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il manifesto, 1° aprile 2014

Il governo ha appro­vato ieri un dise­gno di legge costi­tu­zio­nale che non ha i numeri per pas­sare al senato. In que­sto senso la for­za­tura è dop­pia. L’esecutivo strappa al legi­sla­tivo il potere di ini­zia­tiva sulla legge che è ter­reno comune di tutte le forze poli­ti­che, mag­gio­ranza e oppo­si­zione. In più la impone alla sua stessa mag­gio­ranza (pure assai larga) con la forza del ricatto. O que­sto o lascio la poli­tica, dice il pre­si­dente del Con­si­glio. Da inten­dersi meglio: o que­sto o le ele­zioni anti­ci­pate.
Chi non vota que­sta riforma del par­la­mento, insi­ste Renzi, blocca il cam­bia­mento. Sul piano della comu­ni­ca­zione sem­plice ha già vinto.

Renzi sta solo rac­co­gliendo i frutti dei difetti reali del bica­me­ra­li­smo ita­liano, dei limiti reali della classe poli­tica almeno dell’ultimo ven­ten­nio, e del vento freddo che sof­fia sulle isti­tu­zioni al quale ha spie­gato le sue vele. Messa così non c’è ana­lisi seria del pro­getto di legge che tenga, per­ché l’argomento che si deve cam­biare e cam­biare pre­sto è più tra­vol­gente di qual­siasi ragio­na­mento. Anche l’osservazione di par­tenza sul fatto che nel senato di oggi sono più i con­trari che i favo­re­voli alla riforma Renzi perde molto del suo valore. Quanti saranno infatti, alla fine, quelli che vote­ranno sulla base delle loro con­vin­zioni di merito, se l’oggetto del voto sarà un altro, e cioè la tenuta del governo, o la voglia di stare dalla parte del «nuovo»?

Molto poco è cam­biato in que­ste tre set­ti­mane, da quanto il Con­si­glio dei mini­stri aveva reso pub­blica la prima bozza. Chie­dendo quei sug­ge­ri­menti che non sono stati accolti. La riforma cam­bia il bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio ita­liano, senza avere il corag­gio di sce­gliere fino in fondo il mono­ca­me­ra­li­smo, ma tra­den­done la pul­sione. Il senato viene quindi con­ser­vato, dopo mille pro­te­ste salva anche il nome, e a fatica gli si trova qual­cosa da fare. Pro­ce­di­mento rove­sciato: Renzi non è par­tito dalle fun­zioni della camera alta per dise­gnarne la com­po­si­zione, ma si è mosso dai risul­tati che voleva rag­giun­gere — strom­baz­zando quello (tutto da dimo­strare) del rispar­mio eco­no­mico — e ha adat­tato le forme. La con­clu­sione è para­dos­sale al mas­simo: i cit­ta­dini non eleg­ge­ranno i nuovi sena­tori, ma dovreb­bero sen­tirsi più rap­pre­sen­tati da 150 espo­nenti delle elite poli­ti­che e cul­tu­rali coop­tati nel Palazzo. Il che pone un pro­blema enorme di tra­di­mento del prin­ci­pio della sovra­nità popo­lare. E fa sal­tare ogni garan­zia di equi­li­brio tra i poteri. L’accoppiata con la legge elet­to­rale stra-maggioritaria, poi, apre le porte al disastro.

Basta ragio­narci un po’ su, fare cal­coli sem­plici — in fondo non potendo noi fre­nare il cam­bia­mento pos­siamo per­met­terci il lusso di giu­di­carlo. La legge elet­to­rale appro­vata dalla camera per­mette a un solo par­tito, in ipo­tesi il Pd, che rag­giunge anche solo il 30% dei voti e che è alleato con un paio di par­titi più pic­coli che restano sotto la soglia di sbar­ra­mento del 4,5%, di con­qui­stare al primo turno la mag­gio­ranza asso­luta della camera. Quel par­tito basta a se steso nel voto di fidu­cia al — natu­ral­mente suo — pre­si­dente del Con­si­glio. Il par­la­mento diventa la cin­ghia di tra­smis­sione dell’esecutivo, che in più avrà a dispo­si­zione lo stru­mento nuovo della «tagliola» sui suoi prov­ve­di­menti di legge. La camera dovrà votare quello che il governo chiede entro 60 giorni, se non meno. Accanto a que­sto resta per l’esecutivo lo stru­mento del decreto legge, che la riforma pre­sen­tata ieri da Renzi limita appena un po’, in osse­quio a quanto già sta­bi­lito dalla Corte Costituzionale.

Pas­sando al senato, guar­dando all’appartenenza poli­tica dei sin­daci dei capo­luo­ghi, dei pre­si­denti di regione e dei con­si­glieri regio­nali che vero­si­mil­mente sareb­bero scelti oggi, si può con­clu­dere che ancora il Pd avrebbe i numeri suf­fi­cienti per cam­biare da solo la Costi­tu­zione, per quanto la revi­sione resti di com­pe­tenza bica­me­rale. Per il delitto per­fetto al primo par­tito man­che­reb­bero solo pochi voti, ma potrebbe facil­mente tro­varli all’interno di quel «par­tito del pre­si­dente» che ha resi­stito nel pas­sag­gio di bozza in bozza. Saranno 21 i sena­tori nomi­nati diret­ta­mente dal pre­si­dente della Repub­blica, per sette anni, e il loro voto sarà tanto deci­sivo quando avulso da qual­siasi legit­ti­ma­zione popo­lare, di primo o di secon­do grado.

Renzi ha ragione quando dice che sono trent’anni che si discute di riforma delle isti­tu­zioni. E in quella discus­sione si col­loca, schie­ran­dosi con una linea di pen­siero pre­cisa: quella che da sem­pre indica la solu­zione nel raf­for­za­mento dei poteri dell’esecutivo. Pic­colo pro­blema: è la stessa linea che ha ispi­rato le leggi elet­to­rali mag­gio­ri­ta­rie e con­sen­tito l’indicazione diretta del pre­si­dente del Con­si­glio. I risul­tati li abbiamo cono­sciuti nell’ultimo ven­ten­nio. La riforma del senato aggiun­gerà un sovrap­più di rinunce sul ver­sante par­la­men­tare. Ma che l’intenzione sia quella di col­pire più il sim­bolo che la sostanza lo dimo­strano non solo le novità che la riforma intro­duce ma anche quelle che ha dimen­ti­cato per strada. Due su tutte, che avreb­bero sì inciso nelle inef­fi­cienze del par­la­mento: la sfi­du­cia costrut­tiva, che avrebbe con­sen­tito alla camera di far cadere il governo solo quando è in grado di espri­mere una mag­gio­ranza alter­na­tiva per un ese­cu­tivo diverso. E, final­mente, la sot­tra­zione ai depu­tati del potere di deci­dere sui loro stessi titoli di ammis­sione in par­la­mento. È il pri­vi­le­gio che ha con­sen­tito le ripe­tute ele­zioni dell’inelegibile Ber­lu­sconi e che Renzi non tocca. Gli inte­res­sano più gli slo­gan, e le alleanze

Tassare i grandi patrimoni non è sbagliato, ed è in linea con la migliore tradizione degli USA, e non è vereo «che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica».

La Repubblica, 1° aprile 2014

MAN mano che la disuguaglianza cresce di importanza nel dibattito politico americano, cresce anche il rigetto da parte della destra. Qualcuno dichiara che focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza è poco saggio, che tassare i redditi alti azzopperà la crescita economica. Qualcuno dichiara che è ingiusto, che la gente deve avere il diritto di tenersi quello che guadagna. E qualcuno dichiara che è antiamericano, che da questo lato dell’Atlantico abbiamo sempre celebrato quelli che riescono a diventare ricchi, e che insinuare che certe persone controllano una quota troppo ampia della ricchezza nazionale è in contraddizione con la tradizione americana.

E hanno ragione. Nessun vero americano direbbe una cosa come questa: «L’assenza di efficaci limitazioni a livello statale, e soprattutto nazionale, contro un arricchimento iniquo tende a creare una classe ristretta di uomini enormemente ricchi ed economicamente potenti, il cui primario obiettivo è conservare e incrementare il proprio potere »; né farebbe seguire questa dichiarazione da un appello a introdurre «un’imposta di successione graduata sui grandi patrimoni […] che cresca rapidamente in conformità con le dimensioni del patrimonio».

Chi era questo eversivo? Theodore Roosevelt, nel suo famoso discorso del 1910 sul Nuovo Nazionalismo. La verità è che all’inizio del XX secolo, in America, molti personaggi illustri mettevano in guardia dai pericoli di una concentrazione estrema della ricchezza ed esortavano a utilizzare la politica fiscale per limitare la crescita dei grandi patrimoni. Vi faccio un altro esempio: nel 1919, il grande economista Irving Fisher dedicò gran parte del suo discorso all’American Economic Association (l’associazione degli economisti di cui era presidente) a criticare gli effetti di «una distribuzione della ricchezza antidemocratica ». E si dichiarò favorevole a proposte per limitare la trasmissione ereditaria della ricchezza attraverso pesanti imposte di successione.

E l’idea di limitare la concentrazione della ricchezza, specialmente della ricchezza ereditata, non si limitò ai discorsi. Nel suo ultimo libro, Capital in the Twenty First Century, l’economista francese Thomas Piketty sottolinea che l’America, che introdusse un’imposta sul reddito nel 1913 e un’imposta di successione nel 1916, è stata la testa di ponte della tassazione progressiva, «molto prima» dell’Europa. Piketty si spinge a dire che «le tasse confiscatorie sui redditi eccessivi» sono state un’«invenzione americana».

E questa invenzione ha radici storiche profonde nella visione jeffersoniana di una società egualitaria di piccoli contadini. Ai tempi in cui Theodore Roosevelt tenne il suo discorso, molti degli americani più attenti e riflessivi si rendevano conto non solo che la disuguaglianza estrema stava svuotando di senso quella visione, ma che l’America correva il pericolo di trasformarsi in una società dominata dalla ricchezza ereditata, che il Nuovo Mondo rischiava di trasformarsi nella Vecchia Europa. E sostenevano che le politiche pubbliche dovevano puntare a limitare la disuguaglianza per ragioni sia politiche che economiche. Com’è possibile, allora, che idee come queste non solo non siano più maggioritarie, ma che vengano addirittura considerate illegittime?

Guardate come è stato trattato il tema della disuguaglianza e delle tasse sui redditi alti durante le elezioni presidenziali del 2012. I Repubblicani sostenevano che il presidente Barack Obama era ostile ai ricchi. «Se la vostra priorità è punire le persone che hanno grande successo, allora votate per i Democratici», diceva Mitt Romney. I Democratici respingevano con veemenza (e veridicità) l’accusa. Ma Romney in pratica stava accusando Obama di pensarla come Teddy Roosevelt. Com’è possibile che questo sia diventato un peccato politico imperdonabile?

A volte si sente dire che la concentrazione della ricchezza non è più un problema rilevante perché chi vince nell’economia odierna sono self-made men che devono la loro posizione ai vertici della scala sociale al frutto del proprio lavoro, non alla ricchezza ereditata. Ma è una tesi in ritardo di una generazione. Un nuovo studio degli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman ha riscontrato che la percentuale di ricchezza detenuta dal supervertice della scala sociale - lo 0,1 per cento più ricco della popolazione - è raddoppiata dagli anni 80 a oggi e ormai è ai livelli di quando Teddy Roosevelt e Irving Fisher lanciavano i loro ammonimenti. Non sappiamo quanta parte di quella ricchezza sia ereditata. Ma è interessante dare un’occhiata alla classifica degli americani più ricchi stilata dalla rivista Forbes. Facendo due conti a occhio, circa un terzo dei primi 50 ha ereditato grandi patrimoni. Un altro terzo ha 65 anni o più, e quindi probabilmente lascerà grosse fortune ai suoi eredi. Non siamo ancora una società con un’aristocrazia ereditaria del denaro, ma se continueremo su questa strada lo diventeremo nel giro dei prossimi vent’anni.

Insomma, la demonizzazione di chiunque parli dei pericoli della concentrazione della ricchezza è basata su una lettura errata, sia del passato sia del presente. Discorsi del genere non sono antiamericani, anzi: fanno parte integrante della tradizione americana. E allora, chi sarà il Teddy Roosevelt di questa generazione?

©2-014 New York Times News Service ( Traduzione di Fabio Galimberti)

Il vero populismo è quello di Renzi, e del codazzo che lo segue: a partire dai direttori della grande stampa d'"opinione unica". Ma Renzi è un frutto, non la radice. Il manifesto, 1° aprile 2014

«O con me o con­tro di me», sapendo che chiun­que, «pro­fes­so­roni» o «benal­tri­sti» oserà con­trad­dirmi dovrà veder­sela con la furia «dei cit­ta­dini, delle fami­glie, di chi ha sem­pre pagato e ora si aspetta che a pagare siano i poli­tici». L’appello al popolo è l’arma ato­mica bran­dita da Mat­teo Renzi con­tro le voci che cri­ti­cano la sua riforma costi­tu­zio­nale appro­vata, all’unanimità, dal con­si­glio dei ministri.

Il ricatto del capo del governo ha dalla pro­pria parte la forza d’urto dei fal­li­menti della classe diri­gente, a comin­ciare da quelle forze inter­me­die, par­titi e sin­da­cati, che si rife­ri­scono alla sini­stra. E dun­que vale la pena pren­dere que­sto toro per le corna, come ha fatto nei giorni scorsi Mau­ri­zio Lan­dini nel corso di una mani­fe­sta­zione a Mar­za­botto. Il segre­ta­rio della Fiom rac­con­tava di essere stato fer­mato per la strada da un auto­mo­bi­li­sta che gli chie­deva di dare una mano a Renzi. Pro­prio a lui che, sia sulle riforme costi­tu­zio­nali che del lavoro, ha soste­nuto posi­zioni con­tra­rie. «Come rispon­diamo? Chie­dendo qual­che tavolo? E con quale forza di rappresentanza?».

Le parole di Lan­dini spie­gano meglio di tanti discorsi a che punto siamo e per­ché Renzi non è un coni­glio uscito dalle pri­ma­rie del Pd, ma un pro­dotto della crisi della poli­tica, della sini­stra, del sin­da­cato. E spie­gano per­ché l’opposizione dei costi­tu­zio­na­li­sti fir­ma­tari dell’appello con­tro la nuova Costi­tu­zione dise­gnata dal governo (tra i quali molte firme del nostro gior­nale) può facil­mente essere bol­lata come una ridotta di par­ruc­coni con­trari al cambiamento.

Osser­vare che una riforma della Costi­tu­zione come quella pre­sen­tata dall’unanime governo, com­bi­nata con una legge elet­to­rale iper­mag­gio­ri­ta­ria, può deter­mi­nare che il solo par­tito di mag­gio­ranza abbia mano libera, è bol­lato come un atten­tato al rifor­mi­smo. Le voci dis­so­nanti, da quelle del pre­si­dente del senato a quelle della sini­stra radi­cale, è denun­ciato dal coro della grande stampa e dai tg come peri­co­loso disfat­ti­smo. Sul sito di repubblica.it, a pro­po­sito del decreto sul lavoro, il 29 marzo si poteva leg­gere la cro­naca sui «i due punti intoc­ca­bili» del governo con la chiosa «così Renzi tenta di met­tere ordine alle scom­po­ste posi­zioni del suo par­tito». Un esem­pio di slit­ta­mento del lin­guag­gio che anno­vera le oppo­si­zioni alle pro­po­ste del segretario-presidente come fuoco amico.

L’onda popu­li­sta che spinge i gior­nali a farsi bol­let­tini dei son­daggi, con gli edi­to­ria­li­sti che vogliono sal­varci dalla brace di Grillo e Casa­leg­gio per frig­gerci sulla padella di Renzi, è cre­sciuta nel paese insieme e pro­por­zio­nal­mente all’arretramento della sini­stra fino all’annullamento, cul­mi­nato con la crisi eco­no­mica, di qua­lun­que visione non di alter­na­tiva, o di “equi­li­bri più avan­zati” come si sarebbe detto nella prima repub­blica, ma dell’idea stessa di una demo­cra­zia costituzionale.

«Il nuovo patto di stabilità elimina anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Lo stesso margine a cui il Presidente del consiglio sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere. Secondo alcuni studi, i nuovi obiettivi equivarranno per l'Italia a oneri per 50 miliardi di euro l’anno».

Sbilanciamoci, newsletter n. 318, 1 aprile 2014

Qualche giorno fa, durante il Consiglio Europeo, Matteo Renzi ha ribadito che “l’Italia rispetterà gli impegni europei”, a partire dal tetto del 3% sul rapporto deficit/Pil, pur definendolo “anacronistico”. Allo stesso tempo, avrà probabilmente ripetuto quello che aveva detto pochi giorni prima alla Merkel, ossia che intende sfruttare il più possibile i “margini” che secondo lui offrirebbe il Fiscal Compact (incassando l’approvazione della cancelliera tedesca a quanto pare). La logica renziana è quanto segue: poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto deficit/Pil del 2.6% – dunque al di sotto della soglia del 3% – l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10 miliardi del cuneo fiscale. La posizione di Renzi sarebbe senz’altro apprezzabile, se non fosse che essa si basa su una lettura molto semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, come pare che la Merkel – pur facendo qualche piccola concessione nel breve termine – gli abbia ricordato. Non sappiamo se nella sua immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da asino, però Merkel ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità, il Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack, approvati dal Parlamento Europeo. Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. A sentire Renzi, infatti, sembrerebbe che il problema del rispetto del Fiscal Compact riguardi unicamente il rispetto del vincolo del 3%. Il premier, però, ignora – o fa finta di ignorare – che il Fiscal Compact impone dei vincoli di bilancio molto più stringenti del 3%, già previsto dal Trattato di Maastricht (e successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita del 1999).

Come ho spiegato più approfonditamente in un recente articolo, il Fiscal Compact non guarda tanto al deficit nominale (fermo restando l’inviolabilità assoluta del limite del 3%) quanto al cosiddetto “deficit strutturale”. Ma cosa si intende esattamente per bilancio o deficit strutturale? Quest’ultimo viene calcolato dalla Commissione in base a dei parametri del tutto arbitrari e fortemente ideologici (e fortemente contestati), e ufficialmente serve a stabilire quale sarebbe il deficit di uno stato membro se la sua economia stesse operando al “massimo potenziale”. Si tratta in sostanza di un indicatore che dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit di un paese sia dovuto alla congiuntura economica, nel qual caso potrebbe essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia “strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. La premessa è che in condizioni “normali” un paese dovrebbe avere un bilancio nominale sostanzialmente in pareggio. Facendola semplice, il bilancio strutturale viene calcolato sottraendo al deficit nominale una percentuale imputabile, secondo la Commissione, alla congiuntura economica. Questa differenza viene chiamata “output gap”.

Il Fiscal Compact stabilisce che tutti i paesi devono convergere rapidamente verso il “pareggio di bilancio strutturale”, che varia da paese a paese (in base al loro rapporto debito/Pil e ad altri parametri) secondo una forchetta che va dal -1% del Pil al pareggio o avanzo di bilancio (sempre inteso in senso strutturale, non nominale). Nel caso dell’Italia l’obiettivo è un avanzo strutturale dello 0.2%, da raggiungere entro il 2016.

L’introduzione del concetto di bilancio strutturale nella normativa europea rappresenta molto più di un semplice dettaglio tecnico (peraltro poco compreso); esso stravolge radicalmente le regole di bilancio in vigore finora nell’Ue. La Commissione può infatti stabilire, in base a dei parametri del tutto arbitrari, che un paese ha un deficit strutturale – e deve dunque implementare ulteriori misure di austerità – anche se registra un deficit nominale (entrate meno uscite, al lordo degli interessi sul debito pubblico) inferiore al 3%, e dunque in linea con i parametri di Maastricht. In questo senso, non è esagerato affermare che il Fiscal Compact elimina definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. Precisamente quel “margine” a cui Renzi sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere.

Il caso dell’Italia è illuminante. Come si può vedere nella seguente tabella, la Commissione prevede che nel 2014 il deficit nominale del paese scenderà dal 3 al 2.6%, portandoci ampiamente all’interno dei margini previsti da Maastricht.

Previsioni della Commissione Europea per l’Italia, febbraio 2014
Allo stesso tempo, però, la Commissione stima che l’Italia quest’anno registrerà un deficit strutturale dello 0.6% – quindi significativamente superiore all’obiettivo del +0.2% che l’Italia, in base al Fiscal Compact, dovrebbe centrare entro il 2016. Da cui si comprende perché la Commissione chiede all’Italia – le previsioni della Commissione vanno sempre intese più come indicazioni politiche che come semplici stime – di ridurre ulteriormente il suo deficit, portandolo al 2.2%, entro il 2015, facendo crescere il suo saldo primario (già uno dei più alti al mondo) dal 2.7 al 3.1% del Pil, per mezzo di un’ulteriore manovra di circa 5 miliardi. Altro che “margine”.

E questo sarebbe solo l’inizio. In base a uno studio realizzato da Giorgio Gattei e Antonino Iero, infatti, gli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact costringerebbero l’Italia a mantenere (per quasi vent’anni!) un avanzo primario non inferiore al 4.5% (pari all’incirca a 50 miliardi di euro l’anno).[1] Che è esattamente l’obiettivo di medio termine che Bruxelles si aspetta dall’Italia, secondo fonti interne alla Commissione. E questo ipotizzando delle condizioni economiche future (tasso di crescita, inflazione, ecc.) “al meglio”. Una strada insostenibile non solo da un punto di vista sociale ma anche economico. Come ha scritto Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore:

Se si considera il moltiplicatore fiscale si può dire che per effetto di una tale manovra il Pil scenderà di un altro punto percentuale e che quindi nemmeno la manovra aggiuntiva metterà i conti italiani in ordine. I cittadini saranno estenuati dalla dimensione della manovra e indignati per la sua inefficacia. A quel punto l'azione del governo sarà politicamente insostenibile. In conclusione: o si cambia strategia nei confronti dell'Italia (Marshall Plan, deroghe su debito e spesa per investimenti, intervento della troika) o l'architettura del Fiscal Compact dovrà essere modificata.[2]

Alla luce di ciò, non si capisce bene quale sia il “margine” a cui fa riferimento Renzi. Il fatto stesso di porre il problema in termini di rispetto o meno del vincolo del 3% non ha senso, poiché nell’epoca del Fiscal Compact la questione non riguarda più lo sforamento o meno del tetto del 3% (che comunque il Patto vieta categoricamente), ma piuttosto il fatto che ormai è stato cancellato anche l’esiguo spazio di manovra previsto dal Trattato di Maastricht. Perché Renzi non lo dice? E anzi continua a parlare come se continuassimo a vivere nell’era pre-Patto? Dobbiamo veramente credere che egli non capisca come funziona il Fiscal Compact? O piuttosto le sue dichiarazioni vanno intese come facenti parte di una strategia intesa a rivedere il Fiscal Compact in sede europea, magari contando su una maggioranza socialdemocratica nel Parlamento dopo le elezioni di maggio (per apportare modifiche al two-pack e al six-pack basta il Parlamento europeo).

Se fosse veramente così – e ovviamente ce lo auguriamo – Renzi però dovrebbe dirlo apertamente, coinvolgendo attivamente la società civile italiana ed europea e facendosi promotore di una campagna europea per la ridiscussione del Patto nel suo complesso. Ma questo significherebbe innanzitutto dire agli italiani la verità sul Fiscal Compact. L’esatto opposto di quello che Renzi ha fatto finora.

[1] Giorgio Gattei e Antonino Iero, “L’insostenibile rimborso del debito”, Economia e Politica, 10 marzo 2014.
[2] Carlo Bastasin, “L’Europa cambi linea”, Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2013

Intervista al presidente di Palazzo Madama che contesta la riforma proposta da Renzi.Resti un’assemblea di eletti: non dia la fiducia, ma si occupi di leggi costituzionali e etiche. La democrazia viene prima del portafoglio. Le parole del Presidente del Senato non è rivolto solo al caopetto, ma a tutti quelli vhe condividono la responsabilità di decidere.

La Repubblica, 30 marzo 2014

Sindaci e governatori nel nuovo Senato? «Ci sarebbe una sovrapposizione di poteri diversi ». Chi dovrebbe scegliere i futuri senatori? «Anche la gente». Il nome? «Sempre Senato». I rapporti tra Montecitorio e Palazzo Madama? «No al bicameralismo perfetto». La fiducia? «Solo alla Camera». L’obiettivo istituzionale? «La stabilità e la rappresentatività indicata dalla Corte costituzionale ».

Nel suo studio le foto sono soprattutto quelle della vita da magistrato, anche se spicca l’ultima con Papa Francesco. Lui, il presidente del Senato Pietro Grasso, ragiona solo da politico. Quando gli si dice che un accreditato gossip lo descrive come il futuro capo dello Stato, con aria visibilmente seccata, replica: «Non scherziamo. Io penso a fare bene il mio lavoro, e da presidente parlo della riforma del Senato, nel mio pieno ruolo istituzionale e super partes». E come si sente come probabile ultimo presidente di questo Senato? «Da fuori mi vedono come l’ultimo imperatore, io mi sento l’ultimo dei mohicani...».

Renzi è stato netto, ha detto «se il Senato non va a casa, vado a casa io». Domani esce il suo testo. Se vestisse i suoi panni che farebbe? «Quello che sta facendo lui, lavorando con tutte le mie forze per superare il bicameralismo perfetto, diminuire il numero dei parlamentari, semplificare l’iter legislativo». Ma da qui come la vede? Abolire il Senato è davvero necessario e indispensabile? «Aldilà delle semplificazioni mediatiche nessuno parla di abolire il Senato, ma di superare il bicameralismo attuale. L’urgenza è prima istituzionale che economica: dobbiamo accelerare il processo legislativo, senza indebolire la democrazia ».

Che aria ha avvertito nei suoi incontri con la gente, ritengono il Senato un’inutile fonte di sprechi? Un duplicato della Camera? Una perdita di tempo? Un residuo del passato? «Certamente la gente pensa, a ragione, che quasi mille parlamentari siano troppi, che la politica costi molto e produca poco, che sia venuto il momento di dare una sterzata. Ma avverto anche la forte preoccupazione di mantenere, su alcuni temi, la garanzia di scelte condivise. Con un sistema fortemente maggioritario, con un ampio premio di maggioranza e una sola Camera politica, il rischio è che possano saltare gli equilibri costituzionali e ridursi gli spazi di democrazia diretta». E sarebbe? «Affidare a una sola camera anche le scelte sui diritti e sui temi etici potrebbe portare a leggi intermittenti, che cambiano ad ogni legislatura, su scelte che toccano profondamente la vita dei cittadini e che hanno bisogno di essere esaminate anche in una camera di riflessione, come ritengo debba essere il Senato».

Quindi il suo Senato ideale come si chiama e com’è fatto? «Non rinuncerei mai a una parola italiana che viene usata in tutto il mondo. Lascerei il nome di Senato, e dovrebbe essere composto da rappresentanti delle autonomie e componenti eletti dai cittadini...». Che fa, la stessa proposta del capogruppo di Forza Italia Romani? Ancora un Senato di eletti? Ma così crolla il progetto Renzi... «Non è la stessa proposta, perché io immagino un Senato composto da senatori eletti dai cittadini contestualmente alle elezioni dei consigli regionali, e una quota di partecipazione dei consiglieri regionali eletti all’interno degli stessi consigli. Per rendere più stretto il coordinamento tra il Senato così composto e le autonomie locali, prevederei la possibilità di partecipazione, senza diritto di voto, dei presidenti delle Regioni e dei sindaci delle aree metropolitane ».

Renzi vuole come senatori sindaci e governatori regionali, lei perché è contrario? «Perché ritengo che per una vera rappresentatività sia indispensabile che almeno una parte sia eletta dai cittadini, come espressione diretta del territorio e con una vera parità di genere. Una nomina esclusivamente di secondo grado comporterebbe una accentuazione del peso dei partiti piuttosto che di quello degli elettori ». Quindi un fifty-fifty? «Non si tratta di percentuali, su quelle vedremo. Credo sia utile la presenza di rappresentanti delle Assemblee regionali, proprio per rafforzare la vocazione territoriale del Senato, estendendo la funzione legislativa regionale a livello nazionale. Ma sindaci e presidenti di Giunte regionali, che esercitano una funzione amministrativa sul territorio, a mio avviso non possono esercitare contemporaneamente una funzione legislativa nazionale, ma soltanto consultiva e di impulso».

Altro che Senato delle autonomie, il suo assomiglia a quello di adesso, solo con meno poteri e competenze. «Niente affatto. Il Senato che immagino io, anche in parallelo con la riforma del Titolo V, è un luogo di decisione e di coordinamento degli interessi locali fra di loro e in una visione nazionale, e in questo senso dovrebbe sostituire la Conferenza Stato-Regioni». E come la mette con i soldi? Questo suo Senato, sicuramente, avrà un costo maggiore rispetto a uno di sindaci e governatori perché gli eletti, proprio come quelli di illustri che siano? adesso, dovranno necessariamente essere retribuiti. Quindi, con questo sistema, dove va a finire il risparmio previsto da Renzi? «Possiamo ottenere risparmi maggiori diminuendo il numero complessivo dei parlamentari e riducendo le indennità, solo per iniziare. Poi mi faccia dire che non si può incidere sulla forma dello Stato solo con la calcolatrice in mano».

Questo suo Senato rispetto alla fiducia al governo che fa? «Non dà la fiducia, non si occupa di leggi attuative del programma di governo, né di leggi finanziarie e di bilancio. Il rapporto col governo su questi punti deve restare solo e soltanto alla Camera». Di quali leggi dovrebbe occuparsi? «Oltre a tutte le questioni di interesse territoriale, delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale, di legge elettorale, ratifica dei trattati internazionali, di leggi che riguardano i diritti fondamentali della persona». Solo questo? «Io immagino che una Camera prettamente ed esclusivamente politica debba essere bilanciata da un Senato di garanzia, con funzioni ispettive, di inchiesta e di controllo, anche sull’attuazione delle leggi.

Chiaramente il Senato dovrà partecipare, in materia determinante, ai processi decisionali dell’Unione Europea, sia in fase preventiva che attuativa». Prevede anche i senatori a vita o cittadini «L’apporto di grandi personalità del mondo della cultura, della scienza, della ricerca, dell’impegno sociale non può che essere utile. In che modo e in che forma sarà da vedere».

Due questioni calde, la tagliola sulle leggi del governo che vanno a rilento e i poteri “di vita e di morte” del premier sui ministri. Progetto ammissibile e condivisibile? «Un termine chiaro entro cui discutere le proposte del governo, in un sistema più snello, non può che accelerare e semplificare l’iter legislativo. La ritengo una buona proposta. La seconda ipotesi non mi sembra sia prioritaria in questo momento».

Praticabilità politica. Dopo il caos del voto sulle province, finito con la fiducia, che prevede per il voto su questa riforma? «Se si vuole un’accelerazione e una maggioranza di due terzi non si deve procedere mostrando i muscoli, ma cercando proposte più possibili condivise e aperte alla riflessione parlamentare. I senatori non sono tacchini che temono il Natale, e sono pronti a contribuire al disegno di riforma del Senato». Ne è davvero convinto o s’illude? «Hanno compreso, credo, le aspettative dei cittadini: partecipazione democratica, efficienza delle istituzioni, diminuzione del numero di deputati e senatori, taglio radicale ai costi della politica. Diminuendo di un terzo il numero dei parlamentari tra Camera e Senato, e riducendo le indennità, si otterrebbe un risparmio ben superiore a quello che risulterebbe, bilancio alla mano, dalla sostituzione dei senatori con amministratori dei comuni, delle aree metropolitane e delle regioni».

Un prossimo voto di fiducia di questo Senato sul futuro Senato è ipotizzabile? «Non penso che si possa riformare la Costituzione con un maxi-emendamento e senza alcun contributo delle opposizioni». Il timing di Renzi prevede prima la riforma del Senato, poi quella elettorale, il famoso Italicum. Forza Italia dice già di no e vuole il contrario. Lei che tempistica prevede? «Dal momento che la legge elettorale riguarda solo la Camera approviamo prima la riforma del Senato, per poi passare immediatamente all’Italicum». Lei sta già riorganizzando gli uffici di questo Senato. Perché? Per mantenere lo status quo o in vista della riforma? «Sto lavorando per proporre al Consiglio di presidenza una riorganizzazione che risponda ad alcune esigenze attese da anni. Questo non ostacola le riforme, anzi le anticipa: razionalizzando le strutture, eliminando quelle non necessarie, valorizzando la prospettiva regionale ed europea del Senato, tagliando dal 30 al 50% le posizioni apicali e andando a ricoprire i posti restanti con nomine a costo zero, senza alcun aumento in busta paga per nessuno. Inoltre è già stato deliberato l’accorpamento di molti servizi con quelli corrispettivi della Camera, e si va verso l’unificazione dei ruoli del personale di Camera e Senato. Voglio che il nuovo Senato parta già nella sua piena efficienza».

Politica e mafia. La polemica sul 416-ter. La sua proposta, appena eletto, è agli atti. Adesso? È d’accordo sull’ipotesi del decreto legge cambiando il testo uscito dal Senato? «Come ho detto, la mia proposta è agli atti. L’ho presentata il primo giorno, ho ancora il braccialetto bianco al polso e spero che si faccia presto e bene».

«idomini idadominijanni.com, 30 marzo 2014

Qualcuno dovrebbe spiegare a Matteo Renzi che Barack Obama, l'uomo di cui indegnamente aspira a presentarsi come un clone di provincia, non ha mai pensato di abolire il ferreo sistema di contrappesi parlamentari che nella democrazia americana limita il potere del presidente eletto dal popolo. Anche lì ci sono due camere (elette con sistemi diversi, ma con la stessa funzione legislativa) e anche lì Obama si trova a dover governare con numeri parlamentari che intralciano qualunque sua velleità decisionista: se Renzi, oltre a fare, come ci ha informati, la sua corsetta mattutina con i discorsi di Obama nell'ipod si fosse anche applicato a seguire il tortuoso iter della riforma sanitaria americana lo saprebbe. E saprebbe anche che a Obama non è mai venuto in mente, sol per questo, di abolire il Senato o la Camera d'imperio con la scusa che rendono farraginoso fare le riforme o che costano troppo (eppure anche lì negli Usa c'è una vasta opinione pubblica provata dalla crisi che se la prende con la casta di Washington). Ma Renzi non lo sa, o finge di non saperlo. E va avanti come Brancaleone nella sua crociata contro Palazzo Madama, che non è però una crociata contro il palazzo, bensì contro la rappresentanza, dal momento che secondo lui il suo progetto il palazzo resterebbe, ma abitato da senatori non eletti bensì delegati dai Comuni e dalle Regioni, e con funzioni residuali. L'intervista del presidente del Senato su la Repubblica di oggi dovrebbe servirte a farlo riflettere, ma non servirà perché Brancaleone è Brancaleone e non si fa fermare da nessuno.

Renzi invece sa, perché l'ha detto e ridetto e ripetuto per giustificare il suo patto con Berlusconi sulla legge elettorale, che le riforme istituzionali e costituzionali non si possono fare a colpi di maggioranza. E se questo l'ha fatto valere sulla legge elettorale, che non è una riforma costituzionale, a maggior ragione dovrebbe farlo valere per la riforma del bicameralismo e della forma di governo. Invece qui va avanti come un carro armato, forte ora dell'alleanza con Berlusconi (al senato), ora (alla camera) della maggioranza schiacciante di deputati che al suo partito viene dall'aver usufruito del premio di maggioranza sulla base di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Il carrarmato non prevede solo la tabula rasa del bicameralismo, con la sola Camera titolare del voto di fiducia al governo e del processo legislativo. Prevede altresì, anche se questo il buon Matteo non lo dice ma si limita a farlo trapelare, il rafforzamento dei poteri del premier; e si può facilmente immaginare che di un premier così rafforzato si richieda, o prima o poi, l'elezione diretta. Per la quale, grazie all'Italicum, basterebbe il 37% dei votanti, ovvero meno del 30% del corpo elettorale. Dopodiché il premier si troverebbe a regnare con pieni poteri su una sola Camera, nella quale disporrebbe, sempre grazie all'Italicum, di una schiacciante maggioranza costituita da parlamentari scelti da lui stesso, nella doppia qualità di candidato premier e segretario del partito cui spetta la formazione delle liste elettorali bloccate.

Non bisogna essere esperti di ingegneria costituzionale per valutare il tasso di democraticità di questo progetto. Si tratta palesemente, come dice lo scarno appello promosso da Libertà e giustizia, di una svolta autoritaria, identica a quella che non abbiamo fatto mettere a segno da Silvio Berlusconi negli anni passati (http://www.libertaegiustizia.it/2014/03/27/verso-la-svolta-autoritaria/). Mi allineo dunque a quell'appello sottoscrivendolo parola per parola, nel giudizio non solo sulla riforma ("un sistema autoritario che dà al presidente del consiglio poteri padronali") ma su ciò che rischia di renderla possibile ("la stampa, i partiti e i cittadini [che] stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare") e sulla gerarchia delle responsabilità in gioco ("la responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto" perché Berlusconi non c'è più ed è "il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria"). A parziale correzione aggiungo solo una sfumatura, questa. Non è che il Pd metta la sordina sulla svolta autoritaria perché a gestirla adesso c'è il suo leader e non più il Cavaliere. Il fatto vero, che emerge ogni giorno con maggiore evidenza, è che per la maggioranza del Pd questa svolta nell'assetto costituzionale, al pari della svolta nei diritti del lavoro che si annuncia con il jobs act, va benissimo oggi e andava benissimo anche ieri, solo che purtroppo a impedire di attuarla c'era l'impedimento della persona di Berlusconi. Tolta di mezzo la persona, si può finalmente farsi titolari del suo progetto: senza sordina ma ribattezzandolo "il bene degli Italiani", come Renzi strombazza tre volte al giorno. Chissà perché ci siamo tanto tormentati su come uscire dal ventennio berlusconiano. In fondo era semplice, semplicissimo: bastavano una sentenza che mettesse fuori gioco il Cavaliere e un erede cresciuto nell'altra metà del campo che ne continuasse l'opera.

Anche nel secolo scorso lo facevano, ma almeno con maggiore dignità.

Il manifesto, 29 marzo 2014

Con un sin­cro­ni­smo per­fetto (con la visita di Obama) la mini­stra della difesa Pinotti e il capo­gruppo del Pd Spe­ranza sono ieri scesi in campo per difen­dere gli F35. La prima, di fronte ai ver­tici dell’aeronautica, ha detto che in fondo non sono aerei cat­tivi, cioè che sono buoni; e il secondo ha dichia­rato che non sono inu­tili, cioè che sono utili. Per le spese mili­tari entrambi hanno par­lato di «com­pa­ti­bi­lità eco­no­mi­che» e della neces­sità di ridurre gli spre­chi. Tra gli spre­chi evi­den­te­mente non ci sono i 14 miliardi di euro da spen­dere nei pros­simi anni per 90 cac­cia­bom­bar­dieri capaci di fare la guerra e di tra­spor­tare ordi­gni nucleari e che sono dal punto di vista eco­no­mico e tec­no­lo­gico dei veri e pro­pri bidoni. Pesano troppo, devono atter­rare al primo tem­po­rale, hanno un soft­ware che fa cilecca e il casco dei piloti è da but­tare. I loro costi aumen­tano ver­ti­gi­no­sa­mente anno dopo anno. La corte dei conti ame­ri­cana (il Govern­ment Accoun­ta­bi­lity Office) ha detto che è un pro­gramma tutto da rivedere.

Invece, solo il 25 marzo scorso — con­trav­ve­nendo alle mozioni par­la­men­tari appro­vate nel giu­gno del 2013 che chie­de­vano la sospen­sione dei nuovi acqui­sti — il mini­stero della Difesa di F35 ne ha com­prati altri due. A fine set­tem­bre ne aveva presi tre. C’era da aspet­tare la fine dei lavori di inda­gine della Com­mis­sione difesa sui sistemi d’arma prima di fare altri con­tratti, ma prima Mauro e poi Pinotti non ne hanno tenuto conto, con la scusa che le pro­ce­dure erano state già avviate. La Com­mis­sione Difesa ter­mi­nerà i suoi lavori mer­co­ledì pros­simo: c’è il docu­mento dei depu­tati Pd che almeno chiede (e con­ferma) la sospen­sione di nuovi con­tratti per gli F35, ma evi­den­te­mente il capo­gruppo alla Camera di quel par­tito ha un’altra idea, come la mini­stra della Difesa.

Vedremo cosa suc­ce­derà in un Pd in grande con­fu­sione e diviso: tra chi (e sono tanti) gli F35 non li vuole o li vuole signi­fi­ca­ti­va­mente ridurre e chi — il governo — invece pensa che siano buoni e utili. Solo poco più di un anno fa (in cam­pa­gna elet­to­rale) i lea­der del Pd dice­vano che il lavoro viene prima degli F35 (Ber­sani) e che si tratta di un pro­gramma insen­sato (Renzi): ora quel par­tito non si sa che idea abbia, anche se — in con­tra­sto con una parte signi­fi­ca­tiva del suo gruppo par­la­men­tare e con il senso comune del suo elet­to­rato — sem­bra che la bus­sola della lea­der­ship stia tor­nando nuo­va­mente ad orien­tarsi verso il sostan­ziale man­te­ni­mento del pro­gramma. Sarebbe una scelta disa­strosa che avrebbe effetti lace­ranti sulla base sociale di quel partito.

Para­dos­sal­mente ha avuto più corag­gio l’ex mini­stro della Difesa — mili­tare e ammi­ra­glio della marina — Di Paola nel ridurre con il governo Monti gli F35 da 131 a 90 che l’ex mar­cia­trice di Porto Ale­gre e l’ex mani­fe­stante con­tro la mostra navale bel­lica di Genova — ovvero l’attuale mini­stra della Difesa — che non perde occa­sione per avva­lo­rare tutte le peg­giori scelte dei sistemi d’arma delle nostre Forze Armate.

Magari il governo e la mag­gio­ranza par­la­men­tare ten­te­ranno di rin­viare la deci­sione finale per l’ennesima volta (uti­liz­zando la ste­sura di un libro bianco da fare entro la fine dell’anno), men­tre nel frat­tempo si con­ti­nuerà a pro­ce­dere a sin­ghiozzo con nuovi con­tratti che per­met­tono di andare avanti nella pro­du­zione fino al 2016. Oppure con­ce­de­ranno un con­ten­tino: qual­che aereo in meno. Si tratta di una stra­te­gia dila­to­ria e comun­que miope. Una scelta dan­nosa per l’Italia e rite­nuta sba­gliata dalla stra­grande mag­gio­ranza degli elet­tori di sini­stra e sicu­ra­mente anche dalla mag­gior parte del paese. Tra qual­che set­ti­mana ci sarà una nuova mozione dei depu­tati paci­fi­sti per lo stop agli F35: quella potrebbe essere l’occasione per cam­biare strada. Pos­siamo ancora fer­marci e desti­nare que­sti soldi al lavoro e a cause più buone e utili.

«Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche».

La Repubblica, 29 marzo 2014

SONO passati più di otto anni da quando Guido Rossi propose al governo Prodi di attuare una politica «di tipo leninista»: vietare gli accordi parasociali attraverso cui in Italia i soliti noti gestiscono aziende in cui hanno investito il minimo necessario, spalleggiandosi l’uno con l’altro. Oggi che perfino Mediobanca, cioè la regina di questi patti di sindacato, ne predica la dissoluzione, dovremmo forse esultare della felice resipiscenza? In teoria, sì, tornano fluidi gli assetti di potere al vertice dell’industria e della finanza. Peccato ciò accada - come ci avverte fin dal titolo l’ultimo saggio di Massimo Giannini - in un panorama di macerie : L’anno zero del capitalismo italiano.

Passando in rassegna le vicende cruciali di Alitalia, Telecom, Eni, Finmeccanica e Fiat, il vicedirettore di questo giornale fornisce un’analisi di sistema che è insieme economica e politica. Descrive con sapienza l’intreccio di interessi particolari che si incontrano: come la pulsione elettoralistica di Berlusconi sintonizzata con le aspirazioni politiche del banchiere Passera, col risultato del vergognoso sperpero di denaro pubblico in Alitalia. Come nella fuga dalle loro responsabilità degli azionisti Telecom riuniti nella Galassia del Nord che cedono il controllo agli spagnoli pur di limitare le perdite, e se ne infischiano se il 78% degli altri azionisti comuni mortali che hanno comprato in Borsa non vedranno un centesimo. Come il plenipotenziario Paolo Scaroni che all’Eni riesce a scansare lo scandalo del crollo di valore della controllata Saipem, perché lui appartiene a una consorteria imprescindibile. E avanti di questo passo. Fa impressione la sintesi che Giannini ci propone dei maggiori gruppi imprenditoriali pubblici e privati del nostro paese: quando fanno profitti, li fanno all’estero. Qui da noi hanno contribuito a una desertificazione.

Ritorno all’anno zero del capitalismo, appunto. Dove vengono meno anche i polmoni del credito se è vero che «Montepaschi resta una bomba a orologeria» destinata quasi inevitabilmente alla nazionalizzazione. Mentre Intesa Sanpaolo, concepita come “banca di sistema”, oggi si ritrova acefala, logorata nei suoi vertici e oppressa da troppe grandi operazioni finite in perdita.

L’angusto orizzonte del capitalismo di relazione, passando il vaglio della prolungata depressione economica, rivela scenari imbarazzanti. Perché i protagonisti di spoliazioni aziendali o di raggiri contabili non possono essere liquidati come corpi estranei. Giannini fa due nomi per tutti: Giuseppe Mussari e Salvatore Ligresti. Mele marce? Davvero Mussari che ancor oggi si fa fotografare a cavallo nella campagna senese ha potuto turlupinare l’intero mondo bancario italiano godendo di protezioni politiche trasversali, senza che i colleghi ne avessero percezione? E quanto a Ligresti, siamo sicuri che integrarlo nel salotto buono servisse solo al vecchio compaesano Cuccia, o invece ha fatto comodo a tanti altri banchieri contemporanei?

Massimo Giannini considera il 2013 l’anno cruciale del disfacimento di questa economia di relazione minata nelle sue fondamenta. È l’anno che precede, non a caso, il definitivo espatrio della Fiat trasformata da Marchionne in multinazionale svincolata dagli impianti italiani; con grande beneficio per l’accomandita Agnelli e grave danno per il sistema paese. Ma nella sua appassionante ricostruzione già nel 2011 salta un architrave decisivo di questo sistema collusivo in cui varie debolezze si sostengono a vicenda: parliamo della presidenza delle Generali bruscamente sottratta a Cesare Geronzi, e con lui a uno scivoloso baricentro in cui si ritrovano sottogoverno e Vaticano, immobiliaristi e concessionari pubblici, ex industriali passati alla rendita e lobbisti millantatori in cerca di nuovo lustro.

Chi ha fatto saltare quel vecchio equilibrio, lo spiega bene Giannini, è a sua volta una miscellanea rivoltasi al Tremonti di turno che attraverso l’ancora giovane manager di Mediobanca, Alberto Nagel, coalizza i nuovi potenti, diversissimi fra loro: ormai cosmopoliti come Luxottica e De Agostini, piuttosto che arcitaliani come Caltagirone e Della Valle. Uniti nel guardare dall’alto in basso gli ambienti sbrindellati di prima, senza accorgersi di quanto gli somigliano. Nel primo capitolo del suo saggio, Massimo Giannini si pone domande radicali di fronte a questo scenario desolante. Se il principio costitutivo del capitalismo globale contemporaneo è una curvatura tendenzialmente antidemocratica che svalorizza il lavoro e devasta risorse industriali e naturali, in Italia questo fenomeno assume caratteristiche parossistiche: l’anno zero del capitalismo rischia di lasciare in braghe di tela gli uni e gli altri.
Si chiarisce giorno dopo giorno l'ideologia del branco renzusconiano. Vogliono formare pezzi della macchina del capitalismo, non donne e uomini capaci di pensare, criticare, cambiare, crescere e contribuire a migliorare il mondo.

Il manifesto, 28 marzo 2014

Il modello per la scuola scelto dal mini­stro dell’Istruzione Ste­fa­nia Gian­nini è quello tede­sco. Que­sto signi­fica pri­vi­le­giare l’istruzione tec­nica, por­tare gli stu­denti a fare tiro­cini o stage in azienda sin dal quarto anno di scuola come già pre­vi­sto, usando magari le norme sui con­tratti a ter­mine del Jobs Act che can­cel­lano l’acausalità dei con­tratti e dere­go­la­men­tano l’apprendistato. Per que­sto, il Miur aumen­terà gli isti­tuti tec­nici supe­riori. Ai 63 attuali se ne aggiun­ge­ranno altri dedi­cati al turi­smo e ai beni cul­tu­rali con classi in cui si par­lerà solo in inglese o francese.

Secondo i dati di Alma­Di­ploma, il 37,2% dei diplo­mati tec­nici del 2012 lavo­rava già ad un anno dal titolo, men­tre il tasso di disoc­cu­pa­zione è il più alto tra i diplo­mati: il 34%. L’insistenza su que­sto indi­rizzo di studi si spiega nella cor­nice più gene­rale della pro­fes­sio­na­liz­za­zione dell’istruzione, un modello inse­guito anche dai pre­de­ces­sori di Gian­nini: Gel­mini, Pro­fumo e Car­rozza. I dati non sem­brano con­fer­mare que­sto orien­ta­mento nelle poli­ti­che dell’istruzione, come del resto in quelle del lavoro: secondo il bilan­cio delle iscri­zioni alle scuole supe­riori per l’anno 2014–2015 gli stu­denti che scel­gono i tec­nici sono il 30,8%, prima viene il liceo scien­ti­fico con 121.686 richie­ste, poi l’alberghiero con 48.867. Gli iscritti ai licei sono sem­pre i più nume­rosi di tutti: il 50,1%. Fino a quando durerà il governo Renzi, il Miur andrà in contro-tendenza impor­tando un modello che, come ha più volte denun­ciato il con­sor­zio inte­ru­ni­ver­si­ta­rio Alma­lau­rea, mette impro­pria­mente in com­pe­ti­zione la for­ma­zione tec­nica sul lavoro della conoscenza.

Espo­nendo alcune delle linee pro­gram­ma­ti­che sulla scuola in com­mis­sione Istru­zione al Senato, il mini­stro dell’Istruzione Ste­fa­nia Gian­nini ha annun­ciato ieri di rinun­ciare a «fir­mare un’altra riforma dell’istruzione»: «Resi­sterò alla ten­ta­zione di un’ipertrofia nor­ma­tiva». Era ine­vi­ta­bile, con­si­de­rato che sono ancora in corso di attua­zione i decreti della riforma Gel­mini del 2008. Nel man­te­ni­mento di unosta­tus quo che ha depresso e con­fuso l’intero mondo dell’istruzione, il mini­stro intende pro­ce­dere con la pro­gram­ma­zione delle risorse scarse esi­stenti e la sem­pli­fi­ca­zione nor­ma­tiva. A par­tire da un testo unico in mate­ria di nor­ma­tiva scolastica.

Un’altra linea fon­dante del suo dica­stero sarà la bat­ta­glia per il merito e con­tro le retri­bu­zioni degli inse­gnanti basati sugli scatti di anzia­nità. Que­sta bat­ta­glia por­terà ad uno scon­tro fron­tale con i sin­da­cati. Il con­tratto di lavoro nel set­tore è bloc­cato dal 2009. La Corte dei conti ha cal­co­lato i danni del blocco: è costato 3.348 euro in meno per i docenti, 6.380 ai diri­genti sco­la­stici, 2.416 al per­so­nale Ata. Soldi che non ver­ranno mai resti­tuiti. Gian­nini ha men­zio­nato l’esigenza di sbloc­care la con­trat­ta­zione, intro­du­cendo però la pre­mia­lità attra­verso valu­ta­zione e meri­to­cra­zia. In attesa che qual­cosa si sbloc­chi, gli orga­nici docenti restano fermi al 2011, anno in cui si è chiuso il piano trien­nale di tagli oltre 81 mila posti, men­tre gli alunni sono aumen­tati di 87 mila, creando l’emergenza delle «classi pol­laio». Con­tro que­sta situa­zione, la Flc-Cgil ha annun­ciato mobilitazioni.

Si vuole inol­tre com­ple­tare l’anagrafe dell’edilizia sco­la­stica, un pro­cesso ini­ziato nel 1996 e mai con­cluso. Senza que­sto stru­mento sarà infatti dif­fi­cile spen­dere i 3,7 miliardi di euro pro­messi da Renzi. Gian­nini ha riba­dito l’esigenza di rifi­nan­ziare l’istruzione tagliata di 9,5 miliardi di euro dai tagli lineari di Tre­monti e Gel­mini (8,4 alla scuola, 1,1 a uni­ver­sità e ricerca). Su que­sto si gio­cherà una par­tita impor­tante nel governo. Scelta Civica intende strap­pare un fondo e sostiene di volere andare fino in fondo. Per il momento, il mini­stro pro­verà a rifi­nan­ziare il fondo per il miglio­ra­mento dell’offerta for­ma­tiva (Mof) ai livelli del 2011 (1,5 miliardi).

Dichia­ra­zioni di rito sulla neces­sità di «rias­sor­bire» 178 mila sup­plenti pre­cari «in un’ottica di lungo periodo». Non sono state fatte pre­vi­sioni, né cifre. Forse entro la fine della legi­sla­tura, nel 2018, quando Gian­nini intende varare una forma unica di abi­li­ta­zione all’insegnamento sco­la­stico, uni­fi­cando le dif­fe­renti figure esi­stenti: Tfa ordi­nari e spe­ciali, Pas, vec­chie Ssis, ido­nei al «con­cor­sone». Un eser­cito di 100 mila per­sone nel caos: non si sa se rien­tre­ranno in una gra­dua­to­ria, o cosa acca­drà quando ver­ranno ria­perte, o se ver­ranno assunti.

Noi europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi. Non possiamo sapere cosa ci aspetterà in futuro. A oggi ogni soluzione che concordiamo di fronte al succedersi di sfide e dissensi emana un’aria di temporaneità. Sembra essere, e il più delle volte dimostra infatti di essere, valida «sino a nuova comunicazione », con una clausola ad hoc che ne rende possibile la revoca, così come ad hoc sono le nostre divisioni e coalizioni, fragili e incerte. Su Le Monde del due febbraio scorso Nicolas Truong, riferendosi ai concetti espressi ripetutamente da Daniel Cohn Bendit e Alain Finkielkraut, ha delineato due opposti scenari per il futuro della nostra convivenza, di noi europei. Cohn-Bendit ha pubblicato con Guy Verhofstadt il manifesto Per l’Europa!, nel quale promuove una via rapida per eludere e superare il mito della sovranità territoriale dello Stato-nazione per costruire una Federazione europea basata sull’”identità europea”, la quale deve ancora essere costruita, pazientemente e uniformemente. Finkielkraut invece è convinto che il futuro dell’Europa risieda nella sua unità, ma ritiene che questa debba corrispondere a un’unità (convivenza? cooperazione? solidarietà?) di identità nazionali.

Finkielkraut ricorda l’insistenza con cui Milan Kundera affermava che l’Europa è rappresentata dalle sue conquiste, i suoi paesaggi, le sue città e i suoi monumenti; Cohn-Bendit invoca invece l’autorevolezza di Jürgen Habermas, Hannah Arendt e Ulrich Beck, uniti nella loro opposizione al nazionalismo. A rigor di logica, queste sono le due strade che si presentano ai nostri occhi nel luogo in cui ci siamo collettivamente raccolti alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Senza dubbio l’attuale, incoerente struttura istituzionale dell’Unione Europea — nella quale le regole senza politica promosse da Bruxelles contrastano con la politica senza regole per cui il Consiglio europeo è famoso, mentre il Parlamento è tutto chiacchiere e poco potere — alimenta simultaneamente entrambe queste tendenze. Ottant’anni fa Edmund Husserl ammoniva: «Il pericolo più grave che minaccia l’Europa è la sua stanchezza».

Nel corso degli ultimi cinquant’anni i processi di deregolamentazione originati, promossi e controllati dai governi statali che si sono uniti volontariamente (o sono stati indotti a farlo) alla cosiddetta “rivoluzione neo-liberale” hanno prodotto una separazione sempre più acuta e crescenti probabilità di separazione tra il potere (ovvero, la capacità di fare) e la politica (ovvero, l’abilità di decidere cosa deve essere fatto). I poteri un tempo racchiusi nella cornice dello Stato-nazione sono per lo più evaporati e sono finiti in una terra di nessuno, quella dello “spazio dei flussi” (secondo la definizione data da Manuel Castells), mentre la politica resta, come in passato, ancorata e confinata al territorio. Tale processo tende a essere sempre più intenso e autoindotto. I governi nazionali, ormai privi di potere e sempre più deboli, sono obbligati a cedere una ad una le funzioni un tempo considerate monopolio naturale e inalienabile degli organi politici dello Stato, per affidarle alle cure di forze di mercato già “deregolamentate”, sottraendole così all’ambito della responsabilità e del controllo da parte della politica. Ciò provoca il rapido dissolversi della fiducia popolare nei confronti dell’abilità dei governi di fronteggiare con efficacia le minacce alle condizioni di vita dei loro cittadini. Questi credono sempre meno che i governi siano capaci di tener fede alle loro promesse.

Per dirla in breve: la nostra crisi attuale è innanzitutto e soprattutto dovuta a una crisi dell’azione di governo — benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale.

Gli europei, così come la maggior parte degli altri abitanti del pianeta, stanno attualmente attraversando una crisi della “politica così come la conosciamo” e al tempo stesso sono costretti a trovare o inventare soluzioni locali a sfide globali. Gli europei, come la maggior parte degli abitanti del pianeta, ritengono che le modalità attualmente impiegate per “fare le cose” non funzionino a dovere, mentre all’orizzonte ancora non si vedono modalità alternative ed efficaci (una situazione che il grande filosofo italiano Antonio Gramsci definì come stato di “interregno” — ovvero una situazione nella quale il vecchio è già morto o sul punto di morire, ma il nuovo non è ancora nato). I loro governi, come tanti altri al di fuori dell’Europa, si trovano di fronte a un dilemma irrisolvibile. Tuttavia, a differenza della maggioranza degli abitanti del Pianeta, il mondo degli europei è un edificio a tre — non a due — piani. Tra i poteri globali e le politiche nazionali c’è infatti l’Unione Europea.

L’intrusione di un anello intermedio nella catena di dipendenza confonde la divisione, altrimenti palese, tra “noi” e “loro”. Da quale parte sta l’Unione europea? Da quella della “nostra” politica (autonoma), o del “loro” potere (eteronimo)? Da un lato,

l’Unione è considerata uno scudo protettivo che difende l’aggregato dei singoli Stati. Dall’altro, appare come una sorta di quinta colonna dei poteri globali, un satrapo degli invasori stranieri, un “nemico interno” e un avamposto di forze che cospirano per erodere e in definitiva annullare la possibilità che nazione e Stato mantengano la propria sovranità. Una percezione, questa, che viene spregiudicatamente e slealmente sfruttata dalle sirene dei neonazionalisti, che a poche settimane dalle elezioni europee stanno guadagnando sempre più consensi, come abbiamo visto alle ultime elezioni locali in Francia, dove ha trionfato il Front National. I neonazionalisti presentano il sogno della sovranità nazionale/ territoriale come cura di tutti i mali causati, secondo loro, dalla realtà odierna.

Proprio come il resto del Pianeta, l’Europa oggi è una discarica dei problemi e delle sfide generate a livello globale. Tuttavia, a differenza del resto del Pianeta, l’Unione europea è anche un laboratorio, forse unico, nel quale ogni giorno si progettano, discutono e collaudano nuove proposte per far fronte a quelle sfide e a quei problemi. Mi spingerei sino a suggerire che questo è un fattore (forse l’unico) che rende l’Europa, il suo retaggio e il suo contributo al mondo straordinariamente significativi per il futuro di un pianeta oggi di fronte a una seconda e cruciale trasformazione della convivenza umana nella storia moderna — e cioè del passaggio incredibilmente faticoso dalle “totalità immaginate” degli Stati-nazione alla “totalità immaginata” dell’umanità. Questo processo, che è ancora agli inizi e che, se il pianeta e i suoi abitanti sopravvivranno, è destinato a proseguire, l’Unione europea incarna un’opportunità molto concreta. Tuttavia, l’obiettivo non è facile da raggiungere. Non c’è alcuna garanzia di successo e sottoporrà la maggior parte degli europei, hoi polloi, e dei loro leader eletti, a una forte frizione tra priorità contrastanti e scelte difficili.

L’idea dell’Europa forse era e rimane un’utopia. Ma è stata e rimane un’ utopia attiva, che si sforza di fondere e consolidare azioni altrimenti disconnesse e multidirezionali. Un’utopia la cui attività dipenderà, in definitiva, dai suoi attori.

( Traduzione di Marzia Porta)

«Il fiscal com­pact ha sot­tratto agli stati, con la pote­stà finan­zia­ria e di bilan­cio, il potere di prov­ve­dere alla garan­zia dei diritti costi­tu­zio­nali di ultima gene­ra­zione, quelli sociali. Una con­qui­sta di civiltà giu­ri­dica, poli­tica e sociale è stata rin­ne­gata. Va riaf­fer­mata».

Il manifesto, 28 marzo.2014
Pare che, con la sua ambi­ziosa bal­danza, Renzi non sia riu­scito a con­vin­cere la signora Mer­kel dell’anacronismo dei divieti con­te­nuti nei Trat­tati euro­pei e della pos­si­bi­lità di atte­nuarne il rigore.
Evi­den­te­mente le tec­ni­che comu­ni­ca­to­rie del Pre­si­dente del Con­si­glio in carica hanno un limite di effi­ca­cia che non supera l’ambito delle pri­ma­rie. Il che la dice lunga sulla serietà di tali pra­ti­che ma anche sulla durezza del capi­ta­li­smo cano­niz­zato dal neo­li­be­ri­smo nei Trat­tati Ue.

La signora Mer­kel, infatti, rispon­dendo a Renzi che la ras­si­cu­rava sul rispetto del divieto di oltre­pas­sare il 3 per cento del rap­porto deficit-Pil, gli ha ricor­dato che non era l’unica norma da rispet­tare ed allu­deva, con ogni pro­ba­bi­lità, all’obbligo di ridurre il debito, come pre­scrive l’articolo 4 del fiscal com­pact. Obbligo quanto mai gra­voso visto che implica un taglio della spesa pub­blica di rile­van­tis­sima entità, a par­tire dal 2015 (30–50 miliardi) a meno che il Pil non aumenti del 3 per cento, obiet­tivo fran­ca­mente mira­bo­lante.

È quindi da pre­ve­dersi, nel pros­simo futuro, un taglio con­si­de­re­vole della spesa pub­blica. Come se non bastas­sero quelli che, da sette anni, stanno deva­stando rap­porti umani, con­di­zioni di vita, dise­gni di futuro, pro­du­cendo mise­ria, dispe­ra­zione, reces­sione, distru­zione di valori giu­ri­dici, sociali, morali. Che il taglio col­pi­rebbe pro­prio i diritti sociali ancor più com­pri­men­doli, è pur­troppo ipo­tesi più che probabile.

Che fare? Il rap­porto di sud­di­tanza della poli­tica, del diritto, della civiltà umana all’economia neo­li­be­ri­sta va rove­sciato con urgenza asso­luta. Oppo­nendo i diritti ai pro­fitti e riaf­fer­man­done la sovra­nità. Le rica­dute che ne segui­ranno potranno essere solo virtuose. Due anni fa, (il mani­fe­sto, 18.4.2012), avan­zai una proposta. La ripro­pongo attua­liz­zan­dola. È quella di un dise­gno di legge costi­tu­zio­nale di ini­zia­tiva popo­lare diretto ad inte­grare l’articolo 81 della Costi­tu­zione, pro­prio quello che su ukase delle auto­rità euro­pee, col fiscal com­pact, rece­pi­sce l’imperativo del pareg­gio. Inte­grare, tale arti­colo, con una norma, quella per cui, nel bilan­cio dello Stato, siano desti­nate risorse pari alla media della spesa sociale pro­ca­pite dei tre paesi più svi­lup­pati dell’Unione euro­pea al fine di assi­cu­rare il godi­mento dei diritti rico­no­sciuti dagli arti­coli 32 (diritto alla salute) 33–34 (all’istruzione) e 38 (assi­stenza e pre­vi­denza sociale).

Il fiscal com­pact ha sot­tratto agli stati, con la pote­stà finan­zia­ria e di bilan­cio, il potere di prov­ve­dere alla garan­zia dei diritti costi­tu­zio­nali di ultima gene­ra­zione, quelli sociali. Una con­qui­sta di civiltà giu­ri­dica, poli­tica e sociale è stata rin­ne­gata. Va riaf­fer­mata. Nel secondo dopo­guerra si pose come vanto ed emblema dell’Europa prima che la offris­sero alla rapina del capi­ta­li­smo finan­zia­rio. Potrà con­tri­buire a costruire una Europa diversa, quella dei diritti e della democrazia.

Se in tanti, pro­prio in tanti, le cit­ta­dine e i cit­ta­dini di que­sta Repub­blica si uni­ranno nel pro­porre al Par­la­mento di deli­be­rare su tale pro­po­sta, sarà dif­fi­cile ai feti­ci­sti del neo­li­be­ra­li­smo imporre il rifiuto di assi­cu­rare diritti, di difen­dere le con­qui­ste di libertà e di dignità umana san­cite nella Costi­tu­zione repub­bli­cana. Proviamoci.

Costituzione, articolo 32: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La Repubblica, 28 marzo 2014

Benvenuta la lettera con la quale il Presidente della Repubblica ha sollecitato l’interesse del Parlamento per le questioni riguardanti la fine della vita. Non sarà facile. Ma la ragione non sta nell’esistenza di un completo “vuoto normativo”. Al contrario, esiste già un insieme di principi e regole che definiscono il quadro giuridico da tener presente, sì che il vero rischio oggi può essere quello di usare una nuova legge per restringere diritti già riconosciuti.

”Morire con dignità”, “morire bene”, “diritti dei morenti”, sono alcune tra le tante espressioni con le quali da anni si descrive non solo la condizione delle persone alla fine della vita, ma più in generale il rapporto che ogni persona deve poter stabilire con il tempo estremo della sua esistenza. Infatti, se la morte appartiene alla natura, il morire appartiene alla sua vita, è divenuto sempre più governabile e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno. Proprio seguendo gli itinerari del diritto, è agevole accorgersi di questo radicale mutamento di prospettiva, con l’attribuzione a ciascuno del pieno governo del sé soprattutto per quanto riguarda il destino del proprio corpo, per il quale il principio è ormai quello del consenso libero e informato dell’interessato. La rivendicazione del diritto di morire diviene così parte del più complesso movimento di riappropriazione del corpo.

Tutto questo ha chiari e forti riferimenti nella Costituzione. Nell’articolo 32, dove la salute è definita diritto «fondamentale», si afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»: questo intervento, tuttavia, è ammissibile solo nei casi in cui vi sia una ragione sociale rilevante. Non a caso quell’articolo si conclude con parole molto nette: «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». In nessun’altra costituzione si trova una norma così impegnativa. Si individua così un’area dell’”indecidibile”, preclusa a qualsiasi intervento legislativo e che viene identificata riferendosi al rispetto assoluto della dignità e della persona nella sua integralità.

Quest’area, sottratta alla competenza parlamentare, è quindi attribuita alla libertà di scelta del
la persona. Un passaggio essenziale, chiarito in modo inequivocabile dalla sentenza n. 438 del 2008 della Corte costituzionale: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».

Questa linea costituzionale ha trovato ripetute conferme in importanti sentenze dei giudici ordinari e nelle iniziative di un centinaio di comuni che hanno istituito registri dei testamenti biologici. Che non hanno un semplice valore simbolico, perché consentono di accertare l’effettiva volontà di una persona, superando una delle polemiche che accompagnarono la vicenda di Eluana Englaro. E da questo quadro di principi bisogna partire, lasciandosi alle spalle le polemiche che, nella scorsa legislatura, furono determinate dai tentativi di risolvere con norme proibizioniste una questione tanto impegnativa.

Nella discussione, che si snoda ormai nel corso dei decenni e non in Italia soltanto, compaiono due espressioni — accanimento terapeutico e rifiuto delle cure — che costituiscono punti fermi per quanto riguarda i doveri del medico e i diritti della persona. Ma questi non sono due mondi separati, anzi i veri problemi da risolvere sono proprio quelli che riguardano i medici e le loro responsabilità, anche se queste sono state escluse sia dalla magistratura che dall’ordine dei medici nei casi Welby e Englaro. Permane comunque una incertezza, che deve essere eliminata.

Su questi temi ha lavorato a lungo un gruppo di giuristi, medici e studiosi di bioetica, intelligentemente coordinati da professor Paolo Zatti, che ha elaborato una dettagliata proposta di legge, presentata al Senato da Luigi Manconi e che può costituire il riferimento per una discussione parlamentare finalmente liberata da ogni pretesa fondamentalista. Su questo testo varrà la pena di tornare quando sarà avviata la discussione parlamentare. Ma fin d’ora si può ricordare che esso muove dall’ormai incontestabile diritto all’intangibilità del corpo, ribadito anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui si esprime al più alto grado il rispetto della dignità umana.

L’abbandono di ogni pretesa di invadere lo spazio della persona, che la Costituzione vuole tenere al riparo dagli interventi del legislatore, non risponde soltanto all’esigenza di affrontare in modo più adeguato, e liberato da ambiguità paternalistiche e pietistiche, la condizione reale di molte migliaia di sofferenti. Chiarisce come il diritto all’autodeterminazione, fondato com’è sulla libertà di governare liberamente la propria vita, mette in evidenza la necessità di tener conto dei diritti di chi intende proseguire la propria esistenza con tutta l’assistenza necessaria. Emerge così il diritto d’ogni cittadino di accedere alle cure palliative ed alle terapie del dolore. Solo tenendo insieme le due possibili scelte della persona, si può uscire dalla schizofrenia istituzionale e dalle ipocrisie di chi invoca l’intervento del legislatore in aree precluse dalla Costituzione, mentre ignora i doveri delle istituzioni pubbliche.

Questi sono i tragitti che portano verso un effettivo rispetto della vita, non quelli di chi si arrocca intorno alla difesa di valori “non negoziabili”, espressione di posizioni che possono avere anche una forte convinzione personale, ma che non possono cancellare i principi costituzionali. Forse i tempi si stanno facendo più propizi ad un confronto ispirato al rispetto pieno della dignità delle persone, grazie all’attenzione partecipe che per questa manifesta continuamente il Pontefice. Il Parlamento non può estraniarsi da questo contesto, continuando a subordinare i diritti delle persone alle convenienze di un partito o di una maggioranza di governo. La Chiesa può rendere la discussione più libera e consapevole. La Germania, oggi così detestata, può ricordarci il ruolo significato della sua Conferenza episcopale nel favorire una legge assai avanzata proprio sulle decisioni di fine vita.

«Rifletterà l'Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra?». I partiti italiani hanno accettato addirittura di introdurre nella Costituzione il vincolo di bilancio. Sbilanciamoci, Newsletter n.316 del 25 marzo 2014

Il Fronte nazionale di Le Pen non solo è diventato – dove presente – il primo partito ma ha respinto il Partito socialista, in testa alle presidenziali due anni fa, al terzo posto. Rifletteranno le teste della Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra?

Speriamo che la solenne botta presa dai socialisti alle elezioni municipali in Francia cancelli gli insulsi sorrisi dai faccioni di Renzi e di Barroso, finora non sfiorati dal dubbio che la politica di austerità seguita dalla commissione avvantaggi le destre. E non le destre, per intenderci, alla Monti, ma quelle estreme e fascistizzanti. Inutile riconoscere che tale è, e senza infingimenti, l'ungherese Viktor Orban, cui è andata per sei mesi la presidenza europea, e lo sono anche le forze che dovunque sfondano i residui bipolarismi tra una destra e una sinistra "democratiche". Ultima, clamorosa, la Francia, dove domenica si è votato nei 36.000 comuni e il Fronte nazionale di Le Pen, antisemita, xenofobo e antieuropeo, non solo è diventato – là dove era presente – il primo partito ma ha respinto il Partito socialista, in testa alle presidenziali due anni fa, non al secondo ma al terzo posto, mentre il Partito comunista e il fronte delle sinistre sono sovente scivolate al quarto.

Era da prevedersi, quando la disoccupazione e il precariato toccano quattro milioni di francesi, non molto diversamente dall'Italia. Da un paio di anni a questa parte – quasi ogni giorno – una grande o media azienda francese delocalizza o chiude, e il governo Hollande, che aveva vinto impegnandosi a lottare contro la finanza, non è stato in grado difendere l’occupazione, né in genere l’azienda, neanche quando chiudeva o delocalizzava pur dichiarando lauti guadagni; le maestranze uscivano dai reparti decise a lottare, trovavano la solidarietà del sindaco se, come sovente, l’azienda colpita era anche la più importante dei molti borghi di media urbanizzazione. Il risultato abituale era che in capo a tre settimane ci si doveva contentare di negoziare i cosiddetti “piani sociali”, altri e perlopiù lontani impieghi o indennizzi, con le condoglianze delle centrali sindacali e dei ministeri interessati. A tre giorni dalle elezioni municipali, la settimana scorsa ha chiuso la Redoute, la più antica e nota impresa di confezioni che da sola copriva una vasta percentuale dei consumi del ceto medio, trascinando in rovina intere città industriali, erodendo le possibilità di acquisto della massa operaia e piccolo borghese.

Tutto visibile e prevedibile? Sì, salvo che per un governo socialista, simile al nostro Pd, cui i trattati impongono di non intervenire per non turbare la libera concorrenza e che sperava di cavarsela in imprese militari costose e difficili nell'ex impero coloniale francese, nel Mali e poi nel Centro Africa. Mentre il presidente e il ministro degli esteri Fabius strepitavano per ricorrere alla mano dura contro Putin in Crimea; come se il noto nazionalismo dell’esagono potesse far dimenticare le condizioni di impoverimento crescente.

Ieri sera davanti ai risultati tutto lo staff socialista cadeva dalle nuvole mentre Marine Le Pen sguazzava nel trionfo dell’ondata blu che portava il suo nome. Soddisfatta anche l’Ump di Sarkozy, sicura che il governo avrebbe chiamato all'unità nazionale antifascista, legittimando il voto alla destra repubblicana, come già al tempo della caduta di Jospin nelle presidenziali degli anni Novanta. Rifletterà la Commissione europea? Rifletteranno le teste della Ue all'evidenza che l'Europa monetaria e rigorista riporta in vita l'estrema destra per la prima volta nel secondo dopoguerra? E che il Fronte nazionale diventa il primo partito popolare in Francia? Rifletteranno i molti che in Italia osservano benevolmente Renzi e il gioco delle tre carte che consiste nel mettere (forse) in busta paga di una fascia di bassi redditi quel che gli toglie in servizi pubblici e in tasse locali?

Il Pd infatti segue la stessa strada di Hollande, e la sua flebile sinistra interna non appare in grado di fargli cambiare rotta. E che dire della Cgil di Susanna Camusso che strepita dopo aver poco prima votato con la Confindustria un accordo sulle relazioni industriali eccessivo anche per il nostro malridotto vicino? E della Fiom di Landini che, isolata, spera anch'essa nel Matteo nazionale?

Insomma, non resta che augurarci che la dura botta francese, difficilmente recuperabile al secondo turno, funzioni da severa lezione contro gli eccessi di stoltezza degli ultimi vent'anni d'Europa.

«Riforme. Serve un senato di controllo eletto a suffragio universale. Il bicameralismo perfetto si supera rafforzando la funzione del parlamento, non mutilandolo con l’amputazione di una parte. Ecco gli emendamenti possibili». Il

manifesto, 26 marzo 2014

Nella pro­po­sta di riforma del Senato for­mu­lata dal governo la que­stione di fondo appare essere la moda­lità di com­po­si­zione (da una Camera elet­tiva si pas­se­rebbe a un organo com­po­sto da mem­bri di diritto, eletti di secondo grado e nomi­nati dal Capo dello Stato). Solo in seconda bat­tuta ci si inter­roga sulle fun­zioni del «nuovo» Senato. Dovrebbe essere esat­ta­mente il con­tra­rio. Solo una volta defi­nito il «tipo» di bica­me­ra­li­smo si può sta­bi­lire come devono essere sele­zio­nati i suoi componenti.

Da anni sia in sede scien­ti­fica sia in quella poli­tica si discute di come «dif­fe­ren­ziare» i ruolo di Camera e Senato. Da ultimo, è stata la sfor­tu­nata com­mis­sione dei saggi isti­tuita dal governo Letta a for­nire un qua­dro delle pos­si­bili alter­na­tive. Bastava assu­mersi la respon­sa­bi­lità poli­tica di sce­gliere e pro­porre al Par­la­mento un dise­gno di legge coerente.

Così non è avve­nuto. Forse è la volontà di acce­le­rare i tempi scri­vendo un testo poco medi­tato, pro­ba­bil­mente la volontà di non uti­liz­zare nulla di quel che era stato fatto dal pre­ce­dente governo, magari l’esigenza rite­nuta prio­ri­ta­ria di comu­ni­care un solo mes­sag­gio sem­plice e popo­lare: non si pagano più gli sti­pendi dei sena­tori. Come che sia il risul­tato è la defi­ni­zione di un organo fra­gile e poli­ti­ca­mente inu­tile. La nuova «Assem­blea delle auto­no­mie» (il nome attri­buito all’organo che andrebbe a sosti­tuire il Senato), esclusa dal cir­cuito della fidu­cia al governo, dovrebbe essen­zial­mente limi­tarsi ad espri­mere pareri sulle leggi già appro­vate (rimar­reb­bero bica­me­rali solo le leggi costi­tu­zio­nali). Un parere che può essere facil­mente supe­rato dalla Camera, anche nei casi più deli­cati, essendo richie­sta al mas­simo la mag­gio­ranza asso­luta, vale a dire un quo­rum facil­mente rag­giun­gi­bile (con l’Italicum potrebbe far da sola anche la sin­gola lista che ottiene il premio).

Eppure, in que­sto caso ben più che non sulla legge elet­to­rale, ci sarebbe lo spa­zio per un con­fronto. Si può con­tare, infatti, su un dato di par­tenza ormai pres­so­ché una­ni­me­mente rico­no­sciuto: l’attribuzione solo alla Camera del rap­porto fidu­cia­rio con il governo. Ma pro­prio l’esclusione del Senato dal cir­cuito fidu­cia­rio impone di far valere — raf­for­zan­dole — le altre fun­zioni che una «seconda Camera» può svol­gere. Il Par­la­mento, come è noto, non eser­cita solo la fun­zione legi­sla­tiva (ed anzi, da ormai molto tempo que­sta è in crisi), ma anche fun­zioni di con­trollo, di garan­zia, d’inchiesta, di rac­cordo con le istanze sovra­na­zio­nali e con quelle locali. A fronte dell’importanza di tali fun­zioni si regi­stra un pro­gres­sivo dete­rio­ra­mento della capa­cità di un loro effet­tivo eser­ci­zio. Poche leggi d’iniziativa par­la­men­tare e pre­va­len­te­mente di micro­le­gi­sla­zione (lasciando al governo la legi­sla­zione di prin­ci­pio e quella poli­ti­ca­mente più rile­vante), scarsa capa­cità di con­trollo sull’attività del ese­cu­tivo, inde­ter­mi­na­tezza dell’attività di garan­zia, per­dita di senso e di forza delle inchie­ste par­la­men­tari, mar­gi­na­lità dell’organo della rap­pre­sen­tanza poli­tica nei rap­porti con le istanze e gli organi sovra­na­zio­nali, euro­pei in par­ti­co­lare, scarsa con­si­stenza dei rap­porti isti­tu­zio­nali tra Par­la­mento ed auto­no­mie locali.

Quale migliore occa­sione di una riforma del bica­me­ra­li­smo per­fetto per porre la que­stione del raf­for­za­mento del sistema parlamentare.

Non dico che sarebbe facile indi­vi­duare un equi­li­brio cor­retto tra Camera e Senato nell’ipotesi in cui si volesse seria­mente dif­fe­ren­ziare il bica­me­ra­li­smo, e il pre­sup­po­sto con­di­viso (la sot­tra­zione al Senato del rap­porto fidu­cia­rio) non esenta dalla neces­sità di un attento lavoro di sin­tesi e scelta, pro­ba­bil­mente foriera di divi­sioni e con­flitti tra le forze poli­ti­che, non­ché tra le opi­nioni della cul­tura costi­tu­zio­na­li­stica. Nes­suno può pen­sare che met­tere le mani su una Costi­tu­zione sia un’operazione indo­lore e soprat­tutto priva di rischi. Ma almeno dovrebbe essere chiara la dire­zione di mar­cia e l’obiettivo comune. Sono molti anni che si denun­cia la debo­lezza pro­gres­siva del Par­la­mento e la ricerca di una sua cen­tra­lità è la vera scom­messa costi­tu­zio­nale da rac­co­gliere.

Così una scelta tra le diverse fun­zioni prima elen­cate dovrebbe essere neces­sa­ria­mente com­piuta, ride­fi­nendo le com­pe­tenze tra le due Camere. Non solo. È pro­prio a seguito — e in con­se­guenza — di que­ste deci­sioni di sistema che potranno anche coe­ren­te­mente defi­nirsi i cri­teri di com­po­si­zione della «seconda Camera». Ad esem­pio, riser­vare la tito­la­rità del rap­porto di fidu­cia con il governo ai soli depu­tati non com­porta ine­vi­ta­bil­mente l’esclusione dell’altro ramo anche dalla fun­zione legi­sla­tiva, tut­ta­via dovrebbe essere chiaro che nel caso per­ma­nesse la con­cor­renza nella pote­stà legi­sla­tiva si dovrebbe dif­fe­ren­ziare la fonte di legit­ti­ma­zione del Senato. Non avrebbe altri­menti senso favo­rire la for­ma­zione del governo, sem­pli­fi­cando l’ottenimento della fidu­cia adot­tando sistemi elet­to­rali pre­miali, e poi con­fer­mare le logi­che duali del bica­me­ra­li­smo nel momento dello svol­gi­mento dell’attività legislativa.

Se dun­que si vuole man­te­nere un’ampia com­pe­tenza legi­sla­tiva per il Senato (le leggi costi­tu­zio­nali fareb­bero comun­que caso a se) può essere con­di­visa l’idea di un’elezione di secondo grado espressa diret­ta­mente dagli enti ter­ri­to­riali. Si trat­te­rebbe, in caso, di valu­tare i mec­ca­ni­smi in con­creto, per­so­nal­mente sono molto dub­bioso circa la pos­si­bi­lità di una com­po­si­zione mista fatta da pre­si­denti di Regione, alcuni con­si­glieri regio­nali e rap­pre­sen­tanza di sin­daci. Non mi pro­nun­cio poi sulla incom­pren­si­bile indi­ca­zione con­te­nuta nel dise­gno di legge del governo di far nomi­nare un nutrito gruppo di sena­tori (ben 21) dal Capo dello Stato per un lasso di tempo di sette anni: una pro­po­sta che non vedo come possa con­ci­liarsi con alcuno dei pos­si­bili modelli di bica­me­ra­li­smo. A meno di non voler richia­mare — peral­tro impro­pria­mente — lo Sta­tuto alber­tino. Così anche la scelta di raf­for­zare la fun­zione di par­te­ci­pa­zione e rac­cordo degli enti ter­ri­to­riali all’attività non legi­sla­tiva dello Stato cen­trale può far rite­nere ido­nea la solu­zione della rap­pre­sen­tanza indiretta.

Se, invece, com’è nella pro­po­sta del governo, il Senato (ovvero l’«Assemblea delle auto­no­mie») si dovesse limi­tare ad espri­mere pareri sull’attività legi­sla­tiva mono­po­liz­zata dalla Camera, l’elezione indi­retta non avrebbe grande signi­fi­cato. Se non quello di ucci­dere la seconda Camera per sosti­tuirla con una «Con­fe­renza Stato, Regioni auto­no­mie locali», dai poteri mera­mente con­sul­tivi. Una tale “Con­fe­renza” non avrebbe però nes­sun biso­gno di essere col­lo­cata in Costi­tu­zione, tant’è che già opera, con com­pe­tenze diverse, nel nostro ordi­na­mento. Più coe­rente sarebbe allora indi­care la via mae­stra — che ha una sua nobile tra­di­zione di pen­siero — del mono­ca­me­ra­li­smo integrale.

Diverso ancora sarebbe se si optasse per una distin­zione più radi­cale, la solu­zione pre­fe­ri­bile. Lasciando alla Camera sia il rap­porto fidu­cia­rio sia gran parte dell’attività legi­sla­tiva (fatte salve, oltre alle leggi costi­tu­zio­nali, le leggi in mate­ria di libertà e diritti fon­da­men­tali delle per­sone), accen­trando sul Senato le fun­zioni di con­trollo, di garan­zia, d’inchiesta, di rac­cordo con le istanze sovra­na­zio­nali. In tal caso però, il cri­te­rio di com­po­si­zione dovrebbe essere quello più con­ge­niale alla rap­pre­sen­tanza di tutte le forze poli­ti­che e i gruppi sociali. Un sistema che favo­ri­sca le mino­ranze, che svolga un pre­zioso ruolo di inte­gra­zione e di riav­vi­ci­na­mento dei sog­getti sociali alle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive. L’elezione a suf­fra­gio uni­ver­sale con sistema pro­por­zio­nale sarebbe il modo di com­po­si­zione più ade­guato. Magari ridu­cendo il numero di sena­tori. Un Senato che, anche gra­zie alla sua piena e diretta legit­ti­ma­zione demo­cra­tica, sia in grado di bilan­ciare la gover­na­bi­lità assi­cu­rata alla Camera.

L'Unità del 26 Marzo 2014.

Il nesso tra legge elettorale e nuovo Senato è discusso con preoccupante superficialità. Se ne fa una questione di calendario, senza badare alla sostanza. L'Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi, con la strada aperta al Quirinale e a modifiche più gravi della Costituzione.

Si tratta di un worst case scenario, certo, che potrebbe diventare un presidenzialismo selvaggio senza bilanciamenti se si indebolisse anche la funzione politica del Senato facendone il dopolavoro degli amministratori locali. Il capo del governo non avrebbe difficoltà a concedere qualcosa agli interessi locali per ottenere il consenso dei nuovi senatori non eletti direttamente dal popolo e quindi sprovvisti delle garanzie dell'articolo 67 della Carta. Non avrebbero, infatti, la libertà di mandato e non rappresenterebbero la nazione intera, poiché sarebbero obbligati all'indirizzo di governo dell'Ente di provenienza, come ammette in parte il testo del governo.

Se si insiste con l’Italicum – si spera con qualche miglioramento - ci serve un forte Senato delle garanzie che, in regime bicamerale, si occupi di alta legislazione, della Costituzione, dei Codici dei diritti fondamentali, dell'ordinamento istituzionale e del controllo dell'attività statale. Funzioni tanto delicate richiedono l'elezione da parte dei cittadini con un’apposita legge elettorale non finalizzata alla governabilità, perché in questa assemblea mancherebbe il voto di fiducia; sarebbero inoltre dimezzati il numero di senatori e le rispettive indennità. Si passerebbe dal bicameralismo perfetto al bicameralismo delle garanzie con una chiara distinzione di compiti, alla Camera il governo del Paese e al Senato l'attuazione dei principi costituzionali.

Curando la qualità dell’ordinamento si renderebbe più agevole il governo non solo a livello nazionale, ma anche nelle Regioni e nei Comuni. Il Titolo V è fallito perché il Parlamento, dopo aver decentrato i poteri, ha continuato a legiferare al vecchio modo, con norme di dettaglio che hanno deteriorato le relazioni Stato-Regioni, senza una vera autonomia fiscale e senza riformare la macchina statale in funzione dei nuovi poteri locali. Ora si vuole tornare al centralismo statale, ma per non farlo vedere si getta fumo negli occhi con la retorica del Senato federale, che avrebbe il compito davvero modesto di dirimere il contenzioso. Sarebbe più saggio prevenirlo, innalzando la qualità delle leggi con la Camera Alta.

Viene spesso usato a sproposito l’esempio del Bundestrat, dimenticando che il sistema tedesco non solo è bilanciato ma non si darebbe mai una legge elettorale con l’abnorme premio di maggioranza dell’Italicum. E soprattutto ha saputo recuperare il divario con le regioni dell'Est in soli venti anni. Da noi la tensione Nord-Sud si è accentuata senza arrivare alla frattura, ma solo in virtù della mediazione svolta dai partiti nazionali di destra e di sinistra, pur con le loro debolezze; l'aver contenuto la scissione leghista negli anni Novanta è l'unico merito di Berlusconi. Nel Senato federale, peraltro non previsto nel nostro programma elettorale, si formerebbero invece maggioranze di regioni forti contro quelle deboli e ciò, in assenza di mediazione politica, potrebbe portare alla rottura dell'unità nazionale. L'Italia è l'unico paese europeo che non può permettersi di poggiare la rappresentanza parlamentare sulla frattura territoriale.

È ancora possibile discuterne o già è tutto deciso? La qualità di una riforma costituzionale dipende in gran parte dalle finalità e dal modo in cui viene dibattuta. Tutti i cambiamenti apportati durante la Seconda Repubblica si sono rivelati sbagliati perché vincolati a ragioni politiche contingenti. Nel 2006 la destra cercò la propria stabilizzazione stravolgendo la Carta, che fu salvata in extremis dai cittadini nel referendum. La sinistra invece ha cambiato il Titolo V per inseguire Bossi, ha introdotto lo ius sanguinis del voto all'estero per dare sponda a Fini, ha sigillato il pareggio di bilancio - di cui oggi si chiede la deroga - per dare retta a Monti. Renzi rischia di ripetere vecchi errori e si spinge fino a minacciare la crisi politica per ottenere la cancellazione del Senato. Una sorta di voto di fiducia al governo in materia costituzionale: è allarmante che non desti allarme.

Se la nuova classe politica vuole superare davvero il ventennio non prosegua a cambiare le istituzioni secondo i propri fini politici. Non bisogna servirsi della Costituzione, ma servire la Costituzione migliorandola.

«La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta — lo è ancora — dalle esplosioni idolatriche dei mafiosiı».

La Repubblica, 26 marzo 2014

COSÌ come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i riti di iniziazione a Cosa nostra. E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita. Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam. Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.

Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore di Libera vissuto per anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma. Il Papa ha ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».

Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più cruciali processi italiani — quello sui patti fra Stato e mafia — esigendo a voce alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal menzionare. È un j’accuse pesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la più grande novità di questi giorni.

L’Altra Chiesa, quella di Don Gallo e Don Puglisi, da periferia che era diventa centro. Gian Carlo Caselli, presente alle cerimonie e poi alla marcia di Libera per la XIX Giornata della memoria e dell’impegno, ha detto una cosa importante: che la Chiesa parla alle menti se ha profeti, «e per un profeta non è difficile arrivare più in là della politica». È facile soprattutto in Italia, dove la politica s’inabissa nei silenzi elusivi, nelle smemoratezze.
Caselli lo ripete fin da quando, insediato a capo della Procura di Palermo,disse in un convegno della Chiesa di Sicilia, nel ’93: «È necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (...) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, e conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società ». Se Falcone e Borsellino vennero uccisi con le loro scorte, fu «perché lo Stato, ma anche noi cristiani, noi Chiesa, non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere (...). Quante volte, invece di vedere il prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile e del devozionismo religioso». Già allora chiedeva al Vaticano uno scatto di responsabilità: lo stesso implorato venerdì da Don Ciotti. Lo scatto che tarda a venire nella politica. Antonio Ingroia, ex pubblico ministero a Palermo, osserva come manchi, nei primi discorsi di Renzi premier, ogni accenno alle procure minacciate. Come sia vasto, e voluto, il mutismo sul processo Stato-mafia (Huffington Post,3-3-14).

Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso, “La Chiesa e la mafia”;da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza .Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane». Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana». Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano.

E implica, nella Chiesa, l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori. È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80: proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta collaborazione» lo prescrisse soltant
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta — lo è ancora — dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato, c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una trattativa Stato- mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia. Allo Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).

Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo Dolci e delGattopardodi Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco. Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il ’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma ancor più i preti complici non processati.Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».

Elezioni in Francia: «Non capi­sco lo stu­pore, è un risul­tato annun­ciato che solo sbri­ga­ti­va­mente si può attri­buire a popu­li­smo, antipolitica, antieuropeismo cieco. È l’esito della politica della Com­mis­sione che in que­sti anni ha fatto come Mar­ga­ret That­cher: "La società non esi­ste"». Il

manifesto, 25 marzo 2014

Pro­fes­sore Ste­fano Rodotà, è anche lei pre­oc­cu­pato per il risul­tato delle ammi­ni­stra­tive francesi?
Sì, nel senso che temo possa avere un effetto di tra­sci­na­mento in altri paesi. Ma non capi­sco lo stu­pore, è un risul­tato lar­ga­mente annun­ciato che solo sbri­ga­ti­va­mente si può attri­buire alla cat­ti­ve­ria del popu­li­smo, dall’antipolitica, dall’antieuropeismo cieco. È piut­to­sto l’esito con­se­guente della poli­tica della Com­mis­sione euro­pea, che in que­sti anni ha fatto come Mar­ga­ret That­cher: «La società non esi­ste», hanno detto a Bruxelles.
Non vede qual­che segnale di cam­bia­mento di linea?
Adesso, nella fase pre­e­let­to­rale, e molto timido. Ma non è di qual­che bat­tuta del pre­si­dente del Con­si­glio ita­liano che abbiamo biso­gno, quanto di met­tere al cen­tro dell’agenda ita­liana un ripen­sa­mento pro­fondo delle poli­ti­che europee.
Renzi dice di volerlo fare, ma dice anche che intende rispet­tare tutti i para­me­tri europei.
Dovrebbe bat­tere un colpo in que­sta fase, in que­sta cam­pa­gna elet­to­rale. L’altra Europa non può aspet­tare che il pre­si­dente del Con­si­glio rag­giunga chissà quale risul­tato in Ita­lia. La que­stione è tanto matura da essere stata evi­den­ziata dallo stesso par­la­mento euro­peo, che in nume­rosi docu­menti ha cri­ti­cato i fal­li­menti della poli­tica della Com­mis­sione. Renzi con la pro­messa dei due tempi finirà pri­gio­niero dei vincoli.
Non trova che il ritardo delle isti­tu­zioni euro­pee sia a tal punto cro­nico che delle nuove regole fini­ranno per appro­fit­tare gli anti­euro, in cre­scita ovunque?
In poli­tica dei rischi biso­gna pren­derli. Con le nuove regole pos­siamo imma­gi­nare una cam­pa­gna elet­to­rale di dimen­sione euro­pea, in Ita­lia un discorso come quello della lista Tsi­pras non sarebbe stato altri­menti pos­si­bile. Altre volte le ele­zioni euro­pee si sono svolte in una sorta di indif­fe­renze. E a Bru­xel­les, in par­ti­co­lare dall’Italia, sono stati man­dati gli scarti della poli­tica nazionale.
Lei cita la lista Tsi­pras, ma come si può con­tra­stare il mes­sag­gio facile «no all’Europa» con il ragio­na­mento dif­fi­cile sull’altra Europa?
Io penso che sia pos­si­bile per­ché aveva comin­ciato a farlo la stessa Europa. Può darsi che que­sta mia con­vin­zione derivi dall’aver par­te­ci­pato alla scrit­tura della carta dei diritti fon­da­men­tali, ma ricordo che già nel giu­gno 1999 il Con­si­glio euro­peo di Colo­nia era arri­vato a porsi il pro­blema di supe­rare la con­ce­zione dell’Europa come sem­plice mer­cato comune. Una con­ce­zione che, si diceva già 15 anni fa, aveva dato tutto quello che poteva dare in ter­mini di costru­zione del famoso popolo euro­peo. Dopo di che solo il rico­no­sci­mento dei diritti comuni a tutti i cit­ta­dini sarebbe stata la con­di­zione di legit­ti­mità dell’Unione.
Ci vol­lero altri cin­que anni per arri­vare alla Costi­tu­zione, poi affon­data pro­prio dal refe­ren­dum fran­cese. Si può tor­nare indietro?
Non si può, ma di quello slan­cio si deve tenere conto. Senza dimen­ti­care gli errori com­piuti da una parte della sini­stra. Per­ché l’ostilità alla carta dei diritti fon­da­men­tali, o certe cri­ti­che, per quanto più fon­date, alla carta costi­tu­zio­nale euro­pea scon­ta­vano un otti­mi­smo senza fon­da­mento. Si diceva: fac­ciamo cadere quelle carte, poi faremo cose molto migliori. Non era così, la situa­zione poli­tica era molto nega­tiva e adesso paghiamo anche il prezzo di quella inconsapevolezza.
Come giu­dica l’avvio della cam­pa­gna elet­to­rale della lista Tsipras?
Ho visto qual­che inciampo, mi auguro che d’ora in poi si cam­mini in maniera spe­dita. Ma ci sono ancora molte resi­stenze, reti­cenze ed egoi­smi da parte delle forze poli­ti­che orga­niz­zate. Spero che tutto que­sto non si risolva nei disa­stri che abbiamo cono­sciuto con le liste della sini­stra arco­ba­leno e Ingroia nelle ultime ele­zioni poli­ti­che nazio­nali. Vor­rei ci fosse la con­sa­pe­vo­lezza che i patriot­ti­smi di gruppo hanno effetti distruttivi.
Prima ha cri­ti­cato il rigido rigore con­ta­bile della Com­mis­sione euro­pea, ma da due anni l’obbligo di pareg­gio di bilan­cio sta scol­pito nella nostra Costituzione.
Un grave errore com­piuto nella quasi totale una­ni­mità e assenza di dibat­tito. Io e altri facemmo appello ai par­la­men­tari per­ché con­sen­tis­sero almeno il refe­ren­dum, rice­vemmo indif­fe­renza. E così abbiamo por­tato la logica del rigore in Costi­tu­zione, senza che ci fosse richie­sto. Molti di quelli che adesso avan­zano qual­che cri­tica all’indirizzo di Bru­xel­les dovreb­bero ricor­dare le pro­prie responsabilità.
Il nuovo art. 81 si può cambiare?
È una norma costi­tu­zio­nale e non può essere oggetto di refe­ren­dum. Ma nei pros­simi giorni il gruppo pro­mo­tore della mani­fe­sta­zione del 12 otto­bre scorso, La via mae­stra, pre­sen­terà due ini­zia­tive col­le­gate. Una pro­po­sta di refe­ren­dum abro­ga­tivo di alcune parti della legge attua­tiva, stu­diata in modo tale che non sia dichia­rato inam­mis­si­bile dalla Corte Costi­tu­zio­nale e che abbia effetti sul bilan­cio pub­blico. E insieme un’iniziativa di legge popo­lare costi­tu­zio­nale per la modi­fica totale dell’articolo 81, sulla quale rac­co­glie­remo le firme. Spe­riamo di sol­le­vare quel dibat­tito pub­blico che due anni fa non c’è stato, in difesa della Costi­tu­zione e per una cri­tica all’Europa non anti­po­li­tica o anti­eu­ro­pei­sta. E lavo­riamo anche ad altre iniziative.
Quali?
Abbiamo già un testo in forma di pro­po­sta di legge per rifor­mare lo stru­mento dell’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare. Pre­vede l’obbligo del par­la­mento di pren­dere in esame le pro­po­ste entro ter­mini certi, con la pos­si­bi­lità per i pro­mo­tori di seguirne l’iter nella com­mis­sione par­la­men­tare, la diretta strea­ming della com­mis­sione e l’obbligo di pas­sare il testo all’aula. Poi tor­niamo sui beni comuni, aggiun­gendo alla cam­pa­gna per l’acqua pub­blica la que­stione della cono­scenza in rete con una pro­po­sta di legge per inse­rire nell’articolo 21 della Costi­tu­zione il diritto di accesso a inter­net come diritto fon­da­men­tale del cit­ta­dino. E infine il lavoro, su tre fronti. Ripren­de­remo le pro­po­ste di legge di ini­zia­tiva popo­lare sul red­dito di cit­ta­di­nanza; inten­si­fi­che­remo la cam­pa­gna di con­tra­sto all’articolo 8 del decreto dell’agosto 2011 che con­sente la con­trat­ta­zione azien­dale in deroga alle leggi — gra­zie alla Fiom sap­piamo che sta pro­du­cendo tutta una serie di accordi che can­cel­lano i diritti dei lavo­ra­tori; infine c’è il tema della rap­pre­sen­tanza del lavoro. Su que­sti punti vogliamo insi­stere con una logica di decen­tra­mento, anche per supe­rare dif­fi­coltà che abbiamo avuto: di cia­scuna que­stione si occu­perà un pezzo della coa­li­zione sociale che vogliamo favorire.
Dei par­titi ha par­lato solo per denun­ciarne gli egoi­smi, li con­si­dera ormai inser­vi­bili? La Costi­tu­zione affida loro un ruolo centrale.
L’articolo 49, in base al quale i par­titi sono lo stru­mento dei cit­ta­dini per con­cor­rere alla poli­tica nazio­nale, sap­piamo che fu voluto da Lelio Basso, il quale in seguito ha scritto cose molto amare sulla dege­ne­ra­zione dei par­titi. Negli ultimi anni la pro­spet­tiva costi­tu­zio­nale si è com­ple­ta­mente rove­sciata; nei par­titi si sono create delle oli­gar­chie che hanno uti­liz­zato il con­senso non per ren­dere più age­vole la par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini ma per per­pe­tuare il loro ruolo e potere. Vedo con molto pia­cere il ritorno della figura di Ber­lin­guer, ma non biso­gna con­fi­nare la sua denun­cia della que­stione morale in un recinto etico. La sua era una bat­ta­glia poli­tica tutta legata alla dege­ne­ra­zione dei par­titi, che ha finito col coin­vol­gere anche il suo par­tito. E anche oggi il Pd può andare incon­tro a brutte sor­prese. Renzi non ha negato l’intenzione di met­tere il suo nome nel sim­bolo, siamo com­ple­ta­mente fuori dalla logica di recu­pe­rare i par­titi nella loro funzione.
Renzi vuole essere giu­di­cato sui fatti.

Lo fac­cio. La nuova legge elet­to­rale ha al suo interno gra­vis­simi rischi di inco­sti­tu­zio­na­lità. È in più un’iniziativa schiet­ta­mente con­ser­va­trice che vuole chiu­dere la pos­si­bi­lità di accesso al par­la­mento attorno alle due forze (oggi) mag­giori. Il cosid­detto Ita­li­cum ha una cur­va­tura mag­gio­ri­ta­ria molto pesante che fa sal­tare il sistema delle garan­zie. La pro­po­sta del senato è poi un pastic­cio inac­cet­ta­bile. Non c’è nes­suno con un minimo di peso e ragio­ne­vo­lezza che non l’abbia detto, eppure ho l’impressione che non si voglia tener conto di que­sta massa di cri­ti­che, avvian­dosi così a ripe­tere l’errore fatto con l’articolo 81. Dall’insieme di que­ste pro­po­ste si ricava l’impressione di una chiu­sura del sistema e di un accen­tra­mento di poteri che mette in discus­sione l’equilibrio costi­tu­zio­nale e le garan­zie dei diritti indi­vi­duali e col­let­tivi, dei quali non a caso Renzi non parla. Trovo poi di estrema vol­ga­rità dire «vi tolgo dai piedi il senato così rispar­miamo un miliardo». In futuro si potrebbe pro­porre di rinun­ciare a qua­lun­que altra cosa essen­ziale per la vita della repub­blica, solo per rispar­miare. Que­ste dichia­ra­zioni sono il segno evi­dente di quanto è stato pesante il con­ta­gio dell’antipolitica

«La Repubblica, 24 marzo 2014

SONO state accolte con qualche sorpresa e molta perplessità — per non dire incredulità — le notizie riguardo al referendum sull’indipendenza del Veneto. Promosso e organizzato dai movimenti autonomisti, il “plebiscito” si è svolto la scorsa settimana. Secondo i promotori, vi avrebbero partecipato circa tre elettori veneti (aventi diritto) su quattro. Quasi 2 milioni e mezzo. Con un esito “plebiscitario”: 89% di “sì”. Naturalmente, i dati sono ipotetici e non verificabili. Così, in Italia, è prevalsa la tendenza a liquidare l’iniziativa con un misto di sarcasmo e di scetticismo. A differenza degli osservatori stranieri, che hanno, invece, trattato l’evento con attenzione. Non solo per il precedente (immediato) della Crimea. Ma, ancor più, per le tensioni indipendentiste che scuotono altri Paesi europei. In Gran Bretagna, Spagna, Belgio... Così, mentre cresce l’insoddisfazione verso l’Unione Europea, si acuiscono le divisioni all’interno degli stati nazionali. Per questo conviene prendere sul serio il segnale che proviene dal Veneto. Anche perché rivela sentimenti estesi. In misura, magari, non “plebiscitaria”, come quella dichiarata dai “venetisti”, ma, tuttavia, maggioritaria.

Lo conferma un sondaggio di Demos, condotto presso un campione rappresentativo di elettori veneti nei giorni scorsi (per la precisione: il 20 e il 21 marzo). La partecipazione al referendum, dai dati, esce ridimensionata. Ma resta, comunque, molto significativa. Quasi metà degli elettori veneti, infatti, sostiene di aver votato oppure di essere intenzionato a farlo. E poco meno dell’80% di essi si dice favorevole al quesito referendario: l’indipendenza veneta. Una posizione condivisa, d’altronde, da un terzo di coloro che dicono di non essere intenzionati a votare.

Nell’insieme, la maggioranza degli elettori (compresi nel campione) si dice d’accordo con l’ipotesi che “il Veneto diventi una repubblica indipendente e sovrana”. Circa il 55%. Mentre i contrari sono poco meno del 40%. Dunque, l’indipendenza costituisce una prospettiva attraente per la maggioranza della popolazione. Piace, soprattutto, agli imprenditori e agli operai. I lavoratori dipendenti e autonomi della piccola impresa, che costituiscono il “distintivo” economico e sociale del Veneto. Solo tra i più giovani — e, quindi, fra gli studenti — la posizione contraria all’indipendenza prevale nettamente. Oltre che fra i disoccupati. Anche dal punto di vista politico, gli orientamenti sono molto chiari. L’indipendenza veneta piace agli elettori di Destra (in particolare di FI) e, ovviamente, ai leghisti e agli “autonomisti”. Ma prevale nettamente anche fra gli elettori del M5s, dove, peraltro, negli ultimi due anni è confluito gran parte del voto leghista.

Il Veneto, d’altronde, è politicamente una zona di centrodestra. Forzaleghista (come la definiva Edmondo Berselli). La distanza dei veneti dallo Stato nazionale, dunque, è cresciuta e oggi si traduce in aperto distacco. In misura molto maggiore che in passato. Tuttavia, molte cose sono cambiate, negli ultimi anni. La crisi, anzitutto, ha accentuato il risentimento verso lo Stato, riassunto, non solo simbolicamente, in Roma capitale. Le difficoltà economiche, infatti, hanno sollecitato maggiore sostegno e hanno reso più acuto il contrasto con il ceto politico e la burocrazia centrale. A differenza del passato, inoltre, la rivendicazione indipendentista, oggi, non evoca patrie immaginarie, come la Padania, ma neppure aree poco definite e, internamente, differenziate, come il Nord. Com’è divenuto lo stesso Nordest. Richiama, invece, il Veneto. La Regione. Considerata l’ambito che suscita maggiore appartenenza da circa il 25% dei Veneti (Oss. Nordest per Il Gazzettino, settembre 2012). Non a caso, la Lega (Padana), inizialmente tiepida verso l’iniziativa, l’ha, in seguito, sostenuta. Il governatore, Luca Zaia, in particolare. Che si prepara, a sua volta, a far votare al Consiglio veneto una proposta di legge per indire un referendum “formale” per l’indipendenza. Anche se incostituzionale, costituirebbe, comunque, per Zaia, il manifesto per una Lista civica (personale) in vista delle elezioni regionali dell’anno prossimo. Per compensare la debolezza della Lega.

D’altronde, la Liga Veneta è “la madre di tutte le leghe”, come ebbe a definirla uno dei fondatori, Franco Rocchetta. Che venerdì sera era in piazza, a Treviso, a festeggiare il referendum e il mito dell’indipendenza veneta. Bisogna, dunque, prendere sul serio il segnale che proviene dal referendum. Al di là delle misure — ipotetiche — della partecipazione e del consenso dichiarate dagli organizzatori, la rivendicazione autonomista appare fondata e largamente maggioritaria. Al tempo stesso, bisogna interpretarne correttamente il significato. In-dipendenza significa, infatti, “non dipendenza”. E, dunque, autonomia. Autogoverno. Non necessariamente “secessione”. Ne danno conferma le opinioni circa il modo migliore “per sostenere gli interessi del Veneto”. La “piena indipendenza del Veneto”, infatti, è sostenuta da una quota ampia, ma non superiore al 30%. Meno di quanti riterrebbero più utile “eleggere parlamentari migliori” (dunque, capaci di esercitare maggiore pressione “su Roma”). Mentre appaiono ampie anche le componenti “federaliste”. È significativo come, fra gli stessi sostenitori dell’indipendenza veneta al referendum, quanti vedono nell’indipendenza “piena” la via maestra per affermare gli interessi regionali siano una maggioranza larga. Ma non assoluta: il 45%. L’indipendenza, dunque, costituisce per i veneti e il Veneto un modo per denunciare, in modo estremo, il disagio nei confronti dello Stato centrale. L’insoddisfazione contro la classe politica e di governo. Non solo nazionale, ma anche regionale.

Da ciò, un’altra indicazione significativa. Soprattutto se si pensa al diverso impatto ottenuto dal referendum dei giorni scorsi rispetto alla manifestazione per l’indipendenza padana, promossa nel settembre 1996. Quando, in marcia lungo il Po per marcare la frontiera del Nord, si recarono pochi leghisti, spaesati e sparsi. Per rappresentare il sentimento e il risentimento territoriale, oggi, conviene rinunciare a patrie immaginarie, come la Padania. Ma anche alle macroregioni oppure ad aree ampie — e differenziate. Come il Nord e lo stesso Nordest. Per storia, economia, identità e interessi, infatti, è sempre più difficile tenere insieme il Veneto con il Piemonte, la Lombardia e lo stesso Trentino Alto Adige. Treviso con Milano e Bolzano. La “questione Veneto”, oggi, conta più di quella “settentrionale”. E affievolisce il Nordest.

«L’economia con effetto a cascata è una leggenda. Arricchire le multinazionali non aiuterà chi si trova a metà della piramide economica, e tanto meno quelli più in basso». La Repubblica, 24 marzo 2014

Il libero commercio è stato un principio cardine dell’economia nei primi anni di questa disciplina. Sì, vincitori e perdenti esistono, diceva la teoria, ma i vincitori possono sempre risarcire i perdenti, così che il libero commercio (o perfino un commercio più libero) sia una soluzione vantaggiosa per tutti. Questa conclusione, purtroppo, si basa su numerosi presupposti, molti dei quali sono semplicemente sbagliati. Teorie più vecchie, per esempio, ignoravano il rischio e presumevano che i lavoratori potessero passare senza problemi da un posto di lavoro all’altro. Si presumeva anche che l’economia fosse alla piena occupazione, così che i lavoratori spostati dalla globalizzazione si sarebbero rapidamente mossi da settori a bassa produttività a settori a più alta produttività.

Quando però c’è un alto livello di disoccupazione, e a maggior ragione quando una consistente percentuale di disoccupati è rimasta priva di lavoro a lungo (come accade adesso), una simile compiacenza non ci può essere. Oggi sono venti milioni gli americani che vorrebbero trovare un posto a tempo pieno ma non ci riescono. In milioni hanno smesso di cercarlo. Di conseguenza, c’è un rischio concreto che il personale spostato in un settore protetto da un posto di lavoro a bassa produttività di fatto finisca coll’entrare nelle lunghe file dei disoccupati a produttività zero. Questo fenomeno nuoce perfino a chi riesce a mantenere il proprio posto di lavoro, dato che la maggiore disoccupazione aumenta al ribasso la pressione sui salari.

Possiamo anche metterci a discutere sul motivo per il quale la nostra economia non è performante come si crede che debba essere — se ciò dipende da una mancanza di domanda aggregata o se avviene perché le nostre banche, più interessate alla speculazione e alla manipolazione dei mercati che al prestito, non stanno garantendo gli adeguati finanziamenti alle piccole e medie imprese.

A prescindere dalle cause, però, la realtà è che questi accordi commerciali rischiano di aumentare la disoccupazione. Una delle cause per le quali siamo in questa brutta situazione è che abbiamo gestito male la globalizzazione. Le nostre politiche economiche incoraggiano l’esternalizzazione, l’outsourcing dei posti di lavoro, e le merci prodotte all’estero con manodopera a basso costo possono essere riportate con poca spesa negli Stati Uniti. Così, i lavoratori americani capiscono di dover competere con quelli all’estero, e il loro potere contrattuale è indebolito. Per questo motivo fondamentale il reddito medio reale dei lavoratori di sesso maschile con un posto di lavoro a tempo pieno è inferiore rispetto a quello di 40 anni fa. La politica americana odierna aggrava questi problemi.

Anche nella migliore delle ipotesi, la vecchia teoria del libero commercio diceva soltanto che i vincitori avrebbero potuto risarcire i perdenti, non che l’avrebbero fatto. E così è stato: non l’hanno fatto. Anzi, hanno fatto il contrario. I sostenitori degli accordi commerciali spesso affermano che per far diventare competitiva l’America non si dovranno tagliare soltanto i salari, ma anche le tasse e le spese pubbliche, soprattutto quelle relative a programmi che vanno a sostegno dei normali cittadini. Dovremmo accettare di soffrire a breve termine, dicono, affinché sul lungo periodo ne traggano beneficio tutti. Ma, come disse una volta John Maynard Keynes in altro contesto, «nel lungo periodo saremo tutti morti». In questo caso, ci sono poche prove dalle quali evincere che gli accordi commerciali porteranno a una crescita più rapida o più profonda. I critici del Partenariato trans-pacifico (Tpp, Trans-Pacific Partnership, Trattato di libero scambio con 11 nazioni del Pacifico intorno alla Cina, NdT) abbondano perché sia l’iter sia la teoria sulla quale esso si basa sono un fiasco. L’opposizione al Tpp è fiorita non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Asia, dove i colloqui si sono arenati.

Mettendosi alla guida di una protesta a tutto campo contro l’ente responsabile del Tpp, Harry Reid, leader della maggioranza del Senato, sembra averci dato una piccola tregua. Sembra anche che a vincere questa scaramuccia siano stati coloro che pensano che gli accordi commerciali arricchiscano le multinazionali a spese del 99 per cento. Di fatto, invece, è in corso una guerra molto più estesa per garantire che le politiche commerciali — e la globalizzazione più in generale — siano strutturate in modo tale da migliorare gli standard di vita della maggior parte degli americani.

L’esito di questa guerra è tuttora incerto. Più volte ho ribadito due punti: il primo è che l’alto livello di disuguaglianza presente oggi negli Stati Uniti (e il suo enorme aumento negli ultimi trent’anni) è il risultato cumulativo di tutta una serie di politiche, programmi e leggi. Tenuto conto che il presidente stesso ha sottolineato che la disuguaglianza è la priorità numero uno del paese, ogni nuova politica, ogni nuovo programma, ogni nuova legge dovrebbe essere valutata dal punto di vista del suo effettivo influsso sulla disuguaglianza. Accordi come quello del Tpp hanno contribuito in modo sostanziale a questa disuguaglianza. Le multinazionali potrebbero trarne beneficio, ed è addirittura possibile, per quanto non garantito, che migliori anche il prodotto interno lordo così come è misurato per prassi. È assai probabile, però, che il benessere dei normali cittadini subirà un duro colpo. E questo mi porta al secondo punto, che ho più volte sottolineato: l’economia con effetto a cascata è una leggenda. Arricchire le multinazionali — come farebbe il Tpp — non necessariamente aiuterà chi si trova a metà della piramide economica, e tanto meno quelli più in basso.
(Traduzione di Anna Bissanti)
Per uscire dall'appiattimento della politica su ideologia e prassi dei Mercati, dall'ipocrisia degli economisti, «un insieme di saperi costruiti sulle evi­denze della vita quo­ti­diana di milioni di uomini, donne, vec­chi e bam­bini; sui loro biso­gni; sui loro desi­deri; e soprat­tutto sui loro mille talenti».

Il manifesto, 22 marzo 2014

Alcuni anni fa – era­vamo già in piena crisi – dopo una tra­smis­sione in cui un noto eco­no­mi­sta di sini­stra, non­ché colum­nist di un impor­tante quo­ti­diano, si era a lungo dif­fuso sulla neces­sità rimet­tere in moto la cre­scita, gli avevo chie­sto: ma dav­vero pensi che l’economia ita­liana possa tor­nare a cre­scere a breve? Mi aveva rispo­sto in modo peren­to­rio: in Ita­lia non ci sarà più cre­scita per almeno dieci anni. Da allora quell’economista–colum­nist ha pub­bli­cato arti­coli su arti­coli su come il paese può ripren­dere a cre­scere; ora, subito, ovvia­mente; non fra dieci anni.

A un altro eco­no­mi­sta–colum­nist che aveva pub­bli­cato, insieme a un terzo col­lega — suc­ces­si­va­mente risuc­chiato nel buco nero della lista “Fer­miamo il declino” di Oscar Gian­nino — un arti­colo molto citato dove soste­neva che per fer­mare lo spread biso­gnava ven­dere subito tutte le imprese di Stato, avevo chie­sto, qual­che mese dopo, se non avesse cam­biato idea. Per­ché quello che si può rica­vare da una ven­dita simile è irri­so­rio rispetto alla mon­ta­gna del debito pub­blico ita­liano. Mi aveva rispo­sto di sì; con­si­de­rava quell’articolo un errore. Da allora ha con­ti­nuato a scri­vere arti­coli su arti­coli per pro­pu­gnare la ven­dita di tutti gli asset di Stato. E per occu­parsi meglio della cosa è diven­tato anche un con­si­gliere di Renzi.

Que­sti epi­sodi, insieme ad altre rifles­sioni, mi hanno con­vinto che gli eco­no­mi­sti main­stream, o la grande mag­gio­ranza, non cre­dono asso­lu­ta­mente in quello che scri­vono. Sanno benis­simo, o sospet­tano for­te­mente, che con le loro ricette, o soprat­tutto a causa di esse, le cose non pos­sono che andare sem­pre peg­gio. Ma allora, per­ché lo fanno? Per­ché non rac­con­tano quello che vera­mente pen­sano? Il fatto è che non rie­scono a uscire dalla gab­bia con­cet­tuale in cui li impri­giona la loro disci­plina, ormai assurta al rango di pen­siero unico, senza più distin­zioni tra destra e sinistra.

Non sanno ragio­nare senza il pun­tello di cate­go­rie che riman­dano a un mondo che non esi­ste e non è mai esi­stito, dove tutto ruota intorno a un mer­cato imma­gi­na­rio, eretto a supremo rego­la­tore del creato, e a cui isti­tu­zioni, poli­tica, cul­tura, ambiente, e la vita stessa di miliardi di esseri umani, non pos­sono fare altro che adat­tarsi (o cer­care di farlo) adot­tando come unica regola di con­dotta una lotta di tutti con­tro tutti. Che loro chia­mano con­cor­renza o com­pe­ti­ti­vità. Però, al ter­mine mer­cato (al sin­go­lare) con il quale desi­gnano per lo più un mec­ca­ni­smo ano­nimo, imper­so­nale, tra­spa­rente, agìto in modo pre­te­rin­ten­zio­nale da milioni o miliardi di indi­vi­dui, hanno da tempo sosti­tuito il ter­mine “mer­cati” (al plu­rale), che allude invece a un potere opaco – ano­nimo solo per­ché i suoi deten­tori agi­scono nell’ombra – con­cen­trato in mano a pochis­sime entità che domi­nano il mondo con la finanza. Ecco spie­gata in modo sem­plice la loro afa­sia su ciò che sta suc­ce­dendo: una gigan­te­sca espro­pria­zione di miliardi di esseri umani per con­cen­trare la ric­chezza in un pugno sem­pre più ristretto di pri­vi­le­giati. Molti di loro, in realtà, lo sanno benis­simo e die­tro a tanta teo­ria non c’è che la difesa dell’ordine esi­stente, per quante cri­ti­che, peral­tro asso­lu­ta­mente mar­gi­nali, gli rivolgano.

Ci sono molti pre­ce­denti sto­rici di un approc­cio con­cet­tuale del genere, che Marx chia­mava ideo­lo­gia; ma uno è più chiaro di tutti. E’ il con­flitto che aveva spinto la Chiesa cat­to­lica e l’inquisizione a man­dare al rogo Gior­dano Bruno e a imporre una ritrat­ta­zione a Gali­leo Gali­lei per difen­dere una con­ce­zione dell’universo con­so­li­data in una dot­trina da cui discen­deva l’immutabilità dell’ordine gerar­chico della società del tempo. Anche allora gli inqui­si­tori di Gali­leo non cre­de­vano a quello che soste­ne­vano: per que­sto si rifiu­ta­vano di guar­dare nel tele­sco­pio che mostrava due satel­liti di Giove che “buca­vano” la sfera cele­ste, met­tendo in forse la sua per­fe­zione cri­stal­lina e, con essa, quella dell’ordine sociale.

Ma oggi a bucare i cieli del pen­siero unico non ci sono solo due pic­coli satel­liti, ma diversi gigan­te­schi buchi neri. Per restare in Europa, il primo è la Gre­cia, il paese-cavia degli espe­ri­menti cor­ret­tivi della Troika, che anche il nostro attuale mini­stro dell’economia, solo tre anni fa, spac­ciava come un’amara medi­cina che avrebbe risa­nato il paese. Il paese non è stato affatto risa­nato; anzi, è stato con­dan­nato al rogo come Gior­dano Bruno. E il suo popolo è ancora in vita solo per­ché sta lot­tando con tutte le pro­prie forze con­tro quei fami­ge­rati memo­ran­dum; cioè con­tro le con­se­guenze di poli­ti­che che, come ci ricor­dava Luciano Gal­lino (la Repub­blica, 15 marzo), vanno con­si­de­rate un vero e pro­prio «cri­mine con­tro l’umanità». Eppure quella medi­cina i soste­ni­tori del pen­siero unico insi­stono a pro­pi­narla; la loro scienza non può sba­gliare; d’altronde a morine è solo il paziente. Ma in quel can­noc­chiale pun­tato sulla Gre­cia, qual­cuno dei nostri eco­no­mi­sti–colum­nist ha pro­vato a guardare?

Un secondo buco nero, che non richiede nem­meno un bino­colo per essere visto, è una meteo­rite che sta per pre­ci­pi­tare sul nostro già deva­stato paese, e su molti altri, per ridurli in poco tempo in cenere come la Gre­cia. Si chiama fiscal com­pact e pre­vede per le finanze dell’Italia, a par­tire dall’anno pros­simo, l’esborso di circa 50 miliardi all’anno, per venti anni di seguito, per resti­tuire una parte cospi­cua del debito pub­blico del nostro paese. Cin­quanta miliardi che si andranno ad aggiun­gere ai quasi 100 che già sbor­siamo ogni anno, sotto forma di inte­ressi, ai cre­di­tori (pri­vati) dello Stato ita­liano; soprat­tutto da quando è stato rea­liz­zato il fami­ge­rato divor­zio tra Governo e Banca d’Italia; la quale, da allora non ha più potuto finan­ziare il defi­cit della spesa pub­blica. Cumu­lando gli inte­ressi che lo Stato ita­liano ha pagato da allora, infatti, e per nes­sun altro motivo, si è andato costi­tuendo quel mostruoso debito pub­blico che oggi viene invece impu­tato a una popo­la­zione sac­cheg­giata e impo­ve­rita, che secondo gli eco­no­mi­sti main­stream sarebbe vis­suta per anni al di sopra delle sue pos­si­bi­lità. Quel divor­zio, peral­tro, ha poi for­nito alla Bce il modello dello sta­tuto che la esclude dal ruolo di pre­sta­tore di ultima istanza; e che è all’origine della mag­gior parte dei colpi inferti alla soli­da­rietà e alla soli­dità dell’Unione europea.

Per que­sto, sia detto di sfug­gita, uscire dall’euro, posto che sia fat­ti­bile, non ci resti­tui­rebbe certo un pre­sta­tore di ultima istanza: un’istituzione che può invece venir rein­tro­dotta solo con una lotta con­dotta a livello euro­peo. Bene, in quel bino­colo nes­sun eco­no­mi­sta–colum­nist sem­bra dispo­sto a guar­dare: cioè a spie­gare da dove lo Stato ita­liano potrà mai tirar fuori tutto quel denaro; ovvero quale tasso di cre­scita sarebbe neces­sa­rio rag­giun­gere – e subito! – per far fronte a un impe­gno simile. Pre­fe­ri­scono discet­tare, incen­sando il nuovo pre­mier come ave­vano fatto con tutti quelli venuti prima di lui, sui due o quat­tro deci­mali di punto per­cen­tuale su cui potrebbe gio­care Renzi per far qua­drare i conti senza far arrab­biare troppo la Com­mis­sione euro­pea. Ma può quel che resta del tes­suto pro­dut­tivo ita­liano, non dico cre­scere, ma reg­gere ancora a lungo, se lo Stato destina ogni anno alla ren­dita un decimo del Pil? Nes­suna rispo­sta in pro­po­sito sem­bra venire dai poli­tici e dagli eco­no­mi­sti che stanno man­dando anche noi al rogo.

Il fatto è che per scru­tare sia le viscere di quei poteri dove si accen­tra ormai quasi metà della ric­chezza della Terra, sia l’universo di una popo­la­zione mon­diale – e nel suo pic­colo, ita­liana — pro­le­ta­riz­zata, impo­ve­rita, sfrut­tata, inde­bi­tata e sospinta ai mar­gini di una vita decente, ci vogliono ben altre disci­pline che non l’economia main­stream, di destra o di sini­stra. Ci vuole una scienza nuova che can­celli dalla fac­cia della terra tutti i quei pre­giu­dizi; una scienza come quella con cui Gali­leo aveva fatto piazza pulita dell’universo tole­maico. O, forse, non una scienza vera e pro­pria, con tutti i palu­da­menti che accom­pa­gnano que­sto ter­mine, ma un insieme di saperi costruiti guar­dando in fac­cia il mondo com’è. Dei saperi costruiti sulle evi­denze della vita quo­ti­diana di milioni di uomini, di donne, di vec­chi e di bam­bini; sui loro biso­gni; sui loro desi­deri; e soprat­tutto sui loro mille talenti. Le forze che si stanno rac­co­gliendo in Europa intorno alla can­di­da­tura di Ale­xis Tsi­pras alla Pre­si­denza della Com­mis­sione euro­pea – e che riven­di­cano una revi­sione radi­cale dei trat­tati che rego­lano l’Unione, la remis­sione di una parte sostan­ziale dei debiti e un grande piano di lavori pub­blici per ricon­durre il paese alla soste­ni­bi­lità ambien­tale — pos­sono essere un punto di rife­ri­mento per pre­sen­tare oggi, e far valere sem­pre più domani, una visione del mondo alter­na­tiva e una pro­spet­tiva radi­cal­mente diversa da quella con­ce­zione tole­maica del mer­cato come “riso­lu­tore di ultima istanza” dei nostri pro­blemi che ci sta con­dan­nando tutti al rogo.

Quando la sinistra rompe i recinti che la dividono e ragiona sulla base dei principi che la uniscono riesce a tracciare prospettive programmatiche convincenti. Il

manifesto, 21 marzo 2014
Fer­mare l’austerità, espan­dere la demo­cra­zia, con­trol­lare la finanza. Que­ste le parole d’ordine emerse dal forum «Ano­ther Road for Europe», orga­niz­zato mer­co­ledì al Par­la­mento euro­peo dalla Rete euro­pea degli eco­no­mi­sti pro­gres­si­sti (euro-pen), di cui fanno parte Sbi­lan­cia­moci!, Euro­Me­mo­ran­dum, Eco­no­mi­stes Atter­rés fran­cesi, Trans­na­tio­nal Insti­tute e molti altri.

Pochi giorni prima del Con­si­glio euro­peo di ieri e a qual­che mese dalle ele­zioni, movi­menti e sin­da­cati hanno pre­sen­tato alle forze poli­ti­che euro­pee e nazio­nali – tra cui Gianni Pit­tella, vice-presidente del Par­la­mento euro­peo; il socia­li­sta fran­cese Liêm Hoang Ngoc, autore della recente mozione dell’Europarlamento con­tro la troika; Ste­fano Fas­sina del Pd; Giu­lio Mar­con e Gior­gio Airaudo di Sel; Monica Fras­soni dei Verdi e Jür­gen Klute del Gue [Sinistra Europea - n.d.r.] – le loro pro­po­ste per uscire dalla crisi. Rispetto al primo forum di due anni fa, sor­prende quanto si sia col­mata la distanza tra movi­menti e poli­tici, con que­sti ultimi che ormai fanno pro­prie molte delle argo­men­ta­zioni dei primi.

Segno della gra­vità della situa­zione, e di una sem­pre più dif­fusa presa di coscienza (anche tra i social­de­mo­cra­tici) del fatto che il Tita­nic Europa – come lo defi­ni­sce Ste­fano Fas­sina – sta cor­rendo dritto verso l’iceberg, e che l’unica sal­vezza per il con­ti­nente è un radi­cale cam­bio di rotta, che includa una revi­sione pro­fonda dell’architettura stessa dell’Ue, e che non può limi­tarsi a nego­ziare qual­che punto di per­cen­tuale di mar­gine sul rap­porto deficit/Pil del 3%, su cui Renzi sem­bra aver incen­trato tutta la sua stra­te­gia euro­pea. Tro­vando comun­que delle impor­tanti con­ver­genze isti­tu­zio­nali. «Biso­gna ridi­scu­tere il fiscal com­pact, per­met­tere ai paesi in crisi di supe­rare il limite del 3% e aprire un dibat­tito sulla revi­sione dei cri­teri fiscali di Maa­stri­cht». A dirlo non è un atti­vi­sta di Attac ma Gianni Pit­tella, vice-presidente del Par­la­mento euro­peo, che aggiunge: «Serve un grande piano di inve­sti­menti pub­blici euro­pei per rilan­ciare la cre­scita e la domanda».

Tutti d’accordo sulla neces­sità di nuovi inve­sti­menti, ma c’è chi pun­tua­lizza che non si esce dalla crisi sem­pli­ce­mente rilan­ciando lo stesso modello che di que­sta crisi è in parte la causa. «La cre­scita è impor­tante», chiosa Luciana Castel­lina, «ma altret­tanto impor­tante è dire quale cre­scita: le poli­ti­che indu­striali devono ser­vire anche per riqua­li­fi­care la pro­du­zione (soprat­tutto quella ener­ge­tica) in chiave soste­ni­bile, rio­rien­tare la domanda e creare lavoro».

La cen­tra­lità del lavoro nella ripresa euro­pea è stata riba­dita da Ronald Jans­sen della Con­fe­de­ra­zione euro­pea dei sin­da­cati (Etuc): «La pres­sione com­pe­ti­tiva sui salari sta aggra­vando la reces­sione, ucci­dendo la domanda e spin­gendo l’Europa verso la defla­zione. Biso­gna smet­tere di vedere il lavoro come un fat­tore di com­pe­ti­ti­vità ma come uno stru­mento di cre­scita e di sta­bi­lità, a par­tire dall’introduzione di uno stan­dard euro­peo sul sala­rio minimo e dalla difesa del modello sociale euro­peo».

Se il rilan­cio del lavoro è cen­trale per argi­nare la defla­zione e ridurre le disu­gua­glianze, altret­tanto lo sono le poli­ti­che mone­ta­rie della Bce, che devono essere radi­cal­mente rifor­mate per far ritor­nare l’inflazione almeno al 2% e per­met­tere alla banca cen­trale di offrire liqui­dità agli stati e agire da pre­sta­trice di ultima istanza sul debito dei sin­goli paesi e sugli euro­bond emessi col­let­ti­va­mente dall’eurozona, cru­ciali per sta­bi­liz­zare il debito pub­blico.
Pur rico­no­scendo l’importanza degli euro­bond, Ste­fano Fas­sina e altri hanno sot­to­li­neato però che il debito pub­blico ha rag­giunto livelli inso­ste­ni­bili in molti paesi (a par­tire dalla Gre­cia), e che l’istituzione di mec­ca­ni­smo di ristrut­tu­ra­zione del debito – uno dei punti cen­trali del pro­gramma euro­peo di Tsi­pras – è un pas­sag­gio ormai ine­lu­di­bile. Se cre­diti e debiti sono due facce della stessa meda­glia, lo sono anche i sur­plus e defi­cit com­mer­ciali che sono alla base degli squi­li­bri della bilan­cia dei paga­menti inter-europea. Per que­sto – come ha spie­gato Jordi Angu­sto di Eco­no­Nue­stra, gruppo di eco­no­mi­sti ete­ro­dossi spa­gnoli – «è sui­cida pen­sare di ridurre gli squi­li­bri com­mer­ciali sem­pli­ce­mente costrin­gendo i paesi in defi­cit a tagliare i salari e ridurre la domanda, aggra­vando così la reces­sione. Ser­vono dei mec­ca­ni­smi che costrin­gano anche i paesi in sur­plus a fare la loro parte, sti­mo­lando la domanda interna». Ri-regolamentazione della finanza (a par­tire dalla rein­tro­du­zione dei con­trolli di capi­tale), ricon­qui­sta degli spazi di demo­cra­zia (a livello sia euro­peo che nazio­nale) e l’opposizione al Trat­tato tran­sa­tlan­tico di libero com­mer­cio (Ttip) alcuni degli altri temi trat­tati. Molto, insomma, il lavoro da fare. Soprat­tutto in vista delle ele­zioni di mag­gio. Anche per scon­giu­rare l’ipotesi di una “grande coa­li­zione” tra social­de­mo­cra­tici e con­ser­va­tori nel nuovo Euro­par­la­mento, che non potrebbe che decli­narsi sulla base di una tra­gica con­ti­nuità con quelle poli­ti­che che stanno tra­sci­nando l’Europa nel baratro.
«L'Ue tutela il diritto di asilo ma non accoglie i rifugiati, vieta espulsioni collettive e discriminazioni ma permette agli Stati di restringere gli accessi e di costruire centri di detenzione. E non concede il diritto di voto agli immigrati. In vent'anni, la «fortezza Europa» ha provocato 16 mila morti».

Sbilanciamoci.info, 21 marzo 2014

L'Europa che oggi sponsorizza e celebra con centinaia di manifestazioni e iniziative la Giornata mondiale contro il razzismo è la stessa che ha permesso la strage di Lampedusa del 3 ottobre, solo la più grave delle centinaia di naufragi che hanno attraversato il Mediterraneo. È quella che impone a chi è costretto a fuggire dal proprio paese di chiedere asilo nel primo paese europeo di arrivo, a meno che non sia provato e documentato che questo non è in grado di accoglierlo. Tutela il diritto di asilo, ma sino ad oggi ha accolto solo 56 mila degli oltre 2,5 milioni di profughi siriani (la Turchia ne ha accolti 656 mila, il Libano un milione).

L'Europa di oggi è quella che vincola la «cooperazione con i paesi terzi» alla sottoscrizione di accordi stringenti sul «contrasto dell'immigrazione irregolare» e che con la "direttiva della vergogna" ha stabilito che è possibile rinchiudere nei centri di detenzione i migranti senza documenti colpiti da un provvedimento di espulsione per 18 mesi. È, infine, quella che nella Carta dei diritti fondamentali vieta le espulsioni collettive e le discriminazioni "etniche", religiose o fondate sulle caratteristiche somatiche, prevedendo il «rispetto delle diversità culturali, religiose e linguistiche». Ma poi lascia che i singoli paesi membri possano negare o restringere l'accesso dei cittadini stranieri (ormai non solo di paesi terzi) ai servizi sanitari, assistenziali e previdenziali.

L'Unione Europea promuove regole comuni per rifiutare, respingere ed espellere i migranti di paesi terzi; disciplina le regole sul soggiorno e sulla circolazione dei migranti regolarmente residenti; ha definito uno status uniforme e procedure comuni in materia di asilo, ma lascia che siano i singoli stati membri a governare l'immigrazione per motivi di lavoro. Nè è prevista alcuna forma di armonizzazione delle politiche di «integrazione», ambito nel quale l'Ue può solo «incentivare e sostenere l'azione dei paesi membri». Così in Germania come in Italia e in Spagna si pongono limiti all'ingresso di lavoratori migranti, salvo poi farne lavorare a migliaia al nero e sottopagati nell'edilizia, nell'industria alimentare, nell'agricoltura o nelle ristrette mura domestiche, per svolgere quei lavori di cura che il sistema di welfare in via di smantellamento non assicura più. E ciò avviene anche nel pieno della crisi. In molti, espulsi dal mercato del lavoro, decidono di tornare nel paese di origine. I più restano.

Non di memoria dunque dovremmo parlare oggi, ma del presente. E l'Europa del presente è quella del rifiuto, della sofisticazione degli strumenti di sorveglianza e di militarizzazione dei mari e delle frontiere grazie al sistema Eurosur e all'agenzia Frontex: 2 miliardi e 496 milioni stanziati tra il 2007 e il 2013 per i due fondi per le frontiere esterne e per i rimpatri, ma solo 1 miliardo e 455 milioni per i fondi per i rifugiati e per «l'integrazione» dei cittadini di paesi terzi.

Nel 2012 i cittadini di paesi terzi stabilmente soggiornanti erano il 4,1% della popolazione europea, 20,7 milioni, ma non parteciperanno alle prossime elezioni europee perché non sono considerati cittadini e sono privi del diritto di voto. Potranno invece candidarsi i rappresentanti di quei movimenti nazionalisti, xenofobi e populisti che vorrebbero cacciarli tutti. Sarebbe un errore lasciare che fossero loro a dettare l'agenda nella prossima campagna elettorale.

«Europee. Raccolta firme a pieno ritmo, ma è impar condicio in Valle. Barbara Spinelli scrive alla presidente Boldrini. Appello anche a Roberto Fico, il presidente a 5 stelle della commissione vigilanza Rai: la tv pubblica non informa». Il

manifesto, 21 marzo 2014

La rac­colta delle firme per pre­sen­tare la lista Tsi­pras alle euro­pee va bene; secondo gli orga­niz­za­tori per­sino molto bene. Un migliaio di ban­chetti in giro per l’Italia, solo per la prima set­ti­mana un ’teso­retto’ di 44mila firme, che signi­fi­cano vento in poppa per arri­vare alle neces­sa­rie 150mila entro la prima set­ti­mana aprile, ter­mine utile per la pre­sen­ta­zione. Un «for­mi­da­bile rap­porto con le per­sone, una prima strada per farci cono­scere, una rispo­sta piena di spe­ranza per il futuro», spiega Cor­rado Oddi, respon­sa­bile della raccolta.

Oddi ha un know how di tutto rispetto: ha coor­di­nato la trion­fale cam­pa­gna sui refe­ren­dum dell’acqua (2011, un milione e mezzo di firme, poi 27milioni di voti). Però c’è un però, anzi una trap­pola: «La legge elet­to­rale, di dub­bia legit­ti­mità demo­cra­tica, lo dico con un eufe­mi­smo, chiede 30mila firme per cia­scuna delle 5 cir­co­scri­zioni, 3mila firme in ogni regione. In Valle d’Aosta come in Lom­bar­dia. E cioè su un bacino di 90mila abi­tanti come in uno da 10milioni». Stessa cosa nelle isole. Secondo il plan­ning del respon­sa­bile, dalla Sici­lia, 5 milioni di anime, devono arri­vare almeno 25mila firme; dalla Lom­bar­dia ’solo’ 20mila.

C’è di meglio, si fa per dire. Ad Aosta la rac­colta di firme, già di per sé proi­bi­tiva data la pro­por­zione con gli abi­tanti, è una corsa ad osta­coli: gli uffici del sin­daco Bruno Gior­dano (Union Val­dô­taine) hanno depen­nato gran parte delle richie­ste di suolo pub­blico per i ban­chetti avan­zate dai comi­tati L’Altra europa con Tsi­pras. Motivo? «Un malin­teso signi­fi­cato della parola ’mono­po­li­stico’», spiega Rosa Rinaldi, della segre­te­ria Prc, volata in Valle per dare una mano. «Per l’amministrazione avremmo il ’mono­po­lio’ dei ban­chetti. Per que­sto ce ne ha negati molti. Pec­cato che l’unico ’mono­po­lio’ di cui godiamo, nostro mal­grado, è quello della rac­colta firme: siamo solo noi a doverla fare». Gli altri par­titi, che sie­dono in par­la­mento, non ne hanno biso­gno. «È una let­tura buro­cra­tica e non demo­cra­tica delle regole. E sia chiaro: tor­ne­remo alla carica, ma se non ci con­ce­de­ranno il suolo ce lo pren­de­remo lo stesso».

In città cir­cola un sospetto. Gli auto­no­mi­sti pun­tano a un can­di­dato unico con il Pd, che si gio­ve­rebbe parec­chio di non avere con­cor­renti a sini­stra. E così la sfida di Aosta è un rischia­tutto. Se non rag­giun­gesse quota 3mila ver­rebbe inva­li­data la lista nell’intera cir­co­scri­zione Nord-Ovest. E la strada per sca­val­care lo sbar­ra­mento nazio­nale (4%) diven­te­rebbe tutta salita. Sabato mat­tina in città arri­verà il socio­logo Marco Revelli. Men­tre a Palermo, a fine marzo, per il rush finale delle firme sbar­cherà il can­di­dato Ale­xis Tsipras.

Intanto oggi la pre­si­dente della camera Laura Bol­drini si vedrà reca­pi­tare una let­tera fir­mata Bar­bara Spi­nelli, ispi­ra­trice e capo­li­sta degli «euroin­su­bor­di­nati». Con la richie­sta di un incon­tro urgente per affron­tare il caso di trat­ta­mento uguale di situa­zioni dise­guali. «Chie­diamo alla pre­si­dente di farsi carico di que­sta dispa­rità demo­cra­tica. Alle poli­ti­che del 2013 la fine anti­ci­pata della legi­sla­tura ha abbat­tuto le firme neces­sa­rie fino al 25%, sotto la pres­sione di Grillo», ricorda Mas­simo Torelli, coor­di­na­tore della lista.

Anche per­ché, come se non bastasse, c’è l’eterno pro­blema dell’informazione pub­blica. I pro­mo­tori hanno scritto al pre­si­dente della Vigi­lanza Rai Roberto Fico (M5S) segna­lando — ve ne fosse biso­gno — che per la prima volta il 25 mag­gio «i cit­ta­dini con­cor­re­ranno diret­ta­mente all’elezione del pre­si­dente della Com­mis­sione». Gli ita­liani si tro­ve­ranno a votare nomi stra­nieri. Serve un appo­sito spot infor­ma­tivo. Fico ha fatto sapere che deve ancora appro­fon­dire il caso. Al voto man­cano meno di due mesi

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