il manifesto, 1° aprile 2014
Il governo ha approvato ieri un disegno di legge costituzionale che non ha i numeri per passare al senato. In questo senso la forzatura è doppia. L’esecutivo strappa al legislativo il potere di iniziativa sulla legge che è terreno comune di tutte le forze politiche, maggioranza e opposizione. In più la impone alla sua stessa maggioranza (pure assai larga) con la forza del ricatto. O questo o lascio la politica, dice il presidente del Consiglio. Da intendersi meglio: o questo o le elezioni anticipate.
Chi non vota questa riforma del parlamento, insiste Renzi, blocca il cambiamento. Sul piano della comunicazione semplice ha già vinto.
Renzi sta solo raccogliendo i frutti dei difetti reali del bicameralismo italiano, dei limiti reali della classe politica almeno dell’ultimo ventennio, e del vento freddo che soffia sulle istituzioni al quale ha spiegato le sue vele. Messa così non c’è analisi seria del progetto di legge che tenga, perché l’argomento che si deve cambiare e cambiare presto è più travolgente di qualsiasi ragionamento. Anche l’osservazione di partenza sul fatto che nel senato di oggi sono più i contrari che i favorevoli alla riforma Renzi perde molto del suo valore. Quanti saranno infatti, alla fine, quelli che voteranno sulla base delle loro convinzioni di merito, se l’oggetto del voto sarà un altro, e cioè la tenuta del governo, o la voglia di stare dalla parte del «nuovo»?
Molto poco è cambiato in queste tre settimane, da quanto il Consiglio dei ministri aveva reso pubblica la prima bozza. Chiedendo quei suggerimenti che non sono stati accolti. La riforma cambia il bicameralismo paritario italiano, senza avere il coraggio di scegliere fino in fondo il monocameralismo, ma tradendone la pulsione. Il senato viene quindi conservato, dopo mille proteste salva anche il nome, e a fatica gli si trova qualcosa da fare. Procedimento rovesciato: Renzi non è partito dalle funzioni della camera alta per disegnarne la composizione, ma si è mosso dai risultati che voleva raggiungere — strombazzando quello (tutto da dimostrare) del risparmio economico — e ha adattato le forme. La conclusione è paradossale al massimo: i cittadini non eleggeranno i nuovi senatori, ma dovrebbero sentirsi più rappresentati da 150 esponenti delle elite politiche e culturali cooptati nel Palazzo. Il che pone un problema enorme di tradimento del principio della sovranità popolare. E fa saltare ogni garanzia di equilibrio tra i poteri. L’accoppiata con la legge elettorale stra-maggioritaria, poi, apre le porte al disastro.
Basta ragionarci un po’ su, fare calcoli semplici — in fondo non potendo noi frenare il cambiamento possiamo permetterci il lusso di giudicarlo. La legge elettorale approvata dalla camera permette a un solo partito, in ipotesi il Pd, che raggiunge anche solo il 30% dei voti e che è alleato con un paio di partiti più piccoli che restano sotto la soglia di sbarramento del 4,5%, di conquistare al primo turno la maggioranza assoluta della camera. Quel partito basta a se steso nel voto di fiducia al — naturalmente suo — presidente del Consiglio. Il parlamento diventa la cinghia di trasmissione dell’esecutivo, che in più avrà a disposizione lo strumento nuovo della «tagliola» sui suoi provvedimenti di legge. La camera dovrà votare quello che il governo chiede entro 60 giorni, se non meno. Accanto a questo resta per l’esecutivo lo strumento del decreto legge, che la riforma presentata ieri da Renzi limita appena un po’, in ossequio a quanto già stabilito dalla Corte Costituzionale.
Passando al senato, guardando all’appartenenza politica dei sindaci dei capoluoghi, dei presidenti di regione e dei consiglieri regionali che verosimilmente sarebbero scelti oggi, si può concludere che ancora il Pd avrebbe i numeri sufficienti per cambiare da solo la Costituzione, per quanto la revisione resti di competenza bicamerale. Per il delitto perfetto al primo partito mancherebbero solo pochi voti, ma potrebbe facilmente trovarli all’interno di quel «partito del presidente» che ha resistito nel passaggio di bozza in bozza. Saranno 21 i senatori nominati direttamente dal presidente della Repubblica, per sette anni, e il loro voto sarà tanto decisivo quando avulso da qualsiasi legittimazione popolare, di primo o di secondo grado.
Renzi ha ragione quando dice che sono trent’anni che si discute di riforma delle istituzioni. E in quella discussione si colloca, schierandosi con una linea di pensiero precisa: quella che da sempre indica la soluzione nel rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Piccolo problema: è la stessa linea che ha ispirato le leggi elettorali maggioritarie e consentito l’indicazione diretta del presidente del Consiglio. I risultati li abbiamo conosciuti nell’ultimo ventennio. La riforma del senato aggiungerà un sovrappiù di rinunce sul versante parlamentare. Ma che l’intenzione sia quella di colpire più il simbolo che la sostanza lo dimostrano non solo le novità che la riforma introduce ma anche quelle che ha dimenticato per strada. Due su tutte, che avrebbero sì inciso nelle inefficienze del parlamento: la sfiducia costruttiva, che avrebbe consentito alla camera di far cadere il governo solo quando è in grado di esprimere una maggioranza alternativa per un esecutivo diverso. E, finalmente, la sottrazione ai deputati del potere di decidere sui loro stessi titoli di ammissione in parlamento. È il privilegio che ha consentito le ripetute elezioni dell’inelegibile Berlusconi e che Renzi non tocca. Gli interessano più gli slogan, e le alleanze
Tassare i grandi patrimoni non è sbagliato, ed è in linea con la migliore tradizione degli USA, e non è vereo «che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica».
La Repubblica, 1° aprile 2014
E hanno ragione. Nessun vero americano direbbe una cosa come questa: «L’assenza di efficaci limitazioni a livello statale, e soprattutto nazionale, contro un arricchimento iniquo tende a creare una classe ristretta di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui primario obiettivo è conservare e incrementare il proprio potere »; né farebbe seguire questa dichiarazione da un appello a introdurre «un’imposta di successione graduata sui grandi patrimoni […] che cresca rapidamente in conformità con le dimensioni del patrimonio».
Chi era questo eversivo? Theodore Roosevelt, nel suo famoso discorso del 1910 sul Nuovo Nazionalismo. La verità è che all’inizio del XX secolo, in America, molti personaggi illustri mettevano in guardia dai pericoli di una concentrazione estrema della ricchezza ed esortavano a utilizzare la politica fiscale per limitare la crescita dei grandi patrimoni. Vi faccio un altro esempio: nel 1919, il grande economista Irving Fisher dedicò gran parte del suo discorso all’American Economic Association (l’associazione degli economisti di cui era presidente) a criticare gli effetti di «una distribuzione della ricchezza antidemocratica ». E si dichiarò favorevole a proposte per limitare la trasmissione ereditaria della ricchezza attraverso pesanti imposte di successione.
E l’idea di limitare la concentrazione della ricchezza, specialmente della ricchezza ereditata, non si limitò ai discorsi. Nel suo ultimo libro, Capital in the Twenty First Century, l’economista francese Thomas Piketty sottolinea che l’America, che introdusse un’imposta sul reddito nel 1913 e un’imposta di successione nel 1916, è stata la testa di ponte della tassazione progressiva, «molto prima» dell’Europa. Piketty si spinge a dire che «le tasse confiscatorie sui redditi eccessivi» sono state un’«invenzione americana».
E questa invenzione ha radici storiche profonde nella visione jeffersoniana di una società egualitaria di piccoli contadini. Ai tempi in cui Theodore Roosevelt tenne il suo discorso, molti degli americani più attenti e riflessivi si rendevano conto non solo che la disuguaglianza estrema stava svuotando di senso quella visione, ma che l’America correva il pericolo di trasformarsi in una società dominata dalla ricchezza ereditata, che il Nuovo Mondo rischiava di trasformarsi nella Vecchia Europa. E sostenevano che le politiche pubbliche dovevano puntare a limitare la disuguaglianza per ragioni sia politiche che economiche. Com’è possibile, allora, che idee come queste non solo non siano più maggioritarie, ma che vengano addirittura considerate illegittime?
Guardate come è stato trattato il tema della disuguaglianza e delle tasse sui redditi alti durante le elezioni presidenziali del 2012. I Repubblicani sostenevano che il presidente Barack Obama era ostile ai ricchi. «Se la vostra priorità è punire le persone che hanno grande successo, allora votate per i Democratici», diceva Mitt Romney. I Democratici respingevano con veemenza (e veridicità) l’accusa. Ma Romney in pratica stava accusando Obama di pensarla come Teddy Roosevelt. Com’è possibile che questo sia diventato un peccato politico imperdonabile?
A volte si sente dire che la concentrazione della ricchezza non è più un problema rilevante perché chi vince nell’economia odierna sono self-made men che devono la loro posizione ai vertici della scala sociale al frutto del proprio lavoro, non alla ricchezza ereditata. Ma è una tesi in ritardo di una generazione. Un nuovo studio degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman ha riscontrato che la percentuale di ricchezza detenuta dal supervertice della scala sociale - lo 0,1 per cento più ricco della popolazione - è raddoppiata dagli anni 80 a oggi e ormai è ai livelli di quando Teddy Roosevelt e Irving Fisher lanciavano i loro ammonimenti. Non sappiamo quanta parte di quella ricchezza sia ereditata. Ma è interessante dare un’occhiata alla classifica degli americani più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Facendo due conti a occhio, circa un terzo dei primi 50 ha ereditato grandi patrimoni. Un altro terzo ha 65 anni o più, e quindi probabilmente lascerà grosse fortune ai suoi eredi. Non siamo ancora una società con un’aristocrazia ereditaria del denaro, ma se continueremo su questa strada lo diventeremo nel giro dei prossimi vent’anni.
Insomma, la demonizzazione di chiunque parli dei pericoli della concentrazione della ricchezza è basata su una lettura errata, sia del passato sia del presente. Discorsi del genere non sono antiamericani, anzi: fanno parte integrante della tradizione americana. E allora, chi sarà il Teddy Roosevelt di questa generazione?
©2-014 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)
Il vero populismo è quello di Renzi, e del codazzo che lo segue: a partire dai direttori della grande stampa d'"opinione unica". Ma Renzi è un frutto, non la radice. Il manifesto, 1° aprile 2014
«O con me o contro di me», sapendo che chiunque, «professoroni» o «benaltristi» oserà contraddirmi dovrà vedersela con la furia «dei cittadini, delle famiglie, di chi ha sempre pagato e ora si aspetta che a pagare siano i politici». L’appello al popolo è l’arma atomica brandita da Matteo Renzi contro le voci che criticano la sua riforma costituzionale approvata, all’unanimità, dal consiglio dei ministri.
Il ricatto del capo del governo ha dalla propria parte la forza d’urto dei fallimenti della classe dirigente, a cominciare da quelle forze intermedie, partiti e sindacati, che si riferiscono alla sinistra. E dunque vale la pena prendere questo toro per le corna, come ha fatto nei giorni scorsi Maurizio Landini nel corso di una manifestazione a Marzabotto. Il segretario della Fiom raccontava di essere stato fermato per la strada da un automobilista che gli chiedeva di dare una mano a Renzi. Proprio a lui che, sia sulle riforme costituzionali che del lavoro, ha sostenuto posizioni contrarie. «Come rispondiamo? Chiedendo qualche tavolo? E con quale forza di rappresentanza?».
Le parole di Landini spiegano meglio di tanti discorsi a che punto siamo e perché Renzi non è un coniglio uscito dalle primarie del Pd, ma un prodotto della crisi della politica, della sinistra, del sindacato. E spiegano perché l’opposizione dei costituzionalisti firmatari dell’appello contro la nuova Costituzione disegnata dal governo (tra i quali molte firme del nostro giornale) può facilmente essere bollata come una ridotta di parrucconi contrari al cambiamento.
Osservare che una riforma della Costituzione come quella presentata dall’unanime governo, combinata con una legge elettorale ipermaggioritaria, può determinare che il solo partito di maggioranza abbia mano libera, è bollato come un attentato al riformismo. Le voci dissonanti, da quelle del presidente del senato a quelle della sinistra radicale, è denunciato dal coro della grande stampa e dai tg come pericoloso disfattismo. Sul sito di repubblica.it, a proposito del decreto sul lavoro, il 29 marzo si poteva leggere la cronaca sui «i due punti intoccabili» del governo con la chiosa «così Renzi tenta di mettere ordine alle scomposte posizioni del suo partito». Un esempio di slittamento del linguaggio che annovera le opposizioni alle proposte del segretario-presidente come fuoco amico.
L’onda populista che spinge i giornali a farsi bollettini dei sondaggi, con gli editorialisti che vogliono salvarci dalla brace di Grillo e Casaleggio per friggerci sulla padella di Renzi, è cresciuta nel paese insieme e proporzionalmente all’arretramento della sinistra fino all’annullamento, culminato con la crisi economica, di qualunque visione non di alternativa, o di “equilibri più avanzati” come si sarebbe detto nella prima repubblica, ma dell’idea stessa di una democrazia costituzionale.
«Il nuovo patto di stabilità elimina anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Lo stesso margine a cui il Presidente del consiglio sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere. Secondo alcuni studi, i nuovi obiettivi equivarranno per l'Italia a oneri per 50 miliardi di euro l’anno».
Sbilanciamoci, newsletter n. 318, 1 aprile 2014
Come ho spiegato più approfonditamente in un recente articolo, il Fiscal Compact non guarda tanto al deficit nominale (fermo restando l’inviolabilità assoluta del limite del 3%) quanto al cosiddetto “deficit strutturale”. Ma cosa si intende esattamente per bilancio o deficit strutturale? Quest’ultimo viene calcolato dalla Commissione in base a dei parametri del tutto arbitrari e fortemente ideologici (e fortemente contestati), e ufficialmente serve a stabilire quale sarebbe il deficit di uno stato membro se la sua economia stesse operando al “massimo potenziale”. Si tratta in sostanza di un indicatore che dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit di un paese sia dovuto alla congiuntura economica, nel qual caso potrebbe essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia “strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. La premessa è che in condizioni “normali” un paese dovrebbe avere un bilancio nominale sostanzialmente in pareggio. Facendola semplice, il bilancio strutturale viene calcolato sottraendo al deficit nominale una percentuale imputabile, secondo la Commissione, alla congiuntura economica. Questa differenza viene chiamata “output gap”.
Il Fiscal Compact stabilisce che tutti i paesi devono convergere rapidamente verso il “pareggio di bilancio strutturale”, che varia da paese a paese (in base al loro rapporto debito/Pil e ad altri parametri) secondo una forchetta che va dal -1% del Pil al pareggio o avanzo di bilancio (sempre inteso in senso strutturale, non nominale). Nel caso dell’Italia l’obiettivo è un avanzo strutturale dello 0.2%, da raggiungere entro il 2016.
L’introduzione del concetto di bilancio strutturale nella normativa europea rappresenta molto più di un semplice dettaglio tecnico (peraltro poco compreso); esso stravolge radicalmente le regole di bilancio in vigore finora nell’Ue. La Commissione può infatti stabilire, in base a dei parametri del tutto arbitrari, che un paese ha un deficit strutturale – e deve dunque implementare ulteriori misure di austerità – anche se registra un deficit nominale (entrate meno uscite, al lordo degli interessi sul debito pubblico) inferiore al 3%, e dunque in linea con i parametri di Maastricht. In questo senso, non è esagerato affermare che il Fiscal Compact elimina definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. Precisamente quel “margine” a cui Renzi sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere.
Il caso dell’Italia è illuminante. Come si può vedere nella seguente tabella, la Commissione prevede che nel 2014 il deficit nominale del paese scenderà dal 3 al 2.6%, portandoci ampiamente all’interno dei margini previsti da Maastricht.
E questo sarebbe solo l’inizio. In base a uno studio realizzato da Giorgio Gattei e Antonino Iero, infatti, gli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact costringerebbero l’Italia a mantenere (per quasi vent’anni!) un avanzo primario non inferiore al 4.5% (pari all’incirca a 50 miliardi di euro l’anno).[1] Che è esattamente l’obiettivo di medio termine che Bruxelles si aspetta dall’Italia, secondo fonti interne alla Commissione. E questo ipotizzando delle condizioni economiche future (tasso di crescita, inflazione, ecc.) “al meglio”. Una strada insostenibile non solo da un punto di vista sociale ma anche economico. Come ha scritto Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore:
Se si considera il moltiplicatore fiscale si può dire che per effetto di una tale manovra il Pil scenderà di un altro punto percentuale e che quindi nemmeno la manovra aggiuntiva metterà i conti italiani in ordine. I cittadini saranno estenuati dalla dimensione della manovra e indignati per la sua inefficacia. A quel punto l'azione del governo sarà politicamente insostenibile. In conclusione: o si cambia strategia nei confronti dell'Italia (Marshall Plan, deroghe su debito e spesa per investimenti, intervento della troika) o l'architettura del Fiscal Compact dovrà essere modificata.[2]
Alla luce di ciò, non si capisce bene quale sia il “margine” a cui fa riferimento Renzi. Il fatto stesso di porre il problema in termini di rispetto o meno del vincolo del 3% non ha senso, poiché nell’epoca del Fiscal Compact la questione non riguarda più lo sforamento o meno del tetto del 3% (che comunque il Patto vieta categoricamente), ma piuttosto il fatto che ormai è stato cancellato anche l’esiguo spazio di manovra previsto dal Trattato di Maastricht. Perché Renzi non lo dice? E anzi continua a parlare come se continuassimo a vivere nell’era pre-Patto? Dobbiamo veramente credere che egli non capisca come funziona il Fiscal Compact? O piuttosto le sue dichiarazioni vanno intese come facenti parte di una strategia intesa a rivedere il Fiscal Compact in sede europea, magari contando su una maggioranza socialdemocratica nel Parlamento dopo le elezioni di maggio (per apportare modifiche al two-pack e al six-pack basta il Parlamento europeo).
Se fosse veramente così – e ovviamente ce lo auguriamo – Renzi però dovrebbe dirlo apertamente, coinvolgendo attivamente la società civile italiana ed europea e facendosi promotore di una campagna europea per la ridiscussione del Patto nel suo complesso. Ma questo significherebbe innanzitutto dire agli italiani la verità sul Fiscal Compact. L’esatto opposto di quello che Renzi ha fatto finora.
[1] Giorgio Gattei e Antonino Iero, “L’insostenibile rimborso del debito”, Economia e Politica, 10 marzo 2014.
[2] Carlo Bastasin, “L’Europa cambi linea”, Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2013
Intervista al presidente di Palazzo Madama che contesta la riforma proposta da Renzi.Resti un’assemblea di eletti: non dia la fiducia, ma si occupi di leggi costituzionali e etiche. La democrazia viene prima del portafoglio. Le parole del Presidente del Senato non è rivolto solo al caopetto, ma a tutti quelli vhe condividono la responsabilità di decidere.
La Repubblica, 30 marzo 2014
Sindaci e governatori nel nuovo Senato? «Ci sarebbe una sovrapposizione di poteri diversi ». Chi dovrebbe scegliere i futuri senatori? «Anche la gente». Il nome? «Sempre Senato». I rapporti tra Montecitorio e Palazzo Madama? «No al bicameralismo perfetto». La fiducia? «Solo alla Camera». L’obiettivo istituzionale? «La stabilità e la rappresentatività indicata dalla Corte costituzionale ».
Nel suo studio le foto sono soprattutto quelle della vita da magistrato, anche se spicca l’ultima con Papa Francesco. Lui, il presidente del Senato Pietro Grasso, ragiona solo da politico. Quando gli si dice che un accreditato gossip lo descrive come il futuro capo dello Stato, con aria visibilmente seccata, replica: «Non scherziamo. Io penso a fare bene il mio lavoro, e da presidente parlo della riforma del Senato, nel mio pieno ruolo istituzionale e super partes». E come si sente come probabile ultimo presidente di questo Senato? «Da fuori mi vedono come l’ultimo imperatore, io mi sento l’ultimo dei mohicani...».
Renzi è stato netto, ha detto «se il Senato non va a casa, vado a casa io». Domani esce il suo testo. Se vestisse i suoi panni che farebbe? «Quello che sta facendo lui, lavorando con tutte le mie forze per superare il bicameralismo perfetto, diminuire il numero dei parlamentari, semplificare l’iter legislativo». Ma da qui come la vede? Abolire il Senato è davvero necessario e indispensabile? «Aldilà delle semplificazioni mediatiche nessuno parla di abolire il Senato, ma di superare il bicameralismo attuale. L’urgenza è prima istituzionale che economica: dobbiamo accelerare il processo legislativo, senza indebolire la democrazia ».
Che aria ha avvertito nei suoi incontri con la gente, ritengono il Senato un’inutile fonte di sprechi? Un duplicato della Camera? Una perdita di tempo? Un residuo del passato? «Certamente la gente pensa, a ragione, che quasi mille parlamentari siano troppi, che la politica costi molto e produca poco, che sia venuto il momento di dare una sterzata. Ma avverto anche la forte preoccupazione di mantenere, su alcuni temi, la garanzia di scelte condivise. Con un sistema fortemente maggioritario, con un ampio premio di maggioranza e una sola Camera politica, il rischio è che possano saltare gli equilibri costituzionali e ridursi gli spazi di democrazia diretta». E sarebbe? «Affidare a una sola camera anche le scelte sui diritti e sui temi etici potrebbe portare a leggi intermittenti, che cambiano ad ogni legislatura, su scelte che toccano profondamente la vita dei cittadini e che hanno bisogno di essere esaminate anche in una camera di riflessione, come ritengo debba essere il Senato».
Quindi il suo Senato ideale come si chiama e com’è fatto? «Non rinuncerei mai a una parola italiana che viene usata in tutto il mondo. Lascerei il nome di Senato, e dovrebbe essere composto da rappresentanti delle autonomie e componenti eletti dai cittadini...». Che fa, la stessa proposta del capogruppo di Forza Italia Romani? Ancora un Senato di eletti? Ma così crolla il progetto Renzi... «Non è la stessa proposta, perché io immagino un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli. Per rendere più stretto il coordinamento tra il Senato così composto e le autonomie locali, prevederei la possibilità di partecipazione, senza diritto di voto, dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle aree metropolitane ».
Renzi vuole come senatori sindaci e governatori regionali, lei perché è contrario? «Perché ritengo che per una vera rappresentatività sia indispensabile che almeno una parte sia eletta dai cittadini, come espressione diretta del territorio e con una vera parità di genere. Una nomina esclusivamente di secondo grado comporterebbe una accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori ». Quindi un fifty-fifty? «Non si tratta di percentuali, su quelle vedremo. Credo sia utile la presenza di rappresentanti delle Assemblee regionali, proprio per rafforzare la vocazione territoriale del Senato, estendendo la funzione legislativa regionale a livello nazionale. Ma sindaci e presidenti di Giunte regionali, che esercitano una funzione amministrativa sul territorio, a mio avviso non possono esercitare contemporaneamente una funzione legislativa nazionale, ma soltanto consultiva e di impulso».
Altro che Senato delle autonomie, il suo assomiglia a quello di adesso, solo con meno poteri e competenze. «Niente affatto. Il Senato che immagino io, anche in parallelo con la riforma del Titolo V, è un luogo di decisione e di coordinamento degli interessi locali fra di loro e in una visione nazionale, e in questo senso dovrebbe sostituire la Conferenza Stato-Regioni». E come la mette con i soldi? Questo suo Senato, sicuramente, avrà un costo maggiore rispetto a uno di sindaci e governatori perché gli eletti, proprio come quelli di illustri che siano? adesso, dovranno necessariamente essere retribuiti. Quindi, con questo sistema, dove va a finire il risparmio previsto da Renzi? «Possiamo ottenere risparmi maggiori diminuendo il numero complessivo dei parlamentari e riducendo le indennità, solo per iniziare. Poi mi faccia dire che non si può incidere sulla forma dello Stato solo con la calcolatrice in mano».
Questo suo Senato rispetto alla fiducia al governo che fa? «Non dà la fiducia, non si occupa di leggi attuative del programma di governo, né di leggi finanziarie e di bilancio. Il rapporto col governo su questi punti deve restare solo e soltanto alla Camera». Di quali leggi dovrebbe occuparsi? «Oltre a tutte le questioni di interesse territoriale, delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, di legge elettorale, ratifica dei trattati internazionali, di leggi che riguardano i diritti fondamentali della persona». Solo questo? «Io immagino che una Camera prettamente ed esclusivamente politica debba essere bilanciata da un Senato di garanzia, con funzioni ispettive, di inchiesta e di controllo, anche sull’attuazione delle leggi.
Chiaramente il Senato dovrà partecipare, in materia determinante, ai processi decisionali dell’Unione Europea, sia in fase preventiva che attuativa». Prevede anche i senatori a vita o cittadini «L’apporto di grandi personalità del mondo della cultura, della scienza, della ricerca, dell’impegno sociale non può che essere utile. In che modo e in che forma sarà da vedere».
Due questioni calde, la tagliola sulle leggi del governo che vanno a rilento e i poteri “di vita e di morte” del premier sui ministri. Progetto ammissibile e condivisibile? «Un termine chiaro entro cui discutere le proposte del governo, in un sistema più snello, non può che accelerare e semplificare l’iter legislativo. La ritengo una buona proposta. La seconda ipotesi non mi sembra sia prioritaria in questo momento».
Praticabilità politica. Dopo il caos del voto sulle province, finito con la fiducia, che prevede per il voto su questa riforma? «Se si vuole un’accelerazione e una maggioranza di due terzi non si deve procedere mostrando i muscoli, ma cercando proposte più possibili condivise e aperte alla riflessione parlamentare. I senatori non sono tacchini che temono il Natale, e sono pronti a contribuire al disegno di riforma del Senato». Ne è davvero convinto o s’illude? «Hanno compreso, credo, le aspettative dei cittadini: partecipazione democratica, efficienza delle istituzioni, diminuzione del numero di deputati e senatori, taglio radicale ai costi della politica. Diminuendo di un terzo il numero dei parlamentari tra Camera e Senato, e riducendo le indennità, si otterrebbe un risparmio ben superiore a quello che risulterebbe, bilancio alla mano, dalla sostituzione dei senatori con amministratori dei comuni, delle aree metropolitane e delle regioni».
Un prossimo voto di fiducia di questo Senato sul futuro Senato è ipotizzabile? «Non penso che si possa riformare la Costituzione con un maxi-emendamento e senza alcun contributo delle opposizioni». Il timing di Renzi prevede prima la riforma del Senato, poi quella elettorale, il famoso Italicum. Forza Italia dice già di no e vuole il contrario. Lei che tempistica prevede? «Dal momento che la legge elettorale riguarda solo la Camera approviamo prima la riforma del Senato, per poi passare immediatamente all’Italicum». Lei sta già riorganizzando gli uffici di questo Senato. Perché? Per mantenere lo status quo o in vista della riforma? «Sto lavorando per proporre al Consiglio di presidenza una riorganizzazione che risponda ad alcune esigenze attese da anni. Questo non ostacola le riforme, anzi le anticipa: razionalizzando le strutture, eliminando quelle non necessarie, valorizzando la prospettiva regionale ed europea del Senato, tagliando dal 30 al 50% le posizioni apicali e andando a ricoprire i posti restanti con nomine a costo zero, senza alcun aumento in busta paga per nessuno. Inoltre è già stato deliberato l’accorpamento di molti servizi con quelli corrispettivi della Camera, e si va verso l’unificazione dei ruoli del personale di Camera e Senato. Voglio che il nuovo Senato parta già nella sua piena efficienza».
Politica e mafia. La polemica sul 416-ter. La sua proposta, appena eletto, è agli atti. Adesso? È d’accordo sull’ipotesi del decreto legge cambiando il testo uscito dal Senato? «Come ho detto, la mia proposta è agli atti. L’ho presentata il primo giorno, ho ancora il braccialetto bianco al polso e spero che si faccia presto e bene».
«idomini idadominijanni.com, 30 marzo 2014
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Qualcuno dovrebbe spiegare a Matteo Renzi che Barack Obama, l'uomo di cui indegnamente aspira a presentarsi come un clone di provincia, non ha mai pensato di abolire il ferreo sistema di contrappesi parlamentari che nella democrazia americana limita il potere del presidente eletto dal popolo. Anche lì ci sono due camere (elette con sistemi diversi, ma con la stessa funzione legislativa) e anche lì Obama si trova a dover governare con numeri parlamentari che intralciano qualunque sua velleità decisionista: se Renzi, oltre a fare, come ci ha informati, la sua corsetta mattutina con i discorsi di Obama nell'ipod si fosse anche applicato a seguire il tortuoso iter della riforma sanitaria americana lo saprebbe. E saprebbe anche che a Obama non è mai venuto in mente, sol per questo, di abolire il Senato o la Camera d'imperio con la scusa che rendono farraginoso fare le riforme o che costano troppo (eppure anche lì negli Usa c'è una vasta opinione pubblica provata dalla crisi che se la prende con la casta di Washington). Ma Renzi non lo sa, o finge di non saperlo. E va avanti come Brancaleone nella sua crociata contro Palazzo Madama, che non è però una crociata contro il palazzo, bensì contro la rappresentanza, dal momento che secondo lui il suo progetto il palazzo resterebbe, ma abitato da senatori non eletti bensì delegati dai Comuni e dalle Regioni, e con funzioni residuali. L'intervista del presidente del Senato su la Repubblica di oggi dovrebbe servirte a farlo riflettere, ma non servirà perché Brancaleone è Brancaleone e non si fa fermare da nessuno.
Renzi invece sa, perché l'ha detto e ridetto e ripetuto per giustificare il suo patto con Berlusconi sulla legge elettorale, che le riforme istituzionali e costituzionali non si possono fare a colpi di maggioranza. E se questo l'ha fatto valere sulla legge elettorale, che non è una riforma costituzionale, a maggior ragione dovrebbe farlo valere per la riforma del bicameralismo e della forma di governo. Invece qui va avanti come un carro armato, forte ora dell'alleanza con Berlusconi (al senato), ora (alla camera) della maggioranza schiacciante di deputati che al suo partito viene dall'aver usufruito del premio di maggioranza sulla base di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Il carrarmato non prevede solo la tabula rasa del bicameralismo, con la sola Camera titolare del voto di fiducia al governo e del processo legislativo. Prevede altresì, anche se questo il buon Matteo non lo dice ma si limita a farlo trapelare, il rafforzamento dei poteri del premier; e si può facilmente immaginare che di un premier così rafforzato si richieda, o prima o poi, l'elezione diretta. Per la quale, grazie all'Italicum, basterebbe il 37% dei votanti, ovvero meno del 30% del corpo elettorale. Dopodiché il premier si troverebbe a regnare con pieni poteri su una sola Camera, nella quale disporrebbe, sempre grazie all'Italicum, di una schiacciante maggioranza costituita da parlamentari scelti da lui stesso, nella doppia qualità di candidato premier e segretario del partito cui spetta la formazione delle liste elettorali bloccate. Non bisogna essere esperti di ingegneria costituzionale per valutare il tasso di democraticità di questo progetto. Si tratta palesemente, come dice lo scarno appello promosso da Libertà e giustizia, di una svolta autoritaria, identica a quella che non abbiamo fatto mettere a segno da Silvio Berlusconi negli anni passati (http://www.libertaegiustizia.it/2014/03/27/verso-la-svolta-autoritaria/). Mi allineo dunque a quell'appello sottoscrivendolo parola per parola, nel giudizio non solo sulla riforma ("un sistema autoritario che dà al presidente del consiglio poteri padronali") ma su ciò che rischia di renderla possibile ("la stampa, i partiti e i cittadini [che] stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare") e sulla gerarchia delle responsabilità in gioco ("la responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto" perché Berlusconi non c'è più ed è "il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria"). A parziale correzione aggiungo solo una sfumatura, questa. Non è che il Pd metta la sordina sulla svolta autoritaria perché a gestirla adesso c'è il suo leader e non più il Cavaliere. Il fatto vero, che emerge ogni giorno con maggiore evidenza, è che per la maggioranza del Pd questa svolta nell'assetto costituzionale, al pari della svolta nei diritti del lavoro che si annuncia con il jobs act, va benissimo oggi e andava benissimo anche ieri, solo che purtroppo a impedire di attuarla c'era l'impedimento della persona di Berlusconi. Tolta di mezzo la persona, si può finalmente farsi titolari del suo progetto: senza sordina ma ribattezzandolo "il bene degli Italiani", come Renzi strombazza tre volte al giorno. Chissà perché ci siamo tanto tormentati su come uscire dal ventennio berlusconiano. In fondo era semplice, semplicissimo: bastavano una sentenza che mettesse fuori gioco il Cavaliere e un erede cresciuto nell'altra metà del campo che ne continuasse l'opera. |
Anche nel secolo scorso lo facevano, ma almeno con maggiore dignità.
Il manifesto, 29 marzo 2014
Invece, solo il 25 marzo scorso — contravvenendo alle mozioni parlamentari approvate nel giugno del 2013 che chiedevano la sospensione dei nuovi acquisti — il ministero della Difesa di F35 ne ha comprati altri due. A fine settembre ne aveva presi tre. C’era da aspettare la fine dei lavori di indagine della Commissione difesa sui sistemi d’arma prima di fare altri contratti, ma prima Mauro e poi Pinotti non ne hanno tenuto conto, con la scusa che le procedure erano state già avviate. La Commissione Difesa terminerà i suoi lavori mercoledì prossimo: c’è il documento dei deputati Pd che almeno chiede (e conferma) la sospensione di nuovi contratti per gli F35, ma evidentemente il capogruppo alla Camera di quel partito ha un’altra idea, come la ministra della Difesa.
Vedremo cosa succederà in un Pd in grande confusione e diviso: tra chi (e sono tanti) gli F35 non li vuole o li vuole significativamente ridurre e chi — il governo — invece pensa che siano buoni e utili. Solo poco più di un anno fa (in campagna elettorale) i leader del Pd dicevano che il lavoro viene prima degli F35 (Bersani) e che si tratta di un programma insensato (Renzi): ora quel partito non si sa che idea abbia, anche se — in contrasto con una parte significativa del suo gruppo parlamentare e con il senso comune del suo elettorato — sembra che la bussola della leadership stia tornando nuovamente ad orientarsi verso il sostanziale mantenimento del programma. Sarebbe una scelta disastrosa che avrebbe effetti laceranti sulla base sociale di quel partito.
Paradossalmente ha avuto più coraggio l’ex ministro della Difesa — militare e ammiraglio della marina — Di Paola nel ridurre con il governo Monti gli F35 da 131 a 90 che l’ex marciatrice di Porto Alegre e l’ex manifestante contro la mostra navale bellica di Genova — ovvero l’attuale ministra della Difesa — che non perde occasione per avvalorare tutte le peggiori scelte dei sistemi d’arma delle nostre Forze Armate.
Magari il governo e la maggioranza parlamentare tenteranno di rinviare la decisione finale per l’ennesima volta (utilizzando la stesura di un libro bianco da fare entro la fine dell’anno), mentre nel frattempo si continuerà a procedere a singhiozzo con nuovi contratti che permettono di andare avanti nella produzione fino al 2016. Oppure concederanno un contentino: qualche aereo in meno. Si tratta di una strategia dilatoria e comunque miope. Una scelta dannosa per l’Italia e ritenuta sbagliata dalla stragrande maggioranza degli elettori di sinistra e sicuramente anche dalla maggior parte del paese. Tra qualche settimana ci sarà una nuova mozione dei deputati pacifisti per lo stop agli F35: quella potrebbe essere l’occasione per cambiare strada. Possiamo ancora fermarci e destinare questi soldi al lavoro e a cause più buone e utili.
«Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche».
La Repubblica, 29 marzo 2014
SONO passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica «di tipo leninista»: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, dovremmo forse esultare della felice resipiscenza? In teoria, sì, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada - come ci avverte fin dal titolo l’ultimo saggio di Massimo Giannini - in un panorama di macerie : L’anno zero del capitalismo italiano.
Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, il vicedirettore di questo giornale fornisce un’analisi di sistema che è insieme economica e politica. Descrive con sapienza l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia. Come nella fuga dalle loro responsabilità degli azionisti Telecom riuniti nella Galassia del Nord che cedono il controllo agli spagnoli pur di limitare le perdite, e se ne infischiano se il 78% degli altri azionisti comuni mortali che hanno comprato in Borsa non vedranno un centesimo. Come il plenipotenziario Paolo Scaroni che all’Eni riesce a scansare lo scandalo del crollo di valore della controllata Saipem, perché lui appartiene a una consorteria imprescindibile. E avanti di questo passo. Fa impressione la sintesi che Giannini ci propone dei maggiori gruppi imprenditoriali pubblici e privati del nostro paese: quando fanno profitti, li fanno all’estero. Qui da noi hanno contribuito a una desertificazione.
Ritorno all’anno zero del capitalismo, appunto. Dove vengono meno anche i polmoni del credito se è vero che «Montepaschi resta una bomba a orologeria» destinata quasi inevitabilmente alla nazionalizzazione. Mentre Intesa Sanpaolo, concepita come “banca di sistema”, oggi si ritrova acefala, logorata nei suoi vertici e oppressa da troppe grandi operazioni finite in perdita.
L’angusto orizzonte del capitalismo di relazione, passando il vaglio della prolungata depressione economica, rivela scenari imbarazzanti. Perché i protagonisti di spoliazioni aziendali o di raggiri contabili non possono essere liquidati come corpi estranei. Giannini fa due nomi per tutti: Giuseppe Mussari e Salvatore Ligresti. Mele marce? Davvero Mussari che ancor oggi si fa fotografare a cavallo nella campagna senese ha potuto turlupinare l’intero mondo bancario italiano godendo di protezioni politiche trasversali, senza che i colleghi ne avessero percezione? E quanto a Ligresti, siamo sicuri che integrarlo nel salotto buono servisse solo al vecchio compaesano Cuccia, o invece ha fatto comodo a tanti altri banchieri contemporanei?
Massimo Giannini considera il 2013 l’anno cruciale del disfacimento di questa economia di relazione minata nelle sue fondamenta. È l’anno che precede, non a caso, il definitivo espatrio della Fiat trasformata da Marchionne in multinazionale svincolata dagli impianti italiani; con grande beneficio per l’accomandita Agnelli e grave danno per il sistema paese. Ma nella sua appassionante ricostruzione già nel 2011 salta un architrave decisivo di questo sistema collusivo in cui varie debolezze si sostengono a vicenda: parliamo della presidenza delle Generali bruscamente sottratta a Cesare Geronzi, e con lui a uno scivoloso baricentro in cui si ritrovano sottogoverno e Vaticano, immobiliaristi e concessionari pubblici, ex industriali passati alla rendita e lobbisti millantatori in cerca di nuovo lustro.
Si chiarisce giorno dopo giorno l'ideologia del branco renzusconiano. Vogliono formare pezzi della macchina del capitalismo, non donne e uomini capaci di pensare, criticare, cambiare, crescere e contribuire a migliorare il mondo.
Il manifesto, 28 marzo 2014
Il modello per la scuola scelto dal ministro dell’Istruzione Stefania Giannini è quello tedesco. Questo significa privilegiare l’istruzione tecnica, portare gli studenti a fare tirocini o stage in azienda sin dal quarto anno di scuola come già previsto, usando magari le norme sui contratti a termine del Jobs Act che cancellano l’acausalità dei contratti e deregolamentano l’apprendistato. Per questo, il Miur aumenterà gli istituti tecnici superiori. Ai 63 attuali se ne aggiungeranno altri dedicati al turismo e ai beni culturali con classi in cui si parlerà solo in inglese o francese.
Secondo i dati di AlmaDiploma, il 37,2% dei diplomati tecnici del 2012 lavorava già ad un anno dal titolo, mentre il tasso di disoccupazione è il più alto tra i diplomati: il 34%. L’insistenza su questo indirizzo di studi si spiega nella cornice più generale della professionalizzazione dell’istruzione, un modello inseguito anche dai predecessori di Giannini: Gelmini, Profumo e Carrozza. I dati non sembrano confermare questo orientamento nelle politiche dell’istruzione, come del resto in quelle del lavoro: secondo il bilancio delle iscrizioni alle scuole superiori per l’anno 2014–2015 gli studenti che scelgono i tecnici sono il 30,8%, prima viene il liceo scientifico con 121.686 richieste, poi l’alberghiero con 48.867. Gli iscritti ai licei sono sempre i più numerosi di tutti: il 50,1%. Fino a quando durerà il governo Renzi, il Miur andrà in contro-tendenza importando un modello che, come ha più volte denunciato il consorzio interuniversitario Almalaurea, mette impropriamente in competizione la formazione tecnica sul lavoro della conoscenza.
Esponendo alcune delle linee programmatiche sulla scuola in commissione Istruzione al Senato, il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ha annunciato ieri di rinunciare a «firmare un’altra riforma dell’istruzione»: «Resisterò alla tentazione di un’ipertrofia normativa». Era inevitabile, considerato che sono ancora in corso di attuazione i decreti della riforma Gelmini del 2008. Nel mantenimento di unostatus quo che ha depresso e confuso l’intero mondo dell’istruzione, il ministro intende procedere con la programmazione delle risorse scarse esistenti e la semplificazione normativa. A partire da un testo unico in materia di normativa scolastica.
Un’altra linea fondante del suo dicastero sarà la battaglia per il merito e contro le retribuzioni degli insegnanti basati sugli scatti di anzianità. Questa battaglia porterà ad uno scontro frontale con i sindacati. Il contratto di lavoro nel settore è bloccato dal 2009. La Corte dei conti ha calcolato i danni del blocco: è costato 3.348 euro in meno per i docenti, 6.380 ai dirigenti scolastici, 2.416 al personale Ata. Soldi che non verranno mai restituiti. Giannini ha menzionato l’esigenza di sbloccare la contrattazione, introducendo però la premialità attraverso valutazione e meritocrazia. In attesa che qualcosa si sblocchi, gli organici docenti restano fermi al 2011, anno in cui si è chiuso il piano triennale di tagli oltre 81 mila posti, mentre gli alunni sono aumentati di 87 mila, creando l’emergenza delle «classi pollaio». Contro questa situazione, la Flc-Cgil ha annunciato mobilitazioni.
Si vuole inoltre completare l’anagrafe dell’edilizia scolastica, un processo iniziato nel 1996 e mai concluso. Senza questo strumento sarà infatti difficile spendere i 3,7 miliardi di euro promessi da Renzi. Giannini ha ribadito l’esigenza di rifinanziare l’istruzione tagliata di 9,5 miliardi di euro dai tagli lineari di Tremonti e Gelmini (8,4 alla scuola, 1,1 a università e ricerca). Su questo si giocherà una partita importante nel governo. Scelta Civica intende strappare un fondo e sostiene di volere andare fino in fondo. Per il momento, il ministro proverà a rifinanziare il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa (Mof) ai livelli del 2011 (1,5 miliardi).
Dichiarazioni di rito sulla necessità di «riassorbire» 178 mila supplenti precari «in un’ottica di lungo periodo». Non sono state fatte previsioni, né cifre. Forse entro la fine della legislatura, nel 2018, quando Giannini intende varare una forma unica di abilitazione all’insegnamento scolastico, unificando le differenti figure esistenti: Tfa ordinari e speciali, Pas, vecchie Ssis, idonei al «concorsone». Un esercito di 100 mila persone nel caos: non si sa se rientreranno in una graduatoria, o cosa accadrà quando verranno riaperte, o se verranno assunti.
Noi europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi. Non possiamo sapere cosa ci aspetterà in futuro. A oggi ogni soluzione che concordiamo di fronte al succedersi di sfide e dissensi emana un’aria di temporaneità. Sembra essere, e il più delle volte dimostra infatti di essere, valida «sino a nuova comunicazione », con una clausola ad hoc che ne rende possibile la revoca, così come ad hoc sono le nostre divisioni e coalizioni, fragili e incerte. Su Le Monde del due febbraio scorso Nicolas Truong, riferendosi ai concetti espressi ripetutamente da Daniel Cohn Bendit e Alain Finkielkraut, ha delineato due opposti scenari per il futuro della nostra convivenza, di noi europei. Cohn-Bendit ha pubblicato con Guy Verhofstadt il manifesto Per l’Europa!, nel quale promuove una via rapida per eludere e superare il mito della sovranità territoriale dello Stato-nazione per costruire una Federazione europea basata sull’”identità europea”, la quale deve ancora essere costruita, pazientemente e uniformemente. Finkielkraut invece è convinto che il futuro dell’Europa risieda nella sua unità, ma ritiene che questa debba corrispondere a un’unità (convivenza? cooperazione? solidarietà?) di identità nazionali.
Finkielkraut ricorda l’insistenza con cui Milan Kundera affermava che l’Europa è rappresentata dalle sue conquiste, i suoi paesaggi, le sue città e i suoi monumenti; Cohn-Bendit invoca invece l’autorevolezza di Jürgen Habermas, Hannah Arendt e Ulrich Beck, uniti nella loro opposizione al nazionalismo. A rigor di logica, queste sono le due strade che si presentano ai nostri occhi nel luogo in cui ci siamo collettivamente raccolti alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Senza dubbio l’attuale, incoerente struttura istituzionale dell’Unione Europea — nella quale le regole senza politica promosse da Bruxelles contrastano con la politica senza regole per cui il Consiglio europeo è famoso, mentre il Parlamento è tutto chiacchiere e poco potere — alimenta simultaneamente entrambe queste tendenze. Ottant’anni fa Edmund Husserl ammoniva: «Il pericolo più grave che minaccia l’Europa è la sua stanchezza».
Nel corso degli ultimi cinquant’anni i processi di deregolamentazione originati, promossi e controllati dai governi statali che si sono uniti volontariamente (o sono stati indotti a farlo) alla cosiddetta “rivoluzione neo-liberale” hanno prodotto una separazione sempre più acuta e crescenti probabilità di separazione tra il potere (ovvero, la capacità di fare) e la politica (ovvero, l’abilità di decidere cosa deve essere fatto). I poteri un tempo racchiusi nella cornice dello Stato-nazione sono per lo più evaporati e sono finiti in una terra di nessuno, quella dello “spazio dei flussi” (secondo la definizione data da Manuel Castells), mentre la politica resta, come in passato, ancorata e confinata al territorio. Tale processo tende a essere sempre più intenso e autoindotto. I governi nazionali, ormai privi di potere e sempre più deboli, sono obbligati a cedere una ad una le funzioni un tempo considerate monopolio naturale e inalienabile degli organi politici dello Stato, per affidarle alle cure di forze di mercato già “deregolamentate”, sottraendole così all’ambito della responsabilità e del controllo da parte della politica. Ciò provoca il rapido dissolversi della fiducia popolare nei confronti dell’abilità dei governi di fronteggiare con efficacia le minacce alle condizioni di vita dei loro cittadini. Questi credono sempre meno che i governi siano capaci di tener fede alle loro promesse.
Per dirla in breve: la nostra crisi attuale è innanzitutto e soprattutto dovuta a una crisi dell’azione di governo — benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale.
Gli europei, così come la maggior parte degli altri abitanti del pianeta, stanno attualmente attraversando una crisi della “politica così come la conosciamo” e al tempo stesso sono costretti a trovare o inventare soluzioni locali a sfide globali. Gli europei, come la maggior parte degli abitanti del pianeta, ritengono che le modalità attualmente impiegate per “fare le cose” non funzionino a dovere, mentre all’orizzonte ancora non si vedono modalità alternative ed efficaci (una situazione che il grande filosofo italiano Antonio Gramsci definì come stato di “interregno” — ovvero una situazione nella quale il vecchio è già morto o sul punto di morire, ma il nuovo non è ancora nato). I loro governi, come tanti altri al di fuori dell’Europa, si trovano di fronte a un dilemma irrisolvibile. Tuttavia, a differenza della maggioranza degli abitanti del Pianeta, il mondo degli europei è un edificio a tre — non a due — piani. Tra i poteri globali e le politiche nazionali c’è infatti l’Unione Europea.
L’intrusione di un anello intermedio nella catena di dipendenza confonde la divisione, altrimenti palese, tra “noi” e “loro”. Da quale parte sta l’Unione europea? Da quella della “nostra” politica (autonoma), o del “loro” potere (eteronimo)? Da un lato,
l’Unione è considerata uno scudo protettivo che difende l’aggregato dei singoli Stati. Dall’altro, appare come una sorta di quinta colonna dei poteri globali, un satrapo degli invasori stranieri, un “nemico interno” e un avamposto di forze che cospirano per erodere e in definitiva annullare la possibilità che nazione e Stato mantengano la propria sovranità. Una percezione, questa, che viene spregiudicatamente e slealmente sfruttata dalle sirene dei neonazionalisti, che a poche settimane dalle elezioni europee stanno guadagnando sempre più consensi, come abbiamo visto alle ultime elezioni locali in Francia, dove ha trionfato il Front National. I neonazionalisti presentano il sogno della sovranità nazionale/ territoriale come cura di tutti i mali causati, secondo loro, dalla realtà odierna.
Proprio come il resto del Pianeta, l’Europa oggi è una discarica dei problemi e delle sfide generate a livello globale. Tuttavia, a differenza del resto del Pianeta, l’Unione europea è anche un laboratorio, forse unico, nel quale ogni giorno si progettano, discutono e collaudano nuove proposte per far fronte a quelle sfide e a quei problemi. Mi spingerei sino a suggerire che questo è un fattore (forse l’unico) che rende l’Europa, il suo retaggio e il suo contributo al mondo straordinariamente significativi per il futuro di un pianeta oggi di fronte a una seconda e cruciale trasformazione della convivenza umana nella storia moderna — e cioè del passaggio incredibilmente faticoso dalle “totalità immaginate” degli Stati-nazione alla “totalità immaginata” dell’umanità. Questo processo, che è ancora agli inizi e che, se il pianeta e i suoi abitanti sopravvivranno, è destinato a proseguire, l’Unione europea incarna un’opportunità molto concreta. Tuttavia, l’obiettivo non è facile da raggiungere. Non c’è alcuna garanzia di successo e sottoporrà la maggior parte degli europei, hoi polloi, e dei loro leader eletti, a una forte frizione tra priorità contrastanti e scelte difficili.
L’idea dell’Europa forse era e rimane un’utopia. Ma è stata e rimane un’ utopia attiva, che si sforza di fondere e consolidare azioni altrimenti disconnesse e multidirezionali. Un’utopia la cui attività dipenderà, in definitiva, dai suoi attori.
( Traduzione di Marzia Porta)
«Il fiscal compact ha sottratto agli stati, con la potestà finanziaria e di bilancio, il potere di provvedere alla garanzia dei diritti costituzionali di ultima generazione, quelli sociali. Una conquista di civiltà giuridica, politica e sociale è stata rinnegata. Va riaffermata».
Il manifesto, 28 marzo.2014
Pare che, con la sua ambiziosa baldanza, Renzi non sia riuscito a convincere la signora Merkel dell’anacronismo dei divieti contenuti nei Trattati europei e della possibilità di attenuarne il rigore.
Evidentemente le tecniche comunicatorie del Presidente del Consiglio in carica hanno un limite di efficacia che non supera l’ambito delle primarie. Il che la dice lunga sulla serietà di tali pratiche ma anche sulla durezza del capitalismo canonizzato dal neoliberismo nei Trattati Ue.
La signora Merkel, infatti, rispondendo a Renzi che la rassicurava sul rispetto del divieto di oltrepassare il 3 per cento del rapporto deficit-Pil, gli ha ricordato che non era l’unica norma da rispettare ed alludeva, con ogni probabilità, all’obbligo di ridurre il debito, come prescrive l’articolo 4 del fiscal compact. Obbligo quanto mai gravoso visto che implica un taglio della spesa pubblica di rilevantissima entità, a partire dal 2015 (30–50 miliardi) a meno che il Pil non aumenti del 3 per cento, obiettivo francamente mirabolante.
Che fare? Il rapporto di sudditanza della politica, del diritto, della civiltà umana all’economia neoliberista va rovesciato con urgenza assoluta. Opponendo i diritti ai profitti e riaffermandone la sovranità. Le ricadute che ne seguiranno potranno essere solo virtuose. Due anni fa, (il manifesto, 18.4.2012), avanzai una proposta. La ripropongo attualizzandola. È quella di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare diretto ad integrare l’articolo 81 della Costituzione, proprio quello che su ukase delle autorità europee, col fiscal compact, recepisce l’imperativo del pareggio. Integrare, tale articolo, con una norma, quella per cui, nel bilancio dello Stato, siano destinate risorse pari alla media della spesa sociale procapite dei tre paesi più sviluppati dell’Unione europea al fine di assicurare il godimento dei diritti riconosciuti dagli articoli 32 (diritto alla salute) 33–34 (all’istruzione) e 38 (assistenza e previdenza sociale).
Il fiscal compact ha sottratto agli stati, con la potestà finanziaria e di bilancio, il potere di provvedere alla garanzia dei diritti costituzionali di ultima generazione, quelli sociali. Una conquista di civiltà giuridica, politica e sociale è stata rinnegata. Va riaffermata. Nel secondo dopoguerra si pose come vanto ed emblema dell’Europa prima che la offrissero alla rapina del capitalismo finanziario. Potrà contribuire a costruire una Europa diversa, quella dei diritti e della democrazia.
Se in tanti, proprio in tanti, le cittadine e i cittadini di questa Repubblica si uniranno nel proporre al Parlamento di deliberare su tale proposta, sarà difficile ai feticisti del neoliberalismo imporre il rifiuto di assicurare diritti, di difendere le conquiste di libertà e di dignità umana sancite nella Costituzione repubblicana. Proviamoci.
Benvenuta la lettera con la quale il Presidente della Repubblica ha sollecitato l’interesse del Parlamento per le questioni riguardanti la fine della vita. Non sarà facile. Ma la ragione non sta nell’esistenza di un completo “vuoto normativo”. Al contrario, esiste già un insieme di principi e regole che definiscono il quadro giuridico da tener presente, sì che il vero rischio oggi può essere quello di usare una nuova legge per restringere diritti già riconosciuti.
”Morire con dignità”, “morire bene”, “diritti dei morenti”, sono alcune tra le tante espressioni con le quali da anni si descrive non solo la condizione delle persone alla fine della vita, ma più in generale il rapporto che ogni persona deve poter stabilire con il tempo estremo della sua esistenza. Infatti, se la morte appartiene alla natura, il morire appartiene alla sua vita, è divenuto sempre più governabile e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno. Proprio seguendo gli itinerari del diritto, è agevole accorgersi di questo radicale mutamento di prospettiva, con l’attribuzione a ciascuno del pieno governo del sé soprattutto per quanto riguarda il destino del proprio corpo, per il quale il principio è ormai quello del consenso libero e informato dell’interessato. La rivendicazione del diritto di morire diviene così parte del più complesso movimento di riappropriazione del corpo.
Tutto questo ha chiari e forti riferimenti nella Costituzione. Nell’articolo 32, dove la salute è definita diritto «fondamentale», si afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»: questo intervento, tuttavia, è ammissibile solo nei casi in cui vi sia una ragione sociale rilevante. Non a caso quell’articolo si conclude con parole molto nette: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In nessun’altra costituzione si trova una norma così impegnativa. Si individua così un’area dell’”indecidibile”, preclusa a qualsiasi intervento legislativo e che viene identificata riferendosi al rispetto assoluto della dignità e della persona nella sua integralità.
Questa linea costituzionale ha trovato ripetute conferme in importanti sentenze dei giudici ordinari e nelle iniziative di un centinaio di comuni che hanno istituito registri dei testamenti biologici. Che non hanno un semplice valore simbolico, perché consentono di accertare l’effettiva volontà di una persona, superando una delle polemiche che accompagnarono la vicenda di Eluana Englaro. E da questo quadro di principi bisogna partire, lasciandosi alle spalle le polemiche che, nella scorsa legislatura, furono determinate dai tentativi di risolvere con norme proibizioniste una questione tanto impegnativa.
Nella discussione, che si snoda ormai nel corso dei decenni e non in Italia soltanto, compaiono due espressioni — accanimento terapeutico e rifiuto delle cure — che costituiscono punti fermi per quanto riguarda i doveri del medico e i diritti della persona. Ma questi non sono due mondi separati, anzi i veri problemi da risolvere sono proprio quelli che riguardano i medici e le loro responsabilità, anche se queste sono state escluse sia dalla magistratura che dall’ordine dei medici nei casi Welby e Englaro. Permane comunque una incertezza, che deve essere eliminata.
Su questi temi ha lavorato a lungo un gruppo di giuristi, medici e studiosi di bioetica, intelligentemente coordinati da professor Paolo Zatti, che ha elaborato una dettagliata proposta di legge, presentata al Senato da Luigi Manconi e che può costituire il riferimento per una discussione parlamentare finalmente liberata da ogni pretesa fondamentalista. Su questo testo varrà la pena di tornare quando sarà avviata la discussione parlamentare. Ma fin d’ora si può ricordare che esso muove dall’ormai incontestabile diritto all’intangibilità del corpo, ribadito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui si esprime al più alto grado il rispetto della dignità umana.
L’abbandono di ogni pretesa di invadere lo spazio della persona, che la Costituzione vuole tenere al riparo dagli interventi del legislatore, non risponde soltanto all’esigenza di affrontare in modo più adeguato, e liberato da ambiguità paternalistiche e pietistiche, la condizione reale di molte migliaia di sofferenti. Chiarisce come il diritto all’autodeterminazione, fondato com’è sulla libertà di governare liberamente la propria vita, mette in evidenza la necessità di tener conto dei diritti di chi intende proseguire la propria esistenza con tutta l’assistenza necessaria. Emerge così il diritto d’ogni cittadino di accedere alle cure palliative ed alle terapie del dolore. Solo tenendo insieme le due possibili scelte della persona, si può uscire dalla schizofrenia istituzionale e dalle ipocrisie di chi invoca l’intervento del legislatore in aree precluse dalla Costituzione, mentre ignora i doveri delle istituzioni pubbliche.
Questi sono i tragitti che portano verso un effettivo rispetto della vita, non quelli di chi si arrocca intorno alla difesa di valori “non negoziabili”, espressione di posizioni che possono avere anche una forte convinzione personale, ma che non possono cancellare i principi costituzionali. Forse i tempi si stanno facendo più propizi ad un confronto ispirato al rispetto pieno della dignità delle persone, grazie all’attenzione partecipe che per questa manifesta continuamente il Pontefice. Il Parlamento non può estraniarsi da questo contesto, continuando a subordinare i diritti delle persone alle convenienze di un partito o di una maggioranza di governo. La Chiesa può rendere la discussione più libera e consapevole. La Germania, oggi così detestata, può ricordarci il ruolo significato della sua Conferenza episcopale nel favorire una legge assai avanzata proprio sulle decisioni di fine vita.
«Rifletterà l'Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra?». I partiti italiani hanno accettato addirittura di introdurre nella Costituzione il vincolo di bilancio. Sbilanciamoci, Newsletter n.316 del 25 marzo 2014
Il Fronte nazionale di Le Pen non solo è diventato – dove presente – il primo partito ma ha respinto il Partito socialista, in testa alle presidenziali due anni fa, al terzo posto. Rifletteranno le teste della Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra?
Speriamo che la solenne botta presa dai socialisti alle elezioni municipali in Francia cancelli gli insulsi sorrisi dai faccioni di Renzi e di Barroso, finora non sfiorati dal dubbio che la politica di austerità seguita dalla commissione avvantaggi le destre. E non le destre, per intenderci, alla Monti, ma quelle estreme e fascistizzanti. Inutile riconoscere che tale è, e senza infingimenti, l'ungherese Viktor Orban, cui è andata per sei mesi la presidenza europea, e lo sono anche le forze che dovunque sfondano i residui bipolarismi tra una destra e una sinistra "democratiche". Ultima, clamorosa, la Francia, dove domenica si è votato nei 36.000 comuni e il Fronte nazionale di Le Pen, antisemita, xenofobo e antieuropeo, non solo è diventato – là dove era presente – il primo partito ma ha respinto il Partito socialista, in testa alle presidenziali due anni fa, non al secondo ma al terzo posto, mentre il Partito comunista e il fronte delle sinistre sono sovente scivolate al quarto.
Era da prevedersi, quando la disoccupazione e il precariato toccano quattro milioni di francesi, non molto diversamente dall'Italia. Da un paio di anni a questa parte – quasi ogni giorno – una grande o media azienda francese delocalizza o chiude, e il governo Hollande, che aveva vinto impegnandosi a lottare contro la finanza, non è stato in grado difendere l’occupazione, né in genere l’azienda, neanche quando chiudeva o delocalizzava pur dichiarando lauti guadagni; le maestranze uscivano dai reparti decise a lottare, trovavano la solidarietà del sindaco se, come sovente, l’azienda colpita era anche la più importante dei molti borghi di media urbanizzazione. Il risultato abituale era che in capo a tre settimane ci si doveva contentare di negoziare i cosiddetti “piani sociali”, altri e perlopiù lontani impieghi o indennizzi, con le condoglianze delle centrali sindacali e dei ministeri interessati. A tre giorni dalle elezioni municipali, la settimana scorsa ha chiuso la Redoute, la più antica e nota impresa di confezioni che da sola copriva una vasta percentuale dei consumi del ceto medio, trascinando in rovina intere città industriali, erodendo le possibilità di acquisto della massa operaia e piccolo borghese.
Tutto visibile e prevedibile? Sì, salvo che per un governo socialista, simile al nostro Pd, cui i trattati impongono di non intervenire per non turbare la libera concorrenza e che sperava di cavarsela in imprese militari costose e difficili nell'ex impero coloniale francese, nel Mali e poi nel Centro Africa. Mentre il presidente e il ministro degli esteri Fabius strepitavano per ricorrere alla mano dura contro Putin in Crimea; come se il noto nazionalismo dell’esagono potesse far dimenticare le condizioni di impoverimento crescente.
Ieri sera davanti ai risultati tutto lo staff socialista cadeva dalle nuvole mentre Marine Le Pen sguazzava nel trionfo dell’ondata blu che portava il suo nome. Soddisfatta anche l’Ump di Sarkozy, sicura che il governo avrebbe chiamato all'unità nazionale antifascista, legittimando il voto alla destra repubblicana, come già al tempo della caduta di Jospin nelle presidenziali degli anni Novanta. Rifletterà la Commissione europea? Rifletteranno le teste della Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra? E che il Fronte nazionale diventa il primo partito popolare in Francia? Rifletteranno i molti che in Italia osservano benevolmente Renzi e il gioco delle tre carte che consiste nel mettere (forse) in busta paga di una fascia di bassi redditi quel che gli toglie in servizi pubblici e in tasse locali?
Il Pd infatti segue la stessa strada di Hollande, e la sua flebile sinistra interna non appare in grado di fargli cambiare rotta. E che dire della Cgil di Susanna Camusso che strepita dopo aver poco prima votato con la Confindustria un accordo sulle relazioni industriali eccessivo anche per il nostro malridotto vicino? E della Fiom di Landini che, isolata, spera anch'essa nel Matteo nazionale?
Insomma, non resta che augurarci che la dura botta francese, difficilmente recuperabile al secondo turno, funzioni da severa lezione contro gli eccessi di stoltezza degli ultimi vent'anni d'Europa.
«Riforme. Serve un senato di controllo eletto a suffragio universale. Il bicameralismo perfetto si supera rafforzando la funzione del parlamento, non mutilandolo con l’amputazione di una parte. Ecco gli emendamenti possibili». Il
manifesto, 26 marzo 2014
Da anni sia in sede scientifica sia in quella politica si discute di come «differenziare» i ruolo di Camera e Senato. Da ultimo, è stata la sfortunata commissione dei saggi istituita dal governo Letta a fornire un quadro delle possibili alternative. Bastava assumersi la responsabilità politica di scegliere e proporre al Parlamento un disegno di legge coerente.
Così non è avvenuto. Forse è la volontà di accelerare i tempi scrivendo un testo poco meditato, probabilmente la volontà di non utilizzare nulla di quel che era stato fatto dal precedente governo, magari l’esigenza ritenuta prioritaria di comunicare un solo messaggio semplice e popolare: non si pagano più gli stipendi dei senatori. Come che sia il risultato è la definizione di un organo fragile e politicamente inutile. La nuova «Assemblea delle autonomie» (il nome attribuito all’organo che andrebbe a sostituire il Senato), esclusa dal circuito della fiducia al governo, dovrebbe essenzialmente limitarsi ad esprimere pareri sulle leggi già approvate (rimarrebbero bicamerali solo le leggi costituzionali). Un parere che può essere facilmente superato dalla Camera, anche nei casi più delicati, essendo richiesta al massimo la maggioranza assoluta, vale a dire un quorum facilmente raggiungibile (con l’Italicum potrebbe far da sola anche la singola lista che ottiene il premio).
Eppure, in questo caso ben più che non sulla legge elettorale, ci sarebbe lo spazio per un confronto. Si può contare, infatti, su un dato di partenza ormai pressoché unanimemente riconosciuto: l’attribuzione solo alla Camera del rapporto fiduciario con il governo. Ma proprio l’esclusione del Senato dal circuito fiduciario impone di far valere — rafforzandole — le altre funzioni che una «seconda Camera» può svolgere. Il Parlamento, come è noto, non esercita solo la funzione legislativa (ed anzi, da ormai molto tempo questa è in crisi), ma anche funzioni di controllo, di garanzia, d’inchiesta, di raccordo con le istanze sovranazionali e con quelle locali. A fronte dell’importanza di tali funzioni si registra un progressivo deterioramento della capacità di un loro effettivo esercizio. Poche leggi d’iniziativa parlamentare e prevalentemente di microlegislazione (lasciando al governo la legislazione di principio e quella politicamente più rilevante), scarsa capacità di controllo sull’attività del esecutivo, indeterminatezza dell’attività di garanzia, perdita di senso e di forza delle inchieste parlamentari, marginalità dell’organo della rappresentanza politica nei rapporti con le istanze e gli organi sovranazionali, europei in particolare, scarsa consistenza dei rapporti istituzionali tra Parlamento ed autonomie locali.
Quale migliore occasione di una riforma del bicameralismo perfetto per porre la questione del rafforzamento del sistema parlamentare.
Non dico che sarebbe facile individuare un equilibrio corretto tra Camera e Senato nell’ipotesi in cui si volesse seriamente differenziare il bicameralismo, e il presupposto condiviso (la sottrazione al Senato del rapporto fiduciario) non esenta dalla necessità di un attento lavoro di sintesi e scelta, probabilmente foriera di divisioni e conflitti tra le forze politiche, nonché tra le opinioni della cultura costituzionalistica. Nessuno può pensare che mettere le mani su una Costituzione sia un’operazione indolore e soprattutto priva di rischi. Ma almeno dovrebbe essere chiara la direzione di marcia e l’obiettivo comune. Sono molti anni che si denuncia la debolezza progressiva del Parlamento e la ricerca di una sua centralità è la vera scommessa costituzionale da raccogliere.
Se dunque si vuole mantenere un’ampia competenza legislativa per il Senato (le leggi costituzionali farebbero comunque caso a se) può essere condivisa l’idea di un’elezione di secondo grado espressa direttamente dagli enti territoriali. Si tratterebbe, in caso, di valutare i meccanismi in concreto, personalmente sono molto dubbioso circa la possibilità di una composizione mista fatta da presidenti di Regione, alcuni consiglieri regionali e rappresentanza di sindaci. Non mi pronuncio poi sulla incomprensibile indicazione contenuta nel disegno di legge del governo di far nominare un nutrito gruppo di senatori (ben 21) dal Capo dello Stato per un lasso di tempo di sette anni: una proposta che non vedo come possa conciliarsi con alcuno dei possibili modelli di bicameralismo. A meno di non voler richiamare — peraltro impropriamente — lo Statuto albertino. Così anche la scelta di rafforzare la funzione di partecipazione e raccordo degli enti territoriali all’attività non legislativa dello Stato centrale può far ritenere idonea la soluzione della rappresentanza indiretta.
Se, invece, com’è nella proposta del governo, il Senato (ovvero l’«Assemblea delle autonomie») si dovesse limitare ad esprimere pareri sull’attività legislativa monopolizzata dalla Camera, l’elezione indiretta non avrebbe grande significato. Se non quello di uccidere la seconda Camera per sostituirla con una «Conferenza Stato, Regioni autonomie locali», dai poteri meramente consultivi. Una tale “Conferenza” non avrebbe però nessun bisogno di essere collocata in Costituzione, tant’è che già opera, con competenze diverse, nel nostro ordinamento. Più coerente sarebbe allora indicare la via maestra — che ha una sua nobile tradizione di pensiero — del monocameralismo integrale.
Diverso ancora sarebbe se si optasse per una distinzione più radicale, la soluzione preferibile. Lasciando alla Camera sia il rapporto fiduciario sia gran parte dell’attività legislativa (fatte salve, oltre alle leggi costituzionali, le leggi in materia di libertà e diritti fondamentali delle persone), accentrando sul Senato le funzioni di controllo, di garanzia, d’inchiesta, di raccordo con le istanze sovranazionali. In tal caso però, il criterio di composizione dovrebbe essere quello più congeniale alla rappresentanza di tutte le forze politiche e i gruppi sociali. Un sistema che favorisca le minoranze, che svolga un prezioso ruolo di integrazione e di riavvicinamento dei soggetti sociali alle istituzioni rappresentative. L’elezione a suffragio universale con sistema proporzionale sarebbe il modo di composizione più adeguato. Magari riducendo il numero di senatori. Un Senato che, anche grazie alla sua piena e diretta legittimazione democratica, sia in grado di bilanciare la governabilità assicurata alla Camera.
L'Unità del 26 Marzo 2014.
Il nesso tra legge elettorale e nuovo Senato è discusso con preoccupante superficialità. Se ne fa una questione di calendario, senza badare alla sostanza. L'Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi, con la strada aperta al Quirinale e a modifiche più gravi della Costituzione.
Se si insiste con l’Italicum – si spera con qualche miglioramento - ci serve un forte Senato delle garanzie che, in regime bicamerale, si occupi di alta legislazione, della Costituzione, dei Codici dei diritti fondamentali, dell'ordinamento istituzionale e del controllo dell'attività statale. Funzioni tanto delicate richiedono l'elezione da parte dei cittadini con un’apposita legge elettorale non finalizzata alla governabilità, perché in questa assemblea mancherebbe il voto di fiducia; sarebbero inoltre dimezzati il numero di senatori e le rispettive indennità. Si passerebbe dal bicameralismo perfetto al bicameralismo delle garanzie con una chiara distinzione di compiti, alla Camera il governo del Paese e al Senato l'attuazione dei principi costituzionali.
Viene spesso usato a sproposito l’esempio del Bundestrat, dimenticando che il sistema tedesco non solo è bilanciato ma non si darebbe mai una legge elettorale con l’abnorme premio di maggioranza dell’Italicum. E soprattutto ha saputo recuperare il divario con le regioni dell'Est in soli venti anni. Da noi la tensione Nord-Sud si è accentuata senza arrivare alla frattura, ma solo in virtù della mediazione svolta dai partiti nazionali di destra e di sinistra, pur con le loro debolezze; l'aver contenuto la scissione leghista negli anni Novanta è l'unico merito di Berlusconi. Nel Senato federale, peraltro non previsto nel nostro programma elettorale, si formerebbero invece maggioranze di regioni forti contro quelle deboli e ciò, in assenza di mediazione politica, potrebbe portare alla rottura dell'unità nazionale. L'Italia è l'unico paese europeo che non può permettersi di poggiare la rappresentanza parlamentare sulla frattura territoriale.
È ancora possibile discuterne o già è tutto deciso? La qualità di una riforma costituzionale dipende in gran parte dalle finalità e dal modo in cui viene dibattuta. Tutti i cambiamenti apportati durante la Seconda Repubblica si sono rivelati sbagliati perché vincolati a ragioni politiche contingenti. Nel 2006 la destra cercò la propria stabilizzazione stravolgendo la Carta, che fu salvata in extremis dai cittadini nel referendum. La sinistra invece ha cambiato il Titolo V per inseguire Bossi, ha introdotto lo ius sanguinis del voto all'estero per dare sponda a Fini, ha sigillato il pareggio di bilancio - di cui oggi si chiede la deroga - per dare retta a Monti. Renzi rischia di ripetere vecchi errori e si spinge fino a minacciare la crisi politica per ottenere la cancellazione del Senato. Una sorta di voto di fiducia al governo in materia costituzionale: è allarmante che non desti allarme.
Se la nuova classe politica vuole superare davvero il ventennio non prosegua a cambiare le istituzioni secondo i propri fini politici. Non bisogna servirsi della Costituzione, ma servire la Costituzione migliorandola.
«La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta — lo è ancora — dalle esplosioni idolatriche dei mafiosiı».
La Repubblica, 26 marzo 2014
COSÌ come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i riti di iniziazione a Cosa nostra. E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita. Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam. Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.
Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore di Libera vissuto per anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma. Il Papa ha ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».
Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più cruciali processi italiani — quello sui patti fra Stato e mafia — esigendo a voce alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal menzionare. È un j’accuse pesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la più grande novità di questi giorni.
Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso, “La Chiesa e la mafia”;da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza .Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane». Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana». Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano.
E implica, nella Chiesa, l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori. È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80: proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta collaborazione» lo prescrisse soltant
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta — lo è ancora — dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato, c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una trattativa Stato- mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia. Allo Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).
Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo Dolci e delGattopardodi Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco. Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il ’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma ancor più i preti complici non processati.Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».
Elezioni in Francia: «Non capisco lo stupore, è un risultato annunciato che solo sbrigativamente si può attribuire a populismo, antipolitica, antieuropeismo cieco. È l’esito della politica della Commissione che in questi anni ha fatto come Margaret Thatcher: "La società non esiste"». Il
manifesto, 25 marzo 2014
«La Repubblica, 24 marzo 2014
Lo conferma un sondaggio di Demos, condotto presso un campione rappresentativo di elettori veneti nei giorni scorsi (per la precisione: il 20 e il 21 marzo). La partecipazione al referendum, dai dati, esce ridimensionata. Ma resta, comunque, molto significativa. Quasi metà degli elettori veneti, infatti, sostiene di aver votato oppure di essere intenzionato a farlo. E poco meno dell’80% di essi si dice favorevole al quesito referendario: l’indipendenza veneta. Una posizione condivisa, d’altronde, da un terzo di coloro che dicono di non essere intenzionati a votare.
Nell’insieme, la maggioranza degli elettori (compresi nel campione) si dice d’accordo con l’ipotesi che “il Veneto diventi una repubblica indipendente e sovrana”. Circa il 55%. Mentre i contrari sono poco meno del 40%. Dunque, l’indipendenza costituisce una prospettiva attraente per la maggioranza della popolazione. Piace, soprattutto, agli imprenditori e agli operai. I lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa, che costituiscono il “distintivo” economico e sociale del Veneto. Solo tra i più giovani — e, quindi, fra gli studenti — la posizione contraria all’indipendenza prevale nettamente. Oltre che fra i disoccupati. Anche dal punto di vista politico, gli orientamenti sono molto chiari. L’indipendenza veneta piace agli elettori di Destra (in particolare di FI) e, ovviamente, ai leghisti e agli “autonomisti”. Ma prevale nettamente anche fra gli elettori del M5s, dove, peraltro, negli ultimi due anni è confluito gran parte del voto leghista.
D’altronde, la Liga Veneta è “la madre di tutte le leghe”, come ebbe a definirla uno dei fondatori, Franco Rocchetta. Che venerdì sera era in piazza, a Treviso, a festeggiare il referendum e il mito dell’indipendenza veneta. Bisogna, dunque, prendere sul serio il segnale che proviene dal referendum. Al di là delle misure — ipotetiche — della partecipazione e del consenso dichiarate dagli organizzatori, la rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria. Al tempo stesso, bisogna interpretarne correttamente il significato. In-dipendenza significa, infatti, “non dipendenza”. E, dunque, autonomia. Autogoverno. Non necessariamente “secessione”. Ne danno conferma le opinioni circa il modo migliore “per sostenere gli interessi del Veneto”. La “piena indipendenza del Veneto”, infatti, è sostenuta da una quota ampia, ma non superiore al 30%. Meno di quanti riterrebbero più utile “eleggere parlamentari migliori” (dunque, capaci di esercitare maggiore pressione “su Roma”). Mentre appaiono ampie anche le componenti “federaliste”. È significativo come, fra gli stessi sostenitori dell’indipendenza veneta al referendum, quanti vedono nell’indipendenza “piena” la via maestra per affermare gli interessi regionali siano una maggioranza larga. Ma non assoluta: il 45%. L’indipendenza, dunque, costituisce per i veneti e il Veneto un modo per denunciare, in modo estremo, il disagio nei confronti dello Stato centrale. L’insoddisfazione contro la classe politica e di governo. Non solo nazionale, ma anche regionale.
Da ciò, un’altra indicazione significativa. Soprattutto se si pensa al diverso impatto ottenuto dal referendum dei giorni scorsi rispetto alla manifestazione per l’indipendenza padana, promossa nel settembre 1996. Quando, in marcia lungo il Po per marcare la frontiera del Nord, si recarono pochi leghisti, spaesati e sparsi. Per rappresentare il sentimento e il risentimento territoriale, oggi, conviene rinunciare a patrie immaginarie, come la Padania. Ma anche alle macroregioni oppure ad aree ampie — e differenziate. Come il Nord e lo stesso Nordest. Per storia, economia, identità e interessi, infatti, è sempre più difficile tenere insieme il Veneto con il Piemonte, la Lombardia e lo stesso Trentino Alto Adige. Treviso con Milano e Bolzano. La “questione Veneto”, oggi, conta più di quella “settentrionale”. E affievolisce il Nordest.
Il libero commercio è stato un principio cardine dell’economia nei primi anni di questa disciplina. Sì, vincitori e perdenti esistono, diceva la teoria, ma i vincitori possono sempre risarcire i perdenti, così che il libero commercio (o perfino un commercio più libero) sia una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, purtroppo, si basa su numerosi presupposti, molti dei quali sono semplicemente sbagliati. Teorie più vecchie, per esempio, ignoravano il rischio e presumevano che i lavoratori potessero passare senza problemi da un posto di lavoro all’altro. Si presumeva anche che l’economia fosse alla piena occupazione, così che i lavoratori spostati dalla globalizzazione si sarebbero rapidamente mossi da settori a bassa produttività a settori a più alta produttività.
Quando però c’è un alto livello di disoccupazione, e a maggior ragione quando una consistente percentuale di disoccupati è rimasta priva di lavoro a lungo (come accade adesso), una simile compiacenza non ci può essere. Oggi sono venti milioni gli americani che vorrebbero trovare un posto a tempo pieno ma non ci riescono. In milioni hanno smesso di cercarlo. Di conseguenza, c’è un rischio concreto che il personale spostato in un settore protetto da un posto di lavoro a bassa produttività di fatto finisca coll’entrare nelle lunghe file dei disoccupati a produttività zero. Questo fenomeno nuoce perfino a chi riesce a mantenere il proprio posto di lavoro, dato che la maggiore disoccupazione aumenta al ribasso la pressione sui salari.
Possiamo anche metterci a discutere sul motivo per il quale la nostra economia non è performante come si crede che debba essere — se ciò dipende da una mancanza di domanda aggregata o se avviene perché le nostre banche, più interessate alla speculazione e alla manipolazione dei mercati che al prestito, non stanno garantendo gli adeguati finanziamenti alle piccole e medie imprese.
A prescindere dalle cause, però, la realtà è che questi accordi commerciali rischiano di aumentare la disoccupazione. Una delle cause per le quali siamo in questa brutta situazione è che abbiamo gestito male la globalizzazione. Le nostre politiche economiche incoraggiano l’esternalizzazione, l’outsourcing dei posti di lavoro, e le merci prodotte all’estero con manodopera a basso costo possono essere riportate con poca spesa negli Stati Uniti. Così, i lavoratori americani capiscono di dover competere con quelli all’estero, e il loro potere contrattuale è indebolito. Per questo motivo fondamentale il reddito medio reale dei lavoratori di sesso maschile con un posto di lavoro a tempo pieno è inferiore rispetto a quello di 40 anni fa. La politica americana odierna aggrava questi problemi.
Mettendosi alla guida di una protesta a tutto campo contro l’ente responsabile del Tpp, Harry Reid, leader della maggioranza del Senato, sembra averci dato una piccola tregua. Sembra anche che a vincere questa scaramuccia siano stati coloro che pensano che gli accordi commerciali arricchiscano le multinazionali a spese del 99 per cento. Di fatto, invece, è in corso una guerra molto più estesa per garantire che le politiche commerciali — e la globalizzazione più in generale — siano strutturate in modo tale da migliorare gli standard di vita della maggior parte degli americani.
Per uscire dall'appiattimento della politica su ideologia e prassi dei Mercati, dall'ipocrisia degli economisti, «un insieme di saperi costruiti sulle evidenze della vita quotidiana di milioni di uomini, donne, vecchi e bambini; sui loro bisogni; sui loro desideri; e soprattutto sui loro mille talenti».
Il manifesto, 22 marzo 2014
Alcuni anni fa – eravamo già in piena crisi – dopo una trasmissione in cui un noto economista di sinistra, nonché columnist di un importante quotidiano, si era a lungo diffuso sulla necessità rimettere in moto la crescita, gli avevo chiesto: ma davvero pensi che l’economia italiana possa tornare a crescere a breve? Mi aveva risposto in modo perentorio: in Italia non ci sarà più crescita per almeno dieci anni. Da allora quell’economista–columnist ha pubblicato articoli su articoli su come il paese può riprendere a crescere; ora, subito, ovviamente; non fra dieci anni.
A un altro economista–columnist che aveva pubblicato, insieme a un terzo collega — successivamente risucchiato nel buco nero della lista “Fermiamo il declino” di Oscar Giannino — un articolo molto citato dove sosteneva che per fermare lo spread bisognava vendere subito tutte le imprese di Stato, avevo chiesto, qualche mese dopo, se non avesse cambiato idea. Perché quello che si può ricavare da una vendita simile è irrisorio rispetto alla montagna del debito pubblico italiano. Mi aveva risposto di sì; considerava quell’articolo un errore. Da allora ha continuato a scrivere articoli su articoli per propugnare la vendita di tutti gli asset di Stato. E per occuparsi meglio della cosa è diventato anche un consigliere di Renzi.
Questi episodi, insieme ad altre riflessioni, mi hanno convinto che gli economisti mainstream, o la grande maggioranza, non credono assolutamente in quello che scrivono. Sanno benissimo, o sospettano fortemente, che con le loro ricette, o soprattutto a causa di esse, le cose non possono che andare sempre peggio. Ma allora, perché lo fanno? Perché non raccontano quello che veramente pensano? Il fatto è che non riescono a uscire dalla gabbia concettuale in cui li imprigiona la loro disciplina, ormai assurta al rango di pensiero unico, senza più distinzioni tra destra e sinistra.
Non sanno ragionare senza il puntello di categorie che rimandano a un mondo che non esiste e non è mai esistito, dove tutto ruota intorno a un mercato immaginario, eretto a supremo regolatore del creato, e a cui istituzioni, politica, cultura, ambiente, e la vita stessa di miliardi di esseri umani, non possono fare altro che adattarsi (o cercare di farlo) adottando come unica regola di condotta una lotta di tutti contro tutti. Che loro chiamano concorrenza o competitività. Però, al termine mercato (al singolare) con il quale designano per lo più un meccanismo anonimo, impersonale, trasparente, agìto in modo preterintenzionale da milioni o miliardi di individui, hanno da tempo sostituito il termine “mercati” (al plurale), che allude invece a un potere opaco – anonimo solo perché i suoi detentori agiscono nell’ombra – concentrato in mano a pochissime entità che dominano il mondo con la finanza. Ecco spiegata in modo semplice la loro afasia su ciò che sta succedendo: una gigantesca espropriazione di miliardi di esseri umani per concentrare la ricchezza in un pugno sempre più ristretto di privilegiati. Molti di loro, in realtà, lo sanno benissimo e dietro a tanta teoria non c’è che la difesa dell’ordine esistente, per quante critiche, peraltro assolutamente marginali, gli rivolgano.
Ci sono molti precedenti storici di un approccio concettuale del genere, che Marx chiamava ideologia; ma uno è più chiaro di tutti. E’ il conflitto che aveva spinto la Chiesa cattolica e l’inquisizione a mandare al rogo Giordano Bruno e a imporre una ritrattazione a Galileo Galilei per difendere una concezione dell’universo consolidata in una dottrina da cui discendeva l’immutabilità dell’ordine gerarchico della società del tempo. Anche allora gli inquisitori di Galileo non credevano a quello che sostenevano: per questo si rifiutavano di guardare nel telescopio che mostrava due satelliti di Giove che “bucavano” la sfera celeste, mettendo in forse la sua perfezione cristallina e, con essa, quella dell’ordine sociale.
Ma oggi a bucare i cieli del pensiero unico non ci sono solo due piccoli satelliti, ma diversi giganteschi buchi neri. Per restare in Europa, il primo è la Grecia, il paese-cavia degli esperimenti correttivi della Troika, che anche il nostro attuale ministro dell’economia, solo tre anni fa, spacciava come un’amara medicina che avrebbe risanato il paese. Il paese non è stato affatto risanato; anzi, è stato condannato al rogo come Giordano Bruno. E il suo popolo è ancora in vita solo perché sta lottando con tutte le proprie forze contro quei famigerati memorandum; cioè contro le conseguenze di politiche che, come ci ricordava Luciano Gallino (la Repubblica, 15 marzo), vanno considerate un vero e proprio «crimine contro l’umanità». Eppure quella medicina i sostenitori del pensiero unico insistono a propinarla; la loro scienza non può sbagliare; d’altronde a morine è solo il paziente. Ma in quel cannocchiale puntato sulla Grecia, qualcuno dei nostri economisti–columnist ha provato a guardare?
Un secondo buco nero, che non richiede nemmeno un binocolo per essere visto, è una meteorite che sta per precipitare sul nostro già devastato paese, e su molti altri, per ridurli in poco tempo in cenere come la Grecia. Si chiama fiscal compact e prevede per le finanze dell’Italia, a partire dall’anno prossimo, l’esborso di circa 50 miliardi all’anno, per venti anni di seguito, per restituire una parte cospicua del debito pubblico del nostro paese. Cinquanta miliardi che si andranno ad aggiungere ai quasi 100 che già sborsiamo ogni anno, sotto forma di interessi, ai creditori (privati) dello Stato italiano; soprattutto da quando è stato realizzato il famigerato divorzio tra Governo e Banca d’Italia; la quale, da allora non ha più potuto finanziare il deficit della spesa pubblica. Cumulando gli interessi che lo Stato italiano ha pagato da allora, infatti, e per nessun altro motivo, si è andato costituendo quel mostruoso debito pubblico che oggi viene invece imputato a una popolazione saccheggiata e impoverita, che secondo gli economisti mainstream sarebbe vissuta per anni al di sopra delle sue possibilità. Quel divorzio, peraltro, ha poi fornito alla Bce il modello dello statuto che la esclude dal ruolo di prestatore di ultima istanza; e che è all’origine della maggior parte dei colpi inferti alla solidarietà e alla solidità dell’Unione europea.
Per questo, sia detto di sfuggita, uscire dall’euro, posto che sia fattibile, non ci restituirebbe certo un prestatore di ultima istanza: un’istituzione che può invece venir reintrodotta solo con una lotta condotta a livello europeo. Bene, in quel binocolo nessun economista–columnist sembra disposto a guardare: cioè a spiegare da dove lo Stato italiano potrà mai tirar fuori tutto quel denaro; ovvero quale tasso di crescita sarebbe necessario raggiungere – e subito! – per far fronte a un impegno simile. Preferiscono discettare, incensando il nuovo premier come avevano fatto con tutti quelli venuti prima di lui, sui due o quattro decimali di punto percentuale su cui potrebbe giocare Renzi per far quadrare i conti senza far arrabbiare troppo la Commissione europea. Ma può quel che resta del tessuto produttivo italiano, non dico crescere, ma reggere ancora a lungo, se lo Stato destina ogni anno alla rendita un decimo del Pil? Nessuna risposta in proposito sembra venire dai politici e dagli economisti che stanno mandando anche noi al rogo.
Il fatto è che per scrutare sia le viscere di quei poteri dove si accentra ormai quasi metà della ricchezza della Terra, sia l’universo di una popolazione mondiale – e nel suo piccolo, italiana — proletarizzata, impoverita, sfruttata, indebitata e sospinta ai margini di una vita decente, ci vogliono ben altre discipline che non l’economia mainstream, di destra o di sinistra. Ci vuole una scienza nuova che cancelli dalla faccia della terra tutti i quei pregiudizi; una scienza come quella con cui Galileo aveva fatto piazza pulita dell’universo tolemaico. O, forse, non una scienza vera e propria, con tutti i paludamenti che accompagnano questo termine, ma un insieme di saperi costruiti guardando in faccia il mondo com’è. Dei saperi costruiti sulle evidenze della vita quotidiana di milioni di uomini, di donne, di vecchi e di bambini; sui loro bisogni; sui loro desideri; e soprattutto sui loro mille talenti. Le forze che si stanno raccogliendo in Europa intorno alla candidatura di Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione europea – e che rivendicano una revisione radicale dei trattati che regolano l’Unione, la remissione di una parte sostanziale dei debiti e un grande piano di lavori pubblici per ricondurre il paese alla sostenibilità ambientale — possono essere un punto di riferimento per presentare oggi, e far valere sempre più domani, una visione del mondo alternativa e una prospettiva radicalmente diversa da quella concezione tolemaica del mercato come “risolutore di ultima istanza” dei nostri problemi che ci sta condannando tutti al rogo.
Quando la sinistra rompe i recinti che la dividono e ragiona sulla base dei principi che la uniscono riesce a tracciare prospettive programmatiche convincenti. Il
manifesto, 21 marzo 2014
Fermare l’austerità, espandere la democrazia, controllare la finanza. Queste le parole d’ordine emerse dal forum «Another Road for Europe», organizzato mercoledì al Parlamento europeo dalla Rete europea degli economisti progressisti (euro-pen), di cui fanno parte Sbilanciamoci!, EuroMemorandum, Economistes Atterrés francesi, Transnational Institute e molti altri.
Pochi giorni prima del Consiglio europeo di ieri e a qualche mese dalle elezioni, movimenti e sindacati hanno presentato alle forze politiche europee e nazionali – tra cui Gianni Pittella, vice-presidente del Parlamento europeo; il socialista francese Liêm Hoang Ngoc, autore della recente mozione dell’Europarlamento contro la troika; Stefano Fassina del Pd; Giulio Marcon e Giorgio Airaudo di Sel; Monica Frassoni dei Verdi e Jürgen Klute del Gue [Sinistra Europea - n.d.r.] – le loro proposte per uscire dalla crisi. Rispetto al primo forum di due anni fa, sorprende quanto si sia colmata la distanza tra movimenti e politici, con questi ultimi che ormai fanno proprie molte delle argomentazioni dei primi.
Tutti d’accordo sulla necessità di nuovi investimenti, ma c’è chi puntualizza che non si esce dalla crisi semplicemente rilanciando lo stesso modello che di questa crisi è in parte la causa. «La crescita è importante», chiosa Luciana Castellina, «ma altrettanto importante è dire quale crescita: le politiche industriali devono servire anche per riqualificare la produzione (soprattutto quella energetica) in chiave sostenibile, riorientare la domanda e creare lavoro».
La centralità del lavoro nella ripresa europea è stata ribadita da Ronald Janssen della Confederazione europea dei sindacati (Etuc): «La pressione competitiva sui salari sta aggravando la recessione, uccidendo la domanda e spingendo l’Europa verso la deflazione. Bisogna smettere di vedere il lavoro come un fattore di competitività ma come uno strumento di crescita e di stabilità, a partire dall’introduzione di uno standard europeo sul salario minimo e dalla difesa del modello sociale europeo».
«L'Ue tutela il diritto di asilo ma non accoglie i rifugiati, vieta espulsioni collettive e discriminazioni ma permette agli Stati di restringere gli accessi e di costruire centri di detenzione. E non concede il diritto di voto agli immigrati. In vent'anni, la «fortezza Europa» ha provocato 16 mila morti».
Sbilanciamoci.info, 21 marzo 2014
L'Europa che oggi sponsorizza e celebra con centinaia di manifestazioni e iniziative la Giornata mondiale contro il razzismo è la stessa che ha permesso la strage di Lampedusa del 3 ottobre, solo la più grave delle centinaia di naufragi che hanno attraversato il Mediterraneo. È quella che impone a chi è costretto a fuggire dal proprio paese di chiedere asilo nel primo paese europeo di arrivo, a meno che non sia provato e documentato che questo non è in grado di accoglierlo. Tutela il diritto di asilo, ma sino ad oggi ha accolto solo 56 mila degli oltre 2,5 milioni di profughi siriani (la Turchia ne ha accolti 656 mila, il Libano un milione).
L'Europa di oggi è quella che vincola la «cooperazione con i paesi terzi» alla sottoscrizione di accordi stringenti sul «contrasto dell'immigrazione irregolare» e che con la "direttiva della vergogna" ha stabilito che è possibile rinchiudere nei centri di detenzione i migranti senza documenti colpiti da un provvedimento di espulsione per 18 mesi. È, infine, quella che nella Carta dei diritti fondamentali vieta le espulsioni collettive e le discriminazioni "etniche", religiose o fondate sulle caratteristiche somatiche, prevedendo il «rispetto delle diversità culturali, religiose e linguistiche». Ma poi lascia che i singoli paesi membri possano negare o restringere l'accesso dei cittadini stranieri (ormai non solo di paesi terzi) ai servizi sanitari, assistenziali e previdenziali.
L'Unione Europea promuove regole comuni per rifiutare, respingere ed espellere i migranti di paesi terzi; disciplina le regole sul soggiorno e sulla circolazione dei migranti regolarmente residenti; ha definito uno status uniforme e procedure comuni in materia di asilo, ma lascia che siano i singoli stati membri a governare l'immigrazione per motivi di lavoro. Nè è prevista alcuna forma di armonizzazione delle politiche di «integrazione», ambito nel quale l'Ue può solo «incentivare e sostenere l'azione dei paesi membri». Così in Germania come in Italia e in Spagna si pongono limiti all'ingresso di lavoratori migranti, salvo poi farne lavorare a migliaia al nero e sottopagati nell'edilizia, nell'industria alimentare, nell'agricoltura o nelle ristrette mura domestiche, per svolgere quei lavori di cura che il sistema di welfare in via di smantellamento non assicura più. E ciò avviene anche nel pieno della crisi. In molti, espulsi dal mercato del lavoro, decidono di tornare nel paese di origine. I più restano.
Non di memoria dunque dovremmo parlare oggi, ma del presente. E l'Europa del presente è quella del rifiuto, della sofisticazione degli strumenti di sorveglianza e di militarizzazione dei mari e delle frontiere grazie al sistema Eurosur e all'agenzia Frontex: 2 miliardi e 496 milioni stanziati tra il 2007 e il 2013 per i due fondi per le frontiere esterne e per i rimpatri, ma solo 1 miliardo e 455 milioni per i fondi per i rifugiati e per «l'integrazione» dei cittadini di paesi terzi.
Nel 2012 i cittadini di paesi terzi stabilmente soggiornanti erano il 4,1% della popolazione europea, 20,7 milioni, ma non parteciperanno alle prossime elezioni europee perché non sono considerati cittadini e sono privi del diritto di voto. Potranno invece candidarsi i rappresentanti di quei movimenti nazionalisti, xenofobi e populisti che vorrebbero cacciarli tutti. Sarebbe un errore lasciare che fossero loro a dettare l'agenda nella prossima campagna elettorale.
«Europee. Raccolta firme a pieno ritmo, ma è impar condicio in Valle. Barbara Spinelli scrive alla presidente Boldrini. Appello anche a Roberto Fico, il presidente a 5 stelle della commissione vigilanza Rai: la tv pubblica non informa». Il
manifesto, 21 marzo 2014
Oddi ha un know how di tutto rispetto: ha coordinato la trionfale campagna sui referendum dell’acqua (2011, un milione e mezzo di firme, poi 27milioni di voti). Però c’è un però, anzi una trappola: «La legge elettorale, di dubbia legittimità democratica, lo dico con un eufemismo, chiede 30mila firme per ciascuna delle 5 circoscrizioni, 3mila firme in ogni regione. In Valle d’Aosta come in Lombardia. E cioè su un bacino di 90mila abitanti come in uno da 10milioni». Stessa cosa nelle isole. Secondo il planning del responsabile, dalla Sicilia, 5 milioni di anime, devono arrivare almeno 25mila firme; dalla Lombardia ’solo’ 20mila.
C’è di meglio, si fa per dire. Ad Aosta la raccolta di firme, già di per sé proibitiva data la proporzione con gli abitanti, è una corsa ad ostacoli: gli uffici del sindaco Bruno Giordano (Union Valdôtaine) hanno depennato gran parte delle richieste di suolo pubblico per i banchetti avanzate dai comitati L’Altra europa con Tsipras. Motivo? «Un malinteso significato della parola ’monopolistico’», spiega Rosa Rinaldi, della segreteria Prc, volata in Valle per dare una mano. «Per l’amministrazione avremmo il ’monopolio’ dei banchetti. Per questo ce ne ha negati molti. Peccato che l’unico ’monopolio’ di cui godiamo, nostro malgrado, è quello della raccolta firme: siamo solo noi a doverla fare». Gli altri partiti, che siedono in parlamento, non ne hanno bisogno. «È una lettura burocratica e non democratica delle regole. E sia chiaro: torneremo alla carica, ma se non ci concederanno il suolo ce lo prenderemo lo stesso».
In città circola un sospetto. Gli autonomisti puntano a un candidato unico con il Pd, che si gioverebbe parecchio di non avere concorrenti a sinistra. E così la sfida di Aosta è un rischiatutto. Se non raggiungesse quota 3mila verrebbe invalidata la lista nell’intera circoscrizione Nord-Ovest. E la strada per scavalcare lo sbarramento nazionale (4%) diventerebbe tutta salita. Sabato mattina in città arriverà il sociologo Marco Revelli. Mentre a Palermo, a fine marzo, per il rush finale delle firme sbarcherà il candidato Alexis Tsipras.
Intanto oggi la presidente della camera Laura Boldrini si vedrà recapitare una lettera firmata Barbara Spinelli, ispiratrice e capolista degli «euroinsubordinati». Con la richiesta di un incontro urgente per affrontare il caso di trattamento uguale di situazioni diseguali. «Chiediamo alla presidente di farsi carico di questa disparità democratica. Alle politiche del 2013 la fine anticipata della legislatura ha abbattuto le firme necessarie fino al 25%, sotto la pressione di Grillo», ricorda Massimo Torelli, coordinatore della lista.
Anche perché, come se non bastasse, c’è l’eterno problema dell’informazione pubblica. I promotori hanno scritto al presidente della Vigilanza Rai Roberto Fico (M5S) segnalando — ve ne fosse bisogno — che per la prima volta il 25 maggio «i cittadini concorreranno direttamente all’elezione del presidente della Commissione». Gli italiani si troveranno a votare nomi stranieri. Serve un apposito spot informativo. Fico ha fatto sapere che deve ancora approfondire il caso. Al voto mancano meno di due mesi