «cri­ti­cità della legge 244» che impone risparmi alle Forze Armate.

Quindi, i cac­cia­bom­bar­dieri riman­gono quelli — 90 — e sem­pre 14 miliardi dovremo spen­dere nei pros­simi anni per acqui­starli e pro­durli. In più, ieri il Par­la­mento ha votato la pro­roga delle mis­sioni mili­tari all’estero: 600 milioni di costi, altro che ridu­zione delle spese militari.

Come ha più volte ricor­dato la cam­pa­gna Sbi­lan­cia­moci ccArri­viamo a circa 20 miliardi con i quali finan­ziare — oltre che il taglio delle tasse sul lavoro — anche un vero piano del lavoro o misure di red­dito di cit­ta­di­nanza. Tutto que­sto avrebbe un signi­fi­cato sostan­ziale vera­mente impor­tante: per la prima volta si taglie­reb­bero in modo sostan­ziale le spese mili­tari e non la sanità e le pen­sioni. Sarebbe stata la «svolta buona», ma sarà per un’altra volta.

Sotto accusa gli attuali dirigenti dell’Unione europea per crimini contro l’umanità e contro l’economia: distruggere il welfare mediante

l'austerity aumenta la miseria e la morte e non risana l'economia. La Repubblica, 15 marzo 2014
A fine 2012 un gruppo di giornalisti e politici greci presentava alla corte penale internazionale dell’aja una denuncia per sospetti crimini contro l’umanità a carico del presidente della commissione europea (Barroso), della direttrice del fmi (Lagarde), del presidente del consiglio europeo (Van Rompuy), nonché della cancelliera Merkel e del suo ministro delle finanze Schäuble. A sua volta un’attivista tedesca nel campo dei diritti umani, Sarah Luzia Hassel, appoggiava la denuncia con una documentatissima relazione circa le azioni compiute dalle citate istituzioni a danno sia della Grecia che di altri paesi, europei e no. Tutte azioni suscettibili di venir configurate addirittura come crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello statuto di Roma della Corte penale dell’Aja. Si va dalla liquidazione della sanità pubblica alle politiche agricole che hanno affamato milioni di persone; dalla salvaguardia del sistema finanziario a danno dei cittadini ordinari alle ristrette élite che influenzano le decisioni delle istituzioni stesse, sino agli interventi nel campo del lavoro e della previdenza atti a ledere basilari diritti umani. Un altro documento ancora che accusa i vertici UE di gravi forme d’illegalità, simili a quelle testé indicate ma senza etichettarle come crimini contro l’umanità, è stato pubblicato a fine 2013 dal Centro studi di politiche del diritto europeo di Brema, su richiesta della Camera del lavoro di Vienna.

Per quanto è dato sapere i documenti citati sopra giacciono tuttora nei cassetti dei destinatari. Di recente sono però intervenuti fatti nuovi che potrebbero indurre qualche ong o formazione politica a rilanciare le citate denunce. Si veda il rapporto uscito a fine febbraio su Lancet, numero uno delle riviste mediche, circa i danni che sta infliggendo alla popolazione la crisi della sanità in grecia per via delle misure di austerità imposte dalle istituzioni ue. Chi soffre di cancro non riesce più a procurarsi le medicine necessarie, divenute troppo costose. La quota di bambini a rischio povertà supera il 30 per cento. Sono ricomparse, dopo quarant’anni, malaria e tubercolosi. I suicidi sono aumentati del 45 per cento. Chi fa uso di droga non dispone più di siringhe sterili distribuite dal sistema sanitario, per cui utilizza più volte la stessa siringa. Risultato: i casi di infezione HIV rilevati sono passati da 15 nel 2009 a 484 nel 2012.

Un secondo fatto nuovo è che l’Italia, insieme con Spagna, Portogallo e Irlanda, appare avviata sulla stessa strada della Grecia. Anche da noi i tempi di attesa per le visite specialistiche si sono allungati sovente di molti mesi perché i medici che vanno in pensione non sono rimpiazzati. Molti rinviano o rinunciano a visite mediche o esami clinici perché i ticket hanno subito forti aumenti e non riescono più a pagarli. Coloro che vanno in un laboratorio convenzionato si sentono dire che se scelgono la tariffa privata spendono meno del ticket. Molte famiglie non riescono più a mandare i bimbi all’asilo o alla scuola materna perché i posti sono stati ridotti, o la retta è aumentata al punto che non possono farvi fronte.

L’intera questione si può quindi riassumere in questo modo: le politiche di austerità, gli aggiustamenti strutturali, le privatizzazioni imposte agli stati membri dai vertici ue, ovvero dalla cosiddetta troika (bce, fmi e commissione) stanno infliggendo privazioni insostenibili a milioni di cittadini. Come si legge nel rapporto di Lancet, “se le politiche adottate avessero effettivamente migliorato l’economia, allora le conseguenze per la salute potrebbero essere un prezzo che val la pena di pagare. Per contro, i profondi tagli hanno avuto in realtà effetti economici negativi, come ha riconosciuto [perfino] il FMI”. In Italia, non meno che in Grecia, Spagna, Portogallo, la disoccupazione e l’occupazione precaria hanno toccato livelli altissimi. Il PIL ha perso oltre 10 punti rispetto al 2007. La combinazione di micidiali indicatori, quali la deflazione, ossia una forte caduta del livello dei prezzi in molti settori, la domanda aggregata stagnante, più una crescita del PIL che nei prossimi anni continuerà a registrare tassi dell’1 per cento o meno, sta portando le rispettive economie, a cominciare dalla nostra, verso il disastro.

In altre parole, non soltanto i vertici UE hanno dato prova, con le politiche economiche e sociali che hanno imposto, di una scandalosa indifferenza per le persone che vi erano soggette: dette politiche si sono pure dimostrate clamorosamente sbagliate. La questione presenta alcuni punti di contatto con la crisi finanziaria esplosa nel 2008. Allora diversi giuristi americani ed europei parlarono di “crimini economici contro l’umanità”, commessi dai dirigenti dei maggiori gruppi finanziari. Ma il caso odierno della ue presenta una differenza abissale. Nel caso della crisi finanziaria gli attori erano soggetti privati. Nel caso della crisi europea si tratta dei massimi esponenti della dirigenza pubblica della UE, cui è stato affidato l’oneroso impegno di presiedere ai destini di 450 milioni di persone ai tempi della crisi. Nello svolgere detto impegno essi hanno mostrato anzitutto una clamorosa incompetenza della gestione della crisi; hanno scelto di favorire gli interessi dei grandi gruppi finanziari andando contro agli interessi vitali delle popolazioni ue; hanno dato largo ascolto alle maggiori élite europee, e in più di un caso ne fanno parte; hanno mostrato di non tenere in alcun conto le sorti delle persone cui si dirigevano le loro politiche. È mai possibile che non siano chiamate a rispondere per nulla delle illegalità non meno che degli errori che hanno commesso, e delle sofferenze che hanno causato con l’indifferenza se non addirittura il disprezzo dimostrato verso le popolazioni colpite?

Stando al documento di Brema, le violazioni dei diritti umani compiute dai vertici UE, in spregio agli stessi trattati dell’Unione, potrebbero essere portate davanti a varie corti e istituzioni europee, nonché davanti a organizzazioni internazionali quali l’ONU e l’Organizzazione internazionale del lavoro. Senza dimenticare che di crimini e illegalità della UE parlano anche in modo sbrigativo i partiti nazionalisti, ma con una radicale differenza rispetto alle iniziative sopra citate: mediante tali accuse essi vogliono distruggere la UE, mentre lo scopo dovrebbe essere quello di cacciare gli attuali dirigenti della troika e sostituirli con altri, dopo aver proceduto a una approfondita revisione del trattati europei. Mediante la quale si ribadisca sin dall’inizio che nel loro stesso interesse costitutivo, come scrivono i giuristi di Brema, le istituzioni europee debbono prendere sul serio le questioni sociali esistenziali delle cittadine e dei cittadini dell’unione. Non esiste stato di eccezione che possa esentarle da tale dovere, come invece esse stanno facendo con le politiche di austerità.

Nessun taglio, diversamente da quanto annunciato, ai cacciabombardieri F35 americani. Il governo italiano è intenzionato ad andare avanti, nonostante i costi e nonostante le denunce, da parte degli Usa, di numerosi problemi tecnici. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole.

wwwSbilancialoci.info, newsletter, 14 marzo 2014

Matteo Renzi si è accorto che tra i tagli possibili ci sono i cacciabombardieri F35 americani. Ma l'annuncio, come nel suo stile, è durato lo spazio di una dichiarazione. Nessun pericolo per la Lockheed Martin e per i generali italiani. Eppure gli F35 sono la sintesi di tutti gli errori possibili, d'Italia e d'Europa. Con la spesa in bilancio nel 2014 si potevano mettere in sicurezza 1500 scuole. Hanno costi enormi e gli stessi vertici Usa ne denunciano i problemi tecnici non risolti. Sono già stati cancellati o ridimensionati da vari paesi, ma l'Italia è determinata ad andare avanti. Riflettono il monopolio militare americano e il fallimento dell'integrazione europea nella difesa. Mettono l'integrazione delle armi in ambito Nato davanti a quella europea.

L'Europa è sempre più "nano politico", ma le sue armi continuano a crescere, al servizio del potere americano, degli interessi geopolitici dei paesi più ambiziosi – Francia e Gran Bretagna innanzi tutto, le due potenze nucleari del continente – e degli apparati militari-industriali di ciascun paese.

Il "nano politico" si è visto all'opera in Ucraina: subalterno alle ambizioni della Nato, con una politica estera ridotta agli accordi commerciali, ma trascinato poi – era già avvenuto nell'ex-Jugoslavia – nei conflitti innescati da frammentazione politica, declino economico e nazionalismi. Ancora peggio è andata in Siria o in Libia: divisioni europee, pressioni sbagliate per interventi militari, nessuna soluzione politica capace di costruire stabilità e democrazia.

Manca – in Europa come in Italia – la politica: l'idea che la sicurezza possa essere assicurata non dalle armi ma dalle relazioni politiche, economiche e sociali tra diversi – tra stati e all'interno degli stati.

Incapace di accrescere la sua statura politica, il "nano" si arma: l'industria militare ha risentito meno di altre della crisi, le esportazioni verso i conflitti del sud del mondo continuano a crescere, nel suo momento più drammatico la Grecia, che stava tagliando tutto, ha confermato l'acquisto dalla Germania di inutili sottomarini militari. Così vediamo una spesa militare che quasi ovunque non è stata fermata dall'austerità: in Italia si stabilizza mentre cadono le spese sociali, le missioni militari all'estero – nuova vocazione nazionale – si moltiplicano, alla ricerca di ruolo internazionale e nuovi affari. Intanto, nei paesi emergenti la tentazione delle armi si diffonde, il sistema militare si rafforza e con esso instabilità e conflitti.

Un'alternativa all'impotenza della politica e al potere del complesso militare-indistriale c'è: una politica più disarmata e più capace di affrontare i conflitti. Al posto degli F35 ci vogliono corpi di pace e servizio civile europeo. Al posto della liberalizzazione commerciale, accordi per sostenere uno sviluppo sostenibile nei paesi vicini all'Europa, all'est come nel Mediterraneo e in Africa. Al posto del cortocircuito mediatico tra poteri autoritari e conflitti violenti, la pratica di più democrazia.

Il manifesto, 14 marzo
Piano casa. Mutare in «alloggi sociali» ogni edificio esistente o in corso di realizzazione, non risolverà la crisi abitativa perché chi versa in grave disagio non potrà mai accedere a questo segmento di mercato. Si consente soltanto alla speculazione immobiliare di liberarsi di un immenso patrimonio invenduto
Si chiama «Misure urgenti per l’emergenza abi­ta­tiva» il decreto legge sulla casa appro­vato dal governo Renzi. Nella rela­zione di accom­pa­gna­mento si parla a più riprese della grave crisi della casa: fami­glie che non rie­scono a pagare l’affitto e gio­vani senza pro­spet­tive di futuro, e cioè le vit­time prin­ci­pali delle poli­ti­che abi­ta­tive che da venti anni ven­gono appli­care come un dogma. Poli­ti­che soste­nute da un forte tasso di reto­rica: solo l’iniziativa pri­vata, si disse, è in grado di risol­vere il pro­blema della casa. A venti anni di distanza devono inter­ve­nire sull’emergenza a dimo­stra­zione del fal­li­mento delle ricette libe­ri­ste. Ma qui come in altri set­tori, l’ideologia ancora domi­nante non cerca con one­stà intel­let­tuale di fare i conti con il fal­li­mento. Pre­tende di risol­verlo aumen­tando la dose della cura: ad esem­pio si incre­menta la ven­dita del patri­mo­nio immo­bi­liare pub­blico (art. 3), ma il cuore del decreto sta nel quinto comma dell’articolo 11, elo­quente esem­pio di come si tenti di sfrut­tare le sof­fe­renze sociali per mise­ra­bili tornaconti.

In quell’articolo si parla della volontà di incre­men­tare gli «alloggi sociali» che in una delle tante leggi di pri­va­tiz­za­zione (Dm 2.4.2008) ven­gono defi­niti quelli «rea­liz­zati o recu­pe­rati da ope­ra­tori pub­blici e pri­vati, con il ricorso a con­tri­buti o age­vo­la­zioni pub­bli­che quali esen­zioni fiscali, asse­gna­zione di aree od immo­bili, fondi di garan­zia, age­vo­la­zioni di tipo urba­ni­stico». Abi­ta­zioni pri­vate a canone con­cor­dato, dun­que, che si col­lo­cano pur sem­pre all’interno del «mer­cato». Il decreto Renzi afferma che si pos­sono rea­liz­zare «case sociali» sul patri­mo­nio esi­stente attra­verso demo­li­zione e rico­stru­zione e cam­bio di desti­na­zione d’uso, men­tre al comma quat­tro dice che que­ste poli­ti­che si appli­cano anche agli alloggi in costru­zione o «AC150» addi­rit­tura — alle con­ven­zioni urba­ni­sti­che in itinere.

Vediamo di orien­tarci. Oggi il mer­cato abi­ta­tivo è pres­so­chè fermo per eccesso di offerta e il mer­cato degli uffici lan­gue per man­canza di domanda. Con quell’articolo si per­mette di mutare in «alloggi sociali» ogni edi­fi­cio esi­stente o in corso di rea­liz­za­zione, otte­nendo per­fino age­vo­la­zioni pro­ce­du­rali, finan­zia­menti pub­blici e age­vo­la­zioni fiscali (art. 6 e 9). In que­sto modo non si risol­verà l’emergenza abi­ta­tiva per­ché chi versa in grave disa­gio eco­no­mico e sociale non potrà mai acce­dere a que­sto seg­mento di mer­cato: si con­sente sol­tanto alla spe­cu­la­zione immo­bi­liare di libe­rarsi di un immenso patri­mo­nio invenduto.

I sapienti esten­sori del decreto si acca­ni­scono poi in modo inde­gno pro­prio con­tro i teo­rici desti­na­tari della legge. In que­sti anni non sono state costruite case pub­bli­che e l’unico stru­mento a dispo­si­zione delle fami­glie povere e dei gio­vani è stato l’occupazione di edi­fici abban­do­nati. Gesti dolo­rosi per chi le pra­tica con­dan­nato a una pre­ca­rietà senza pro­spet­tive. Ebbene, all’articolo 5 si dice che gli occu­panti non pos­sono avere la resi­denza l’allaccio dell’acqua o della luce. Chi non ha red­dito non ha diritto di lavarsi o di far stu­diare i pro­pri bam­bini con una lam­pa­dina accesa. Que­sto atteg­gia­mento cul­tu­rale che in altri tempi sarebbe stato bol­lato di odio sociale viene giu­sti­fi­cato nella rela­zione con «l’esigenza del ripri­stino della lega­lità». Ottimo sen­ti­mento che sarebbe forse oppor­tuno indi­riz­zare nel ripri­stino delle san­zioni sul falso in bilan­cio, reato ben più grave delle occu­pa­zioni di necessità.

Nel 1903 l’approvazione dello straor­di­na­rio prin­ci­pio delle case popo­lari fu merito di Luigi Luz­zatti, espo­nente di spicco della destra sto­rica ita­liana. Pur essendo eco­no­mi­sta e fon­da­tore di ban­che, scri­veva che solo la mano pub­blica era in grado di risol­vere il pro­blema delle abi­ta­zioni per i ceti poveri. Ma era appunto un eco­no­mi­sta libe­rale non un fame­lico spe­cu­la­tore neo­li­be­ri­sta come coloro che hanno ispi­rato e scritto la legge. Sul Pre­si­dente del con­si­glio è infine meglio tacere: temiamo che non rie­sca nep­pure a com­pren­dere l’urgenza di met­tere mano ad un orga­nico prov­ve­di­mento legi­sla­tivo che inverta il fal­li­men­tare ven­ten­nio libe­ri­sta ad ini­ziare dalle poste di bilan­cio ferme a pochi spic­cioli. Renzi con­ti­nua con «non ci sono i soldi» e «tanto ci pensa il privato».

Se vuoi la guerra prepara la guerra. Il capo dello Stato ha inserito tra i punti all'ordine del giorno del prossimo Consiglio supremo di difesa le "criticità relative all'attuazione della Legge 244", che assicura ai parlamentari il potere di controllo sulle spese militari.

Il Fatto quotidiano, 14 marzo 2014

Giorgio Napolitano prepara un nuovo colpo di mano a difesa degli F35, rischiando di scatenare un grave scontro istituzionale con il Parlamento. Dopo le insistenti voci circolate nei giorni scorsi sul possibile taglio all’acquisito dei cacciabombardieri americani per recuperare risorse finanziarie da destinare al “Piano Renzi” (voci che hanno fatto molto innervosire i nostri generali e gli americani), il presidente della Repubblica ha convocato per mercoledì prossimo il Consiglio supremo di difesa mettendo all’ordine del giorno le “criticità relative all’attuazione della Legge 244″. Tradotto: non è il caso che il Parlamento, come previsto da quella legge approvata nel 2012, abbia potere di controllo sulle spese della Difesa.

Questo diktat presidenziale era già calato lo scorso luglio, all’indomani dell’approvazione delle mozioni parlamentari che, proprio in virtù dell’articolo 4 della legge 244, istituivano un’indagine conoscitiva sulle spese militari in generale e sugli F35 in particolare. Allora i parlamentari reagirono con fermezza, in particolare il capogruppo Pd in commissione Difesa, Giampiero Scanu, che parlò di un intervento fuori luogo, non essendo competenza del Consiglio supremo di difesa sollevare obiezioni su una legge del Parlamento, controfirmata tra l’altro dal presidente della Repubblica.

Stavolta si profila un vero e proprio scontro istituzionale, poiché l’indagine conoscitiva della commissione parlamentare è in fase conclusiva e sulla scrivania di Matteo Renzi c’è già la relazione finale targata Pd che chiede il dimezzamento del programma F35 a vantaggio del programma alternativo Eurofighter. Proprio ieri, mentre Napolitano preparava la sua mossa, il ministro della Difesa Roberta Pinotti, pur non citando gli F35, dichiarava alla stampa che “il governo è pronto a rivedere, ridurre o ripensare anche grandi progetti avviati o ipotizzati, qualora mutati scenari internazionali o economici lo indicheranno come opportuno, nel rispetto del ruolo del Parlamento e delle sue prerogative, così come previsto anche nella stessa legge delega 244″. Tra pochi giorni si capirà se sarà così.

Se Napolitano e Renzi sceglieranno di cedere al pressing di Washington e dei nostri generali decidendo di confermare l’intero programma F35, la loro scelta rischia tra l’altro di costarci ancor più cara del previsto poiché la conseguente cancellazione definitiva della Tranche 3B di Eurofighter (25 aerei per circa due miliardi) comporterebbe il pagamento di una salatissima penale, come dimostra il caso tedesco (richiesto quasi un miliardo di penale su un ordine annullato di tre miliardi) e come confermano fonti industriali.

Se invece l’Italia scegliesse di puntare ancora sugli Eurofighter, che tutti gli esperti considerano nettamente superiori agli F35 (e con ricadute tecnologiche e occupazionali nemmeno paragonabili), il numero di questi nuovi aerei multi-ruolo in dotazione all’Aeronautica salirebbe a 93: con i sei F35 che la Difesa ha ormai già acquistato in modo irreversibile, si avrebbe una flotta aerea più che sufficiente a rimpiazzare il centinaio di Tornado e Amx che andranno in pensione a metà del prossimo decennio, senza dover spendere altre decine di miliardi in F35. Rimarrebbe aperta solo la questione dei quindici F35 a decollo verticale destinati alla Marina in sostituzione degli Harrier imbarcati sulla portaerei Cavour: quella che in cinque anni di servizio è stata usata solo per due missioni “commercial-umanitarie” sponsorizzate da privati perché la Difesa non ha i soldi per pagare il gasolio. Il primo capitolo del Libro Bianco della Difesa di cui tanto si parla dovrebbe intitolarsi “Spese inutili che non ci possiamo permettere”.

il Fattoquotidiano, 9 marzo 2014

Può succedere che, nella pausa di una lunga intervista, ti ritrovi in unacucina affacciata su un terrazzo precocemente fiorito, a far merenda con tè algelsomino. E capita pure che l'intervistato t'interroghi all'improvviso suiromanzi dostoevskijani, l’Idiota in particolare. “A un certo punto, ricorderà,Ippolít dice a Myskin: ‘Principe, lei un giorno ha detto che il mondo saràsalvato dalla bellezza’. In russo la parola mir vuol dire mondo e, allo stessotempo, pace”. Per fortuna partecipa anche la figlia del professor Zagrebelsky,Giulia, studentessa di Lettere. “Abbiamo presente, per esempio, l'orrore in cuivivevano gl'immigrati di Rosarno? È pensabile che fossero in pace con i proprisimili? Chi a Taranto è costretto tra le polveri dell'Ilva, non è nellecondizioni di spirito di chi respira aria di montagna. Chiediamoci se viviamoin un mondo bello o sempre più brutto, in ambienti disumani, dominati dallaviolenza, dalla sopraffazione, dallo sfruttamento. Altro che bellezza! Chesalvi il mondo, questo nostro mondo, è una frase da cioccolatino. Infatti,l'hanno ripetuta in molti, autocompiacendosi, in occasione dell'Oscar a Lagrande bellezza, come se fosse quella di Myskin. Oggi si parla per non direnulla. E si è ascoltati proprio per questo. Il vuoto non disturba e, se è dettoin certo modo, è anche seducente. In un “Miss Italia” di qualche anno fa, unaragazza, per presentarsi, ha pronunciato una frase memorabile: ‘Credo neivalori e mi sento vincente’. Una sintesi perfetta del grottesco che c'è nel tempopresente”.

Professore, che impressione le hanno fatto i discorsi del neo premier?
Mah! Non tutto piace a tutti allo stesso modo. In attesa di smentite, mi par divedere, dietro una girandola di parole, il blocco d'una politica che gira avuoto, funzionale al mantenimento dello status quo. Una volta Eugenio Scalfarie Giuseppe Turani definirono ‘razza padrona’ un certo equilibrio oligarchicodel potere. Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo ‘casta’.Un'interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulladifensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaroche occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno.Vorrei dire agli uomini (e alle donne) nuovi del governo: attenzione, voistessi, a non prendere troppo sul serio la vostra novità.


Il filo rosso di queste conversazioni è come sta l'Italia. Le risposte nonsono quasi mai state incoraggianti: ci siamo chiesti quali responsabilità abbiala classe dirigente.
La classe dirigente – intendo coloro che stanno nelle istituzioni, a tutti ilivelli – è decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione èsemplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non habisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile,contraddittoria. Potremmo usare un'immagine: c'è una lastra di ghiaccio, sopracui accadono le cose che contano, sulle quali però s'è persa la presa; coserispetto a cui siamo variabili dipendenti: la concentrazione del potere economicoe gli andamenti della finanza mondiale, l'impoverimento e il degrado delpianeta, le migrazioni di popolazioni, per esempio. Ne subiamo le conseguenze,senza poter agire sulle cause. Tutto ciò, sopra la lastra. Sotto sta la nostra‘classe dirigente’ che dirige un bel niente. Non tenta di mettere la testafuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare dimetterle in pratica. Che cosa resta sotto la crosta? Resta il formicolio dellalotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici,un formicolio che interessa i pochi che sono in quella rete, che si rinnova percooptazione, che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori. La politicasi riduce alla gestione dei problemi del giorno per giorno, a fini diautoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri. Pensiamo a chierano gli uomini che hanno guidato la ricostruzione dell'Italia dopo la guerra:Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti, per esempio. Se li mettiamoinsieme, non è perché avessero le stesse idee ma perché ne avevano, e le ideedavano un senso politico alla loro azione. Le cose che, oggi, vengono dette efatte sono pezze, sono rattoppi d'emergenza, necessari per resistere, non peresistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro ‘potereper il potere’, è gestione tecnica. La tecnica guarda indietro; la politicadovrebbe guardare avanti.

Il governo Monti qualche disastro tecnico l'ha fatto.
La tecnica come surrogato della politica è un'illusione. Se lei chiama unidraulico perché ha il lavandino otturato, si aspetta che, a lavoro ultimato,lo scarico del lavandino funzioni. Non chiede all'idraulico di cambiarle lacucina. Così, anche i tecnici in politica. Gestiscono i guasti nei dettagli. Igoverni tecnici per loro natura sono conservatori, devono mantenere l'esistentefacendolo funzionare . Dovrebbe essere la politica a immaginare la cucinanuova. E, fuor di metafora, dovrebbe avere di fronte a sé idee di società,programmi, proposte di vita collettiva e, soprattutto nei momenti di crisi comequello che attraversiamo, perfino modelli di società.

Giovani parlamentari e governanti dovrebbero avere un'idea del mondo.
Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei potericui si fa riferimento e di cui si è espressione. Una volta si parlava di bloccosociale, pensando alle ‘masse’ organizzate in partiti di appartenenza, insindacati d'interessi consolidati. Si pensava alle classi sociali. Oggi, siamolontani da tutto questo, in attesa della ricomposizione di qualche strutturasociale che possa esprimere esigenze, richieste e forze propriamente politiche.In questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degliinteressi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraversocooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se lasi volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazionepolitica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sonodiventati per l'appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche diclan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario esbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi. Ecco laparola: il rinnovamento sembra molto spesso un ‘allevamento’. Il resto èapparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo,creativismo ecc. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto inrapporto con l'arteriosclerosi politica che dominava. Ma, la novità di sostanzadov'è? La ‘rottamazione’ a che cosa si riduce? Tanto più che nelleposizioni-chiave del ‘nuovo’ troviamo continuità anche personali che provengonodal ‘vecchio’ e la soluzione di nodi che ci trasciniamo dal passato ècontinuamente accantonata, come il cosiddetto conflitto d'interessi.

L'impellente necessità di modificare l'assetto costituzionale è un refrainche abbiamo ascoltato da più parti, negli ultimi anni.Sì. Le istituzioni possono sempre essere migliorate, rese più efficienti,eccetera. Ma, a me pare che esse siano diventate il capro espiatorio di colpeche stanno altrove, precisamente nelle difficoltà che incontra un aggregato dipotere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme ilquadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuiresempre più scarse, e in presenza per di più d'una contestazione diffusa. Anchein passato, al tempo di Berlusconi al governo, è accaduto qualcosa di simile,ma non di uguale. L'insofferenza nei confronti della Costituzione a me parederivasse allora dalle esigenze di un potere aggressivo. Oggi, l'atteggiamentoè piuttosto difensivo. I fautori delle ‘ineludibili’ modifiche costituzionalidicono: c'è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Malo scopo dominante sembra l'autodifesa. Si tratta di ‘blindarsi’, per usare unaparola odiosa molto in voga. Il terrore delle elezioni, la vanificazione deirisultati elettorali, i ‘congelamenti’ istituzionali in funzione disalvaguardia vanno nella stessa direzione.

“Vanificazione dei risultati elettorali”: una cosuccia non da poco in unademocrazia.
La grande maggioranza degli elettori si è espressa a favore della fine delberlusconismo. Invece è stato ricreato un assetto governativo-parlamentare nelquale un cemento tiene insieme tutto quel che avrebbe dovuto essere separato.Il Parlamento attuale, sebbene non possa considerarsi decaduto per effettodella legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta, dovrebbeconsiderarsi gravemente privato di legittimazione democratica . Ma si fa ormaifinta di niente. Non bisognerebbe far di tutto per rimettere le cose a posto?

Larghe intese versus Grillo.
Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica. Sono il regimedella paralisi, della stasi. Platone paragona il buon politico al buontessitore, al buon nocchiero, al buon medico. Nei suoi dialoghi, non è maidetto che il politico è colui che s'immagina come debba essere la convivenzanella polis: non si aveva nell'antichità l'idea che la politica fosse fatta dicontrapposizione di modelli. L'idea della politica come scelta è una novitàmoderna. Oggi sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta dinatura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c'è politica, e se nonc'è politica non c'è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o diclan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d'immunità.

Quindi siamo senza futuro.
Finché la palude non viene smossa. Perché i cittadini vanno sempre meno avotare? Una volta si diceva ‘son tutti uguali’, intendendo ‘sono tutticorrotti’. Ma oggi è peggio, si pensa: ‘tanto non cambia nulla’. È un effettodella stasi politica. Il Movimento 5 Stelle è nato col dichiarato intento dismuovere la palude, addirittura di investirla con una burrasca che rovescitutto. Una negazione, dunque. Ma, la politica deve contenere anche un intentocostruttivo. Questo, finora, non è visibile o, almeno, non è percepito. Non chesia molto diverso, presso gli altri partiti, solo che questi sono già radicatie godono perciò del plusvalore che viene dall'insediamento istituzionale. Perchi si affaccia, un'idea chiara e forte del ‘chi siamo’ e ‘per cosa ci siamo’ èindispensabile. La tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno lalotta alla corruzione che, di per sé, rischia d'essere solo una competizioneper la sostituzione d'una oligarchia nuova a una vecchia. Oltretutto, la storiae la stessa ‘materia del potere’ mostrano che nella politica la lotta contro lacorruzione è senza prospettiva. Contro la corruzione devono valere leistituzioni di controllo e l'intransigenza dei cittadini. La politica èintrinsecamente debole. La ragione sta in quella che, all'inizio del secoloscorso, è stata definita la ‘ferrea legge delle oligarchie’, il che significache i grandi numeri, per essere governati, hanno bisogno dei piccoli. I piccoli– e l'osservazione vale per tutti, anche per i 5 Stelle – prima o poi sichiudono in se stessi e si alimentano con la corruzione, alimentandola a propriavolta. In difetto di politica, alla corruzione non c'è limite perché essa, neiregimi autoreferenziali, non è la patologia, ma la fisiologia del potere. Se sivuole: è la fisiologia dentro una patologia.

Senza speranza, dunque?
Siamo di fronte a un bivio. Da una parte c'è il progressivo arroccamento che,prima di implodere, passerebbe attraverso misure, dirette o indirette, controla democrazia e la Costituzione. Dall'altra, la rianimazione della politica ela riapertura dei canali della partecipazione, che dovrebbe portare alrafforzamento della democrazia e della Costituzione. La prima strada èpericolosa anche per chi volesse percorrerla, perché l'inquietudine sociale,prima o poi, esploderebbe con esiti che non vorremmo nemmeno immaginare. Laseconda è difficile perché la politica non s'inventa a tavolino scrivendodocumenti, ma si costruisce quotidianamente nel rapporto con i bisogni, leaspirazioni, le difficoltà e i dolori dei cittadini.

Cosa pensa della decisione di non chiedere un passo indietro aisottosegretari indagati?
La giovane ministra per i rapporti col Parlamento ha detto che non si chiede aqualcuno di dimettersi solo perché inquisito. Giusto. Altrimenti, la politicasarebbe in balia non solo, o non tanto, della discrezionalità dei giudici, masoprattutto di denunce pretestuose o calunniose, alle quali il magistrato devedare corso. La questione però sta in quel “solo”. Politica e giustizia hannologiche diverse. Nulla vieta al governo di difendere – fino a un certo punto –i suoi inquisiti con le ragioni che gli sono proprie, cioè con ragionipolitiche. Ma deve spiegare perché lo fa, pur in presenza di motivi disospetto; deve assumersene la responsabilità; deve giustificare perchéabbandona uno e protegge un altro. Non basta dire che si tratta ‘solo’ diprocedimenti penali avviati e non conclusi (con una condanna). La presunzioned'innocenza non c'entra nulla con la dignità della politica.

Lei è mai stato tentato dalla politica?Ciò cui mi sento più adatto è l'insegnamento. Per la politica, soprattutto perla politica, occorrerebbe una vera vocazione. Ricorda la conferenza di MaxWeber intitolata, per l'appunto, la politica come professione-vocazione? Ecco:non sento la vocazione. C'è poi una considerazione che riguarda un potenziale conflittod'interesse. Chi si occupa di attività intellettuali deve essere disinteressatopersonalmente. Ancora citando Weber: non deve cedere alla tentazione di metterese stesso, e i suoi interessi, davanti all'oggetto dei suoi studi. Potrebbeesserci la tentazione di dire cose e sostenere tesi non per amore della verità(la piccola verità che si può andar cercando), ma per ingraziarsi questo o quelpotente che ti può offrire, arruolandoti, una carriera politica.

Perché la politica non attrae più i migliori?Una volta avere in famiglia un deputato o un senatore era come avere uncardinale. Oggi, talora, ci si vergogna perfino. Ha visto quanti ‘rifiutieccellenti’, opposti alla seduzione di un posto al governo? Se la politica nonha prospettive ma è semplicemente un girone d'affari, non servono politici,servono affaristi.

Vota?
Ho sempre votato, malgrado tutto. C'è una pagina di Non c'è futuro senzaperdono del premio Nobel per la Pace e arcivescovo di Città del Capo,Desmond Tutu, in cui si descrive la coda al seggio dei neri del suo Paese che,acquistati i diritti politici dopo l'apartheid, per la prima volta vanno avotare, piangendo. Attenzione a dire che il voto è un orpello.

Cosa pensa dell'Italicum nato dall'accordo tra il Pd e Forza Italia?
Non so che cosa ne verrà fuori. Mi colpisce, comunque, che la legge elettoralesia decisa dagli accordi d'interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi,Alfano), invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tuttii cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamentodelegittimato come l'attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutralepossibile. Mi colpisce che si pensi a una legge che, contro un'indicazioneprecisa della Corte costituzionale, creerebbe una profonda disomogeneitàpolitica tra le due Camere. Mi colpisce che si dica con tanta leggerezza chenon importa, perché il Senato sarà abolito. Mi colpisce che nel frattempo,comunque, si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione trale due Camere impedirà di scioglierle. Mi colpisce che non ci siano reazioniadeguate a questa passeggiata sulle istituzioni.

E l'idea di “diminuire” il Senato?
Vedremo la proposta. Fin da ora, vorrei dire che piuttosto che un pasticcio –interessi frammentati di politici locali con una spruzzata di cultura –,piuttosto che una cosa indefinita, senza una funzione, una propria ragiond'essere stabile e continuativa, meglio l'abolizione radicale. Meglio il nulla,piuttosto che l'umiliazione. Esistono già commissioni paritetiche, per labisogna. Si cerchi di non trattare le istituzioni come merce vile che si vendeal qualunquismo antiparlamentare al prezzo di qualche piccolo risparmio sul‘costo della politica’. I Senati, o ‘seconde Camere’, o ‘Camere alte’ hannoprofonde ragioni d'esistenza. Le loro funzioni, quali che esse specificamentesiano, si giustificano con l'esigenza di introdurre nei tempi brevi dellademocrazia rappresentativa la considerazione d'interessi di più lunga durata,che riguardano – come si dice – le generazioni future. Sono assembleemoderatrici rispetto all'incalzare del consenso elettorale che deve essereincassato a intervalli brevi dall'altra assemblea. La prima Camera ènecessariamente miope; la seconda Camera deve essere presbite. Deve far valerele ragioni della durata su quelle dell'immediatezza. La sua composizione e lesue funzioni dovrebbero tener conto di questa vocazione, essenziale affinché lademocrazia rappresentativa non dilapidi in tempo breve le risorse di tutti,nell'interesse elettorale di qualcuno. Mi pare che i discorsi dei nostririformatori restino molto in superficie, rispetto alla profondità dellaquestione.

Non è un bel momento, anche per le istituzioni di garanzia.
Le istituzioni di garanzia sono la magistratura, dunque anche la cortecostituzionale, e il presidente della Repubblica. Poi c'è la libera stampa, chedovrebbe vigilare nell'esercizio della sua funzione al servizio della pubblicaopinione. Siccome nelle oligarchie, come si è detto, le segrete cose –trattative, patti non dichiarati e dichiarabili, corruzione delle funzionipubbliche – sono fisiologiche, le istituzioni di garanzia e libera stampadovrebbero fare da contraltare quando occorre. In ogni caso, non mescolarsi enon omologarsi.

Il sistema italiano è perfettamente riassunto dal rapporto tra Rai epolitica: è una commissione parlamentare che vigila sul servizio pubblico – esull'informazione che produce – e non il contrario. Ben più che un paradosso.
È uno dei grandi rovesciamenti che ci tocca osservare in questi tempi. Nonl'unico. Pensiamo ad esempio al sistema elettorale. Dovrebbe garantire che labase della vita politica stia presso i cittadini elettori. La logica dellalegge che abbiamo avuto fino a ora e, con ogni probabilità, di quella che avremose la riforma andrà in porto, è invece quella della nomina dall'alto (dellesegreterie dei partiti), con ratifica degli elettori. Uno dei principi delFascismo era: ‘il potere procede dall'alto ed è acconsentito dal basso’.

Torniamo a Weber: cosa può indurre uno studioso a rinunciare a un bene sommoquale l'autonomia?Le risposte più banali sono la seduzione del potere, la carriera. C'è però,credo, la tentazione dell'apprendista stregone o della ‘mosca cocchiera’:pensare di guidare la politica. Quando Carl Schmitt è stato processato aNorimberga, ha osato dire: ‘Non sono io a essere stato nazista, era il nazismoa essere schmittiano’.

Il pericolo non è essere costretti a sostenere certe tesi a tutti i costi?
Se si riferisce all'atteggiamento di molti costituzionalisti nei confrontidell'ultima fase della presidenza di Giorgio Napolitano, direi che è prevalsal'idea che il presidente della Repubblica fosse l'ultimo baluardo, al di là delquale il caos, il disastro, il fallimento. Ciò ha portato a giustificarel'assunzione di compiti e il compimento di atti che nella storia costituzionalerepubblicana, non si erano mai incontrati. Al punto che si parla ormai comecosa ovvia, non problematica, d'una repubblica presidenziale che ha preso ilposto del sistema parlamentare. Tutto ciò si è manifestato in un attivismofinora sconosciuto. Ma è stato un attivismo orientato a quella che si diceessere la stabilità e la continuità, e che si traduce in conservazione. Mi pareche si possa dire che è prevalsa la paura del nuovo, il pessimismo politico.Solo apparentemente per paradosso, l'attivismo costituzionale è coinciso con ilconservatorismo politico. La Costituzione, prevedendo un ruolo neutrale e superpartes, del presidente della Repubblica, dà, mi pare, un'indicazione opposta:l'imparzialità costituzionale per consentire le innovazioni politiche, ilrinnovamento della vita politica. Ottimismo politico.

Il manifesto, 12 marzo 2014
Quello che più si sarebbe dovuto scon­giu­rare sta invece pur­troppo acca­dendo. Ancora una volta è il rove­scia­mento secco di un abu­sato detto latino a domi­nare la scena poli­tica ita­liana: ubi minor maior ces­sat. Certo, lo sap­piamo, quando ci si avven­tura sul ter­reno elet­to­rale sono le liste, le can­di­da­ture, l’equilibrio tra cor­renti e com­po­nenti, le ban­diere e i distin­tivi, la visi­bi­lità degli uni e degli altri, a det­tare legge. Quando la par­te­ci­pa­zione è una firma e l’azione un voto può acca­dere que­sto, e anche di peggio.

E quando a com­pe­tere non sono solo e soprat­tutto i par­titi, ma anche gli espo­nenti della cosìd­detta società civile le cose non sem­brano poi cam­biare di molto. Si poteva spe­rare però che la lista Tsi­pras, sce­gliendo di par­lare d’Europa in greco, riu­scisse almeno a intro­durre un diverso ordine del discorso. Riu­scisse cioè a sacri­fi­care le ten­sioni, le riva­lità, le con­tro­ver­sie, che da sem­pre attra­ver­sano la nostra pro­vin­cia, a una sorta di “unità anti­na­zio­nale”. Ma gli ultimi eventi, il ritiro delle can­di­da­ture, per diverse ragioni, di Vale­ria Grasso e Anto­nia Bat­ta­glia, non­ché le con­se­guenti dimis­sioni di Paolo Flo­res d’Arcais e Andrea Camil­leri dal comi­tato dei garanti, sem­brano muo­vere in tutt’altra dire­zione. Quella che risponde ai diversi desi­de­rata di chi si illude di stare lavo­rando, per que­sta via tra­versa, alla rifon­da­zione di una sini­stra che più ita­liana non si può.

Su una scala euro­pea sarebbe, infatti, un chiaro indi­zio di fol­lia pen­sare di pas­sare al vaglio i curr­cula e i quarti di nobiltà poli­tica di tutti i can­di­dati delle liste che appog­giano Ale­xis Tsi­pras. Ma non è forse que­sto lo spa­zio dell’azione a cui aspi­riamo? Lo riba­di­sce lo stesso Ale­xis Tsi­pras in una cor­tese let­tera di rispo­sta a Flo­res e Camil­leri nella quale insi­ste sull’unità neces­sa­ria a pro­iet­tarsi nella dimen­sione con­ti­nen­tale, «supe­rando con­ti­nue ten­sioni e pole­mi­che» e dichia­ran­dosi fino in fondo al fianco di Bar­bara Spi­nelli, non a caso la figura più lon­tana ed estra­nea agli equi­li­bri­smi poli­tici nazionali.

Pos­siamo capire che Paolo Flo­res e Andrea Camil­leri ten­gano a quella purezza di imma­gine cara agli intel­let­tuali demo­cra­tici. Ma è già meno com­pren­si­bile che una mili­tante impe­gnata sul ter­ri­to­rio come Anto­nia Bat­ta­glia non fac­cia distin­zione tra il piano mate­riale delle lotte, nella fat­ti­spe­cie l’Ilva di Taranto, sul quale è bene non fare sconti a chi ha gover­nato quella regione e quella que­stione, e il piano delle ele­zioni euro­pee, dove la pre­senza di can­di­dati pro­ve­nienti da Sel è del tutto irri­le­vante rispetto ai con­te­nuti euro­pei­sti e anti­li­be­ri­sti che dovreb­bero ispi­rare la lista Tsi­pras. La per­dita di que­sta distin­zione di piani risulta nefa­sta per entrambi. Spin­gendo da una parte i movi­menti a farsi carico di una qual­che eco elet­to­rale delle pro­prie azioni e, dall’altra, le liste a rispec­chiare equi­li­bri e idio­sin­cra­sie delle diverse com­po­nenti di movi­mento, pre­ten­dendo, poi, di rap­pre­sen­tarle e rac­co­glierne le “istanze”.

E’ uno sce­na­rio cupo a cui già abbiamo assi­stito tra il 2001 e il 2003. Lo scopo della cam­pa­gna elet­to­rale sotto le inse­gne di Tsi­pras è, in primo luogo, quello di favo­rire la dif­fu­sione di una cul­tura euro­pea anti­li­be­ri­sta restia a tro­vare rifu­gio nel ritorno alle sovra­nità nazio­nali, cer­cando di attrarre in quest’orbita il più ampio ven­ta­glio di forze pos­si­bili. Non certo quello di sosti­tuire le diverse espres­sioni del con­flitto sociale nei ter­ri­tori d’Europa. E’ bene chia­rirlo per tempo, prima che voli qual­che pie­tra ad Atene, Lon­dra, Ber­lino o Roma, met­tendo in sub­bu­glio e in allarme gli “euro­pei­sti insu­bor­di­nati”, ma non troppo. Siamo ancora in tempo a ragio­nare e a cor­reg­gere il tiro.

Il film di Sorrentino esprime il vuoto d'una certa Roma che difficilmente si immagina dall'esterno: una società sfatta. Ma lo sfacelo di quella Roma (di quella' Italia) è sottolineato dai commenti elogiastici raccolti da Travaglio: per una volta con troppo garbo.

Il Fatto quotidiano, 6 marzo 2014

Dopo gli Oscar per i migliori film, ci vorrebbe un Oscaretto per i migliori commenti italiani agli Oscar. Provinciali, retorici, cialtroni, pizzaemandolineschi. Un po’ come dopo le partite dei Mondiali quando vince l’Italia: il patriottismo ritrovato, l’orgoglio tricolore, il riscatto nazionale, l’ottimismo della volontà, la metafora del Paese che rinasce, il sole sui colli fatali di Roma. Questa volta però, con l’Oscar a La grande bellezza, c’è un di più: l’esultanza di chi s’è fermato al titolo, senza capire che è paradossale come tutto il film. Ecco: quello di Sorrentino è il miglior film straniero anche e soprattutto in Italia. Il Corriere fa dire al regista che “con me vince l’Italia”, ma è altamente improbabile che l’abbia solo pensato: infatti ha dedicato l’Oscar alla famiglia reale e artistica, al Cinema e agli idoli adolescenziali (compreso – che Dio lo perdoni – Maradona, inteso però come il fantasista del calcio, non del fisco).

Eppure Johnny Riotta, sulla Stampa, vede nel film addirittura “un monito” e spera “che la vittoria riporti un po’ di ottimismo in giro da noi”. E perché mai? Pier Silvio B., poveretto, compra pagine di giornali per salutare l’’”avventura meravigliosa” sotto il marchio Mediaset. Sallusti vede nell’Oscar a un film coprodotto e distribuito da Medusa la rivincita giudiziaria del padrone pregiudicato (per una storia di creste su film stranieri): “Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati”. Ora magari Ghedini e Coppi allegheranno l’Oscar all’istanza di revisione del processo al Cainano.

“Oggi – scrive su Repubblica Daniela D’Antonio, moglie giornalista di Sorrentino – ho scoperto di avere tantissimi amici”. Infatti Renzi invita “Paolo per una chiacchierata a tutto campo”. Napolitano sente “l’orgoglio di un certo patriottismo” per un “film che intriga per la rappresentazione dell’oggi”. Contento lui. Alemanno, erede diretto dei Vandali, Visigoti e Lanzichenecchi, vaneggia di “investire nella bellezza di Roma e nel suo immenso patrimonio artistico”. Franceschini, ex ministro del governo Letta che diede un’altra sforbiciata al tax credit del cinema, sproloquia di un “Paese che vince quando crede nei suoi talenti” e di “iniezione di fiducia nell’Italia”. Fazio, reduce da un Sanremo di rara bruttezza dedicato alla bellezza, con raccapricciante scenografia color caco marcio, vuole “restituire” e “riparare la grande bellezza”. Il sindaco Marino rende noto di aver “detto a Paolo che lo aspetto a Roma a braccia aperte per festeggiare lui e il film, per il prestigio che ha donato alla nostra città e al nostro Paese”. Ma che film ha visto? È così difficile distinguere un film da una guida turistica della proloco?

In realtà, come scrive Stenio Solinas sul Giornale, quello di Sorrentino “è il film più malinconico, decadente e reazionario degli ultimi anni, epitaffio a ciglio asciutto sulla modernità e i suoi disastri”. Il referto medico-legale in forma artistica di un Paese morto di futilità e inutilità, con una classe dirigente di scrittori che non scrivono, intellettuali che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, imprenditori da buoncostume, chirurghi da botox, donne di professione “ricche”, cardinali debolucci sulla fede ma fortissimi in culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano brave persone, politici inesistenti (infatti non si vedono proprio). Una fauna umanoide disperata e disperante che non crede e non serve a nulla, nessuno fa il suo mestiere, tutti parlano da soli anche in compagnia e passano da una festa all’altra per nascondersi il proprio funerale. Si salva solo chi muore, o fugge in campagna. È un mondo pieno di vuoto che non può permettersi neppure il registro del tragico: infatti rimane nel grottesco. Scambiare il film per un inno al rinascimento di Roma (peraltro sfuggito ai più) o dell’Italia significa non averlo visto o, peggio, non averci capito una mazza. Come se la Romania promuovesse Dracula a eroe nazionale e i film su Nosferatu a spot della rinascita transilvana.

«Per eli­mi­nare ogni equi­voco dico subito che sosterrò la lista Tsi­pras e la voterò». Ste­fano Rodotà chia­ri­sce la natura delle osser­va­zioni pub­bli­cate in un recente arti­colo da «La Repub­blica» che hanno sca­te­nato una ridda di inter­pre­ta­zioni «in base ad un titolo che non era mio – afferma – In realtà ho cer­cato di fare un ten­ta­tivo di ana­lisi poli­tica. Ci viene detto che siamo in emer­genza, che i numeri non ci sono e che Renzi è l’ultima spiag­gia. Que­sto è un modo per blin­dare il suo governo. Una cosa inam­mis­si­bile. Io ritengo invece che il ruolo della poli­tica stia pro­prio nel pro­get­tare vie d’uscita dalle situa­zioni pre­sen­tate come emer­gen­ziali. E non credo, come invece fanno alcune inter­pre­ta­zioni die­tro­lo­gi­che, che la lista Tsi­pras, i tran­sfu­ghi del Movi­mento 5 Stelle, i depu­tati di Civati o Sel pos­sano dive­nire una stam­pella per il Pd. È un ragio­na­mento poli­ti­ci­stico che fran­ca­mente non mi interessa».

Ha comun­que espresso alcune per­ples­sità sulla lista Tsipras…
Con­si­de­rata l’importanza della situa­zione, non voglio dare rile­vanza a quelli che pos­sono essere sbri­ga­ti­va­mente con­si­de­rati i rischi che corre que­sta lista, ma ai pro­blemi veri che stanno emer­gendo. Non mi sono affatto ignote le dif­fi­coltà legate alla com­po­si­zione delle liste elet­to­rali, in que­sti casi ci sono sem­pre con­flitti e con­tra­sti. Non si può tut­ta­via tra­scu­rare la dif­fe­renza che c’è tra una valu­ta­zione e la scelta delle per­sone. Que­sto pro­blema si può riflet­tere sulla cam­pa­gna elet­to­rale. I pro­blemi ci sono e biso­gna affron­tarli adesso. Anche per evi­tare che ven­gano stru­men­ta­liz­zati in seguito.

Qual è il primo pro­blema che vede?
Que­sta lista di cit­ta­di­nanza sarà un taxi che por­terà, come mi auguro, dei par­la­men­tari a Bru­xel­les, ma che in seguito si ripar­ti­ranno in gruppi diversi? È un’ipotesi, certo, che secondo me non dovrebbe essere con­fusa con il neces­sa­rio plu­ra­li­smo che una lista simile deve espri­mere. Ma se que­sta ope­ra­zione, che è impor­tan­tis­sima per l’Italia, dovesse dis­sol­versi subito dopo il voto, sarebbe cer­ta­mente un problema.

Si rife­ri­sce al rap­porto tra il gruppo dei socia­li­sti di Schultz e quello della sini­stra euro­pea che ha can­di­dato Tsi­pras alla pre­si­denza della Com­mis­sione Ue?
Mi pare che si vada mate­ria­liz­zando que­sto pro­blema, anche se i pro­mo­tori della lista riten­gono che sia pos­si­bile risol­verlo. Biso­gna averne con­sa­pe­vo­lezza evi­tando di pen­sare che ogni pro­ble­ma­tiz­za­zione leda la mae­sta della lista Tsi­pras. Per me que­sto è un pas­sag­gio dif­fi­cile, ma essen­ziale, da affrontare.
La sug­ge­stione dell’esperienza di Siryza è molto forte, ma sem­bra fuori dalla por­tata delle sini­stre ita­liane. Un per­corso simile potrebbe nascere da que­sta lista?
L’Altra Europa con Tsi­pras non esprime un sog­getto sociale già costruito e sta­bi­liz­zato. Il rife­ri­mento a Syriza potrebbe essere d’aiuto per evi­tare di rin­chiu­derla in un con­te­sto auto­re­fe­ren­ziale. Ma il lavoro da fare è tan­tis­simo. Siryza si è for­mata dopo un’operazione poli­tica e di inse­dia­mento sociale impor­tante. Que­sta cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea non può costruire un sog­getto sociale, ma dovrebbe essere capace di tro­vare un modo per fare espri­mere que­ste esi­genze in maniera com­pren­si­bile e coerente.

Sono state sol­le­vate per­ples­sità sulla scelta di per­sone note come Bar­bara Spi­nelli, Adriano Pro­speri o Moni Ova­dia di dimet­tersi dopo l’eventuale ele­zione. Non crede che biso­gne­rebbe evi­tare i «can­di­dati civetta»?
Hanno giu­sti­fi­cato que­sta deci­sione per un fatto di one­stà e di tra­spa­renza per gli elet­tori. Così facendo vogliono dare il mas­simo soste­gno e respon­sa­bi­lità a chi par­te­cipa alla lista. Ho apprez­zato molto le loro ragioni. Altri, a comin­ciare da Ber­lu­sconi, si sono fatti eleg­gere per trai­nare una lista e poi non sono mai andati a Bru­xel­les. La mia non è un obie­zione, e non intendo cal­va­care chi la sta facendo. Si tratta però di un tema già sol­le­vato nei mondi a cui fa rife­ri­mento la lista Tsi­pras e rischia di essere ripro­po­sto. Non voglio fare l’elogio dell’importanza della comu­ni­ca­zione, ma biso­gna usare il lin­guag­gio più adeguato.

È stato dato rilievo alla con­trap­po­si­zione tra le can­di­da­ture di Sonia Alfano e Luca Casa­rini, un con­flitto impro­prio con­si­de­rate le regole poste dagli stessi «garanti» della lista per i quali Alfano era già in par­tenza incan­di­da­bile per avere rico­perto inca­ri­chi poli­tici pre­ce­denti. Un epi­so­dio che sem­bra tra­durre due idee di sini­stra: la prima incen­trata sulla lega­lità e la società civile, la seconda sui diritti sociali e i movi­menti. Potranno mai coesistere?
Di certo non sono incom­pa­ti­bili. Tra l’altro, que­sto sta già avve­nendo da tempo, ad esem­pio con «Libera» di Don Luigi Ciotti. Ma il discorso è senz’altro più ampio e riguarda la grande que­stione dell’unione tra diritti civili e sociali, tra i diritti delle per­sone e quelli del lavoro. Il pro­blema riguarda il modo in cui è pos­si­bile sal­dare diritti costi­tu­zio­nali e diritti sociali. È la pro­spet­tiva sol­le­vata da Gustavo Zagre­bel­sky in una recente inter­vi­sta su Il Mani­fe­sto, una per­sona che non mi sem­bra affatto insen­si­bile al rispetto della logica della lega­lità. Su que­sto punto nem­meno io sono reti­cente. La lega­lità richiede un’idea forte di mora­lità pub­blica, non c’è alcun dubbio.

In cosa si distin­gue que­sto approc­cio dai discorsi pre­va­lenti sulla «cul­tura» della legalità?
Risponde ad una pro­spet­tiva poli­tica che ha solide basi cul­tu­rali. Io ci credo molto e vedo cre­scere la con­sa­pe­vo­lezza dal refe­ren­dum sull’acqua bene comune dal 2011 in poi. Per que­sto vado a Parma da Piz­za­rotti (5 Stelle) che ha pre­sen­tato un pac­chetto di sette deli­bere dalle unione civili al garante dei dete­nuti alla cit­ta­di­nanza civica ai bam­bini degli immi­grati. Per la stessa ragione appog­gio la Fiom di Lan­dini e gli auto­con­vo­cati che hanno il merito di non essersi accon­ten­tati degli stru­menti sto­rici dell’azione sin­da­cale, come lo scio­pero, e hanno con­dotto una bat­ta­glia costi­tu­zio­nale sulla riam­mis­sione dei rap­pre­sen­tanti sin­da­cali nelle fab­bri­che. Per affron­tare l’asimmetria con il potere oggi biso­gna costruire una cul­tura poli­tica e giu­ri­dica alta, non limi­tan­dosi a solu­zioni emer­gen­ziali o fram­men­tate. La lista Tsi­pras, alla quale par­te­cipa anche il movi­mento per l’acqua, potrebbe avere un ruolo impor­tante pro­muo­vendo una coa­li­zione sociale, esat­ta­mente quello che cerco di fare a par­tire dalla mani­fe­sta­zione del 12 otto­bre. Con Spi­nelli, Pro­speri o Ova­dia, la lista esprime que­sta aspi­ra­zione e una grande aper­tura cul­tu­rale. Esat­ta­mente il con­tra­rio di chiu­sure iden­ti­ta­rie o il ripie­ga­mento sulle ideo­lo­gie del Novecento.

Par­lare di coa­li­zioni sociali signi­fica anche inter­lo­quire con i movi­menti della casa e per il red­dito. In occa­sione della mani­fe­sta­zione sulla «Via mae­stra» del 12 otto­bre e di quella del 19 otto­bre è emersa una certa con­trap­po­si­zione che sem­bra tor­nare oggi nella cri­tica dell’elitarismo dei pro­mo­tori della lista e i loro rife­ri­menti alla «società civile». Si riu­scirà mai ad impo­stare un lavoro comune?
Me lo auguro, anche per­ché in que­sti casi il rife­ri­mento ai diritti fon­da­men­tali, la casa o il red­dito, è for­tis­simo, come altrove. Se que­sta lista andrà oltre la soglia del 4% si apri­ranno oppor­tu­nità per tutti. Chia­marsi fuori va benis­simo, ma vor­rei rove­sciare l’accusa.

In quali termini?
Chi oggi si chiama fuori lo fa in modo eli­ta­rio per sal­va­guar­dare la legit­ti­ma­zione di movi­menti legati a bat­ta­glie con­crete. Ma que­sto nes­suno lo mette in discus­sione. Dico solo che in un momento come que­sto si potrebbe otte­nere anche il soste­gno di chi va nella tua stessa dire­zione. È una vec­chia sto­ria dei movi­menti. Il con­tatto con le isti­tu­zioni sem­bra minac­ciare la capa­cità di azione sociale e impone com­pro­messi. Ma in poli­tica biso­gna anche pren­dersi il rischio dell’innovazione quando que­sta è neces­sa­ria. Secondo me que­ste cri­ti­che non sono giustificate.

La mani­fe­sta­zione a difesa della Costi­tu­zione del 12 otto­bre non ha pro­dotto un seguito. In che modo pen­sate di riav­viarne il per­corso, visto che Pd, Forza Ita­lia e Ncd con­ti­nuano a pro­pore nuove e rischiose riforme?

Ci stiamo rior­ga­niz­zando e pen­siamo di insi­stere su una serie di pro­po­ste di leggi popo­lari sulla par­te­ci­pa­zione, sull’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare, sul red­dito di cit­ta­di­nanza anche se decli­nato oggi nella forma più sem­plice del red­dito minimo. Stiamo stu­diando le pos­si­bi­lità di un refe­ren­dum che riguardi il pareg­gio di bilan­cio intro­dotto nell’articolo 81 della Costi­tu­zione in maniera fret­to­losa e senza alcuna discus­sione. Non era obbli­ga­to­rio, altri paesi come la Fran­cia non l’hanno fatto. Ma è una misura ter­ri­bile che schiac­cerà que­sto paese sotto il peso dell’austerità. Visto che oggi esi­ste la lista Tsi­pras non ho dubbi che que­sta pro­spet­tiva possa essere inte­res­sante poli­ti­ca­mente anche per loro

«Non un’opinione europea, ma somma di opinioni nazionali non comunicanti. Solo sulla carta partiti, sindacati, media europei (meglio i movimenti). Ogni parlamentare o commissario risponde al suo frammento, non all’Europa».

Il manifesto, “Sbilanciamo l’Europa”, 7 marzo 2014.

Che adesso, attraverso il voto, sia possibile indicare chi dovrà essere presidente della Commissione europea è un passo in avanti nella democratizzazione dell’Unione. Che tale elezione sia ora il frutto di una maggioranza parlamentare politicizza la scelta, finalmente sottratta al rito falsamente neutrale secondo cui fino ad oggi i governi, pur diversi fra loro, si accordavano sul nome più adatto. Un meccanismo che esasperava ulteriormente la presunzione su cui si basa la costruzione comunitaria, secondo cui quanto muove ogni decisione sarebbe procedimento puramente tecnico. E tuttavia che sia sufficiente accrescere i poteri del Parlamento per democratizzare la Ue è ipotesi francamente un po’ semplicista. Ci vuole ben altro.

Innanzitutto per la buona ragione che sin dalla sua nascita, nel ’57, ma in modo più evidente con l’introduzione dell’art. 102 del Trattato di Maastricht del ’93 (nella sua sostanza pienamente recepito dagli atti fondamentali successivi), si è tolto alla politica il potere di regolare gran parte della vita della Comunità (e dunque valore a ogni decisione parlamentare). Quell’articolo costituzionalizza infatti il primato della competitività nel mercato su ogni altra considerazione, e taglia così fuori l’economia dalla sfera delle decisioni politiche. La sovranità su questo decisivo settore, che determina ogni altra scelta, è stata così trasferita direttamente alle mani (invisibili) del mercato, non alle istituzioni europee. Il compito affidato agli esecutivi, e sottoposto al controllo del parlamento, è dunque solo quello di montare la guardia, attraverso una quantità di regole e sorveglianze, affinché il mercato venga liberato da ogni intrusione intesa a garantire alla politica - e cioè agli umani - il governo della società. Fin quando il principio ispiratore dell’Unione resterà la competitività costi quel che costi, possiamo dotare il Parlamento di tutti i poteri che vogliamo ma la politica, dunque la democrazia, non sarà reintrodotta.

Sarebbe bene riflettere sul fatto che a ingoiare quell’articolo 102 e la filosofia che lo accompagna sono stati parlamenti nazionali pur dotati di ogni potere e che pure non l’hanno esercitato per cancellare l’ispirazione di un Trattato che pure comportava la scelta suicida di non poter più legiferare se non al servizio della massima competitività e dunque solo su dettagli marginali, la scelta di fondo essendo stata fatta una volta per tutte con la costituzionalizzazione dell’obbligo di adottare una linea iperliberista. Ci si dovrebbe interrogare su come poté accadere che a questo siano addivenuti parlamenti di paesi dove pur forte era la tradizione di politiche fondate su un incisivo intervento pubblico in funzione regolamentatrice dell’economia. È accaduto anche in Italia, dove quel Trattato è stato votato da una schiacciante maggioranza contro solo gli antieuropeisti del Msi e gli europeisti di Rifondazione comunista che pure, tuttavia, ha accettato che tutto si risolvesse in una sbrigativa seduta e senza che l’opinione pubblica fosse minimamente allertata. E informata.

Tutto questo naturalmente si può cambiare ed è quello che in molti cerchiamo di fare. Ma avendo chiaro cosa serve per democratizzare l’Europa. E per cominciare qualcosa che dipende direttamente da noi. Se fino ad ora l’opinione pubblica italiana così come degli altri paese è stata così disattenta (e dunque inefficace) rispetto alle pur gravi scelte adottate a livello europeo (liberalizzazione del movimento dei capitali senza contemporanea creazione di uno spazio unico sociale e fiscale, tanto per fare l’esempio più macroscopico) è perché non esiste un’opinione pubblica europea, ma una somma di opinioni nazionali che non comunicano, perché solo sulla carta esistono partiti, sindacati, media realmente europei (un po’ meglio i movimenti). Ogni parlamentare e ogni commissario risponde al suo frammento, non a tutta l’Europa. E perciò a nessuno. Né, di conseguenza, una decisione assunta a Bruxelles acquista la stessa legittimazione di una legge nazionale. Senza questi corpi intermedi fra società civile e istituzioni - aveva acutamente notato la sentenza della Corte Costituzionale tedesca all’epoca del varo del Trattato di Maastricht - la democrazia (per non parlare di solidarietà) non esiste. Costruirli dipende anche da noi.

Una replica a Rodotà: «L’obiettivo della lista è quello di por­tare nelle isti­tu­zioni euro­pee, e non solo, una posi­zione aspra­mente cri­tica nei con­fronti della Ue, per modi­fi­care radi­cal­mente i trat­tati e cam­biare il segno delle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali, senza essere anti­eu­ro­pea».

Il manifesto7 marzo 2014

Appena decol­lata la lista Tsi­pras è già oggetto di nume­rose atten­zioni. Non sem­pre bene­voli, come è ovvio. Tra que­ste si può tra­la­sciare quella di Pier­luigi Bat­ti­sta sul Cor­rie­rone, per asso­luta incon­si­stenza argo­men­ta­tiva. È invece utile riflet­tere sulle con­si­de­ra­zioni avan­zate da Ste­fano Rodotà ieri su Repub­blica, che da alcuni social net­work sono state volu­ta­mente ridotte ad una sem­plice scon­fes­sione della lista Tsi­pras, dopo che lo stesso Rodotà ne aveva invece segnato la posi­ti­vità, pur con diversi distin­guo, solo qual­che giorno fa.

In effetti il ragio­na­mento di Rodotà è ben più ampio. Egli prende atto dei signi­fi­ca­tivi cam­bia­menti inter­ve­nuti nelle dina­mi­che del qua­dro poli­tico ita­liano e vuole «get­tare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo alle spalle». Per que­sto smonta pun­tual­mente la costru­zione ren­ziana, evi­den­ziando come il ten­ta­tivo di ritorno ad un sistema bipo­lare – che passa anche attra­verso l’Italicum e il più recente mostruoso com­pro­messo della riforma elet­to­rale in una camera sola — si riduca sem­pli­ce­mente alla rile­git­ti­ma­zione di Ber­lu­sconi, pie­na­mente rien­trato in campo come deu­te­ra­go­ni­sta, se non addi­rit­tura come deus ex machina. Que­sto com­porta una insen­si­bi­lità, quando non aperta osti­lità, da parte di Renzi verso ciò che si muove alla sua sini­stra, mal­grado le spe­ranze da più d’uno col­ti­vate da quelle parti. Ecco dun­que, secondo Rodotà, aprirsi una pra­te­ria per le forze di una poten­ziale sini­stra che egli defi­ni­sce, restrin­gen­dola, come for­mata da «Sel, il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsi­pras e i par­la­men­tari (e non solo) che si allon­ta­nano dal Movi­mento 5Stelle».

Tale restri­zione è del tutto inde­bita. Non tanto per­ché lascia fuori qual­che pezzo della nomen­cla­tura della tra­di­zio­nale sini­stra radi­cale, ma soprat­tutto per­ché non tiene conto della sini­stra dif­fusa e del pro­ta­go­ni­smo dei movi­menti. Di quelle stesse forze, insomma, che hanno ani­mato le tante lotte sociali, locali e nazio­nali, svi­lup­pa­tesi in que­sti anni, che hanno dato vita alle mani­fe­sta­zioni del 12 e del 19 otto­bre 2013 — scel­le­ra­ta­mente ma non obbli­ga­to­ria­mente con­trap­po­ste tra loro – e alle ultime vit­to­riose bat­ta­glie refe­ren­da­rie. Tutti que­sti movi­menti e que­ste coscienze dif­fuse non entrano in un pro­cesso di rico­stru­zione di uno spa­zio poli­tico di sini­stra in modo pas­sivo, ma o ne sono pro­ta­go­ni­sti da subito o que­sto spa­zio e que­sto pro­cesso non si aprono né si realizzano.

Rodotà afferma espli­ci­ta­mente che tale pro­cesso dovrebbe e potrebbe essere fina­liz­zato alla costru­zione di un Nuovo Cen­tro Sini­stra, basato sulla libe­ra­zione del Pd dall’abbraccio con il Nuovo Cen­tro Destra (le maiu­scole sono sue). Qui le distanze sono ancora mag­giori. Legare il pro­cesso di rico­stru­zione di una sini­stra alla ricon­qui­sta del Pd, inchio­darlo nel letto di Pro­cu­ste di un eterno cen­tro­si­ni­stra, cui l’aggettivo nuovo sta come il prez­ze­molo, è esat­ta­mente il motivo per il quale tale pro­cesso non è mai potuto sor­gere. Anche quando ve ne sareb­bero state le pos­si­bi­lità, sia ogget­tive che sog­get­tive — come all’inizio della for­ma­zione di Sel — è stata pre­ci­sa­mente quella man­canza di auto­no­mia ideale e pro­get­tuale a sof­fo­care il bimbo nella culla. La verità è che con­ti­nua ad essere assente una sin­cera e appro­fon­dita discus­sione sulla natura del Pd (spunti ve ne sono, manca l’affondo), che vada al di là dell’esame delle vola­tili dichia­ra­zioni dei suoi diri­genti e che invece si ponga in rela­zione ai nuovi assetti interni e inter­na­zio­nali del capi­ta­li­smo e di un sistema isti­tu­zio­nale depri­vato di una vera democrazia.

La lista Tsi­pras da un lato pog­gia pro­prio su quella sini­stra dif­fusa e sulle migliori espe­rienze di quei movi­menti (le can­di­da­ture scelte vanno lette e giu­di­cate in que­sta luce, fermo restando che la per­fe­zione in que­sto campo non esi­ste e stra­sci­chi pole­mici sono ine­vi­ta­bili) e dall’altro dichia­ra­ta­mente non ha la pre­sun­zione di gui­dare un pro­cesso di rico­stru­zione di un nuovo sog­getto di sini­stra. Bene lo ha com­preso Marco Bascetta, rispon­dendo su que­sto gior­nale a un’antipatizzante let­tera di Carlo For­menti. L’obiettivo della lista, que­sto sì alla sua por­tata, è quello di por­tare nelle isti­tu­zioni euro­pee, e non solo, una posi­zione aspra­mente cri­tica nei con­fronti della Ue, per modi­fi­care radi­cal­mente i trat­tati e cam­biare il segno delle poli­ti­che eco­no­mi­che e sociali, senza essere anti­eu­ro­pea. Se avrà suc­cesso potrà anche avere un effetto col­la­te­rale, ovvia­mente desi­de­ra­bile e desi­de­rato, ma che non può essere scam­biato per il suo tar­get: quello di inver­tire la ten­denza alla fran­tu­ma­zione della sini­stra, di spo­stare l’elaborazione e l’azione della mede­sima in una dimen­sione inter­na­zio­nale, di bat­tersi per la rico­stru­zione dell’Europa avviando una cam­pa­gna costi­tuente tra i cit­ta­dini euro­pei e non come somma di vit­to­rie in ambito nazio­nale. Scu­sate se è poco.

«In campo. Presentate a Roma le candidature dell’Altra Europa con Tsipras: 37 uomini, 36 donne; 59 candidati espressi da movimenti, associazioni e «società civile», 14 dai partiti. Nel programma: riscrivere lo statuto della Bce, investimenti pubblici e tutele sociali, un’Europa che non cede al neoliberismo e ai nazionalismi».

Il manifesto, 6 marzo 2014

La lista «L’Altra Europa con Tsi­pras» ha pre­sen­tato 73 can­di­da­ture per le ele­zioni euro­pee di mag­gio. Ci sono 37 uomini, 36 sono le donne; 59 can­di­dati sono stati espressi da movi­menti, asso­cia­zioni e «società civile», 14 dai par­titi che sosten­gono la lista: Sel e Rifon­da­zione comu­ni­sta. Sono state rac­colte oltre 200 pro­po­ste, cia­scuna delle quali sot­to­scritta da asso­cia­zioni, comi­tati, gruppi o par­titi che hanno ade­rito alla lista. Oltre 7 mila sono state le firme a soste­gno delle can­di­da­ture, un dato che con­ferma l’interesse per un espe­ri­mento in con­tro­ten­denza con i recenti e disa­strosi fal­li­menti della «sini­stra radi­cale». L’obiettivo è rag­giun­gere un risul­tato a due cifre, anche se il 6–7% dei voti che i primi son­daggi attri­bui­scono alla lista «ci ren­dono molto contenti».

Lo ha detto ieri Bar­bara Spi­nelli, capo­li­sta in tre cir­co­scri­zioni su 5. «Io di mestiere scrivo – ha detto – Ho pen­sato che que­ste capa­cità dovevo comu­ni­carle diver­sa­mente per met­terle a dispo­si­zione degli invi­si­bili, testi­mo­niando per chi non ha voce, per farli diven­tare com­bat­tenti per un’Europa radi­cal­mente diversa da quella che ci hanno con­se­gnato i con­ser­va­tori e da quella che vuole ritor­nare alle sovra­nità nazio­nali. Que­ste forze oggi sono com­plici e vogliono garan­tire lo sta­tus quo». Per Spi­nelli que­sto ragio­na­mento trac­cia la linea degli «euroin­su­bor­di­nati». Un tra­iet­to­ria che parte da sini­stra con la can­di­da­tura di Tsi­pras, desi­gnato alla pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea dalla sini­stra euro­pea nel con­gresso tenuto a Madrid e riven­di­cato da Rifon­da­zione Comu­ni­sta, e che ambi­sce a con­qui­starsi una posi­zione auto­noma rispetto ai socia­li­sti e demo­cra­tici euro­pei (dove si trova il Pd di Mat­teo Renzi), ai con­ser­va­tori e ai libe­rali. Con Verho­stadt, can­di­dato dell’Alde, come con lo stesso Schultz can­di­dato dei socia­li­sti, Spi­nelli non ha tut­ta­via escluso contatti.

I primi due mesi di vita dell’«Altra Europa» sono stati intensi. 30 mila firme rac­colte da un appello dei «garanti» della lista: Andrea Camil­leri, Paolo Flo­res d’Arcais, Luciano Gal­lino, Marco Revelli, Guido Viale, Spi­nelli oltre allo stesso Tsi­pras. Poi ci sono state le pole­mi­che prima sull’esclusione dal logo della lista (il resty­ling ora è com­pleto) tra i «garanti» e Rifon­da­zione Comu­ni­sta; poi quelle tra i garanti stessi a pro­po­sito dell’esclusione della can­di­da­tura dell’eurodeputata Idv Sonia Alfano (incan­di­da­bile secondo una delle regole pro­po­ste: non avere avuto inca­ri­chi poli­tici negli ultimi 10 anni) e Luca Casa­rini, la cui can­di­da­tura è stata invece con­fer­mata con voto a mag­gio­ranza nella cir­co­scri­zione del Centro-Italia.

Sul ritiro della can­di­da­tura di Camil­leri, le spie­ga­zioni sono state forse poco con­vin­centi. Averla comu­ni­cata il 2 marzo, per poi smen­tirla subito dopo, è attri­buito alla «gioia che si can­di­dava». Men­tre in realtà quella deci­sione non era stata ancora presa. Spi­nelli si è scu­sata per l’«intempestività» e assi­cura che Camil­leri con­ti­nuerà a soste­nere la lista. Spi­nelli ha infine spie­gato la sua deci­sione di riti­rarsi dopo l’eventuale ele­zione. Di solito que­sto avviene a urne chiuse quando i poli­tici nazio­nali cedono il posto alle seconde file. Averlo annun­ciato prima, ha detto Spi­nelli, «per­mette di eleg­gere i più votati e com­pe­tenti. Lo per­mette il metodo delle preferenze».

Agli «euroin­su­bor­di­nati» la gior­na­li­sta e scrit­trice, figlia di Altiero Spi­nelli, pro­pone un ragio­na­mento poli­tico com­plesso, ma che rien­tra nelle corde della sini­stra euro­pea. Dimo­strare che esi­ste, oggi, la pos­si­bi­lità di essere con­tro l’austerità senza cedere ai popu­li­smi che con ogni pro­ba­bi­lità mie­te­ranno suc­cessi alle pros­sime ele­zioni. Il movi­mento 5 Stelle di Grillo e Casa­leg­gio, con­si­de­rato ad oggi il depo­si­ta­rio delle posi­zioni anti-austerità, viene dato in una for­bice tra il 20–25%. Su que­sta base sono rie­merse ieri parole che non ascol­ta­vamo da almeno un decen­nio in una sede poli­tica ita­liana: l’idea dell’Europa non pri­gio­niera del neo­li­be­ri­smo e del suo deter­mi­ni­smo eco­no­mi­ci­sta. Un’Europa dove la per­dita della sovra­nità degli Stati-nazione non è pre­li­mi­nare all’esproprio della deci­sione poli­tica dei popoli, come degli indi­vi­dui, bensì ad una redi­stri­bu­zione della ric­chezza e dei poteri a livello sovra­na­zio­nale e in maniera democratica.

Un’Europa, infine, poli­tica, che sap­pia cioè rive­dere di sana pianta i suoi trat­tati; rove­sciare i man­dati costi­tu­tivi della Bce di Mario Dra­ghi; avviare un piano neo-keynesiano di inve­sti­menti pub­blici; appli­care le tutele sociali minime a par­tire da un sala­rio e da un red­dito minimo per 19 milioni di disoc­cu­pati e per­lo­meno il dop­pio di pre­cari e lavo­ra­tori auto­nomi. Tsi­pras ha pro­po­sto una con­fe­renza euro­pea sul debito per i paesi dell’Europa del Sud, simile a quella che nel 1953 alle­viò il peso che gra­vava sulla Ger­ma­nia del Dopo­guerra. Una pro­po­sta ripresa dalla lista ita­liana, poten­zial­mente capace di rom­pere ogni schema di poli­tica eco­no­mica adot­tata in Italia.

Un altro mondo, incon­ce­pi­bile. Sapendo che il vero banco di prova sarà il dopo-elezioni. Nascerà una pro­spet­tiva costi­tuente, e uno spa­zio poli­tico, tra le com­pa­gini che stanno dando vita a que­sta espe­rienza, ma soprat­tutto oltre

Un titolo strumentalmente forzato per un’analisi a tutto campo del sistema politico italiano, da Renzi Berlusconi e Letta, a Civati e alla lista Tsipras. I timori, e le speranze e le scommesse.

La Repubblica, 6 marzo 2014

DINAMICHE forti attraversano il sistema politico italiano, e lo stanno cambiando profondamente. Ma, se pure questo processo è stato accelerato dalle iniziative di Renzi, per comprenderlo bisogna andare oltre la stretta attualità, gettare lo sguardo sull’intera fase che abbiamo allespalle.

Altrimenti si rimane prigionieri di formule ingannevoli — «Aspettiamo Renzi alla prova dei fatti», «Se fallisce, è la fine» — che rivelano non tanto una deriva personalistica, quanto piuttosto una sfiducia nella possibilità stessa di condurre analisi politiche. E invece proprio dalla politica bisogna ripartire, registrando che siamo alla fine di un ciclo che si è dipanato attraverso l’emergenza montiana, le larghe intese e le piccole intese, senza offrire né soluzioni a breve né prospettive, sì che Renzi finisce con l’apparire come una sorta di curatore fallimentare. Il suo obiettivo è visibilmente quello di strutturare il sistema politico intorno a due poli, non due partiti, e proprio qui scatta l’impossibilità di liberarsi con una mossa tutta volontaristica dell’eredità del passato. “Padrone”, almeno nelle apparenze, di un partito che aveva conquistato senza combattere, Renzi ha poi rivolto lo sguardo dall’altra parte e, muovendo da una sottovalutazione del suo partner di governo, il Nuovo Centro Destra, si è lanciato verso la rilegittimazione di Berlusconi, impigliandosi però nei prevedibili conflitti determinati dall’affidarsi all’astuzia della “doppia maggioranza”.

Ora la nuova “intesa” intorno alla legge elettorale mostra come egli non debba solo fare i conti con i fallimenti del passato, ma pure con l’esito infelice del suo stesso azzardo. Indicata come un passaggio necessario per un chiarimento del quadro politico, la nuova fase della riforma elettorale produce, al contrario, una inquietante confusione istituzionale, destinata a sfociare in conflitti (ricatti?) incrociati, rendendo più soggetta a condizionamenti l’azione di governo e più esposta la nuova soluzione a chiari vizi di incostituzionalità. Frutto evidente di pure strumentalità partitiche, dissolve la logica, già precaria, della doppia maggioranza, spinge tanto Berlusconi quanto Alfano a perseguire le proprie convenienze, a rafforzare la propria identità, aprendo la via a conflitti inevitabilmente destinati ad influire su tempi e scelte del governo. L’apertura a Berlusconi era stata, nei fatti, una evidente sfida ad Alfano, così come la precedente apertura su lavoro e diritti civili lo era stata nei confronti di Letta. Cambiati i ruoli, mutato Renzi da sostanziale sfidante ad alleato obbligato di Alfano, quale sarà in concreto la linea della maggioranza ora rinsaldata?

Bisogna tornare, a questo punto, alla questione dei due poli, in vista dei quali è stata confezionata la nuova legge elettorale, con chiusure conservatrici a favore di chi già è insediato all’interno del sistema, introducendo così una ulteriore rigidità di cui, prigionieri di una poco riflessiva furia “riformatrice”, non sembra siano stati adeguatamente valutati tutti gli effetti. Sul versante berlusconiano, è evidente l’intenzione di costruire una coalizione nella quale sarà obbligato ad entrare tutto il pulviscolo dei gruppi e gruppetti che si agitano a destra in questo momento per dare l’impressione di una autonomia del tutto finta, poiché sanno benissimo che la nuova legge elettorale, quali che siano le soglie fissate, precluderà loro ogni possibilità di accesso al Parlamento. Si creano così le premesse per negoziati opachi, per contropartite d’ogni genere, mantenendo le condizioni che hanno in passato inquinato il nostro sistema politico e anticipando alla fase preelettorale il potere dei gruppi marginali, ma indispensabili per assicurare il successo della coalizione. Inoltre, l’alta soglia dell’8%, imposta alle liste autonome, diventa un potente disincentivo per avventure solitarie del Nuovo Centro Destra.

Diversa si presenta la situazione nel centrosinistra, dove Renzi sembra aver ripreso la logica della “vocazione maggioritaria” e, fidando sul proprio appeal, non manifesta aperture verso le diverse realtà esistenti, mostrandosi piuttosto interessato al recupero di una parte dell’elettorato del Movimento 5Stelle (strategia peraltro analoga a quella di Silvio Berlusconi). Peraltro, la sua sbrigativa rilettura di quel che oggi sarebbe la sinistra, unita ai quotidiani slittamenti ai quali lo obbliga la convivenza con gli alfaniani, ha creato condizioni propizie all’apertura di un processo che oggi, sia pure in forme ancora da chiarire, vede coinvolti Sel e il gruppo di Pippo Civati, la lista Tsipras e i parlamentari (e non solo) che si allontanano dal Movimento 5Stelle.

Sono realtà diverse, ciascuna delle quali meriterebbe una analisi specifica, ma di cui qui può essere indicato quello che appare un possibile terreno comune. Civati, con quella che non è soltanto una battuta, ha parlato di Nuovo Centro Sinistra, ponendo così un problema: è possibile un processo, tutt’altro che semplice e breve, che abbia come primo obiettivo quello di liberare il Pd dal legame pericoloso con il Nuovo Centro Destra e, in prospettiva, consenta di lavorare intorno ad una ipotesi di sinistra nuova e non velleitaria? Di questo si dovrebbe tener conto, senza rifugiarsi nelle troppo comode obiezioni “realistiche” che, negli ultimi tempi, hanno privato il centrosinistra di ogni capacità di creare le condizioni pur minime per non essere sempre succube di stati di necessità, veri o costruiti. La politica è anche, talora soprattutto, capacità di assumersi rischi, senza la quale nessuna vera innovazione è possibile. Forse è qui che il proclamato “coraggio” di Renzi dovrebbe esercitarsi pure in questa direzione. E si potrebbe anche cominciare a ragionare fuori da un’altra pesante ambiguità, l’indicazione della durata del governo fino al 2018, che sembra un artificio per tener buono Alfano. Qualora al Senato si creassero le condizioni per liberarsi da questa ingombrante tutela, si potrebbe ragionevolmente discutere di un programma limitato e di un ritorno alle urne secondo una logica politica, e non puramente strumentale, anche se ora contro questa possibilità si leva il pasticcio dell’eventuale elezione differenziata di Camera e Senato.

Ripeto. È un processo non facile, che tuttavia può permettere di avviare un cammino che faccia uscire dal deserto politico nel quale continuiamo ad aggirarci. In questa prospettiva si presenta come assai impegnativa l’iniziativa della lista Tsipras perché, in particolare, la partecipazione alle elezioni europee significherà sottoporsi ad un vero confronto pubblico. È una impresa rischiosa e, proprio per questo, vorrebbe dai suoi promotori un rigore estremo. Dal passato vengono esempi che ammoniscono sul rischio legato a logiche autoreferenziali (il fallimento nelle ultime due elezioni politiche dalla Sinistra arcobaleno e della lista Ingroia). Dal presente viene l’obbligo a riflettere su che cosa significhi, al di là del fatto simbolico, il riferimento a Tsipras e al suo partito, Syriza. Si tratta di una esperienza maturata attraverso un lavoro politico non breve e che si è consolidato grazie ad una intensa presenza sociale. Condizioni, queste, che non trovano corrispondenza nella lista italiana e nella variegata coalizione che la sostiene, che peraltro non ha dato una esaltante prova di sé proprio nella scelta delle candidature, come attestano le cronache di ieri. Per tutti quelli che vogliano andare oltre la semplice critica al governo Renzi, si apre una stagione assai impegnativa. Ma proprio con queste difficoltà bisognerà misurarsi.

Finalmente parole chiare sull’Ucraina, la Russia, i Rapporti con gli Usa e l’Europa. E sui numerosi errori compiuti nel vecchio Continente che si dibatte nelle sue incertezze.

La Repubblica, 5 marzo 2014

IN PARTE per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante.Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni.

È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina — quella insorta in piazza a Kiev - vuole «entrare in Europa». Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale - non denunciato a Occidente - forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice Premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ’39 collaborò con Hitler.

È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché «abitate da filorussi». Non sono filo- russi ma russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino).

È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%).

Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è «nostra» vittoria, se Mosca è sconfitta. Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica - non ancora tentata - che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov.

L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla. Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un «occidente » senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi.

Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi. Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni.

«Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su Pagina 99 (25-2-14). Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze ( balance of power) che regnava in Europa fino al ’45: i Grandi Giochi dell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti.

L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il «nemico esistenziale». Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata. Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo.

L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente. Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà.

Il poeta russo Brodsky lo disse subito: «La verità è che un uomo liberato non diventa per questo un uomo libero. La liberazione è solo un mezzo per raggiungere la libertà, non è un sinonimo della libertà (...) Se vogliamo svolgere il ruolo di uomini liberi, dobbiamo esser capaci di accettare o almeno imitare il comportamento di una persona libera che conosce lo scacco: una persona libera che fallisce non getta la pietra su nessuno». L’Est si liberò dalle alleanze con Mosca, ma quel che ritrovò, troppo spesso, fu il nazionalismo di prima. Non a caso molti a Est si misero a difendere la sovranità degli Stati, senza esser contestati. E la «liberazione» criticata da Brodsky risvegliò ataviche passioni mono-etniche, intolleranti del diverso. Si aggravò lo status dei Rom: ridivenuti apolidi. Si riaccesero nazionalismi irredentisti, come nell’Ungheria di Orbán. Nata contro le degenerazioni nazionaliste, L’Europa ammutolì. Kiev corre gli stessi rischi, proprio perché manca una pax europeache superi le sovranità statali assolute, e la loro fatale propensione bellicosa. Se tanti sono euro- fili ignorando la filosofia dell’Unione, è perché anche l’Unione l’ignora. Bussola resta l’America: lo Stato che meno d’ogni altro riconosce autorità sopra la propria. Oppure il nazionalismo russo.

Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata. L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ’700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ’90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti).

Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo. Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi.

Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni-Stato distruttivi come in passato. Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà «filo-europei» neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.

«L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie». I

l manifesto, 5 marzo 2014

1. La querelle nata in questi mesi – e divenuta drammatica in questi giorni- intorno al decreto cosiddetto “Salva Roma”, dimostra come uno dei nodi cruciali della guerra alla società, dichiarata dalle lobby finanziarie con la trappola della crisi del debito pubblico, veda da subito al centro gli enti locali, i loro beni e servizi, il loro ruolo. Infatti, poiché l’enorme massa di ricchezza privata prodotta dalle speculazioni finanziarie, che ha portato alla crisi globale di questi anni, ha stringente necessità di trovare nuovi asset sui quali investire, è intorno ai beni degli enti locali che le mire sono ogni giorno più che manifeste.

2. Già nel rapporto “Guadagni, concorrenza e crescita”, presentato da Deutsche Bank nel dicembre 2011 alla Commissione Europea, si scriveva a proposito del nostro Paese : “ (..) I Comuni offrono il maggior potenziale di privatizzazione. In una relazione presentata alla fine di settembre 2011 dal Ministero dell’ Economia e delle Finanze si stima che le rimanenti imprese a capitale pubblico abbiano un valore complessivo di 80 miliardi di euro (pari a circa il 5,2% del PIL). Inoltre, il piano di concessioni potrebbe generare circa 70 miliardi di entrate. E questa operazione potrebbe rafforzare la concorrenza. (..) Particolare attenzione deve essere prestata agli edifici pubblici. La Cassa Depositi e Prestiti dice che il loro valore totale corrente arriva a 421 miliardi e che una parte corrispondente a 42 miliardi non è attualmente in uso. Per questa ragione potrebbe probabilmente essere messa in vendita con relativamente poco sforzo o spesa. Dal momento che il settore immobiliare appartiene in gran parte ai Comuni, il governo dovrebbe impostare un processo ben strutturato in anticipo. (..) Quindi, secondo le informazioni ufficiali, il patrimonio pubblico potrebbe raggiungere in valore complessivo di 571 miliardi, vicino al 37% del PIL. Naturalmente, il potenziale può anche essere ampliato.”

3. La spoliazione degli enti locali è naturalmente avviata da almeno un quindicennio e vi hanno concorso diversi fattori. Il primo è stato il Patto di Stabilità e Crescita interno, ovvero le diverse misure, annualmente stabilite, per far concorrere gli enti locali agli obiettivi di stabilità finanziaria decisi dallo Stato in accordo con l’Unione Europea. Quel patto ha visto in una prima fase una durissima contrazione delle possibilità di assunzione del personale da parte degli enti locali, riducendone drasticamente la qualità del servizio e contribuendo in questo modo a costruire una campagna ideologica sull’inefficienza del “pubblico”; in un secondo momento è finita sotto attacco la possibilità e la capacità di investimento da parte degli enti locali che, con l’alibi di non doversi indebitare, sono stati costretti e ridurre al lumicino le opere da realizzare; infine, nell’attualità, perfino la capacità di spesa corrente trova draconiane limitazioni, mettendo definitivamente a rischio il funzionamento stesso degli enti locali. Classificati da ora in avanti in “virtuosi” e “non virtuosi”, gli enti locali saranno costretti, per entrare nella prima categoria, ad aumentare le tasse locali e le tariffe, a ridurre ulteriormente l’occupazione, a dismettere il patrimonio pubblico e a privatizzare i servizi pubblici locali.

4. Il secondo fattore è dovuto alla spending review, ovvero i drastici tagli lineari che, anziché riorganizzare la spesa eliminando gli sprechi e le corruttele, comportano un’automatica riduzione di tutti i servizi erogabili senza alcuna scala di priorità e senza la benché minima programmazione. Il terzo fattore è stata l’approvazione del Fiscal Compact, ovvero l’obiettivo sottoscritto in sede europea di portare entro venti anni al 60% il rapporto debito/pil che oggi è pari al 133% . Ciò significa annualmente una riduzione secca di tale rapporto del 3,3% , con un costo di oltre 50 miliardi/anno. Se a questo si aggiunge l’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione –di fatto, la costituzionalizzazione della dottrina liberista- il quadro è decisamente chiaro.

5. La tesi qui sostenuta è che l’attacco agli enti locali sia sistemico e abbia come ultimo obiettivo la scomparsa della funzione pubblica e sociale dell’ente locale, come sin qui lo abbiamo conosciuto, trasformandone il ruolo da erogatore di servizi per la collettività a facilitatore dell’espansione della sfera di influenza dei capitali finanziari e da garante dell’interesse collettivo a sentinella del controllo sociale delle comunità. Una trasformazione autoritaria necessaria per permettere, attraverso la drastica riduzione della democrazia di prossimità, la totale spoliazione dei beni comuni delle comunità locali. Per queste ragioni, l’ente locale è destinato a diventare uno dei luoghi fondamentali dello scontro sociale nei prossimi mesi.

6. L’insieme di draconiane misure nei confronti degli enti locali ha un unico scopo: metterli con le spalle al muro dal punto di vista economico per persuaderli/obbligarli ad un gigantesco percorso di espropriazione e di privatizzazione, consegnandone beni e patrimonio alle lobby bancarie e finanziarie Un processo che avviene attraverso diversi ma convergenti percorsi. Cosa posseggono infatti gli enti locali? Territorio, patrimonio e servizi, ed è su questi che si sta giocando, e sempre più lo si farà nel prossimo periodo, la guerra contro la società.

7. Il territorio è da tempo strumento di valorizzazione finanziaria, in due diverse modalità di scala. La prima attraverso la continua cementificazione del suolo, favorita da una norma, da anni reiterata in Parlamento, che consente di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente dei Comuni : in pratica, anche solo per garantire l’ordinario funzionamento dell’ente locale, gli amministratori sono invogliati a consegnare porzioni di territorio alla speculazione immobiliare, arrivando al paradosso che, mentre fino a qualche anno fa erano i costruttori a fare la questua negli uffici comunali per ottenere cambi di destinazione d’uso di terreni, oggi sono i sindaci a inseguire i costruttori per poter firmare convenzioni che consentano di mettere in cassa i relativi oneri. La seconda è quella dei grandi eventi e delle grandi opere : che siano basi militari (Muos di Catania, Dal Molin di Vicenza), che siano mega-progetti infrastrutturali (Tav, Ponte sullo stretto, 35 nuovi progetti autostradali) o “eventi” (Giubileo di Roma, Expo di Milano), l’unico obiettivo è la consegna del territorio alla valorizzazione finanziaria e alla speculazione immobiliare.

8. Il patrimonio pubblico in mano agli enti locali ha, come abbiamo visto, dimensioni enormi (421 miliardi). La sua svendita, cominciata da tempo, è oggi considerata da Governo e Sindaci un vero e proprio piano strategico e, attraverso l’alibi della crisi del debito pubblico, sono ormai in adozione in tutti i Comuni piani di dismissione all’unico scopo di fare cassa. Anche i servizi pubblici locali sono da molto tempo sotto attacco e a rischio privatizzazione. Su questo terreno, come anche Deutsche Bank nel suo rapporto citato all’inizio ha dovuto riconoscere, la straordinaria vittoria referendaria del movimento per l’acqua nel giugno 2011 ha complicato molto i piani, senza tuttavia far desistere le grandi lobby finanziarie.

9. Cassa Depositi e Prestiti, ovvero l’ente (ora SpA, con all’interno le fondazioni bancarie) che raccoglie il risparmio postale (240 miliardi) di quasi 24 milioni di persone, è il vero e proprio braccio operativo di questo processo. Cassa Depositi e Prestiti interviene infatti sulla valorizzazione finanziaria del territorio, finanziando direttamente, o attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture, partecipato al 16% da Cdp), molte delle grandi opere, in particolare autostradali, in corso o in progetto nel nostro Paese; così come, attraverso FIV(Fondo Investimenti per le Valorizzazioni) di CDPI sgr si propone agli enti locali come partner ideale per la valorizzazione degli immobili da immettere sul mercato, fissandone un prezzo ed impegnandosi ad acquisirli, qualora dopo bando l’ente locale non riesca a venderli (FIV comparto Plus) o acquisendoli direttamente (FIV comparto Extra); altrettanto determinante è il ruolo assunto da Cdp nei processi di privatizzazione dei servizi pubblici locali, essendo da tempo impegnata attraverso F2i (Fondo per le infrastrutture) da una parte e FSI (Fondo strategico Italiano, interamente controllato da Cdp), in operazioni di ingresso nel capitale sociale delle aziende di gestione del servizio idrico e dei servizi pubblici locali per favorirne fusioni societarie e il rilancio in Borsa.

10. Se il luogo dello scontro sociale del prossimo periodo sarà dunque l’ente locale, il nodo intorno al quale si dipanerà sarà quello del ruolo di Cassa Depositi e Prestiti. Se sotto attacco è la stessa funzione sociale degli enti locali come luoghi di prossimità degli abitanti di un territorio, altrettanto sotto scacco è l’utilizzo della ricchezza sociale prodotta nel Paese, in particolare quella del risparmio postale dei cittadini, che invece di essere utilizzata per gli investimenti volti al soddisfacimento dei bisogni sociali e ambientali delle comunità locali, viene interamente indirizzata come leva per l’espansione dei mercati finanziari e finalizzata all’espropriazione dei beni comuni. Si comprende meglio, a questo punto, anche il senso profondo della progressiva riduzione degli spazi di democrazia, che vede nell’accentramento istituzionale da una parte e in una furbesca campagna contro la “casta” e relativa riduzione della rappresentanza dall’altra, il progressivo distanziamento dei luoghi della decisionalità collettiva dalla vita concreta delle persone. L’obiettivo è chiaro : se ciò che è in atto è un mastodontico processo di spoliazione delle comunità locali, diviene necessario rendere loro sempre più ardua qualsiasi forma di organizzazione e di protesta, trasformando in rassegnata solitudine quella che potrebbe altrimenti divenire lotta per la riappropriazione sociale.

11. Oggi sindaci e amministratori sono posti di fronte ad un bivio senza zone d’ombra : devono decidere se essere gli esecutori ultimi di un processo di privatizzazione che dalla Troika discende verso i governi e scivola giù fino agli enti locali o se riconoscersi come i primi rappresentanti degli abitanti di un determinato territorio e porsi in diretto contrasto con quei processi. Ma, indipendentemente dalla consapevolezza dei propri sindaci e amministratori, le donne e gli uomini di ogni comunità locale di questo Paese devono sapere che la lotta collettiva e generalizzata contro la trappola del debito, per una nuova finanza pubblica e sociale, per la riappropriazione sociale dei beni comuni, è interamente nelle loro mani. E che da essa dipende il destino della democrazia reale.

- See more at: http://altracitta.org/2014/03/05//#sthash.tUyn2one.dpuf

Una valutazione sintetica ma esauriente del gioco delle tre carte con la quale stanno per concludere la dissoluzione della democrazia nella triste penisola. E gli eredi della sinistra, quando non guidano la truffa, tacendo acconsentono.

Il Fatto quotidiano, 5 marzo 2014L’accordo truffaldino tra un premier diventato tale con una manovra di Palazzo (privo com’è di consenso elettorale) con un partitino di scissionisti nominati dal precedente padrone realizza l’abusivismo perfetto in una democrazia ormai per modo di dire: ci prendiamo il governo e vi sequestriamo il voto, tiè. Non lo chiameremo golpe perché non c’è dramma, trattandosi di un misero gioco delle tre carte. Si strombazza l’Italicum per la Camera, ma da usare solo quando il Senato sarà abolito, forse tra 18 mesi o forse mai. Un obbrobrio mai visto, incostituzionale col botto.

Del resto, è il sogno a lungo cullato lassù sul Colle che pur di non far esprimere gli italiani ha preferito affidarsi a maggioranze artificiali (Monti, Letta) che infatti si sono autodissolte con imperdonabile spreco di tempo e di energie. Adesso tocca al fenomeno Renzi inventarsi un sistema elettorale ad personam che scandalizza perfino uno specialista come Berlusconi. Il turbo fiorentino ha la mania dei record. Cinque riforme in cinque mesi (se sono tutte così…). Due maggioranze, una per le riforme e una per i giorni feriali.

E a ben guardare, nel suo governo di governi ce ne sono tre, uno dentro l’altro come le matrioske. Il primo è quello della bella presenza: il più giovane, il più snello, il più rosa, buono per i titoli sui giornali. Il secondo è quello che conta e fa di conto. Guidato dal ministro dell’Economia Padoan, presidia via XX Settembre con un blocco di tecnici che dovranno piacere a Bruxelles e a Berlino. Il terzo è il sottogoverno degli affari e degli inciuci, quello dei sottosegretari così impresentabili che perfino Alfano è costretto a cacciarne uno (il prode Gentile). A Renzi avevamo creduto quando aveva letto il successo alle primarie del Pd come l’ultima spiaggia di un Paese giunto allo stremo. In molti abbiamo pensato: questo fa sul serio. Ora si sta giocando tutto il capitale tra pasticci e imbrogli vari. Non si dura nascondendo le elezioni in un cassetto. E per governare non basta qualche tweet.

© 2025 Eddyburg