«I difensori dell’attuale architettura comunitaria e delle sue regole competitive, insistendo sull’intangibilità di politiche i cui effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti, non fanno che alimentare le pulsioni dellpopulismo».
Il manifesto, 30 aprile 2014
Commentando il crollo della fiducia nell’Unione europea (nel 2013 al 28% tra i cittadini italiani) Ilvo Diamanti sottolineava su La Repubblica di lunedì come l’attaccamento all’Europa sopravvivesse essenzialmente per la paura di quel che ci potrebbe accadere rimanendone fuori. Non è un motivo spregevole e non si discosta poi tanto dalla ragione che ispirò il pensiero dell’unità europea alla fine della seconda guerra mondiale: la paura che gli orrori vissuti dal vecchio continente potessero ripetersi ancora una volta. Converrà allora riproporre insistentemente all’opinione pubblica europea qualcosa di cui spaventarsi, qualcosa di realmente minaccioso.
Per il primo maggio i neonazisti tedeschi annunciano marce in numerose città (Rostock, Dortmund, Duisburg, Essen , Kaiserlautern, Plauen e Berlino). Di per sé il fatto non desta eccessiva preoccupazione essendo la Repubblica federale un paese fortemente vaccinato contro l’estremismo di destra. Ma è l’eco delle parole d’ordine che preparano l’evento, le assonanze, le parentele fraseologiche tra gli slogan dei nazionalisti germanici e le esternazioni di alcune formazioni politiche europee numericamente consistenti e che si richiamano non al fascismo ma alla democrazia, che dovrebbe suscitare spavento. «Il nostro popolo prima di tutto», «lavoro e giusto salario per tutti i tedeschi», «Ogni trasformazione comincia da te, se sei insoddisfatto, se vorresti cambiare qualcosa e non vuoi vigliaccamente arrenderti al destino, devi fare qualcosa. Noi facciamo qualcosa! Noi ci prendiamo cura!» Questa preminenza dell’elemento nazionale, l’ostilità verso gli stranieri, il richiamo a una partecipazione in prima persona che è in realtà affidamento a un capo, attraversano con maggiore o minore intensità, più o meno apertamente esibite, anche le prime miserevoli battute della campagna elettorale dell’euroscetticismo italiano. Dal manifesto di un candidato berlusconiano il quale promette «in Europa, prima l’Italia» ai «pugni sul tavolo» dei 5 Stelle che dipingono la politica europea come una rissa da osteria.
Una partita nella quale il proprio paese deve imporsi sbraitando sugli altri. Laddove non è un movimento europeo, ma una singola forza politica nazionale ad avanzare la pretesa di «rivoltare l’Europa come un calzino». Mettiamoci poi la rivalutazione presidenziale del militarismo e la scelta dei due marò trattenuti in partibus infidelium, come simbolo dell’orgoglio nazionale, per completare un quadro davvero sinistro.
D’altro canto, i difensori dell’attuale architettura comunitaria e delle sue regole competitive, insistendo sull’intangibilità di politiche i cui effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti, non fanno che alimentare queste pulsioni. Lo spauracchio che agitano per contrastarle (fuori dall’Europa o mutandone incisivamente le regole si starebbe ancora peggio di così) sbiadisce ogni giorno di più, a vantaggio delle sirene nazionaliste, che possono avvalersi di evidenti dati di realtà.
Coerentemente con una Unione rimasta in larga misura ostaggio degli stati-nazione, le elezioni per il parlamento di Strasburgo si giocano tutte sulla misurazione dei rapporti di forze interni ai singoli paesi.
Come spesso accade, è ancora una volta Beppe Grillo a mettere in chiaro senza troppi giri di parole l’assoluta irrilevanza della dimensione sovranazionale: «Se vinco le europee salgo al Quirinale e pretendo l’incarico». Il pugno vero, insomma, lo si batte sul tavolo di Giorgio Napolitano
««È questione di costi», afferma McDonald: non c’è abbastanza mangime non transgenico da garantire la produzione di carne di pollo a costi che si traducano in prezzi di vendita al fast-food abbastanza bassi per il consumatore».
La Repubblica, 29 aprile 2014 (m.p.r.)
Berlino. I rapporti tra Europa e Stati Uniti d’America sono spesso difficili. Non solo sulla crisi con Mosca o sui poteri della National Security Agency. Anche su argomenti ecologici, quali il cibo transgenico, la vecchia coppia litiga da punti di vista opposti. Sta accadendo tra la Germania, il più ricco e popoloso paese dell’Unione europea, e McDonald’s, il colosso del fast-food. Già, perché in una lettera inviata alla sezione tedesca di Greenpeace, McDonald’s informa l’associazione ecologista di aver deciso di permettere di nuovo, dopo tredici anni, l’uso di cibo transgenico per l’allevamento dei polli che vengono poi macellati per portare in ogni filiale i chickenburger e le chickenmcnuggets. Cibo transgenico, ritenuto normale dagli Usa ma temuto come tossico e pericoloso dagli europei.
Le cronache raccontano che nella piazza Omonia di Atene, dove Tsipras ha tenuto l’ultimo grande comizio della vigilia, c’era tanta gente comune, lontana dalla politica attiva, senza bandiere né slogan. Era il segnale tangibile che qualcosa si era mosso nelle profondità della società greca. Del resto i sondaggi delle ultime ore indicavano che la vittoria di Tsipras sarebbe stata alimentata da un voto che arrivava a Syriza da tutta la popolazione, anche da quei greci che alle ultime elezioni del 2012 avevano votato per la destra sperando di trovare così una via d’uscita alle loro sofferenze. C’era chi prevedeva che un 10 per cento dei consensi sarebbero venuti da quella parte di Nuova Democrazia ostile all’estremismo liberista del premier uscente Samaras. Gente per nulla di sinistra, ma che, questa volta, voleva punire un governo colpevole di avere decurtato pensioni e stipendi portandoli a livelli di sussidi.
D’altra parte quando superi il 35 per cento dei consensi vuol dire che i voti ti arrivano un po’ da tutti i ceti sociali, almeno da tutti quelli che la crisi ha messo con le spalle al muro, da quel 30 per cento di famiglie ridotte in povertà, da quei cittadini che in massa fanno la fila per rimediare medicinali e cibo. Se la nostra media della disoccupazione è al 12 per cento e ci fa paura, quella greca ha sfondato il 26 per cento, più del doppio, e si calcola che un milione e mezzo di occupati abbia sulle spalle otto milioni e mezzo di connazionali ridotti alla sussistenza.
Ormai si organizzano viaggi di studio per vedere e capire come Syriza sia riuscita a organizzare 400 centri di erogazione di servizi sociali in tutto il paese. Si resta increduli a sentire che si può comprare un appartamento per 5.000 euro, che il catasto è inservibile, ma che gli armatori sono ancora i potentissimi padroni di Atene.
Questo paese distrutto dalla guerra economica e governato dalla Troika oggi trova la forza di riacciuffare la speranza. Dando fiducia a una forza di sinistra nuova, impegnata in tutto il territorio nazionale a fianco dei più deboli, con un programma politico che fa della rinegoziazione del debito e la cancellazione dei Memorandun la leva a cui agganciare un’agenda di provvedimenti molto precisi: tetto minimo di 700 euro agli stipendi, tredicesima per le pensioni minime, cancellazione di tasse sulla casa e blocco delle aste giudiziarie, banche controllate dallo stato, patrimoniale sulle grandi ricchezze cresciute all’ombra della crisi.
Una proposta di governo ormai conosciuta come il “programma di Salonicco” che Tsipras ha promesso di perseguire a prescindere da come andrà la trattativa con le istituzioni europee. Di fronte allo sfascio di un paese che nella sua storia recente ha conosciuto pagine drammatiche fino al colpo di stato dei colonnelli negli anni ’70, il fatto che Syriza abbia sbarrato la strada alla destra eversiva è un risultato che sarebbe imperdonabile sottovalutare anche solo semplicemente sotto il profilo della difesa democratica.
Una destra sempre presente (con i neonazisti di Alba Dorata che contendono il terzo posto al raggruppamento di centrosinistra To Potami), perché se Tsipras dovesse fallire, in Grecia arriverà l’estrema destra. Lo sanno bene le cancellerie internazionali che si spingono a pur caute aperture verso una trattativa, come dimostra la linea aperturista del Financial Times.
Perché quello che sta vivendo oggi l’Europa, dalla Francia all’Ucraina, con la natura violenta, isolazionista, xenofoba, nazionalista delle destre che si stanno riorganizzando, potrà essere fermato solo da un rapido, benefico contagio del vento greco, da una cosmopolita sinistra europea di nuova generazione (fissata nell’immagine, a piazza Omonia, dell’abbraccio tra Tsipras e Iglesias, leader di Podemos).
Una sinistra che cita molto Gramsci, che ha solide radici a sinistra ma che intende lasciarsi alle spalle le zavorre novecentesche, capace di rinnovare radicalmente modelli partitici, leadership e culture politiche. La vittoria di Syriza è solo l’inizio di un percorso pieno di trappole, ostacoli, contraddizioni. Prendersi la responsabilità di governare un paese distrutto sembra quasi una missione impossibile.
Nel libro di Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, la mia sinistra”, il leader di Syriza spiega molto bene che si tratta «di una scommessa enorme, simile a quella del Brasile di Lula» e avverte che «non possiamo permetterci il lusso di ignorare che gran parte della società greca, e anche una percentuale dei nostri sostenitori, abbia assorbito idee conservatrici». Dunque consapevolezza della prova che l’attende e determinazione nel perseguire l’obiettivo «che oggi non è il socialismo ma la fine dell’austerità».
Ma questi sono i momenti della festa, della svolta, della vittoria contromano, della bellissima rivincita che la Grecia si prende dopo sei anni vissuti come una piccola cavia nel grande laboratorio tedesco. Un paese da punire in modo esemplare per educare tutti gli altri: se non volete finire come la Grecia ingoiate l’amara medicina dei tagli a salari e pensioni (anche noi abbiamo assaggiato questa frusta e ingoiato questa pillola). Il debito vissuto come colpa (avete voluto vivere al di sopra delle vostre possibilità) con tutto l’armamentario dei luoghi comuni che ancora oggi sentiamo ripetere in tv e leggiamo sui giornali.
Ora dobbiamo attenderci un ampio fuoco di sbarramento contro la svolta sociale di Syriza che appunto ribalta la prospettiva e rimette la realtà con i piedi per terra.
Quando nel febbraio dello scorso anno Tsipras venne in Italia in vista delle elezioni europee, come prima tappa fece visita alla redazione del manifesto (Renzi non trovò il tempo di riceverlo). Ci parlò a lungo del cammino verso una sinistra unita e di quello che poi sarebbe diventato il programma di governo. Ci regalò una piccola barca di porcellana della collezione del museo Benaki, quasi un auspicio, un pronostico. Due coloratissime vele gonfie. Un anno fa il vento in poppa era un auspicio e forse un pronostico. Ora è una realtà sulla quale la sinistra italiana dovrebbe riflettere molto. E anche in fretta.
«Nikissame! Nikissame!», «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto», festeggiavano ieri i greci radunati nei vari centri elettorali di Syriza ad Atene, a Salonicco, dal nord al sud del paese. Una svolta radicale, un vento progressista in Grecia, un messaggio per un’altra Europa da riflettere al resto del vecchio continente.
Alle 7 di domenica sera, subito dopo la chiusura delle urne, la buona notizia: Syriza appariva chiaramente come il partito vincente, secondo i primi exit-poll. La sinistra radicale ha ottenuto una vittoria di dimensioni storiche in Grecia, in Europa, raccogliendo tra il 35,5% e il 39,5% con 146–158 seggi, senza avere la certezza di poter formare un governo monocolore. Sconfitta la Nea Dimokratia che raccoglieva, sempre secondo gli exit-pool, tra il 23% e il 27% con 65–75 seggi.
Nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni, ha vinto la speranza nel cambiamento e con essa la dignità, l’ orgoglio per il giorno dopo di un popolo che ha subito tanti sacrifici negli ultimi anni. Hanno vinto la democrazia, la giustizia sociale, la solidarietà.
Hanno perso la paura promossa dai conservatori, dai creditori internazionali, da chi vede nelle sinistre il diavolo rosso; hanno perso tutti coloro che nel nome di un risanamento economico del Paese hanno provocato questa crisi umanitaria senza precedenti, la recessione, la depressione collettiva, la violazione di leggi e di vite umane.
Verso le 10 di sera i risultati non erano ancora definitivi. 36,5% per il Syriza con 150 seggi, 27,7% per i conservatori della Nea Dimokratia con 76 seggi. Al terzo posto i nazisti di Alba dorata (Chrysi Avghi) con 6,3% e 17 seggi, il Fiume (To Potami) con 5,9% e 16 seggi, i comunisti del Kke con 5,6% e 15 seggi, il Pasok con 4,8% e 13 seggi e i Greci indipendenti (Anel) con 4,7% e 13 seggi.
Non sono riusciti a superare la soglia del 3% e rimangono fuori dal parlamento il Movimento dei socialisti democratici, fondato dall’ ex premier Yorgos Papandreou (2,5%, la Sinistra democratica, gia componente del Syriza e ex partner del governo di coalizione di Antonis Samaras (0,5%) e Antarsya, formazione della sinistra (0,6%).
Oltre alla preoccupazione che ha provocato a tutti il mantenimento della forza elettorale dei nazisti, la domanda che si poneva fino a tarda serata era se Syriza sarebbe riuscita a formare un governo monocolore e in secondo luogo se Alexis Tsipras avrebbe preferito una maggioranza debole (150–151 seggi sui 300) e la diminuzione della sua forza di trattattiva nei confronti dei creditori internazionali, oppure una collaborazione con un’ altra forza politica che di fatto avrebbe limitato la sua forza politica nell’applicazione del suo programma. «Faremo un altro invito al Kke» ha detto Dimitris Stratoulis, dirigente del Syriza, «ma se continuano a rispondere negativamente, tratteremo con altre forze politiche».
Secondo fonti di Syriza, la sinistra radicale esclude ogni collaborazione con le forze pro-memorandum (Nea Dimokratia, Pasok, To Potami), lasciando aperta l’ eventualità di una cooperazione con i Greci indipendenti, il partito di destra nazionalistico, l’ unico ad essere chiaramente anti-memorandum.
A parte le eventuali alleanze post-elettorali, a sentire i dirigenti di spicco del Syriza ai talk-show televisivi «i greci, e non solo quei che hanno votato per la sinistra radicale, hanno preso una grande boccata di ossigeno». Non certo tutti, ma almeno una parte sono consapevoli delle difficoltà, che il nuovo governo dovrà affrontare; ma a sentire questa gente che ieri gridava vittoria per le strade di Atene, «Tsipras durante i negoziati con la troika avra un ottimo alleato».
Piena soddisfazione tra gli attivisti della «Brigata kalimera» radunata in piazza Klathmonos nel pieno centro di Atene. Smentita la telefonata di Matteo Renzi a Tsipras, mentre la prima reazione da Berlino è arrivata da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, la Banca centrale tedesca, da sempre custode del rigore del bilancio e avversario di Mario Draghi, il quale ha detto con toni minacciosi che «gli aiuti economici verso Atene continueranno soltanto se la Grecia rispetta i patti». La risposta di Syriza è stata immediata. «Parleremo e tratteremo a livello politico con la leadership europea, non con i suoi rappresentanti» ha detto ieri il vice-presidente dell’ europarlamento, Dimitris Papadimoulis, anticipando l’ atteggiamento del nuovo governo di Atene nei confronti della troika (Fmi, Ue, Bce).
Il risultato ottenuto dalla Nea Dimokratia difficilmente sarà gestito dal premier uscente Antonis Samaras. Samaras ha usato un linguaggio nazionalistico adottato pure da Alba dorata, come per esempio lo slogan della campagna elettorale «patria, religione, famiglia» che ha fatto allontanare molti elettori di destra. Problemi e lamentele si sono sentite ieri anche nel quartier generale dei socialisti del Pasok. Il vice-presidente del governo di coalizione e leader del Pasok, Evanghelos Venizelos probabilmente si allontanerà, ma «non come sconfitto» secondo i suoi stretti collaborattori.
ESPLODE LA GIOIA DELL’ALTRA EUROPA
di Jacopo Rosatelli
L’Unione europea è quella del tendone di piazza Klafthmonos, dove Syriza ha chiamato a raccolta i suoi sostenitori. Pieno all’inverosimile, caldo quasi insopportabile, pochi istanti prima delle 7 ore locale la tensione si taglia con il coltello: facce concentrate, cenni di incoraggiamento reciproco. Poi l’annuncio degli exit polls, e ci si scioglie in un abbraccio collettivo.
Greci, tedeschi, spagnoli, francesi, inglesi, italiani, e chissà da quante altre parti del Vecchio continente: un enorme, corale urlo di gioia cancella l’ansia e la fatica. Ora si può festeggiare. Esiste un’altra Europa, è quella che si è data appuntamento qui, nel centro di Atene.
«Questo è uno di quei momenti in cui si dimostra che anche i piccoli possono fare la storia, possono cambiare il mondo» ci dice subito, tra lacrime di gioia, Raffaella Bolini, l’infaticabile organizzatrice della Brigata Kalimera e di mille altre avventure politiche internazionali. «C’è chi ha ironizzato sul nostro viaggio per criticarci, ma noi siamo venuti a immergerci nella realtà greca: non torneremo in Italia uguali a come eravamo alla partenza, perché questa esperienza ci ha davvero arricchiti», afferma una raggiante Rosa Rinaldi, tra le principali artefici del «miracolo» della fondamentale raccolta firme in Valle d’Aosta per la lista delle europee. «Ora la speranza si materializza: vale per i greci, ma vale anche per noi, perché Syriza al governo ad Atene significa una rivoluzione democratica per l’intera Europa. Persino il nostro pusillanime premier Matteo Renzi potrà ora avere più margini di manovra nei confronti dei partner continentali, e a noi a sinistra spetta il compito di costruire una vera alternativa di società: senza copiare modelli di altri Paesi, ma cogliendo la straordinaria occasione di questo momento», conclude Rinaldi.
«Il messaggio di domenica sera – riflette Maso Notarianni, anima dell’Altra Europa a Milano – è che nella sinistra italiana dobbiamo finalmente abbandonare un atteggiamento minoritario ancora troppo diffuso: qui in Grecia ci dimostrano che si può fare. Bisogna essere convinti che un’utopia può diventare realtà».
La soddisfazione in piazza Klafthmonos è ovviamente di tutti, indipendentemente dalla nazionalità. Ciascuno ha però un compito diverso nel proprio Paese.
In Spagna lo scenario politico più simile a quello greco: «La svolta nella politica europea è possibile. La sfida per noi è prendere ad esempio Syriza e mettere da parte personalismi o divisioni infondate, concentrandoci nella cosa più importante, che è unire le forze», ragiona Alberto Garzón, il nuovo (e giovane) leader di Izquierda unida. Il messaggio che invia dal tendone ateniese è diretto a Podemos, che finora nicchia sulla possibilità di costruire un cartello unitario alle elezioni di autunno.
Parole simili da Enest Urtasun, brillante eurodeputato della sinistra ecologista catalana, «pontiere» fra i Verdi e il gruppo del Gue (Sinistra unitaria europea) nel parlamento di Strasburgo: «La scelta giusta è quella fatta a Barcellona per le prossime municipali: lista unitaria di tutti quelli che si battono contro l’austerità». Di diverso avviso è l’attivista di Podemos Ramón Arana: «non voglio alleanze con i partiti del ‘vecchio sistema’, ma parlo a titolo personale». Pensionato 64enne, Ramón è venuto ad Atene da Madrid «per assistere alla presa della Bastiglia del ventunesimo secolo».
I tedeschi della Linke – muniti di cartelli inequivocabili: «La nuova Europa comincia in Grecia» – usano toni meno enfatici, ma la sostanza è la stessa: niente potrà essere più come prima. «La cancelliera Angela Merkel dice sempre che non ci sono alternative alle attuali politiche, ma la vittoria di Syriza mostra che è falso» ci dice Katharina Dahme della direzione nazionale del partito. «Il nostro compito sarà mostrare ai cittadini del nostro Paese che la politica del nuovo governo di Atene non sarà solo nell’interesse dei greci, ma anche dei lavoratori in Germania, che hanno bisogno di salari più alti e di una politica sociale differente», conclude la dirigente del principale partito dell’opposizione tedesca.
«Un’altra soluzione, meno onerosa per il patrimonio culturale, sarebbe la demanializzazione degli edifici dell’Eur, cioè il passaggio allo Stato. Il che porterebbe l’Italia al livello di civiltà culturale degli altri paesi europei, dove l’Archivio centrale è uno dei luoghi simbolici di una nazione».
La Repubblica, 29 aprile2014 (m.p.r.)
Roma. È un paradosso. Ogni anno dalle esangui casse dei Beni culturali escono oltre 10 milioni di euro e finiscono nel portafoglio di Eur s.p.a., la società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 del Comune di Roma che gestisce il quartiere omonimo a sud della capitale. È il prezzo dell’affitto degli edifici che ospitano alcuni musei e l’Archivio centrale dello Stato, 110 chilometri di scaffalature in cui è depositata la memoria cartacea del Paese. Alcuni di questi edifici sono anche offerti in garanzia dei debiti che l’Eur, uno dei fulcri della “parentopoli” allestita dall’allora sindaco Gianni Alemanno, ha contratto per le sue operazioni immobiliari, fra le quali la “Nuvola” di Fuksas, che non si sa quando mai verrà finita, e la Lama, il palazzo a specchio che dovrebbe diventare un albergo e ancora si cerca chi mai potrà gestirlo.
Il manifesto, 29 aprile 2014
Il primo a parlarne – anzi a twittarlo – è stato Matteo Renzi: vado in Europa per battere i pugni sul tavolo. Perché? Perché inverta rotta rispetto alle politiche di austerità. Barbara Spinelli gli aveva subito risposto a nome della lista L’altra Europa con Tsipras: battere i pugni sul tavolo non vuol dire niente; bisogna avere un progetto chiaro su che Europa si vuole e il Pd non ce l’ha; per questo continuerà a “navigare” a rimorchio delle larghe intese (Merkel-Schultz) tedesche ed europee. Infatti si è visto come li ha battuti, Renzi, quei pugni: supplicando la Merkel di concedergli uno 0,2 per cento in più nel rapporto deficit/pil rispetto a quello che Bruxelles ha deciso.
Il che gli avrebbe forse permesso di trovare una piccola copertura meno aleatoria per il suo bonus da 80 euro, ma non certo di cambiare politica economica e meno che mai di togliere il cappio del debito dal collo del nostro paese. Tanto più che mentre Renzi pietiva quello 0,2 per cento, la Merkel gli ingiungeva di cominciare a pensare alla restituzione di 50 miliardi di debito all’anno, da aggiungere ai quasi 100 di interessi che già paghiamo: lo impone il Fiscal Compact. Renzi ha fatto finta di non sentire e la Merkel, che conta sul suo appoggio dopo le elezioni europee, non ci è ritornata sopra.
Così tutto è tornato come prima e il governo, con il fido Padoan, ha continuato ad arrampicarsi sugli specchi (del Quirinale) per “salvare” non il paese, ma gli 80 euro che devono far vincere le elezioni al Pd. Così quei pugni – anzi, per dirla in bolognese, quelle pugnette — sono scivolati nel dimenticatoio come tutto quanto Renzi ha detto e fatto nel corso degli ultimi anni; sostituiti da nuove rocambolesche promesse.
A risollevare la bandiera dei pugni – o delle pugnette – sul tavolo lasciata cadere da Renzi, ci ha pensato Beppe Grillo (anche in questo i due si assomigliano sempre più), immemore degli avvertimenti amichevoli di Barbara Spinelli. Lo ha fatto con una canzoncina abbastanza stupida e brutta, che diventerà il refrain del movimento Cinque stelle, accompagnata da una coreografia di gente che batte i pugni sul tavolo. Gente arrabbiata, come tutti noi (tranne quelli che con la crisi ingrassano).
Ma dove portano tutti quei pugni, tutti quei tavoli e tutta quella rabbia? A niente, come tutto quello che dice e fa il movimento Cinque stelle. In particolare in queste elezioni europee.Un movimento, infatti, che in Europa non ha alleati né partner (siederà nel Parlamento da solo); non ha un candidato alla Presidenza della Commissione; non ha un programma per l’Europa (pensa solo a una sua affermazione nei confronti del Pd in Italia); non ha coerenza né coesione interna (cosa resa evidente dalla emorragia di parlamentari che il movimento sta subendo o imponendo); non sa nemmeno se vuole restare in Europa (chiedendo gli eurobond e una Banca che sia prestatore di ultima istanza) o uscire dall’Euro (il che non gli restituirebbe certo un prestatore di ultima istanza: la Banca d’Italia non lo è più dagli anni ’80).
Ma si tratta di due alternative – posto che il ritorno alla lira abbia senso – che avrebbero comunque bisogno di un intero bagaglio di misure collaterali, tali da configurare due veri e propri programmi contrapposti: il ritorno alle sovranità nazionali e alle guerre commerciali da un lato; un vero governo federale, democraticamente eletto e fondato sulla solidarietà e sulla pace, dall’altro. Ma su entrambi i versanti l’elaborazione programmatica del movimento Cinque Stelle è pari a zero.
La verità è che le elezioni europee sono una cosa seria e non un circo per misurare la propria (fasulla) forza muscolare. E che gli unici in Italia che si presentano con un programma di respiro europeo, per cambiare veramente le cose in Europa, insieme a tutti coloro (partiti, gruppi parlamentari o frazioni di essi, movimenti di lotta e di cittadinanza) che ne condividono o ne condivideranno gli obiettivi di fondo, sono i candidati, i sostenitori e gli elettori della lista L’altra Europa con Tsipras.
Lo fanno con un programma messo a punto durante le varie fasi attraversate nel corso del cammino intrapreso, a partire dall’appello iniziale per continuare con la selezione dei candidati, la raccolta delle firme e la campagna elettorale più povera della storia (perché interamente autofinanziata), ma la cui elaborazione proseguirà anche dopo il 25 maggio, con il sostegno che comitati, associazioni, movimenti, intellettuali ed esperti che sostengono la lista continueranno a fornire ai nostri parlamentari.
Ma i tre principi contenuti nella dichiarazione programmatica di Alexis Tsipras bastano a definirne l’orientamento e l’ampiezza di quel programma:
(1) abolizione di tutti i trattati e gli accordi che regolano le politiche di austerità, rinegoziazione e drastica riduzione del debito pubblico dei paesi sottoposti alle politiche «lacrime e sangue» della Bce o della Troika;
(2) riconversione in senso ecologico dell’apparato produttivo;
( 3) politiche di inclusione nei confronti dei migranti, delle minoranze, dei diversi, dei privi di reddito e di diritti.
Per seguire una rotta come questa non basta picchiare i pugni su un tavolo; bisogna mobilitare la cittadinanza, organizzata e non, di molti paesi, promuovere alleanze, perseguire fratture nel campo avversario, voler negoziare e saper accettare, forse, anche qualche compromesso.
Storia, memoria del dolore e polemica politica sono puntualmente aggrovigliate tutte le volte che palestinesi e israeliani tornano a trattare di Olocausto. Avveniva quando il mondo arabo in toto abbracciava le tesi negazioniste e si ripete oggi, che il presidente palestinese per la prima volta denuncia pubblicamente e senza ombre la Shoah come «il crimine più odioso contro l’umanità nella storia moderna». Mahmoud Abbas ha reso noto ieri, tramite l’agenzia palestinese Wafa , una dichiarazione mirata a fugare ogni dubbio sulla condanna dello sterminio nazista di sei milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Un’occasione ai suoi occhi per cercare tra l’altro di rilanciare i colloqui di pace, proprio in concomitanza della «Giornata della Memoria», ormai assurta a cerimonia centrale della liturgia statuale israeliana. Nel documento esprime il suo «cordoglio per le famiglie delle vittime» e aggiunge: «L’Olocausto riflette un concetto di discriminazione etnica e razziale che i palestinesi rifiutano e combattono con determinazione».
«». La Repubblica
| Manca meno di un mese alle elezioni. Riassunte, nel dibattito pubblico, dal voto europeo. E, insieme, politico. Italiano. Perché non c’è voto, in Italia, che non abbia effetti sul piano politico nazionale. Così la consultazione del 25 maggio sembra ridursi a due quesiti. Pro o contro l’Europa — e, in primo luogo, l’euro. Pro o contro Renzi — e, di conseguenza, pro o contro Grillo. Ci si dimentica che il 25 maggio avranno luogo anche altre elezioni.Non irrilevanti, per numero e importanza. Si voterà, infatti, anche per eleggere i sindaci e i consigli in oltre 4000 comuni, quasi la metà di quelli italiani. Tra questi, 27 capoluoghi di provincia e 14 città con oltre 100 mila abitanti. Inoltre, si eleggeranno il Presidente e il Consiglio di due Regioni: il Piemonte e l’Abruzzo.
Dunque, in Italia si voterà per l’Europa, ma anche per numerosi Comuni e due Regioni. Ma è significativo che molti non lo sappiano. L’alto grado di incertezza rivelato dai sondaggi, insieme al peso delle astensioni, inoltre, riflette anche un elevato livello di non conoscenza. Difficile chiedere agli intervistati se e per chi voteranno, quando molti di loro non sanno per che e per chi saranno chiamati a votare. D’altronde, la campagna elettorale non è ancora partita. Nelle strade non si vedono manifesti. Né volantini, nelle cassette postali. Tanto meno si incontrano volontari, nelle strade e nei mercati. Ma questa è un’altra storia. Riguarda la scomparsa della politica sul territorio. Anche se, in fondo, la rimozione delle prossime scadenze elettorali evoca lo stesso problema. La stessa tendenza. Il declino del territorio. O meglio: la perdita dei riferimenti territoriali. Vent’anni fa avveniva esattamente il contrario. I sindaci erano i nuovi sovrani. I veri capi della Nuova Repubblica. Eletti direttamente dal popolo. Insieme ai presidenti di Provincia. Come sarebbe avvenuto, negli anni a seguire, anche per i presidenti di Regione, pretenziosamente ri-nominati, per analogia con gli Usa, Governatori. Vent’anni fa: il territorio veniva agitato come una bandiera. Come il federalismo. Marcava la lotta contro lo Stato centrale. E contro il vecchio ceto politico. Contro i partiti “romani”. In fondo, lo stesso Berlusconi, anche se aveva definito il suo partito personale Forza “Italia”, era il capo di Forza “Milano”, in marcia “contro Roma” insieme alla Lega “Nord”. La sinistra, invece, appariva minoritaria, perché anch’essa localizzata, fin troppo, all’interno degli stessi confini di un tempo. Le regioni rosse dell’Italia centrale. Una sorta di Lega Centro (per citare Marc Lazar). Quest’Italia dei Comuni e delle Regioni aveva la sua cornice naturale nell’Europa. L’Italia: il Paese più europeista d’Europa. E al tempo stesso il più localista e antistatalista. Anzi: proprio per questo. Tanto più europeista — e localista — in quanto più lontano e disincantato nei confronti dello Stato. Ebbene, in vent’anni, tutto sembra cambiato. E, senza quasi accorgersene, gli italiani hanno perduto fiducia nel territorio. In tutti i principali ambiti di governo locale. Basta tornare all’ultimo Rapporto su “ gli italiani e lo Stato” ( dicembre 2013). Da cui emerge il calo (meglio sarebbe dire: il collasso) della fiducia verso i Comuni. Oggi “stimati” da circa il 30% dei cittadini. Cioè: quasi 20 punti in meno rispetto a fine anni Novanta. Mentre la fiducia verso le Regioni, nello stesso periodo, si è dimezzata e oggi supera, di poco, il 20%. Così, non deve stupire la rimozione delle elezioni amministrative, che si coglie in questa fase. Rispecchia la progressiva marginalità dei governi locali nel sentimento dei cittadini. Che non ha paragoni, negli altri Paesi europei. Visto che la fiducia nei confronti dei Comuni e delle Regioni, in Italia, risulta, di gran lunga, la più bassa in un’indagine condotta anche in Francia, Spagna, Germania e GB ( Pragma per l’Oss. Europeo sulla Sicurezza di Demos, Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, gennaio 2014). Abbiamo, dunque, perduto il nostro “ancoraggio” al territorio. E i partiti territoriali, non a caso, galleggiano faticosamente. Non solo la Lega, ma anche Forza Italia, pardon: Forza Milano. I quali, non per caso, per sopravvivere si affidano al sentimento anti-territoriale. O meglio anti-europeo. D’altronde, la fiducia nella Ue è crollata, quanto e più di quella verso i governi locali. Oggi è scesa intorno al 28%. Oltre 20 punti meno rispetto a dieci anni fa. Circa la metà rispetto alla Germania, ma 10 punti in meno anche rispetto alla Spagna (Oss. Europeo sulla Sicurezza). Così, ci ritroviamo senza riferimenti territoriali. Abbiamo perduto la fede nei Comuni e nelle Regioni. Mentre delle Province ci siamo sbarazzati senza neppure discuterne, a livello sociale. Cancellate, come una voce di spesa, un capitolo della spending review. Senza rimpianti e senza proteste. Il federalismo, d’altronde, chi l’ha visto? Tuttavia, ci sentiamo lontani e delusi anche dall’Europa. A cui restiamo attaccati solo per paura. Di quel che ci potrebbe capitare se ne restassimo fuori. Non per questo abbiamo recuperato fiducia nello Stato. Anzi. Lo Stato è un participio passato. Perché oggi esprime fiducia (si fa per dire…) nei suoi confronti circa il 13% dei cittadini. Cioè: quasi nessuno. Così non ci dobbiamo sorprendere se, per paradosso, il leader politico più popolare, oggi, Matteo Renzi, è stato sindaco e, prima, presidente di Provincia. Né che la maggioranza dei veneti si dica d’accordo con la rivendicazione di indipendenza. Perché Renzi appare un capo. Senza partito — e senza territorio. Mentre l’indipendenza veneta non evoca una patria diversa e alternativa. Ma l’in-dipendenza dallo Stato e da ogni altra istituzione territoriale. Comune o Regione. Per non parlare delle Province, che non esistono più. Oltre che dall’Europa. Un non-popolo senza patrie. Senza identità. Un Paese di apolidi. A questo rischiamo di ridurci, se non tentiamo, almeno, di resistere all’abolizione del territorio. Non solo dall’orizzonte (geo) politico. (A proposito: la Crimea da che parte sta?) Ma dal nostro “limes personale”. Dal nostro linguaggio. Dalle mappe che orientano la nostra vita quotidiana. |
«Giovanni annuncia a una cattolicità chiusa in se stessa una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, Francesco la realizza in nome di un Dio tutto perdono e misericordia. Sotto quest’arco si è disteso il deserto di una rimozione del Concilio, e attraverso di esso è passata la Chiesa di Giovanni Paolo II».
L’Unità, 27 aprile 2014. C’è un arco che con un salto di 50 anni unisce Giovanni XXIII e Papa Francesco, e quest’arco poggia su due pilastri. Il primo è quello dell’11 settembre 1962 quando papa Giovanni, un mese prima dell’inizio del Concilio da lui convocato, ne definiva la ragione ed il fine, dicendo che «in faccia ai Paesi sottosviluppati» la Chiesa si presentava «come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Il secondo è quello del 13 marzo 2013 quando al Papa Bergoglio appena eletto l’amico brasiliano cardinale Hummes disse nella Sistina di «ricordarsi dei poveri», e lui scelse il nome di Francesco
Dunque Giovanni annuncia a una cattolicità chiusa in se stessa una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, Francesco la realizza in nome di un Dio tutto perdono e misericordia. Sotto quest’arco si è disteso il deserto di una rimozione del Concilio, e attraverso di esso è passata la Chiesa di Giovanni Paolo II. È una Chiesa che soprattutto ha cercato di rafforzare le sue schiere, di debellare i suoi nemici, di celebrare i suoi trionfi, una Chiesa che Papa Wojtyla ha guidato verso una restaurazione delle glorie antiche di una cristianità signora dell’Europa e anima dell’Occidente: restaurazione che non è riuscita.
Ciò è avvenuto per molte ragioni. La prima è che il Papa polacco ha creduto che per restaurare la Chiesa bastasse restaurare il papato, portandolo al massimo della visibilità consentita dai tempi; la seconda è che da quel deserto, senza la fede ripensata e rinnovata dal Concilio, non c’era come uscire; la terza è che Papa Wojtyla ha creduto che la crisi della religione in Occidente fosse il frutto avvelenato dell’ateismo comunista, e che sconfitto quello il mondo non sarebbe caduto nell’edonismo della società dominata dal denaro, ma sarebbe stato «sollecito delle cose sociali»; e la quarta è stata che quando egli ha voluto fare il Papa non come piaceva alle grandi masse guidate dai «media», ma come contro ogni convenienza gli imponeva il Vangelo, e ha rotto la solidarietà con l’America opponendosi risolutamente alla guerra contro l’Iraq, l’Occidente lo ha oscurato e lo ha depennato come leader, confinandolo nel mito devozionale della sua santità privata.
È con questa storia alle spalle che le due canonizzazioni, di papa Giovanni e papa Wojtyla arrivano per una casuale coincidenza alla contemporanea proclamazione di oggi. Esse sembrano compensarsi, eppure sono assai diverse tra loro. Nel caso di Giovanni Paolo II quando la folla dei fedeli, emozionata per la sua morte, diceva «Santo subito», pensava alla sua santità personale, al modo in cui aveva reagito all’attentato, alla popolarità che si era guadagnata, alla sofferenza della sua malattia. Nel caso di Giovanni XXIII quando fu presentata la proposta che fosse il Concilio a proclamare la sua santità, senza processo canonico e il corredo di appositi miracoli, l’idea era che venisse esaltata proprio la santità del modo in cui Roncalli aveva esercitato il ministero petrino, aveva interpretato il suo ruolo di Papa.
La santità di papa Giovanni veniva da lontano. Si era costruita lungo tutta la vita all’insegna dell’oboedientia et pax, obbedienza e pace, suo motto episcopale, ma poi si era trasfusa nella imprevedibile decisione di convocare il Concilio per riportare a un mondo incredulo la fede, nella convinzione che da duemila anni il Cristo non aspettasse altro «con le braccia aperte sulla croce», come Roncalli confidò al suo segretario Capovilla il 24 gennaio 1959, la sera prima di darne l’annuncio ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le mura.
Erano stati Giuseppe Dossetti e il cardinale Lercaro, sostenuti dalla «scuola di Bologna», ad avere l’idea che il Concilio Vaticano II non potesse concludersi senza un grande gesto riepilogativo del suo significato e della sua visione del futuro, e che questogesto potesse e dovesse essere la canonizzazione conciliare di papa Giovanni. Ma Paolo VI non aveva voluto, timoroso di rompere le procedure rituali e sapendo che la ricezione nella Chiesa del Vaticano II avrebbe incontrato difficoltà e conflitti di interpretazione che avrebbero potuto ripercuotersi sull’istituzione pontificia sovraesposta da un Papa santificato dal Concilio. E così la proposta fu presentata in aula dal vescovo Bettazzi, ausiliare di Bologna, perché restasse agli atti anche se destinata a non essere accolta.
Oggi quella profezia si avvera. Papa Francesco, ricordandosi di San Paolo che lasciava ai Giudei di «chiedere miracoli» per predicare invece «Cristo crocefisso», non ha chiesto i miracoli di Papa Giovanni per farlo santo, perché il suo miracolo è il Concilio. Così, dopo cinquant’anni, il cerchio si chiude; ma come sarebbe stato se fosse stata proclamata dal Concilio, il significato della santità di Papa Giovanni è rimasto immutato: è la santità di un modo straordinario di fare il Papa, è la santità di «un cristiano sul trono di Pietro».
Il mondo cambia in fretta. Il fondatore di
Repubblica comincia a vedere Renzi com’è; ma dà la colpa della riabilitazione di B. ai magiistrati anziché al Re. La Repubblica, 27 aprile 2014
I versi del titolo che avete appena letto fanno parte della poesia “L’incontro de li Sovrani” che è tra i più divertenti componimenti di Trilussa e bene si attaglia ai temi che l’attualità politica ci presenta.
Il decreto che taglia di dieci miliardi il cuneo fiscale e li destina a dieci milioni di italiani lavoratori dipendenti sotto forma di bonus in busta paga nella misura di 80 euro al mese è già stato approvato dal Parlamento e pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale. Dunque è ormai legge dello Stato. Avrà esecuzione a partire dal primo maggio e gli 80 euro saranno pagati nelle buste paga del 27 di quel mese e così fino al 31 dicembre di quest’anno. Otto mesi, 640 euro in totale, destinati a chi è al lavoro almeno dal primo gennaio del presente anno.Il beneficio è riservato ai percettori di un reddito superiore a 8mila euro annui fino ad un tetto di 24mila. Poi, da 24 a 26mila gli 80 euro diminuiscono nettamente e dopo quel tetto cessano del tutto.
Se tuttavia l’occupazione del lavoratore ha avuto inizio dopo il primo gennaio del 2014 gli 80 euro per ogni mese di mancato lavoro diminuiscono. La media reale della somma percepita dai lavoratori interessati a quel beneficio non è dunque di 80 ma soltanto di 53, come ha calcolato Gianluigi Pellegrino sulla scorta dei dati esistenti. Il beneficio cioè viene corrisposto per otto mesi purché ne siano stati lavorati dodici. Non si tratta di una truffa ma di una esplicita condizione nascosta da un numero inesatto: non 80 ma 53. La differenza non è poca. Poi ci sono altre provvidenze che riguardano una diminuzione dell’Irap e alcuni interventi per l’occupazione dei giovani.
Seguono : il restauro di scuole malandate e il pagamento di cinque miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, grazie al quale, quando sarà il momento, il Tesoro incasserà l’Iva.
Le coperture sono alquanto raffazzonate e alcune di incerta realizzazione nel corso dell’anno. Ne abbiamo già dato conto nei giorni scorsi concludendo che l’intervento è piuttosto uno “spot” che un vero e strutturato programma. Quest’ultimo è allo studio del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dovrebbe esser pronto e varato entro il gennaio del 2015, valido fino a tutto il 2016. Questa è la manovra, questa è la speranza di crescita del Pil derivata da un tangibile aumento dei
consumi. Andrà così? Noi tutti lo speriamo e ne avremo un primo segnale nel prossimo autunno. Ma se quel segnale non ci fosse e i consumi restassero al palo dove già sono da anni, la manovra di rilancio sarebbe fallita, senza dire che quand’anche i consumi recuperassero quella dinamica che da tempo hanno perduto, nessun nuovo posto di lavoro ne deriverebbe poiché le imprese hanno ampi margini di produzione inutilizzati e disponibili a soddisfare nuova domanda senza bisogno di accrescere l’attuale base occupazionale. La nuova occupazione tarderà dunque a venire, salvo che siano messi in moto nuovi investimenti di carattere pubblico, soprattutto nell’edilizia e soprattutto in cantieri locali e nazionalmente diffusi; ma qui subentra un benestare europeo che è quasi certo ci sia riconosciuto a condizione che siano state avviate nuove riforme destinate ad accrescere la competitività, a semplificare l’amministrazione e a modificare l’architettura costituzionale in senso conforme alla nuova politica economica. Riforme che riguardano i contratti di lavoro, l’innovazione imprenditoriale, il superamento del bicameralismo perfetto. E quindi la riforma del Senato, che è un punto chiave di tutto il sistema.
Questo è il quadro della nostra politica nei prossimi due anni, già previsto e avviato dal governo di Enrico Letta e dal suo cronoprogramma che aveva come termine la fine del semestre europeo a presidenza italiana alla fine dell’anno in corso. Poi, secondo Letta, elezioni politiche nella primavera 2015. Il cronoprogramma di Renzi punta invece alla fine naturale della legislatura, nella primavera del 2018, sempre che le imminenti elezioni europee del prossimo 25 maggio non diano risultati tali da modificare gli attuali equilibri politici. In che modo e con quali prospettive?
* * *
Berlusconi non starà fermo e l’ha già cominciato a dimostrare nella recente uscita alla trasmissione di “Porta a Porta” di tre giorni fa. Poi comincerà (è già in corso) una sua vera e propria occupazione televisiva da campagna elettorale, ad Agorà, a Mediaset, da Santoro, da Mentana, forse anche dalla Gruber e forse a Ballarò, più comizi nei teatri e messaggi ai vari club a lui intestati. Ma qui, prima di esaminare le sue posizioni politiche, una premessa è necessaria.
Non voglio manifestare odio persecutorio nei confronti d’un personaggio che sfiora ormai gli 80 anni e che da vent’anni è il leader d’un partito che ha governato per dodici anni ma ha dominato il panorama italiano anche quando era all’opposizione. Voglio però manifestare un sentimento che spero non sia soltanto mio ed è una grande vergogna che provo per il mio Paese e per me stesso che ne faccio parte. Berlusconi ha alimentato i comportamenti e i sentimenti peggiori di quella parte del popolo italiano disponibile a farsi sedurre dalla demagogia o raccolto in clientele lobbistiche o addirittura para-mafiose. Il suo conflitto d’interessi sarebbe stato condannato in qualsiasi Paese democratico e invece perdura tuttora. I suoi comportamenti privati hanno leso l’obbligo costituzionale di onorare con la propria presenza adeguata le cariche pubbliche di cui si è titolari.
Infine sono stati accertati o sono in corso di accertamento reati gravi, alcuni dei quali sono stati da lui resi leciti con apposite leggi “ad personam”, altri prescritti per la lunghezza imposta ai relativi processi. Alcuni però sono in corso e hanno già dato i primi risultati con pesanti condanne in primo grado ed anche in appello. Altri hanno da poco registrato il rinvio a giudizio. Uno infine ha condotto ad una sentenza definitiva per frode fiscale ai danni dello Stato, con quattro anni di condanna, dei quali tre coperti da indulto, e interdizione di due anni dai pubblici uffici.
Tale sentenza è stata promulgata un anno fa, è stata materializzata in affidamento a servizi sociali ed è stata qualificata da una lunga e dettagliata ordinanza del giudice di sorveglianza della Corte d’Appello di Milano. Nel seguente modo: andrà per quattro ore alla settimana in un ospizio di vecchi e disabili, sarà libero di muoversi in tutti i giorni seguenti entro un tassativo orario dalle 23 della sera alle 6 del mattino nel quale orario dovrà
risiedere nella casa dove ha scelto di domiciliare. Potrà andare in televisione, alla radio o in qualunque altro luogo per occuparsi di politica con piena libertà di parola e di contatti con i suoi collaboratori. Gli è stato sequestrato il passaporto affinché non sia tentato di abbandonare il Paese. Questo è il modo con il quale sarà eseguita una sentenza che prevede quattro anni di prigione domiciliare.
Ebbene, io provo vergogno per il mio Paese, per me che ne faccio parte ed anche per una magistratura che consente quanto sopra esposto. Mi piace dire che ne ho parlato qualche sera fa con la signora Severino, avvocato, docente universitaria ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti, autrice della legge sulla corruzione. La Severino manifestava i miei stessi sentimenti, cosa che mi ha dato molto conforto pur avendo, la Severino, idee politiche alquanto diverse dalle mie. Le persone perbene la pensano egualmente sui problemi dell’etica pubblica. Purtroppo non sono molte numerose.
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Ed ora veniamo all’attuale posizione di Berlusconi già in piena campagna elettorale. I sondaggi danno il suo partito in sostanziale declino, ma ancora attorno al 20 per cento di chi è disponibile a votare (non più del 60 per cento degli elettori).
Il leader, indiscusso perché privo di successori, di Forza Italia ha una tattica ed una strategia elettorali. La tattica è quella che abbiamo già visto da Vespa: rinnega la riforma del Senato preparata da Renzi, critica le modalità del taglio del cuneo fiscale, si dice perplesso sulle altre riforme e ostenta una posizione euroscettica di fronte all’Europa. Ma subito dopo conferma la sua alleanza con Renzi, critica le toghe rosse e la sinistra e fa i complimenti al leader del Pd che non ha niente a che vedere con la sinistra e insulta Napolitano (tanto per cambiare). Non mancano gli apprezzamenti verso Travaglio e Santoro e qualche strizzata d’occhio agli alfaniani e ai centristi.
Una tattica di galleggiamento che ha l’obiettivo di recuperare gli astenuti che vengono dal suo Pdl, attrarre gli incerti, prendere qualche distacco non tanto da Renzi quanto dal Pd. E riguadagnare voti senza parlare di prossime elezioni politiche.
Ma la strategia è alquanto diversa. Lui sa che se passa la cosiddetta legge elettorale Italicum con tutta probabilità sarà Grillo ad affrontare Renzi al ballottaggio. In realtà la legge elettorale che più gli conviene non è quella che punta esclusivamente sulla governabilità riducendo a carta straccia la rappresentanza e eliminando di fatto il Senato. Questo assetto sembrerebbe preparato apposta per lui se fosse ancora il primo come per vent’anni è stato nella classifica elettorale; ma se sarà come è probabile il terzo la legge che preferisce è la proporzionale e il criterio della rappresentanza come elemento principale. In questo modo il Parlamento sarebbe parcellizzato e non ci sarebbe altra soluzione che di perpetuare le “larghe intese”.
Questa è la strategia, alla quale la legge residuale lasciata dall’abolizione del “Porcellum” offre piena soddisfazione. Perciò si voti presto, non oltre il 2015. E intanto tiene Grillo sotto osservazione. Con Grillo non sarà mai alleato ma oggettivamente i loro populismi convergono, è un caso tipico del marciare separati per colpire uniti. Anche nei confronti dell’Europa. Dell’Europa sia Grillo che Berlusconi se ne fregano.
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Di fronte a questo scenario il centrosinistra, il riformismo radicale del Pd forgiato dall’Ulivo di Prodi e messo a punto da Veltroni col programma del Lingotto, sarebbe la sola risposta seria. Purtroppo non è quella di Renzi. L’attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio come per l’altro è stato Dell’Utri.
Bastano forse questi nomi per comprendere che la qualità di Renzi è cento volte maggiore di quella dell’ex cavaliere. Ma si tratta pur sempre di due dongiovanni, con una differenza di fondo: Berlusconi finirà nell’abbraccio d’un Convitato di pietra che metterà la parola fine alle sue imprese. Renzi troverà invece un Figaro che venda per lui una “pomata fina” di ottima qualità. Ormai Renzi fa parte dei quadri della politica ed ha le qualità e la grinta per rimanerci. Potrà essere un eccellente primo violino; un direttore d’orchestra no. Sebbene nello strano Paese che è il nostro tutto possa accadere.Se i consumi restassero al palo la manovra di rilancio sarebbe fallita Quand’anche riprendessero la nuova occupazione tarderà a venire
«La creazione della moneta “comune” senza un governo politico europeo è stata una scelta deliberata, quella di togliere agli Stati il potere di decisione nel campo della moneta e conseguentemente della finanza».
Il manifesto, 26 aprile 2014 (m.p.r.)
Non è ragionevole confondere lo strumento (la moneta “comune” europea, l’euro) con le cause strutturali del fallimento delle politiche di “crescita”, di convergenza economica e d’integrazione politica dell’Europa. Essendo un simbolo forte della Mala Europa, l’euro è diventato un bersaglio troppo facile e immediato su cui scaricare la giusta rabbia dei cittadini europei per una Unione europea i cui gruppi dominanti hanno sbagliato tutto. Ma ciò non è sufficiente per costruire un’Altra Europa: bisogna andare al cuore dei problemi ed attaccare il sistema edificato ed imposto nel corso degli ultimi trent’anni, di cui l’euro è uno degli ingranaggi più recenti.
Il punto critico è distruggere la tenaglia mercato/finanza che ha stretto in una morsa mortale le società europee soffocando lo Stato dei diritti e la giustizia sociale, devastando la ricchezza collettiva (i beni comuni), demolendo le già deboli forme di democrazia rappresentativa e partecipata. Distruggere la tenaglia significa ridare ai cittadini europei la capacità di costruire un futuro hic et nunc.
A partire dagli anni ’70, le classi dirigenti europee si sono trovate ad affrontare una serie di grossi problemi: la crisi ambientale dello “sviluppo”, il collasso del sistema finanziario mondiale (1971–73), la fine del dominio dei paesi occidentali sul prezzo del petrolio (1973, 1978), l’emergenza dei paesi del “Terzo Mondo” e, soprattutto, la rivolta dei detentori di capitale contro la riduzione dei tassi di profitto per il capitale privato, intervenuta negli anni ’60 e ’70, conseguente al buon funzionamento dello Stato del Welfare. Questo aveva consentito un riequilibrio nella redistribuzione della ricchezza prodotta a favore dei reddito da lavoro e della ricchezza collettiva (beni e servizi d’interesse generale). A livello europeo si trattava di superare l’impasse in cui i conflitti d’interesse fra i gruppi dominanti “nazionali” avevano condotto l’integrazione economica e politica dell’Europa.
Accecati dai dogmi del capitalismo mercantilista e finanziario, dalla bramosia di arricchimento e di potenza, i gruppi dominanti hanno creduto di risolvere i problemi dando il potere di regolazione e di controllo (“le regole della casa”) al mercato ed alla finanza, i creatori di ricchezza in un’economia capitalistica. In nome dei principi della liberalizzazione, della mercificazione e della privatizzazione dei beni e dei servizi, hanno creato (nel 1992) il “mercato comune europeo” e favorito la creazione (nel 1994) dell’Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio). L’importanza del potere attribuito al mercato sta nel fatto che cosi facendo i gruppi dominanti hanno affidato il potere di regolazione e di controllo del valore delle cose e di definire le priorità ai meccanismi di scambio e al principio della massimizzazione delle utilità individuali concorrenti, togliendolo alla collettività e alle autorità politiche statuali. Tant’è che in pochi anni l’Unione europea ha sancito che ogni intervento dei poteri pubblici nelle materie sottomesse al mercato interno europeo era nocivo e quindi illegale perché fattore di distorsione dei meccanismi regolatori del mercato. Più mercato con Stato zero (tendenzialmente), è stato il blocco di ferro su cui hanno forgiato la prima ganascia della tenaglia .
E’ però difficile far funzionare dei mercati integrati senza una moneta comune sulle cui basi sviluppare le attività finanziarie ed organizzare i mercati finanziari. Da qui la formazione del secondo braccio di ferro della tenaglia: la creazione dell’euro, la moneta unica, senza però creare un potere politico pubblico europeo (1997/2000) responsabile della politica monetaria e finanziaria. La politica monetaria è stata affidata ad una nuova istituzione, la Banca Centrale Europea politicamente indipendente dalle istituzioni dell’Unione. Nemmeno il Parlamento europeo, rappresentante eletto di 509 milioni di cittadini, può dire qualcosa alla Bce. Questa è l’unica banca centrale al mondo interamente sovrana sul piano politico.
Altro che democrazia! La creazione della moneta “comune” senza un governo politico europeo è stata una scelta deliberata, quella di togliere agli Stati ed ancor più ad un eventuale “governo federale europeo democraticamente legittimato” il potere di decisione nel campo della moneta e conseguentemente della finanza. Cosi, la responsabilità della politica finanziaria è stata data agli operatori finanziari, sempre più internazionali/globalizzati, attraverso le misure prese a partire dagli anni ’80 quali:
- abbandono dei controlli sui movimenti internazionali dei capitali, dopo l’abbandono nel 1973 dei tassi di cambio fissi tra le monete e conseguente esplosione dei mercati delle divise, nido prolifico degli speculatori.
- privatizzazione di tutti gli operatori finanziari e eliminazione della distinzione tra attività assicurative e bancarie, tra banche di deposito e di credito, e tra i vari settori bancari (agricolo, industriale, commerciale, artigianato, lavoro),
- legalizzazione degli hedge funds (fondi d’investimento) altamente speculativi — fino a giungere recentemente alle transazioni finanziarie “ad alta frequenza” cioè ai millesimi di minuto — da cui sono nati i prodotti derivati che sono stati alle origini delle gravi crisi finanziare del 2001 e del 2008 che hanno distrutto decine e decine di milioni di posti di lavoro.
Quest’insieme di misure ha dato vita ad un sistema finanziario detto “la banca totale”, iper-oligopolistico, contrassegnato dall’emergenza di enormi complessi finanziari privati tanto potenti da diventare too big to fail pena il collasso globale del sistema capitalistico mondiale. L’intera economia è così scappata al controllo pubblico, il potere politico è stato privatizzato, la sovranità politica degli stati nazionali è stata ridotta a pura formalità . Il Patto di bilancio 2012–14 (FiscalCompact) rappresenta l’ultima mossa dello schiacciamento della sovranità degli Stati dell’Ue. In queste condizioni il problema non è di uscire o restare nell’euro — né tantomeno di creare una moneta veneta o di aggiungere all’euro una nuova moneta italiana — ma di rompere la tenaglia e liberare le società europee dalla morsa mercato/finanza cambiando radicalmente un intero sistema monetario, finanziario, economico, legislativo e politico sostanzialmente malefico.
Il Regno Unito non è mai entrato nell’euro e apparentemente ha conservato la sovranità nazionale sulla sua moneta. Eppure, il Regno Unito è diventato una delle società più ineguali, più ingiuste e meno democratiche dei paesi sviluppati del mondo. Il popolo inglese non è affatto libero, è sottomesso alle decisioni dei poteri mondiali finanziari della City. Inversamente, restare nell’euro come affermano Schultz, Barroso, Merkel, Hollande, Juncker e tantissimi altri leaders politici (quali Renzi) , significa mantenere la Mala Europa, rinforzare le cause che conducono alla crescita della disoccupazione ed alimentare i fattori strutturali all’origine dei processi d’impoverimento in Europa (quasi 120 milioni d’impoveriti nel 2012 in seno all’Ue) e conservare un’Europa che continua a considerare clandestini chi cerca di immigrare in Europa e non possiede un diploma universitario elevato.
Occorre lavorare su soluzioni strutturali precise: azzeramento del debito pubblico derivato dalla crisi del sistema finanziario; eliminazione dell’indipendenza politica della Bce; rientro delle banche centrali sotto il controllo pubblico; ripubbliccizzazione delle casse di risparmio e delle banche cooperative e delle principali banche d’interesse pubblico generale; uscita dei beni e dei servizi comuni pubblici (come l’acqua, la casa, la salute, le sementi, l’educazione) dalle logiche mercantili e divieto d’intervento in detti campi alle imprese quotate in borsa; politiche fiscali e di controllo della speculazione finanziaria (paradisi fiscali, rendite, messa fuori legge dei prodotti derivati e degli hedge funds…), impulso alla rinascita delle forme economiche cooperative e mutualistiche a forte orientammento locale (nuovo sviluppo dell’agricoltura biologica e dell’agricoltura contadina…), moltiplicazione delle “monete locali” (rivolte a liberare i rapporti umani dalla monetarizzazione, del tutto diverse dalle fumose “micromonete” nazional-indipendenti).
«C’è una fetta d’Italia che sta unificando le diverse voglie di partecipazione democratica su progetti concreti: e il primo è il “no” alle spese militari. Il nostro paese è impoverito e provato: deve fare scelte responsabili. Scegliere fra investire nel lavoro o in armamenti vuol dire decidere tra vita o non vita».
La Repubblica, 26 aprile 2014 (m.p.r.)
VERONA . Niente cerimonie nazionaliste, o tanto meno riti militaristi: «La Resistenza non si lascia imbalsamare», ride Lidia Menapace, staffetta partigiana e oggi novantenne lucidissima. «Possono coincidere la lotta contro i nazifascisti e gli ideali non violenti? Guardi, io non ho mai voluto armi, non ho nemmeno imparato ad usarle. Ma portavo addosso il plastico, per far saltare i ponti e fermare le truppe naziste. Perché la violenza è monotona, la non violenza è creativa e sorprendente ».
«Ucraina. Mentre le scene di guerra aumentano, il nano politico - con rispetto ai nani - dell’UE si nasconde, quello dell’Italia è vuoto assoluto che compra e assembla aerei da guerra e concede basi militari a danno del territorio».
il manifesto, 26 aprile 2014, con postilla
Le scene ormai sono quelle di una guerra. Una nuova guerra. Dire che il mondo guarda attonito e spaventato vorrebbe dire raccontare l’ennesima bugia. Perché l’Europa che politicamente non esiste e tantomeno ha una sua politica estera, partecipa volente o nolente alla strategia di allargamento della Nato a est. Che, a quanto pare, comincia a dare i suoi frutti. Avvelenati. Ma andiamo per ordine. Mercoledì e giovedì è scattata l’offensiva delle forze militari di Kiev contro le regioni orientali russofone insorte.
Dopo le prime dieci vittime, sembrava che il buon senso consigliasse alle truppe speciali ucraine di fermarsi. È forte il rischio che si ripeta la «Georgia 2008», quando dopo l’attacco dei militari georgiani su indicazione dell’ex premier filo-occidentale Shahakashvili contro l’insorta e filorussa Abbazia — un attacco anche allora istigato dalla Nato — intervenne in forze l’esercito russo. Fu una sconfitta militare per Shakashvili che, abbandonato alla fine dall’Alleanza atlantica, fu defenestrato poi a furor di popolo.
Ieri invece la controffensiva di Kiev — chissà che consigli sta dando il capo della Cia John Brennan che Obama ha annunciato come operativo nella capitale ucraina — è ripartita contro altre città dell’est, gli insorti stavolta hanno reagito facendo esplodere un elicottero a terra, perché l’attacco può arrivare anche dall’aria. Come finirà?
Ma di quale legittimità parla? Giacché il governo di Kiev è stato approvato da piazza Majdan in rivolta, con protagonisti in tenuta paramilitare, anche armati e a migliaia con il volto mascherato.
Per quattro mesi gli allegri inviati dei giornaloni occidentali si sono appassionati ad indicarci gli «eroi» che vagavono in piazza, hanno esaltato l’odore di cavolo delle cucine da campo, hanno bevuto il tè offerto dai rivoltosi «belli». Per una rivolta, è bene ricordarlo, il cui contenuto remoto era la corruzione di un regime (comunque democraticamente eletto), ma sostanzialmente dai connotati esclusivamente nazionalisti ucraini, fortemente antirussa — la prova furono i primi provvedimenti contro la legalizzazione della lingua russa -, con una forte presenza organizzata dei miliziani della destra estrema fascista di Svoboda e ancor più di Pravj Sektor.
Questo clima, che meglio sarebbe definire pericoloso guazzabuglio, ruppe con la forza gli argini di un accordo internazionale definito tra Kerry e Lavrov a Monaco il 20 febbraio (con Yanukovich e lo stesso attuale «premier» Yatseniuk) e alla fine approvò — appena liberata l’«eroina Tymoshenko» in realtà oligarca e in galera per avere favorito la Russia nella trattativa sul gas — e instaurò la «legittimità» del nuovo governo e della nuova presidenza Turchynov, uno dei leader della rivolta «mascherata» di Euromajdan. Con oligarchi che passavano da una parte all’altra tranquillamente. E tutto il sostegno attivo degli Stati uniti e dell’Alleanza atlantica
Com’era possibile non immaginare che, a fronte di una «legittimità» che rappresenta nemmeno la metà dell’Ucraina spaccata a quel punto inesorabilmente almeno in due parti, le popolazioni russofile, russofone e russe a tutti gli effetti non facessero la loro di «rivolta di Majdan»? O esistono rivolte di piazze di serie A e quelle di serie B?
La Crimea, russa a tutti gli effetti, è andata per le spicce e si è autoproclamata indipendente chiedendo, subito bene accetta da Mosca, l’adesione alla Russia. La Crimea e tutta l’Ucraina sono la linea di difesa estrema e di sicurezza della Russia. Circondata da Occidente da tutti gli ex paesi del Patto di Varsavia inglobati ormai dentro l’Alleanza atlantica, con tanto di basi, sistemi di guerra, scudi spaziali. Mentre su piazza Majdan non solo il capo della Cia, ma repubblicani, Joe Biden e Kerry sono ormai di casa. Che ci stanno a fare a decine di migliaia di chilometri dagli Stati uniti? Chi destabilizza davvero gli interessi degli ucraini? Che dovrebbero essere democratici e finalmente federali, per una rappresentanza vera del secondo più grande Paese d’Europa, ma anche al di fuori di ogni alleanza militare precostruita.
E contro i vecchi e nuovi oligarchi e i diktat del Fondo monetario internazionale che ora torna in forze ma che durano da anni contro le classi subalterne ucraine. Mentre le scene di guerra aumentano, il nano politico — con tutto il rispetto dei nani — dell’Unione europea si nasconde, quello dell’Italia è un vuoto assoluto che compra e assembla aerei da guerra e concede basi militari a danno del territorio. Vive l’Europa la vergogna, dopo tante esperienze nefaste e di guerre «umanitarie» nei Balcani, di essere diventata soltanto una moneta che riduce in miseria i suoi popoli costituenti, e soltanto un’alleanza militare, la Nato a guida esclusiva degli Stati uniti. La chiamano democrazia occidentale. E odia la pace.
La vicenda della Thyssen di Torino rimane aperta sul piano giudiziario, ma è chiarissima sul piano della politicase è a questa che spetta trasformare la domanda di equità in regole di giustizia. «I manager devono tener conto della sicurezza nei luoghi di lavoro in qualunque delle loro decisioni, comprese le chiusure degli impianti, perché la vita umana non è meno importante dei fatturati e dei bilanci». Ilmanifesto, 25 aprile 2014
Se i giudici della Cassazione accetteranno la richiesta del pg, la strage di lavoratori della Thyssen di Torino sarà giunta a giudizio definitivo con la conferma delle condanne e l’individuazione delle responsabilità già acclarate nei gradi di giudizio precedenti e purtroppo derubricata in appello dall’omicidio volontario all’omicidio colposo con colpa grave. Il giudizio definitivo non può lenire il dolore delle famiglie o colmare il vuoto per la perdita dei loro cari e dei compagni di lavoro. E non rimuove quell’onda di emozione che si propagò nell’intero paese per quelle morti operaie sul lavoro, di quasi l’intera squadra addetta alla linea di decapaggio N 5, unico superstite l’operaio Antonio Boccuzzi, in una fabbrica che stava chiudendo per le scelte di posizionamento internazionale della multinazionale tedesca.
Il politico condannato per reati gravi, che ancora non ha scontato la sua pena, che dunque non ha pagato il suo conto con la società, e che per questo non può rappresentare con “onore” la comunità, torna, come sempre, come prima, a calcare la scena della propaganda elettorale. È l’inizio di una lunga rincorsa mediatica, ascolteremo Berlusconi da tutte le radio, lo vedremo in tutti i talk-show, magari armato di un fazzoletto per pulire le sedie degli ingenui oppositori.
Prima ancora di discutere della parabola di Berlusconi e di Forza Italia, che ormai anche i sondaggisti amici confinano al terzo posto, dopo Pd e Movimento 5Stelle, dovremmo indignarci per la grande farsa nazionale, impensabile in ogni altro paese del vecchio continente visto che andiamo a un voto europeo. Ma su questo sono pochi ormai a eccepire, il berlusconismo ha neutralizzato gli anticorpi.
Che c’è di strano se Berlusconi va in tv a dire come vuole cambiare il paese, se chiama le telecamere di Vespa per denunciare «precise regie» dei giudici che complottano contro di lui, se entra nelle case degli italiani per lanciare accuse contro «la mascalzonata della decandenza», se usa i riflettori per un attacco scomposto a Napolitano, se i tg della sera suonano la grancassa dell’ex cavaliere che fa vacillare il patto per le riforme. Sono divagazioni ai margini dalla profonda sintonia tra l’illusionista e il rottamatore.
Meglio separare la politica dalla morale e passare ad altri, pensosi interrogativi. Come quelli che ieri sulle colonne del Corriere della Sera animavano l’editoriale di Galli Della Loggia, interprete dell’angoscioso interrogativo di Berlusconi e dei berlusconiani («Perché non le abbiamo fatte noi le cose che sta facendo Renzi?»). In realtà la domanda ne suggerisce un’altra: se Berlusconi e i berlusconiani si dolgono per non aver fatto loro le riforme che oggi vedono Renzi protagonista, delle due l’una: o Renzi è di destra o Berlusconi è di sinistra.
Con l’overdose di precarietà offerta dal ministro Poletti, con i tagli a Regioni e Comuni, con i poveri e i pensionati a bocca asciutta, e con i giochi di prestigio inventati dal premier per tirare fuori gli 80 euro, la destra è ovunque. Né sappiamo dove Padoan prenderà gli 80 euro oggi, e soprattutto domani.
Qualche dubbio deve averlo avuto anche il Presidente della Repubblica, a meno di voler inserire Napolitano nel simpatico partito dei “gufi” per aver chiamato al Colle il ministro dell’economia chiedendogli «ulteriori chiarimenti» sulle coperture. O meglio, sul jolly vincente al tavolo del 25 maggio
«Per noi i controlli — dice Toni De Amicis, direttore della fondazione Campagna amica legata alla Coldiretti — sono un toccasana. Sia per i farmers market che per gli agriturismo. Ben vengano Forestale, Finanza, carabinieri, ma siamo noi i primi controllori di noi stessi».
La Repubblica, 25 aprile 2014 (m.p.r.)
«
Le sentenze Berlusconi, Previti e Dell’Utri svelano il fulcro del circuito potere-denaro. La triade è stata il fulcro, della costruzione di un soggetto politico che per lunghi anni ha esercitato il potere ad ogni livello della vita pubblica. Ancora oggi il soggetto creato vent’anni fa è tutt’altro che marginale e le sue prospettive non sono necessariamente perdenti»
. Il manifesto, 25 aprile 2014 (m.p.r.)
L'uso senza limiti del linguaggio iperbolico in un dibattito politico quasi sempre privo di spessore analitico ci sta privando della possibilità di orientarci. Se la politica finanziaria connessa all’attuale gestione dell’euro diventa "Auschwitz". Se ogni approvazione di leggi da parte della maggioranza (spesso davvero ingiuste e intrise di conflitti d’interessi) diventa "colpo di stato". Se la reale tendenza al progressivo concentrarsi del potere in ristrette oligarchie diventa "ritorno al fascismo", ebbene la specificità e il peso di ogni fenomeno scompaiono ed orientarsi in «"una notte in cui tutte la vacche sono nere" è impresa assai difficile. In un articolo apparso su questo giornale qualche giorno fa (15 aprile,Berlusconi-Napolitano «gli esiti criminali della politica separata») ho usato anch’io tinte molto forti. Si tratta, però, e credo che questa affermazione possa reggere l’onere della prova, di un linguaggio con alto grado di mimesi nei confronti della realtà. Il problema è che il fenomeno al centro di quello scritto, se analizzato davvero, è in grado di produrre disvelamenti, tanto sull’oggi che su un itinerario storico ventennale, che i facitori di opinione sembrano impossibilitati a sopportare. Meglio la rimozione.
Naturalmente sarebbe una sciocchezza pensare che il successo di quella forza politica sia derivato da una logica criminale, ma quella logica, tenuto conto del ruolo centrale della triade, ha informato di sé aspetti importantissimi delle pratiche di governo. Inoltre è stato punto di riferimento legittimante di analoghe pratiche locali: il paradigma Cosentino si comprende meglio nell’ambito di tale insieme strutturale.
Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana i gangli fondamentali della vita politica si trovano ad essere intrinsecamente legati a una operazione criminale. Di fronte a tutto ciò ci troviamo a vivere in una situazione di "normalità mostruosa", come potremmo definirla con un ossimoro. Mostruosa: sia come fenomeno straordinario, che suscita stupore, sia come fenomeno orribile. Normalità: in quanto lo svolgimento della vita politica non è assolutamente toccato dalla mostruosità.
Si pensi solo alla leggerezza con cui autorevoli editorialisti di autorevoli quotidiani hanno trattato questo enorme peso che grava su tutta la nostra vita etico-civile. Commentando la sentenza che ha fissato la pena (si fa per dire) rieducativa per il delinquente, ci viene data l’immagine di un uomo "dolorante dietro l’eterno sorriso (…) un uomo che merita rispetto", un uomo i cui errori sono quelli di non aver fatto le riforme promesse, un uomo che però ha definitivamente superato una "guerra giudiziaria" finita da tempo (Massimo Franco, Corriere della sera, 16 aprile). E anche dal fronte pervicacemente antiberlusconiano (la Repubblica), dopo aver messo giustamente in rilievo lo "status particolare" che spiega l’agibilità politica concessa al delinquente, non si fa una piega di fronte alla "necessità" di farne un padre della patria, visto che Renzi avrebbe avuto una via "quasi obbligata" (Massimo Giannini, 16 aprile).
L’espressione "non ci sono alternative", non casualmente una delle preferite da Margaret Thatcher per giustificare la durissima repressione sociale, è, in genere, causa delle maggiori nefandezze. Nel nostro caso non si tratta di "necessità» bensì di una conclamata «sintonia» per una prospettiva di bipartitismo forzoso su cui Renzi e Berlusconi giocano il futuro delle loro fortune politiche. Ma la questione centrale su cui gli autorevoli opinionisti svolazzano entrambi, l’uno auspicando il superamento definitivo di «una guerra finita da tempo», l’altro facendo appello allo stato di necessità, è la compatibilità del quadro che esce dalle sentenze Berlusconi, Dell’Utri, Previti, con qualsiasi ruolo di rilevanza politica, figuriamoci con quello di «padre della patria». In realtà, su questo, la guerra non c’è mai stata.
Il dilemma, in fondo, è piuttosto semplice: le sentenze dicono il vero o sono il frutto della falsificazione di una magistratura politicizzata? La seconda ipotesi è sostenuta, con forza, non solo dai condannati, ma da aree politiche e d’opinione relativamente ampie. Gli autorevoli devono dirci se la condividono o meno. Penso di sì, perché è l’unica ipotesi in perfetta coerenza con i loro svolazzamenti. Diranno che Berlusconi ha i voti e il loro è semplicemente realismo politico. Non di realismo si tratta, invece, ma dell’accettazione, della condivisione di quello stato di necrosi che caratterizza il tessuto connettivo civile in Italia. Ovviamente è del tutto inutile chiedere ai molti «autorevoli» di uscire dal recinto in cui stanno comodi e protetti, ma forse non è inutile chiedere a chi sta fuori il recinto, in vari e articolati modi, di assumere il quadro che emerge dalle sentenze come uno dei problemi essenziali delle iniziative politiche in corso. Il berlusconismo non è il fascismo, certo, ma il solo modo di uscirne davvero è quello della cesura netta, sia pure in forme diverse, con la quale l’Italia è uscita dal fascismo. Sappiamo bene che nemmeno le cesure sono in grado di tagliare davvero la vischiosità profonda dei processi storici, pur tuttavia sono i soli momenti che possono segnare una, seppur parziale, discontinuità radicale.
I compagni, i professoroni, i professori qualsiasi (come chi scrive), devono prendere coscienza che anche questa via d’uscita dal berlusconismo, e da tutti gli affinismi col berlusconismo, è una «via maestra». La battaglia difficile per l’affermazione della lista L’altra Europa con Tsipras non può ignorare il problema. L’Italia deve presentarsi in Europa anche con una forza che rappresenti davvero l’antitesi a un volto del paese sfigurato dal morbo criminal-politico. Frutto di quella «passata di peste» che Paolo Volponi, profeticamente, aveva visto sopraggiungere più di vent’anni fa.
Quella dell'Università «è una funzione civile, dunque né volta all'erudizione, né alla mercantilizzazione: bensì alla formazione del cittadino, la cui premessa è lo spirito critico». Il
manifesto, 25 aprile 2013
Un violentissimo tsunami si è abbattuto sull'università italiana, devastandone le strutture, corrompendo gli ambienti umani, mettendo a rischio la stessa sua sopravvivenza. Ma, sebbene l'uragano abbia investito l'intero sistema accademico, con una serie di fangose, gigantesche onde (contro cui ben poco ha potuto la generosa, spontanea onda pulita degli studenti, lasciati ben presto soli dai docenti), il suo vero, preciso obiettivo era l'università pubblica, le università di Stato. Come che sia, se è vero che stiamo subendo da anni un micidiale combinato disposto nel quale tutte le forze politiche si sono esercitate, per ignoranza, per voluttà del "novitismo", per insipienza, o, più spesso, per complicità con grandi potentati economici, è altrettanto vero che, per dirla in termini semplici, "ce la siamo cercata".
Insomma, l'università, come mondo separato, invece di venire presidiato, dai suoi stessi componenti, come un baluardo del sapere critico, è stato difeso quale mondo che si autogestisce, e la battaglia per l'autonomia è stata interpretata come un riconoscimento di un inquietante: "a casa nostra comandiamo noi". Una difesa errata nella forma oltre che nella sostanza; anche politicamente (ed eticamente) insostenibile. E che ha favorito l'attacco mediatico, a sua volta propedeutico a quello politico, contro gli "sprechi", la "corruzione", e soprattutto l'"inutilità" del sapere che negli atenei italiani si andava producendo: e invece di rivendicare quella "inutilità" come una bandiera di cui andare orgogliosi (sulle nostre insegne avremmo dovuto innalzare il motto für ewig, tra Goethe e Gramsci), troppa parte del mondo accademico ha sostenuto che no, non era inutile la loro scienza. E che essa poteva invece servire. A cosa? Al mercato, naturalmente.
Si è insomma, immediatamente, fin dai primi anni Novanta, consule Berlinguer (ovviamente il Berlinguer ministro di una istruzione non più "pubblica", il primo devastatore del nostro sistema educativo) entrati nel gorgo del mercantilismo, del produttivismo, e di uno sciagurato novitismo o nuovismo. Alcuni, anzi, non pochi hanno sostenuto il mostro del 3 + 2, prima, la legge Gelmini poi, l'Anvur infine, blaterando che non si poteva far diversamente, ovvero (udite, udite!), che comunque si sarebbe trattato di un progresso per un sistema ormai troppo vecchio, e che, magari pur criticandone qualche determinato aspetto, quelle riforme erano essenziali, anche se non ci piacevano, per "entrare in Europa", o peggio, per reggere la competizione internazionale.
Tutto questo penoso argomentar, come è stato dimostrato dagli studiosi veri (non quelli da salotto televisivo o da editoriale del Corriere della Sera), cifre alla mano, era fondato su dati sbagliati, o volutamente corrotti, e infine surrettiziamente interpretati per far passare il messaggio nella famigerata opinione pubblica che i professori italiani sono troppo numerosi, e pagati fin troppo generosamente, che la loro produttività è scarsa, che il criterio del "merito" (l'infame parola!) era stato negletto e vilipeso, e che gli atenei erano meri luoghi di intrattenimento, di consumo di risorse, da impiegare ben altrimenti...
Insomma, nel silenzio degli uni (la maggioranza, davvero silenziosa, per disinteresse o per viltà), si sono udite solo le voci degli altri, i consenzienti, o addirittura gli entusiasti, e comunque i collaborazionisti. In nome del realismo ci si è piegati, ma come quasi sempre quando si invoca quel peraltro nobile concetto della filosofia politica, si è divenuti iper-realisti o addirittura irrealisti, dimenticando funzione e scopi dell'insegnamento universitario, che, come mi ha insegnato Norberto Bobbio, che lo aveva appreso a sua volta da Gioele Solari, è una funzione civile, dunque né volta all'erudizione, né alla mercantilizzazione: bensì alla formazione del cittadino, la cui premessa è lo spirito critico.
Aggiungo, ahinoi, che ben scarsa è apparsa la differenza tra destra e sinistra, e anche tra strutturati e non, e tra le "fasce": certo, legittimamente, chi era fuori voleva entrare, chi era precario aspirava alla stabilizzazione, chi era ricercatore o associato ambiva a salire di grado; e, intanto, gli ordinari - tutt'altro che scontenti dell'accentramento di potere nelle loro mani, che si stava verificando con l'allontanarsi dallo "spirito del Sessantotto" (opportunamente demonizzato da pennivendoli in occasione del quarantennale, che cadeva nel momento d'avvio della crisi, il grande, magnifico alibi dei nostri governanti), anche prima dell'entrata in vigore della "riforma" - gli ordinari si dedicavano essenzialmente a lotte intestine, organizzati per gruppi di potere, per cordate, o, detto diversamente, per bande armate, non di fucili e bombe a mano, bensì di documenti, telefonate, email, sulla base di imperscrutabili calcoli strategici: se magari avessero dedicato qualche ora di più allo studio e alla ricerca, avremmo meno opere fatte di travasamenti di libri in altri libri (per dirla con Benedetto Croce); se si fossero impegnati in proposte e in concrete pratiche di miglioramenti e di pulizia interna, invece di impegnarsi in mediocri trame di potere, il presidio dell'università dai lanzichenecchi tremontiani, sarebbe stato ben più saldo; se si fossero gettati, con l'autorevolezza del ruolo, nella difesa del pensiero critico e nella divulgazione di ciò che è e deve essere il sistema della formazione al livello più alto, oggi intorno allo stesso concetto di riforma esisterebbe un discredito generalizzato invece che un diffuso sebbene per nulla informato consenso.
Insomma, ciò che intendo affermare è che siamo vittime in quanto siamo anche complici. Troppo intenti alla tutela del particulare abbiamo perso di vista il generale, considerando, nella sostanza, l'università tutt'altro che un bene comune. Ma, piuttosto, un trampolino di lancio per carriere interne o esterne (giornalistiche, politiche, e persino economiche). Allora, è imprescindibile la rivendicazione dell'università come bene comune, sottolineando la centralità dell'insegnamento e della formazione a carattere pubblico, e, preciso dal mio punto di vista, pubblico per me significa tre cose: non locale, né privato, né funzionale al mercato. Al riguardo una seria riflessione critica sul tema della cosiddetta autonomia universitaria e in generale scolastica non sarebbe forse da compiere?
Abbiamo subìto una serie incessante di uragani,equamente distribuiti per genere: l'uragano Berlinguer, l'uragano Moratti, l'uragano Gelmini, per tacer dei minori. Tra i quali l'esecutore testamentario della Gelmini, Profumo. Il suo, a ben vedere, non è nemmeno un uragano, né uno tsunami né un ciclone; anzi, manco una tempesta imperfetta. La sua è una piatta, inerte, applicazione di un dispositivo, dei cui effetti praticamente letali non ha fatto le mostre neppure di accorgersi. Anzi, si compiace: con sé, con i suoi predecessori, con il governo tecnico (politicissimo, in realtà) di cui è parte. E intanto lo tsunami, nello scellerato empito "riformatore", dimenticando la nascita europea (forse addirittura italiana) della universitas studiorum, sta tentando un'americanizzazione forzata del nostro sistema, dalle forme, alle strutture, persino alla lingua. E in un disordine tipico del totalitarismo, tra facoltà di cui si è decretata la morte violenta, tra dipartimenti costretti a impuri connubi in nome di un risparmio apparente, tra scuole che nessuno in realtà vuole che nascano davvero, mentre la bufera è ancora in corso, anche se la fase più acuta è passata, marinai perduti (alla Izzo) si aggirano fra i relitti, privi di bussole, alcuni alla ricerca di un isolotto per salvare se stessi, altri più avventurosi pronti ad aggrapparsi a uno scafo, per montarvi sopra, e veleggiare, chissà, verso nuove magnifiche sorti. Che poi non siano affatto progressive poco importa, se l'ottica rimane quella della salvezza individuale.
Sapremo contrapporre una dimensione pubblica anche nella durissima battaglia odierna, tra un governo che ha fatto harakiri, in attesa del governo prossimo venturo? Sapremo dire con voce forte e chiara che la nostra causa è quella dell'intera società? Sapremo convincere che non stiamo difendendo posizioni consolidate, o privilegi, o separatezze dell'universo accademico? Sapremo, infine, metterci in gioco e dare il buon esempio, personalmente, pronti alla lotta anche individuale, ma in connessione con tutti gli altri?
Questo è l'intento che mosse Piero Bevilacqua e il sottoscritto, ormai circa un anno fa, quando lanciammo il movimento per "L'università che vogliamo". E questo è l'intento che dobbiamo, credo, continuare a perseguire, rilanciandolo con vigore, adesso, finché avremo la forza di emettere una voce, possibilmente unisonica, anche se proveniente da ambiti e individui diversi. Che poi la nostra voce trovi orecchie disposte ad ascoltare è altro affare. Ma più forte essa sarà, più avremo speranza che qualche coscienza si scuota.
«». Il manifesto
C'è una piccola fotografia che gira in tutte le redazioni dei giornali asiatici. È del 2012 e raffigura un parlamentare dell’Awami League, il rampante Towhid Jung Murad, che bacia in testa Sohel Rana, il proprietario del Rana Plaza di Dacca, un palazzone malandato di otto piani più uno in costruzione che, la mattina del 24 aprile del 2013, implode su se stesso come se venisse colpito dall’urto di un terremoto. Un «urto» che uccide più di mille persone. Il proprietario Sohel Rana, destinato nel giro di pochi giorni a cadere, come il suo palazzo, dalle stelle alla polvere, diventa il volto del cattivo accusato di strage ma, anche grazie a quella foto, emerge il dettaglio di un antico sodalizio tra politici e speculatori, parlamentari e affaristi, «thug» (banditi) che la fanno franca grazie a chi dà una mano a far timbrare le carte. Anche quelle di palazzinari senza permessi, con materiali scadenti e una solerte rapidità edilizia che gode del grande boom che ha investito il Paese, tanto da aver fatto del settore tessile la prima voce dell’export bangladese.
Oggi Sohel Rana però amici non ne ha più. Lui che era un giovane rampante attivista del braccio giovanile del partito al potere e che, grazie alle sue amicizie anche politiche, era diventato un ras di Savar, zona periferica della capitale, adesso fa i conti con inquirenti che sono andati a spulciare nei permessi, nelle licenze, nei pezzi di carta. Jung Murad, che un anno prima lo baciava in testa, è invece corso tra i primi sul luogo della tragedia: camicia verde ben stirata e piglio da consumato arringatore, lo si vede immortalato mentre, come un po’ tutti han fatto, chiede giustizia per le vittime. Meglio tacere del fatto che Savar è il suo regno e che Rana era tra i suoi amichetti. Quella foto imbarazzante è del resto una delle tante che ha ricostruito i dettagli di quella tragedia, costata la vita a 1.138 persone e che ha lasciato centinaia di malati e invalidi. Oltre a centinaia di famiglie senza impiego perché, dice oggi chi lavorava al Rana Plaza, se hai quel marchio addosso non lavori più. Sohel pagherà per tutti?
Ci son nomi altisonanti con cui collaborano le fabbriche ospitate al Rana Plaza. Illumina la globalizzazione che in Bangladesh mostra uno dei suoi lati meno eccitanti e glamour. Può succedere: che ne sappiamo di come si regola il nostro omologo a migliaia di chilometri di distanza? Ma il problema viene dopo. Ammesso, obtorto collo, di essere coinvolti nel lavoro non tanto solare che si svolgeva a ritmo continuo al Plaza, ora bisogna pagare. Qualcuno lo fa. Qualcuno no. Qualcuno firma l’accordo sulla sicurezza nelle fabbriche, qualcuno invece fa orecchie da mercante su un altro accordo che vincola le aziende a rifondere le vittime. C’è chi sceglie la strada individuale: un po’ di quattrini a qualche charity che si occupi di ripulire l’immagine…
Per essere chiari e venire ai fatti, nonostante sia stato siglato un accordo tra marchi, governo, sindacati e Ong sotto l’egida delle Nazioni unite per predisporre un programma di risarcimento delle famiglie, il Donor Trust Fund volontario, istituito per raccogliere le donazioni, è a secco. Un anno dopo il crollo i marchi e i distributori hanno contribuito con soli 15 milioni di dollari, appena un terzo dei 40 milioni necessari. Sul libro nero ci sono tre società italiane: Benetton, Manifattura Corona e Yes Zee.
Oggi in Italia ci saranno FlashMob a Firenze, Milano e Treviso. Altre azioni sparse per il mondo. A Dacca lavoratori e sindacalisti ricorderanno tutti coloro che hanno perso la vita quel dannato 24 aprile.
«E' come se il baratro fra società e istituzioni si fosse replicato negli ordini simbolici che ci abitano, perché la deriva autoritaria delle riforme di Renzi e Verdini è forte di un desiderio diffuso di delega assoluta, non più di rappresentanza. Di affidamento. Provare il prodotto nuovo, vedere se questo funziona».
Il manifesto, 23 aprile 2014 (m.p.r.)
Porto a scuola un bel po’ di spillette della lista Tsipras. So che, anche solo per amicizia, due o tre euro per ciascuna dai colleghi li raccolgo. Fanno simpatia quelli che ancora si impegnano in queste cose. Però in sala docenti una mi guarda e mi chiede chi è Tsipras. E va bene, si sa che la domanda circola. A spiegarle un po’ di Syriza, mi accorgo che viene fuori una sorta di sinistra arcobaleno e sono felice quando mi salva la fine della ricreazione. Ma la domanda inquietante la pone un altro collega che mi chiede ’Che cosa è Tsipras’
Pensa forse a una sigla, un acronimo di quelli misteriosi, una medicina. Penso che esistono diverse Italie una accanto all’altra. Forse anche una dentro l’altra. Personali schizofrenie culturali. Malgrado tutto, quando si sta con ragazze e ragazzi il mondo sembra avere ancora un colore caldo, una possibilità di condivisione, perlomeno delle domande, delle incertezze. Già il segno di un senso. Comune. Poi esci dall’aula e quell’altro senso comune ti fa sentire azzerato, impotente, disponibile a tutto, ad ingoiare qualunque decisione, basta che sia veloce, operativa. La “politica” avrebbe perso legame con il popolo perché non decide, non fa. Non importa cosa. L’importante che sia azione — non teoria, non discorso.
Negli spazi ravvicinati della nostra vita trasformazioni molecolari si sentono e sono significative, mi sembra. L’essere uomini, l’essere donne, madri e padri nuovi — in cerca di un modo decente di essere se stessi, con tutti i casini che abbiamo dentro. Per me è un fatto politico che salva dal catastrofismo. Ma è come se il baratro fra società e istituzioni si fosse replicato negli ordini simbolici che ci abitano, perché la deriva autoritaria delle riforme di Renzi e Verdini è forte di un desiderio diffuso di delega assoluta, non più di rappresentanza. Di affidamento. Provare il prodotto nuovo, vedere se questo funziona. C’è bisogno di crederci.
Possiamo anche parlare con ragazzi in crisi maschile di come ci sia un altro modo possibile di essere uomini. Che la crisi del patriarcato potrebbe essere una liberazione per noi tutti, mai all’altezza dei modelli vincenti da incarnare. Che appartenere a un genere non è la condanna a vita a un modello, ma un tessuto di relazioni, padri e fratelli orfani di Padre Assoluto, con cui costruire liberamente la propria singolarità. E tuttavia fra qualche settimana molti nostri studenti voteranno per la prima volta e si troveranno a scegliere fra Berlusconi, Grillo e Renzi. Che fanno cultura anche se uno non vota. Modelli maschili proprietari, neofeudali o populisti. Comunque fuori da una dimensione orizzontale, relazionale, della politica. L’uomo solo al comando, che regala Ici o euro in busta paga, che manda tutti a casa o torna al suo mondo — che non è quello dei politici. E intanto si circonda di giovani ragazze, perfetto gadget commerciale di rappresentanza per il popolo.
Ma il pubblico resta comunque inquieto oggi. Accanto a quello che ti domanda ’Che cos’è Tsipras’, come pensasse a un nuovo farmaco, trovi un sacco di colleghe e colleghi che ti cercano, le spillette vanno a ruba. Davvero una specie di antidepressivo. Ce l’hai due tsipras? Addirittura qualcuno ti dà 20 euro e dice, mentre cerchi il resto, Tieni tutto, qualcosa voglio fare, non mi occupo di politica da una vita. Certo, dà i soldi ma non viene alle riunioni, non partecipa in qualche modo. Perché? Io penso a un problema di sentimento. Come se certi desideri si fossero “privatizzati”, rassegnati alla solitudine, alla nostalgia del futuro di un tempo. E non avessero più agibilità politica.
Su questo le tre aziende elettorali leader hanno ragione. Hanno capito meglio da tempo. Non si tratta di programmi o analisi o competenze. Chi lo conosce il programma di Renzi, chi chiede il suo progetto di società. E chi si è mai veramente fidato di Berlusconi. Le cose che scrivono gli economisti di sinistra o i costituzionalisti sono analisi notevoli. Spiegano che c’è un’altra possibile uscita dalla crisi. Aprono quindi un orizzonte. Ma non mi sembra questo il punto. Il punto è dove troviamo l’energia, la speranza per andare in quella direzione. Senza, niente e nessuno si muove. C’è un altro desiderio, un sentimento su cui poter ricostruire una cosa faticosa come la democrazia? Qualcosa che dia senso non solo accademico o giuridico alla difesa della Costituzione?
Non si può fare solo appello alla razionalità economica contro l’emotività delle illusioni da mercato elettorale: si rischia perfino di restare impigliati nell’economicismo che si vorrebbe denunciare. Peraltro tipico della sinistra. Forse dovremmo imparare dai miei studenti — pure tutt’altro che brillanti — che quando “lottano” mi sembra cerchino di essere felici. Banalmente, ma tutto sommato anche politicamente. Si prendono i loro spazi per stare insieme, conoscersi, far saltare ritmi e solitudini della megamacchina scolastica. Essere singolari senza essere soli.
Penso che dal 26 maggio, se l’esperienza dell’antidepressivo greco va anche solo benino, si dovrebbe ripartire da qui: dagli spazi di un’altra politicità. Se ci si metterà a contare quanti sono passati di Sel o Prc o d’altro, è finita di nuovo. Ci saranno eletti, sezioni e comitati, non locande per viaggiatori, accampamenti leggeri. Luoghi politici dell’anima. Dalla crisi istituzionale, che esprime la sua antropologia politico-commerciale, non ci si salva solo sul terreno politico istituzionale. Secondo me si può contare su un’altra antropologia, sebbene quasi sempre fuori scena. Ma si deve salire di un grado, oppure scendere. Comunque occupare una dimensione meta-politica, sub-democratica. Fatta di relazioni orizzontali, ricerca comune, riconoscimento e insieme invenzione di sé e del mondo.
Come nei giochi dei bambini e delle bambine. Nel facciamo che ero, per noi adulti faticosissimo: la felicità inconsapevole e impegnativa dell’essere già qui e ora, altrove. Nell’immaginario che viviamo. Che può far esplodere il materiale che intristisce — se vissuto con almeno un po’ di gioia rivoluzionaria.
«I governi europei s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti, lo sguardo svogliato, le idee sparpagliate e soprattutto incostanti. Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro.Non una politica estera, ma un ricettario economico liberista misto a formule moraleggianti sul debito».
La Repubblica, 23 aprile 2014
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera - né sulle proprie marche di confine a Est o nel Mediterraneo, né sull’alleanza con gli Stati Uniti, né sulla democrazia che intendono rappresentare - i governi europei s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti, lo sguardo svogliato, le idee sparpagliate e soprattutto incostanti. Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro.Una svastica sul seno per la protesta delle Femen contro Marine Le Pen in Europa.
L’ossessione è fare affari, e dei mercati continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano. S’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria, dominata da una superpotenza che è in declino e che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda. Sono anni che gli Europei dormono, ignari di un mondo che attorno a loro muta. Non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti, pronti a unirsi per dire quello che vogliono fare. A volte alzano la voce per difendere posizioni autonome, ma la voce presto scema, s’insabbia. Lo si vede in Ucraina: marca di confine incandescente sia per l’Unione, sia per la Russia. Lo si vede nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). Lo si vede nella battaglia indolente, e infruttuosa, contro i piani di sorveglianza dell’Agenzia Usa per la sicurezza nazionale (Nsa), disvelati da Edward Snowden nel 2013. Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte. Le sta fallendo in Ucraina, perché l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia. Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe. Non sapendo parlare con Mosca, gli Europei lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos inasprendolo. È Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est.
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Un'analisi discutibile e di superficie, ma una conclusione giusta: il populismo è «sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia». La Repubblica, 22 aprile 2014
C’È UN fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure “mi” è difficile spiegare di che si debba avere “paura”.
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«Esiste un’enorme tensione sociale sulla casa e si deve mantenere lo spazio della mediazione».
Il manifesto 19 aprile 2014 (m.p.r.)
Al ministro degli interni Angelino Alfano che vuole blindare il centro di Roma, il vice-sindaco di Roma Luigi Nieri (Sel) ribatte di «evitare sparate elettorali, visto che non passa giorno senza fare comizi, un ruolo che non si concilia con l’incarico delicato che ricopre. È una contraddizione stridente. Invece di pensare a reprimere dovrebbe pensare alla cura per risolvere i problemi che portano queste persone a manifestare».
Secondo lei l’articolo 5 del piano Lupi sulla casa è una minaccia alle occupazioni abitative?
Sono assolutamente contrario ad un provvedimento che creerà problemi enormi in una città dove abbiamo ereditato oltre 100 occupazioni, alcune delle quali vanno avanti anche da 12 anni. Lupi dovrebbe sapere che quando si fa una legge bisogna pensare alle persone in carne ed ossa. Tagliare acqua, luce e gas significa danneggiare bambini, anziani, precari, migranti, famiglie. Vuole questo il ministro?
Secondo lui chi occupa compie un reato.
Una famiglia costretta ad occupare un alloggio lo ha fatto perchè è senza casa. Questa criminalizzazione della povertà è insopportabile. Io vengo dalla storia dei movimenti per il diritto alla casa. Conosco Roma che oggi è il cuore di un’emergenza nazionale. Non è questo il modo per affrontarla. Sono molto preoccupato perchè il piano di Lupi rischia anche di interrompere il percorso del piano sulla casa, fortemente voluto dai movimenti, con il quale la regione Lazio con Zingaretti ha stanziato circa 200 milioni.
Il sindaco Marino concederà alle forze di polizia l’uso di alcune strutture comunali in dismissione. Non sarebbe il caso di adibirle ad uso abitativo?
Questo è un aspetto dei provvedimenti a cui stiamo lavorando. Faremo altri bandi per la rigenerazione urbana di 100 strutture che destineremo a fini abitativi, a atelier di artisti o associazioni culturali. Proprio in questi giorni, con la Regione e il Demanio, abbiamo avviato un processo di questo tipo sull’occupazione del Porto Fluviale.
L’offensiva, anche giudiziaria, contro i movimenti è un modo per mettere in difficoltà la giunta, com’è accaduto con l’Angelo Mai e il comitato popolare di lotta per la casa?
Alcune vicende sono contestate per reati specifici e la magistratura farà il suo corso. Sarò chiaro: tutte queste vicende vanno affrontate con un ruolo politico forte dell’amministrazione comunale. Vale per la casa e per le altre emergenze sociali. Se si trasformano i problemi sociali in ordine pubblico c’è qualcosa che non funziona in questo paese.
La giunta è in grossa sofferenza e sembrano acuirsi i contrasti con il governo. Ci sarà un rimpasto?
Non c’è uno scontro tra noi e il governo. Penso ci sia un rapporto sbagliato tra alcune forze in parlamento e il comune. Il dibattito sul «Salva Roma» ha offeso la capitale. Ha dato l’idea che sarebbero arrivati tanti soldi, mentre in realtà non è arrivato un euro. Questa giunta ha ereditato una situazione economica gravissima e ha fatto scelte in netta discontinuità con le precedenti: la chiusura della discarica di Malagrotta o sull’urbanistica. Il rimpasto è un termine datato, però non c’è dubbio che ci sia bisogno di un suo rilancio. Lo affronteremo con serenità nelle prossime settimane.
Una dura ma acuta e condivisibile critica liberale al decano del giornalismo italiano. Si parla di Barbara Spinelli e Stefano Rodotà, di papa Francesco e Torquemada, di Bruno Visentini e Ciriaco De Mita, ma soprattutto di Eugenio Scalfari e Matteo Renzi.
Critica liberale online, 14 aprile 2014
il presidente del Consiglio Matteo Renzi a dire l'ultima parola sul percorso alternativo al passaggio delle grandi navi in Bacino di San Marco, in una riunione con i ministri competenti di Infrastrutture, Ambiente e Beni Culturali in programma la prossima settimana. Un percorso che dovrà comunque approdare - come avviene oggi per le navi da crociera - alla Stazione Marittima, tagliando fuori, a quanto risulta dalla nota congiunta dei tre Ministeri, altre possibili soluzioni come Mar-ghera - caldeggiata dal Comune - o il terminal in Adriatico.