Domenica si vota per il “Parlamento europeo”. Rigorosamente tra virgolette. Infatti non è un vero parlamento e non è davvero europeo. Vediamo. Nessuno Stato che esibisse come parlamento l’assemblea di Strasburgo, con i suoi limiti di autorità e potestà legislativa, senza un governo da votare, controllare e sfiduciare, potrebbe infatti passare il test preliminare di democrazia. Sicché, una volta insediato, i media di tutto il mondo si disinteressano quasi totalmente di ciò che accade in quell’esoterico emiciclo. Né si tratta di un’elezione europea in cui ognuno di noi sceglie i suoi deputati a prescindere dallo Stato di origine. Semmai, di 28 scrutini nazionali. Su liste composte in base a logiche domestiche nei diversi paesi dell’Ue, cui seguono molto virtuali campagne elettorali, centrate sui temi che interessano le opinioni pubbliche locali. Le quali lo considerano un voto nazionale di serie B, un test in vista del vero voto politico, quello interno.
«La norma fondamentale dell’Unione contraddice radicalmente valori, principi, fini. È un po’ nascosta, in verità. È scritta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, agli articoli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende …l’adozione di una politica economica …. condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta ed in libera con concorrenza»». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)
Martin Schulz ha sintetizzato i mali dell’Unione europea che vorrebbe sradicare. Sono quelli della «politica di austerity a senso unico per stati e cittadini». Quelli che avrebbero trasformato Ue da «un progetto di pace e di prosperità in un insieme di regole». Per cui l’Ue avrebbe perduto «la capacità di raccontarsi, di entusiasmare e di far guardare al futuro con ottimismo». A questa Ue il progetto socialdemocratico, di cui è portatore, oppone non una «unione burocratica ma un’unione politica ed economica». Quanto alla crisi accusa l’Europa «di essersi aggrappata alle regole» di essere stata «senza leadership … e di aver utilizzato i Trattati come «giustificazione dell’inazione» Trattati «ove non è scritto come uscire dalla crisi». (vedi articolo de la Repubblica).
Non va esclusa affatto, e si può anche esser certi della sensibilità sociale del dr. Shulz. Credo però che queste sue dichiarazioni generino non poche e non infondate perplessità. Cominciamo dalla prima. La politica di austerity a senso unico non è stata certo inventata e poi imposta all’Ue da una potenza extra europea. Consegue immediatamente dai Trattati che non hanno affatto provocato inerzie. Hanno prodotto invece un coerente indirizzo di politica economica e finanziaria che ne ha attuato principi, fini e norme, mediante atti esattamente corrispondenti a detti principi. Tutti adottati dalla Commissione e dal Consiglio e, per quanto di competenza, dal Parlamento europeo, riluttante talvolta, ma certamente non svincolato dai compiti che i Trattati gli assegnano.
La perdita della capacità di «entusiasmare» ne è stata la conseguenza ineluttabile. Soprattutto perché il «raccontarsi» come progetto di prosperità era, più che ottimistico, bugiardo. Bugiardo perché l’unione progettata era esattamente quella burocratica disegnata per eseguire le norme dei Trattati secondo lo spirito dei Trattati, con la logica che ne derivava. Univoca, esplicita trasfusa innanzitutto nell’architettura dell’Unione che faceva, e fa, di tutte le sue istituzioni gli esecutivi dei Trattati. Parlamento compreso, la cui attività si traduce, infatti, nel potere deliberare solo quello che gli propone la Commissione il cui compito assorbente e vincolante ogni altro è quello di organo che «vigila sull’applicazione dei Trattati e delle misure adottate dalle istituzioni in virtù dei Trattati». (art. 17 del Trattato sull’Unione). Un’architettura quindi che realizza il trionfo degli esecutivi, rendendoli tutti tali, qualsivoglia nome o veste assumessero ed abbiano assunto.
Esecutivi di che cosa, di quale progetto, di quale principio fondamentale? I Trattati non nascondono affatto la norma fondamentale dell’Unione. Non la si trova negli articoli 2 e 3 del Trattato sull’Unione che elencano declamazioni inebrianti di valori, principi, fini che simboleggiano le conquiste della costituzionalismo e della democrazia degli ultimi due secoli. La norma fondamentale dell’Unione contraddice radicalmente questi valori, principi, fini. È un po’ nascosta, in verità, forse anche per quel pudore che accompagna spesso l’ipocrisia. È scritta nel Trattato sul funzionamento dell’Unione, agli articoli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende …. l’adozione di una politica economica …. condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta ed in libera con concorrenza». La norma fondamentale dell’Ue è questa. Ne sancisce la dinamica ed il fine. Ha carattere esclusivo ed escludente.
È questa la norma che non permette che si esca dalla crisi. Non lo permette perché ne è la causa, la ha provocata. È questa la norma fondamentale da abrogare. Shulz non può non saperlo. Ma non dice di volerla espungere.
Con Tsipras si può. È una ragione decisiva per votarlo.
«Verso il voto. Grillo è peggio dei fascisti. Il governo Renzi è il peggiore della storia. E la lista Tsipras sembra guardare alle «larghe intese» con i cinque stelle. Non c’è da stupirsi che il non voto sia di gran lunga il primo partito».
Il manifesto, 21 maggio 2014, con postilla
Si può scrivere un articolo per spiegare che non si sa perché lo si scrive? Me ne sono capitate tante nella vita. Ora mi capita anche questa. Si avvicinano le elezioni europee. Che fare?
Il governo Renzi è il peggiore che ci sia accaduto di giudicare, nell’ambito del centro-sinistra (centro-sinistra?), nel corso degli ultimi decenni. Al confronto, non dico Prodi, ma mi fermo a Letta, se si fa riferimento a una posizione di conservatorismo illuminato (non di più, per carità, non di più!), i confronti appaiono schiaccianti.
Il premier procede a balzelloni, come un improvvisatore non in grado di andare al di là di se stesso, con molti slogan, ma senza idee né programmi né cultura. Le politiche sociali sono ridotte al livello di mance ai poveri e agli indigenti. Il patto politico-riformatore con Berlusconi regge agli scossoni cui da una parte e dall’altra, per finalità squisitamente (si fa per dire) elettorali, viene sottoposto. È assolutamente prevedibile che dopo questo voto, quale che che ne sia l’esito, Berlusconi manifesti l’intenzione di tornare al governo, d’intesa, sia pure concorrenziale, con il nuovo Centro destra.
Del resto, perché non dovrebbe accadere? In fondo, anche la politica sociale dell’ex Cavaliere, in perfetta armonia con quella renziana, consiste nel promettere mille euro al mese alle «povere (testuale, nda) casalinghe». Lo ammetto: il ministro Padoan è un’«altra cosa». Ma, appunto: se è un’«altra cosa», cosa ci sta a fare, come riesce a operare efficacemente lì dentro?
E la lista Tsipras? In un’intervista recentissima su il manifesto (16 maggio), Barbara Spinelli spiega: «Spero che la lista Tsipras abbia la forza e l’indipendenza di giudizio per aprire un dialogo con i 5Stelle e decidere per punti specifici politiche concordate. Ci sono molte cose in comune…». L’intervistatrice, Daniela Preziosi, ha qualcosa da obiettare: «Per la verità Grillo sembra più interessato alla campagna forsennata contro il Pd». Replica Spinelli, ben trincerata dietro le proprie certezze: «Ci sono molte posizioni di Grillo completamente condivisibili e fra l’altro simili se non identiche alle nostre. Il Movimento 5Stelle potrebbe svolgere un ruolo molto importante…». Dunque, secondo Spinelli per sbarrare la strada alle «larghe intese» di Schulz in Europa e di Renzi in Italia, bisogna, è legittimo, è decente imboccare la strada di una «larga intesa» con l’orrido Grillo, il peggior nemico di qualsiasi prospettiva seriamente democratica e riformatrice? Si capisce fino in fondo, ora, perché la lista Tsipras (in Italia, s’intende) ha fin dall’inizio rifiutato di definirsi una componente (sia pure fortemente innovativa) del cosiddetto «campo della sinistra». Se lo avesse fatto, infatti, si sarebbe interdetta il gioco politico post elettorale con Grillo, il quale ora, nelle parole di Spinelli, emerge inequivocabilmente.
E Grillo? E l’ondata «populista», che sale da tutte le crepe della società europea attuale? È davvero, come si dice, il pericolo maggiore? Io penso di sì. Ma se è così, è inevitabile che, allo stato attuale delle cose (ripeto e insisto: «allo stato attuale delle cose»), per fronteggiarlo non verrà in mente a nessuno niente di meglio, che la teoria e la pratica delle «larghe intese», non solo in Italia e in Germania, dove già esistono, ma anche in Francia, in Spagna e, forse, in Inghilterra.
Il «vecchio» mondo politico-istituzionale, — cioè «destra» e «sinistra» classiche, ormai sempre più destituite di fondamenti e contenuti tradizionali, e sempre più simili fra loro, — si alleerà al proprio interno sempre più sistematicamente, allo scopo essenziale di garantirsi una sopravvivenza. Tecnocrazia, finanza e mercati stanno per ora (per ora!) dalla sua parte, poi si vedrà.
Dunque, a quanto sembra, se si vuole sbarrare, in primo e indubitabilissimo luogo, la strada a Grillo e al grillismo (in Italia, anche in questo caso, s’intende), e, in prospettiva, al populismo in Europa, bisogna acconciarsi a votare l’intollerabile Renzi. E se si vuole sbarrare la strada alle «larghe intese» fra Renzi e la cordata, sempre ricomponibile, della Vecchia e Nuova destra, bisogna votare (come con esemplare chiarezza spiega Spinelli) in modo da favorire un’alleanza dei «progressisti» (per giunta radicali) con l’orrido, anzi orridissimo Grillo, in confronto al quale anche i vecchi fascisti sarebbero sembrati dei progressisti e delle persone per bene.
Si capisce perché in Italia la massa di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sceglieranno, è così elevata da sfiorare la maggioranza assoluta. Per la prima volta nella storia, infatti non ci si chiede più di votare per un programma e per gli uomini che lo rappresentano, ma per impedire che prevalga un «altro» programma e «altri» uomini che più o meno lo rappresentano.
Come ho già scritto altre volte, non ci sono più «avversari» che si scontrano per affermare la diversità delle loro rispettive posizioni, ma «concorrenti» che si sfidano più o meno sul medesimo terreno con mezzi analoghi (se non addirittura coincidenti). Oggi, di più: la scelta fra i «concorrenti» avviene soprattutto, se non esclusivamente, per impedire che la merce di un «altro» trovi migliore accoglienza sul mercato. La qualità della «propria» merce passa invece in secondo piano. E giustamente: infatti, è merce residuale, fondi di magazzino, prevalentemente fuori corso, che resiste sul mercato unicamente perché la merce che propongono al loro posto gli homines novi fa semplicemente schifo.
Simpatizzo per questa massa. Penso che le si dovrebbe dedicare un’attenzione meno interessata e farisaica di quella che è emersa nelle ultime settimane: votami, votami per favore se non mi voti vince quell’altro, quell’altro che, lo si vede bene, fa schifo, molto più schifo di me.…
È, dopo tutto, una massa di uomini liberi: ognuno di loro, fra qualche giorno, può astenersi, votare scheda bianca, votare Pd, votare Tsipras, votare, perché no, i Verdi, di cui nessuno parla (anche loro, peraltro incauti e oscillanti oltre misura), insomma può fare una scelta commisurata alle proprie ansie, paure, eredità del passato, aspettative del futuro, bisogni elementari (ma anche culturali) di sopravvivenza, ecc, ecc.
Ma quel che non può fare, e che secondo me non farà (spero che non faccia), è condividere la logica che ci viene imposta con prepotenza sempre maggiore. «Questa» politica non ci appartiene, non è la nostra, non la condividiamo, né da una parte né dall’altra. Siamo troppo vecchi, o troppo giovani, per non sperare d’incontrare qualcosa di diverso. La strada è, sarà lunga: ma di certo è, sarà diversa.
«Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2014
Nel derby entomologico (copyright di Aldo Grasso) della televisione italiana, la maggioranza delle osservazioni e delle paure si addensano intorno a Grillo. Laddove non mi pare vi sia alcun dubbio che ad oggi sia stato Vespa a fare incalcolabilmente più danni alla democrazia italiana. E anche per il futuro, a me fa più paura Vespa di Grillo: se non altro per la sua mostruosa abilità nell'imporre l'ordine del giorno del potere alla (maggioritaria) parte fossile dell'opinione pubblica. Qui rileva l'articolo che Vespa ha dedicato alle soprintendenze sul Quotidiano Nazionale del 3 maggio scorso: eloquente fin dal titolo, “Il mostro burocratico”. Non sazio della lode (“Matteo Renzi ha deciso un ragionevole accorpamento delle soprintendenze in modo da ridurre il numero di referenti con cui discutere”), come una geisha del potere dalla sensitività sovrumana, Vespa precede i più innominabili desideri del giovane premier: “Ma saranno disciplinati anche i loro poteri? E i tempi entro i quali esercitarli? Il problema della burocrazia italiana è infatti il sovraffollamento di uffici”. Con un turnover bloccato da decenni, organici al lumicino e nessun mezzo, il problema delle soprintendenze è proprio l'affollamento. E i temibili poteri sarebbero le pistole ad acqua con cui i soprintendenti arginano le lobbies del cemento, armate di missili terra-aria.
Segue un inno alla mercificazione che fa sembrare Tremonti un francescano: “Il manager dei musei immaginato da Renzi avrà le mani libere nel vendere il prodotto cultura o dovrà scontrarsi ogni giorno con un rispettabile architetto o critico che sa tutto di un’opera d’arte, ma non riesce a cavarne un centesimo?”.
Le proposte delle associazioni e delle organizzazioni del volontariato. Campagna promossaa dal Gruppo Abele e da Libera Associazioni nomi e numeri contro le mafie
Dalla fine degli anni ’70 ad oggi la distanza tra ricchi e poveri è tornata a crescere in maniera grave, invertendo il trend di inizio ‘900 quando in Europa la quota della ricchezza nazionale posseduta dall’uno per cento più ricco era diminuita a favore dei ceti popolari.
L’aggravarsi delle condizioni economico, sociali, ambientali e culturali sono conseguenza di politiche economiche sbagliate. Le politiche scelte non solo non hanno saputo contrastare la crisi prodotta dall’aumento delle diseguaglianze ma si sono mostrate addirittura controproducenti nel fronteggiare la crisi bancaria e finanziaria esplosa nel 2008 a causa di una finanza ipertrofica e speculativa a cui non sono state imposte regole e sanzioni. Le cosiddette politiche di austerity messe in campo hanno fallito e continuano ad avere un costo altissimo in termini sociali, minacciando il futuro dell’unità europea. Queste politiche, dai piani di austerità, al pareggio di bilancio, ai vincoli esterni imposti alle politiche pubbliche, sino al trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance che comprende il fiscal compact, riducono l’intervento pubblico e la possibilità di manovre fiscali per il rilancio dell’economia, pongono limiti alla spesa pubblica ed alla politica della domanda, tagliano la spesa sociale, chiedono minori imposte per le fasce di reddito più alte e premono per ridurre le tutele del lavoro, dei salari e dell’ambiente. I nemici dell’Europa, e di conseguenza del nostro paese, sono oggi l’austerity, la povertà, l’esclusione sociale, la disoccupazione, la corruzione e le mafie. Sono questi fenomeni che stanno consentendo ai germi del razzismo, del nazionalismo e del populismo di prosperare.
Alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014 l’Europa è colpita da stagnazione economica, da disuguaglianze sempre più gravi, dal crescente divario tra paesi del centro e della periferia, dai germi del razzismo e dall’aumento di ingiustizia sociali ed ambientali di cui sono vittime soprattutto ceti medi e popolari. La democrazia viene sensibilmente ridotta a livello nazionale ma non viene sviluppata a livello europeo. Siamo davanti ad una crisi strutturale e sistemica che non può essere affrontata e gestita da un potere troppo concentrato nelle mani di istituzioni tecnocratiche e non elettive che finiscono per rispondere agli interessi di quelle elite economiche e finanziarie che con la crisi si sono invece arricchite. Questa non è l’Europa immaginata decenni fa come uno spazio di integrazione economica e politica, libera dalla guerra, fondata sul progresso sociale, l’estensione della democrazia, dei diritti e del welfare.
Come cittadini e cittadine europee abbiamo il diritto e la responsabilità di lavorare per un’Europa che riaffermi e rilanci il suo impegno per il rafforzamento ed il rilancio della democrazia, della giustizia sociale ed ambientale, delle politiche sociali, della solidarietà e della cooperazione tra i popoli. Vogliamo un’Europa più forte e coesa per affrontare la crisi, cogliendone le opportunità di trasformazione in positivo. Dopo 9 mesi di lavoro condotto dalla campagna Miseria Ladra in più di 100 città del nostro paese, centinaia di realtà del sociale e del volontariato laico e cattolico hanno deciso di camminare insieme, per offrire al dibattito pubblico ed agli amministratori le nostre proposte per combattere nella nostra Europa la povertà, l’esclusione sociale ed ambientale e la disoccupazione. Proposte frutto di un’elaborazione e di un’esperienza collettiva che fanno della partecipazione e del metodo condiviso valori e pratiche indispensabili per rispondere alla crisi.
1- Stop all’austerity
Le politiche fiscali restrittive dell’Unione europea – in particolare il Fiscal Compact e il Patto di stabilità e crescita – devono essere abbandonate. Le regole di bilancio devono essere cambiate e l’obiettivo di un “pareggio strutturale” per i bilanci pubblici deve essere sostituito da una strategia economica coordinata che permetta agli stati membri di attuare le politiche fiscali che sono necessarie per uscire dalla crisi. Senza un forte stimolo della domanda non ci può essere via d’uscita dall’attuale stagnazione. Un piano di investimenti pubblici europei è necessario per ricostruire attività economiche che siano sostenibili e capaci di offrire buoni posti di lavoro. Queste misure dovrebbero essere al centro di una nuova politica industriale in Europa, orientata verso la trasformazione ecologica e sociale del nostro modello economico, con una drastica riduzione nei consumi di energie non rinnovabili. A tal fine,
2- Per una finanza pubblica e non speculativa
Di fronte al rischio di deflazione - e al circolo vizioso di politiche restrittive, depressione e concorrenza al ribasso sui salari – la politica monetaria dell’eurozona deve cambiare radicalmente, riportando l’inflazione almeno al livello del 2%. Il problema del debito pubblico deve essere risolto attraverso una responsabilità comune dell’eurozona e con la ristrutturazione del debito. Gli eurobond devono essere introdotti non solo per rifinanziare il debito pubblico degli stati membri, ma anche per finanziare la conversione ecologica dell’economia europea. Allo stesso tempo bisogna mettere davvero un freno allo strapotere della finanza. Le regole previste dall’Unione bancaria non affrontano i difetti strutturali e la fragilità di fondo del sistema finanziario.
Chiediamo:
- la Banca centrale europea (Bce) deve fornire liquidità per realizzare politiche espansive e diventare prestatore di ultima istanza per i titoli pubblici;
- il radicale ridimensionamento del settore finanziario, con una tassa sulle transazioni finanziarie, l’eliminazione della finanza speculativa e il controllo dei movimenti di capitale;
- regole stringenti che vietino le attività finanziarie più speculative e rischiose, introducendo una netta divisione tra banche commerciali e banche d’investimento. I problemi dei centri finanziari offshore e dei paradisi fiscali all’interno dell’Unione europea devono essere risolti attraverso l’armonizzazione fiscale e regole più severe;
3- Welfare: dovere etico e leva per il rilancio dell’economia
Politiche di welfare in Europa
Se invece passiamo al confronto degli ultimi dati Eurostat disponibili della spesa sociale a parità di potere d’acquisto, emerge come la spesa sociale per abitante in Italia sia tra le più basse, pari al 91,9% del corrispondente valore medio della UE a 15, all’80,5% di quella tedesca, all’80,3% di quella francese. Il termini monetari il valore italiano era pari a 7.486 euro mentre nella UE a 15 il valore corrispondente medio era 8.150. Se analizziamo la spesa sociale per abitante, era pari nel 2001 a 6.050 euro e nel 2011 si è portata a 6.855 con un incremento del 13,3%. Nella UE a 15 il tasso di incremento è stato invece del 17,8%, nettamente più alto. In Spagna addirittura del 36,5%, in Francia del 21,1%, in Svezia del 15,9%.
Se analizziamo la spesa pubblica procapite per sanità, istruzione, servizi sociali e casa, emerge come l’Italia sia ai livelli più bassi. Sanità: la spesa pubblica pro capite è cresciuta tra il ’90 ed il 2009 del 37% a fronte di un +79% della media UE, rimanendo la spesa pubblica pro capite fra le più basse d’Europa. Istruzione: la spesa pubblica pro capite è cresciuta del 15% fra il 1999 ed il 2008 a fronte di una crescita media UE del 25%. Servizi sociali e Casa: siamo ai minimi europei.
Occorre dunque incrementare e di molto la spesa sociale in senso stretto, spesa per le famiglie, per l’invalidità, per la casa, per contrastare l’esclusione sociale a tutto campo. Questo significa incrementare i servizi, piuttosto che i soli trasferimenti.
Per evitare una riproposizione di interventi a carattere puramente assistenziale, compresa l’erogazione diretta di un risarcimento monetario, riteniamo che tutti gli interventi di politiche sociali debbano rispondere: al superamento degli interventi assistenziali con politiche centrate allo sviluppo di un welfare “generativo”; alla sollecitazione e sostengo a diffusi livelli di partecipazione e protagonismo dei cittadini e degli stessi beneficiari degli interventi sociali; alla centralità della programmazione degli interventi da parte degli enti locali e di prossimità e progettazione partecipata dei servizi e interventi a livello locale con il contributo attivo delle forme organizzate formali e informali della società civile; alla integrazione dei servizi e aree di intervento (sociale sanitario, lavoro, formazione, ambiente); al sostengo e diffusione di un’economia responsabile, sociale e solidaristica.
Chiediamo:
- obbligo di ri-allineamento della spesa per il Welfare alla media dei paesi dell’Unione, colmando lo scarto esistente tra il nostro paese con gli altri paesi europei, considerando che l’Italia risulta agli ultimi posti riguardo la dotazione di spesa per i servizi sociali;
- definizione vincolante dei Livelli Essenziali di Assistenza europei, elemento fondamentale per garantire una discreta omogeneità di interventi e garanzie di diritti sociali in tutta l’area UE;
- approvazione di misure per favorire e sostenere lo sviluppo della cooperazione sociale e le altre forme di iniziativa che sappiano costruire percorsi di inclusione sociale rispettose delle persone e dell’ambiente.
Libera il welfare attraverso i beni confiscati
Le mafie sono oggi in Europa un fenomeno in espansione. Le stime ufficiali del SOCTA e del CRIM denunciano 3600 Clan operativi all'interno dell'Unione Europea, di cui il 70% ha una composizione geograficamente eterogenea e più del 30% ha una vocazione policriminale. Un potere economico enorme che ben più di altri ha saputo approfittare delle crescenti interconnessioni delle economie europee e dell’aumento della povertà e dell’esclusione sociale. Le misure patrimoniali, forse ancor di più delle misure di detenzione, sono lo strumento e insieme la politica antimafia più efficace, quella che colpisce le organizzazioni criminali nel loro obiettivo primario: l'accumulazione di denaro, ricchezza, profitti. Ma sono anche molto di più di questo, rappresentando la finalità sociale un’opportunità per generare nuovo welfare. In Italia in questi anni hanno rappresentato opportunità di lavoro, luoghi relazione e partecipazione civile, centri di accoglienza, di servizi alla persona, luoghi di solidarietà. In questo senso riteniamo la Direttiva sul congelamento e la confisca dei proventi di reato alla criminalità organizzata, approvata lo scorso febbraio 2014 dal PE, un sicuro passo in avanti verso un'armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri.
Riteniamo sia fondamentale uno scatto ulteriore che consenta di segnare il passo con misure all'avanguardia. Sono ancora numerosi i margini di avanzamento e di innovazione che possono essere prodotti in tema di confisca dei beni e riutilizzo sociale.
Chiediamo:
- il riutilizzo sociale dei beni confiscati; il riutilizzo sociale è oggi solo una possibilità prevista dalla Direttiva. Molto può ancora essere fatto nei 30 mesi in cui ogni Stato Membro recepirà nel proprio ordinamento interno le disposizioni della Direttiva. Chiediamo che si agisca immediatamente, rendendo davvero possibile la destinazione sociale dei beni confiscati. In un periodo di grande crisi, i beni confiscati rappresentano uno strumento di coesione sociale da non lasciarsi sfuggire;
- la confisca dei beni ai corrotti; la confisca dei beni per i reati di corruzione e contro la pubblica amministrazione può generare nuove, importanti risorse da investire nell'innovazione sociale. La crisi si combatte non con misure di austerità, ma contrastando innanzitutto la corruzione e la capacità delle mafie, attraverso questa, di generare ulteriori disuguaglianze, povertà, perdita di competitività in ogni settore delle nostre economie, incidendo non solo sull'economia e la ricchezza di un territorio, ma sull'etica pubblica, sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni e sulle prospettive di sviluppo;
- risorse e progetti per il riutilizzo sociale; investire sui beni confiscati significa dedicare risorse all'inclusione sociale, al contrasto alla povertà, alla promozione della legalità, ad opportunità di sviluppo e di lavoro. Significa contrastare la corruzione favorendo partecipazione e protagonismo di cittadini e giovani. E' perciò importante che percorsi di questo genere trovino sempre più spazio attraverso le linee di finanziamento. Tante le esperienze finora realizzate, ad esempio in Italia, attraverso l'utilizzo di fondi FESR per la ristrutturazione o la realizzazione di progettualità sui beni confiscati. Ancora molte altre possono essere le strade da percorrere. Lotta alla disoccupazione, inclusione sociale, uguaglianza di genere ed innovazione sociale sono tra le priorità del FSE per il a partire dal 2014, e possono trovare, proprio nel riutilizzo sociale dei beni confiscati, un importante strumento di azione e partecipazione;
- estensione delle possibilità di confisca: a partire dal mutuo riconoscimento delle decisioni definitive di confisca, rimasto mai pienamente attuato a partire dalla decisione 2006/783/GAI, occorre incrementare le possibilità di azione, pur nel rispetto dei diritti fondamentali, sui patrimoni delle mafie, a partire dalla confisca “estesa” ed alla confisca in assenza di condanna definitiva. La rapidità dell'azione contro la potenza economica della criminalità rimane ancora un aspetto cruciale per garantire efficacia verso il riutilizzo sociale.
4- Un reddito minimo per una vita dignitosa
Dal 1992 in Europa, Parlamento e Consiglio invitano gli Stati membri ad individuare misure concrete che sradichino la povertà. Le Istituzioni europee chiedono con la cosiddetta “Raccomandazione sul reddito minimo” che si “compiano progressi reali nell'ambito dell'adeguatezza dei regimi di reddito minimo, affinché essi siano in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa”. Con la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010, viene riconosciuto il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva. Noi, aderenti alla Campagna Miseria Ladra chiediamo l’impegno dei candidati italiani a lavorare per una “Direttiva europea per un reddito minimo” che garantisca una vita dignitosa alle persone che vivono sotto la soglia di povertà. Che garantisca il diritto a vivere una vita dignitosa anche per coloro che in un dato momento della loro vita, per circostanze non volute, si trovano ad essere in una situazione di povertà e rischiano di essere esclusi definitivamente dalla società.
Chiediamo:
- un impegno affinché parta dal prossimo Parlamento europeo la spinta verso una misura vincolante per tutti gli Stati membri, con uno standard minimo riconosciuto al 60% del reddito mediano in ciascun paese a livello individuale.
5- Un'istruzione pubblica, gratuita e di qualità a livello europeo
Chiediamo:
- l'innalzamento degli investimenti in istruzione e ricerca fino all'8% del PIL con forme di controllo e aiuto nei confronti dei paesi svantaggiati indirizzando al megio i FSE e i FESR;
- la gratuità dell'istruzione di ogni ordine e grado per consentirne a tutti e tutte l'accesso e ridurre i tassi di dispersione, aumentare il numero di laureati e incrementare il livello culturale dell'intera Unione Europea;
- estensione a livello continentale delle politiche di Diritto allo Studio che garantiscano il diritto all'abitare, alla salute e alla mobilità anche agli studenti fuori sede e agli studenti stranieri. L'UE deve quindi dotarsi di Livelli Essenziali delle Prestazioni a livello continentale.
6- Patrimonio Bene Comune
Ex aree militari, vecchi cinema e teatri, scuole chiuse, ex depositi, terre incolte, ex fabbriche, fondi rustici e casali sono esempi di patrimonio pubblico e privato abbandonato che, per effetto delle progressive trasformazioni urbane e della speculazione edilizia che in modi, con intensità e tempi diversi ha coinvolto i Paesi Europei, è stato svuotato dalle sue attività, sottraendo alla collettività spazi precedentemente utilizzati. Disperdendo via via la loro funzione originaria e restando vuoti, questi stabili disattendono la funzione sociale della proprietà. Il riprodursi di tale fenomeno di residualità immobiliare, traendo origine dal mutare delle esigenze del ciclo produttivo/riproduttivo, si colloca nel più generale contesto dell’attuale modello economico che governa l’Europa e si esprime nelle politiche di austerità e di privatizzazione. Questo modello propone i processi di alienazione del patrimonio pubblico per ridurre il debito e come strada per liberare l’amministrazione dagli obblighi di gestione del patrimonio, trasferendo la proprietà dei beni pubblici ai grandi interessi privati, assicurando solo a questi ultimi cospicui guadagni. Eppure, mai come in questi anni di recessione economica, in cui esclusione sociale, negazione del diritto allo studio, precarietà e impoverimento sono in rapida ascesa, il recupero degli spazi inutilizzati è un pezzo di risposta - assai concreta - alla crisi che viviamo, un’occasione irripetibile per creare lavoro e cultura, per soddisfare bisogni e diritti. In tali spazi abbandonati potrebbero trovare accoglienza la crescente domanda del disagio abitativo, nonché quell’insieme di soggetti comunitari e associativi che assicurerebbero la fornitura di servizi necessari alla cittadinanza. In questi stabili si potrebbero sperimentare forme nuove di democrazia partecipata che superino la tendenza politica in atto, la cosiddetta valorizzazione economica, ma sarebbe meglio definirla svalutazione, in favore di una valorizzare sociale. Questi edifici da rigenerare potrebbero essere gli Spazi della cittadinanza europea, dell’incontro interculturale e della promozione dei valori europei.
Chiediamo:
- il censimento del patrimonio abbandonato pubblico e privato;
- l’istituzione di una banca dati pubblica europea del patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato, in continuo aggiornamento, nella quale confluiscano gli immobili privi di destinazione, per assicurare ai cittadini corrette informazioni, trasparenza, partecipazione e per incoraggiare la sinergia tra partner diversi per la co-progettazione;
- la promozione di forme di riutilizzo proposte dai gruppi di cittadini attivi europei attraverso l’utilizzo di Fondi strutturali europei.
7- Migranti: l’Europa sono anche Io!
L'Europa che immaginiamo è uno spazio culturale aperto, con un'identità plurale e dinamica, capace di fondare le relazioni tra gli stati membri e con i paesi terzi sul reciproco rispetto, sul riconoscimento delle specifiche diversità culturali, sulla promozione delle libertà e dei diritti fondamentali, sul mantenimento della pace tra i popoli, sulla garanzia del principio di eguaglianza, sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, sul ripudio della xenofobia e del razzismo. Nell’UE risiedono 32,9 milioni di migranti che rappresentano il 7% della popolazione, pari a 503 milioni. Nell'attuale fase di crisi economica e sociale è importante che l'Unione Europea rafforzi il proprio impegno nella lotta a tutte le forme di xenofobia e di razzismo combattendo ogni forma di discriminazione legata all'origine nazionale, ai tratti somatici, alla lingua, alla religione, alle diversità culturali reali o presunte. La crescita di movimenti nazionalisti, populisti e xenofobi che utilizzano strumentalmente il tema delle migrazioni per accrescere il proprio consenso presso l'opinione pubblica rappresenta un pericolo per la costruzione di un'Europa democratica, solidale, coesa e di pace.
Chiediamo:
- la ratifica della Convenzione dell'ONU del 18/12/1990 "sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie";
- la garanzia del diritto di voto ai migranti residenti per le elezioni amministrative ed europee ed il riconoscimento della cittadinanza europea, armonizzando le leggi nazionali;
- la garanzia del diritto di accesso legale in Europa per ricerca di lavoro e per richiedere la protezione internazionale;
- l’abolizione dei centri di detenzione e la fine del diritto speciale per i migranti;
- di garantire la parità di accesso ai sistemi di welfare e al mondo del lavoro, combattendo con azioni concrete la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento lavorativo;
- la tutela dei diritti dei minori, garantendo la loro inespellibità, senza alcuna limitazione alla libertà personale.
«La tesi di chi sostiene un’uscita dell’Italia dall’euro è che in questo modo le aziende italiane potrebbero esportare di più grazie a una svalutazione della nuova lira. Ma è un’analisi che guarda al mondo di oggi con strumenti analitici del secolo scorso».
Lavoce.info, 20 maggio 2014 (m.p.r.)
Il mondo cambia. Negli ultimi giorni di campagna elettorale per le elezioni europee, continua vivace il dibattito sui costi e i benefici che l’Italia ha avuto dalla moneta unica, con posizioni divise tra chi ritiene che il nostro paese abbia sofferto oltre modo nell’euro a causa delle sue ancora irrisolte debolezze strutturali, e chi invece ritiene che la moneta unica sia la principale causa dei nostri mali. La tesi sostenuta da chi auspica un ritorno alla lira è molto semplice: “se tornassimo padroni della nostra moneta, potremmo monetizzare il nostro debito e compiere svalutazioni competitive per stimolare la domanda dei nostri beni da parte dei mercati esteri”.
Esportazioni e tasso di cambio oggi.Per capire come questa modalità di organizzazione della produzione possa attenuare di molto i benefici teorici delle svalutazioni competitive, prendiamo per esempio lo spazzolino da denti prodotto da una nota multinazionale europea e assemblato con componenti che provengono da siti produttivi localizzati in dieci diversi paesi (con dieci valute diverse), in tre continenti. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro nel determinare, da solo, la competitività del prodotto? Immaginando che sia assemblato fuori dall’Europa, per produrre il più vicino possibile al mercato di riferimento, come accade peraltro per la gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia, cosa c’entrerebbe l’euro con il successo di queste aziende?
In generale, la letteratura economica che ha analizzato questi effetti limitandosi all’evidenza degli ultimi anni, ossia da quando le catene globali del valore hanno un impatto significativo sui flussi di commercio, suggerisce che non esiste una relazione statisticamente forte tra profitti delle aziende e livello dei tassi di cambio, né questa relazione sembra differenziarsi, come dovrebbe, tra settori esposti alla concorrenza internazionale (il manifatturiero in generale) e settori che per loro caratteristica (come i servizi alla persona) restano locali. (3)
Effetti per l'italia. Ma come si posiziona l’Italia rispetto a queste dinamiche? Per rispondere, possiamo guardare ai dati recentemente pubblicati dall’Oecd che fanno vedere come l’importanza dei diversi mercati di esportazione del nostro paese cambia se distinguiamo tra esportazioni lorde (ossia dove vanno fisicamente i nostri beni quando escono dai confini nazionali) ed esportazioni in valore aggiunto (ossia quale domanda viene servita dai nostri beni quando escono dai confini nazionali, ma entrano nella produzione di beni di altri paesi prima di essere consumati). Come si può vedere dai grafici sottostanti, quello che emerge è che la Germania è di gran lunga al primo posto come mercato di sbocco delle nostre esportazioni (lorde). Ma se guardiamo al principale mercato dalla cui domanda dipendono le nostre esportazioni, scopriamo che è quello degli Stati Uniti. (4)

Se ne deduce che l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli USA. (5) L’evidenza è peraltro coerente con il dato che, a livello mondiale, vede l’Europa come il mercato in cui maggiormente si è integrata la produzione regionale tra paesi, Italia inclusa.
Cosa succederebbe, allora, se applicassimo questa realtà a un sistema di monete locali e non di moneta comune, ipotizzando una svalutazione della lira, ma non dell’euro tedesco? Innanzitutto, per la parte di esportazione “diretta”, potremmo in teoria vendere di più. Tuttavia, oggi l’80 per cento del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore, e mentre uscire da una value chain è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente. Non basta quindi costare di meno per essere automaticamente ammessi al desco della produzione internazionale di beni, e d’altra parte i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali, resterebbero immutati.
Inoltre, i dati disponibili dimostrano come esista una relazione positiva e statisticamente significativa tra variazione della quota di mercato delle nostre esportazioni in un dato settore e la variazione (ritardata) della quantità di beni esteri che quel settore utilizza per l’esportazione: in sintesi, al giorno d’oggi per esportare di più è necessario importare di più. E dunque svalutare in un sistema di Gvc, oltre a non garantire necessariamente maggiori vendite, si tradurrebbe sicuramente anche in un costo per le nostre imprese.
Per quel che riguarda l’esportazione “indiretta” (che pesa per oltre il 20 per cento dell’export italiano), bisogna chiederci cosa succederebbe alla domanda americana di beni tedeschi, da cui in ultima analisi dipende parte della domanda tedesca di beni italiani. Agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco–dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più. Con una svalutazione della nuova lira, se decidessero di non modificare i loro prezzi, le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia. In compenso le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania.
Dunque, un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia: sono queste le conseguenze se si guarda al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso.
(1) Si veda in particolare A. Baglioni “Uscire dall’euro? No, grazie”, e C. Altomonte e T. Sonno, “L’Italia alla sfida dell’euro”, www.sfidaeuro.it.
(2)Unctad, “Global Value Chains and Development, Investment and Value Added Trade in the Global Economy”, 2013
(3) M. Amiti, J. Konings e O. Itskhokiin “Importers, Exporters, and Exchange Rate Disconnect” del 2012, dimostrano che le grandi imprese esportatrici (importatrici) sono decisamente poco influenzate dai cambiamenti nei tassi di cambio. Nello specifico, gli autori mostrano come le aziende connesse internazionalmente sono in grado di assorbire in maniera indolore quasi il 50 per cento della eventuale variazione di cambio. Poiché in ogni paese le grandi aziende esportatrici rappresentano circa il 70-80 per cento del valore delle esportazioni, di fatto oggi abbiamo una situazione per cui una gran parte dell’export di uno stato europeo è in realtà parzialmente isolato dall’effetto del tasso di cambio.
(4) Per una distinzione tra esportazioni lorde ed esportazioni in valore aggiunto, e una completa analisi di queste dinamiche sull’export italiano si veda R. Cappariello e A. Felettigh “How does foreign demand activate domestic value added? A dashboard for the Italian economy”, mimeo.
(5) Tutte queste informazioni e i dati sono liberamente scaricabili dal sito dell’Oecd.
Eccezionale! Il giornale fondato da Eugenio Scalfari scopre che alle elezioni europee partecipa anche Alexis Tsipras, e non solo Renzi e Grillo. E si accorge perfino che il leader della lista europea "L'altra Europa" non è trinariciuto. La Repubblica, 20 maggio 2014
Si fermano ad ascoltarlo. Scusi chi è quello? «E’ Tsipras, della Lista Tsipras». Ah, ecco. Fa una buona impressione alle signore: «Sembra Banderas». E conquista i vecchi compagni che si mescolano agli studenti quando se ne va dalla piazza alzando il pugno chiuso. Tsipras che non le manda a dire a Renzi: «Il suo Pd ha applicato le politiche proposte dalla destra popolare e dopo le elezioni potrebbe accordarsi con Berlusconi, il che non è buono per il popolo italiano». Tsipras che, però, non è affatto trinariciuto, non chiude la porta a Schulz, visto mai che si allenti l’alleanza «mortale» con i conservatori e il Pse torni ad essere «più di sinistra ». Per raggiungere Torino — seconda tappa — il candidato presidente sceglie l’Alta Velocità, ma niente bar, gli comprano i panini. Stazione Centrale: i fotografi gli chiedono di fare ciao prima di salire a bordo. Esegue perplesso ed è anche la prima volta che concede interviste sul treno.
Le sfide, in Europa e in Italia: «l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico».
Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014
Per la prima volta, le elezioni per il Parlamento europeo rappresentano un appuntamento che va oltre la composizione dell'assemblea di Bruxelles, un'istituzione che ha ancora pochi poteri e incide in modo limitato sulle scelte della Commissione e del Consiglio europeo. Si tratta di un voto che definirà l'intero quadro politico per l'Europa e per i paesi membri, la cornice in cui si muoveranno nei prossimi anni istituzioni europee e governi nazionali, tecnostrutture di Bruxelles e Francoforte e soggetti sociali.
Il 25 maggio si vedrà se la sinistra e i movimenti avranno uno spazio significativo per rappresentare le vittime della crisi e gli insubordinati d'Europa, accrescere il proprio peso e condizionare la politica dei prossimi anni. Sappiamo che dal voto emergerà una forte ventata populista e antieuropea, figlia delle politiche di austerità di questi anni. Con queste pulsioni di destra e demagogiche dovremo fare i conti per lungo tempo, senza scorciatoie e tatticismi. Un populismo sbagliato non si combatte – come vorrebbe Matteo Renzi – con un altro dall'alto, che occupa i media e nasconde la gravità dei problemi dietro la velocità delle mosse propagandistiche.
Quattro sono le sfide che la sinistra e i movimenti dovranno affrontare in Europa: l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico. Si tratta di sfide che riguardano l'insieme dell'Europa, come ci ricorda l'appello della Rete europea degli economisti progressisti. Ma si tratta di questioni vitali per l'Italia: qui il governo Renzi persegue con coerenza le vecchie politiche: prosegue con l'austerità, precarizza ancora di più il lavoro, taglia massicciamente la spesa pubblica e soprattutto quella sociale, vara nuove privatizzazioni, riduce al minimo gli investimenti pubblici e ridimensiona il ruolo dell'intervento pubblico. Basta leggersi l'ultimo Documento di economia e finanza del governo per rendersene conto. I partiti che fanno riferimento al Partito socialista europeo non sanno bene cosa fare, avendo già fatto molti guai in passato. Da una parte si rendono conto di essere stati subalterni alle politiche neoliberiste di Angela Merkel e della Commissione europea, e che questa strada sta portando l'Europa (e la sinistra moderata) al precipizio. Dall'altra, in Germania come in Italia, si sono installati in governi di larghe intese che hanno al centro proprio la filosofia e le politica dell'austerità. Le stesse larghe intese rischiano di traslocare a Bruxelles per l'elezione del Presidente della Commissione europea. Democristiani e socialisti si contenderanno il primato, ma anche nel caso di un relativo successo di Martin Schulz, la sua alleanza con Angela Merkel è più che probabile: dove sarà allora il cambio di rotta per le fallimentari politiche dell'Europa? Lo scenario vede la contrapposizione tra una tecnocrazia neoliberista con il sostegno politico dei governi di larghe intese e un populismo antieuropeo che gioca la carta dell'anti-politica. In questo quadro la sinistra che sostiene la candidatura di Alexis Tsipras può giocare una partita importante: indicare la via di un cambiamento e diventare determinante nel Parlamento europeo. In Italia può ricostruire uno spazio aperto e plurale in cui riaggregare forze, persone e movimenti interessati a ricostruire una politica di sinistra. L'esperienza della lista Un'Altra Europa con Tsipras ha mostrato problemi e difficoltà, ma anche che c'è la possibilità - dandosi il tempo necessario - di far maturare una cultura politica comune e costruire efficaci strumenti d'iniziativa. Comunque andrà, il percorso è segnato. Non si può tornare a logiche superate e minoritarie. A sinistra del Pd - e tra il Pd e Grillo - c'è uno spazio politico che deve essere esplorato e generosamente costruito, oltre le vecchie appartenenze, per dare un senso alla prospettiva delineata in questi mesi, l'unica possibile per disegnare il futuro di una sinistra radicale e pragmatica, capace di scommettere sulla trasformazione dell'Europa e dell'Italia.
«Domenica 25 si vota per il futuro dell'Ue. Tra euroscettici ed europeisti neoliberali, esiste una terza via: la proposta di un progetto europeo che offra un'alternativa al modello egemone, in preda a una gramsciana «crisi organica». Syriza può essere il collante dell'antagonismo».
Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014
Le prossime elezioni europee dovrebbero essere considerate l'occasione per una competizione agonistica sul futuro dell'Unione. Una competizione, che oggi è assolutamente fondamentale. Molti a sinistra cominciano a dubitare che si possa realizzare, all'interno dell'attuale costruzione europea, un'alternativa al modello neoliberale di globalizzazione. E l'Unione europea è sempre più percepita come un progetto intrinsecamente neoliberale che non può essere riformato. In tal senso, appare inutile provare a trasformare le sue istituzioni, e l'unica strada possibile è quella dell'uscita.
Ma questa visione pessimistica deriva indubbiamente dal fatto che tutti i tentativi di contrastare le regole neoliberali dominanti vengano sistematicamente presentati come la mera espressione di attacchi anti-europei contro l'esistenza stessa dell'Unione. Non può certo sorprendere che un numero crescente di cittadini, privati della possibilità di avanzare legittime critiche alle politiche neoliberali, sia diventato euroscettico. Essi credono che il progetto europeo sia proprio la causa della condizione di emergenza che stiamo vivendo e temono che una maggiore integrazione comunitaria porti soltanto al rafforzamento dell'egemonia neoliberale.
Questa posizione minaccia la sopravvivenza del progetto europeo e l'unico modo per arrestare la sua diffusione consiste nel creare le condizioni per una contestazione democratica all'interno dell'Unione europea. Dal mio punto di vista, alla base della disaffezione nei confronti della Ue vi è la mancanza di un progetto che favorisca una forte identificazione tra i suoi cittadini e fornisca un obiettivo per mobilitare democraticamente le loro passioni politiche. La Ue è formata da consumatori, non da cittadini: è stata costruita essenzialmente intorno a un mercato comune e non ha mai creato una volontà comune. Nessuna sorpresa, quindi, se in tempi di crisi economica e di politiche di austerità più di qualcuno inizi a mettere in dubbio la sua utilità, dimenticando che l'Unione europea ha contribuito in modo decisivo alla pacificazione del continente. Ciò che serve in questa congiuntura è rafforzare il consenso popolare nei confronti dell'Unione grazie all'elaborazione di un progetto socio-politico finalizzato ad offrire un'alternativa al modello neoliberale che ha prevalso negli ultimi decenni: quel modello è ora in crisi, ma un altro ancora non esiste. Si potrebbe dire, sulle orme di Gramsci, che stiamo assistendo a una «crisi organica» in cui il vecchio modello non può più durare, mentre il nuovo modello non è ancora nato.
Purtroppo la sinistra non è in grado di trarre vantaggi da questa situazione, perché ha accettato per troppo tempo l'idea che alla globalizzazione neoliberale non vi sia alternativa. In molti paesi, i governi di centro-sinistra hanno giocato un ruolo fondamentale nel processo di deregolamentazione e privatizzazione che ha contribuito a consolidare l'egemonia neoliberale. E non si può negare che le istituzioni europee abbiano la loro parte di responsabilità nella crisi attuale. È un errore, però, concepire questa crisi come una crisi del progetto europeo. Si tratta piuttosto di una crisi della sua incarnazione neoliberale, ed è per questo che i tentativi di risolverla somministrando una dose ancora più forte di politiche neoliberali non può avere alcun successo. Per combattere il dilagare di sentimenti anti-europei e fermare la crescita dei partiti della destra populista che eccitano tali sentimenti, è urgente offrire ai cittadini europei un progetto politico che possa dar loro la speranza di un futuro diverso, più democratico.
Fortunatamente in molti paesi d'Europa sono nati partiti che si pongono a sinistra delle socialdemocrazie e che sfidano il loro centrismo. Organizzati nel Partito della Sinistra europea, lavorano per un'alternativa all'egemonia neoliberale e hanno deciso di lanciare un'offensiva a livello continentale. Così, in occasione del quarto Congresso che si è tenuto a Madrid dal 13 al 15 dicembre 2013, hanno scelto di candidare il leader di Syriza in Grecia, Alexis Tsipras, alla presidenza della Commissione europea con l'obiettivo di proporre un altro modello per l'Unione. Syriza è una coalizione di partiti e movimenti sociali, e da questo connubio può istituirsi lo spazio per mobilitare la vasta costellazione di forze sociali che si oppongono alle attuali politiche della Ue. In molti paesi i movimenti sociali hanno risposto positivamente all'appello del Partito della Sinistra europea a sostegno della candidatura di Tsipras, e sono ora impegnati a organizzare la loro partecipazione alla campagna politica. In Italia, per esempio, hanno dato vita a una Lista Tsipras per sostenere il programma che Tsipras ha presentato accettando la sua candidatura alle elezioni europee. Si tratta di uno sviluppo molto promettente, perché soltanto sulla base di una sinergia a livello europeo tra partiti della sinistra e movimenti sociali è possibile costruire una soggettività in grado di portare a una trasformazione radicale dell'attuale ordine neoliberale.
«Dai social forum agli Indignados, la protesta si è spostata nelle piazze. Ma i movimenti soffrono la mancanza di un coordinamento europeo». Non solo di questo soffrono, ma ne riparleremo: la discussione è già aperta.
Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014
Le elezioni europee saranno le prime ad avere luogo nel pieno della Grande Recessione. I sondaggi - inclusi quelli promossi dalla Commissione Europea per mezzo di Eurobarometer - mostrano chiaramente gli effetti che la crisi finanziaria ha avuto sulla fiducia dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni europee. Fiducia che ha subìto un calo drammatico, passando dal 57% della primavera del 2007 al 31% dell'autunno dell'anno scorso.
La crescente sfiducia nell'Ue va di pari passo con un aumento drammatico nella percentuale di cittadini nei quali l'Ue suscita un'immagine negativa, che è addirittura raddoppiata (dal 15 al 28%), mentre la percentuale di coloro nei quali suscita un'immagine positiva è crollata (passando dal 52 al 31%). Nel frattempo, la porzione della popolazione che si dichiara ottimista nei confronti degli sviluppi futuri dell'Ue è scesa da 2/3 alla metà del totale, mentre la porzione che si dichiara pessimista ha raggiunto i 2/3 del totale in Portogallo, Grecia e Cipro. I sondaggi ci rivelano anche quanto il tracollo di legittimità politica delle istituzioni sia legato alla crisi finanziaria e in particolare alle politiche di austerità. La metà degli intervistati (e i 2/3 in Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro) pone la disoccupazione in cima alle proprie preoccupazioni, seguita dalla situazione economica. Solo il 14% considera il debito pubblico un problema. Il calo di fiducia va di paro passo col mutato giudizio nei confronti della situazione economica nazionale, che registra un aumento significativo nella percentuale - pari quasi al 100% nei paesi del Sud Europa - di coloro che la considerano totalmente negativa. È in rapido aumento anche la percentuale di intervistati (2/3) che ritiene di non avere voce in capitolo in merito alle decisioni prese dall'Ue; percentuale che aumenta drammaticamente (fino a 4/5) nei paesi dell'Est e del Sud Europa.
L'impatto degenerativo dell'«Europa del mercato» in termini di benessere economico e dell'«Europeizzazione dall'alto» in termini di consenso politico è oggetto di dibattitto tra i movimenti sin dai tempi del primo Forum Social Europeo, tenutosi a Firenze nel 2002. La speranza di riuscire a contribuire alla creazione di un'Europa più giusta e inclusiva è però andata in frantumi nel corso di quel decennio, in cui la crisi finanziaria ha dimostrato sia il radicamento delle idee neoliberiste all'interno delle istituzioni Ue che la l'incapacità di queste ultime di tenere fede alle loro promesse. La crisi finanziaria globale ha infatti accentuato gli effetti divergenti della moneta unica in termini di disuguaglianze territoriali. L'assenza di investimenti finalizzati al miglioramento delle loro infrastrutture socioeconomiche ha reso le periferie dell'Ue non solo più vulnerabili alla crisi, ma anche più dipendenti. Le politiche monetarie (del tutto insufficienti) messe in atto in seguito alla crisi finanziaria hanno dimostrato l'influenza dell'ideologia neoliberista sull'Ue in generale, e sulla Bce in particolare. L'illusione della federazione, e del riconoscimento dei diritti degli stati più deboli, è svanita di fronte alle pesanti conditionalities imposte ai paesi più colpiti dalla crisi economica, che sono stati costretti a sacrificare quel poco di sovranità nazionale rimasta in cambio di aiuti materiali. Questi mutamenti nelle istituzioni dell'Ue si riflettono nell'atteggiamento assunto dai movimenti progressisti nei loro confronti.
Laddove all'inizio del millennio il lavoro dei movimenti per la giustizia globale si era concentrato sull'elaborazione di una visione critica dell'Europa, oggi le proteste anti- austerity sembrano improntate alla difesa di ciò che è rimasto delle sovranità nazionali, perlomeno nelle economie più deboli. L'europeismo critico esiste ancora, ma la fiducia nella riformabilità delle istituzioni europee, e nella possibilità di influenzare le politiche europee per mezzo delle attività di lobbying e di consultazione, è stata messa a dura prova. Alla base di molte delle proteste anti- austerity, infatti, soggiace l'idea che la democrazia rappresentativa sia stata irrimediabilmente corrotta dall'intreccio tra potere economico e politico. Il fatto che le istituzioni sono considerate non-rappresentative si riflette negli studi che indicano che coloro che partecipano alle proteste hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni democratiche, a tutti i livelli territoriali.
Se compariamo, per esempio, le risposte date al questionario sottoposto ai partecipanti del Forum Sociale Europeo del 2002 con quelle date allo stesso questionario dieci anni dopo, in occasione del forum Firenze 10+10, notiamo un calo drammatico nella percentuale di coloro che dichiarano di avere fiducia nei parlamenti, nei partiti e nei sindacati nazionale, ma anche nell'Ue e nelle Nazioni Unite. Allo stesso tempo, notiamo un aumento nella percentuale di persone che ritengono che, per raggiungere gli obiettivi del movimento, sia necessario aumentare i poteri dei governi nazionali. Questa sembra essere una reazione diffusa all'usurpamento di sovranità nazionale prodotto dalla crisi, in particolare nei paesi della periferia europea. Le modalità di mobilitazione e di azione dei movimenti anti- austerity riflettono questo cambiamento. I contro-summit e i Forum sociali europei sono stati rimpiazzati dalle occupazioni delle piazze pubbliche, in cui gli occupanti puntano a ricostruire i processi democratici - dal basso e a livello locale. Le acampadas degli indignados e dei movimenti Occupy possono essere considerate una forma di politica prefigurativa, orientata a incarnare i processi democratici in prima persona piuttosto che a relazionarsi con un sistema considerato ormai incapace di implementare la democrazia. Se compariamo i forum sociali con le più recenti proteste contro le politiche di austerità, possiamo cogliere delle similitudini nella critica della visione neoliberista della democrazia rappresentativa, ma anche delle differenze. In particolare, le tensioni nel rapporto con i partiti politici (e le istituzioni democratiche in generale), che erano già presenti nei forum, nelle ondate successive di protesta si sono fortemente radicalizzate, caratterizzandosi per un rifiuto diffuso di stringere alleanze con i partiti e persino con le associazioni politiche, considerati strumenti (corrotti) di dominio. Parallelamente, se è vero che gli appelli per un'altra Europa sono ancora udibili, le crescenti disuguaglianze territoriali, e l'asimmetria degli impatti della crisi globale, rendono più difficile il coordinamento a livello europeo. I tentativi di stringere alleanze di movimento a livello transnazionale rimangono sporadici e soffrono della mancanza di eventi catalizzatori, quali summit anti-Ue e Forum sociali europei.
Il nuovo contesto politico ci costringe a ripensare molte delle strategie per lo sviluppo democratico delle istituzioni dell'Ue e pone l'accento sulla necessità di elaborare una strategia di lotta multilivello se vogliamo incidere su un piano istituzionale che si è dimostrato sempre più impermeabile alle forme di pressione sperimentate in passato.
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Il manifesto, 18 maggio 2014 (m.p.r.)
Nel giorno in cui Beppe Grillo ha conquistato i palcoscenici mediatici tanto odiati con qualche battuta a effetto su Hitler, Stalin, Schulz e Angela Merkel, mentre Silvio Berlusconi gli contendeva invano la «marcia su Roma», la piazza romana dei movimenti è apparsa, al confronto, un’oasi di tranquillità e buonsenso. Non sfonderà per questo gli schermi e le prime pagine dei giornali, eppure è stata l’unica, nel linguaggio sopra le righe della campagna elettorale, ad avanzare richieste precise e porre le domande giuste ai palazzi sempre più chiusi e autocentrati della politica: che ne sarà del referendum sull’acqua pubblica e i beni comuni con la nuova ondata di privatizzazioni alle porte? Cosa accadrà alle migliaia di persone costrette giocoforza a occupare una casa una volta che sarà approvato l’articolo 5 della legge Lupi che proibisce loro di allacciare l’acqua e l’energia elettrica? Su cosa punterà le sue risorse il governo Renzi, sulle trivellazioni petrolifere o sulle energie rinnovabili? È possibile una politica dei rifiuti che non contempli sempre e solo inceneritori?
Questioni concrete, ambientali e sociali, che incidono direttamente sulle vite delle persone e coinvolgono territori già devastati da decenni di incuria e speculazioni, ma fuori da un’agenda politica che ormai da anni non tiene conto degli umori delle piazze e delle richieste dei movimenti, persino le più ragionevoli. Anche la manifestazione di ieri rischia di rimanere inascoltata. Nella migliore delle ipotesi, sarà consegnata al folklore mediatico dei cortei pacifici e colorati, lo specchio rovesciato di quello dello scorso 12 aprile, che ha conquistato gli onori delle cronache per gli scontri nelle vie della Dolce vita e una ragazza calpestata come uno zainetto senza per questo che, ancora una volta, si discutessero le questioni che poneva: ancora una volta la casa, e poi le grandi opere e lo sfruttamento del lavoro, questione centrale oggi in Italia e in Europa.
C’è poi una questione più generale: l’austerità che sta strangolando il sud del continente. Su questo le forze politiche che si oppongono ad essa hanno l’obbligo di dimostrare che fanno sul serio. È questo il loro compito principale ed è su questo terreno che si gioca il loro consenso.
«Bell'ambiente. La molteplicità dell’opposizione sociale: lotte ambientali, teatri occupati, studenti, centri sociali, Cobas, Usb e la Fiom, il diritto all’abitare. ma è necessario un salto di qualità nella costruzione di una rete tra i movimenti che si battono per i beni comuni utile a rafforzare anche le singole vertenze sui territori».
Il manifesto, 18 maggio 2014
Ogni giorno ti svegli e sai che troverai degli ostacoli, che dovrai oltrepassare i limiti e dovrai esporti. Sono le scritte che appaiono in alcuni video diffusi in rete dal teatro Valle occupato per lanciare la manifestazione per i beni comuni e contro le privatizzazioni e le grandi opere che ieri ha visto sfilare decine di migliaia di persone (50 mila per gli organizzatori) da piazza Repubblica a piazza Navona a Roma.
Nei video si vede una nuotatrice, una pallavolista, un tennista e un corridore impegnati a battersi contro gli ostacoli al diritto alla città e al trasporto, all’accesso ai beni comuni e alla cultura, agli spazi pubblici in dismissione e da rigenerare per esigenze abitative. «Il movimento fa bene» è il titolo di una campagna che ieri ha spinto molte persone a sfilare in tenuta da podista.
La nuotatrice invita ad immergersi nella città tuffandosi in una fontana. Con questo vuole invitare a mantenere il diritto al dissenso e a non temere il ministro degli interni Alfano vuole chiudere il centro di Roma alle manifestazioni per «evitare saccheggi» che non ci sono mai stati. In un altro video la pallavolista schiaccia la palla contro uno stendardo dell’Expo 2015 a Milano e segna un punto contro il sistema dei grandi eventi, e delle grandi opere che devastano i territori, assorbono milioni di euro in un modello di sviluppo che non redistribuisce ricchezza e amplifica il sistema della corruzione. Il tennista lancia la sua palla contro il muro invalicabile di una caserma, molte delle quali verranno dismesse, e chiede che siano usate come «patrimonio comune», affidate cioè ai comitati e ai movimenti che si stanno auto-organizzando in tutto il paese per gestire edifici, casali, territori, isole come Poveglia a Venezia e la sua laguna contro il passaggio di quei mostri galleggianti che sono le navi crociere.
Dalla Sicilia con il movimento No Muos alla Valle di Susa con i No Tav, dalle reti campane di «Stop Biocidio» alla campagna contro il partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip ) dalla lista «L’Altra Europa con Tsipras» al Forum dell’Acqua pubblica passando per la Fiom, l’Unione Sindacale di Base, i Cobas e gli studenti di Link e dell’Uds, ieri a Roma è sfilato un corteo gioioso e colorato che ha mostrato la complessa articolazione delle questioni sociali, ambientali, abitative o economiche attorno alle quali si è riorganizzata l’opposizione sociale nel nostro paese. Dal palco improvvisato su un camion per i comizi finali gli organizzatori della manifestazione hanno più volte invitato ad un «salto di qualità nella costruzione di una rete tra i movimenti che si battono per i beni comuni utile a rafforzare anche le singole vertenze sui territori».
Una richiesta che nasce dall’esigenza di non restare isolati in un contesto dove il dibattito pubblico è ancora saldamente ispirato dai parametri della cosiddetta «austerità espansiva»: il pareggio di bilancio; i tagli alla spesa pubblica per finanziare uno stentato rilancio dei consumi; il taglio del debito pubblico anche attraverso dismissioni e privatizzazioni.
In queste condizioni, come ha ricordato Luca Fagiano del coordinamento romano di lotta della Casa, lo spazio per il dissenso, come per un modello alternativo di società o sviluppo, viene cancellato insieme ad ogni possibilità di mediazione. Sgomberi violenti, divieti a manifestare, l’attacco vendicativo alle occupazioni delle case rappresentato dall’articolo 5 del «piano Lupi» sull’emergenza abitativa sul quale il governo chiederà la fiducia alla Camera lunedì prossimo, l’espropriazione dei beni comuni e culturali non sembrano offrire spazio per il possibile. Contro questa tendenza ieri è stata riconfermata l’esigenza di auto-organizzazione su base locale e nazionale tanto più viva quanto più avanza l’impoverimento di ampie fasce della popolazione, sottoposte a perdita del lavoro, del reddito, della possibilità di accesso ai servizi, ai danni ambientali.
«È stata una grande manifestazione molto partecipata — ha detto Paolo Carsetti del movimento per l’acqua — decine di realtà sono scese in piazza per ribadire il rifiuto alle privatizzazioni, nonostante i divieti della prefettura ad alcuni passaggi simbolici come quello in via Goito sotto la Cassa Depositi e Prestiti o in via XX settembre al ministero dell’Economia su diktat del ministro Alfano». Continua ad essere molto sentita la polemica sui numeri identificative delle forze dell’ordine in servizio. Si è parlato in questi giorni di fantomatiche micro-camere indossate dagli agenti in piazza, oppure dai loro caposquadra, per identificare presunti manifestanti violenti. Dopo un’accurata ricerca, svolta da parecchi manifestanti, nessuno le ha trovate addosso agli agenti schierati in gran numero per bloccare tutti gli accessi a Piazza Venezia, come in tutto il centro storico di Roma dove sono spuntate decine di camionette, anche con gli idranti, fino a piazza Navona.
In compenso sono state notate le 350 pettorine indossate da altrettanti manifestanti. Sono state diffuse dal teatro Valle e dall’Angelo Mai in corteo nello spezzone «united commoners of europe rise up!» composto anche da studenti e precari. Ciascuna aveva stampato il nome di un musicista, di un filosofo, di un artista o un attore con il quale essere identificati. Da Marylin Monroe a Christo, da David Bowie fino a Nino Manfredi, un popolo di personaggi è sfilato ieri a Roma chiedendo di essere identificato per il valore singolare che ciascuno possiede.
Un minuto di silenzio è stato osservato in piazza Navona in memoria di Nicola Darcante, un operaio dell’Ilva di Taranto di 38 anni, padre di due bambini, morto per un tumore alla gola. Insieme a lui sono stati ricordati i 100 minatori morti in Turchia e le lotte contro il governo Erdogan e l’attivista zapatista Galeano ucciso dall’esercito messicano pochi giorni fa. Il movimento della casa tornerà a Montecitorio alle 16 di lunedì ancora una volta per protestare contro l’approvazione del «piano Lupi»
Generosi e intelligenti sforzi per rimediare, almeno in parte, all'inaudito oscuramento mediatico subìto dalla lista "L'altra Europa con Tsipras.
Il Fatto quotidiano online, 18 maggio 2014
Gli argomenti, giocati con ironia e con un rovesciamento finale, sono la disoccupazione, il disastro scolastico, il crescente ricorso alle mense dei poveri e l’erosione dell’assistenza sanitaria per i più deboli. Non sono argomenti scelti a caso, perché figurano tra i maggiori parametri utilizzati dagli specialisti per stabilire quando ci si trova di fronte a una crisi umanitaria. La novità inaudita dell’Europa delle tecnocrazie – dapprima in Grecia, e sempre più anche in Italia – è che lo scenario di bisogno e abbandono che si era soliti collocare nel cosiddetto Terzo mondo, sempre più ci riguarda e ci interroga. E non in conseguenza di sciagure naturali, epidemie o guerre civili, ma di politiche economiche scientemente decise e imposte da un potere sovranazionale cui i governi democratici si assoggettano.
Tra i parametri con cui – secondo i dati elaborati due anni fa da Amnesty International – si stabilisce che un paese fronteggia una crisi umanitaria, vi è la crescita percentuale del numero di persone “autoctone” che chiedono pacchi viveri e necessitano di rivolgersi alle mense pubbliche per mangiare; la crescita percentuale delle persone che si rivolgono ai presidi sanitari delle Ong per gli immigrati (è il caso delle strutture di Emergency, soprattutto nel sud d’Italia, alle quali chiedono assistenza sempre più italiani che non riescono a pagare il ticket delle prestazioni mediche e dei medicinali); la crescita percentuale della disoccupazione giovanile e delle persone che perdono l’impiego e non riescono più ad accedere a un’occupazione stabile; il decadimento crescente dell’istruzione pubblica, in qualità e strutture.
I primi tre video sono su YouTube, con nomi provvisori: quelli definitivi saranno decisi dal web. Il quarto video è in fase di lavorazione e uscirà a breve.
Kermesse di musica con Nicola Piovani, attori e ’sorprese’ invece nella serata di Bologna, condotta da Moni Ovadia — che è anche candidato — e la giovane autrice satirica Francesca Fornario (suoi due spassosi spot per la campagna elettorale della lista). A quell’ora saranno noti i risultati del primo turno delle amministrative greche, che si svolgono domenica 18. Un risultato cruciale per la corsa verso il voto anticipato ad Atene, ma anche un (auspicabile) trampolino per le europee del 25 maggio. Per l’occasione Bologna cambia toponomastica, almeno nelle indicazioni degli organizzatori: «Largo al reddito di cittadinanza» e «Largo all’Europa sociale», «Via l’Austerity», «Via il Fiscal Compact», così saranno ribattezzate altrettante vie intorno a piazza Maggiore, che ovviamente sarà «Piazza dell’Altra Europa».
Intanto ieri a Roma è stato presentato l’appello di molti autori del mondo della cultura a sostegno della lista per Tsipras. Un’iniziativa analoga la scorsa settimana era stata presentata in Grecia. «Siamo convinti che tra le disuguaglianze sociali c’è anche l’accesso ai saperi e alla conoscenza», scrivono a Tsipras, «È anche in questo senso che alcune forze intellettuali e politiche si battono per un’altra Europa», «un’Europa legata alle necessità e allo sviluppo dei popoli, che riconosca i diritti dei lavoratori della cultura, che difenda e sostenga i luoghi della produzione e diffusione culturale, che consideri la cultura, la conoscenza e la ricerca come bene pubblico e diritto inalienabile». «Serve che la sinistra metta questi temi al centro della sua interpretazione della realtà», che lavori «per un nuovo umanesimo che si opponga ai processo distruttivi che rischiamo di percorrere» dopo gli anni di Berlusconi che «hanno costruito un senso comune cui nemmeno una parte rilevante della sinistra (o meglio del centro-sinistra) si è sottratta».
Promuove l’appello il regista Citto Maselli. Tra gli altri aderiscono il pittore Enzo Apicella, il musicista Piero Arcangeli, il professor Mino Argentieri, l’urbanista Paolo Berdini, lo storico Piero Bevilacqua, il costituzionalista Gianni Ferrara, l’attrice e autrice Sabina Guzzanti, la storica Francesca Koch, lo scrittore Felice Laudadio. E anche Lucio Manisco, Ivano Marescotti, Paolo Pietrangeli, Antonio Veneziano, Edoardo Salzano e lo scrittore Ermanno Rea (che è anche candidato).
Ma tra i moltissimi firmatari spicca il nome di Andrea Camilleri, ’padre’ del popolare Commissario Montalbano. Lo scrittore era stato fra i primi a promuovere la lista per Tsipras, ma poi non aveva accettato - con qualche polemica - di far parte del comitato dei garanti. Ora torna della partita. A tutti loro Tsipras si rivolgerà lunedì sera dal palco di Bologna
Daniela Preziosi ntervista Barbara Spinelli: «giusto imporre il voto su Genovese, rischiavamo di essere complici dei rinvii del Pd. Su molti temi siamo vicini al M5S. Ma senza alleati nel parlamento europeo loro si condannano al limbo della testimonianza». «La provocazione del bikini? Si è trasformata in sberleffo che ha oscurato il progetto».
Il manifesto, 16 maggio 2014
«I fermi di ieri a Bruxelles sono una cosa grave. Non c’era stata alcun tipo di violenza da parte dei manifestanti. Mi torna in mente il rapporto della JP Morgan del 2013, dove si sostiene che le Costituzioni più influenzate dall’antifascismo vanno smantellate perché difendono diritti troppo avanzati, compreso il diritto di protesta. La polizia di Bruxelles si è già adeguata?». La prima telefonata con Barbara Spinelli, capolista di L’Altra Europa con Tsipras, è al mattino mentre da Bruxelles arrivano le notizie di 249 fermati fra i manifestanti contro il summit delle Confindustrie. Fra loro un altro candidato, Luca Casarini. Proviamo a scherzare: era per cose come queste che qualcuno dei promotori della lista non voleva Casarini? La risposta è seria: «Stavano solo manifestando. Comunque le condanne per disobbedienza civile non sono un motivo di escludere qualcuno dalle nostre liste». Nel pomeriggio, per fortuna, saranno tutti rilasciati.
Il candidato del Pse Martin Schulz dichiara a Repubblica: «Se vince la destra ci saranno altri cinque anni di austerità». Se vince il Pse l’austerità sarà cancellata?
Questa dichiarazione è una vera beffa agli elettori. Gli anni di austerità li abbiamo avuti grazie alle intese fra socialisti e popolari. In Germania l’accordo sulla Grande Coalizione è stato negoziato fra Angela Merkel e Schulz, per la parte europea. Il risultato è stato che la Spd ha rinunciato a ogni critica dell’austerità, all’idea del piano Marshall che pure aveva difeso in campagna elettorale e ha ’dimenticato’ gli eurobond. Insomma sull’Europa ha ceduto su tutto. Le parole di Schulz non corrispondono a quello che i socialdemocratici hanno fatto negli anni di crisi.
Schulz non esclude larghe intese future con il Ppe. Dice: «Prima del voto non è il tempo di parlare di accordi».
Questo non è leale verso l’elettorato. In realtà si prepara alle larghe intese senza dirlo. Schulz sa bene che se il Pse diventa il primo gruppo e se lui vuol fare il presidente della Commissione avrà bisogno dell’appoggio del Ppe.
Invece voi cosa farete? Farete pesare i vostri voti, eventualmente, nell’elezione di Schulz? E innanzitutto: quando dico ‘voi’ dico la ‘Sinistra europea’?
Non è detto che il futuro gruppo si identifichi tutto con il Gue. Si è impegnato comunque a «stare con Tsipras», cioè a non entrare in altri gruppi. In ogni caso peserà molto perché, quale che sia il risultato italiano, è una formazione che aumenterà notevolmente. In Francia, Spagna, Germania la sinistra non socialista è in aumento.
Tsipras dice: «Saremo la terza forza».
È possibile. Spero che la lista per Tsipras abbia la forza e l’indipendenza di giudizio per aprire un dialogo con i 5 stelle e decidere su punti specifici politiche concordate. Ci sono molte cose in comune. Per esempio l’idea della conferenza che riduca e comunitarizzi il debito è una nostra idea che il M5S ha fatto propria. Ora Tsipras ha approvato il ‘New Deal 4 Europe’ dei federalisti: è un’iniziativa cittadina che sta raccogliendo firme in tutta l’Unione per un grande piano comune di investimento. Sarebbe interessante sapere cosa nel pensa il M5S.
Per la verità Grillo sembra più interessato alla campagna forsennata contro il Pd.
Ci sono molte posizioni di Grillo completamente condivisibili, e fra l’altro simili se non identiche alle nostre. M5S potrebbe svolgere un ruolo molto importante. Mi chiedo però cosa faranno i suoi eletti, nel parlamento europeo. Se non si alleano con altri dovranno entrare nel gruppo dei non iscritti, una sorta di gruppo misto. Saranno condannati ad un ruolo di testimonianza. A un limbo.
In Italia però siete in competizione con loro. L’ultimo scontro è di ieri, alla camera, fra Sel che fa ostruzionismo contro il decreto Poletti e il M5S che ci ripensa per anticipare il voto sull’arresto di Genovese.
Il decreto Poletti sarebbe passato comunque, l’ostruzionismo era ormai simbolico. Condivido la linea del M5S: il voto su Genovese era l’emergenza. È stato giusto mettere il Pd di fronte alle sue responsabilità e costringerlo a votare sull’arresto. Il reato di cui è accusato Genovese è gravissimo. Si rischiava di essere complici di una strategia del rinvio, accarezzata nel Pd.
Renzi ha tagliato il nodo imponendo il voto subito.
Ma è stato possibile solo grazie alle pressioni di M5S.
Torno al voto. Tsipras è ancora poco conosciuto.
Cerchiamo in tutti i modi di spiegare perché la Grecia è un caso paradigmatico, e che Tsipras sta inventando un modo di fare sinistra totalmente nuovo. Ma è una strada in salita
Le tv non vi aiutano.
Spesso ci boicottano addirittura. Rispetto a noi hanno più spazio sia Fratelli d’Italia sia la Lega. Un po’ perché nessuno vuole più avere a che fare con le sinistre radicali. Ma soprattutto perché il nostro potenziale elettorato porta via voti al Pd.
Per questo avete preso anche iniziative provocatorie, come quella del bikini?
Non è una strategia della lista. È una mossa provocatoria nata all’interno del gruppo comunicazione, dannosa per il nostro progetto e per molti candidati: per giorni lo sberleffo ha oscurato il programma. Non so dirle perché sia nata; so solo che si tende a trasformarla in un’offensiva ideologica contro il femminismo, e anche contro la mia candidatura. Per quanto mi riguarda, considero la diatriba del tutto assurda: non ho mai fatto parte né del movimento «Se non ora quando», né di altri movimenti femministi.
Renzi dice che le europee non debbono essere un referendum sul suo governo.
Renzi ha una singolare politica sull’Europa. Attribuisce tutti i suoi mali alla ‘burocrazia’ di Bruxelles. Ma è una vecchia strategia, risale ai tempi della Thatcher: è un alibi dietro il quale si nascondono i governi, che invece sono i veri esecutori delle politiche europee. Non esiste la Federazione europea, purtroppo. Se esistesse, l’Europa sarebbe più solidale. Ma la responsabilità delle politiche è dei governi. Quindi è inevitabile che nel voto europeo si parli dei governi.
Lei fermerebbe l’Expo di Milano, come dice Grillo, o la farebbe andare avanti per dimostrare di avere uno stato più forte dei ladroni, come dice Renzi?
È difficile fermare le macchine ora. Iniziative di questo genere in una crisi così profonda è meglio non farle. In Italia poi tutte le grandi opere sono infiltrate dalle mafie: non siamo di fronte a una nuova Tangentopoli, ma alla prosecuzione di quella dei primi anni 90.
Lo scandalo favorirà Grillo nelle urne?
Direi di sì. Potrebbe anche favorire noi, che diciamo cose analoghe su corruzione e mafia.
C’è chi sospetta del tempismo dei pm.
In Italia la corruzione c’è da lungo tempo. Ogni tanto ci sono degli arresti. Siccome siamo una democrazia con continue elezioni dobbiamo dire che ogni volta il tempismo è sbagliato? Allora decidiamo che la magistratura non faccia più niente. Un modo per evitare gli arresti in campagna elettorale c’è: la politica e le classi dirigenti evitino la corruzione prima che intervenga la magistratura. In democrazia non c’è un momento buono per un arresto: c’è nei regimi autoritari dove la giustizia è al servizio della politica.
La verde Ska Keller la migliore, il democristiano Jean-Claude Juncker il peggiore. Il primo, storico, dibattito in diretta televisiva fra candidati alla presidenza della Commissione Ue finisce con una chiara vincitrice – la giovane e brillante eurodeputata tedesca – e un chiaro sconfitto – il veterano ex premier del Lussemburgo. Buona la performance di Alexis Tsipras della Sinistra europea, al di sotto delle attese l’esperto socialdemocratico Martin Schulz e il liberale Guy Verhofstadt: troppo compassato il primo, eccessivamente esagitato il secondo.
Nell’aula dell’Europarlamento trasformata in studio televisivo è andato in scena un evento a suo modo epocale: mai prima d’ora una discussione politica aveva riguardato contemporaneamente tutti i cittadini dei 28 Paesi dell’Ue. Conduzione affidata all’italiana Monica Maggioni (direttrice di Rainews), format tipico di questo genere di dibattiti: domanda uguale per tutti e ciclo di risposte brevi, con tre jolly da giocarsi per eventuali repliche. Ormai ci siamo abituati, ma l’impressione è che gli interventi concessi ai candidati siano stati troppo brevi: 1 minuto a risposta e 30 secondi per possibili repliche appaiono francamente poco. Difficilmente si riesce ad articolare qualcosa che vada oltre uno slogan o un’allusione: e manca persino il tempo per polemizzare davvero.
Nonostante la rigidità del formato, sono comunque emerse le differenze. Il democristiano Juncker (Ppe, in Italia sono Forza Italia e il Nuovo centrodestra) ha difeso l’austerità contro la quale si sono invece scagliati, con pari veemenza, sia la verde Keller che Tsipras. Schulz e Verhofstadt hanno assunto posizioni intermedie: la disciplina di bilancio è necessaria, ma l’eccesso di rigore può fare danni. Punti di vista diversi sulla crisi ucraina, con Juncker e Tsipras agli antipodi: il primo a insistere sull’inasprimento delle sanzioni contro il presidente russo Vladimir Putin e il secondo a denunciare lo scandalo della presenza di neonazisti nel nuovo governo di Kiev. Unanimità fra i candidati in un solo caso: tutti pensano che il prossimo capo della Commissione debba essere uno di loro, e non qualcuno che venga «concepito» nelle segrete stanze del Consiglio dei capi di stato e governo (come sembrerebbe preferire invece la cancelliera tedesca Angela Merkel).
All’ecologista Keller va il merito di avere citato il negoziato sul Ttip, il trattato di libero scambio Ue-Usa che mette a repentaglio i diritti di lavoratori e consumatori, e le proteste contro di esso, comprese quelle di ieri a Bruxelles. Tsipras ha certamente colto nel segno nel citare, nel corso del dibattito, sia lo scandalo del tentativo di contro-riforma dell’aborto in Spagna sia, a proposito del tema corruzione, gli intrecci tra mafia e politica in Italia. Il momento migliore di Verhofstadt è stato nel passaggio sulla vicenda di Edward Snowden, che per il leader liberale dimostra la necessità di difendere meglio la privacy dei cittadini europei, mentre a Schulz è mancato un colpo ad effetto. Il socialdemocratico, che molti vedono come presidente in pectore, è apparso troppo compassato, quasi si sentisse in dovere di assumere una posa «istituzionale». Keller e Tsipras decisamente i più sciolti.
Il dibattito visto sugli schermi di Rainews 24 risultava certamente appesantito della traduzione simultanea, che, peraltro, non sempre è apparsa impeccabile. E tuttavia, non c’era alternativa: per rendere l’appuntamento fruibile a un pubblico vasto non poteva essere trasmesso in lingua originale (possibilità riservata a chi lo vedeva in streaming). Pur con molti limiti (compresi personalizzazione e spettacolarizzazione), il primo presidential debate della storia della Ue va considerato un passo nella direzione giusta: quella della creazione di un’opinione pubblica europea che riesca a contrastare il predominio dei governi nazionali nella determinazione del destino politico dell’Unione europea.
«Regole giuridiche per gli appalti. La legge approvata nel 1994 che prese il nome dall’allora ministro Merloni era un provvedimento rigoroso e si trattava solo di sperimentarla e migliorarla. Si scelse la strada opposta. Fu subito accusata di rigidità e fu variata, emendata e stravolta: oggi siamo alla sua quarta stesura».
Il manifesto, 15 maggio 2014
Approvando nel 2001 la «legge obiettivo» che con il convinto sostegno del mondo delle maggiori imprese forniva semplificazioni per i grandi appalti. Ancora peggio fecero nel 2002 i decreti attuativi e fu possibile così sperimentare la macchina della Protezione civile di Guido Bertolaso. Tutti i grandi appalti venivano aggiudicati con un sistema palesemente discrezionale: lo scandalo che seguì aveva dunque radici salde nella mancanza di regole. Ma anche il settore degli appalti minori è rimasto indenne. Da anni i comuni italiani possono appaltare a trattativa semplificata — senza una vera gara di evidenza pubblica — lavori di importo fino a 500 mila euro. Nel 2011, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, Avpc, denunciava inascoltata che il 28% degli appalti pubblici per un valore di 28 miliardi veniva appaltato senza gara. I grandi lavori hanno beneficiato di un terreno legislativo speciale mentre quelli minori sono stati lasciati nella discrezionalità.
Come meravigliarsi dunque dell’esplodere dell’ennesimo scandalo? Le radici stanno nell’assenza di regole: la politica affaristica tiene sotto controllo le imprese e le ruberie sono all’ordine del giorno, come denunciano la Corte dei Conti e la Trasparency International. Ha dunque ragione Livio Pepino che sulle pagine del manifesto di ieri affermava che «non siamo di fronte ad una corruzione nel sistema ma ad una ben più grave corruzione del sistema». La vera tragedia che stiamo vivendo sta però nel differente atteggiamento del legislatore e dei mezzi di comunicazione. Se vent’anni fa ci fu un innegabile scatto di dignità istituzionale, oggi siamo dentro ad un inaudito attacco alla «burocrazia» rea di ogni colpa.
Due giorni fa a Milano a discutere del futuro di Expo 2015 c’era il ministro per le infrastrutture Maurizio Lupi. Non è soltanto la presenza del suo nome nelle intercettazioni della cricca dell’Expo a suscitare preoccupazione (come noto egli ha smentito ogni legame con i detenuti) quanto un gravissimo annuncio reso pubblico nell’audizione da lui tenuta l’11 marzo scorso presso la commissione ambiente della Camera dei Deputati. In quella sede ha infatti espresso il parere di sciogliere l’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici e riportare tutte le competenze presso il ministero da lui diretto.
L’attacco è stato motivato dalla necessità di «snellire e sburocratizzare». La realtà è diversa. L’Avcp – che pure ha un dirigente coinvolto nell’affare Expo e non è immune da critiche– aveva negli anni scorsi denunciato alla Magistratura inquirente molti appalti sospetti. I casi più clamorosi hanno riguardato l’appalto per la sede dell’Agenzia spaziale italiana (l’ex presidente Saggese è in carcere per tangenti) e l’ispezione compiuta sull’appalto della Pedemontana lombarda, opera tanto cara al sistema di potere smascherato dall’inchiesta Expo. Troppo per i nostri liberisti. Così, forse anche per la presenza presso il suo ministero in qualità di Capo di Gabinetto di Giacomo Aiello che era stato capo dell’ufficio legislativo della Protezione civile di Bertolaso, Lupi vuole sciogliere quell’organismo indipendente.
La drammatica crisi di legalità che viviamo deriva dalla mancanza di organismi terzi indipendenti dalla politica e autorevoli sotto il profilo morale, delle competenze e della libertà di movimento. E invece il governo persegue la demolizione del residuo di legalità e di senso dello Stato che ancora non è stata spazzata via dal ventennio berlusconiano. Oltre a Lupi, anche il primo ministro Renzi sembra ossessionato dalla volontà di demolire quanto resta delle funzioni pubbliche, dalle Soprintendenze fino alla Magistratura.
«Il PNR (Programma nazionale di riforme) propone un set di obiettivi da raggiungere riguardo temi rispetto ai quali i cittadini sono molto più sensibili: occupazione, povertà, istruzione terziaria e abbandoni scolastici, spesa in ricerca e sviluppo, emissioni, efficienza energetica ed energie rinnovabili. Si tratta della strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, in arte "Europa2020"».
Sbilanciamoci.info, 13 maggio 2014 (m.p.r.)
Il Programma di Stabilità offre il quadro macroeconomico e stima l’impatto degli interventi previsti dal governo rispetto ai vincoli del patto di stabilità e alla finanza pubblica in generale. Il PNR presenta le misure che il governo intende introdurre, risponde alle osservazioni presentate dalla Commissione nell’Annual Growth Survey (il documento di partenza del “Semestre europeo”) e lo stato di avanzamento verso gli obiettivi di qualità della crescita fissati dalla strategia Europa 2020.
Ma che cos’è Europa 2020? Nel 2010, alla scadenza della precedente Strategia di Lisbona per la crescita e il lavoro, i governi dell’Unione hanno definito delle linee d’azione perché gli obiettivi di medio periodo della politica economica non siano limitati alla sola crescita economica ma estesi ad alcuni elementi fondamentali che caratterizzino il modello europeo. Nell’idea della Commissione si vuole “accrescere la competitività dell’Unione mantenendo il modello di economia sociale di mercato e migliorando l’uso efficiente delle risorse”.
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Target IT
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Target UE
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Spesa in Ricerca e Sviluppo in % PIL
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1,53
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3
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Quota di 30-34enni con istruzione terziaria
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26%
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40%
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Abbandoni scolastici
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16%
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10%
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Tasso occupazione 20-64enni
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75%
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75%
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Riduzione della popolazione a rischio povertào esclusione rispetto al 2005
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(-2.2 milioni)
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-20 milioni
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Riduzione delle emissioni gas serra rispetto al 1990
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20%
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20%
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Quota di energia rinnovabile sul consumo finale interno lordo
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17%
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20%
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Efficienza energetica (riduzione dei consumi di energia)
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20%
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20%
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Con Europa2020 l’Europa si è dotata di un percorso di medio periodo da seguire in modo da realizzare, in qualche maniera, un’idea di Europa. Questo è stato fatto attraverso un accordo politico tra i 27 governi che si sono impegnati a rispettarne la realizzazione. Gli obiettivi politici di ampio respiro (crescita intelligente, inclusiva e sostenibile) sono stati declinati in indicatori misurabili, quindi monitorabili e con obiettivi numerici ben definiti, rendendo i governi “accountable” di fronte ai cittadini e alla Commissione. Il fatto che siano pochi rende chiare le prorità e facilmente comunicabile la strategia nel suo complesso. In più tali obiettivi sono inseriti all’interno del semestre europeo per cui ogni governo si impegna a fornirne il monitoraggio annuale e a dichiarare, proprio con il PNR, in che maniera si propone di raggiungere gli obiettivi. Tra i pro, è da notare anche il fatto che la strategia si inserisce in un dibattito che sta avendo molta risonanza su scala internazionale, sulla necessità di misurare il progresso delle società, e il benessere dei cittadini, attraverso misure che vadano “oltre il Pil”. In Italia la concretizzazione di questo movimento è l’iniziativa CNEL-Istat per la misurazione del BES, il Benessere Equo e Sostenibile (si veda www.misuredelbenessere.it). Europa2020 non è il migliore set di indicatori di misurazione del progresso di una società, ma è la formale presa di coscienza da parte delle istituzioni europee che la crescita del Pil da sola non basta e che deve necessariamente essere dotata di caratteristiche qualitative che la rendano più giusta e sostenibile.
I contra e le proposte di riforma.
Un’analisi critica della genesi ed attuazione della strategia può fare riferimento alle diverse fasi dell’intero processo:
1. la definizione degli obiettivi e degli indicatori proposti è criticabile tanto nel metodo, mettendo in discussione la legittimità politica di una decisione di medio periodo presa a porte chiuse dal Consiglio europeo, come nel merito: sono stati inclusi tutti gli elementi rilevanti? sono misurati nella maniera più opportuna?;
2. il tipo di procedure che sono attivate per il monitoraggio dei risultati e l’opportunità di avere processi di infrazione anche su obiettivi esterni al Patto di Stabilità;
3. infine sul processo di comunicazione da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali che estenda il controllo sui governi anche all’opinione pubblica.
Iniziamo dalla questione della scelta degli obiettivi. È chiaro che la definizione di accordi intergovernativi sia nelle competenze dell’Unione, ma quando si tratta di definire obiettivi strategici di lungo periodo sarebbe opportuno ascoltare fasce più ampie della cittadinanza, al di fuori dei ministeri nazionali e della tecnocrazia europea. La crisi della rappresentanza democratica degli eletti è messa in discussione da tutti i fronti, e in tutti i paesi, e ancor di più lo è quella della dirigenza ministeriale e della Commissione Europea. Non a caso la Commissione cerca in tutte le occasioni di aprire consultazioni pubbliche sulle principali direttive proprio per supplire il suo evidente deficit democratico. Europa2020 è frutto di un accordo a porte chiuse che elude da qualsiasi reale legittimità democratica. La sua riforma dovrà necessariamente fare in modo (e sembra che questo sarà fatto nei prossimi mesi) di tenere conto delle opinioni e delle priorità dettate dalla società civile e delle parti sociali europee.
Come detto il monitoraggio degli indicatori di Europa2020 avviene nell’ambito del cosiddetto Semestre Europeo assieme a diverse altre procedure di monitoraggio. Quello che abbiamo imparato a vedere è che rispetto agli obiettivi che l’Europa si è data, quelli macroeconomici hanno completamente eclissato quelli sociali, anche quando questi sono stati presentati come indicatori di qualità della crescita. Sebbene attraverso la crisi l’occupazione crollasse e la povertà e l’esclusione sociale esplodessero, questi segnali non hanno mai dato adito, da parte della Commissione, di alcuna richiesta d’azione per invertire tali tendenze che le politiche d’austerità, attente ossessivamente al 3% di deficit, hanno chiaramente aggravato.
Chiudiamo con la questione della diffusione.
Nel nostro Paese, e non solo, la strategia Europa2020 appare nota solo agli addetti ai lavori. In Italia il 9 aprile, dopo la pubblicazione del DEF, tutti i giornali vi hanno dedicato almeno una notizia, se non molte pagine; in alcuni casi si è citato il PNR; nessuno mi risulta abbia parlato di Europa 2020 e mostrato gli effetti delle misure presentate dal Governo sui nostri 8 indicatori presentati dal Governo. Una ricerca di news su Google, l’11 aprile, mostra una differenza nel numero di uscite tra Governo+DEF, e Governo+”Europa 2020” da 44900 a 138. È naturale e giusto il grande interesse della stampa per il DEF e le misure in esso contenute, ma nella attuale organizzazione dei documenti del semestre è inevitabile che Europa2020 scompaia.
La presidenza italiana.
La revisione di Europa2020 avverrà nel prossimo anno a partire da ora: entro fine 2014, proprio durante il semestre di presidenza italiano, avverrà la consultazione dei cittadini e delle parti sociali, nella prima metà del 2015 avverrà invece la trattativa istituzionale. Il Governo italiano può quindi giocare un ruolo cruciale nella promozione di un dibattito europeo che dovrebbe rilanciare il modello economico e sociale europeo. Nell’ambito delle attività della presidenza, ad ottobre si terrà a Bruxelles una nuova conferenza “Beyond GDP” (dopo quella molto influente del 2007) che speriamo possa riportare il nostro governo su posizioni avanzate rispetto al modello di sviluppo che l’Europa sceglierà. Le recenti dichiarazioni del primo ministro Renzi riguardo a “crescita e occupazione come valori costitutivi dell’Unione”, sebbene comprensibili per far fronte al quadro di solo rigore in cui ci troviamo, non tengono conto delle imprescindibili garanzie di equità e sostenibilità [1].
[1] Di fatto tornando indietro ai principi della Strategia di Lisbona.
«Non c’è solo la povertà economica a rendere problematico il presente e il futuro di molti bambini in Italia. Esiste anche una più subdola povertà educativa. Un piano di
Save the Children per migliorare l’offerta di servizi e la partecipazione dei minori alle attività culturali ed educative». Lavoce.info, 13 maggio 2014 (m.p.r)
Un indice per la povertà educativa. In Italia, i minori a rischio di povertà economica e di esclusione sono il 34 per cento di bambini e adolescenti, una delle percentuali più elevate dell’Unione europea. (1) Oltre a quella economica c’è però anche una povertà meno visibile, ma ancora più insidiosa, perché capace di lasciare segni profondi, a volte non rimediabili nel futuro educativo, lavorativo, emotivo e sociale dei giovani: la povertà educativa. Per povertà educativa si intende la privazione della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare liberamente capacità, talenti e aspirazioni nei primi stadi del processo vitale, periodo in cui il capitale umano è più malleabile e recettivo.
Tabella 1 – Indice di povertà educativa per Regione

La tabella ci mostra che tra le prime tre Regioni ci sono il Friuli, la Lombardia e l’Emilia Romagna, mentre tra le ultime la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia. Il ranking conferma che nelle Regioni dove vive il più alto numero di bambini in povertà economica ci sono anche i livelli più alti di povertà educativa sia in termini di offerta di servizi che di partecipazione dei minori alle attività culturali ed educative.
Piano d'azione concreto. Come migliorare la situazione? Sono molte le cose che si possono fare e il rapporto di Save the Children le indica seguendo gli elementi della storia della lampada di Aladino, ma costituiscono obiettivi realizzabili. Il primo passo è “strofina l’anello: promuovi la conoscenza e la ricerca”. Significa raccogliere dati e indicatori più dettagliati sulla situazione educativa dei bambini, completare l’anagrafe scolastica e valutare gli interventi. Il secondo passo è “segui la luce”: è necessario iniziare da azioni basilari, come rifinanziare il piano nidi varato nel 2007 ma interrotto nel 2010, soprattutto nelle aree dove quasi non ne esistono, formare in modo continuo i docenti, intervenire contro la dispersione scolastica, pianificare per l’edilizia scolastica. Le ultime due mosse sono “strofina la lampada” e “libera il genio nei quartieri difficili”.
Il manifesto, 15 maggio 2014
La sentenza definitiva su Dell’Utri mette il sigillo finale ad una vicenda la cui sostanza e contorni erano già chiari da molti anni. Ora però è un dato incontrovertibile che l’operazione Berlusconi-Dell’Utri-Previti del 1994 aveva come fine quello di assicurarsi un rapporto biunivoco e funzionale tra sfera criminale e sfera politica. Da questo punto di vista l’operazione può considerarsi perfettamente riuscita. L’operazione è collettiva, ma il suo centro è Berlusconi. Previti corrompe per Berlusconi e con i soldi di Berlusconi. Dell’Utri è tramite e garante dell’accordo Berlusconi mafia. Berlusconi propone Previti come guardasigilli. Solo la decisa opposizione di Scalfaro fece sì che il corruttore fosse dirottato alla difesa. Non è una domanda illegittima chiedersi se Giorgio Napolitano, visto il teorizzato cinismo dei mezzi in vista di un buon fine (stabilità, riforme…), visto che allora Berlusconi si trovava in condizioni di assai maggiore legittimità rispetto ad oggi, si sarebbe comportato come Luigi Scalfaro.
Nel momento attuale il beneficiario principe di quel tipo di «discesa in politica» si propone ancora come «padre della patria». A di là dell’evidente forzatura propagandistica c’è un aspetto di verità in quell’affermazione. Il progetto di un’Italia davvero nuova, innervata dalla tensione costante verso forme sempre più avanzate di democrazia e contemporaneamente consapevole fino in fondo di quel principio liberale di civilizzazione della politica che consiste nella teoria e nella pratica della limitazione del potere, ha, con tutta evidenza, ben altri padri. Sono i Calamandrei, i De Gasperi, i Togliatti la cui riflessione nasce dalla necessità di una rottura netta sia con antiche e negative costanti della storia italiana, sia con le radici culturale e sociali del fascismo. Poi vi è l’Italia giunta allo «ultimo gradino di degradazione e decomposizione dello spirito pubblico nazionale» (P. Bevilacqua, il manifesto, 9 maggio). Di questa patria i Berlusconi, i Dell’Utri, i Previti possono, a buon diritto, considerarsi, padri.
Il fatto inquietante è che i padri di questa seconda patria, seppure, in modi diversi, alla fine del loro ciclo, hanno molte possibilità di entrare nel pantheon materiale della patria che si sta attualmente disegnando. Per ragioni di lungo periodo e per precise scelte contingenti. Scelte che sono state fatte in tutta libertà, scelte tra alternative diverse non giustificate da nessun stato di necessità.
Le ragioni dei vent’anni berlusconiani affondano profondamente nelle sfera sociale e in quella politica italiane. Non c’è stata nessuna invasione degli Hyksos. Se ne esce solo con lo spirito che aveva animato i primi padri della patria: una rottura netta sostanziata da una vera analisi del fenomeno. Le scelte contingenti di cui s’è detto confermano, invece, la persistenza delle lunghe continuità.
In questo momento, ad esempio, leggo un lancio di agenzia. Renzi proclama: «Fermiamo i delinquenti». Leggo anche un titolo sull’home page di Repubblica. Intima il direttore: «Politica, affari, illegalità. Renzi deve fare pulizia». Lodevole proposito, lodevole invito. Intanto Renzi dovrà esercitare, però, tutta sua arte retorica nell’impossibile tentativo di spiegare una contraddizione non componibile. In «profonda sintonia» con il delinquente principe, con il grande corruttore, si accinge, infatti, a cambiare aspetti strutturali del panorama istituzionale italiano. Una continuità evidente per metodo ed obiettivi con alcune delle logiche principali che hanno caratterizzato il ciclo aperto agli inizi degli anni Ottanta e rivelatosi con chiarezza in età berlusconiana.
Sul piano del metodo politico il periodo in questione rappresenta il livello estremo, quello più basso e degradato, del trionfo della «ragion cinica». Nel 1983 un filosofo tedesco, Peter Sloterdijk, ha scritto un importante libro di Critica della ragion cinica. La data non è casuale; sebbene la ragion cinica sia una costante anche della ragion politica, nel secondo dopoguerra cominciò a diventare elemento dominante di mistificazione in coincidenza con l’apertura dell’attuale ciclo di accumulazione. Sloterdijk ha argomentato con rigore il meccanismo tramite cui il cinismo dei mezzi giustificato con la nobiltà dei fini altro non sia che un mascheramento ideologico. Il cinismo dei mezzi ha come esito inevitabile il cinismo dei fini.
Se questa è politica…. potremmo chiederci parafrasando Primo Levi. Certamente questa è la politica, risponde in coro il consesso dei nuovi padri della patria. Dobbiamo augurarci che siano molti coloro che in questa patria non si riconoscono. Ed operare con un’altra politica per un’altra patria.
Nella partita sul futuro dell'isola la palla passa alle Istituzioni. Commento e scheda dell'isola di Roberta de Rossi, cronaca dell'asta e presentazione dell'acquirente Luigi Brugnaro di Vera Mantegoli.
La Nuova Venezia, 14 maggio 2014 con postilla
ABBANDONATA DA 46 ANNI C'ERA IL GERIATRICO
Roberta De Rossi
Tutti da decenni la vogliono, sinora l'ha avuta solo il degrado. La storia "recente" di abbandono di Poveglia ha inizio nel 1968, quando chiuse l'allora ospedale geriatrico: per anni lo Stato trattò con il Touring Club - che voleva farne un villaggio - trovando infine un partner nel Club Mediteranée, che evidentemente avrebbe spostato l'equilibrio verso quel turismo di lusso che è stato il marchio di gran parte delle conversioni delle isole della laguna. Nel 1985 si arrivò ad un'asta demaniale: Poveglia fu messa in vendita per appena 100 milioni di lire. Ma non se ne fece nulla. Nel 1997 sembrava cosa fatta: un progetto di turismo giovanile del Cts con la sponsorizzazione nientemeno che di Bill Gates. Restava da rispolverare il problema della cessione dal Demanio al Comune: un buco nell'acqua anche quella volta.
Sette ettari all' altezza di Malamocco, di Poveglia si hanno notizie storiche fin dall'anno 1000: l' isola - oggi pericolante negli immobili - ha un campanile del Cinquecento, numerosi edifici, alcune costruzioni rurali, due ville neogotiche, un patrimonio naturalistico prezioso (anche se vittima anch'esso del degrado): è stata la più importante stazione marittima sanitaria dell' Alto Adriatico e in seguito un ospedale geriatrico, fino all'abbandono nel 1968.
(Roberta De Rossi)
«Siamo di fronte alla crisi sistemica di un modello che, per poter proseguire, è necessitato ad aggredire i diritti sociali e del lavoro e ad impossessarsi dei beni comuni. Il Forum dei movimenti per l’acqua torna in piazza contro le politiche europee fondate su fiscal compact, pareggio di bilancio, svendita del patrimonio pubblico».
Il manifesto, 13 maggio 2014 (m.p.r.)
Tre anni fa, nel giugno 2011, la maggioranza assoluta del popolo italiano votò un referendum per dire che l’acqua e i beni comuni, essenziali alla vita delle persone e garanzia di diritti universali, dovevano essere sottratti alle regole del mercato e riconsegnati alla gestione partecipativa delle comunità locali. Si è trattato di una cesura storica contro la favola, da decenni imperante, del pensiero unico del mercato e della promessa di ricchezza prodotta dal suo libero dispiegarsi.
Venne allora decretata la fine del consenso all’ideologia del “privato è bello”, mentre la miriade di conflittualità sociali aperte sulla difesa dei beni comuni e dei territori suggerì la possibilità e l’urgenza di un altro modello sociale. Fu allora che, complice la crisi, artificialmente costruita attorno alla trappola del debito pubblico — in realtà una crisi del sistema bancario, scaricata sugli Stati e fatta pagare ai cittadini — venne proposto, con rinnovata forza e ferocia, il paradigma del “privato” che, anche se non più bello, va comunque accettato come “obbligatorio e ineluttabile”. L’obiettivo, tuttora in campo, è la consegna della società, della vita delle persone e della natura ai grandi capitali accumulatisi in trent’anni di speculazioni finanziarie, che, per uscire dal circolo vizioso di bolle che preparano altre bolle, necessitano di investimenti su asset nuovi e altamente profittevoli, beni comuni in primis.
Ed è esattamente nella facilitazione del raggiungimento di questo obiettivo che si colloca la strategia delle élite politico-finanziarie al comando dell’Unione europea e l’azione compulsiva del governo Renzi: privatizzazione di tutti i beni pubblici, siano essi patrimonio o servizi, deregolamentazione totale delle condizioni di lavoro, messa a valorizzazione finanziaria del territorio e della natura, piena libertà di movimento per i capitali finanziari e messa a disposizione degli stessi della ricchezza sociale e delle risorse a disposizione. In attesa che, con il Partenariato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (Ttip), in piena e segreta negoziazione fra Ue e Usa, si crei la più grande area di libero scambio del pianeta realizzando l’utopia delle multinazionali. Che tutto questo necessiti di una drastica riduzione della democrazia, appare evidente da diversi fattori di stretta attualità: le proposte di riforme istituzionali e di una nuova legge elettorale, tese all’azzeramento di ogni ruolo dell’attività parlamentare e al rafforzamento autoritario dei poteri degli esecutivi; l’attacco definitivo alla funzione pubblica e sociale degli enti locali, con l’obbligo, sotto la scure del patto di stabilità, della messa sul mercato di patrimonio, servizi e territorio; la repressione messa in campo contro i movimenti sociali, dalle assurde accuse di terrorismo per gli attivisti No Tav alla sconsiderata gestione dell’ordine pubblico nelle piazze di Roma e Torino.
Siamo di fronte alla crisi sistemica di un modello che, per poter proseguire, è necessitato ad aggredire i diritti sociali e del lavoro e ad impossessarsi dei beni comuni. Le conseguenze di questa perseveranza nelle politiche di austerità sono più che evidenti: un drammatico impoverimento di ampie fasce della popolazione, sottoposte a perdita del lavoro, del reddito, della possibilità di accesso ai servizi, ai danni ambientali e ai conseguenti impatti sulla salute, con preoccupanti segnali di diffusione di disperazione individuale e sociale.
Ma a tutto questo è giunto il momento di dire basta. In questi anni, dentro le conflittualità aperte in questo paese, sono maturate esperienze di lotta molteplici e variegate, tutte accomunate da un comune sentire: non vi sarà alcuna uscita dalla crisi che non passi attraverso una mobilitazione sociale diffusa per la riappropriazione sociale dei beni comuni, della gestione dei territori, della ricchezza sociale prodotta, di una nuova democrazia partecipativa. Sono esperienze che, mentre producono importantissime resistenze sui temi dell’acqua, dei beni comuni e della difesa del territorio, dell’autodeterminazione alimentare, del diritto all’istruzione, alla salute e all’abitare, del contrasto alla precarietà della vita e alla mercificazione della società, prefigurano la possibilità di una radicale inversione di rotta e la costruzione di un altro modello sociale e di democrazia.
Grazie ad una proposta avanzata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, tutte queste esperienze si sono incontrate, si sono riconosciute e hanno giudicato maturo il tempo di prendere parola, per riaprire lo spazio pubblico della speranza e dell’alternativa, promuovendo tutte assieme una manifestazione nazionale a Roma per sabato 17 maggio. Un appuntamento collettivo — radicale nei contenuti, pacifico, colorato e partecipativo nelle pratiche — che chiama le donne e gli uomini di questo paese a dire, tutte e tutti assieme, come non vi sia alcuna uscita possibile dalla crisi, perseguendo le politiche di austerità dell’Unione europea e del governo Renzi, fatte di Fiscal Compact, patto di stabilità, pareggio di bilancio, svendita del patrimonio pubblico e dei territori, precarizzazione e privatizzazioni.
Una grande alleanza sociale dal basso, aperta e inclusiva, per riappropriarsi della possibilità di un futuro diverso, e per affermare come, tra la Borsa e la vita, abbiamo scelto la vita. Con l’allegria di chi vede l’orizzonte, con la determinazione di chi conosce l’insopportabilità del presente.
«Ci sentiamo dentro a un assurdo paradosso: dovremmo svenarci per poter comprare un bene demaniale, cioè statale, cioè nostro. I veneziani, quelli nati qui e quelli che lo sono diventati, adesso vogliono contare davvero». La
Repubblica, 13 maggio 2014 (m.p.r.)
Probabilmente quello di ieri pomeriggio è stato il corteo Notav più massiccio di sempre, per dare un’idea i partecipanti sono stati almeno il doppio rispetto la recente manifestazione per il primo maggio. Torino ha dimostrato il suo sostegno morale e politico nei confronti dei quattro militanti incarcerati, lo ha fatto senza paura, nonostante un clima di intimidazione molto pesante che ha accompagnato i dimostranti, non meno di trentamila persone, lungo tutto il percorso. Alle due del pomeriggio, orario di concentramento in piazza Adriano la città appare deserta, avvolta in un coltre di paura data dalla scenografia da action movie, che prevede uno spiegamento di forze dell’ordine buono per i check point dell’Iraq ma non per la civile manifestazione annunciata. Così, circondati da un accampamento militare ambulante, i Notav hanno iniziato il loro cammino verso Piazza Castello, il cuore di Torino. Serrande abbassate, silenzio spettrale, vecchine affacciate dai balconi con facce sconvolte dalla paura ma incuriosite, ogni incrocio presidiato da carabinieri e polizia in assetto anti sommossa. Scudi alzati, caschi e manganelli.
Alle tre del pomeriggio la giornata per i Notav appare complicata perché Torino, medaglio d’oro per la Resistenza, si mostra nella sua faccia più gelida e indifferente. Apparentemente il corteo non sembra nemmeno troppo corposo ma, cammin facendo, la folla si ingrossa fino a diventare un fiume. La sfilata dei Notav davanti alla Stazione di Porta Susa, blindatissima oltre ogni buon senso, dura un’ora. Apre come al solito la banda della Val Susa e alcuni rappresentanti delle istituzioni locali; poi un fiume umano compatto, che va dai giovanissimi agli anzianissimi di ogni estrazione sociale. Ci sono accenti che testimoniano provenienze varie: romani, milanesi, veneti, napoletani. Ma soprattutto si è aggiunta una massa inattesa di torinesi. Un popolo che ha come unica rivendicazione il diritto al dissenso senza che questo debba essere trasformato, come sta accadendo nel caso dei quattro giovani incarcerati, nell’accusa di «attentato con finalità terroristiche». E, per tutto il pomeriggio, ad essere in secondo piamo è proprio il Tav, il cantiere, lo spreco di denaro, la ‘ndrangheta, gli appalti. L’unico pensiero dei manifestanti è rivolto alla libertà di dissenso messa sotto attacco.
Il fiume umano supera la stazione di Porta Susa e l’annessa caserma volante esposta in bella evidenza, e imbocca via Cernaia, la via dello shopping torinese. Qui si manifesta la chiave di volta di tutto il pomeriggio, perché i torinesi terrorizzati dai mezzi di comunicazione sull’arrivo delle orde barbariche si rendono conto che pericolo non c’è, e quindi la vita riprende normalmente. Negozi aperti, serrande rialzate, signore e signori a spasso che né solidarizzano, né si terrorizzano. Semplicemente vedono una manifestazione sì massiccia, ma normale. E fatta sorprendentemente da persone normali, nemmeno un terrorista. Una manifestazione come tante altre che in questi anni hanno costellato la vita del movimento.
Lo striscione portato dai ragazzi dei centro sociali di Torino recita: «Siamo tutti colpevoli di resistere. Libertà per i Notav». Un concetto ripreso da Nicoletta Dosio, tra le fondatrici del movimento oltre venti anni fa che dice: «Siamo qua per rivendicare il diritto al dissenso, alle libertà democratiche sono messe in crisi da un atteggiamento persecutorio verso chi prova a discostarsi dal pensiero unico. Oggi la nostra paura va ben al di là della costruzione del Tav, perché ci rendiamo conto che qualsiasi forma di diversità di pensiero potrebbe ricevere lo stesso trattamento riservato ai quattro ragazzi accusati di terrorismo».
Presente anche il magistrato Livio Pepino: «Una grande manifestazione che dimostra come il movimento Notav sia pacifico, di fronte a cui la militarizzazione della città è stata eccessiva. Un movimento che chiede dalle istituzioni un’apertura al dialogo. La risposta, purtroppo, continua ad essere la militarizzazione, come dimostra quanto accaduto oggi. Oggi abbiamo avuto una grande lezione di civiltà e capacità di stare insieme, che continua dimostrare quanto la repressione dura e pura non serva a nulla».
Atteso dagli organizzatori del Salone del Libro lo scrittore Erri de Luca ha preferito prendere parte al corteo dei Notav. Le sue parole: «Preferisco partecipare alla protesta in mezzo ai cittadini che solidarizzano verso quattro ragazzi accusati di terrorismo perché avrebbero incendiato un compressore». L’arrivo nella centrale piazza Castello ha quantificato la portata della manifestazione perché tutta la spianata è stata riempita, ed una notevole parte del corteo non è nemmeno riuscita ad entrare. La Questura ha quantificato tutto questo in duemila persone, poco più di una riunione di condominio ben riuscita.
Inspiegabilmente gli unici momenti di tensione si sono avuti durante i comizi conclusivi, quando una colonna di poliziotti in assetto anti sommossa si è avvicinata velocemente alla piazza ricolma di persone passando da una via laterale e fermandosi solo pochi metri prima di raggiungere il cuore della folla, che stava ascoltando pacificamente gli interventi. Alcuni momenti di tensione per la manovra apparentemente inspiegabile, e poi un ordine di dietrofront ha spento gli animi bollenti.
Ora, dopo il successo di questa manifestazione popolare, la palla passa allo Stato. Continuare ad usare la mano inflessibile della repressione o costruire un percorso comune che metta da parte ogni forma di estremismo.
Il monumentale tribunale vuoto, assolutamente vuoto, circondato dai blindati e dalle grate di ferro ancorate col cemento al suolo come la zona rossa di Genova nel 2001 - quasi lì dentro ci fosse l’oggetto del desiderio della folla che gli sfilava accanto -, è il simbolo dell’ottusità del potere. Della sua incapacità di capire e pensare, come accade, appunto, a ogni potere, quando perde la ragione del proprio agire, e resta appeso al proprio apparato della forza senza giustizia (che si rivela, appunto, violenza).
Guardando quella folla multicolore, che sfilava serena, a volto scoperto, davanti ai cordoni cupi, catafratti, chiusi dietro i propri scudi, che sigillavano il percorso con un muro nero blu e verde scuro (c’erano tutti i corpi dello Stato, carabinieri, polizia, guardia di finanza) era difficile immaginare come sui primi fosse possibile distendere l’ombra fosca del terrorismo e sui secondi appiccicare l’etichetta della legalità. Ai primi la violenza, agli altri la giustizia. Piuttosto, verrebbe da dire, il contrario.
Il Movimento No Tav ieri, come altre volte, ha vinto. Con una semplice marcia ha strappato di mano ai propri nemici ogni elemento di credibilità per sostenere l’assurda teoria – ma sarebbe meglio chiamarlo teorema – che tenta di riconfigurare le azioni di protesta di quella popolazione sotto il segno cruento dell’accusa di terrorismo. E nello stesso tempo ha mostrato l’isolamento, l’irragionevolezza, la povertà di argomenti di chi, per sostenere una causa razionalmente insostenibile, è costretto a ridurla a questione di ordine pubblico, in cui, come è noto, chi ha il manganello dalla parte del manico decide.
Da oggi, almeno qui, sull’asse che va da Piazza Castello alla Sagra di San Michele, quell’operazione si è infranta contro un materiale resistente e intelligente che sarà davvero difficile ignorare.