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«I difen­sori dell’attuale archi­tet­tura comu­ni­ta­ria e delle sue regole com­pe­ti­tive, insistendo sull’intangibilità di poli­ti­che i cui effetti disa­strosi sono sotto gli occhi di tutti, non fanno che ali­men­tare le pulsioni dellpopulismo».

Il manifesto, 30 aprile 2014

Com­men­tando il crollo della fidu­cia nell’Unione euro­pea (nel 2013 al 28% tra i cit­ta­dini ita­liani) Ilvo Dia­manti sot­to­li­neava su La Repub­blica di lunedì come l’attaccamento all’Europa soprav­vi­vesse essen­zial­mente per la paura di quel che ci potrebbe acca­dere rima­nen­done fuori. Non è un motivo spre­ge­vole e non si disco­sta poi tanto dalla ragione che ispirò il pen­siero dell’unità euro­pea alla fine della seconda guerra mon­diale: la paura che gli orrori vis­suti dal vec­chio con­ti­nente potes­sero ripe­tersi ancora una volta. Con­verrà allora ripro­porre insi­sten­te­mente all’opinione pub­blica euro­pea qual­cosa di cui spa­ven­tarsi, qual­cosa di real­mente minaccioso.

Per il primo mag­gio i neo­na­zi­sti tede­schi annun­ciano marce in nume­rose città (Rostock, Dort­mund, Dui­sburg, Essen , Kai­ser­lau­tern, Plauen e Ber­lino). Di per sé il fatto non desta ecces­siva pre­oc­cu­pa­zione essendo la Repub­blica fede­rale un paese for­te­mente vac­ci­nato con­tro l’estremismo di destra. Ma è l’eco delle parole d’ordine che pre­pa­rano l’evento, le asso­nanze, le paren­tele fra­seo­lo­gi­che tra gli slo­gan dei nazio­na­li­sti ger­ma­nici e le ester­na­zioni di alcune for­ma­zioni poli­ti­che euro­pee nume­ri­ca­mente con­si­stenti e che si richia­mano non al fasci­smo ma alla demo­cra­zia, che dovrebbe susci­tare spa­vento. «Il nostro popolo prima di tutto», «lavoro e giu­sto sala­rio per tutti i tede­schi», «Ogni tra­sfor­ma­zione comin­cia da te, se sei insod­di­sfatto, se vor­re­sti cam­biare qual­cosa e non vuoi vigliac­ca­mente arren­derti al destino, devi fare qual­cosa. Noi fac­ciamo qual­cosa! Noi ci pren­diamo cura!» Que­sta pre­mi­nenza dell’elemento nazio­nale, l’ostilità verso gli stra­nieri, il richiamo a una par­te­ci­pa­zione in prima per­sona che è in realtà affi­da­mento a un capo, attra­ver­sano con mag­giore o minore inten­sità, più o meno aper­ta­mente esi­bite, anche le prime mise­re­voli bat­tute della cam­pa­gna elet­to­rale dell’euroscetticismo ita­liano. Dal mani­fe­sto di un can­di­dato ber­lu­sco­niano il quale pro­mette «in Europa, prima l’Italia» ai «pugni sul tavolo» dei 5 Stelle che dipin­gono la poli­tica euro­pea come una rissa da osteria.

Una par­tita nella quale il pro­prio paese deve imporsi sbrai­tando sugli altri. Lad­dove non è un movi­mento euro­peo, ma una sin­gola forza poli­tica nazio­nale ad avan­zare la pre­tesa di «rivol­tare l’Europa come un cal­zino». Met­tia­moci poi la riva­lu­ta­zione pre­si­den­ziale del mili­ta­ri­smo e la scelta dei due marò trat­te­nuti in par­ti­bus infi­de­lium, come sim­bolo dell’orgoglio nazio­nale, per com­ple­tare un qua­dro dav­vero sinistro.

D’altro canto, i difen­sori dell’attuale archi­tet­tura comu­ni­ta­ria e delle sue regole com­pe­ti­tive, insi­stendo sull’intangibilità di poli­ti­che i cui effetti disa­strosi sono sotto gli occhi di tutti, non fanno che ali­men­tare que­ste pul­sioni. Lo spau­rac­chio che agi­tano per con­tra­starle (fuori dall’Europa o mutan­done inci­si­va­mente le regole si sta­rebbe ancora peg­gio di così) sbia­di­sce ogni giorno di più, a van­tag­gio delle sirene nazio­na­li­ste, che pos­sono avva­lersi di evi­denti dati di realtà.

Coe­ren­te­mente con una Unione rima­sta in larga misura ostag­gio degli stati-nazione, le ele­zioni per il par­la­mento di Stra­sburgo si gio­cano tutte sulla misu­ra­zione dei rap­porti di forze interni ai sin­goli paesi.

Come spesso accade, è ancora una volta Beppe Grillo a met­tere in chiaro senza troppi giri di parole l’assoluta irri­le­vanza della dimen­sione sovra­na­zio­nale: «Se vinco le euro­pee salgo al Qui­ri­nale e pre­tendo l’incarico». Il pugno vero, insomma, lo si batte sul tavolo di Gior­gio Napolitano

««È questione di costi», afferma McDonald: non c’è abbastanza mangime non transgenico da garantire la produzione di carne di pollo a costi che si traducano in prezzi di vendita al fast-food abbastanza bassi per il consumatore».

La Repubblica, 29 aprile 2014 (m.p.r.)

Berlino. I rapporti tra Europa e Stati Uniti d’America sono spesso difficili. Non solo sulla crisi con Mosca o sui poteri della National Security Agency. Anche su argomenti ecologici, quali il cibo transgenico, la vecchia coppia litiga da punti di vista opposti. Sta accadendo tra la Germania, il più ricco e popoloso paese dell’Unione europea, e McDonald’s, il colosso del fast-food. Già, perché in una lettera inviata alla sezione tedesca di Greenpeace, McDonald’s informa l’associazione ecologista di aver deciso di permettere di nuovo, dopo tredici anni, l’uso di cibo transgenico per l’allevamento dei polli che vengono poi macellati per portare in ogni filiale i chickenburger e le chickenmcnuggets. Cibo transgenico, ritenuto normale dagli Usa ma temuto come tossico e pericoloso dagli europei.

La notizia è stata lanciata ieri mattina, con grande risalto, da Spiegel online, il sito del settimanale tedesco. Non è chiaro se sia stata Greenpeace a prendere l’iniziativa, chiedendo rassicurazioni negate nella risposta, o se invece tutto sia partito dal colosso-simbolo del fast food made in Usa. Comunque McDonald’s ha scritto nero su bianco, in una lettera all’associazione dei difensori della natura, che si ritira dall’impegno che aveva preso nel 2001. E cioè dal dovere deciso per scelta di rinunciare in tutto il territorio europeo a vendere prodotti contenenti elementi transgenici. Nel caso specifico, si tratta appunto dei chickenburger, quindi quel grosso, ipercalorico panino tondo pieno di salse, con un po’ di insalata e fette sottilissime di pomodoro, dove però l’hamburger è composto di chiara carne di pollo tritata, al posto del rosso manzo del “mcburger” normale. E poi anche delle chickenmcnuggets, insomma le polpettine panate che a prima vista sembrano strane cotolette alla milanese in miniatura. «È questione di costi», afferma McDonald: non c’è abbastanza mangime non transgenico da garantire la produzione di carne di pollo a costi che si traducano in prezzi di vendita al abbastanza bassi per il consumatore.
«Ma ciò non influirà sulla qualità del prodotto», assicura il gigante. Che con oltre 1500 filiali (destinate a salire presto 1700), e ben 2,8 milioni di clienti al giorno, ha in Germania un mercato chiave. Peccato che le associazioni ecologiche tedesche siano sensibili e attente. «Se continuassero a usare mangime non transgenico il prezzo aumenterebbe solamente di un cent a porzione: è vergognoso, pensano solo al denaro», protesta Stephanie Toewe-Rimkeit di Greenpeace, «e vi serviranno veleni e sostanze transgeniche cui la maggioranza dei consumatori è contraria ». Insomma, avvertono gli ambientalisti, la prossima volta che vi sfamerete da McDonald’s, in qualsiasi città del vecchio continente, potreste ingerire cibo con componenti transgeniche, senza saperlo. Magari senza neanche un avviso affisso all’ingresso del ristorante, o sul sito del gigante degli hamburger, o alla cassa dove i giovani dipendenti lavorano frenetici come manager giapponesi o sudcoreani ma per ben minori compensi retributivi. E la battaglia continua.

Dai numerosi articoli pubblicati dal quotidiano comunista , quando ancora non sono noti i risultati definitivi delle elezioni in Grecia, ne presentiamo tre: di Norma Rangeri, Pavlos Nerantzis e Jacopo Rosatelli. Il manifesto, 26 gennaio 2015
MISSIONE POSSIBILE
di Norma Rangeri

Per cam­biare il voca­bo­la­rio poli­tico dell’Europa dell’era neo­li­be­ri­sta, per tagliare il ramo secco dell’austerity e tor­nare alle radici euro­pee ori­gi­na­rie, fonte della demo­cra­zia, dob­biamo tor­nare alla scuola di Atene che oggi vive la sto­rica vit­to­ria della sini­stra nuova di Syriza e del suo gio­vane lea­der Ale­xis Tsipras.

Le cro­na­che rac­con­tano che nella piazza Omo­nia di Atene, dove Tsi­pras ha tenuto l’ultimo grande comi­zio della vigi­lia, c’era tanta gente comune, lon­tana dalla poli­tica attiva, senza ban­diere né slo­gan. Era il segnale tan­gi­bile che qual­cosa si era mosso nelle pro­fon­dità della società greca. Del resto i son­daggi delle ultime ore indi­ca­vano che la vit­to­ria di Tsi­pras sarebbe stata ali­men­tata da un voto che arri­vava a Syriza da tutta la popo­la­zione, anche da quei greci che alle ultime ele­zioni del 2012 ave­vano votato per la destra spe­rando di tro­vare così una via d’uscita alle loro sof­fe­renze. C’era chi pre­ve­deva che un 10 per cento dei con­sensi sareb­bero venuti da quella parte di Nuova Demo­cra­zia ostile all’estremismo libe­ri­sta del pre­mier uscente Sama­ras. Gente per nulla di sini­stra, ma che, que­sta volta, voleva punire un governo col­pe­vole di avere decur­tato pen­sioni e sti­pendi por­tan­doli a livelli di sussidi.

D’altra parte quando superi il 35 per cento dei con­sensi vuol dire che i voti ti arri­vano un po’ da tutti i ceti sociali, almeno da tutti quelli che la crisi ha messo con le spalle al muro, da quel 30 per cento di fami­glie ridotte in povertà, da quei cit­ta­dini che in massa fanno la fila per rime­diare medi­ci­nali e cibo. Se la nostra media della disoc­cu­pa­zione è al 12 per cento e ci fa paura, quella greca ha sfon­dato il 26 per cento, più del dop­pio, e si cal­cola che un milione e mezzo di occu­pati abbia sulle spalle otto milioni e mezzo di con­na­zio­nali ridotti alla sussistenza.

Ormai si orga­niz­zano viaggi di stu­dio per vedere e capire come Syriza sia riu­scita a orga­niz­zare 400 cen­tri di ero­ga­zione di ser­vizi sociali in tutto il paese. Si resta incre­duli a sen­tire che si può com­prare un appar­ta­mento per 5.000 euro, che il cata­sto è inser­vi­bile, ma che gli arma­tori sono ancora i poten­tis­simi padroni di Atene.

Que­sto paese distrutto dalla guerra eco­no­mica e gover­nato dalla Troika oggi trova la forza di riac­ciuf­fare la speranza. Dando fidu­cia a una forza di sini­stra nuova, impe­gnata in tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale a fianco dei più deboli, con un pro­gramma poli­tico che fa della rine­go­zia­zione del debito e la can­cel­la­zione dei Memo­ran­dun la leva a cui aggan­ciare un’agenda di prov­ve­di­menti molto pre­cisi: tetto minimo di 700 euro agli sti­pendi, tre­di­ce­sima per le pen­sioni minime, can­cel­la­zione di tasse sulla casa e blocco delle aste giu­di­zia­rie, ban­che con­trol­late dallo stato, patri­mo­niale sulle grandi ric­chezze cre­sciute all’ombra della crisi.

Una pro­po­sta di governo ormai cono­sciuta come il “pro­gramma di Salo­nicco” che Tsi­pras ha pro­messo di per­se­guire a pre­scin­dere da come andrà la trat­ta­tiva con le isti­tu­zioni europee. Di fronte allo sfa­scio di un paese che nella sua sto­ria recente ha cono­sciuto pagine dram­ma­ti­che fino al colpo di stato dei colon­nelli negli anni ’70, il fatto che Syriza abbia sbar­rato la strada alla destra ever­siva è un risul­tato che sarebbe imper­do­na­bile sot­to­va­lu­tare anche solo sem­pli­ce­mente sotto il pro­filo della difesa democratica.

Una destra sem­pre pre­sente (con i neo­na­zi­sti di Alba Dorata che con­ten­dono il terzo posto al rag­grup­pa­mento di cen­tro­si­ni­stra To Potami), per­ché se Tsi­pras dovesse fal­lire, in Gre­cia arri­verà l’estrema destra. Lo sanno bene le can­cel­le­rie inter­na­zio­nali che si spin­gono a pur caute aper­ture verso una trat­ta­tiva, come dimo­stra la linea aper­tu­ri­sta del Finan­cial Times.

Perché quello che sta vivendo oggi l’Europa, dalla Fran­cia all’Ucraina, con la natura vio­lenta, iso­la­zio­ni­sta, xeno­foba, nazio­na­li­sta delle destre che si stanno rior­ga­niz­zando, potrà essere fer­mato solo da un rapido, bene­fico con­ta­gio del vento greco, da una cosmo­po­lita sini­stra euro­pea di nuova gene­ra­zione (fis­sata nell’immagine, a piazza Omo­nia, dell’abbraccio tra Tsi­pras e Igle­sias, lea­der di Podemos).

Una sini­stra che cita molto Gram­sci, che ha solide radici a sini­stra ma che intende lasciarsi alle spalle le zavorre nove­cen­te­sche, capace di rin­no­vare radi­cal­mente modelli par­ti­tici, lea­der­ship e cul­ture politiche. La vit­to­ria di Syriza è solo l’inizio di un per­corso pieno di trap­pole, osta­coli, con­trad­di­zioni. Pren­dersi la respon­sa­bi­lità di gover­nare un paese distrutto sem­bra quasi una mis­sione impossibile.

Nel libro di Teo­doro Andrea­dis Syn­ghel­la­kis, “Ale­xis Tsi­pras, la mia sini­stra”, il lea­der di Syriza spiega molto bene che si tratta «di una scom­messa enorme, simile a quella del Bra­sile di Lula» e avverte che «non pos­siamo per­met­terci il lusso di igno­rare che gran parte della società greca, e anche una per­cen­tuale dei nostri soste­ni­tori, abbia assor­bito idee con­ser­va­trici». Dun­que con­sa­pe­vo­lezza della prova che l’attende e deter­mi­na­zione nel per­se­guire l’obiettivo «che oggi non è il socia­li­smo ma la fine dell’austerità».

Ma que­sti sono i momenti della festa, della svolta, della vit­to­ria con­tro­mano, della bel­lis­sima rivin­cita che la Gre­cia si prende dopo sei anni vis­suti come una pic­cola cavia nel grande labo­ra­to­rio tede­sco. Un paese da punire in modo esem­plare per edu­care tutti gli altri: se non volete finire come la Gre­cia ingo­iate l’amara medi­cina dei tagli a salari e pen­sioni (anche noi abbiamo assag­giato que­sta fru­sta e ingo­iato que­sta pil­lola). Il debito vis­suto come colpa (avete voluto vivere al di sopra delle vostre pos­si­bi­lità) con tutto l’armamentario dei luo­ghi comuni che ancora oggi sen­tiamo ripe­tere in tv e leg­giamo sui giornali.

Ora dob­biamo atten­derci un ampio fuoco di sbar­ra­mento con­tro la svolta sociale di Syriza che appunto ribalta la pro­spet­tiva e rimette la realtà con i piedi per terra.

Quando nel feb­braio dello scorso anno Tsi­pras venne in Ita­lia in vista delle ele­zioni euro­pee, come prima tappa fece visita alla reda­zione del mani­fe­sto (Renzi non trovò il tempo di rice­verlo). Ci parlò a lungo del cam­mino verso una sini­stra unita e di quello che poi sarebbe diven­tato il pro­gramma di governo. Ci regalò una pic­cola barca di por­cel­lana della col­le­zione del museo Benaki, quasi un auspi­cio, un pro­no­stico. Due colo­ra­tis­sime vele gonfie. Un anno fa il vento in poppa era un auspi­cio e forse un pro­no­stico. Ora è una realtà sulla quale la sini­stra ita­liana dovrebbe riflet­tere molto. E anche in fretta.

NIKISSAME! È UNAVITTORIA NETTA

di Pavlos Nerantzis

«Nikis­same! Nikis­same!», «Abbiamo vinto! Abbiamo vinto», festeg­gia­vano ieri i greci radu­nati nei vari cen­tri elet­to­rali di Syriza ad Atene, a Salo­nicco, dal nord al sud del paese. Una svolta radi­cale, un vento pro­gres­si­sta in Gre­cia, un mes­sag­gio per un’altra Europa da riflet­tere al resto del vec­chio continente.

Alle 7 di dome­nica sera, subito dopo la chiu­sura delle urne, la buona noti­zia: Syriza appa­riva chia­ra­mente come il par­tito vin­cente, secondo i primi exit-poll. La sini­stra radi­cale ha otte­nuto una vit­to­ria di dimen­sioni sto­ri­che in Gre­cia, in Europa, rac­co­gliendo tra il 35,5% e il 39,5% con 146–158 seggi, senza avere la cer­tezza di poter for­mare un governo monocolore. Scon­fitta la Nea Dimo­kra­tia che rac­co­glieva, sem­pre secondo gli exit-pool, tra il 23% e il 27% con 65–75 seggi.

Nelle ele­zioni più impor­tanti degli ultimi decenni, ha vinto la spe­ranza nel cam­bia­mento e con essa la dignità, l’ orgo­glio per il giorno dopo di un popolo che ha subito tanti sacri­fici negli ultimi anni. Hanno vinto la demo­cra­zia, la giu­sti­zia sociale, la solidarietà.

Hanno perso la paura pro­mossa dai con­ser­va­tori, dai cre­di­tori inter­na­zio­nali, da chi vede nelle sini­stre il dia­volo rosso; hanno perso tutti coloro che nel nome di un risa­na­mento eco­no­mico del Paese hanno pro­vo­cato que­sta crisi uma­ni­ta­ria senza pre­ce­denti, la reces­sione, la depres­sione col­let­tiva, la vio­la­zione di leggi e di vite umane.

Verso le 10 di sera i risul­tati non erano ancora defi­ni­tivi. 36,5% per il Syriza con 150 seggi, 27,7% per i con­ser­va­tori della Nea Dimo­kra­tia con 76 seggi. Al terzo posto i nazi­sti di Alba dorata (Chrysi Avghi) con 6,3% e 17 seggi, il Fiume (To Potami) con 5,9% e 16 seggi, i comu­ni­sti del Kke con 5,6% e 15 seggi, il Pasok con 4,8% e 13 seggi e i Greci indi­pen­denti (Anel) con 4,7% e 13 seggi.

Non sono riu­sciti a supe­rare la soglia del 3% e riman­gono fuori dal par­la­mento il Movi­mento dei socia­li­sti demo­cra­tici, fon­dato dall’ ex pre­mier Yor­gos Papan­dreou (2,5%, la Sini­stra demo­cra­tica, gia com­po­nente del Syriza e ex part­ner del governo di coa­li­zione di Anto­nis Sama­ras (0,5%) e Antar­sya, for­ma­zione della sini­stra (0,6%).

Oltre alla pre­oc­cu­pa­zione che ha pro­vo­cato a tutti il man­te­ni­mento della forza elet­to­rale dei nazi­sti, la domanda che si poneva fino a tarda serata era se Syriza sarebbe riu­scita a for­mare un governo mono­co­lore e in secondo luogo se Ale­xis Tsi­pras avrebbe pre­fe­rito una mag­gio­ranza debole (150–151 seggi sui 300) e la dimi­nu­zione della sua forza di trat­tat­tiva nei con­fronti dei cre­di­tori inter­na­zio­nali, oppure una col­la­bo­ra­zione con un’ altra forza poli­tica che di fatto avrebbe limi­tato la sua forza poli­tica nell’applicazione del suo programma. «Faremo un altro invito al Kke» ha detto Dimi­tris Stra­tou­lis, diri­gente del Syriza, «ma se con­ti­nuano a rispon­dere nega­ti­va­mente, trat­te­remo con altre forze politiche».

Secondo fonti di Syriza, la sini­stra radi­cale esclude ogni col­la­bo­ra­zione con le forze pro-memorandum (Nea Dimo­kra­tia, Pasok, To Potami), lasciando aperta l’ even­tua­lità di una coo­pe­ra­zione con i Greci indi­pen­denti, il par­tito di destra nazio­na­li­stico, l’ unico ad essere chia­ra­mente anti-memorandum.

A parte le even­tuali alleanze post-elettorali, a sen­tire i diri­genti di spicco del Syriza ai talk-show tele­vi­sivi «i greci, e non solo quei che hanno votato per la sini­stra radi­cale, hanno preso una grande boc­cata di ossi­geno». Non certo tutti, ma almeno una parte sono con­sa­pe­voli delle dif­fi­coltà, che il nuovo governo dovrà affron­tare; ma a sen­tire que­sta gente che ieri gri­dava vit­to­ria per le strade di Atene, «Tsi­pras durante i nego­ziati con la troika avra un ottimo alleato».

Piena sod­di­sfa­zione tra gli atti­vi­sti della «Bri­gata kali­mera» radu­nata in piazza Kla­th­mo­nos nel pieno cen­tro di Atene. Smen­tita la tele­fo­nata di Mat­teo Renzi a Tsi­pras, men­tre la prima rea­zione da Ber­lino è arri­vata da Jens Weid­mann, pre­si­dente della Bun­de­sbank, la Banca cen­trale tede­sca, da sem­pre custode del rigore del bilan­cio e avver­sa­rio di Mario Dra­ghi, il quale ha detto con toni minac­ciosi che «gli aiuti eco­no­mici verso Atene con­ti­nue­ranno sol­tanto se la Gre­cia rispetta i patti». La rispo­sta di Syriza è stata imme­diata. «Par­le­remo e trat­te­remo a livello poli­tico con la lea­der­ship euro­pea, non con i suoi rap­pre­sen­tanti» ha detto ieri il vice-presidente dell’ euro­par­la­mento, Dimi­tris Papa­di­mou­lis, anti­ci­pando l’ atteg­gia­mento del nuovo governo di Atene nei con­fronti della troika (Fmi, Ue, Bce).

Il risul­tato otte­nuto dalla Nea Dimo­kra­tia dif­fi­cil­mente sarà gestito dal pre­mier uscente Anto­nis Sama­ras. Sama­ras ha usato un lin­guag­gio nazio­na­li­stico adot­tato pure da Alba dorata, come per esem­pio lo slo­gan della cam­pa­gna elet­to­rale «patria, reli­gione, fami­glia» che ha fatto allon­ta­nare molti elet­tori di destra. Pro­blemi e lamen­tele si sono sen­tite ieri anche nel quar­tier gene­rale dei socia­li­sti del Pasok. Il vice-presidente del governo di coa­li­zione e lea­der del Pasok, Evan­ghe­los Veni­ze­los pro­ba­bil­mente si allon­ta­nerà, ma «non come scon­fitto» secondo i suoi stretti collaborattori.
ESPLODE LA GIOIA DELL’ALTRA EUROPA
di Jacopo Rosatelli

L’Unione euro­pea è quella del ten­done di piazza Klaf­th­mo­nos, dove Syriza ha chia­mato a rac­colta i suoi soste­ni­tori. Pieno all’inverosimile, caldo quasi insop­por­ta­bile, pochi istanti prima delle 7 ore locale la ten­sione si taglia con il col­tello: facce con­cen­trate, cenni di inco­rag­gia­mento reci­proco. Poi l’annuncio degli exit polls, e ci si scio­glie in un abbrac­cio collettivo.

Greci, tede­schi, spa­gnoli, fran­cesi, inglesi, ita­liani, e chissà da quante altre parti del Vec­chio con­ti­nente: un enorme, corale urlo di gioia can­cella l’ansia e la fatica. Ora si può festeg­giare. Esi­ste un’altra Europa, è quella che si è data appun­ta­mento qui, nel cen­tro di Atene.

«Que­sto è uno di quei momenti in cui si dimo­stra che anche i pic­coli pos­sono fare la sto­ria, pos­sono cam­biare il mondo» ci dice subito, tra lacrime di gioia, Raf­faella Bolini, l’infaticabile orga­niz­za­trice della Bri­gata Kali­mera e di mille altre avven­ture poli­ti­che inter­na­zio­nali. «C’è chi ha iro­niz­zato sul nostro viag­gio per cri­ti­carci, ma noi siamo venuti a immer­gerci nella realtà greca: non tor­ne­remo in Ita­lia uguali a come era­vamo alla par­tenza, per­ché que­sta espe­rienza ci ha dav­vero arric­chiti», afferma una rag­giante Rosa Rinaldi, tra le prin­ci­pali arte­fici del «mira­colo» della fon­da­men­tale rac­colta firme in Valle d’Aosta per la lista delle euro­pee. «Ora la spe­ranza si mate­ria­lizza: vale per i greci, ma vale anche per noi, per­ché Syriza al governo ad Atene signi­fica una rivo­lu­zione demo­cra­tica per l’intera Europa. Per­sino il nostro pusil­la­nime pre­mier Mat­teo Renzi potrà ora avere più mar­gini di mano­vra nei con­fronti dei part­ner con­ti­nen­tali, e a noi a sini­stra spetta il com­pito di costruire una vera alter­na­tiva di società: senza copiare modelli di altri Paesi, ma cogliendo la straor­di­na­ria occa­sione di que­sto momento», con­clude Rinaldi.

«Il mes­sag­gio di dome­nica sera – riflette Maso Nota­rianni, anima dell’Altra Europa a Milano – è che nella sini­stra ita­liana dob­biamo final­mente abban­do­nare un atteg­gia­mento mino­ri­ta­rio ancora troppo dif­fuso: qui in Gre­cia ci dimo­strano che si può fare. Biso­gna essere con­vinti che un’utopia può diven­tare realtà».

La sod­di­sfa­zione in piazza Klaf­th­mo­nos è ovvia­mente di tutti, indi­pen­den­te­mente dalla nazionalità. Cia­scuno ha però un com­pito diverso nel pro­prio Paese.

In Spa­gna lo sce­na­rio poli­tico più simile a quello greco: «La svolta nella poli­tica euro­pea è pos­si­bile. La sfida per noi è pren­dere ad esem­pio Syriza e met­tere da parte per­so­na­li­smi o divi­sioni infon­date, con­cen­tran­doci nella cosa più impor­tante, che è unire le forze», ragiona Alberto Gar­zón, il nuovo (e gio­vane) lea­der di Izquierda unida. Il mes­sag­gio che invia dal ten­done ate­niese è diretto a Pode­mos, che finora nic­chia sulla pos­si­bi­lità di costruire un car­tello uni­ta­rio alle ele­zioni di autunno.

Parole simili da Enest Urta­sun, bril­lante euro­de­pu­tato della sini­stra eco­lo­gi­sta cata­lana, «pon­tiere» fra i Verdi e il gruppo del Gue (Sini­stra uni­ta­ria euro­pea) nel par­la­mento di Stra­sburgo: «La scelta giu­sta è quella fatta a Bar­cel­lona per le pros­sime muni­ci­pali: lista uni­ta­ria di tutti quelli che si bat­tono con­tro l’austerità». Di diverso avviso è l’attivista di Pode­mos Ramón Arana: «non voglio alleanze con i par­titi del ‘vec­chio sistema’, ma parlo a titolo per­so­nale». Pen­sio­nato 64enne, Ramón è venuto ad Atene da Madrid «per assi­stere alla presa della Basti­glia del ven­tu­ne­simo secolo».

I tede­schi della Linke – muniti di car­telli ine­qui­vo­ca­bili: «La nuova Europa comin­cia in Gre­cia» – usano toni meno enfa­tici, ma la sostanza è la stessa: niente potrà essere più come prima. «La can­cel­liera Angela Mer­kel dice sem­pre che non ci sono alter­na­tive alle attuali poli­ti­che, ma la vit­to­ria di Syriza mostra che è falso» ci dice Katha­rina Dahme della dire­zione nazio­nale del par­tito. «Il nostro com­pito sarà mostrare ai cit­ta­dini del nostro Paese che la poli­tica del nuovo governo di Atene non sarà solo nell’interesse dei greci, ma anche dei lavo­ra­tori in Ger­ma­nia, che hanno biso­gno di salari più alti e di una poli­tica sociale dif­fe­rente», con­clude la diri­gente del prin­ci­pale par­tito dell’opposizione tedesca.

«Un’altra soluzione, meno onerosa per il patrimonio culturale, sarebbe la demanializzazione degli edifici dell’Eur, cioè il passaggio allo Stato. Il che porterebbe l’Italia al livello di civiltà culturale degli altri paesi europei, dove l’Archivio centrale è uno dei luoghi simbolici di una nazione».

La Repubblica, 29 aprile2014 (m.p.r.)

Roma. È un paradosso. Ogni anno dalle esangui casse dei Beni culturali escono oltre 10 milioni di euro e finiscono nel portafoglio di Eur s.p.a., la società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 del Comune di Roma che gestisce il quartiere omonimo a sud della capitale. È il prezzo dell’affitto degli edifici che ospitano alcuni musei e l’Archivio centrale dello Stato, 110 chilometri di scaffalature in cui è depositata la memoria cartacea del Paese. Alcuni di questi edifici sono anche offerti in garanzia dei debiti che l’Eur, uno dei fulcri della “parentopoli” allestita dall’allora sindaco Gianni Alemanno, ha contratto per le sue operazioni immobiliari, fra le quali la “Nuvola” di Fuksas, che non si sa quando mai verrà finita, e la Lama, il palazzo a specchio che dovrebbe diventare un albergo e ancora si cerca chi mai potrà gestirlo.

Un pezzo dello Stato, uno dei più immiseriti, si svena per rimpinguare un altro pezzo dello Stato, appartenente quasi interamente al ministero di Pier Carlo Padoan. La vicenda romana è la più eclatante. Ma non è la sola nel dissestato panorama dei nostri beni culturali. Dal 2008, quando aveva già subito tagli mortificanti dal governo Berlusconi, il ministero di Dario Franceschini si trova oggi con un budget ridotto quasi del 30 per cento (da 2 miliardi a 1 miliardo e mezzo: dallo 0,28 per cento del bilancio dello Stato allo 0,19). E nonostante questo paga ogni anno 21 milioni soltanto per affittare le sedi di alcuni dei suoi 100 Archivi. Dove è collocato un materiale che si alimenta costantemente e che potrebbe crescere ancora se si attuerà il proposito di Matteo Renzi di depositare le carte secretate negli ultimi decenni.
L’Archivio centrale dello Stato paga all’Eur 4 milioni e mezzo. Il Museo dell’età preistorica Luigi Pigorini 3 milioni 600 mila. Il Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari 1 milione 890 mila. Il Museo dell’Alto Medioevo, a rischio chiusura, 370 mila. Paradosso nel paradosso, i soldi vanno dal ministero per i Beni culturali all’Eur s.p.a. per «la realizzazione di grandi progetti di sviluppo immobiliare e valorizzazione urbanistica», come si legge negli obiettivi della società presieduta da Pierluigi Borghini, ex candidato sindaco del centrodestra, una società che esercita una specie di governatorato su un intero quartiere di Roma e che con soldi pubblici agisce come un operatore privato. Basti ricordare la vicenda del Velodromo, l’opera di Cesare Ligini fatta esplodere con la dinamite per realizzarci torri e palazzine, oppure il progetto di un faraonico acquario con galleria commerciale (entrambe le iniziative furono
avviate con Veltroni sindaco). O, ancora, l’idea di un Gran Premio di Formula 1, con i bolidi che avrebbero sfrecciato fra i metafisici edifici di travertino bianco. L’idea, poi decaduta, era caldeggiata da Alemanno e dal suo uomo di fiducia Riccardo Mancini, ex militante di gruppi neofascisti, fino alla primavera del 2013 amministratore delegato dell’Eur (dove ha assunto molti “camerati”), poi finito in galera per tangenti.
La condizione dell’Archivio centrale è esemplare. I 4 milioni e mezzo (3.575.287,96 euro più Iva) gravano su una struttura in preoccupante disagio, con personale sempre più ridotto, avanti nell’età e che fa salti mortali per garantire un servizio essenziale. I depositi sono affetti da umidità e lo spazio è carente. A differenza di un museo, l’Archivio non stacca biglietti e l’unica fonte dalla quale recupera un po’ di quattrini sono le fotocopie. Lo scorso capodanno un migliaio di ragazzi si sono scatenati nei saloni dell’edificio al ritmo della elettro-house. Questo in virtù di una convenzione con una società, la Let’s go che, a pagamento, ha preso in gestione vasti spazi e ha organizzato iniziative che si fa fatica a conciliare con un Archivio: un paio di appuntamenti dell’allora Pdl o una mostra della Range Rover. Si sono sollevate molte proteste. E faceva tristezza vedere fino a che punto si è costretti a snaturare un patrimonio culturale pur di sopravvivere.
La storia si trascina da decenni. In origine l’Archivio centrale pagava all’Eur un canone di “concessione in uso”, in attesa che l’Eur fosse liquidato e il palazzo rientrasse nel patrimonio dello Stato. Il canone era di 62 milioni di lire, poi salito a 200 nel 1987, quando si trasformò in affitto a prezzi di mercato. L’effetto fu lo stratosferico innalzamento a 4 miliardi e 200 milioni. Nel 2000 l’Eur, invece di essere liquidato, in epoca di ubriacatura da privatizzazioni venne trasformato in s.p.a.. Ed eccoci arrivati ai 4 milioni e mezzo di oggi. Che erano oltre 5 milioni fino all’anno scorso, poi ridotti del 15 per cento dalla spending review di Monti.
Sul cosa fare ci si interroga da anni. Un’ipotesi è il trasferimento sia dell’Archivio, sia dei musei: operazione costosa. Un’altra soluzione, meno onerosa per il patrimonio culturale, sarebbe la demanializzazione degli edifici dell’Eur, cioè il passaggio allo Stato. Il che porterebbe l’Italia al livello di civiltà culturale degli altri paesi europei, dove l’Archivio centrale è uno dei luoghi simbolici di una nazione. Ma per questo è necessaria un’iniziativa politica. E poi, di questi tempi, demanializzare sembra una cattiva parola.

Il manifesto, 29 aprile 2014
Il primo a par­larne – anzi a twit­tarlo – è stato Mat­teo Renzi: vado in Europa per bat­tere i pugni sul tavolo. Per­ché? Per­ché inverta rotta rispetto alle poli­ti­che di auste­rità. Bar­bara Spi­nelli gli aveva subito rispo­sto a nome della lista L’altra Europa con Tsi­pras: bat­tere i pugni sul tavolo non vuol dire niente; biso­gna avere un pro­getto chiaro su che Europa si vuole e il Pd non ce l’ha; per que­sto con­ti­nuerà a “navi­gare” a rimor­chio delle lar­ghe intese (Merkel-Schultz) tede­sche ed euro­pee. Infatti si è visto come li ha bat­tuti, Renzi, quei pugni: sup­pli­cando la Mer­kel di con­ce­der­gli uno 0,2 per cento in più nel rap­porto deficit/pil rispetto a quello che Bru­xel­les ha deciso.

Il che gli avrebbe forse per­messo di tro­vare una pic­cola coper­tura meno alea­to­ria per il suo bonus da 80 euro, ma non certo di cam­biare poli­tica eco­no­mica e meno che mai di togliere il cap­pio del debito dal collo del nostro paese. Tanto più che men­tre Renzi pie­tiva quello 0,2 per cento, la Mer­kel gli ingiun­geva di comin­ciare a pen­sare alla resti­tu­zione di 50 miliardi di debito all’anno, da aggiun­gere ai quasi 100 di inte­ressi che già paghiamo: lo impone il Fiscal Com­pact. Renzi ha fatto finta di non sen­tire e la Mer­kel, che conta sul suo appog­gio dopo le ele­zioni euro­pee, non ci è ritor­nata sopra.

Così tutto è tor­nato come prima e il governo, con il fido Padoan, ha con­ti­nuato ad arram­pi­carsi sugli spec­chi (del Qui­ri­nale) per “sal­vare” non il paese, ma gli 80 euro che devono far vin­cere le ele­zioni al Pd. Così quei pugni – anzi, per dirla in bolo­gnese, quelle pugnette — sono sci­vo­lati nel dimen­ti­ca­toio come tutto quanto Renzi ha detto e fatto nel corso degli ultimi anni; sosti­tuiti da nuove rocam­bo­le­sche promesse.

A risol­le­vare la ban­diera dei pugni – o delle pugnette – sul tavolo lasciata cadere da Renzi, ci ha pen­sato Beppe Grillo (anche in que­sto i due si asso­mi­gliano sem­pre più), imme­more degli avver­ti­menti ami­che­voli di Bar­bara Spi­nelli. Lo ha fatto con una can­zon­cina abba­stanza stu­pida e brutta, che diven­terà il refrain del movi­mento Cin­que stelle, accom­pa­gnata da una coreo­gra­fia di gente che batte i pugni sul tavolo. Gente arrab­biata, come tutti noi (tranne quelli che con la crisi ingrassano).

Ma dove por­tano tutti quei pugni, tutti quei tavoli e tutta quella rab­bia? A niente, come tutto quello che dice e fa il movi­mento Cin­que stelle. In par­ti­co­lare in que­ste ele­zioni europee.Un movi­mento, infatti, che in Europa non ha alleati né part­ner (sie­derà nel Par­la­mento da solo); non ha un can­di­dato alla Pre­si­denza della Com­mis­sione; non ha un pro­gramma per l’Europa (pensa solo a una sua affer­ma­zione nei con­fronti del Pd in Ita­lia); non ha coe­renza né coe­sione interna (cosa resa evi­dente dalla emor­ra­gia di par­la­men­tari che il movi­mento sta subendo o impo­nendo); non sa nem­meno se vuole restare in Europa (chie­dendo gli euro­bond e una Banca che sia pre­sta­tore di ultima istanza) o uscire dall’Euro (il che non gli resti­tui­rebbe certo un pre­sta­tore di ultima istanza: la Banca d’Italia non lo è più dagli anni ’80).

Ma si tratta di due alter­na­tive – posto che il ritorno alla lira abbia senso – che avreb­bero comun­que biso­gno di un intero baga­glio di misure col­la­te­rali, tali da con­fi­gu­rare due veri e pro­pri pro­grammi con­trap­po­sti: il ritorno alle sovra­nità nazio­nali e alle guerre com­mer­ciali da un lato; un vero governo fede­rale, demo­cra­ti­ca­mente eletto e fon­dato sulla soli­da­rietà e sulla pace, dall’altro. Ma su entrambi i ver­santi l’elaborazione pro­gram­ma­tica del movi­mento Cin­que Stelle è pari a zero.

La verità è che le ele­zioni euro­pee sono una cosa seria e non un circo per misu­rare la pro­pria (fasulla) forza musco­lare. E che gli unici in Ita­lia che si pre­sen­tano con un pro­gramma di respiro euro­peo, per cam­biare vera­mente le cose in Europa, insieme a tutti coloro (par­titi, gruppi par­la­men­tari o fra­zioni di essi, movi­menti di lotta e di cit­ta­di­nanza) che ne con­di­vi­dono o ne con­di­vi­de­ranno gli obiet­tivi di fondo, sono i can­di­dati, i soste­ni­tori e gli elet­tori della lista L’altra Europa con Tsipras.

Lo fanno con un pro­gramma messo a punto durante le varie fasi attra­ver­sate nel corso del cam­mino intra­preso, a par­tire dall’appello ini­ziale per con­ti­nuare con la sele­zione dei can­di­dati, la rac­colta delle firme e la cam­pa­gna elet­to­rale più povera della sto­ria (per­ché inte­ra­mente auto­fi­nan­ziata), ma la cui ela­bo­ra­zione pro­se­guirà anche dopo il 25 mag­gio, con il soste­gno che comi­tati, asso­cia­zioni, movi­menti, intel­let­tuali ed esperti che sosten­gono la lista con­ti­nue­ranno a for­nire ai nostri parlamentari.

Ma i tre prin­cipi con­te­nuti nella dichia­ra­zione pro­gram­ma­tica di Ale­xis Tsi­pras bastano a defi­nirne l’orientamento e l’ampiezza di quel programma:
(1) abo­li­zione di tutti i trat­tati e gli accordi che rego­lano le poli­ti­che di auste­rità, rine­go­zia­zione e dra­stica ridu­zione del debito pub­blico dei paesi sot­to­po­sti alle poli­ti­che «lacrime e san­gue» della Bce o della Troika;
(2) ricon­ver­sione in senso eco­lo­gico dell’apparato produttivo;
( 3) poli­ti­che di inclu­sione nei con­fronti dei migranti, delle mino­ranze, dei diversi, dei privi di red­dito e di diritti.

Per seguire una rotta come que­sta non basta pic­chiare i pugni su un tavolo; biso­gna mobi­li­tare la cit­ta­di­nanza, orga­niz­zata e non, di molti paesi, pro­muo­vere alleanze, per­se­guire frat­ture nel campo avver­sa­rio, voler nego­ziare e saper accet­tare, forse, anche qual­che compromesso.

Ma l’obiettivo è chiaro: ripren­dere la strada inter­rotta che era stata addi­tata settant’anni fa dal «Mani­fe­sto di Ven­to­tene» di Altiero Spi­nelli, strada che il Pd ha perso da ormai molti anni e che il movi­mento Cin­que Stelle non ha mai nem­meno preso in considerazione
Corriere della Sera, 28 aprile 2014(m.p.r.)

Storia, memoria del dolore e polemica politica sono puntualmente aggrovigliate tutte le volte che palestinesi e israeliani tornano a trattare di Olocausto. Avveniva quando il mondo arabo in toto abbracciava le tesi negazioniste e si ripete oggi, che il presidente palestinese per la prima volta denuncia pubblicamente e senza ombre la Shoah come «il crimine più odioso contro l’umanità nella storia moderna». Mahmoud Abbas ha reso noto ieri, tramite l’agenzia palestinese Wafa , una dichiarazione mirata a fugare ogni dubbio sulla condanna dello sterminio nazista di sei milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Un’occasione ai suoi occhi per cercare tra l’altro di rilanciare i colloqui di pace, proprio in concomitanza della «Giornata della Memoria», ormai assurta a cerimonia centrale della liturgia statuale israeliana. Nel documento esprime il suo «cordoglio per le famiglie delle vittime» e aggiunge: «L’Olocausto riflette un concetto di discriminazione etnica e razziale che i palestinesi rifiutano e combattono con determinazione».

Ma, se il tempismo calibrato con le commemorazioni della Shoah sembrava perfetto per raccogliere le simpatie israeliane, quello con i ritmi della politica si è dimostrato perdente. Da giovedì il governo di Benjamin Netanyahu ha infatti congelato qualsiasi negoziato con l’Autorità palestinese. Gli sforzi di mediazione americani, che peraltro erano già ad un punto morto, sono sospesi. E ciò in conseguenza della firma dell’accordo per la nascita di un governo unitario tra Abbas e l’organizzazione fondamentalista islamica Hamas, che Israele (assieme a Stati Uniti e Unione Europea) accusa di terrorismo. Ancora nel 2009 i dirigenti di Hamas si opposero a che le scuole delle Nazioni Unite nella striscia di Gaza insegnassero la storia dell’Olocausto agli studenti palestinesi. «Piuttosto che rilasciare dichiarazioni mirate ad ingraziarsi la comunità internazionale, Abbas deve scegliere tra Hamas e la pace con noi. Non può affermare che l’Olocausto fu una terribile tragedia e allo stesso tempo abbracciare coloro che vogliono la distruzione del nostro popolo», ha replicato ieri il premier israeliano in occasione della riunione settimanale del suo gabinetto.
Così, una mossa di apertura, che una ventina di anni fa sarebbe sembrata miracolosa e foriera di nuove intese, è rapidamente rimasta avvelenata da controversie e sospetti. Due falchi nel governo Netanyahu, il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman e quello dell’Intelligence Yuval Steinitz, rilanciano sulla rete vecchie accuse nei confronti di Abbas. La più grave, quella di aver scritto in gioventù una tesi di dottorato all’università di Mosca (pubblicata poi nel 1983), in cui sminuiva la dimensione dell’Olocausto e imputava ai dirigenti sionisti di aver collaborato con i nazisti per mettere in atto lo sterminio con l’intento di spingere gli ebrei ad emigrare in Palestina. Già in passato lo stesso Abbas aveva comunque rimesso in discussione il suo libro e ritrattato i temi più controversi. Durante un’intervista, pubblicata dalla stampa israeliana nel 2011, affermò di «non aver mai negato l’Olocausto» e di accettare «la cifra dei sei milioni di morti».
Restano tematiche bollenti. Sin dal 1948, le due parti si sono furiosamente scontrate su ogni possibile parallelo tra la Shoah e la Nakba (la catastrofe), come i palestinesi definiscono l’espulsione di oltre 700.000 di loro dalle terre diventate parte del nuovo Stato ebraico. Tutt’ora non è difficile trovare nelle librerie di tutte le capitali arabe le copie rivedute in chiave anti-israeliana del Mein Kampf di Hitler, dei Protocolli dei Savi di Sion e della peggiore letteratura antisemita europea. I toni del contrasto si sono solo in parte affievoliti dopo la pubblicazione quattro anni fa di Arabi e Olocausto : un libro importante, scritto dal libanese Gilbert Achar (docente universitario a Londra), in cui si denunciano le «cecità» dell’atteggiamento arabo. Ma che il soggetto scotti è ancora testimoniato dalle ultime accuse a Gaza e in Cisgiordania contro Mohammad Dajani, professore all’università palestinese Al Quds di Gerusalemme, il quale ha dovuto prendersi «una lunga vacanza» dopo essere stato imputato di «tradimento» per aver condotto 27 suoi allievi in visita ad Auschwitz.

«». La Repubblica

Manca meno di un mese alle elezioni. Riassunte, nel dibattito pubblico, dal voto europeo. E, insieme, politico. Italiano. Perché non c’è voto, in Italia, che non abbia effetti sul piano politico nazionale. Così la consultazione del 25 maggio sembra ridursi a due quesiti. Pro o contro l’Europa — e, in primo luogo, l’euro. Pro o contro Renzi — e, di conseguenza, pro o contro Grillo. Ci si dimentica che il 25 maggio avranno luogo anche altre elezioni.Non irrilevanti, per numero e importanza. Si voterà, infatti, anche per eleggere i sindaci e i consigli in oltre 4000 comuni, quasi la metà di quelli italiani. Tra questi, 27 capoluoghi di provincia e 14 città con oltre 100 mila abitanti. Inoltre, si eleggeranno il Presidente e il Consiglio di due Regioni: il Piemonte e l’Abruzzo.

Dunque, in Italia si voterà per l’Europa, ma anche per numerosi Comuni e due Regioni. Ma è significativo che molti non lo sappiano. L’alto grado di incertezza rivelato dai sondaggi, insieme al peso delle astensioni, inoltre, riflette anche un elevato livello di non conoscenza. Difficile chiedere agli intervistati se e per chi voteranno, quando molti di loro non sanno per che e per chi saranno chiamati a votare. D’altronde, la campagna elettorale non è ancora partita. Nelle strade non si vedono manifesti. Né volantini, nelle cassette postali. Tanto meno si incontrano volontari, nelle strade e nei mercati. Ma questa è un’altra storia. Riguarda la scomparsa della politica sul territorio. Anche se, in fondo, la rimozione delle prossime scadenze elettorali evoca lo stesso problema. La stessa tendenza. Il declino del territorio. O meglio: la perdita dei riferimenti territoriali.

Vent’anni fa avveniva esattamente il contrario. I sindaci erano i nuovi sovrani. I veri capi della Nuova Repubblica. Eletti direttamente dal popolo. Insieme ai presidenti di Provincia. Come sarebbe avvenuto, negli anni a seguire, anche per i presidenti di Regione, pretenziosamente ri-nominati, per analogia con gli Usa, Governatori. Vent’anni fa: il territorio veniva agitato come una bandiera. Come il federalismo. Marcava la lotta contro lo Stato centrale. E contro il vecchio ceto politico. Contro i partiti “romani”. In fondo, lo stesso Berlusconi, anche se aveva definito il suo partito personale Forza “Italia”, era il capo di Forza “Milano”, in marcia “contro Roma” insieme alla Lega “Nord”. La sinistra, invece, appariva minoritaria, perché anch’essa localizzata, fin troppo, all’interno degli stessi confini di un tempo. Le regioni rosse dell’Italia centrale. Una sorta di Lega Centro (per citare Marc Lazar). Quest’Italia dei Comuni e delle Regioni aveva la sua cornice naturale nell’Europa. L’Italia: il Paese più europeista d’Europa. E al tempo stesso il più localista e antistatalista. Anzi: proprio per questo. Tanto più europeista — e localista — in quanto più lontano e disincantato nei confronti dello Stato.

Ebbene, in vent’anni, tutto sembra cambiato. E, senza quasi accorgersene, gli italiani hanno perduto fiducia nel territorio. In tutti i principali ambiti di governo locale. Basta tornare all’ultimo Rapporto su “ gli italiani e lo Stato” ( dicembre 2013). Da cui emerge il calo (meglio sarebbe dire: il collasso) della fiducia verso i Comuni. Oggi “stimati” da circa il 30% dei cittadini. Cioè: quasi 20 punti in meno rispetto a fine anni Novanta. Mentre la fiducia verso le Regioni, nello stesso periodo, si è dimezzata e oggi supera, di poco, il 20%. Così, non deve stupire la rimozione delle elezioni amministrative, che si coglie in questa fase. Rispecchia la progressiva marginalità dei governi locali nel sentimento dei cittadini. Che non ha paragoni, negli altri Paesi europei. Visto che la fiducia nei confronti dei Comuni e delle Regioni, in Italia, risulta, di gran lunga, la più bassa in un’indagine condotta anche in Francia, Spagna, Germania e GB ( Pragma per l’Oss. Europeo sulla Sicurezza di Demos, Oss. Pavia e Fondazione Unipolis, gennaio 2014).

Abbiamo, dunque, perduto il nostro “ancoraggio” al territorio. E i partiti territoriali, non a caso, galleggiano faticosamente. Non solo la Lega, ma anche Forza Italia, pardon: Forza Milano. I quali, non per caso, per sopravvivere si affidano al sentimento anti-territoriale. O meglio anti-europeo. D’altronde, la fiducia nella Ue è crollata, quanto e più di quella verso i governi locali. Oggi è scesa intorno al 28%. Oltre 20 punti meno rispetto a dieci anni fa. Circa la metà rispetto alla Germania, ma 10 punti in meno anche rispetto alla Spagna (Oss. Europeo sulla Sicurezza). Così, ci ritroviamo senza riferimenti territoriali. Abbiamo perduto la fede nei Comuni e nelle Regioni. Mentre delle Province ci siamo sbarazzati senza neppure discuterne, a livello sociale. Cancellate, come una voce di spesa, un capitolo della spending review. Senza rimpianti e senza proteste. Il federalismo, d’altronde, chi l’ha visto? Tuttavia, ci sentiamo lontani e delusi anche dall’Europa. A cui restiamo attaccati solo per paura. Di quel che ci potrebbe capitare se ne restassimo fuori. Non per questo abbiamo recuperato fiducia nello Stato. Anzi. Lo Stato è un participio passato. Perché oggi esprime fiducia (si fa per dire…) nei suoi confronti circa il 13% dei cittadini. Cioè: quasi nessuno. Così non ci dobbiamo sorprendere se, per paradosso, il leader politico più popolare, oggi, Matteo Renzi, è stato sindaco e, prima, presidente di Provincia. Né che la maggioranza dei veneti si dica d’accordo con la rivendicazione di indipendenza. Perché Renzi appare un capo. Senza partito — e senza territorio. Mentre l’indipendenza veneta non evoca una patria diversa e alternativa. Ma l’in-dipendenza dallo Stato e da ogni altra istituzione territoriale. Comune o Regione. Per non parlare delle Province, che non esistono più. Oltre che dall’Europa.

Un non-popolo senza patrie. Senza identità. Un Paese di apolidi. A questo rischiamo di ridurci, se non tentiamo, almeno, di resistere all’abolizione del territorio. Non solo dall’orizzonte (geo) politico. (A proposito: la Crimea da che parte sta?) Ma dal nostro “limes personale”. Dal nostro linguaggio. Dalle mappe che orientano la nostra vita quotidiana.

«Giovanni annuncia a una cattolicità chiusa in se stessa una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, Francesco la realizza in nome di un Dio tutto perdono e misericordia. Sotto quest’arco si è disteso il deserto di una rimozione del Concilio, e attraverso di esso è passata la Chiesa di Giovanni Paolo II».

L’Unità, 27 aprile 2014. C’è un arco che con un salto di 50 anni unisce Giovanni XXIII e Papa Francesco, e quest’arco poggia su due pilastri. Il primo è quello dell’11 settembre 1962 quando papa Giovanni, un mese prima dell’inizio del Concilio da lui convocato, ne definiva la ragione ed il fine, dicendo che «in faccia ai Paesi sottosviluppati» la Chiesa si presentava «come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Il secondo è quello del 13 marzo 2013 quando al Papa Bergoglio appena eletto l’amico brasiliano cardinale Hummes disse nella Sistina di «ricordarsi dei poveri», e lui scelse il nome di Francesco

Dunque Giovanni annuncia a una cattolicità chiusa in se stessa una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri, Francesco la realizza in nome di un Dio tutto perdono e misericordia. Sotto quest’arco si è disteso il deserto di una rimozione del Concilio, e attraverso di esso è passata la Chiesa di Giovanni Paolo II. È una Chiesa che soprattutto ha cercato di rafforzare le sue schiere, di debellare i suoi nemici, di celebrare i suoi trionfi, una Chiesa che Papa Wojtyla ha guidato verso una restaurazione delle glorie antiche di una cristianità signora dell’Europa e anima dell’Occidente: restaurazione che non è riuscita.

Ciò è avvenuto per molte ragioni. La prima è che il Papa polacco ha creduto che per restaurare la Chiesa bastasse restaurare il papato, portandolo al massimo della visibilità consentita dai tempi; la seconda è che da quel deserto, senza la fede ripensata e rinnovata dal Concilio, non c’era come uscire; la terza è che Papa Wojtyla ha creduto che la crisi della religione in Occidente fosse il frutto avvelenato dell’ateismo comunista, e che sconfitto quello il mondo non sarebbe caduto nell’edonismo della società dominata dal denaro, ma sarebbe stato «sollecito delle cose sociali»; e la quarta è stata che quando egli ha voluto fare il Papa non come piaceva alle grandi masse guidate dai «media», ma come contro ogni convenienza gli imponeva il Vangelo, e ha rotto la solidarietà con l’America opponendosi risolutamente alla guerra contro l’Iraq, l’Occidente lo ha oscurato e lo ha depennato come leader, confinandolo nel mito devozionale della sua santità privata.

È con questa storia alle spalle che le due canonizzazioni, di papa Giovanni e papa Wojtyla arrivano per una casuale coincidenza alla contemporanea proclamazione di oggi. Esse sembrano compensarsi, eppure sono assai diverse tra loro. Nel caso di Giovanni Paolo II quando la folla dei fedeli, emozionata per la sua morte, diceva «Santo subito», pensava alla sua santità personale, al modo in cui aveva reagito all’attentato, alla popolarità che si era guadagnata, alla sofferenza della sua malattia. Nel caso di Giovanni XXIII quando fu presentata la proposta che fosse il Concilio a proclamare la sua santità, senza processo canonico e il corredo di appositi miracoli, l’idea era che venisse esaltata proprio la santità del modo in cui Roncalli aveva esercitato il ministero petrino, aveva interpretato il suo ruolo di Papa.

La santità di papa Giovanni veniva da lontano. Si era costruita lungo tutta la vita all’insegna dell’oboedientia et pax, obbedienza e pace, suo motto episcopale, ma poi si era trasfusa nella imprevedibile decisione di convocare il Concilio per riportare a un mondo incredulo la fede, nella convinzione che da duemila anni il Cristo non aspettasse altro «con le braccia aperte sulla croce», come Roncalli confidò al suo segretario Capovilla il 24 gennaio 1959, la sera prima di darne l’annuncio ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le mura.

Erano stati Giuseppe Dossetti e il cardinale Lercaro, sostenuti dalla «scuola di Bologna», ad avere l’idea che il Concilio Vaticano II non potesse concludersi senza un grande gesto riepilogativo del suo significato e della sua visione del futuro, e che questogesto potesse e dovesse essere la canonizzazione conciliare di papa Giovanni. Ma Paolo VI non aveva voluto, timoroso di rompere le procedure rituali e sapendo che la ricezione nella Chiesa del Vaticano II avrebbe incontrato difficoltà e conflitti di interpretazione che avrebbero potuto ripercuotersi sull’istituzione pontificia sovraesposta da un Papa santificato dal Concilio. E così la proposta fu presentata in aula dal vescovo Bettazzi, ausiliare di Bologna, perché restasse agli atti anche se destinata a non essere accolta.

Oggi quella profezia si avvera. Papa Francesco, ricordandosi di San Paolo che lasciava ai Giudei di «chiedere miracoli» per predicare invece «Cristo crocefisso», non ha chiesto i miracoli di Papa Giovanni per farlo santo, perché il suo miracolo è il Concilio. Così, dopo cinquant’anni, il cerchio si chiude; ma come sarebbe stato se fosse stata proclamata dal Concilio, il significato della santità di Papa Giovanni è rimasto immutato: è la santità di un modo straordinario di fare il Papa, è la santità di «un cristiano sul trono di Pietro».

Il mondo cambia in fretta. Il fondatore di

Repubblica comincia a vedere Renzi com’è; ma dà la colpa della riabilitazione di B. ai magiistrati anziché al Re. La Repubblica, 27 aprile 2014

I versi del titolo che avete appena letto fanno parte della poesia “L’incontro de li Sovrani” che è tra i più divertenti componimenti di Trilussa e bene si attaglia ai temi che l’attualità politica ci presenta.

Il decreto che taglia di dieci miliardi il cuneo fiscale e li destina a dieci milioni di italiani lavoratori dipendenti sotto forma di bonus in busta paga nella misura di 80 euro al mese è già stato approvato dal Parlamento e pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale. Dunque è ormai legge dello Stato. Avrà esecuzione a partire dal primo maggio e gli 80 euro saranno pagati nelle buste paga del 27 di quel mese e così fino al 31 dicembre di quest’anno. Otto mesi, 640 euro in totale, destinati a chi è al lavoro almeno dal primo gennaio del presente anno.Il beneficio è riservato ai percettori di un reddito superiore a 8mila euro annui fino ad un tetto di 24mila. Poi, da 24 a 26mila gli 80 euro diminuiscono nettamente e dopo quel tetto cessano del tutto.

Se tuttavia l’occupazione del lavoratore ha avuto inizio dopo il primo gennaio del 2014 gli 80 euro per ogni mese di mancato lavoro diminuiscono. La media reale della somma percepita dai lavoratori interessati a quel beneficio non è dunque di 80 ma soltanto di 53, come ha calcolato Gianluigi Pellegrino sulla scorta dei dati esistenti. Il beneficio cioè viene corrisposto per otto mesi purché ne siano stati lavorati dodici. Non si tratta di una truffa ma di una esplicita condizione nascosta da un numero inesatto: non 80 ma 53. La differenza non è poca. Poi ci sono altre provvidenze che riguardano una diminuzione dell’Irap e alcuni interventi per l’occupazione dei giovani.

Seguono : il restauro di scuole malandate e il pagamento di cinque miliardi di debiti pregressi della pubblica amministrazione, grazie al quale, quando sarà il momento, il Tesoro incasserà l’Iva.

Le coperture sono alquanto raffazzonate e alcune di incerta realizzazione nel corso dell’anno. Ne abbiamo già dato conto nei giorni scorsi concludendo che l’intervento è piuttosto uno “spot” che un vero e strutturato programma. Quest’ultimo è allo studio del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, e dovrebbe esser pronto e varato entro il gennaio del 2015, valido fino a tutto il 2016. Questa è la manovra, questa è la speranza di crescita del Pil derivata da un tangibile aumento dei

consumi. Andrà così? Noi tutti lo speriamo e ne avremo un primo segnale nel prossimo autunno. Ma se quel segnale non ci fosse e i consumi restassero al palo dove già sono da anni, la manovra di rilancio sarebbe fallita, senza dire che quand’anche i consumi recuperassero quella dinamica che da tempo hanno perduto, nessun nuovo posto di lavoro ne deriverebbe poiché le imprese hanno ampi margini di produzione inutilizzati e disponibili a soddisfare nuova domanda senza bisogno di accrescere l’attuale base occupazionale. La nuova occupazione tarderà dunque a venire, salvo che siano messi in moto nuovi investimenti di carattere pubblico, soprattutto nell’edilizia e soprattutto in cantieri locali e nazionalmente diffusi; ma qui subentra un benestare europeo che è quasi certo ci sia riconosciuto a condizione che siano state avviate nuove riforme destinate ad accrescere la competitività, a semplificare l’amministrazione e a modificare l’architettura costituzionale in senso conforme alla nuova politica economica. Riforme che riguardano i contratti di lavoro, l’innovazione imprenditoriale, il superamento del bicameralismo perfetto. E quindi la riforma del Senato, che è un punto chiave di tutto il sistema.

Questo è il quadro della nostra politica nei prossimi due anni, già previsto e avviato dal governo di Enrico Letta e dal suo cronoprogramma che aveva come termine la fine del semestre europeo a presidenza italiana alla fine dell’anno in corso. Poi, secondo Letta, elezioni politiche nella primavera 2015. Il cronoprogramma di Renzi punta invece alla fine naturale della legislatura, nella primavera del 2018, sempre che le imminenti elezioni europee del prossimo 25 maggio non diano risultati tali da modificare gli attuali equilibri politici. In che modo e con quali prospettive?

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Berlusconi non starà fermo e l’ha già cominciato a dimostrare nella recente uscita alla trasmissione di “Porta a Porta” di tre giorni fa. Poi comincerà (è già in corso) una sua vera e propria occupazione televisiva da campagna elettorale, ad Agorà, a Mediaset, da Santoro, da Mentana, forse anche dalla Gruber e forse a Ballarò, più comizi nei teatri e messaggi ai vari club a lui intestati. Ma qui, prima di esaminare le sue posizioni politiche, una premessa è necessaria.

Non voglio manifestare odio persecutorio nei confronti d’un personaggio che sfiora ormai gli 80 anni e che da vent’anni è il leader d’un partito che ha governato per dodici anni ma ha dominato il panorama italiano anche quando era all’opposizione. Voglio però manifestare un sentimento che spero non sia soltanto mio ed è una grande vergogna che provo per il mio Paese e per me stesso che ne faccio parte. Berlusconi ha alimentato i comportamenti e i sentimenti peggiori di quella parte del popolo italiano disponibile a farsi sedurre dalla demagogia o raccolto in clientele lobbistiche o addirittura para-mafiose. Il suo conflitto d’interessi sarebbe stato condannato in qualsiasi Paese democratico e invece perdura tuttora. I suoi comportamenti privati hanno leso l’obbligo costituzionale di onorare con la propria presenza adeguata le cariche pubbliche di cui si è titolari.

Infine sono stati accertati o sono in corso di accertamento reati gravi, alcuni dei quali sono stati da lui resi leciti con apposite leggi “ad personam”, altri prescritti per la lunghezza imposta ai relativi processi. Alcuni però sono in corso e hanno già dato i primi risultati con pesanti condanne in primo grado ed anche in appello. Altri hanno da poco registrato il rinvio a giudizio. Uno infine ha condotto ad una sentenza definitiva per frode fiscale ai danni dello Stato, con quattro anni di condanna, dei quali tre coperti da indulto, e interdizione di due anni dai pubblici uffici.

Tale sentenza è stata promulgata un anno fa, è stata materializzata in affidamento a servizi sociali ed è stata qualificata da una lunga e dettagliata ordinanza del giudice di sorveglianza della Corte d’Appello di Milano. Nel seguente modo: andrà per quattro ore alla settimana in un ospizio di vecchi e disabili, sarà libero di muoversi in tutti i giorni seguenti entro un tassativo orario dalle 23 della sera alle 6 del mattino nel quale orario dovrà

risiedere nella casa dove ha scelto di domiciliare. Potrà andare in televisione, alla radio o in qualunque altro luogo per occuparsi di politica con piena libertà di parola e di contatti con i suoi collaboratori. Gli è stato sequestrato il passaporto affinché non sia tentato di abbandonare il Paese. Questo è il modo con il quale sarà eseguita una sentenza che prevede quattro anni di prigione domiciliare.

Ebbene, io provo vergogno per il mio Paese, per me che ne faccio parte ed anche per una magistratura che consente quanto sopra esposto. Mi piace dire che ne ho parlato qualche sera fa con la signora Severino, avvocato, docente universitaria ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti, autrice della legge sulla corruzione. La Severino manifestava i miei stessi sentimenti, cosa che mi ha dato molto conforto pur avendo, la Severino, idee politiche alquanto diverse dalle mie. Le persone perbene la pensano egualmente sui problemi dell’etica pubblica. Purtroppo non sono molte numerose.

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Ed ora veniamo all’attuale posizione di Berlusconi già in piena campagna elettorale. I sondaggi danno il suo partito in sostanziale declino, ma ancora attorno al 20 per cento di chi è disponibile a votare (non più del 60 per cento degli elettori).

Il leader, indiscusso perché privo di successori, di Forza Italia ha una tattica ed una strategia elettorali. La tattica è quella che abbiamo già visto da Vespa: rinnega la riforma del Senato preparata da Renzi, critica le modalità del taglio del cuneo fiscale, si dice perplesso sulle altre riforme e ostenta una posizione euroscettica di fronte all’Europa. Ma subito dopo conferma la sua alleanza con Renzi, critica le toghe rosse e la sinistra e fa i complimenti al leader del Pd che non ha niente a che vedere con la sinistra e insulta Napolitano (tanto per cambiare). Non mancano gli apprezzamenti verso Travaglio e Santoro e qualche strizzata d’occhio agli alfaniani e ai centristi.

Una tattica di galleggiamento che ha l’obiettivo di recuperare gli astenuti che vengono dal suo Pdl, attrarre gli incerti, prendere qualche distacco non tanto da Renzi quanto dal Pd. E riguadagnare voti senza parlare di prossime elezioni politiche.

Ma la strategia è alquanto diversa. Lui sa che se passa la cosiddetta legge elettorale Italicum con tutta probabilità sarà Grillo ad affrontare Renzi al ballottaggio. In realtà la legge elettorale che più gli conviene non è quella che punta esclusivamente sulla governabilità riducendo a carta straccia la rappresentanza e eliminando di fatto il Senato. Questo assetto sembrerebbe preparato apposta per lui se fosse ancora il primo come per vent’anni è stato nella classifica elettorale; ma se sarà come è probabile il terzo la legge che preferisce è la proporzionale e il criterio della rappresentanza come elemento principale. In questo modo il Parlamento sarebbe parcellizzato e non ci sarebbe altra soluzione che di perpetuare le “larghe intese”.

Questa è la strategia, alla quale la legge residuale lasciata dall’abolizione del “Porcellum” offre piena soddisfazione. Perciò si voti presto, non oltre il 2015. E intanto tiene Grillo sotto osservazione. Con Grillo non sarà mai alleato ma oggettivamente i loro populismi convergono, è un caso tipico del marciare separati per colpire uniti. Anche nei confronti dell’Europa. Dell’Europa sia Grillo che Berlusconi se ne fregano.

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Di fronte a questo scenario il centrosinistra, il riformismo radicale del Pd forgiato dall’Ulivo di Prodi e messo a punto da Veltroni col programma del Lingotto, sarebbe la sola risposta seria. Purtroppo non è quella di Renzi. L’attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe di seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte. Il seduttore vive di annunci e aspira alle conquiste. È un dongiovanni come Berlusconi: non si innamora ma vuole sedurre. Se la seduzione non funziona, cambia obiettivo e sposta il tiro. La sua donna Elvira è la Boschi, come la Gelmini lo è per il Berlusca. Il suo Leporello è Delrio come per l’altro è stato Dell’Utri.

Bastano forse questi nomi per comprendere che la qualità di Renzi è cento volte maggiore di quella dell’ex cavaliere. Ma si tratta pur sempre di due dongiovanni, con una differenza di fondo: Berlusconi finirà nell’abbraccio d’un Convitato di pietra che metterà la parola fine alle sue imprese. Renzi troverà invece un Figaro che venda per lui una “pomata fina” di ottima qualità. Ormai Renzi fa parte dei quadri della politica ed ha le qualità e la grinta per rimanerci. Potrà essere un eccellente primo violino; un direttore d’orchestra no. Sebbene nello strano Paese che è il nostro tutto possa accadere.Se i consumi restassero al palo la manovra di rilancio sarebbe fallita Quand’anche riprendessero la nuova occupazione tarderà a venire

«La crea­zione della moneta “comune” senza un governo poli­tico euro­peo è stata una scelta deli­be­rata, quella di togliere agli Stati il potere di deci­sione nel campo della moneta e con­se­guen­te­mente della finanza».

Il manifesto, 26 aprile 2014 (m.p.r.)

Non è ragio­ne­vole con­fon­dere lo stru­mento (la moneta “comune” euro­pea, l’euro) con le cause strut­turali del fal­li­mento delle poli­ti­che di “cre­scita”, di con­ver­genza eco­no­mica e d’integrazione poli­tica dell’Europa. Essendo un sim­bolo forte della Mala Europa, l’euro è diven­tato un ber­sa­glio troppo facile e imme­diato su cui sca­ri­care la giu­sta rab­bia dei cit­ta­dini euro­pei per una Unione euro­pea i cui gruppi domi­nanti hanno sba­gliato tutto. Ma ciò non è suf­fi­ciente per costruire un’Altra Europa: biso­gna andare al cuore dei pro­blemi ed attac­care il sistema edi­fi­cato ed impo­sto nel corso degli ultimi trent’anni, di cui l’euro è uno degli ingra­naggi più recenti.

Il punto cri­tico è distrug­gere la tena­glia mercato/finanza che ha stretto in una morsa mor­tale le società euro­pee sof­fo­cando lo Stato dei diritti e la giu­sti­zia sociale, deva­stando la ric­chezza col­let­tiva (i beni comuni), demo­lendo le già deboli forme di demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva e par­te­ci­pata. Distrug­gere la tena­glia signi­fica ridare ai cit­ta­dini euro­pei la capa­cità di costruire un futuro hic et nunc.

A par­tire dagli anni ’70, le classi diri­genti euro­pee si sono tro­vate ad affron­tare una serie di grossi pro­blemi: la crisi ambien­tale dello “svi­luppo”, il col­lasso del sistema finan­zia­rio mon­diale (1971–73), la fine del domi­nio dei paesi occi­den­tali sul prezzo del petro­lio (1973, 1978), l’emergenza dei paesi del “Terzo Mondo” e, soprat­tutto, la rivolta dei deten­tori di capi­tale con­tro la ridu­zione dei tassi di pro­fitto per il capi­tale pri­vato, inter­ve­nuta negli anni ’60 e ’70, con­se­guente al buon fun­zio­na­mento dello Stato del Wel­fare. Que­sto aveva con­sen­tito un rie­qui­li­brio nella redi­stri­bu­zione della ric­chezza pro­dotta a favore dei red­dito da lavoro e della ric­chezza col­let­tiva (beni e ser­vizi d’interesse gene­rale). A livello euro­peo si trat­tava di supe­rare l’impasse in cui i con­flitti d’interesse fra i gruppi domi­nanti “nazio­nali” ave­vano con­dotto l’integrazione eco­no­mica e poli­tica dell’Europa.

Acce­cati dai dogmi del capi­ta­li­smo mer­can­ti­li­sta e finan­zia­rio, dalla bra­mo­sia di arric­chi­mento e di potenza, i gruppi domi­nanti hanno cre­duto di risol­vere i pro­blemi dando il potere di rego­la­zione e di con­trollo (“le regole della casa”) al mer­cato ed alla finanza, i crea­tori di ric­chezza in un’economia capitalistica. In nome dei prin­cipi della libe­ra­liz­za­zione, della mer­ci­fi­ca­zione e della pri­va­tiz­za­zione dei beni e dei ser­vizi, hanno creato (nel 1992) il “mer­cato comune euro­peo” e favo­rito la crea­zione (nel 1994) dell’Omc (Orga­niz­za­zione Mon­diale del Com­mer­cio). L’importanza del potere attri­buito al mer­cato sta nel fatto che cosi facendo i gruppi domi­nanti hanno affi­dato il potere di rego­la­zione e di con­trollo del valore delle cose e di defi­nire le prio­rità ai mec­ca­ni­smi di scam­bio e al prin­ci­pio della mas­si­miz­za­zione delle uti­lità indi­vi­duali con­cor­renti, toglien­dolo alla col­let­ti­vità e alle auto­rità poli­ti­che sta­tuali. Tant’è che in pochi anni l’Unione euro­pea ha san­cito che ogni inter­vento dei poteri pub­blici nelle mate­rie sot­to­messe al mer­cato interno euro­peo era nocivo e quindi ille­gale per­ché fat­tore di distor­sione dei mec­ca­ni­smi rego­la­tori del mer­cato. Più mer­cato con Stato zero (ten­den­zial­mente), è stato il blocco di ferro su cui hanno for­giato la prima gana­scia della tenaglia .

E’ però dif­fi­cile far fun­zio­nare dei mer­cati inte­grati senza una moneta comune sulle cui basi svi­lup­pare le atti­vità finan­zia­rie ed orga­niz­zare i mer­cati finan­ziari. Da qui la for­ma­zione del secondo brac­cio di ferro della tena­glia: la crea­zione dell’euro, la moneta unica, senza però creare un potere poli­tico pub­blico euro­peo (1997/2000) respon­sa­bile della poli­tica mone­ta­ria e finanziaria. La poli­tica mone­ta­ria è stata affi­data ad una nuova isti­tu­zione, la Banca Cen­trale Euro­pea poli­ti­ca­mente indi­pen­dente dalle isti­tu­zioni dell’Unione. Nem­meno il Par­la­mento euro­peo, rap­pre­sen­tante eletto di 509 milioni di cit­ta­dini, può dire qual­cosa alla Bce. Que­sta è l’unica banca cen­trale al mondo inte­ra­mente sovrana sul piano poli­tico.

Altro che demo­cra­zia! La crea­zione della moneta “comune” senza un governo poli­tico euro­peo è stata una scelta deli­be­rata, quella di togliere agli Stati ed ancor più ad un even­tuale “governo fede­rale euro­peo demo­cra­ti­ca­mente legit­ti­mato” il potere di deci­sione nel campo della moneta e con­se­guen­te­mente della finanza. Cosi, la respon­sa­bi­lità della poli­tica finan­zia­ria è stata data agli ope­ra­tori finan­ziari, sem­pre più internazionali/globalizzati, attra­verso le misure prese a par­tire dagli anni ’80 quali:
- abban­dono dei con­trolli sui movi­menti inter­na­zio­nali dei capi­tali, dopo l’abbandono nel 1973 dei tassi di cam­bio fissi tra le monete e con­se­guente esplo­sione dei mer­cati delle divise, nido pro­li­fico degli speculatori.
- pri­va­tiz­za­zione di tutti gli ope­ra­tori finan­ziari e eli­mi­na­zione della distin­zione tra atti­vità assi­cu­ra­tive e ban­ca­rie, tra ban­che di depo­sito e di cre­dito, e tra i vari set­tori ban­cari (agri­colo, indu­striale, com­mer­ciale, arti­gia­nato, lavoro),
- lega­liz­za­zione degli hedge funds (fondi d’investimento) alta­mente spe­cu­la­tivi — fino a giun­gere recen­te­mente alle tran­sa­zioni finan­zia­rie “ad alta fre­quenza” cioè ai mil­le­simi di minuto — da cui sono nati i pro­dotti deri­vati che sono stati alle ori­gini delle gravi crisi finan­ziare del 2001 e del 2008 che hanno distrutto decine e decine di milioni di posti di lavoro.

Quest’insieme di misure ha dato vita ad un sistema finan­zia­rio detto “la banca totale”, iper-oligopolistico, con­tras­se­gnato dall’emergenza di enormi com­plessi finan­ziari pri­vati tanto potenti da diven­tare too big to fail pena il col­lasso glo­bale del sistema capi­ta­li­stico mon­diale. L’intera eco­no­mia è così scap­pata al con­trollo pub­blico, il potere poli­tico è stato pri­va­tiz­zato, la sovra­nità poli­tica degli stati nazio­nali è stata ridotta a pura for­ma­lità . Il Patto di bilan­cio 2012–14 (FiscalCom­pact) rap­pre­senta l’ultima mossa dello schiac­cia­mento della sovra­nità degli Stati dell’Ue. In que­ste con­di­zioni il pro­blema non è di uscire o restare nell’euro — né tan­to­meno di creare una moneta veneta o di aggiun­gere all’euro una nuova moneta ita­liana — ma di rom­pere la tena­glia e libe­rare le società euro­pee dalla morsa mercato/finanza cam­biando radi­cal­mente un intero sistema mone­ta­rio, finan­zia­rio, eco­no­mico, legi­sla­tivo e poli­tico sostan­zial­mente malefico.

Il Regno Unito non è mai entrato nell’euro e appa­ren­te­mente ha con­ser­vato la sovra­nità nazio­nale sulla sua moneta. Eppure, il Regno Unito è diven­tato una delle società più ine­guali, più ingiu­ste e meno demo­cra­ti­che dei paesi svi­lup­pati del mondo. Il popolo inglese non è affatto libero, è sot­to­messo alle deci­sioni dei poteri mon­diali finan­ziari della City. Inver­sa­mente, restare nell’euro come affer­mano Schultz, Bar­roso, Mer­kel, Hol­lande, Junc­ker e tan­tis­simi altri lea­ders poli­tici (quali Renzi) , signi­fica man­te­nere la Mala Europa, rin­for­zare le cause che con­du­cono alla cre­scita della disoc­cu­pa­zione ed ali­men­tare i fat­tori strut­tu­rali all’origine dei pro­cessi d’impoverimento in Europa (quasi 120 milioni d’impoveriti nel 2012 in seno all’Ue) e con­ser­vare un’Europa che con­ti­nua a con­si­de­rare clan­de­stini chi cerca di immi­grare in Europa e non pos­siede un diploma uni­ver­si­ta­rio elevato.

Occorre lavo­rare su solu­zioni strut­tu­rali pre­cise: azze­ra­mento del debito pub­blico deri­vato dalla crisi del sistema finan­zia­rio; eli­mi­na­zione dell’indipendenza poli­tica della Bce; rien­tro delle ban­che cen­trali sotto il con­trollo pub­blico; ripub­blic­ciz­za­zione delle casse di rispar­mio e delle ban­che coo­pe­ra­tive e delle prin­ci­pali ban­che d’interesse pub­blico gene­rale; uscita dei beni e dei ser­vizi comuni pub­blici (come l’acqua, la casa, la salute, le sementi, l’educazione) dalle logi­che mer­can­tili e divieto d’intervento in detti campi alle imprese quo­tate in borsa; poli­ti­che fiscali e di con­trollo della spe­cu­la­zione finan­zia­ria (para­disi fiscali, ren­dite, messa fuori legge dei pro­dotti deri­vati e degli hedge funds…), impulso alla rina­scita delle forme eco­no­mi­che coo­pe­ra­tive e mutua­li­sti­che a forte orien­tam­mento locale (nuovo svi­luppo dell’agricoltura bio­lo­gica e dell’agricoltura con­ta­dina…), mol­ti­pli­ca­zione delle “monete locali” (rivolte a libe­rare i rap­porti umani dalla mone­ta­riz­za­zione, del tutto diverse dalle fumose “micro­mo­nete” nazional-indipendenti).

«C’è una fetta d’Italia che sta unificando le diverse voglie di partecipazione democratica su progetti concreti: e il primo è il “no” alle spese militari. Il nostro paese è impoverito e provato: deve fare scelte responsabili. Scegliere fra investire nel lavoro o in armamenti vuol dire decidere tra vita o non vita».

La Repubblica, 26 aprile 2014 (m.p.r.)

VERONA . Niente cerimonie nazionaliste, o tanto meno riti militaristi: «La Resistenza non si lascia imbalsamare», ride Lidia Menapace, staffetta partigiana e oggi novantenne lucidissima. «Possono coincidere la lotta contro i nazifascisti e gli ideali non violenti? Guardi, io non ho mai voluto armi, non ho nemmeno imparato ad usarle. Ma portavo addosso il plastico, per far saltare i ponti e fermare le truppe naziste. Perché la violenza è monotona, la non violenza è creativa e sorprendente ».

All’Arena di Verona lo striscione più grande lo dichiara dal primo momento: la Resistenza oggi è questa, si chiama campagna per la pace. E dietro le bandiere arcobaleno e gli slogan contro i cacciabombardieri non c’è più solo il popolo dei movimenti, variopinto e scoordinato. C’è una fetta d’Italia che sta unificando le diverse voglie di partecipazione democratica su progetti concreti: e il primo è il “no” alle spese militari. «Non siamo più negli anni della Guerra fredda. Il nostro paese è impoverito e provato: deve fare scelte responsabili. Scegliere fra investire nel lavoro o in armamenti vuol dire decidere tra vita o non vita. Ma anche noi siamo cambiati.

E’ vero, ci sono i colori degli anni ‘70, ma non ci sono ideologie soffocanti, affrontiamo le sfide con senso concreto. Non portiamo solo testimonianza, ma anche proposte: è un salto culturale enorme», sintetizza Gianni Bottalico, presidente delle Acli. Che il filo spinato dell’ideologia sia stato tagliato, lo testimoniano anche i messaggi, quello accorato di Gino Strada dal Sudan e quelli affettuosi della Santa Sede, di monsignor Capovilla che riprende la benedizione papale e «l’esortazione a far camminare la speranza ». E quello di Pietro Parolin, cardinale segretario di Stato, che riprende le parole nettissime pronunciate dal pontefice: «Finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità».
Sono quelle armi che difendono la prepotenza di un quinto dell’umanità davanti alle richieste degli altri, ricorda padre Alex Zanotelli, evocando Martin Luther King: «O scegliamo la non violenza, o è la non esistenza». Sono quelle armi che si comprano sempre con procedure opache, aggiunge Maurizio Simoncelli, dell’archivio Disarmo: «Secondo Transparency International, per gli armamenti mediamente si pagano tangenti del 20 per cento». Possono essere armi concrete, come gli F-35, protagonisti in negativo su mille striscioni, esorcizzati dalla campagna pacifista con un volo di diecimila piccoli aerei di carta colorata sull’Arena. O possono essere le armi dell’economia, che privano le persone della dignità di vivere, come ricorda don Luigi Ciotti.
I mille rivoli dell’Italia che non vuole gli strumenti di guerra sono pronti a confluire «in un’inondazione di firme», esulta Francesco Vignarca, coordinatore della campagna “Tagliamo le ali alle armi”: «Vogliamo un disegno di legge di iniziativa popolare per istituire un Dipartimento di Difesa civile». Zanotelli sogna un ministero della Difesa disarmata, con soldati di pace che facciano interposizione per il dialogo fra i popoli in conflitto. Ma il segnale di unità che viene da Verona è già un messaggio politico molto reale: «Le autorità ci hanno chiesto di verificare gli ingressi all’Arena, per motivi di sicurezza. Sono arrivate tredicimila persone, sotto il sole, in un momento in cui l’Italia non vede coinvolgimenti in guerre vicine», aggiunge Vignarca: «Siamo una forza stabile, concreta. Non ci possonopiù ignorare»
«Ucraina. Mentre le scene di guerra aumentano, il nano politico - con rispetto ai nani - dell’UE si nasconde, quello dell’Italia è vuoto assoluto che compra e assembla aerei da guerra e concede basi militari a danno del territorio».

il manifesto, 26 aprile 2014, con postilla
Le scene ormai sono quelle di una guerra. Una nuova guerra. Dire che il mondo guarda atto­nito e spa­ven­tato vor­rebbe dire rac­con­tare l’ennesima bugia. Per­ché l’Europa che poli­ti­ca­mente non esi­ste e tan­to­meno ha una sua poli­tica estera, par­te­cipa volente o nolente alla stra­te­gia di allar­ga­mento della Nato a est. Che, a quanto pare, comin­cia a dare i suoi frutti. Avve­le­nati. Ma andiamo per ordine. Mer­co­ledì e gio­vedì è scat­tata l’offensiva delle forze mili­tari di Kiev con­tro le regioni orien­tali rus­so­fone insorte.

Dopo le prime dieci vit­time, sem­brava che il buon senso con­si­gliasse alle truppe spe­ciali ucraine di fer­marsi. È forte il rischio che si ripeta la «Geor­gia 2008», quando dopo l’attacco dei mili­tari geor­giani su indi­ca­zione dell’ex pre­mier filo-occidentale Sha­ha­ka­sh­vili con­tro l’insorta e filo­russa Abba­zia — un attacco anche allora isti­gato dalla Nato — inter­venne in forze l’esercito russo. Fu una scon­fitta mili­tare per Sha­ka­sh­vili che, abban­do­nato alla fine dall’Alleanza atlan­tica, fu defe­ne­strato poi a furor di popolo.

Ieri invece la con­trof­fen­siva di Kiev — chissà che con­si­gli sta dando il capo della Cia John Bren­nan che Obama ha annun­ciato come ope­ra­tivo nella capi­tale ucraina — è ripar­tita con­tro altre città dell’est, gli insorti sta­volta hanno rea­gito facendo esplo­dere un eli­cot­tero a terra, per­ché l’attacco può arri­vare anche dall’aria. Come finirà?

La Casa bianca ammo­ni­sce la Rus­sia a «riti­rare le truppe», che finora stanno ancora in Rus­sia. Dovrebbe riti­rarle dalla Rus­sia? E John Kerry accusa: «Mosca desta­bi­lizza l’Ucraina» e difende il governo in carica ricor­dando, a suo dire, che «l’esecutivo legit­timo vuole col­pire i ter­ro­ri­sti», men­tre in un sus­sulto i por­ta­voce di Kiev e di Washing­ton ripe­tono all’unisono «basta pro­te­ste con i volti masche­rati e per­sone armate, basta terrorismo».

Ma di quale legit­ti­mità parla? Giac­ché il governo di Kiev è stato appro­vato da piazza Maj­dan in rivolta, con pro­ta­go­ni­sti in tenuta para­mi­li­tare, anche armati e a migliaia con il volto mascherato.

Per quat­tro mesi gli alle­gri inviati dei gior­na­loni occi­den­tali si sono appas­sio­nati ad indi­carci gli «eroi» che vaga­vono in piazza, hanno esal­tato l’odore di cavolo delle cucine da campo, hanno bevuto il tè offerto dai rivol­tosi «belli». Per una rivolta, è bene ricor­darlo, il cui con­te­nuto remoto era la cor­ru­zione di un regime (comun­que demo­cra­ti­ca­mente eletto), ma sostan­zial­mente dai con­no­tati esclu­si­va­mente nazio­na­li­sti ucraini, for­te­mente anti­russa — la prova furono i primi prov­ve­di­menti con­tro la lega­liz­za­zione della lin­gua russa -, con una forte pre­senza orga­niz­zata dei mili­ziani della destra estrema fasci­sta di Svo­boda e ancor più di Pravj Sektor.

Que­sto clima, che meglio sarebbe defi­nire peri­co­loso guaz­za­bu­glio, ruppe con la forza gli argini di un accordo inter­na­zio­nale defi­nito tra Kerry e Lavrov a Monaco il 20 feb­braio (con Yanu­ko­vich e lo stesso attuale «pre­mier» Yatse­niuk) e alla fine approvò — appena libe­rata l’«eroina Tymo­shenko» in realtà oli­garca e in galera per avere favo­rito la Rus­sia nella trat­ta­tiva sul gas — e instaurò la «legit­ti­mità» del nuovo governo e della nuova pre­si­denza Tur­chy­nov, uno dei lea­der della rivolta «masche­rata» di Euro­ma­j­dan. Con oli­gar­chi che pas­sa­vano da una parte all’altra tran­quil­la­mente. E tutto il soste­gno attivo degli Stati uniti e dell’Alleanza atlantica

Com’era pos­si­bile non imma­gi­nare che, a fronte di una «legit­ti­mità» che rap­pre­senta nem­meno la metà dell’Ucraina spac­cata a quel punto ine­so­ra­bil­mente almeno in due parti, le popo­la­zioni rus­so­file, rus­so­fone e russe a tutti gli effetti non faces­sero la loro di «rivolta di Maj­dan»? O esi­stono rivolte di piazze di serie A e quelle di serie B?

La Cri­mea, russa a tutti gli effetti, è andata per le spicce e si è auto­pro­cla­mata indi­pen­dente chie­dendo, subito bene accetta da Mosca, l’adesione alla Rus­sia. La Cri­mea e tutta l’Ucraina sono la linea di difesa estrema e di sicu­rezza della Rus­sia. Cir­con­data da Occi­dente da tutti gli ex paesi del Patto di Var­sa­via inglo­bati ormai den­tro l’Alleanza atlan­tica, con tanto di basi, sistemi di guerra, scudi spa­ziali. Men­tre su piazza Maj­dan non solo il capo della Cia, ma repub­bli­cani, Joe Biden e Kerry sono ormai di casa. Che ci stanno a fare a decine di migliaia di chi­lo­me­tri dagli Stati uniti? Chi desta­bi­lizza dav­vero gli inte­ressi degli ucraini? Che dovreb­bero essere demo­cra­tici e final­mente fede­rali, per una rap­pre­sen­tanza vera del secondo più grande Paese d’Europa, ma anche al di fuori di ogni alleanza mili­tare precostruita.

E con­tro i vec­chi e nuovi oli­gar­chi e i dik­tat del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale che ora torna in forze ma che durano da anni con­tro le classi subal­terne ucraine. Men­tre le scene di guerra aumen­tano, il nano poli­tico — con tutto il rispetto dei nani — dell’Unione euro­pea si nasconde, quello dell’Italia è un vuoto asso­luto che com­pra e assem­bla aerei da guerra e con­cede basi mili­tari a danno del ter­ri­to­rio. Vive l’Europa la ver­go­gna, dopo tante espe­rienze nefa­ste e di guerre «uma­ni­ta­rie» nei Bal­cani, di essere diven­tata sol­tanto una moneta che riduce in mise­ria i suoi popoli costi­tuenti, e sol­tanto un’alleanza mili­tare, la Nato a guida esclu­siva degli Stati uniti. La chia­mano demo­cra­zia occi­den­tale. E odia la pace.

postilla
Il capitalismo nella fase fordista (e keynesiana) tentò due strade per uscire dalla crisi. La prima fuquella del new deal roosveltiamo, la seconda fuquella del riarmo, e condusse alla seconda guerra mondiale. Immemore della storia l'Europa, colonia degli USA, sembra oggi aver scelto la seconda.

La vicenda della Thyssen di Torino rimane aperta sul piano giudiziario, ma è chiarissima sul piano della politicase è a questa che spetta trasformare la domanda di equità in regole di giustizia. «I mana­ger devono tener conto della sicu­rezza nei luo­ghi di lavoro in qua­lun­que delle loro deci­sioni, com­prese le chiu­sure degli impianti, per­ché la vita umana non è meno impor­tante dei fat­tu­rati e dei bilanci». Ilmanifesto, 25 aprile 2014

Se i giu­dici della Cas­sa­zione accet­te­ranno la richie­sta del pg, la strage di lavo­ra­tori della Thys­sen di Torino sarà giunta a giu­di­zio defi­ni­tivo con la con­ferma delle con­danne e l’individuazione delle respon­sa­bi­lità già accla­rate nei gradi di giu­di­zio pre­ce­denti e pur­troppo deru­bri­cata in appello dall’omicidio volon­ta­rio all’omicidio col­poso con colpa grave. Il giu­di­zio defi­ni­tivo non può lenire il dolore delle fami­glie o col­mare il vuoto per la per­dita dei loro cari e dei com­pa­gni di lavoro. E non rimuove quell’onda di emo­zione che si pro­pagò nell’intero paese per quelle morti ope­raie sul lavoro, di quasi l’intera squa­dra addetta alla linea di deca­pag­gio N 5, unico super­stite l’operaio Anto­nio Boc­cuzzi, in una fab­brica che stava chiu­dendo per le scelte di posi­zio­na­mento inter­na­zio­nale della mul­ti­na­zio­nale tede­sca.

Resta il ram­ma­rico per il ten­ta­tivo di Raf­faele Gua­ri­niello, ardito per il diritto vigente, ma di grande con­tem­po­ra­neità per come le imprese mul­ti­na­zio­nali glo­ba­liz­zate costrui­scono oggi le loro deci­sioni di ter­ri­to­ria­liz­za­zione dei pro­dotti e i loro bud­get di spesa. Attra­verso l’accusa di omi­ci­dio volon­ta­rio il pro­cu­ra­tore di Torino ha cer­cato di respon­sa­bi­liz­zare i mana­ger, che devono tener conto della sicu­rezza nei luo­ghi di lavoro in qua­lun­que delle loro deci­sioni, com­prese le chiu­sure degli impianti, per­ché la vita umana non è meno impor­tante dei fat­tu­rati e dei bilanci. Non diciamo que­sto per spi­rito ven­di­ca­tivo, ma per­ché nelle pie­ghe di quella inchie­sta si evi­den­zia come la scelta della dismis­sione avesse com­por­tato anche la mas­si­miz­za­zione dei risparmi e lo sfrut­ta­mento di que­gli impianti fino all’ultima uti­lità dell’impresa, sca­ri­cando sulla dispo­ni­bi­lità dei lavo­ra­tori, ricat­ta­bili con gli ultimi salari dispo­ni­bili prima della ces­sa­zione dell’attività, rischi inac­cet­ta­bili.
Infine, que­sta vicenda segnala come serva un’altra Europa che metta al cen­tro le per­sone oltre e prima della finanza e dei pro­fitti, anche con leggi e diritti nei luo­ghi di lavoro che impe­di­scano alle mul­ti­na­zio­nali di acqui­sire van­taggi com­pe­ti­tivi rispar­miando sulla sicu­rezza: se a Torino ci fos­sero stati gli impianti antin­cen­dio che erano in fun­zione in Ger­ma­nia, sette ope­rai sareb­bero ancora vivi.

Dal faz­zo­letto tri­co­lore dei par­ti­giani indos­sato a Onna il 25 aprile del 2009, nel mas­simo ful­gore dei son­daggi , a que­sto 25 aprile 2014, alla deca­dente sta­gione dei ser­vizi sociali inau­gu­rati ieri. Non nella casa di riposo lom­barda, ma nell’accogliente casa-famiglia romana di Porta a Porta, sulla rete dell’ammiraglia del ser­vi­zio pub­blico, ospite del con­dut­tore di riferimento.

Il poli­tico con­dan­nato per reati gravi, che ancora non ha scon­tato la sua pena, che dun­que non ha pagato il suo conto con la società, e che per que­sto non può rap­pre­sen­tare con “onore” la comu­nità, torna, come sem­pre, come prima, a cal­care la scena della pro­pa­ganda elet­to­rale. È l’inizio di una lunga rin­corsa media­tica, ascol­te­remo Ber­lu­sconi da tutte le radio, lo vedremo in tutti i talk-show, magari armato di un faz­zo­letto per pulire le sedie degli inge­nui oppositori.

Prima ancora di discu­tere della para­bola di Ber­lu­sconi e di Forza Ita­lia, che ormai anche i son­dag­gi­sti amici con­fi­nano al terzo posto, dopo Pd e Movi­mento 5Stelle, dovremmo indi­gnarci per la grande farsa nazio­nale, impen­sa­bile in ogni altro paese del vec­chio con­ti­nente visto che andiamo a un voto euro­peo. Ma su que­sto sono pochi ormai a ecce­pire, il ber­lu­sco­ni­smo ha neu­tra­liz­zato gli anticorpi.

Che c’è di strano se Ber­lu­sconi va in tv a dire come vuole cam­biare il paese, se chiama le tele­ca­mere di Vespa per denun­ciare «pre­cise regie» dei giu­dici che com­plot­tano con­tro di lui, se entra nelle case degli ita­liani per lan­ciare accuse con­tro «la mascal­zo­nata della decan­denza», se usa i riflet­tori per un attacco scom­po­sto a Napo­li­tano, se i tg della sera suo­nano la gran­cassa dell’ex cava­liere che fa vacil­lare il patto per le riforme. Sono diva­ga­zioni ai mar­gini dalla pro­fonda sin­to­nia tra l’illusionista e il rottamatore.

Meglio sepa­rare la poli­tica dalla morale e pas­sare ad altri, pen­sosi inter­ro­ga­tivi. Come quelli che ieri sulle colonne del Cor­riere della Sera ani­ma­vano l’editoriale di Galli Della Log­gia, inter­prete dell’angoscioso inter­ro­ga­tivo di Ber­lu­sconi e dei ber­lu­sco­niani («Per­ché non le abbiamo fatte noi le cose che sta facendo Renzi?»). In realtà la domanda ne sug­ge­ri­sce un’altra: se Ber­lu­sconi e i ber­lu­sco­niani si dol­gono per non aver fatto loro le riforme che oggi vedono Renzi pro­ta­go­ni­sta, delle due l’una: o Renzi è di destra o Ber­lu­sconi è di sinistra.

Con l’overdose di pre­ca­rietà offerta dal mini­stro Poletti, con i tagli a Regioni e Comuni, con i poveri e i pen­sio­nati a bocca asciutta, e con i gio­chi di pre­sti­gio inven­tati dal pre­mier per tirare fuori gli 80 euro, la destra è ovun­que. Né sap­piamo dove Padoan pren­derà gli 80 euro oggi, e soprat­tutto domani.

Qual­che dub­bio deve averlo avuto anche il Pre­si­dente della Repub­blica, a meno di voler inse­rire Napo­li­tano nel sim­pa­tico par­tito dei “gufi” per aver chia­mato al Colle il mini­stro dell’economia chie­den­do­gli «ulte­riori chia­ri­menti» sulle coper­ture. O meglio, sul jolly vin­cente al tavolo del 25 maggio

«Per noi i controlli — dice Toni De Amicis, direttore della fondazione Campagna amica legata alla Coldiretti — sono un toccasana. Sia per i farmers market che per gli agriturismo. Ben vengano Forestale, Finanza, carabinieri, ma siamo noi i primi controllori di noi stessi».

La Repubblica, 25 aprile 2014 (m.p.r.)

Padova. Hanno dovuto alzarsi molto presto, gli uomini e le donne della Forestale. Alle 3 di notte erano già al Maap, il mercato ortofrutticolo all’ingrosso. «Ecco, quelli sono i clienti da seguire». C’era stata una segnalazione: ci sono dei contadini che vendono i loro prodotti nei e in realtà comprano quasi tutto all’ingrosso. Quattro di loro sono pedinati, fotografati e filmati mentre acquistano cassette di frutta e verdura. «Poi, per ordine del sostituto procuratore Sergio Dini — raccontano al comando provinciale della Forestale, guidato da Paolo Zanetti — abbiamo perquisito le quattro aziende e lì abbiamo trovato le cassette svuotate e abbandonate perché portavano il nome del produttore. Frutta e verdura, al mattino, erano nei mercati “a chilometro zero” in piazza De Gasperi qui in città e nei farmers market di Vigodarzere, Cadoneghe e Cittadella. “Ecco le patate del mio campo”. “Noci, noci padovane, le più buone”. In realtà, le patate arrivavano dalla Francia e dall’Olanda, le noci dagli Stati Uniti. C’erano anche cavoli spagnoli, finocchi pugliesi e limoni della Calabria. Abbiamo denunciato i quattro contadini per frode in commercio, articolo 515 del codice penale. Dicendo che frutta e verdura arrivano dalle loro campagne i coltivatori praticamente non pagano l’Iva e sono esenti dall’Irpef. La pena prevista? Fino a 2 anni di reclusione o 2.065 euro di multa».

Con la Pasqua “sbocciano” in tutta Italia le bancarelle dei , si aprono le porte degli agriturismo, si apparecchiano i tavoli delle prime sagre. Tutti luoghi dove i “cittadini” vanno alla ricerca di prodotti genuini, pronti anche a pagare di più pur di ritrovare i sapori dell’infanzia. «È un mercato in forte crescita — dice Luciano Sbraga, responsabile del centro studi della Fipe, federazione italiana pubblici esercizi — perché offre qualità e salute. Ma bisogna stare attenti alle truffe. Credi di mangiare una lasagna “della nonna” e ti trovi nel piatto quella della Metro scongelata». In un convegno a Imola, la Confcommercio dell’Emilia Romagna ha denunciato la concorrenza sleale che arriva da tanti fronti. «C’è chi si riempie la bocca — dice il direttore regionale Pietro Fantini — con la tradizione e poi pensa solo a fare soldi non rispettando le regole ». «In Italia — spiega Luciano Sbraga — ci sono circa 42.000 sagre — una media di 5 per ognuno degli 8.062 comuni italiani — che dovrebbero valorizzare i prodotti del territorio, che in Italia non sono più di 4.000. E allora ecco le tante sagre della birra, quelle del pesce azzurro in paesi a 100 chilometri dal mare o, addirittura, come avviene a Lanciano, la “Sagra del wurstel”, con la precisazione che si tratta di “wurstel originali importati dalla Germania e accompagnati da patate fritte”. Noi pensiamo che le sagre italiane legate a un cibo locale non siano più di 15-16mila. E queste sagre taroccate hanno un fatturato di 600 milioni all’anno, con concorrenza sleale verso ristoranti e trattorie che pagano stipendi e tasse».
Anche per gli agriturismo bisogna saper scegliere. «In queste strutture ci sono circa 10.000 ristoranti. Quanti sono davvero legati a un’azienda agricola? Non più di uno su tre». Ogni Regione, per la ristorazione in agriturismo, ha stabilito regole diverse. In Abruzzo il 60% delle materie prime deve essere prodotto in azienda, il 30% da altre aziende agricole locali e il 10% dal libero mercato. Nel Lazio le percentuali sono 35, 50 e 15%. In Emilia Romagna 35, 45 e 20%. In Toscana si dice soltanto che tutte le materie prime debbono essere prodotte nella regione. «Per noi i controlli — dice Toni De Amicis, direttore della fondazione Campagna amica legata alla Coldiretti — sono un toccasana. Sia per i che per gli agriturismo. Ben vengano Forestale, Finanza, carabinieri, ma siamo noi i primi controllori di noi stessi. Soltanto nel 2013 abbiamo fatto verifiche in 8.000 aziende».
Legati alla fondazione Campagna amica ci sono in Italia 1.000 farmers market, 7.000 fattorie con vendita diretta, 180 di Campagna in città. «In tutte queste realtà il coltivatore responsabile deve produrre il 51% di ciò che vende e può prendere il resto solo in altre aziende associate e controllate. Le multe sono salate. Si va dai 200 o 300 euro per chi mette sul banco insalata appassita o taglia un salume senza mettere i guanti e si arriva a 300.000 euro per chi spaccia per locale un prodotto arrivato dall’estero. In questo caso — e anche per chi vende prodotti manipolati dall’industria — c’è pure l’espulsione. Le pecore nere ci sono anche da noi, ma siamo riusciti a cacciarle prima della Forestale». Campagna amica collabora con i Mercati della terra di Slow Food. «I Comuni — dice Toni De Amicis — ci chiedono spesso di partecipare a mercati con altri produttori. Quasi sempre rifiutiamo. Dietro i nostri banchi non mettiamo solo le nostre bandiere gialle ma anche la nostra faccia. E ci basta un colpo d’occhio per capire se le noci arrivano dalle nostre campagne o dagli Stati Uniti».

«

Le sentenze Berlusconi, Previti e Dell’Utri svelano il fulcro del circuito potere-denaro. La triade è stata il ful­cro, della costru­zione di un sog­getto poli­tico che per lun­ghi anni ha eser­ci­tato il potere ad ogni livello della vita pub­blica. Ancora oggi il sog­getto creato vent’anni fa è tutt’altro che mar­gi­nale e le sue pro­spet­tive non sono neces­sa­ria­mente per­denti»

. Il manifesto, 25 aprile 2014 (m.p.r.)

L'uso senza limiti del lin­guag­gio iper­bo­lico in un dibat­tito poli­tico quasi sem­pre privo di spes­sore ana­li­tico ci sta pri­vando della pos­si­bi­lità di orien­tarci. Se la poli­tica finan­zia­ria con­nessa all’attuale gestione dell’euro diventa "Ausch­witz". Se ogni appro­va­zione di leggi da parte della mag­gio­ranza (spesso dav­vero ingiu­ste e intrise di con­flitti d’interessi) diventa "colpo di stato". Se la reale ten­denza al pro­gres­sivo con­cen­trarsi del potere in ristrette oli­gar­chie diventa "ritorno al fasci­smo", ebbene la spe­ci­fi­cità e il peso di ogni feno­meno scom­pa­iono ed orien­tarsi in «"una notte in cui tutte la vac­che sono nere" è impresa assai dif­fi­cile. In un arti­colo apparso su que­sto gior­nale qual­che giorno fa (15 aprile,Berlusconi-Napolitano «gli esiti cri­mi­nali della poli­tica sepa­rata») ho usato anch’io tinte molto forti. Si tratta, però, e credo che que­sta affer­ma­zione possa reg­gere l’onere della prova, di un lin­guag­gio con alto grado di mimesi nei con­fronti della realtà. Il pro­blema è che il feno­meno al cen­tro di quello scritto, se ana­liz­zato dav­vero, è in grado di pro­durre disve­la­menti, tanto sull’oggi che su un iti­ne­ra­rio sto­rico ven­ten­nale, che i faci­tori di opi­nione sem­brano impos­si­bi­li­tati a sop­por­tare. Meglio la rimozione.

Luigi Pin­tor diceva che dopo mez­zo­giorno con il quo­ti­diano si pote­vano incar­tare le patate. Visto con quanta faci­lità si dimen­tica, mi si scu­serà se fac­cio rife­ri­mento all’articolo citato. I dati di fatto non sono con­tro­ver­ti­bili. Dall’insieme delle sen­tenze rela­tive a Ber­lu­sconi, Pre­viti, Dell’Utri (su quest’ultimo si attende ancora quella defi­ni­tiva della Cas­sa­zione che, come ricor­diamo, non è giu­dice di merito) emerge un qua­dro cri­mi­nale impres­sio­nante. Il cen­tro del qua­dro è rap­pre­sen­tato da un enorme e rami­fi­cato sistema cor­rut­tivo espanso in tutte le pos­si­bili varianti. Il sistema cor­rut­tivo è neces­sità fun­zio­nale come uscita di sicu­rezza per una mol­te­pli­cità di com­por­ta­menti delin­quen­ziali. La poli­tica è una delle varianti più impor­tanti tanto come uscita di sicu­rezza che come luogo pri­vi­le­giato del cir­cuito potere-denaro. La triade sud­detta è stata il ful­cro, il sog­getto agente della costru­zione di un sog­getto poli­tico che per lun­ghi anni ha eser­ci­tato il potere ad ogni livello della vita pub­blica. Ancora oggi il sog­getto creato vent’anni fa è tutt’altro che mar­gi­nale e le sue pro­spet­tive non sono neces­sa­ria­mente per­denti.

Natu­ral­mente sarebbe una scioc­chezza pen­sare che il suc­cesso di quella forza poli­tica sia deri­vato da una logica cri­mi­nale, ma quella logica, tenuto conto del ruolo cen­trale della triade, ha infor­mato di sé aspetti impor­tan­tis­simi delle pra­ti­che di governo. Inol­tre è stato punto di rife­ri­mento legit­ti­mante di ana­lo­ghe pra­ti­che locali: il para­digma Cosen­tino si com­prende meglio nell’ambito di tale insieme strutturale.

Per la prima volta nella sto­ria dell’Italia repub­bli­cana i gan­gli fon­da­men­tali della vita poli­tica si tro­vano ad essere intrin­se­ca­mente legati a una ope­ra­zione cri­mi­nale. Di fronte a tutto ciò ci tro­viamo a vivere in una situa­zione di "nor­ma­lità mostruosa", come potremmo defi­nirla con un ossi­moro. Mostruosa: sia come feno­meno straor­di­na­rio, che suscita stu­pore, sia come feno­meno orri­bile. Nor­ma­lità: in quanto lo svol­gi­mento della vita poli­tica non è asso­lu­ta­mente toc­cato dalla mostruo­sità.

Si pensi solo alla leg­ge­rezza con cui auto­re­voli edi­to­ria­li­sti di auto­re­voli quo­ti­diani hanno trat­tato que­sto enorme peso che grava su tutta la nostra vita etico-civile. Com­men­tando la sen­tenza che ha fis­sato la pena (si fa per dire) rie­du­ca­tiva per il delin­quente, ci viene data l’immagine di un uomo "dolo­rante die­tro l’eterno sor­riso (…) un uomo che merita rispetto", un uomo i cui errori sono quelli di non aver fatto le riforme pro­messe, un uomo che però ha defi­ni­ti­va­mente supe­rato una "guerra giu­di­zia­ria" finita da tempo (Mas­simo Franco, Cor­riere della sera, 16 aprile). E anche dal fronte per­vi­ca­ce­mente anti­ber­lu­sco­niano (la Repub­blica), dopo aver messo giu­sta­mente in rilievo lo "sta­tus par­ti­co­lare" che spiega l’agibilità poli­tica con­cessa al delin­quente, non si fa una piega di fronte alla "neces­sità" di farne un padre della patria, visto che Renzi avrebbe avuto una via "quasi obbli­gata" (Mas­simo Gian­nini, 16 aprile).

L’espressione "non ci sono alter­na­tive", non casual­mente una delle pre­fe­rite da Mar­ga­ret That­cher per giu­sti­fi­care la duris­sima repres­sione sociale, è, in genere, causa delle mag­giori nefan­dezze. Nel nostro caso non si tratta di "neces­sità» bensì di una con­cla­mata «sin­to­nia» per una pro­spet­tiva di bipar­ti­ti­smo for­zoso su cui Renzi e Ber­lu­sconi gio­cano il futuro delle loro for­tune poli­ti­che. Ma la que­stione cen­trale su cui gli auto­re­voli opi­nio­ni­sti svo­laz­zano entrambi, l’uno auspi­cando il supe­ra­mento defi­ni­tivo di «una guerra finita da tempo», l’altro facendo appello allo stato di neces­sità, è la com­pa­ti­bi­lità del qua­dro che esce dalle sen­tenze Ber­lu­sconi, Dell’Utri, Pre­viti, con qual­siasi ruolo di rile­vanza poli­tica, figu­ria­moci con quello di «padre della patria». In realtà, su que­sto, la guerra non c’è mai stata.

Il dilemma, in fondo, è piut­to­sto sem­plice: le sen­tenze dicono il vero o sono il frutto della fal­si­fi­ca­zione di una magi­stra­tura poli­ti­ciz­zata? La seconda ipo­tesi è soste­nuta, con forza, non solo dai con­dan­nati, ma da aree poli­ti­che e d’opinione rela­ti­va­mente ampie. Gli auto­re­voli devono dirci se la con­di­vi­dono o meno. Penso di sì, per­ché è l’unica ipo­tesi in per­fetta coe­renza con i loro svo­laz­za­menti. Diranno che Ber­lu­sconi ha i voti e il loro è sem­pli­ce­mente rea­li­smo poli­tico. Non di rea­li­smo si tratta, invece, ma dell’accettazione, della con­di­vi­sione di quello stato di necrosi che carat­te­rizza il tes­suto con­net­tivo civile in Italia. Ovvia­mente è del tutto inu­tile chie­dere ai molti «auto­re­voli» di uscire dal recinto in cui stanno comodi e pro­tetti, ma forse non è inu­tile chie­dere a chi sta fuori il recinto, in vari e arti­co­lati modi, di assu­mere il qua­dro che emerge dalle sen­tenze come uno dei pro­blemi essen­ziali delle ini­zia­tive poli­ti­che in corso. Il ber­lu­sco­ni­smo non è il fasci­smo, certo, ma il solo modo di uscirne dav­vero è quello della cesura netta, sia pure in forme diverse, con la quale l’Italia è uscita dal fasci­smo. Sap­piamo bene che nem­meno le cesure sono in grado di tagliare davvero la vischio­sità pro­fonda dei pro­cessi sto­rici, pur tut­ta­via sono i soli momenti che pos­sono segnare una, sep­pur par­ziale, discon­ti­nuità radicale.

I com­pa­gni, i pro­fes­so­roni, i pro­fes­sori qual­siasi (come chi scrive), devono pren­dere coscienza che anche que­sta via d’uscita dal ber­lu­sco­ni­smo, e da tutti gli affi­ni­smi col ber­lu­sco­ni­smo, è una «via mae­stra». La bat­ta­glia dif­fi­cile per l’affermazione della lista L’altra Europa con Tsi­pras non può igno­rare il pro­blema. L’Italia deve pre­sen­tarsi in Europa anche con una forza che rap­pre­senti dav­vero l’antitesi a un volto del paese sfi­gu­rato dal morbo criminal-politico. Frutto di quella «pas­sata di peste» che Paolo Vol­poni, pro­fe­ti­ca­mente, aveva visto soprag­giun­gere più di vent’anni fa.

Quella dell'Università «è una funzione civile, dunque né volta all'erudizione, né alla mercantilizzazione: bensì alla formazione del cittadino, la cui premessa è lo spirito critico». Il

manifesto, 25 aprile 2013

Un violentissimo tsunami si è abbattuto sull'università italiana, devastandone le strutture, corrompendo gli ambienti umani, mettendo a rischio la stessa sua sopravvivenza. Ma, sebbene l'uragano abbia investito l'intero sistema accademico, con una serie di fangose, gigantesche onde (contro cui ben poco ha potuto la generosa, spontanea onda pulita degli studenti, lasciati ben presto soli dai docenti), il suo vero, preciso obiettivo era l'università pubblica, le università di Stato. Come che sia, se è vero che stiamo subendo da anni un micidiale combinato disposto nel quale tutte le forze politiche si sono esercitate, per ignoranza, per voluttà del "novitismo", per insipienza, o, più spesso, per complicità con grandi potentati economici, è altrettanto vero che, per dirla in termini semplici, "ce la siamo cercata".

Insomma, l'università, come mondo separato, invece di venire presidiato, dai suoi stessi componenti, come un baluardo del sapere critico, è stato difeso quale mondo che si autogestisce, e la battaglia per l'autonomia è stata interpretata come un riconoscimento di un inquietante: "a casa nostra comandiamo noi". Una difesa errata nella forma oltre che nella sostanza; anche politicamente (ed eticamente) insostenibile. E che ha favorito l'attacco mediatico, a sua volta propedeutico a quello politico, contro gli "sprechi", la "corruzione", e soprattutto l'"inutilità" del sapere che negli atenei italiani si andava producendo: e invece di rivendicare quella "inutilità" come una bandiera di cui andare orgogliosi (sulle nostre insegne avremmo dovuto innalzare il motto für ewig, tra Goethe e Gramsci), troppa parte del mondo accademico ha sostenuto che no, non era inutile la loro scienza. E che essa poteva invece servire. A cosa? Al mercato, naturalmente.

Si è insomma, immediatamente, fin dai primi anni Novanta, consule Berlinguer (ovviamente il Berlinguer ministro di una istruzione non più "pubblica", il primo devastatore del nostro sistema educativo) entrati nel gorgo del mercantilismo, del produttivismo, e di uno sciagurato novitismo o nuovismo. Alcuni, anzi, non pochi hanno sostenuto il mostro del 3 + 2, prima, la legge Gelmini poi, l'Anvur infine, blaterando che non si poteva far diversamente, ovvero (udite, udite!), che comunque si sarebbe trattato di un progresso per un sistema ormai troppo vecchio, e che, magari pur criticandone qualche determinato aspetto, quelle riforme erano essenziali, anche se non ci piacevano, per "entrare in Europa", o peggio, per reggere la competizione internazionale.

Tutto questo penoso argomentar, come è stato dimostrato dagli studiosi veri (non quelli da salotto televisivo o da editoriale del Corriere della Sera), cifre alla mano, era fondato su dati sbagliati, o volutamente corrotti, e infine surrettiziamente interpretati per far passare il messaggio nella famigerata opinione pubblica che i professori italiani sono troppo numerosi, e pagati fin troppo generosamente, che la loro produttività è scarsa, che il criterio del "merito" (l'infame parola!) era stato negletto e vilipeso, e che gli atenei erano meri luoghi di intrattenimento, di consumo di risorse, da impiegare ben altrimenti...
Insomma, nel silenzio degli uni (la maggioranza, davvero silenziosa, per disinteresse o per viltà), si sono udite solo le voci degli altri, i consenzienti, o addirittura gli entusiasti, e comunque i collaborazionisti. In nome del realismo ci si è piegati, ma come quasi sempre quando si invoca quel peraltro nobile concetto della filosofia politica, si è divenuti iper-realisti o addirittura irrealisti, dimenticando funzione e scopi dell'insegnamento universitario, che, come mi ha insegnato Norberto Bobbio, che lo aveva appreso a sua volta da Gioele Solari, è una funzione civile, dunque né volta all'erudizione, né alla mercantilizzazione: bensì alla formazione del cittadino, la cui premessa è lo spirito critico.

Aggiungo, ahinoi, che ben scarsa è apparsa la differenza tra destra e sinistra, e anche tra strutturati e non, e tra le "fasce": certo, legittimamente, chi era fuori voleva entrare, chi era precario aspirava alla stabilizzazione, chi era ricercatore o associato ambiva a salire di grado; e, intanto, gli ordinari - tutt'altro che scontenti dell'accentramento di potere nelle loro mani, che si stava verificando con l'allontanarsi dallo "spirito del Sessantotto" (opportunamente demonizzato da pennivendoli in occasione del quarantennale, che cadeva nel momento d'avvio della crisi, il grande, magnifico alibi dei nostri governanti), anche prima dell'entrata in vigore della "riforma" - gli ordinari si dedicavano essenzialmente a lotte intestine, organizzati per gruppi di potere, per cordate, o, detto diversamente, per bande armate, non di fucili e bombe a mano, bensì di documenti, telefonate, email, sulla base di imperscrutabili calcoli strategici: se magari avessero dedicato qualche ora di più allo studio e alla ricerca, avremmo meno opere fatte di travasamenti di libri in altri libri (per dirla con Benedetto Croce); se si fossero impegnati in proposte e in concrete pratiche di miglioramenti e di pulizia interna, invece di impegnarsi in mediocri trame di potere, il presidio dell'università dai lanzichenecchi tremontiani, sarebbe stato ben più saldo; se si fossero gettati, con l'autorevolezza del ruolo, nella difesa del pensiero critico e nella divulgazione di ciò che è e deve essere il sistema della formazione al livello più alto, oggi intorno allo stesso concetto di riforma esisterebbe un discredito generalizzato invece che un diffuso sebbene per nulla informato consenso.

Insomma, ciò che intendo affermare è che siamo vittime in quanto siamo anche complici. Troppo intenti alla tutela del particulare abbiamo perso di vista il generale, considerando, nella sostanza, l'università tutt'altro che un bene comune. Ma, piuttosto, un trampolino di lancio per carriere interne o esterne (giornalistiche, politiche, e persino economiche). Allora, è imprescindibile la rivendicazione dell'università come bene comune, sottolineando la centralità dell'insegnamento e della formazione a carattere pubblico, e, preciso dal mio punto di vista, pubblico per me significa tre cose: non locale, né privato, né funzionale al mercato. Al riguardo una seria riflessione critica sul tema della cosiddetta autonomia universitaria e in generale scolastica non sarebbe forse da compiere?
Abbiamo subìto una serie incessante di uragani,equamente distribuiti per genere: l'uragano Berlinguer, l'uragano Moratti, l'uragano Gelmini, per tacer dei minori. Tra i quali l'esecutore testamentario della Gelmini, Profumo. Il suo, a ben vedere, non è nemmeno un uragano, né uno tsunami né un ciclone; anzi, manco una tempesta imperfetta. La sua è una piatta, inerte, applicazione di un dispositivo, dei cui effetti praticamente letali non ha fatto le mostre neppure di accorgersi. Anzi, si compiace: con sé, con i suoi predecessori, con il governo tecnico (politicissimo, in realtà) di cui è parte. E intanto lo tsunami, nello scellerato empito "riformatore", dimenticando la nascita europea (forse addirittura italiana) della universitas studiorum, sta tentando un'americanizzazione forzata del nostro sistema, dalle forme, alle strutture, persino alla lingua. E in un disordine tipico del totalitarismo, tra facoltà di cui si è decretata la morte violenta, tra dipartimenti costretti a impuri connubi in nome di un risparmio apparente, tra scuole che nessuno in realtà vuole che nascano davvero, mentre la bufera è ancora in corso, anche se la fase più acuta è passata, marinai perduti (alla Izzo) si aggirano fra i relitti, privi di bussole, alcuni alla ricerca di un isolotto per salvare se stessi, altri più avventurosi pronti ad aggrapparsi a uno scafo, per montarvi sopra, e veleggiare, chissà, verso nuove magnifiche sorti. Che poi non siano affatto progressive poco importa, se l'ottica rimane quella della salvezza individuale.

Sapremo contrapporre una dimensione pubblica anche nella durissima battaglia odierna, tra un governo che ha fatto harakiri, in attesa del governo prossimo venturo? Sapremo dire con voce forte e chiara che la nostra causa è quella dell'intera società? Sapremo convincere che non stiamo difendendo posizioni consolidate, o privilegi, o separatezze dell'universo accademico? Sapremo, infine, metterci in gioco e dare il buon esempio, personalmente, pronti alla lotta anche individuale, ma in connessione con tutti gli altri?

Questo è l'intento che mosse Piero Bevilacqua e il sottoscritto, ormai circa un anno fa, quando lanciammo il movimento per "L'università che vogliamo". E questo è l'intento che dobbiamo, credo, continuare a perseguire, rilanciandolo con vigore, adesso, finché avremo la forza di emettere una voce, possibilmente unisonica, anche se proveniente da ambiti e individui diversi. Che poi la nostra voce trovi orecchie disposte ad ascoltare è altro affare. Ma più forte essa sarà, più avremo speranza che qualche coscienza si scuota.

«». Il manifesto

C'è una pic­cola foto­gra­fia che gira in tutte le reda­zioni dei gior­nali asia­tici. È del 2012 e raf­fi­gura un par­la­men­tare dell’Awami Lea­gue, il ram­pante Towhid Jung Murad, che bacia in testa Sohel Rana, il pro­prie­ta­rio del Rana Plaza di Dacca, un palaz­zone malan­dato di otto piani più uno in costru­zione che, la mat­tina del 24 aprile del 2013, implode su se stesso come se venisse col­pito dall’urto di un ter­re­moto. Un «urto» che uccide più di mille per­sone. Il pro­prie­ta­rio Sohel Rana, desti­nato nel giro di pochi giorni a cadere, come il suo palazzo, dalle stelle alla pol­vere, diventa il volto del cat­tivo accu­sato di strage ma, anche gra­zie a quella foto, emerge il det­ta­glio di un antico soda­li­zio tra poli­tici e spe­cu­la­tori, par­la­men­tari e affa­ri­sti, «thug» (ban­diti) che la fanno franca gra­zie a chi dà una mano a far tim­brare le carte. Anche quelle di palaz­zi­nari senza per­messi, con mate­riali sca­denti e una solerte rapi­dità edi­li­zia che gode del grande boom che ha inve­stito il Paese, tanto da aver fatto del set­tore tes­sile la prima voce dell’export bangladese.

Oggi Sohel Rana però amici non ne ha più. Lui che era un gio­vane ram­pante atti­vi­sta del brac­cio gio­va­nile del par­tito al potere e che, gra­zie alle sue ami­ci­zie anche poli­ti­che, era diven­tato un ras di Savar, zona peri­fe­rica della capi­tale, adesso fa i conti con inqui­renti che sono andati a spul­ciare nei per­messi, nelle licenze, nei pezzi di carta. Jung Murad, che un anno prima lo baciava in testa, è invece corso tra i primi sul luogo della tra­ge­dia: cami­cia verde ben sti­rata e piglio da con­su­mato arrin­ga­tore, lo si vede immor­ta­lato men­tre, come un po’ tutti han fatto, chiede giu­sti­zia per le vit­time. Meglio tacere del fatto che Savar è il suo regno e che Rana era tra i suoi ami­chetti. Quella foto imba­raz­zante è del resto una delle tante che ha rico­struito i det­ta­gli di quella tra­ge­dia, costata la vita a 1.138 per­sone e che ha lasciato cen­ti­naia di malati e inva­lidi. Oltre a cen­ti­naia di fami­glie senza impiego per­ché, dice oggi chi lavo­rava al Rana Plaza, se hai quel mar­chio addosso non lavori più. Sohel pagherà per tutti?

Un’altra foto fa luce su altri det­ta­gli. C’è un angolo buio che non riguarda solo il sot­to­bo­sco mafioso di Savar e le sue impli­ca­zioni con la classe alta che ha i ram­polli in par­la­mento e una mano­va­lanza ben nutrita a pre­si­diare il ter­ri­to­rio. Sul luogo del delitto c’è un lato scuro, illu­mi­nato dallo scatto del repor­ter, che chiama in causa respon­sa­bi­lità che stanno a 10mila chi­lo­me­tri da Savar. In Ame­rica, Canada, Europa. Per­sino a Tre­viso, sede della mul­ti­na­zio­nale dall’italico cuore di nome Benetton. La foto illu­mina dei dan­na­tis­simi pezzi di carta: ordini, fat­ture, anno­ta­zioni su stoffe, asole, bot­toni.

Ci son nomi alti­so­nanti con cui col­la­bo­rano le fab­bri­che ospi­tate al Rana Plaza. Illu­mina la glo­ba­liz­za­zione che in Ban­gla­desh mostra uno dei suoi lati meno ecci­tanti e gla­mour. Può suc­ce­dere: che ne sap­piamo di come si regola il nostro omo­logo a migliaia di chi­lo­me­tri di distanza? Ma il pro­blema viene dopo. Ammesso, obtorto collo, di essere coin­volti nel lavoro non tanto solare che si svol­geva a ritmo con­ti­nuo al Plaza, ora biso­gna pagare. Qual­cuno lo fa. Qual­cuno no. Qual­cuno firma l’accordo sulla sicu­rezza nelle fab­bri­che, qual­cuno invece fa orec­chie da mer­cante su un altro accordo che vin­cola le aziende a rifon­dere le vit­time. C’è chi sce­glie la strada indi­vi­duale: un po’ di quat­trini a qual­che cha­rity che si occupi di ripu­lire l’immagine…

Per essere chiari e venire ai fatti, nono­stante sia stato siglato un accordo tra mar­chi, governo, sin­da­cati e Ong sotto l’egida delle Nazioni unite per pre­di­sporre un pro­gramma di risar­ci­mento delle fami­glie, il Donor Trust Fund volon­ta­rio, isti­tuito per rac­co­gliere le dona­zioni, è a secco. Un anno dopo il crollo i mar­chi e i distri­bu­tori hanno con­tri­buito con soli 15 milioni di dol­lari, appena un terzo dei 40 milioni neces­sari. Sul libro nero ci sono tre società ita­liane: Benet­ton, Mani­fat­tura Corona e Yes Zee.

Oggi in Ita­lia ci saranno Flash­Mob a Firenze, Milano e Tre­viso. Altre azioni sparse per il mondo. A Dacca lavo­ra­tori e sin­da­ca­li­sti ricor­de­ranno tutti coloro che hanno perso la vita quel dan­nato 24 aprile.

«E' come se il bara­tro fra società e isti­tu­zioni si fosse repli­cato negli ordini sim­bolici che ci abi­tano, per­ché la deriva auto­ri­ta­ria delle riforme di Renzi e Ver­dini è forte di un desi­de­rio dif­fuso di delega asso­luta, non più di rap­pre­sen­tanza. Di affi­da­mento. Pro­vare il pro­dotto nuovo, vedere se que­sto fun­ziona».

Il manifesto, 23 aprile 2014 (m.p.r.)

Porto a scuola un bel po’ di spil­lette della lista Tsi­pras. So che, anche solo per ami­ci­zia, due o tre euro per cia­scuna dai col­le­ghi li rac­colgo. Fanno sim­pa­tia quelli che ancora si impe­gnano in que­ste cose. Però in sala docenti una mi guarda e mi chiede chi è Tsi­pras. E va bene, si sa che la domanda cir­cola. A spie­garle un po’ di Syriza, mi accorgo che viene fuori una sorta di sini­stra arco­ba­leno e sono felice quando mi salva la fine della ricrea­zione. Ma la domanda inquie­tante la pone un altro col­lega che mi chiede ’Che cosa è Tsipras’

Pensa forse a una sigla, un acro­nimo di quelli miste­riosi, una medi­cina. Penso che esi­stono diverse Ita­lie una accanto all’altra. Forse anche una den­tro l’altra. Per­so­nali schi­zo­fre­nie culturali. Mal­grado tutto, quando si sta con ragazze e ragazzi il mondo sem­bra avere ancora un colore caldo, una pos­si­bi­lità di con­di­vi­sione, per­lo­meno delle domande, delle incer­tezze. Già il segno di un senso. Comune. Poi esci dall’aula e quell’altro senso comune ti fa sen­tire azze­rato, impo­tente, dispo­ni­bile a tutto, ad ingo­iare qua­lun­que deci­sione, basta che sia veloce, ope­ra­tiva. La “poli­tica” avrebbe perso legame con il popolo per­ché non decide, non fa. Non importa cosa. L’importante che sia azione — non teo­ria, non discorso.

Negli spazi rav­vi­ci­nati della nostra vita tra­sfor­ma­zioni mole­co­lari si sen­tono e sono signi­fi­ca­tive, mi sem­bra. L’essere uomini, l’essere donne, madri e padri nuovi — in cerca di un modo decente di essere se stessi, con tutti i casini che abbiamo den­tro. Per me è un fatto poli­tico che salva dal cata­stro­fi­smo. Ma è come se il bara­tro fra società e isti­tu­zioni si fosse repli­cato negli ordini sim­bo­lici che ci abi­tano, per­ché la deriva auto­ri­ta­ria delle riforme di Renzi e Ver­dini è forte di un desi­de­rio dif­fuso di delega asso­luta, non più di rap­pre­sen­tanza. Di affi­da­mento. Pro­vare il pro­dotto nuovo, vedere se que­sto fun­ziona. C’è biso­gno di crederci.

Pos­siamo anche par­lare con ragazzi in crisi maschile di come ci sia un altro modo pos­si­bile di essere uomini. Che la crisi del patriar­cato potrebbe essere una libe­ra­zione per noi tutti, mai all’altezza dei modelli vin­centi da incar­nare. Che appar­te­nere a un genere non è la con­danna a vita a un modello, ma un tes­suto di rela­zioni, padri e fra­telli orfani di Padre Asso­luto, con cui costruire libe­ra­mente la pro­pria sin­go­la­rità. E tut­ta­via fra qual­che set­ti­mana molti nostri stu­denti vote­ranno per la prima volta e si tro­ve­ranno a sce­gliere fra Ber­lu­sconi, Grillo e Renzi. Che fanno cul­tura anche se uno non vota. Modelli maschili pro­prie­tari, neo­feu­dali o popu­li­sti. Comun­que fuori da una dimen­sione oriz­zon­tale, rela­zio­nale, della poli­tica. L’uomo solo al comando, che regala Ici o euro in busta paga, che manda tutti a casa o torna al suo mondo — che non è quello dei poli­tici. E intanto si cir­conda di gio­vani ragazze, per­fetto gad­get com­mer­ciale di rap­pre­sen­tanza per il popolo.

Ma il pub­blico resta comun­que inquieto oggi. Accanto a quello che ti domanda ’Che cos’è Tsi­pras’, come pen­sasse a un nuovo far­maco, trovi un sacco di col­le­ghe e col­le­ghi che ti cer­cano, le spil­lette vanno a ruba. Dav­vero una spe­cie di anti­de­pres­sivo. Ce l’hai due tsi­pras? Addi­rit­tura qual­cuno ti dà 20 euro e dice, men­tre cer­chi il resto, Tieni tutto, qual­cosa voglio fare, non mi occupo di poli­tica da una vita. Certo, dà i soldi ma non viene alle riu­nioni, non par­te­cipa in qual­che modo. Perché? Io penso a un pro­blema di sen­ti­mento. Come se certi desi­deri si fos­sero “pri­va­tiz­zati”, ras­se­gnati alla soli­tu­dine, alla nostal­gia del futuro di un tempo. E non aves­sero più agi­bi­lità politica.

Su que­sto le tre aziende elet­to­rali lea­der hanno ragione. Hanno capito meglio da tempo. Non si tratta di pro­grammi o ana­lisi o com­pe­tenze. Chi lo cono­sce il pro­gramma di Renzi, chi chiede il suo pro­getto di società. E chi si è mai vera­mente fidato di Ber­lu­sconi. Le cose che scri­vono gli eco­no­mi­sti di sini­stra o i costi­tu­zio­na­li­sti sono ana­lisi note­voli. Spie­gano che c’è un’altra pos­si­bile uscita dalla crisi. Aprono quindi un oriz­zonte. Ma non mi sem­bra que­sto il punto. Il punto è dove tro­viamo l’energia, la spe­ranza per andare in quella dire­zione. Senza, niente e nes­suno si muove. C’è un altro desi­de­rio, un sen­ti­mento su cui poter rico­struire una cosa fati­cosa come la demo­cra­zia? Qual­cosa che dia senso non solo acca­de­mico o giu­ri­dico alla difesa della Costituzione?

Non si può fare solo appello alla razio­na­lità eco­no­mica con­tro l’emotività delle illu­sioni da mer­cato elet­to­rale: si rischia per­fino di restare impi­gliati nell’economicismo che si vor­rebbe denun­ciare. Peral­tro tipico della sini­stra. Forse dovremmo impa­rare dai miei stu­denti — pure tutt’altro che bril­lanti — che quando “lot­tano” mi sem­bra cer­chino di essere felici. Banal­mente, ma tutto som­mato anche poli­ti­ca­mente. Si pren­dono i loro spazi per stare insieme, cono­scersi, far sal­tare ritmi e soli­tu­dini della mega­mac­china sco­la­stica. Essere sin­go­lari senza essere soli.

Penso che dal 26 mag­gio, se l’esperienza dell’antidepressivo greco va anche solo benino, si dovrebbe ripar­tire da qui: dagli spazi di un’altra poli­ti­cità. Se ci si met­terà a con­tare quanti sono pas­sati di Sel o Prc o d’altro, è finita di nuovo. Ci saranno eletti, sezioni e comi­tati, non locande per viag­gia­tori, accam­pa­menti leg­geri. Luo­ghi poli­tici dell’anima. Dalla crisi isti­tu­zio­nale, che esprime la sua antro­po­lo­gia politico-commerciale, non ci si salva solo sul ter­reno poli­tico isti­tu­zio­nale. Secondo me si può con­tare su un’altra antro­po­lo­gia, seb­bene quasi sem­pre fuori scena. Ma si deve salire di un grado, oppure scen­dere. Comun­que occu­pare una dimen­sione meta-politica, sub-democratica. Fatta di rela­zioni oriz­zon­tali, ricerca comune, rico­no­sci­mento e insieme inven­zione di sé e del mondo.

Come nei gio­chi dei bam­bini e delle bam­bine. Nel fac­ciamo che ero, per noi adulti fati­co­sis­simo: la feli­cità incon­sa­pe­vole e impe­gna­tiva dell’essere già qui e ora, altrove. Nell’immaginario che viviamo. Che può far esplo­dere il mate­riale che intri­sti­sce — se vis­suto con almeno un po’ di gioia rivoluzionaria.

«I governi europei s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti, lo sguardo svogliato, le idee sparpagliate e soprattutto incostanti. Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro.Non una politica estera, ma un ricettario economico liberista misto a formule moraleggianti sul debito».

La Repubblica, 23 aprile 2014

Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera - né sulle proprie marche di confine a Est o nel Mediterraneo, né sull’alleanza con gli Stati Uniti, né sulla democrazia che intendono rappresentare - i governi europei s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti, lo sguardo svogliato, le idee sparpagliate e soprattutto incostanti. Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro.Una svastica sul seno per la protesta delle Femen contro Marine Le Pen in Europa.

L’ossessione è fare affari, e dei mercati continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano. S’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria, dominata da una superpotenza che è in declino e che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda. Sono anni che gli Europei dormono, ignari di un mondo che attorno a loro muta. Non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti, pronti a unirsi per dire quello che vogliono fare. A volte alzano la voce per difendere posizioni autonome, ma la voce presto scema, s’insabbia. Lo si vede in Ucraina: marca di confine incandescente sia per l’Unione, sia per la Russia. Lo si vede nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). Lo si vede nella battaglia indolente, e infruttuosa, contro i piani di sorveglianza dell’Agenzia Usa per la sicurezza nazionale (Nsa), disvelati da Edward Snowden nel 2013. Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte. Le sta fallendo in Ucraina, perché l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia. Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe. Non sapendo parlare con Mosca, gli Europei lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos inasprendolo. È Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est.

L’Europa sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita. Questo è infatti lo scettro, l’unico che l’Unione sappia oggi impugnare: non una politica estera, ma un ricettario economico liberista misto a formule moraleggianti sul debito, scrive lo storico russo Dmitri Trenin che dirige a Mosca il Carnegie Endowment for International Peace. Quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario. La risposta politica a tali fallimenti è affidata a Obama, e per forza gli sbagli commessi dagli Europei si ripetono (basti ricordare l’errore madornale di Kohl, quando disse negli anni ‘90 che la Slovenia «meritava l’indipendenza», essendo «etnicamente omogenea»). Depoliticizzata, l’Europa subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano. È Washington a decidere se Kiev debba essere il nuovo scudo orientale della Nato, nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità. Per quasi mezzo secolo l’avamposto fu la Germania Ovest, poi sostituita dalla Polonia: ora Varsavia spera che al proprio posto s’erga un’Ucraina occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia. Mosca chiede che il paese diventi una Federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti. Strano che non sia l’Europa, con le sue esperienze, a domandarlo.
La seconda prova è il patto commerciale con gli Usa: una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici. Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti. I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico: l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost. Sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, sia per aumentare il magro bilancio comune sia per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie, e sulle emissioni di anidride carbonica. Una controffensiva UE contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa.
Numerose mezze verità circolano sul patto. Alcuni assicurano che quando sarà pienamente in funzione, nel 2027, il reddito degli europei crescerà sensibilmente (545 euro all’anno per una famiglia di quattro persone), con un beneficio di 120 miliardi annui per l’Unione e di 95 per gli Usa. Altri calcoli sono meno ottimisti. L’istituto Prometeia, pur favorevole all’accordo, sostiene che i guadagni non supererebbero lo 0,5% di Pil in caso di liberalizzazione totale. L’istituto austriaco Öfse (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione dei mercati di lavoro imposta dal Partenariato. Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe. Tutto questo in nome della «semplificazione burocratica »: parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa. Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette «barriere non tariffarie», un termine criptico che indica parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci, e molto altro ancora.
Non per ultimo, la terza prova: il caso Snowden, l’informatico dei servizi Usa che portò alla luce un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici. Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza. I governi dell’Unione hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente. In un messaggio al Parlamento europeo, il 7 marzo, Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati, spiegando come sia assurdo il compiacimento di governi che immaginano di poter fermare il Datagate senza mobilitare l’Unione intera. La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica.
L’esistenza di smascheratori di misfatti — non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione — potenzia la democrazia. È un bruttissimo segno e paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso, il soffiatore di fischietto , abbia trovato riparo non in un’Europa che promette nella sua Carta la «libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera», ma nella Russia di Putin.

Il populismo , infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma “unite” contro l’Unione Europea e contro l’Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall’Euro. Come l’Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l’Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell’Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell’indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell’Italia. Fino a poco più di vent’anni fa, al contrario, era a favore dell’Europa — delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell’assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano «manovrati dai servizi segreti italiani». Oggi, invece, sono perseguitati dall’imperialismo romano.

Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell’Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un’etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l’esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del “popolo sovrano” che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo “personale”.

Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un’immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c’è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un “voto” comune a tanti “voti”). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il

M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un’entità puntiforme priva di “identità”. Grillo, d’altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C’è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog.

Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito «La messa in scena della politica». Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al “popolo”. Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d’altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero “nemico” (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli “altri” da cui difendersi. L’Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli “stranieri”. Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri.

Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all’elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?).

Uscendo dal “campo” politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo “popolo”. Il più Pop di tutti di tutti. D’altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull’onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella della Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10).

Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile “populista”. E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: «Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista». Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: «Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (…) Perché il potere deve tornare al popolo». Mentre Marine Le Pen si dichiara «nazional-populista», in nome del «ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale».

Meglio, allora, rinunciare a considerare il “populismo” una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di “popolo”. Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia “rappresentativa”.

Perché il “popolo” non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono “efficienti” e non suscitano “passione”. Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.
Un'analisi discutibile e di superficie, ma una conclusione giusta: il populismo è «sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia». La Repubblica, 22 aprile 2014

C’È UN fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure “mi” è difficile spiegare di che si debba avere “paura”.

«Esi­ste un’enorme ten­sione sociale sulla casa e si deve man­te­nere lo spa­zio della media­zione».

Il manifesto 19 aprile 2014 (m.p.r.)

Al mini­stro degli interni Ange­lino Alfano che vuole blin­dare il cen­tro di Roma, il vice-sindaco di Roma Luigi Nieri (Sel) ribatte di «evi­tare spa­rate elet­to­rali, visto che non passa giorno senza fare comizi, un ruolo che non si con­ci­lia con l’incarico deli­cato che rico­pre. È una con­trad­di­zione stri­dente. Invece di pen­sare a repri­mere dovrebbe pen­sare alla cura per risol­vere i pro­blemi che por­tano que­ste per­sone a manifestare».

Cosa pensa della gestione dell’ordine pub­blico a Roma?
Mi pre­oc­cupa la gestione dell’ultimo sgom­bero dell’occupazione abi­ta­tiva alla Mon­ta­gnola. È stata molto discu­ti­bile. I capi­gruppo Pd e Sel avreb­bero incon­trato gli occu­panti alle 14, e le forze dell’ordine avreb­bero dovuto lasciare a quell’ora l’immobile. Poi ci sono state le cari­che. Lo dico a tutti: dob­biamo ripor­tare alla calma la città, esi­ste un’enorme ten­sione sociale sulla casa e si deve man­te­nere lo spa­zio della media­zione. Con i movi­menti che ho incon­trato l’altra sera dico che dovreb­bero avere un’attenzione alla nostra aper­tura sui temi sociali, spo­stare l’asticella troppo avanti non aiuta.Biso­gna lavo­rare per risol­vere i pro­blemi delle fami­glie. Lo dob­biamo fare noi, il governo, le forze dell’ordine, e anche loro.

Secondo lei l’articolo 5 del piano Lupi sulla casa è una minac­cia alle occu­pa­zioni abitative?
Sono asso­lu­ta­mente con­tra­rio ad un prov­ve­di­mento che creerà pro­blemi enormi in una città dove abbiamo ere­di­tato oltre 100 occu­pa­zioni, alcune delle quali vanno avanti anche da 12 anni. Lupi dovrebbe sapere che quando si fa una legge biso­gna pen­sare alle per­sone in carne ed ossa. Tagliare acqua, luce e gas signi­fica dan­neg­giare bam­bini, anziani, pre­cari, migranti, fami­glie. Vuole que­sto il ministro?

Secondo lui chi occupa com­pie un reato.
Una fami­glia costretta ad occu­pare un allog­gio lo ha fatto per­chè è senza casa. Que­sta cri­mi­na­liz­za­zione della povertà è insop­por­ta­bile. Io vengo dalla sto­ria dei movi­menti per il diritto alla casa. Cono­sco Roma che oggi è il cuore di un’emergenza nazio­nale. Non è que­sto il modo per affron­tarla. Sono molto pre­oc­cu­pato per­chè il piano di Lupi rischia anche di inter­rom­pere il per­corso del piano sulla casa, for­te­mente voluto dai movi­menti, con il quale la regione Lazio con Zin­ga­retti ha stan­ziato circa 200 milioni.

Il sin­daco Marino con­ce­derà alle forze di poli­zia l’uso di alcune strut­ture comu­nali in dismis­sione. Non sarebbe il caso di adi­birle ad uso abitativo?
Que­sto è un aspetto dei prov­ve­di­menti a cui stiamo lavo­rando. Faremo altri bandi per la rige­ne­ra­zione urbana di 100 strut­ture che desti­ne­remo a fini abi­ta­tivi, a ate­lier di arti­sti o asso­cia­zioni cul­tu­rali. Pro­prio in que­sti giorni, con la Regione e il Dema­nio, abbiamo avviato un pro­cesso di que­sto tipo sull’occupazione del Porto Fluviale.

L’offensiva, anche giu­di­zia­ria, con­tro i movi­menti è un modo per met­tere in dif­fi­coltà la giunta, com’è acca­duto con l’Angelo Mai e il comi­tato popo­lare di lotta per la casa?
Alcune vicende sono con­te­state per reati spe­ci­fici e la magi­stra­tura farà il suo corso. Sarò chiaro: tutte que­ste vicende vanno affron­tate con un ruolo poli­tico forte dell’amministrazione comu­nale. Vale per la casa e per le altre emer­genze sociali. Se si tra­sfor­mano i pro­blemi sociali in ordine pub­blico c’è qual­cosa che non fun­ziona in que­sto paese.

La giunta è in grossa sof­fe­renza e sem­brano acuirsi i con­tra­sti con il governo. Ci sarà un rimpasto?
Non c’è uno scon­tro tra noi e il governo. Penso ci sia un rap­porto sba­gliato tra alcune forze in par­la­mento e il comune. Il dibat­tito sul «Salva Roma» ha offeso la capi­tale. Ha dato l’idea che sareb­bero arri­vati tanti soldi, men­tre in realtà non è arri­vato un euro. Que­sta giunta ha ere­di­tato una situa­zione eco­no­mica gra­vis­sima e ha fatto scelte in netta discon­ti­nuità con le pre­ce­denti: la chiu­sura della disca­rica di Mala­grotta o sull’urbanistica. Il rim­pa­sto è un ter­mine datato, però non c’è dub­bio che ci sia biso­gno di un suo rilan­cio. Lo affron­te­remo con sere­nità nelle pros­sime settimane.

Una dura ma acuta e condivisibile critica liberale al decano del giornalismo italiano. Si parla di Barbara Spinelli e Stefano Rodotà, di papa Francesco e Torquemada, di Bruno Visentini e Ciriaco De Mita, ma soprattutto di Eugenio Scalfari e Matteo Renzi.

Critica liberale online, 14 aprile 2014

Che sta succedendo a Eugenio Scalfari? Il mese scorso aveva pugnalato alla schiena con “l’affettuosa” accusa di parricidio Barbara Spinelli, rea di presunta collusione col grillismo (in effetti la valorosa commentatrice aveva semplicemente propugnato la ragionevole tesi di non demonizzare e cercare di capire). Domenica scorsa - in preda a una patologica coazione a ripetere – il decano del giornalismo nazionale si è lanciato in una scriteriata invettiva contro Stefano Rodotà, colpevole ai suoi occhi di aver analizzato nella trasmissione della Gruber (e in compagnia del cardinale della carta stampata Paolo Mieli) il “fenomeno Renzi” per quello che sembra apportare di innovazione nell’asfittico quadro politico nazionale; senza velleità di metterlo pregiudizialmente all’indice.
Spinelli e Rodotà, due tra le più prestigiose firme de la Repubblica. Verrebbe da pensare che il fondatore dell’importane quotidiano romano, sentendo prossima la fine, pretenderebbe di portarsi dietro il maggior numero di opinionisti di famiglia; come in un funerale vichingo, come in una sepoltura tribale. Fatto sta che si è beccato dai diretti interessati due repliche al vetriolo, del tipo “colpito-affondato”, seppure confezionate nel garbo formalistico dell’understatement. Aspettiamo di capire contro quali bersagli si indirizzeranno prossimamente i furori senili della penna scalfariana; di questo personaggio ormai inarrestabile nel presunto ruolo di pontefice laico, recentemente assunto dopo gli strombazzatissimi incontri con papa Bergoglio. Un’investitura che si è rivelata devastante per il suo stesso equilibrio mentale, tanto da produrre un’interpretazione del ruolo in cui di Francesco non si vede traccia, visto che il modello cui il Nostro dimostra di ispirarsi è – semmai - Torquemada.
D’altro canto questo delirio distruttivo sotto forma di invettiva contro il pensiero critico, rappresentato da Rodotà e Spinelli, qualcosa segnala pure sullo stato dell’arte mentale dell’ambiente da cui proviene: l’establishment capitolino genericamente progressista, salottiero e autoreferenziale; ossessionato dal mito degli illuminati che rischiarano dall’alto della loro eccezionalità il cammino al gregge dei concittadini (lo chiamano “illuminismo”, quando è “paternalismo” della più bell’acqua). In questo ambiente di vecchi un po’ incattiviti ma sempre molto potenti (composto da presidenti di qualcosa, dalla Repubblica all’Editoriale l’Espresso) vige la più assoluta sospettosità nei confronti di ogni nuova entrata - si tratti di idee come di persone - che non accetti di sottostare al vaglio e alla conseguente omologazione da parte dei padroni di casa. In una logica di perpetuazione del paradigma da circolo esclusivo, cui si accede soltanto per cooptazione.
Celebri furono gli innamoramenti scalfariani per possibili alleati in questa opera conservatrice di tutela dell’egemonia estetica/relazionale (tipo “Trilateral de noantri”): dall’algido commercialista lamalfiano Bruno Visentini all’intellettuale della Magna Grecia Ciriaco De Mita. Purtroppo per i guardiani di questo piccolo mondo antico, il tempo ha falcidiato anno dopo anno i soci e i possibili sostituti. Sicché bisogna fare i conti con soggetti non omologabili al criterio di cui sopra. Da Beppe Grillo a Matteo Renzi. I veri illuministi come Rodotà e Spinelli ci dialogano, senza nulla concedere all’interlocutore; gli pseudo illuministi scomunicano. E – così facendo - scatenano contro-scomuniche, in una spirale di sconfortante irrazionalità e rozza partigianeria. Fatto sta che – secondo vieto copione - nell’intero campo del confronto pubblico prevale un atteggiamento settario, che impedisce ogni serio confronto sui limiti e le contraddizioni tanto del grillismo come del renzismo. Il comune intento di monetizzare la crisi per il rafforzamento delle proprie posizioni personali. Sicché, grazie Scalari: illuminista immaginario, killer della parola che ormai ha smarrito la mira.
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Ogni volta che c’è da distruggere qualcosa per far crescere gli affari liquidando patrimoni di bellezza, di salute, di diritti, di storia, ecco che interviene il Decisore, il Rottamatore (più giusto sarebbe chiamarlo semplicemente il Distruttore). Adesso interviene a gamba tesa per difenderela più devastante delle soluzioni proposte per portare torme di turisti a mordere la città e fuggirne subito. La Nuova Venezia, 18 aprile 2014, con postilla

il presidente del Consiglio Matteo Renzi a dire l'ultima parola sul percorso alternativo al passaggio delle grandi navi in Bacino di San Marco, in una riunione con i ministri competenti di Infrastrutture, Ambiente e Beni Culturali in programma la prossima settimana. Un percorso che dovrà comunque approdare - come avviene oggi per le navi da crociera - alla Stazione Marittima, tagliando fuori, a quanto risulta dalla nota congiunta dei tre Ministeri, altre possibili soluzioni come Mar-ghera - caldeggiata dal Comune - o il terminal in Adriatico.

Una decisione arrivata al termine di una giornata di tensione nel vertice sulle grandi navi organizzato al ministero delle Infrastrutture dal ministro Maurizio Lupi con il collega dell'Ambiente Gianluca Galletti e con il sottosegretario ai Beni Culturali Ilaria Borletti Buitoni. Già decisa l'adozione della legge Obiettivo per accelerare la scelta, il ministro Lupi ha cercato ieri di far passare subito come definitiva la scelta del progetto dello scavo del canale Contorta-Sant'Angelo - sostenuto dall'autorità Portuale - incontrando però l'opposizione nella stessa riunione dei Beni Culturali, con Borletti Buitoni, che ha chiesto un confronto più ampio tra le varie soluzioni progettual proposte.
Ma a pesare - quando comunque sembrava si "virasse" sul Contorta - è stata anche la mobilitazione del Pd con il capogruppo al Senato Luigi Zanda e il senatore Felice Casson che hanno scritto a Renzi ricordando la risoluzione del Senato che vincolava il Governo a un vero confronto tra tutti i progetti. II comunicato finale emesso dai tre ministri esprime, nella conclusione, questa determinazione, seguita all'intervento di Renzi. «La presidenza del Consiglio - si legge nella nota - convocherà per la fine della prossima settimana una riunione con i tre ministeri coinvolti al fine di individuare la soluzione definitiva per il percorso alternativo per raggiungere la Stazione Marini-ma e dare così piena attuazione alla legge Clini-Passera».
Trattandosi di percorsi alternativi per raggiungere la Stazione marittima, sembrano restare in piedi, oltre al Contorta, la "tangenziale" alle spalle del canale della Giudecca - sostenuta dalla Venezia Terminal Passeggeri - ma anche lo scavo del canale Vittorio Emanuele, soluzione alternativa a Marghera, comunque gradita al sindaco Giorgio Orsoni. Dalla riunione ministeriale di ieri sono comunque scaturiti risultati significativi, con la conferma della riduzione dei passaggi delle navi da crociera, al di là della sentenza del Tar sul ricorso della Venezia terminal passeggeri. «Si è preso atto di un impegno della Clia (Cruise Lines International Association) - si legge nella nota congiunta dei tre Ministeri - con il quale l'associazione delle Compagnie di navigazione fa volontariamente e unilateralmente proprie le disposizioni della Capitaneria di Porto sulle restrizioni imposte al transito delle grandi navi nel bacino di San Marco, sospese recentemente dal Tar. In particolare: di anticipare al 2014 il blocco del passaggio delle navi con stazza lorda superiore alle 96 mila tonnellate non passeranno più dal Bacino di San Marco e dal canale della Giudecca. Da subito le Compagnie si impegnano a impiegare carburanti per uso marittimo con tenore di zolfo non superiore allo 0,1 per cento in massa, dall'ingresso e per tutta la permanenza in Laguna. La riduzione già dal 2014 dei transiti delle navi da crociera di oltre 40 mila tonnellate nel canale della Giudecca».
Postilla
Inserisco a mo' di postilla una dichiarazione che ho rilasciato per il blog del sito della lista "L'altra Europa con Tsipras"
le Grandi navi a Venezia: Parole in maschera e picconate del Distruttore
Continuano a nascondere i problemi reali dietro lemistificazioni. Secondo tanti personaggi autorevoli, come il Ministro alleinfrastrutture Lupi e quello all’ambiente Galletti, il problema èquello della fastidiosa e rischiosa presenza dei “grattacieli del mare” nello specchio d’acqua antistante Piazza SanMarco. E la la stessa sottosegretaria ai beni culturali Borletti Buitoni,sebbene riconosca che «Venezia e la sua laguna devono essere tutelate in quantopatrimonio dell’umanità», chiede solo che vengano liberati «il bacino dellaGiudecca ed il canale di San Marco dai passaggi invasivi delle grandi navi».
Nei fatti, nessuno dei personaggi che influenzano l’opinionepubblica nazionale e internazionale si preoccupa dell’aggressione alla salutedei cittadini veneziani, avvelenati dalle polveri sottili.. E nessuno si opponeai progetti devastanti di nuove vie d’acqua (nuove “autostrade del mare”) che accrescerebberola distruzione della Laguna già avviata nel secolo sacorso col malfamato “Canale deipetroli”. C’è chi, come il sindaco Orsoni e i suoi supporters di destra e disinistra, vorrebbe potenziare quest’ultimo, e chi invece vorrebbe addirittura trasformarein una nuova possente autostrada il tortuoso sentiero acqueo del canaleContorta Sant’Angelo, accelerando ancora il degrado della Laguna, plurimillenariatestimonianza della bellezza e dell’utilità del rapporto saggio tral’applicazione della cultura e del lavoro dell’uomo alla rispettosatrasformazione della natura.
Bisogna lavorare, in Italia, in Europa e nel mondo, perchénell’immediato prevalgano le soluzioni che estromettono le Grandi navi dallaLaguna, utilizzando approdi esterni al cordone delle dune litoranee. In prospettiva,bisogna mettere in atto le condizioni per un turismo che non sia fattore didegrado della qualità dei luoghi che ne attirano i flussi, ma sia volto allaconoscenza e al godimento dei patrimoni che natura e storia hanno lasciato, anoi e i nostri posteri. In primo luogo promuovendo le attività volte alrestauro, alla conoscenza, alla tutela e alla manutenzione dei patrimonicomuni.
P.S - Avevo appena scritto la nota quando ho letto che l’attuale presidente del Consiglio deiministri, Matteo Renzi il Distruttore, ha avocato a sé l’autorità di deciderela realizzazione della nuova devastante autostrada del mare denominata “Canale Contorta Sant’Angelo”,scavalcando così tutte le competenze istituzionali, calpestando le leggi,offendendo i documentati pareri dellascienza indipendente e della ragione, e ponendoin definitiva lo Stato che dovrebberappresentare al servizio della mercificazione e dello sfruttamento economico di unpatrimonio della collettività.
Edoardo Salzano
CChi voglia sapere di più sulle diverse alternative sul tappeto par l'accesso dei grandi fkussi turistici a Vanezia legga il libretto Confondere la Laguna, scritto da Lidia Fersuoch per la collana "Occhi aperti si Venezia" di Corte del fòntego editore.
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