loader
menu
© 2025 Eddyburg

Domenica si vota per il “Parlamento europeo”. Rigorosamente tra virgolette. Infatti non è un vero parlamento e non è davvero europeo. Vediamo. Nessuno Stato che esibisse come parlamento l’assemblea di Strasburgo, con i suoi limiti di autorità e potestà legislativa, senza un governo da votare, controllare e sfiduciare, potrebbe infatti passare il test preliminare di democrazia. Sicché, una volta insediato, i media di tutto il mondo si disinteressano quasi totalmente di ciò che accade in quell’esoterico emiciclo. Né si tratta di un’elezione europea in cui ognuno di noi sceglie i suoi deputati a prescindere dallo Stato di origine. Semmai, di 28 scrutini nazionali. Su liste composte in base a logiche domestiche nei diversi paesi dell’Ue, cui seguono molto virtuali campagne elettorali, centrate sui temi che interessano le opinioni pubbliche locali. Le quali lo considerano un voto nazionale di serie B, un test in vista del vero voto politico, quello interno.

Di più: non solo non esiste un progetto d’Europa condiviso, manca una discussione su quali debbano essere i fini dell’esercizio comunitario, oltre alla riproduzione di se stesso. Ilvo Diamanti ha misurato lunedì scorso, su queste colonne, il grado di disincanto verso l’Unione Europea e verso l’euro nei principali paesi europei. Incluso il nostro, il cui euroscetticismo tocca quote britanniche (solo il 27% degli elettori italiani ha fiducia nell’Ue e il 12% si considera avvantaggiato dall’euro, secondo un’indagine Demos-Pragma per la Fondazione Unipolis). Conclusione: se non ci fossero gli antieuropei a farlo, di Europa non si parlerebbe proprio.
È moda prendersela con i “populisti”. I quali se ne rallegrano e ne traggono profitto. Certo, va bene deprecare le sguaiatezze di grillini, leghisti o loro simili in altre contrade europee. Costoro vellicano il più odioso particolarismo, se non addirittura il razzismo che corre sotto la pelle di noi civilissimi europei. Ma conviene chiederci da dove derivi tale eurofobia primaria. E come opporvisi. Se vogliamo dare un senso a queste elezioni, anche se queste elezioni un senso non ce l’hanno, è d’obbligo azzardare una risposta.
Il problema dell’Europa sta nell’offerta non nella domanda. Non serve sdegnarsi per il senso di noia o financo di deprecazione di cui la sfera semantica di questo termine si è sovraccaricata. Nessuno pare in grado di determinare in modo univoco che cosa significhi Europa, quale spazio geografico designi, di quali istituzioni debba dotarsi, quali obiettivi debba perseguire per i suoi cittadini e quale funzione possa svolgere nel mondo. Ciascuno ne coltiva idee diverse, più spesso nessuna idea. Perché nessun leader europeo pensa che questo esercizio possa portargli vantaggio. Anzi, a mostrarsi pro-europei i voti si perdono — giurano tutti (in privato).
È davvero così? Lo è senz’altro, se si scambia per pro-europeo il vuoto europeismo retorico, con i suoi discorsi della domenica recitati al modo ottativo intorno agli Stati Uniti d’Europa e ad altri magnifici ideali mai definiti, senza una road map verificabile. Ma non si può solo moralizzare intorno al “dover essere”, magari non credendo nemmeno alle proprie parole. Come si può chiedere a un cittadino elettore di entusiasmarsi per qualcosa che non siamo nemmeno in grado di definire?
In che senso possiamo considerare democratico un insieme in cui le decisioni che contano vengono prese non dal Parlamento o dalla Commissione, ma nelle sedute segrete notturne dei capi di governo che si aprono al tramonto con l’aperitivo, si concludono con il cappuccino dell’alba, alle quali seguono 28 conferenze stampa parallele in cui ogni leader si rivolge al suo elettorato per raccontare la sua verità sugli esiti di un negoziato di cui nemmeno gli storici futuri potranno scandagliare i percorsi, visto che non ne esiste uno straccio di verbale? In questo modo non si costruisce una democrazia europea. In compenso, si delegittimano quelle nazionali — anche di qui il rifiorire dei secessionismi in Spagna, in Gran Bretagna, in Italia e altrove — e si attacca alla radice l’albero della politica.
A Bruxelles e dintorni resta in auge il precetto del grande europeista Jacques Delors, per cui «l’Europa avanza mascherata ». Forse, ai suoi tempi. Ma oggi il velo del pudore europeista contribuisce a farci arretrare verso inconfessabili — o invece agognati? — fortilizi feudali e corporativi, verso sempre disastrosi nazionalismi. Il “populismo” riflette la sfiducia dei leader europei nei loro elettori: perché dovrei fidarmi di chi non si fida di me?
Si può sperare in non troppo future elezioni per il Parlamento europeo, senza virgolette? Si deve. La deriva antipolitica non si ferma da sola. Per invertire la rotta, orientandola verso una democrazia europea, dunque verso uno Stato europeo a tutto tondo, prodotto da chi lo vuole e lo può erigere, occorre che ciò che resta delle democrazie e dei parlamenti nazionali produca un disegno possibile, non per aggirare il consenso, ma per coagularlo. Scopriremmo forse che, coinvolti in un progetto d’Europa, noi europei ne premieremmo gli artefici con il nostro voto. L’alternativa non è lo status quo, che non esiste. Galleggiare a lungo nel mare dell’antipolitica è illusione. E naufragarvi non sarebbe dolce.
«La norma fon­da­men­tale dell’Unione con­trad­dice radi­cal­mente valori, prin­cipi, fini. È un po’ nasco­sta, in verità. È scritta nel Trat­tato sul fun­zio­na­mento dell’Unione, agli arti­coli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati mem­bri e dell’Unione com­prende …l’adozione di una poli­tica eco­no­mica …. con­dotta con­for­me­mente al prin­ci­pio di un’economia di mer­cato aperta ed in libera con con­cor­renza»». Il manifesto, 22 maggio 2014 (m.p.r.)

Mar­tin Schulz ha sin­te­tiz­zato i mali dell’Unione euro­pea che vor­rebbe sra­di­care. Sono quelli della «poli­tica di auste­rity a senso unico per stati e cit­ta­dini». Quelli che avreb­bero tra­sfor­mato Ue da «un pro­getto di pace e di pro­spe­rità in un insieme di regole». Per cui l’Ue avrebbe per­duto «la capa­cità di rac­con­tarsi, di entu­sia­smare e di far guar­dare al futuro con otti­mi­smo». A que­sta Ue il pro­getto social­de­mo­cra­tico, di cui è por­ta­tore, oppone non una «unione buro­cra­tica ma un’unione poli­tica ed eco­no­mica». Quanto alla crisi accusa l’Europa «di essersi aggrap­pata alle regole» di essere stata «senza lea­der­ship … e di aver uti­liz­zato i Trat­tati come «giu­sti­fi­ca­zione dell’inazione» Trat­tati «ove non è scritto come uscire dalla crisi». (vedi arti­colo de la Repub­blica).

Non va esclusa affatto, e si può anche esser certi della sen­si­bi­lità sociale del dr. Shulz. Credo però che que­ste sue dichia­ra­zioni gene­rino non poche e non infon­date per­ples­sità. Comin­ciamo dalla prima. La poli­tica di auste­rity a senso unico non è stata certo inven­tata e poi impo­sta all’Ue da una potenza extra euro­pea. Con­se­gue imme­dia­ta­mente dai Trat­tati che non hanno affatto pro­vo­cato iner­zie. Hanno pro­dotto invece un coe­rente indi­rizzo di poli­tica eco­no­mica e finan­zia­ria che ne ha attuato prin­cipi, fini e norme, mediante atti esat­ta­mente cor­ri­spon­denti a detti prin­cipi. Tutti adot­tati dalla Com­mis­sione e dal Con­si­glio e, per quanto di com­pe­tenza, dal Par­la­mento euro­peo, rilut­tante tal­volta, ma cer­ta­mente non svin­co­lato dai com­piti che i Trat­tati gli assegnano.

La per­dita della capa­cità di «entu­sia­smare» ne è stata la con­se­guenza ine­lut­ta­bile. Soprat­tutto per­ché il «rac­con­tarsi» come pro­getto di pro­spe­rità era, più che otti­mi­stico, bugiardo. Bugiardo per­ché l’unione pro­get­tata era esat­ta­mente quella buro­cra­tica dise­gnata per ese­guire le norme dei Trat­tati secondo lo spi­rito dei Trat­tati, con la logica che ne deri­vava. Uni­voca, espli­cita tra­sfusa innan­zi­tutto nell’architettura dell’Unione che faceva, e fa, di tutte le sue isti­tu­zioni gli ese­cu­tivi dei Trat­tati. Par­la­mento com­preso, la cui atti­vità si tra­duce, infatti, nel potere deli­be­rare solo quello che gli pro­pone la Com­mis­sione il cui com­pito assor­bente e vin­co­lante ogni altro è quello di organo che «vigila sull’applicazione dei Trat­tati e delle misure adot­tate dalle isti­tu­zioni in virtù dei Trat­tati». (art. 17 del Trat­tato sull’Unione). Un’architettura quindi che rea­lizza il trionfo degli ese­cu­tivi, ren­den­doli tutti tali, qual­si­vo­glia nome o veste assu­mes­sero ed abbiano assunto.

Ese­cu­tivi di che cosa, di quale pro­getto, di quale prin­ci­pio fon­da­men­tale? I Trat­tati non nascon­dono affatto la norma fon­da­men­tale dell’Unione. Non la si trova negli arti­coli 2 e 3 del Trat­tato sull’Unione che elen­cano decla­ma­zioni ine­brianti di valori, prin­cipi, fini che sim­bo­leg­giano le con­qui­ste della costi­tu­zio­na­li­smo e della demo­cra­zia degli ultimi due secoli. La norma fon­da­men­tale dell’Unione con­trad­dice radi­cal­mente que­sti valori, prin­cipi, fini. È un po’ nasco­sta, in verità, forse anche per quel pudore che accom­pa­gna spesso l’ipocrisia. È scritta nel Trat­tato sul fun­zio­na­mento dell’Unione, agli arti­coli 119 e 120, secondo i quali «l’azione degli Stati mem­bri e dell’Unione com­prende …. l’adozione di una poli­tica eco­no­mica …. con­dotta con­for­me­mente al prin­ci­pio di un’economia di mer­cato aperta ed in libera con con­cor­renza». La norma fon­da­men­tale dell’Ue è que­sta. Ne san­ci­sce la dina­mica ed il fine. Ha carat­tere esclu­sivo ed escludente.

È que­sta la norma che non per­mette che si esca dalla crisi. Non lo per­mette per­ché ne è la causa, la ha pro­vo­cata. È que­sta la norma fon­da­men­tale da abro­gare. Shulz non può non saperlo. Ma non dice di volerla espungere.

Con Tsi­pras si può. È una ragione deci­siva per votarlo.

«Verso il voto. Grillo è peggio dei fascisti. Il governo Renzi è il peggiore della storia. E la lista Tsipras sembra guardare alle «larghe intese» con i cinque stelle. Non c’è da stupirsi che il non voto sia di gran lunga il primo partito».

Il manifesto, 21 maggio 2014, con postilla

Si può scri­vere un arti­colo per spie­gare che non si sa per­ché lo si scrive? Me ne sono capi­tate tante nella vita. Ora mi capita anche que­sta. Si avvi­ci­nano le ele­zioni euro­pee. Che fare?

Il governo Renzi è il peg­giore che ci sia acca­duto di giu­di­care, nell’ambito del centro-sinistra (centro-sinistra?), nel corso degli ultimi decenni. Al con­fronto, non dico Prodi, ma mi fermo a Letta, se si fa rife­ri­mento a una posi­zione di con­ser­va­to­ri­smo illu­mi­nato (non di più, per carità, non di più!), i con­fronti appa­iono schiaccianti.

Il pre­mier pro­cede a bal­zel­loni, come un improv­vi­sa­tore non in grado di andare al di là di se stesso, con molti slo­gan, ma senza idee né pro­grammi né cul­tura. Le poli­ti­che sociali sono ridotte al livello di mance ai poveri e agli indi­genti. Il patto politico-riformatore con Ber­lu­sconi regge agli scos­soni cui da una parte e dall’altra, per fina­lità squi­si­ta­mente (si fa per dire) elet­to­rali, viene sot­to­po­sto. È asso­lu­ta­mente pre­ve­di­bile che dopo que­sto voto, quale che che ne sia l’esito, Ber­lu­sconi mani­fe­sti l’intenzione di tor­nare al governo, d’intesa, sia pure con­cor­ren­ziale, con il nuovo Cen­tro destra.

Del resto, per­ché non dovrebbe acca­dere? In fondo, anche la poli­tica sociale dell’ex Cava­liere, in per­fetta armo­nia con quella ren­ziana, con­si­ste nel pro­met­tere mille euro al mese alle «povere (testuale, nda) casa­lin­ghe». Lo ammetto: il mini­stro Padoan è un’«altra cosa». Ma, appunto: se è un’«altra cosa», cosa ci sta a fare, come rie­sce a ope­rare effi­ca­ce­mente lì dentro?

E la lista Tsi­pras? In un’intervista recen­tis­sima su il mani­fe­sto (16 mag­gio), Bar­bara Spi­nelli spiega: «Spero che la lista Tsi­pras abbia la forza e l’indipendenza di giu­di­zio per aprire un dia­logo con i 5Stelle e deci­dere per punti spe­ci­fici poli­ti­che con­cor­date. Ci sono molte cose in comune…». L’intervistatrice, Daniela Pre­ziosi, ha qual­cosa da obiet­tare: «Per la verità Grillo sem­bra più inte­res­sato alla cam­pa­gna for­sen­nata con­tro il Pd». Replica Spi­nelli, ben trin­ce­rata die­tro le pro­prie cer­tezze: «Ci sono molte posi­zioni di Grillo com­ple­ta­mente con­di­vi­si­bili e fra l’altro simili se non iden­ti­che alle nostre. Il Movi­mento 5Stelle potrebbe svol­gere un ruolo molto impor­tante…». Dun­que, secondo Spi­nelli per sbar­rare la strada alle «lar­ghe intese» di Schulz in Europa e di Renzi in Ita­lia, biso­gna, è legit­timo, è decente imboc­care la strada di una «larga intesa» con l’orrido Grillo, il peg­gior nemico di qual­siasi pro­spet­tiva seria­mente demo­cra­tica e rifor­ma­trice? Si capi­sce fino in fondo, ora, per­ché la lista Tsi­pras (in Ita­lia, s’intende) ha fin dall’inizio rifiu­tato di defi­nirsi una com­po­nente (sia pure for­te­mente inno­va­tiva) del cosid­detto «campo della sini­stra». Se lo avesse fatto, infatti, si sarebbe inter­detta il gioco poli­tico post elet­to­rale con Grillo, il quale ora, nelle parole di Spi­nelli, emerge inequivocabilmente.

E Grillo? E l’ondata «popu­li­sta», che sale da tutte le crepe della società euro­pea attuale? È dav­vero, come si dice, il peri­colo mag­giore? Io penso di sì. Ma se è così, è ine­vi­ta­bile che, allo stato attuale delle cose (ripeto e insi­sto: «allo stato attuale delle cose»), per fron­teg­giarlo non verrà in mente a nes­suno niente di meglio, che la teo­ria e la pra­tica delle «lar­ghe intese», non solo in Ita­lia e in Ger­ma­nia, dove già esi­stono, ma anche in Fran­cia, in Spa­gna e, forse, in Inghilterra.

Il «vec­chio» mondo politico-istituzionale, — cioè «destra» e «sini­stra» clas­si­che, ormai sem­pre più desti­tuite di fon­da­menti e con­te­nuti tra­di­zio­nali, e sem­pre più simili fra loro, — si alleerà al pro­prio interno sem­pre più siste­ma­ti­ca­mente, allo scopo essen­ziale di garan­tirsi una soprav­vi­venza. Tec­no­cra­zia, finanza e mer­cati stanno per ora (per ora!) dalla sua parte, poi si vedrà.

Dun­que, a quanto sem­bra, se si vuole sbar­rare, in primo e indu­bi­ta­bi­lis­simo luogo, la strada a Grillo e al gril­li­smo (in Ita­lia, anche in que­sto caso, s’intende), e, in pro­spet­tiva, al popu­li­smo in Europa, biso­gna accon­ciarsi a votare l’intollerabile Renzi. E se si vuole sbar­rare la strada alle «lar­ghe intese» fra Renzi e la cor­data, sem­pre ricom­po­ni­bile, della Vec­chia e Nuova destra, biso­gna votare (come con esem­plare chia­rezza spiega Spi­nelli) in modo da favo­rire un’alleanza dei «pro­gres­si­sti» (per giunta radi­cali) con l’orrido, anzi orri­dis­simo Grillo, in con­fronto al quale anche i vec­chi fasci­sti sareb­bero sem­brati dei pro­gres­si­sti e delle per­sone per bene.

Si capi­sce per­ché in Ita­lia la massa di coloro che non hanno ancora scelto, e forse non sce­glie­ranno, è così ele­vata da sfio­rare la mag­gio­ranza asso­luta. Per la prima volta nella sto­ria, infatti non ci si chiede più di votare per un pro­gramma e per gli uomini che lo rap­pre­sen­tano, ma per impe­dire che pre­valga un «altro» pro­gramma e «altri» uomini che più o meno lo rappresentano.

Come ho già scritto altre volte, non ci sono più «avver­sari» che si scon­trano per affer­mare la diver­sità delle loro rispet­tive posi­zioni, ma «con­cor­renti» che si sfi­dano più o meno sul mede­simo ter­reno con mezzi ana­lo­ghi (se non addi­rit­tura coin­ci­denti). Oggi, di più: la scelta fra i «con­cor­renti» avviene soprat­tutto, se non esclu­si­va­mente, per impe­dire che la merce di un «altro» trovi migliore acco­glienza sul mer­cato. La qua­lità della «pro­pria» merce passa invece in secondo piano. E giu­sta­mente: infatti, è merce resi­duale, fondi di magaz­zino, pre­va­len­te­mente fuori corso, che resi­ste sul mer­cato uni­ca­mente per­ché la merce che pro­pon­gono al loro posto gli homi­nes novi fa sem­pli­ce­mente schifo.

Sim­pa­tizzo per que­sta massa. Penso che le si dovrebbe dedi­care un’attenzione meno inte­res­sata e fari­saica di quella che è emersa nelle ultime set­ti­mane: votami, votami per favore se non mi voti vince quell’altro, quell’altro che, lo si vede bene, fa schifo, molto più schifo di me.…

È, dopo tutto, una massa di uomini liberi: ognuno di loro, fra qual­che giorno, può aste­nersi, votare scheda bianca, votare Pd, votare Tsi­pras, votare, per­ché no, i Verdi, di cui nes­suno parla (anche loro, peral­tro incauti e oscil­lanti oltre misura), insomma può fare una scelta com­mi­su­rata alle pro­prie ansie, paure, ere­dità del pas­sato, aspet­ta­tive del futuro, biso­gni ele­men­tari (ma anche cul­tu­rali) di soprav­vi­venza, ecc, ecc.

Ma quel che non può fare, e che secondo me non farà (spero che non fac­cia), è con­di­vi­dere la logica che ci viene impo­sta con pre­po­tenza sem­pre mag­giore. «Que­sta» poli­tica non ci appar­tiene, non è la nostra, non la con­di­vi­diamo, né da una parte né dall’altra. Siamo troppo vec­chi, o troppo gio­vani, per non spe­rare d’incontrare qual­cosa di diverso. La strada è, sarà lunga: ma di certo è, sarà diversa.

postilla
Asor Rosa sembra subire anche lui il clima che la mediocrazia ha creato attorno alle elezioni per il parlamento europeo. Per la grande informazione questo evento politico ha come suo centro l'Italia, non l'Europa; sul palcoscenico ci sono solo due attori: Renzi e Grillo. Allora, - sembra affermare Asor Rosa- se si vuole combattere il comico demagogo non c'è che appoggiare il PD di Renzi, se si vuole combattere il Renzi e il renzismo non c'è che da allearsi con Grillo.
Se la mia sintesi non è troppo infedele e se questo fosse il succo dell'articolo di Asor Rosa allora forse bisognerebbe esaminare un po' più a fondo sia Grillo e il suo movimento sia Renzi e il PD. Se si approfondisse o l'analisi forse si giungerebbe a condividere le parole di Barbara Spinelli, su cui Asor Rosa invece ironizza, deprecandole. Per guardare alle cose così come stanno alcune distinzioni sono essenziali. Io, ad esempio, penso che occorra distinguere tra la figura di Grillo, che anche a me fa paura, e le persone che oggi lo seguono. Per molte di loro ho personalmente lo stesso rispetto e la stessa condivisioni che ho per molti degli attuali militanti del partito oggi guidato (comandato) dall'asfaltatore Renzi.
Mi considero anch'io, come Asor Rosa, un "rosso-verde". Ma nel PD renziano di "rosso" ne vedo solo qualche pallido residuo, e invece del "verde" vedo il grigio-nero del cemento e dell'asfalto. Nel movimento di Grillo, se mi turba l'ombra del nero, non perderei nè perdo l'occasione di collaborare con quanto di "verde" (e non è poco) vi abita. Poichè poi preferisco parlare di parlamenti e non di duci e ducetti, non escludo affatto di collaborare (se per caso dovessi essere eletto nel Parlamento europeo) con i grillini che vi fossero eletti, come con i piddini (si dice così?) che vi arriveranno. Come con chiunque altro eletto che dimostrerà di voler difendere l'ambiente, il lavoro e (non dimentichiamolo) la democrazia minacciata, mi sembra, dall'una parte e dall'altra.(e.s.)

«Il Fatto Quotidiano, 21 maggio 2014

Nel derby entomologico (copyright di Aldo Grasso) della televisione italiana, la maggioranza delle osservazioni e delle paure si addensano intorno a Grillo. Laddove non mi pare vi sia alcun dubbio che ad oggi sia stato Vespa a fare incalcolabilmente più danni alla democrazia italiana. E anche per il futuro, a me fa più paura Vespa di Grillo: se non altro per la sua mostruosa abilità nell'imporre l'ordine del giorno del potere alla (maggioritaria) parte fossile dell'opinione pubblica. Qui rileva l'articolo che Vespa ha dedicato alle soprintendenze sul Quotidiano Nazionale del 3 maggio scorso: eloquente fin dal titolo, “Il mostro burocratico”. Non sazio della lode (“Matteo Renzi ha deciso un ragionevole accorpamento delle soprintendenze in modo da ridurre il numero di referenti con cui discutere”), come una geisha del potere dalla sensitività sovrumana, Vespa precede i più innominabili desideri del giovane premier: “Ma saranno disciplinati anche i loro poteri? E i tempi entro i quali esercitarli? Il problema della burocrazia italiana è infatti il sovraffollamento di uffici”. Con un turnover bloccato da decenni, organici al lumicino e nessun mezzo, il problema delle soprintendenze è proprio l'affollamento. E i temibili poteri sarebbero le pistole ad acqua con cui i soprintendenti arginano le lobbies del cemento, armate di missili terra-aria.

Segue un inno alla mercificazione che fa sembrare Tremonti un francescano: “Il manager dei musei immaginato da Renzi avrà le mani libere nel vendere il prodotto cultura o dovrà scontrarsi ogni giorno con un rispettabile architetto o critico che sa tutto di un’opera d’arte, ma non riesce a cavarne un centesimo?”.

Maniliberismo, ecco il nome del renzismo da grande. E il giovane e vergine Bruno Vespa è proprio il più indicato menestrello di questo stilnovo. Spettacolare l'inizio dell'articolo: “Dopo aver imposto il prestito di alcuni pezzi eccezionali del Rinascimento italiano per una grande mostra a Londra negli anni Trenta, Benito Mussolini disse che avrebbe preferito farsi cavare tutti i denti piuttosto che discutere ancora una volta con i soprintendenti. Ed era Mussolini”. Niente in confronto a Renzi.

Le proposte delle associazioni e delle organizzazioni del volontariato. Campagna promossaa dal Gruppo Abele e da Libera Associazioni nomi e numeri contro le mafie

Dalla fine degli anni ’70 ad oggi la distanza tra ricchi e poveri è tornata a crescere in maniera grave, invertendo il trend di inizio ‘900 quando in Europa la quota della ricchezza nazionale posseduta dall’uno per cento più ricco era diminuita a favore dei ceti popolari.

La ridistribuzione della ricchezza è ferma da oltre 30 anni ed oggi la crisi, iniziata proprio a causa dell’aumento delle diseguaglianze, ha raggiunto nel nostro continente livelli senza precedenti. Secondo Eurostat nel 2012 circa 124,5 milioni di persone, il 24,8% dei 28 Paesi della UE, sono state minacciate dalla povertà e dall’esclusione sociale, definizione che comprende sia la povertà relativa che quella assoluta. Nel 2008 la cifra era del 17%. Di questo passo nei prossimi 10 anni avremo 15/25 milioni di esseri umani in più che nel nostro continente saranno costretti a vivere nell’indigenza. Le ong denunciano come in Europa già oggi siano 30 milioni i bambini in povertà, mentre l’Italia detiene la maglia nera con 1 milione di minori poveri ed un rischio per chi nasce nel nostro paese del 32,3%. L’Italia, dopo la Grecia, occupa nella classifica UE la posizione peggiore per la percentuale di popolazione a rischio povertà ed esclusione sociale, salita purtroppo al 30%.
Dal 2008 al 2012 la povertà assoluta è addirittura raddoppiata, passando da 2,4 a 4,8 milioni. Le differenze economiche hanno accresciuto le differenze sociali e culturali, facendo diventare l’Italia il paese con la più alta percentuale europea di dispersione scolastica: 18,2%, con picchi nelle regioni meridionali anche del 25%. Il 63% delle famiglie ha ridotto i consumi alimentari ed il 40% vive una condizione di deprivazione materiale, considerata “grave” per il 25% dei nuclei familiari italiani. Sono aumentati a 50 mila unità il numero dei senza fissa dimora, mentre cresce il numero dei suicidi. I crimini contro l’ambiente sono saliti a 93,5 ogni giorno, segnando un incremento del 176% negli ultimi tre anni secondo l’ultimo rapporto sulle ecomafie. L’Europa affronta allo stesso tempo una crisi occupazionale senza precedenti. Sono 27 milioni i disoccupati e l’Italia registra una delle situazioni peggiori con il 12,7% di disoccupazione, tra i giovani sopra il 43%. A questi dobbiamo aggiungere 3,2 milioni di lavoratori considerati “working poors”, 2,8 milioni di Neet e 4 milioni di precari. Dal 2008 l’Italia ha perso il 25% di capacità produttiva. In una situazione di crisi così violenta sono le mafie a trarre grandi benefici. Europol ha censito 3600 organizzazioni criminali attive in tutta Europa, mentre la CE ha stimato in 120 miliardi di euro l’impatto della corruzione. Le organizzazioni criminali vedono accrescere il loro potere attraverso usura e riciclaggio, favorite dalla crisi di liquidità, dal credit crunch, dalla frammentazione sociale e dalla perdita di fiducia nelle istituzioni rappresentative. In un contesto così fragile, impoverito, precario ed in cui la cultura ha smesso di essere elemento centrale, soprattutto nel nostro paese, per la crescita complessiva dell’etica pubblica, la corruzione e la mafiosità sono in grande aumento.

L’aggravarsi delle condizioni economico, sociali, ambientali e culturali sono conseguenza di politiche economiche sbagliate. Le politiche scelte non solo non hanno saputo contrastare la crisi prodotta dall’aumento delle diseguaglianze ma si sono mostrate addirittura controproducenti nel fronteggiare la crisi bancaria e finanziaria esplosa nel 2008 a causa di una finanza ipertrofica e speculativa a cui non sono state imposte regole e sanzioni. Le cosiddette politiche di austerity messe in campo hanno fallito e continuano ad avere un costo altissimo in termini sociali, minacciando il futuro dell’unità europea. Queste politiche, dai piani di austerità, al pareggio di bilancio, ai vincoli esterni imposti alle politiche pubbliche, sino al trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance che comprende il fiscal compact, riducono l’intervento pubblico e la possibilità di manovre fiscali per il rilancio dell’economia, pongono limiti alla spesa pubblica ed alla politica della domanda, tagliano la spesa sociale, chiedono minori imposte per le fasce di reddito più alte e premono per ridurre le tutele del lavoro, dei salari e dell’ambiente. I nemici dell’Europa, e di conseguenza del nostro paese, sono oggi l’austerity, la povertà, l’esclusione sociale, la disoccupazione, la corruzione e le mafie. Sono questi fenomeni che stanno consentendo ai germi del razzismo, del nazionalismo e del populismo di prosperare.

Alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014 l’Europa è colpita da stagnazione economica, da disuguaglianze sempre più gravi, dal crescente divario tra paesi del centro e della periferia, dai germi del razzismo e dall’aumento di ingiustizia sociali ed ambientali di cui sono vittime soprattutto ceti medi e popolari. La democrazia viene sensibilmente ridotta a livello nazionale ma non viene sviluppata a livello europeo. Siamo davanti ad una crisi strutturale e sistemica che non può essere affrontata e gestita da un potere troppo concentrato nelle mani di istituzioni tecnocratiche e non elettive che finiscono per rispondere agli interessi di quelle elite economiche e finanziarie che con la crisi si sono invece arricchite. Questa non è l’Europa immaginata decenni fa come uno spazio di integrazione economica e politica, libera dalla guerra, fondata sul progresso sociale, l’estensione della democrazia, dei diritti e del welfare.

Come cittadini e cittadine europee abbiamo il diritto e la responsabilità di lavorare per un’Europa che riaffermi e rilanci il suo impegno per il rafforzamento ed il rilancio della democrazia, della giustizia sociale ed ambientale, delle politiche sociali, della solidarietà e della cooperazione tra i popoli. Vogliamo un’Europa più forte e coesa per affrontare la crisi, cogliendone le opportunità di trasformazione in positivo. Dopo 9 mesi di lavoro condotto dalla campagna Miseria Ladra in più di 100 città del nostro paese, centinaia di realtà del sociale e del volontariato laico e cattolico hanno deciso di camminare insieme, per offrire al dibattito pubblico ed agli amministratori le nostre proposte per combattere nella nostra Europa la povertà, l’esclusione sociale ed ambientale e la disoccupazione. Proposte frutto di un’elaborazione e di un’esperienza collettiva che fanno della partecipazione e del metodo condiviso valori e pratiche indispensabili per rispondere alla crisi.

1- Stop all’austerity

Le politiche fiscali restrittive dell’Unione europea – in particolare il Fiscal Compact e il Patto di stabilità e crescita – devono essere abbandonate. Le regole di bilancio devono essere cambiate e l’obiettivo di un “pareggio strutturale” per i bilanci pubblici deve essere sostituito da una strategia economica coordinata che permetta agli stati membri di attuare le politiche fiscali che sono necessarie per uscire dalla crisi. Senza un forte stimolo della domanda non ci può essere via d’uscita dall’attuale stagnazione. Un piano di investimenti pubblici europei è necessario per ricostruire attività economiche che siano sostenibili e capaci di offrire buoni posti di lavoro. Queste misure dovrebbero essere al centro di una nuova politica industriale in Europa, orientata verso la trasformazione ecologica e sociale del nostro modello economico, con una drastica riduzione nei consumi di energie non rinnovabili. A tal fine,

Chiediamo:
- un programma di investimenti pubblici per la transizione ecologica, finanziati a livello europeo attraverso la Banca europea per gli investimenti (Bei)

2- Per una finanza pubblica e non speculativa

Di fronte al rischio di deflazione - e al circolo vizioso di politiche restrittive, depressione e concorrenza al ribasso sui salari – la politica monetaria dell’eurozona deve cambiare radicalmente, riportando l’inflazione almeno al livello del 2%. Il problema del debito pubblico deve essere risolto attraverso una responsabilità comune dell’eurozona e con la ristrutturazione del debito. Gli eurobond devono essere introdotti non solo per rifinanziare il debito pubblico degli stati membri, ma anche per finanziare la conversione ecologica dell’economia europea. Allo stesso tempo bisogna mettere davvero un freno allo strapotere della finanza. Le regole previste dall’Unione bancaria non affrontano i difetti strutturali e la fragilità di fondo del sistema finanziario.

Chiediamo:
- la Banca centrale europea (Bce) deve fornire liquidità per realizzare politiche espansive e diventare prestatore di ultima istanza per i titoli pubblici;
- il radicale ridimensionamento del settore finanziario, con una tassa sulle transazioni finanziarie, l’eliminazione della finanza speculativa e il controllo dei movimenti di capitale;
- regole stringenti che vietino le attività finanziarie più speculative e rischiose, introducendo una netta divisione tra banche commerciali e banche d’investimento. I problemi dei centri finanziari offshore e dei paradisi fiscali all’interno dell’Unione europea devono essere risolti attraverso l’armonizzazione fiscale e regole più severe;

3- Welfare: dovere etico e leva per il rilancio dell’economia

Politiche di welfare in Europa

Qualsiasi ragionamento sulla costruzione di politiche sociali omogenee per l’Europa chiama in causa il ripensamento dei trattati europei fin qui sottoscritti. Infatti a tutt’oggi non è prevista una funzione deliberante e vincolante degli indirizzi dell’UE in materia di politiche sociali. Di fronte all’enorme disparità di trattamento e al mancato riconoscimento dei diritti sociali nei diversi stati, la UE dovrebbe intervenire con un nuovo trattato sulle politiche sociali con la definizione di una dotazione di risorse certe in grado di intervenire adeguatamente in questa materia.

Se invece passiamo al confronto degli ultimi dati Eurostat disponibili della spesa sociale a parità di potere d’acquisto, emerge come la spesa sociale per abitante in Italia sia tra le più basse, pari al 91,9% del corrispondente valore medio della UE a 15, all’80,5% di quella tedesca, all’80,3% di quella francese. Il termini monetari il valore italiano era pari a 7.486 euro mentre nella UE a 15 il valore corrispondente medio era 8.150. Se analizziamo la spesa sociale per abitante, era pari nel 2001 a 6.050 euro e nel 2011 si è portata a 6.855 con un incremento del 13,3%. Nella UE a 15 il tasso di incremento è stato invece del 17,8%, nettamente più alto. In Spagna addirittura del 36,5%, in Francia del 21,1%, in Svezia del 15,9%.

Se analizziamo la spesa pubblica procapite per sanità, istruzione, servizi sociali e casa, emerge come l’Italia sia ai livelli più bassi. Sanità: la spesa pubblica pro capite è cresciuta tra il ’90 ed il 2009 del 37% a fronte di un +79% della media UE, rimanendo la spesa pubblica pro capite fra le più basse d’Europa. Istruzione: la spesa pubblica pro capite è cresciuta del 15% fra il 1999 ed il 2008 a fronte di una crescita media UE del 25%. Servizi sociali e Casa: siamo ai minimi europei.

Occorre dunque incrementare e di molto la spesa sociale in senso stretto, spesa per le famiglie, per l’invalidità, per la casa, per contrastare l’esclusione sociale a tutto campo. Questo significa incrementare i servizi, piuttosto che i soli trasferimenti.

Per evitare una riproposizione di interventi a carattere puramente assistenziale, compresa l’erogazione diretta di un risarcimento monetario, riteniamo che tutti gli interventi di politiche sociali debbano rispondere: al superamento degli interventi assistenziali con politiche centrate allo sviluppo di un welfare “generativo”; alla sollecitazione e sostengo a diffusi livelli di partecipazione e protagonismo dei cittadini e degli stessi beneficiari degli interventi sociali; alla centralità della programmazione degli interventi da parte degli enti locali e di prossimità e progettazione partecipata dei servizi e interventi a livello locale con il contributo attivo delle forme organizzate formali e informali della società civile; alla integrazione dei servizi e aree di intervento (sociale sanitario, lavoro, formazione, ambiente); al sostengo e diffusione di un’economia responsabile, sociale e solidaristica.

Chiediamo:
- obbligo di ri-allineamento della spesa per il Welfare alla media dei paesi dell’Unione, colmando lo scarto esistente tra il nostro paese con gli altri paesi europei, considerando che l’Italia risulta agli ultimi posti riguardo la dotazione di spesa per i servizi sociali;
- definizione vincolante dei Livelli Essenziali di Assistenza europei, elemento fondamentale per garantire una discreta omogeneità di interventi e garanzie di diritti sociali in tutta l’area UE;
- approvazione di misure per favorire e sostenere lo sviluppo della cooperazione sociale e le altre forme di iniziativa che sappiano costruire percorsi di inclusione sociale rispettose delle persone e dell’ambiente.

Libera il welfare attraverso i beni confiscati

Le mafie sono oggi in Europa un fenomeno in espansione. Le stime ufficiali del SOCTA e del CRIM denunciano 3600 Clan operativi all'interno dell'Unione Europea, di cui il 70% ha una composizione geograficamente eterogenea e più del 30% ha una vocazione policriminale. Un potere economico enorme che ben più di altri ha saputo approfittare delle crescenti interconnessioni delle economie europee e dell’aumento della povertà e dell’esclusione sociale. Le misure patrimoniali, forse ancor di più delle misure di detenzione, sono lo strumento e insieme la politica antimafia più efficace, quella che colpisce le organizzazioni criminali nel loro obiettivo primario: l'accumulazione di denaro, ricchezza, profitti. Ma sono anche molto di più di questo, rappresentando la finalità sociale un’opportunità per generare nuovo welfare. In Italia in questi anni hanno rappresentato opportunità di lavoro, luoghi relazione e partecipazione civile, centri di accoglienza, di servizi alla persona, luoghi di solidarietà. In questo senso riteniamo la Direttiva sul congelamento e la confisca dei proventi di reato alla criminalità organizzata, approvata lo scorso febbraio 2014 dal PE, un sicuro passo in avanti verso un'armonizzazione delle legislazioni degli Stati Membri.

Riteniamo sia fondamentale uno scatto ulteriore che consenta di segnare il passo con misure all'avanguardia. Sono ancora numerosi i margini di avanzamento e di innovazione che possono essere prodotti in tema di confisca dei beni e riutilizzo sociale.

Chiediamo:

- il riutilizzo sociale dei beni confiscati; il riutilizzo sociale è oggi solo una possibilità prevista dalla Direttiva. Molto può ancora essere fatto nei 30 mesi in cui ogni Stato Membro recepirà nel proprio ordinamento interno le disposizioni della Direttiva. Chiediamo che si agisca immediatamente, rendendo davvero possibile la destinazione sociale dei beni confiscati. In un periodo di grande crisi, i beni confiscati rappresentano uno strumento di coesione sociale da non lasciarsi sfuggire;
- la confisca dei beni ai corrotti; la confisca dei beni per i reati di corruzione e contro la pubblica amministrazione può generare nuove, importanti risorse da investire nell'innovazione sociale. La crisi si combatte non con misure di austerità, ma contrastando innanzitutto la corruzione e la capacità delle mafie, attraverso questa, di generare ulteriori disuguaglianze, povertà, perdita di competitività in ogni settore delle nostre economie, incidendo non solo sull'economia e la ricchezza di un territorio, ma sull'etica pubblica, sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni e sulle prospettive di sviluppo;
- risorse e progetti per il riutilizzo sociale; investire sui beni confiscati significa dedicare risorse all'inclusione sociale, al contrasto alla povertà, alla promozione della legalità, ad opportunità di sviluppo e di lavoro. Significa contrastare la corruzione favorendo partecipazione e protagonismo di cittadini e giovani. E' perciò importante che percorsi di questo genere trovino sempre più spazio attraverso le linee di finanziamento. Tante le esperienze finora realizzate, ad esempio in Italia, attraverso l'utilizzo di fondi FESR per la ristrutturazione o la realizzazione di progettualità sui beni confiscati. Ancora molte altre possono essere le strade da percorrere. Lotta alla disoccupazione, inclusione sociale, uguaglianza di genere ed innovazione sociale sono tra le priorità del FSE per il a partire dal 2014, e possono trovare, proprio nel riutilizzo sociale dei beni confiscati, un importante strumento di azione e partecipazione;
- estensione delle possibilità di confisca: a partire dal mutuo riconoscimento delle decisioni definitive di confisca, rimasto mai pienamente attuato a partire dalla decisione 2006/783/GAI, occorre incrementare le possibilità di azione, pur nel rispetto dei diritti fondamentali, sui patrimoni delle mafie, a partire dalla confisca “estesa” ed alla confisca in assenza di condanna definitiva. La rapidità dell'azione contro la potenza economica della criminalità rimane ancora un aspetto cruciale per garantire efficacia verso il riutilizzo sociale.

4- Un reddito minimo per una vita dignitosa

Dal 1992 in Europa, Parlamento e Consiglio invitano gli Stati membri ad individuare misure concrete che sradichino la povertà. Le Istituzioni europee chiedono con la cosiddetta “Raccomandazione sul reddito minimo” che si “compiano progressi reali nell'ambito dell'adeguatezza dei regimi di reddito minimo, affinché essi siano in grado di sottrarre ogni bambino, adulto e anziano alla povertà e garantire loro il diritto a una vita dignitosa”. Con la Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2010, viene riconosciuto il ruolo del reddito minimo nella lotta contro la povertà e la promozione di una società inclusiva. Noi, aderenti alla Campagna Miseria Ladra chiediamo l’impegno dei candidati italiani a lavorare per una “Direttiva europea per un reddito minimo” che garantisca una vita dignitosa alle persone che vivono sotto la soglia di povertà. Che garantisca il diritto a vivere una vita dignitosa anche per coloro che in un dato momento della loro vita, per circostanze non volute, si trovano ad essere in una situazione di povertà e rischiano di essere esclusi definitivamente dalla società.

Chiediamo:
- un impegno affinché parta dal prossimo Parlamento europeo la spinta verso una misura vincolante per tutti gli Stati membri, con uno standard minimo riconosciuto al 60% del reddito mediano in ciascun paese a livello individuale.

5- Un'istruzione pubblica, gratuita e di qualità a livello europeo


In questi anni mentre Belgio, Lettonia, Romania, Slovacchia, Svezia, Islanda e Austria hanno aumentato la spesa in istruzione dall’1% al 5%, nei paesi ad elevato debito pubblico, i PIIGS (Portagallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), nei paesi dell’est e anche nel Regno Unito, il Patto di stabilità e crescita ha imposto e incentivato tagli lineari ai servizi pubblici, scuole e università in primis. Un’Europa a due velocità dunque. Infatti nei paesi del “sud” ci sono stati ingenti tagli dei finanziamenti che hanno prodotto un decremento delle risorse disponibili per le borse di studio, una restrizione del numero dei beneficiari, un aumento dei costi dei trasporti e più in generale di tutti i servizi e le prestazioni erogati. L’Italia ad oggi investe il 4,2% del PIL in istruzione, la Danimarca il doppio. E' una disparità insostenibile di cui l'Unione Europea dovrebbe farsi carico. Noi pensiamo che investire sia una priorità e che l'UE debba giocare un ruolo centrale per incentivare e incrementare le risorse su scuole, università e ricerca. La società della conoscenza deve essere costruita investendo sulla qualità dei percorsi formativi e garantendone l’accesso a tutti, non rendendoli sempre più elitari.

Chiediamo:
- l'innalzamento degli investimenti in istruzione e ricerca fino all'8% del PIL con forme di controllo e aiuto nei confronti dei paesi svantaggiati indirizzando al megio i FSE e i FESR;
- la gratuità dell'istruzione di ogni ordine e grado per consentirne a tutti e tutte l'accesso e ridurre i tassi di dispersione, aumentare il numero di laureati e incrementare il livello culturale dell'intera Unione Europea;
- estensione a livello continentale delle politiche di Diritto allo Studio che garantiscano il diritto all'abitare, alla salute e alla mobilità anche agli studenti fuori sede e agli studenti stranieri. L'UE deve quindi dotarsi di Livelli Essenziali delle Prestazioni a livello continentale.

6- Patrimonio Bene Comune

Ex aree militari, vecchi cinema e teatri, scuole chiuse, ex depositi, terre incolte, ex fabbriche, fondi rustici e casali sono esempi di patrimonio pubblico e privato abbandonato che, per effetto delle progressive trasformazioni urbane e della speculazione edilizia che in modi, con intensità e tempi diversi ha coinvolto i Paesi Europei, è stato svuotato dalle sue attività, sottraendo alla collettività spazi precedentemente utilizzati. Disperdendo via via la loro funzione originaria e restando vuoti, questi stabili disattendono la funzione sociale della proprietà. Il riprodursi di tale fenomeno di residualità immobiliare, traendo origine dal mutare delle esigenze del ciclo produttivo/riproduttivo, si colloca nel più generale contesto dell’attuale modello economico che governa l’Europa e si esprime nelle politiche di austerità e di privatizzazione. Questo modello propone i processi di alienazione del patrimonio pubblico per ridurre il debito e come strada per liberare l’amministrazione dagli obblighi di gestione del patrimonio, trasferendo la proprietà dei beni pubblici ai grandi interessi privati, assicurando solo a questi ultimi cospicui guadagni. Eppure, mai come in questi anni di recessione economica, in cui esclusione sociale, negazione del diritto allo studio, precarietà e impoverimento sono in rapida ascesa, il recupero degli spazi inutilizzati è un pezzo di risposta - assai concreta - alla crisi che viviamo, un’occasione irripetibile per creare lavoro e cultura, per soddisfare bisogni e diritti. In tali spazi abbandonati potrebbero trovare accoglienza la crescente domanda del disagio abitativo, nonché quell’insieme di soggetti comunitari e associativi che assicurerebbero la fornitura di servizi necessari alla cittadinanza. In questi stabili si potrebbero sperimentare forme nuove di democrazia partecipata che superino la tendenza politica in atto, la cosiddetta valorizzazione economica, ma sarebbe meglio definirla svalutazione, in favore di una valorizzare sociale. Questi edifici da rigenerare potrebbero essere gli Spazi della cittadinanza europea, dell’incontro interculturale e della promozione dei valori europei.

Chiediamo:
- il censimento del patrimonio abbandonato pubblico e privato;
- l’istituzione di una banca dati pubblica europea del patrimonio immobiliare pubblico e privato inutilizzato, in continuo aggiornamento, nella quale confluiscano gli immobili privi di destinazione, per assicurare ai cittadini corrette informazioni, trasparenza, partecipazione e per incoraggiare la sinergia tra partner diversi per la co-progettazione;
- la promozione di forme di riutilizzo proposte dai gruppi di cittadini attivi europei attraverso l’utilizzo di Fondi strutturali europei.

7- Migranti: l’Europa sono anche Io!

L'Europa che immaginiamo è uno spazio culturale aperto, con un'identità plurale e dinamica, capace di fondare le relazioni tra gli stati membri e con i paesi terzi sul reciproco rispetto, sul riconoscimento delle specifiche diversità culturali, sulla promozione delle libertà e dei diritti fondamentali, sul mantenimento della pace tra i popoli, sulla garanzia del principio di eguaglianza, sul rifiuto di ogni forma di discriminazione, sul ripudio della xenofobia e del razzismo. Nell’UE risiedono 32,9 milioni di migranti che rappresentano il 7% della popolazione, pari a 503 milioni. Nell'attuale fase di crisi economica e sociale è importante che l'Unione Europea rafforzi il proprio impegno nella lotta a tutte le forme di xenofobia e di razzismo combattendo ogni forma di discriminazione legata all'origine nazionale, ai tratti somatici, alla lingua, alla religione, alle diversità culturali reali o presunte. La crescita di movimenti nazionalisti, populisti e xenofobi che utilizzano strumentalmente il tema delle migrazioni per accrescere il proprio consenso presso l'opinione pubblica rappresenta un pericolo per la costruzione di un'Europa democratica, solidale, coesa e di pace.

Chiediamo:
- la ratifica della Convenzione dell'ONU del 18/12/1990 "sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie";
- la garanzia del diritto di voto ai migranti residenti per le elezioni amministrative ed europee ed il riconoscimento della cittadinanza europea, armonizzando le leggi nazionali;
- la garanzia del diritto di accesso legale in Europa per ricerca di lavoro e per richiedere la protezione internazionale;
- l’abolizione dei centri di detenzione e la fine del diritto speciale per i migranti;
- di garantire la parità di accesso ai sistemi di welfare e al mondo del lavoro, combattendo con azioni concrete la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento lavorativo;
- la tutela dei diritti dei minori, garantendo la loro inespellibità, senza alcuna limitazione alla libertà personale.

«La tesi di chi sostiene un’uscita dell’Italia dall’euro è che in questo modo le aziende italiane potrebbero esportare di più grazie a una svalutazione della nuova lira. Ma è un’analisi che guarda al mondo di oggi con strumenti analitici del secolo scorso».

Lavoce.info, 20 maggio 2014 (m.p.r.)

Il mondo cambia. Negli ultimi giorni di campagna elettorale per le elezioni europee, continua vivace il dibattito sui costi e i benefici che l’Italia ha avuto dalla moneta unica, con posizioni divise tra chi ritiene che il nostro paese abbia sofferto oltre modo nell’euro a causa delle sue ancora irrisolte debolezze strutturali, e chi invece ritiene che la moneta unica sia la principale causa dei nostri mali. La tesi sostenuta da chi auspica un ritorno alla lira è molto semplice: “se tornassimo padroni della nostra moneta, potremmo monetizzare il nostro debito e compiere svalutazioni competitive per stimolare la domanda dei nostri beni da parte dei mercati esteri”.

Al di là dei costi associati all’uscita dalla moneta unica, su cui molti si sono espressi, quello che non convince di queste argomentazioni è (anche) la parte legata ai benefici. (1) Certo, storicamente svalutazioni competitive sono state associate in diversi paesi a guadagni di crescita, ma il punto è proprio questo: “storicamente”. Negli ultimi anni, e anche tenendo conto della crisi, la produzione si è frammentata internazionalmente, con flussi di commercio di beni intermedi tra paesi, organizzati (prevalentemente) dalle imprese multinazionali nell’ambito di catene globali del valore (o global value chains, Gvc). Per dare un’idea del fenomeno, l’Unctad stima che l’80 per cento del commercio globale (in termini di esportazioni lorde) sia oggi in qualche modo connesso a transazioni in cui almeno una delle controparti è un’impresa multinazionale che organizza una global value chain. (2)Ne consegue che l’esportazione “diretta” di beni e servizi sul mercato legata a un vantaggio di prezzo, ossia quella modalità di commercio cui le svalutazioni competitive danno beneficio e che viene “storicamente” registrata dalla letteratura economica, è probabilmente molto meno importante di prima.

Esportazioni e tasso di cambio oggi.Per capire come questa modalità di organizzazione della produzione possa attenuare di molto i benefici teorici delle svalutazioni competitive, prendiamo per esempio lo spazzolino da denti prodotto da una nota multinazionale europea e assemblato con componenti che provengono da siti produttivi localizzati in dieci diversi paesi (con dieci valute diverse), in tre continenti. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro nel determinare, da solo, la competitività del prodotto? Immaginando che sia assemblato fuori dall’Europa, per produrre il più vicino possibile al mercato di riferimento, come accade peraltro per la gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia, cosa c’entrerebbe l’euro con il successo di queste aziende?

In generale, la letteratura economica che ha analizzato questi effetti limitandosi all’evidenza degli ultimi anni, ossia da quando le catene globali del valore hanno un impatto significativo sui flussi di commercio, suggerisce che non esiste una relazione statisticamente forte tra profitti delle aziende e livello dei tassi di cambio, né questa relazione sembra differenziarsi, come dovrebbe, tra settori esposti alla concorrenza internazionale (il manifatturiero in generale) e settori che per loro caratteristica (come i servizi alla persona) restano locali. (3)

Effetti per l'italia. Ma come si posiziona l’Italia rispetto a queste dinamiche? Per rispondere, possiamo guardare ai dati recentemente pubblicati dall’Oecd che fanno vedere come l’importanza dei diversi mercati di esportazione del nostro paese cambia se distinguiamo tra esportazioni lorde (ossia dove vanno fisicamente i nostri beni quando escono dai confini nazionali) ed esportazioni in valore aggiunto (ossia quale domanda viene servita dai nostri beni quando escono dai confini nazionali, ma entrano nella produzione di beni di altri paesi prima di essere consumati). Come si può vedere dai grafici sottostanti, quello che emerge è che la Germania è di gran lunga al primo posto come mercato di sbocco delle nostre esportazioni (lorde). Ma se guardiamo al principale mercato dalla cui domanda dipendono le nostre esportazioni, scopriamo che è quello degli Stati Uniti. (4)

Se ne deduce che l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli USA. (5) L’evidenza è peraltro coerente con il dato che, a livello mondiale, vede l’Europa come il mercato in cui maggiormente si è integrata la produzione regionale tra paesi, Italia inclusa.

Cosa succederebbe, allora, se applicassimo questa realtà a un sistema di monete locali e non di moneta comune, ipotizzando una svalutazione della lira, ma non dell’euro tedesco? Innanzitutto, per la parte di esportazione “diretta”, potremmo in teoria vendere di più. Tuttavia, oggi l’80 per cento del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore, e mentre uscire da una value chain è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente. Non basta quindi costare di meno per essere automaticamente ammessi al desco della produzione internazionale di beni, e d’altra parte i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali, resterebbero immutati.

Inoltre, i dati disponibili dimostrano come esista una relazione positiva e statisticamente significativa tra variazione della quota di mercato delle nostre esportazioni in un dato settore e la variazione (ritardata) della quantità di beni esteri che quel settore utilizza per l’esportazione: in sintesi, al giorno d’oggi per esportare di più è necessario importare di più. E dunque svalutare in un sistema di Gvc, oltre a non garantire necessariamente maggiori vendite, si tradurrebbe sicuramente anche in un costo per le nostre imprese.

Per quel che riguarda l’esportazione “indiretta” (che pesa per oltre il 20 per cento dell’export italiano), bisogna chiederci cosa succederebbe alla domanda americana di beni tedeschi, da cui in ultima analisi dipende parte della domanda tedesca di beni italiani. Agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco–dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più. Con una svalutazione della nuova lira, se decidessero di non modificare i loro prezzi, le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia. In compenso le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania.

Dunque, un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia: sono queste le conseguenze se si guarda al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso.

(1) Si veda in particolare A. Baglioni “Uscire dall’euro? No, grazie”, e C. Altomonte e T. Sonno, “L’Italia alla sfida dell’euro”, www.sfidaeuro.it.
(2)Unctad, “Global Value Chains and Development, Investment and Value Added Trade in the Global Economy”, 2013
(3) M. Amiti, J. Konings e O. Itskhokiin “Importers, Exporters, and Exchange Rate Disconnect” del 2012, dimostrano che le grandi imprese esportatrici (importatrici) sono decisamente poco influenzate dai cambiamenti nei tassi di cambio. Nello specifico, gli autori mostrano come le aziende connesse internazionalmente sono in grado di assorbire in maniera indolore quasi il 50 per cento della eventuale variazione di cambio. Poiché in ogni paese le grandi aziende esportatrici rappresentano circa il 70-80 per cento del valore delle esportazioni, di fatto oggi abbiamo una situazione per cui una gran parte dell’export di uno stato europeo è in realtà parzialmente isolato dall’effetto del tasso di cambio.
(4) Per una distinzione tra esportazioni lorde ed esportazioni in valore aggiunto, e una completa analisi di queste dinamiche sull’export italiano si veda R. Cappariello e A. Felettigh “How does foreign demand activate domestic value added? A dashboard for the Italian economy”, mimeo.
(5) Tutte queste informazioni e i dati sono liberamente scaricabili dal sito dell’Oecd.

Eccezionale! Il giornale fondato da Eugenio Scalfari scopre che alle elezioni europee partecipa anche Alexis Tsipras, e non solo Renzi e Grillo. E si accorge perfino che il leader della lista europea "L'altra Europa" non è trinariciuto. La Repubblica, 20 maggio 2014

Gli studenti della Statale a Milano, gli operai senza lavoro a Torino e il bagno di folla e musica in piazza Maggiore a Bologna. Per un giorno Alexis Tsipras è stato, anche fisicamente, il leader della sinistra italiana. Si è mosso - sempre in treno - come un capo nostrano scortato dalle sue truppe. Foto ricordo, autografi, pugni chiusi. 24 ore per dire che “L’altra Europa”, quella che non strangola i cittadini con le politiche cieche di austerity, è possibile. Ha 39 anni, è greco, parla inglese. E’ moderato nel linguaggio (ma solo i toni), sorridente, anche ironico. Per esempio quando gli chiedono se la buona affermazione in Grecia di Syriza, il suo partito, può far da volano alle sorti meno entusiasmanti della sinistra italiana. Lui risponde: «Una faccia una razza». Se Atene si tira su, può succedere anche a Roma.
Nel corso di tutta la campagna elettorale in tanti hanno pronunciato il suo nome senza conoscerlo. Ieri terza missione in Italia, l’ultima prima del voto. Eccolo il candidato presidente alla commissione europea. Parla a Milano, davanti alla Statale. E spiega che lui non è Grillo, non vuole la distruzione dell’euro: «L’euro è uno strumento per cambiare le nostre vite, una moneta comune in un’Europa in cui non ci devono essere proprietari e inquilini». Dice: «Non ho i capelli e la barba di Grillo». Cioè sono diverso: «Non basta urlare, denunciare, bisogna avere proposte alternative. Per essere credibili i 5 Stelle dovrebbero fare alleanze sociali più vaste». La politica è una cosa seria, insinua Alexis, che qualcuno ha definito Davide contro Golia. Non bisogna interpretare queste elezioni — avverte — come «un derby Renzi/Grillo»: «Qui si tratta di cambiare gli equilibri dell’Europa, di uscire da politiche che hanno distrutto il welfare, creato milioni di senza lavoro, ucciso le speranze dei giovani». Ci vuole un nuovo inizio, «un New Deal europeo». Magari anche una legislazione contro la corruzione: «Da voi l’Expo, da noi le Olimpiadi di Atene nel 2004». Una faccia, una razza.

Si fermano ad ascoltarlo. Scusi chi è quello? «E’ Tsipras, della Lista Tsipras». Ah, ecco. Fa una buona impressione alle signore: «Sembra Banderas». E conquista i vecchi compagni che si mescolano agli studenti quando se ne va dalla piazza alzando il pugno chiuso. Tsipras che non le manda a dire a Renzi: «Il suo Pd ha applicato le politiche proposte dalla destra popolare e dopo le elezioni potrebbe accordarsi con Berlusconi, il che non è buono per il popolo italiano». Tsipras che, però, non è affatto trinariciuto, non chiude la porta a Schulz, visto mai che si allenti l’alleanza «mortale» con i conservatori e il Pse torni ad essere «più di sinistra ». Per raggiungere Torino — seconda tappa — il candidato presidente sceglie l’Alta Velocità, ma niente bar, gli comprano i panini. Stazione Centrale: i fotografi gli chiedono di fare ciao prima di salire a bordo. Esegue perplesso ed è anche la prima volta che concede interviste sul treno.

«Da noi — spiega Danai, la sua addetta stampa — le linee ferroviarie sono pochissime». «La Grecia in miseria, con tre milioni di persone che non hanno più accesso alle cure. Non ve lo dico per suscitare compassione ma per farvi capire che la Grecia è stata una cavia di questa crisi. Se non cambia la politica in Europa, succederà anche in altri Paesi quel che è successo da noi». Arrivano gli ultimi dati delle amministrative da Atene. Tsipras è soddisfatto: «E’ un segno che il cambiamento è possibile anche altrove». Si informa dei sondaggi italiani: «Mi preoccupa l’astensione e certo anche la soglia del 4 per cento... » Sul treno c’è Paolo Ferrero, alla stazione di Torino lo aspetta Marco Revelli.
Via sul palchetto davanti a Palazzo Nuovo, sede dell’università di Torino. Bandiere No Tav, la platea che intona Bella Ciao: «Compagne e compagni, sono molto fiero per voi». Si sforza di parlare italiano: «Andate a votare per “L’altra Europa”, dobbiamo voltare le spalle al populismo di destra e al neoliberismo ». La sinistra «come terza forza», dice Tsipras. E fa sognare gli orfani di vittorie: «C’è un blocco per l’austerità, con i popolari, i socialdemocratici e i liberali; c’è un blocco fascista; e poi ci siamo noi, la sinistra alternativa ».
A Bologna, gran finale. I compagni gli hanno preparato il bagno di folla, le luci di piazza Maggiore, gli ospiti illustri. Via video arriva l’appoggio di Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli uccisi dai fascisti. Il compagno Alexis ringrazia, benedice e torna ad Atene.

Le sfide, in Europa e in Italia: «l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico».

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014

Per la prima volta, le elezioni per il Parlamento europeo rappresentano un appuntamento che va oltre la composizione dell'assemblea di Bruxelles, un'istituzione che ha ancora pochi poteri e incide in modo limitato sulle scelte della Commissione e del Consiglio europeo. Si tratta di un voto che definirà l'intero quadro politico per l'Europa e per i paesi membri, la cornice in cui si muoveranno nei prossimi anni istituzioni europee e governi nazionali, tecnostrutture di Bruxelles e Francoforte e soggetti sociali.

Il 25 maggio si vedrà se la sinistra e i movimenti avranno uno spazio significativo per rappresentare le vittime della crisi e gli insubordinati d'Europa, accrescere il proprio peso e condizionare la politica dei prossimi anni. Sappiamo che dal voto emergerà una forte ventata populista e antieuropea, figlia delle politiche di austerità di questi anni. Con queste pulsioni di destra e demagogiche dovremo fare i conti per lungo tempo, senza scorciatoie e tatticismi. Un populismo sbagliato non si combatte – come vorrebbe Matteo Renzi – con un altro dall'alto, che occupa i media e nasconde la gravità dei problemi dietro la velocità delle mosse propagandistiche.

Quattro sono le sfide che la sinistra e i movimenti dovranno affrontare in Europa: l'allargamento della democrazia, la fine delle politiche di austerità, la regolamentazione dei mercati finanziari, la promozione di un New Deal sociale ed ecologico. Si tratta di sfide che riguardano l'insieme dell'Europa, come ci ricorda l'appello della Rete europea degli economisti progressisti. Ma si tratta di questioni vitali per l'Italia: qui il governo Renzi persegue con coerenza le vecchie politiche: prosegue con l'austerità, precarizza ancora di più il lavoro, taglia massicciamente la spesa pubblica e soprattutto quella sociale, vara nuove privatizzazioni, riduce al minimo gli investimenti pubblici e ridimensiona il ruolo dell'intervento pubblico. Basta leggersi l'ultimo Documento di economia e finanza del governo per rendersene conto. I partiti che fanno riferimento al Partito socialista europeo non sanno bene cosa fare, avendo già fatto molti guai in passato. Da una parte si rendono conto di essere stati subalterni alle politiche neoliberiste di Angela Merkel e della Commissione europea, e che questa strada sta portando l'Europa (e la sinistra moderata) al precipizio. Dall'altra, in Germania come in Italia, si sono installati in governi di larghe intese che hanno al centro proprio la filosofia e le politica dell'austerità. Le stesse larghe intese rischiano di traslocare a Bruxelles per l'elezione del Presidente della Commissione europea. Democristiani e socialisti si contenderanno il primato, ma anche nel caso di un relativo successo di Martin Schulz, la sua alleanza con Angela Merkel è più che probabile: dove sarà allora il cambio di rotta per le fallimentari politiche dell'Europa? Lo scenario vede la contrapposizione tra una tecnocrazia neoliberista con il sostegno politico dei governi di larghe intese e un populismo antieuropeo che gioca la carta dell'anti-politica. In questo quadro la sinistra che sostiene la candidatura di Alexis Tsipras può giocare una partita importante: indicare la via di un cambiamento e diventare determinante nel Parlamento europeo. In Italia può ricostruire uno spazio aperto e plurale in cui riaggregare forze, persone e movimenti interessati a ricostruire una politica di sinistra. L'esperienza della lista Un'Altra Europa con Tsipras ha mostrato problemi e difficoltà, ma anche che c'è la possibilità - dandosi il tempo necessario - di far maturare una cultura politica comune e costruire efficaci strumenti d'iniziativa. Comunque andrà, il percorso è segnato. Non si può tornare a logiche superate e minoritarie. A sinistra del Pd - e tra il Pd e Grillo - c'è uno spazio politico che deve essere esplorato e generosamente costruito, oltre le vecchie appartenenze, per dare un senso alla prospettiva delineata in questi mesi, l'unica possibile per disegnare il futuro di una sinistra radicale e pragmatica, capace di scommettere sulla trasformazione dell'Europa e dell'Italia.

«Domenica 25 si vota per il futuro dell'Ue. Tra euroscettici ed europeisti neoliberali, esiste una terza via: la proposta di un progetto europeo che offra un'alternativa al modello egemone, in preda a una gramsciana «crisi organica». Syriza può essere il collante dell'antagonismo».

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014

Le prossime elezioni europee dovrebbero essere considerate l'occasione per una competizione agonistica sul futuro dell'Unione. Una competizione, che oggi è assolutamente fondamentale. Molti a sinistra cominciano a dubitare che si possa realizzare, all'interno dell'attuale costruzione europea, un'alternativa al modello neoliberale di globalizzazione. E l'Unione europea è sempre più percepita come un progetto intrinsecamente neoliberale che non può essere riformato. In tal senso, appare inutile provare a trasformare le sue istituzioni, e l'unica strada possibile è quella dell'uscita.

Ma questa visione pessimistica deriva indubbiamente dal fatto che tutti i tentativi di contrastare le regole neoliberali dominanti vengano sistematicamente presentati come la mera espressione di attacchi anti-europei contro l'esistenza stessa dell'Unione. Non può certo sorprendere che un numero crescente di cittadini, privati della possibilità di avanzare legittime critiche alle politiche neoliberali, sia diventato euroscettico. Essi credono che il progetto europeo sia proprio la causa della condizione di emergenza che stiamo vivendo e temono che una maggiore integrazione comunitaria porti soltanto al rafforzamento dell'egemonia neoliberale.

Questa posizione minaccia la sopravvivenza del progetto europeo e l'unico modo per arrestare la sua diffusione consiste nel creare le condizioni per una contestazione democratica all'interno dell'Unione europea. Dal mio punto di vista, alla base della disaffezione nei confronti della Ue vi è la mancanza di un progetto che favorisca una forte identificazione tra i suoi cittadini e fornisca un obiettivo per mobilitare democraticamente le loro passioni politiche. La Ue è formata da consumatori, non da cittadini: è stata costruita essenzialmente intorno a un mercato comune e non ha mai creato una volontà comune. Nessuna sorpresa, quindi, se in tempi di crisi economica e di politiche di austerità più di qualcuno inizi a mettere in dubbio la sua utilità, dimenticando che l'Unione europea ha contribuito in modo decisivo alla pacificazione del continente. Ciò che serve in questa congiuntura è rafforzare il consenso popolare nei confronti dell'Unione grazie all'elaborazione di un progetto socio-politico finalizzato ad offrire un'alternativa al modello neoliberale che ha prevalso negli ultimi decenni: quel modello è ora in crisi, ma un altro ancora non esiste. Si potrebbe dire, sulle orme di Gramsci, che stiamo assistendo a una «crisi organica» in cui il vecchio modello non può più durare, mentre il nuovo modello non è ancora nato.

Purtroppo la sinistra non è in grado di trarre vantaggi da questa situazione, perché ha accettato per troppo tempo l'idea che alla globalizzazione neoliberale non vi sia alternativa. In molti paesi, i governi di centro-sinistra hanno giocato un ruolo fondamentale nel processo di deregolamentazione e privatizzazione che ha contribuito a consolidare l'egemonia neoliberale. E non si può negare che le istituzioni europee abbiano la loro parte di responsabilità nella crisi attuale. È un errore, però, concepire questa crisi come una crisi del progetto europeo. Si tratta piuttosto di una crisi della sua incarnazione neoliberale, ed è per questo che i tentativi di risolverla somministrando una dose ancora più forte di politiche neoliberali non può avere alcun successo. Per combattere il dilagare di sentimenti anti-europei e fermare la crescita dei partiti della destra populista che eccitano tali sentimenti, è urgente offrire ai cittadini europei un progetto politico che possa dar loro la speranza di un futuro diverso, più democratico.

Fortunatamente in molti paesi d'Europa sono nati partiti che si pongono a sinistra delle socialdemocrazie e che sfidano il loro centrismo. Organizzati nel Partito della Sinistra europea, lavorano per un'alternativa all'egemonia neoliberale e hanno deciso di lanciare un'offensiva a livello continentale. Così, in occasione del quarto Congresso che si è tenuto a Madrid dal 13 al 15 dicembre 2013, hanno scelto di candidare il leader di Syriza in Grecia, Alexis Tsipras, alla presidenza della Commissione europea con l'obiettivo di proporre un altro modello per l'Unione. Syriza è una coalizione di partiti e movimenti sociali, e da questo connubio può istituirsi lo spazio per mobilitare la vasta costellazione di forze sociali che si oppongono alle attuali politiche della Ue. In molti paesi i movimenti sociali hanno risposto positivamente all'appello del Partito della Sinistra europea a sostegno della candidatura di Tsipras, e sono ora impegnati a organizzare la loro partecipazione alla campagna politica. In Italia, per esempio, hanno dato vita a una Lista Tsipras per sostenere il programma che Tsipras ha presentato accettando la sua candidatura alle elezioni europee. Si tratta di uno sviluppo molto promettente, perché soltanto sulla base di una sinergia a livello europeo tra partiti della sinistra e movimenti sociali è possibile costruire una soggettività in grado di portare a una trasformazione radicale dell'attuale ordine neoliberale.

«Dai social forum agli Indignados, la protesta si è spostata nelle piazze. Ma i movimenti soffrono la mancanza di un coordinamento europeo». Non solo di questo soffrono, ma ne riparleremo: la discussione è già aperta.

Sbilanciamoci.info, newsletter n. 330, 19 maggio 2014

Le elezioni europee saranno le prime ad avere luogo nel pieno della Grande Recessione. I sondaggi - inclusi quelli promossi dalla Commissione Europea per mezzo di Eurobarometer - mostrano chiaramente gli effetti che la crisi finanziaria ha avuto sulla fiducia dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni europee. Fiducia che ha subìto un calo drammatico, passando dal 57% della primavera del 2007 al 31% dell'autunno dell'anno scorso.

La crescente sfiducia nell'Ue va di pari passo con un aumento drammatico nella percentuale di cittadini nei quali l'Ue suscita un'immagine negativa, che è addirittura raddoppiata (dal 15 al 28%), mentre la percentuale di coloro nei quali suscita un'immagine positiva è crollata (passando dal 52 al 31%). Nel frattempo, la porzione della popolazione che si dichiara ottimista nei confronti degli sviluppi futuri dell'Ue è scesa da 2/3 alla metà del totale, mentre la porzione che si dichiara pessimista ha raggiunto i 2/3 del totale in Portogallo, Grecia e Cipro. I sondaggi ci rivelano anche quanto il tracollo di legittimità politica delle istituzioni sia legato alla crisi finanziaria e in particolare alle politiche di austerità. La metà degli intervistati (e i 2/3 in Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro) pone la disoccupazione in cima alle proprie preoccupazioni, seguita dalla situazione economica. Solo il 14% considera il debito pubblico un problema. Il calo di fiducia va di paro passo col mutato giudizio nei confronti della situazione economica nazionale, che registra un aumento significativo nella percentuale - pari quasi al 100% nei paesi del Sud Europa - di coloro che la considerano totalmente negativa. È in rapido aumento anche la percentuale di intervistati (2/3) che ritiene di non avere voce in capitolo in merito alle decisioni prese dall'Ue; percentuale che aumenta drammaticamente (fino a 4/5) nei paesi dell'Est e del Sud Europa.

L'impatto degenerativo dell'«Europa del mercato» in termini di benessere economico e dell'«Europeizzazione dall'alto» in termini di consenso politico è oggetto di dibattitto tra i movimenti sin dai tempi del primo Forum Social Europeo, tenutosi a Firenze nel 2002. La speranza di riuscire a contribuire alla creazione di un'Europa più giusta e inclusiva è però andata in frantumi nel corso di quel decennio, in cui la crisi finanziaria ha dimostrato sia il radicamento delle idee neoliberiste all'interno delle istituzioni Ue che la l'incapacità di queste ultime di tenere fede alle loro promesse. La crisi finanziaria globale ha infatti accentuato gli effetti divergenti della moneta unica in termini di disuguaglianze territoriali. L'assenza di investimenti finalizzati al miglioramento delle loro infrastrutture socioeconomiche ha reso le periferie dell'Ue non solo più vulnerabili alla crisi, ma anche più dipendenti. Le politiche monetarie (del tutto insufficienti) messe in atto in seguito alla crisi finanziaria hanno dimostrato l'influenza dell'ideologia neoliberista sull'Ue in generale, e sulla Bce in particolare. L'illusione della federazione, e del riconoscimento dei diritti degli stati più deboli, è svanita di fronte alle pesanti conditionalities imposte ai paesi più colpiti dalla crisi economica, che sono stati costretti a sacrificare quel poco di sovranità nazionale rimasta in cambio di aiuti materiali. Questi mutamenti nelle istituzioni dell'Ue si riflettono nell'atteggiamento assunto dai movimenti progressisti nei loro confronti.

Laddove all'inizio del millennio il lavoro dei movimenti per la giustizia globale si era concentrato sull'elaborazione di una visione critica dell'Europa, oggi le proteste anti- austerity sembrano improntate alla difesa di ciò che è rimasto delle sovranità nazionali, perlomeno nelle economie più deboli. L'europeismo critico esiste ancora, ma la fiducia nella riformabilità delle istituzioni europee, e nella possibilità di influenzare le politiche europee per mezzo delle attività di lobbying e di consultazione, è stata messa a dura prova. Alla base di molte delle proteste anti- austerity, infatti, soggiace l'idea che la democrazia rappresentativa sia stata irrimediabilmente corrotta dall'intreccio tra potere economico e politico. Il fatto che le istituzioni sono considerate non-rappresentative si riflette negli studi che indicano che coloro che partecipano alle proteste hanno sempre meno fiducia nelle istituzioni democratiche, a tutti i livelli territoriali.

Se compariamo, per esempio, le risposte date al questionario sottoposto ai partecipanti del Forum Sociale Europeo del 2002 con quelle date allo stesso questionario dieci anni dopo, in occasione del forum Firenze 10+10, notiamo un calo drammatico nella percentuale di coloro che dichiarano di avere fiducia nei parlamenti, nei partiti e nei sindacati nazionale, ma anche nell'Ue e nelle Nazioni Unite. Allo stesso tempo, notiamo un aumento nella percentuale di persone che ritengono che, per raggiungere gli obiettivi del movimento, sia necessario aumentare i poteri dei governi nazionali. Questa sembra essere una reazione diffusa all'usurpamento di sovranità nazionale prodotto dalla crisi, in particolare nei paesi della periferia europea. Le modalità di mobilitazione e di azione dei movimenti anti- austerity riflettono questo cambiamento. I contro-summit e i Forum sociali europei sono stati rimpiazzati dalle occupazioni delle piazze pubbliche, in cui gli occupanti puntano a ricostruire i processi democratici - dal basso e a livello locale. Le acampadas degli indignados e dei movimenti Occupy possono essere considerate una forma di politica prefigurativa, orientata a incarnare i processi democratici in prima persona piuttosto che a relazionarsi con un sistema considerato ormai incapace di implementare la democrazia. Se compariamo i forum sociali con le più recenti proteste contro le politiche di austerità, possiamo cogliere delle similitudini nella critica della visione neoliberista della democrazia rappresentativa, ma anche delle differenze. In particolare, le tensioni nel rapporto con i partiti politici (e le istituzioni democratiche in generale), che erano già presenti nei forum, nelle ondate successive di protesta si sono fortemente radicalizzate, caratterizzandosi per un rifiuto diffuso di stringere alleanze con i partiti e persino con le associazioni politiche, considerati strumenti (corrotti) di dominio. Parallelamente, se è vero che gli appelli per un'altra Europa sono ancora udibili, le crescenti disuguaglianze territoriali, e l'asimmetria degli impatti della crisi globale, rendono più difficile il coordinamento a livello europeo. I tentativi di stringere alleanze di movimento a livello transnazionale rimangono sporadici e soffrono della mancanza di eventi catalizzatori, quali summit anti-Ue e Forum sociali europei.

Il nuovo contesto politico ci costringe a ripensare molte delle strategie per lo sviluppo democratico delle istituzioni dell'Ue e pone l'accento sulla necessità di elaborare una strategia di lotta multilivello se vogliamo incidere su un piano istituzionale che si è dimostrato sempre più impermeabile alle forme di pressione sperimentate in passato.

«»

Il manifesto, 18 maggio 2014 (m.p.r.)

Nel giorno in cui Beppe Grillo ha con­qui­stato i pal­co­sce­nici media­tici tanto odiati con qual­che bat­tuta a effetto su Hitler, Sta­lin, Schulz e Angela Mer­kel, men­tre Sil­vio Ber­lu­sconi gli con­ten­deva invano la «mar­cia su Roma», la piazza romana dei movi­menti è apparsa, al con­fronto, un’oasi di tran­quil­lità e buon­senso. Non sfon­derà per que­sto gli schermi e le prime pagine dei gior­nali, eppure è stata l’unica, nel lin­guag­gio sopra le righe della cam­pa­gna elet­to­rale, ad avan­zare richie­ste pre­cise e porre le domande giu­ste ai palazzi sem­pre più chiusi e auto­cen­trati della poli­tica: che ne sarà del refe­ren­dum sull’acqua pub­blica e i beni comuni con la nuova ondata di pri­va­tiz­za­zioni alle porte? Cosa acca­drà alle migliaia di per­sone costrette gio­co­forza a occu­pare una casa una volta che sarà appro­vato l’articolo 5 della legge Lupi che proi­bi­sce loro di allac­ciare l’acqua e l’energia elet­trica? Su cosa pun­terà le sue risorse il governo Renzi, sulle tri­vel­la­zioni petro­li­fere o sulle ener­gie rin­no­va­bili? È pos­si­bile una poli­tica dei rifiuti che non con­tem­pli sem­pre e solo inceneritori?

Que­stioni con­crete, ambien­tali e sociali, che inci­dono diret­ta­mente sulle vite delle per­sone e coin­vol­gono ter­ri­tori già deva­stati da decenni di incu­ria e spe­cu­la­zioni, ma fuori da un’agenda poli­tica che ormai da anni non tiene conto degli umori delle piazze e delle richie­ste dei movi­menti, per­sino le più ragio­ne­voli. Anche la mani­fe­sta­zione di ieri rischia di rima­nere ina­scol­tata. Nella migliore delle ipo­tesi, sarà con­se­gnata al fol­klore media­tico dei cor­tei paci­fici e colo­rati, lo spec­chio rove­sciato di quello dello scorso 12 aprile, che ha con­qui­stato gli onori delle cro­na­che per gli scon­tri nelle vie della Dolce vita e una ragazza cal­pe­stata come uno zai­netto senza per que­sto che, ancora una volta, si discu­tes­sero le que­stioni che poneva: ancora una volta la casa, e poi le grandi opere e lo sfrut­ta­mento del lavoro, que­stione cen­trale oggi in Ita­lia e in Europa.

C’è poi una que­stione più gene­rale: l’austerità che sta stran­go­lando il sud del con­ti­nente. Su que­sto le forze poli­ti­che che si oppon­gono ad essa hanno l’obbligo di dimo­strare che fanno sul serio. È que­sto il loro com­pito prin­ci­pale ed è su que­sto ter­reno che si gioca il loro consenso.

«Bell'ambiente. La molteplicità dell’opposizione sociale: lotte ambientali, teatri occupati, studenti, centri sociali, Cobas, Usb e la Fiom, il diritto all’abitare. ma è necessario un salto di qua­lità nella costru­zione di una rete tra i movi­menti che si bat­tono per i beni comuni utile a raf­for­zare anche le sin­gole ver­tenze sui territori».

Il manifesto, 18 maggio 2014
Ogni giorno ti sve­gli e sai che tro­ve­rai degli osta­coli, che dovrai oltre­pas­sare i limiti e dovrai esporti. Sono le scritte che appa­iono in alcuni video dif­fusi in rete dal tea­tro Valle occu­pato per lan­ciare la mani­fe­sta­zione per i beni comuni e con­tro le pri­va­tiz­za­zioni e le grandi opere che ieri ha visto sfi­lare decine di migliaia di per­sone (50 mila per gli orga­niz­za­tori) da piazza Repub­blica a piazza Navona a Roma.

Nei video si vede una nuo­ta­trice, una pal­la­vo­li­sta, un ten­ni­sta e un cor­ri­dore impe­gnati a bat­tersi con­tro gli osta­coli al diritto alla città e al tra­sporto, all’accesso ai beni comuni e alla cul­tura, agli spazi pub­blici in dismis­sione e da rige­ne­rare per esi­genze abi­ta­tive. «Il movi­mento fa bene» è il titolo di una cam­pa­gna che ieri ha spinto molte per­sone a sfi­lare in tenuta da podista.

La nuo­ta­trice invita ad immer­gersi nella città tuf­fan­dosi in una fon­tana. Con que­sto vuole invi­tare a man­te­nere il diritto al dis­senso e a non temere il mini­stro degli interni Alfano vuole chiu­dere il cen­tro di Roma alle mani­fe­sta­zioni per «evi­tare sac­cheggi» che non ci sono mai stati. In un altro video la pal­la­vo­li­sta schiac­cia la palla con­tro uno sten­dardo dell’Expo 2015 a Milano e segna un punto con­tro il sistema dei grandi eventi, e delle grandi opere che deva­stano i ter­ri­tori, assor­bono milioni di euro in un modello di svi­luppo che non redi­stri­bui­sce ric­chezza e ampli­fica il sistema della cor­ru­zione. Il ten­ni­sta lan­cia la sua palla con­tro il muro inva­li­ca­bile di una caserma, molte delle quali ver­ranno dismesse, e chiede che siano usate come «patri­mo­nio comune», affi­date cioè ai comi­tati e ai movi­menti che si stanno auto-organizzando in tutto il paese per gestire edi­fici, casali, ter­ri­tori, isole come Pove­glia a Vene­zia e la sua laguna con­tro il pas­sag­gio di quei mostri gal­leg­gianti che sono le navi crociere.

Dalla Sici­lia con il movi­mento No Muos alla Valle di Susa con i No Tav, dalle reti cam­pane di «Stop Bio­ci­dio» alla cam­pa­gna con­tro il par­te­na­riato trans-atlantico per il com­mer­cio e gli inve­sti­menti (Ttip ) dalla lista «L’Altra Europa con Tsi­pras» al Forum dell’Acqua pub­blica pas­sando per la Fiom, l’Unione Sin­da­cale di Base, i Cobas e gli stu­denti di Link e dell’Uds, ieri a Roma è sfi­lato un cor­teo gio­ioso e colo­rato che ha mostrato la com­plessa arti­co­la­zione delle que­stioni sociali, ambien­tali, abi­ta­tive o eco­no­mi­che attorno alle quali si è rior­ga­niz­zata l’opposizione sociale nel nostro paese. Dal palco improv­vi­sato su un camion per i comizi finali gli orga­niz­za­tori della mani­fe­sta­zione hanno più volte invi­tato ad un «salto di qua­lità nella costru­zione di una rete tra i movi­menti che si bat­tono per i beni comuni utile a raf­for­zare anche le sin­gole ver­tenze sui territori».

Una richie­sta che nasce dall’esigenza di non restare iso­lati in un con­te­sto dove il dibat­tito pub­blico è ancora sal­da­mente ispi­rato dai para­me­tri della cosid­detta «auste­rità espan­siva»: il pareg­gio di bilan­cio; i tagli alla spesa pub­blica per finan­ziare uno sten­tato rilan­cio dei con­sumi; il taglio del debito pub­blico anche attra­verso dismis­sioni e privatizzazioni.

In que­ste con­di­zioni, come ha ricor­dato Luca Fagiano del coor­di­na­mento romano di lotta della Casa, lo spa­zio per il dis­senso, come per un modello alter­na­tivo di società o svi­luppo, viene can­cel­lato insieme ad ogni pos­si­bi­lità di media­zione. Sgom­beri vio­lenti, divieti a mani­fe­stare, l’attacco ven­di­ca­tivo alle occu­pa­zioni delle case rap­pre­sen­tato dall’articolo 5 del «piano Lupi» sull’emergenza abi­ta­tiva sul quale il governo chie­derà la fidu­cia alla Camera lunedì pros­simo, l’espropriazione dei beni comuni e cul­tu­rali non sem­brano offrire spa­zio per il pos­si­bile. Con­tro que­sta ten­denza ieri è stata ricon­fer­mata l’esigenza di auto-organizzazione su base locale e nazio­nale tanto più viva quanto più avanza l’impoverimento di ampie fasce della popo­la­zione, sot­to­po­ste a per­dita del lavoro, del red­dito, della pos­si­bi­lità di accesso ai ser­vizi, ai danni ambientali.

«È stata una grande mani­fe­sta­zione molto par­te­ci­pata — ha detto Paolo Car­setti del movi­mento per l’acqua — decine di realtà sono scese in piazza per riba­dire il rifiuto alle pri­va­tiz­za­zioni, nono­stante i divieti della pre­fet­tura ad alcuni pas­saggi sim­bo­lici come quello in via Goito sotto la Cassa Depo­siti e Pre­stiti o in via XX set­tem­bre al mini­stero dell’Economia su dik­tat del mini­stro Alfano». Con­ti­nua ad essere molto sen­tita la pole­mica sui numeri iden­ti­fi­ca­tive delle forze dell’ordine in ser­vi­zio. Si è par­lato in que­sti giorni di fan­to­ma­ti­che micro-camere indos­sate dagli agenti in piazza, oppure dai loro capo­squa­dra, per iden­ti­fi­care pre­sunti mani­fe­stanti vio­lenti. Dopo un’accurata ricerca, svolta da parec­chi mani­fe­stanti, nes­suno le ha tro­vate addosso agli agenti schie­rati in gran numero per bloc­care tutti gli accessi a Piazza Vene­zia, come in tutto il cen­tro sto­rico di Roma dove sono spun­tate decine di camio­nette, anche con gli idranti, fino a piazza Navona.

In com­penso sono state notate le 350 pet­to­rine indos­sate da altret­tanti mani­fe­stanti. Sono state dif­fuse dal tea­tro Valle e dall’Angelo Mai in cor­teo nello spez­zone «uni­ted com­mo­ners of europe rise up!» com­po­sto anche da stu­denti e pre­cari. Cia­scuna aveva stam­pato il nome di un musi­ci­sta, di un filo­sofo, di un arti­sta o un attore con il quale essere iden­ti­fi­cati. Da Mary­lin Mon­roe a Chri­sto, da David Bowie fino a Nino Man­fredi, un popolo di per­so­naggi è sfi­lato ieri a Roma chie­dendo di essere iden­ti­fi­cato per il valore sin­go­lare che cia­scuno possiede.

Un minuto di silen­zio è stato osser­vato in piazza Navona in memo­ria di Nicola Dar­cante, un ope­raio dell’Ilva di Taranto di 38 anni, padre di due bam­bini, morto per un tumore alla gola. Insieme a lui sono stati ricor­dati i 100 mina­tori morti in Tur­chia e le lotte con­tro il governo Erdo­gan e l’attivista zapa­ti­sta Galeano ucciso dall’esercito mes­si­cano pochi giorni fa. Il movi­mento della casa tor­nerà a Mon­te­ci­to­rio alle 16 di lunedì ancora una volta per pro­te­stare con­tro l’approvazione del «piano Lupi»

Generosi e intelligenti sforzi per rimediare, almeno in parte, all'inaudito oscuramento mediatico subìto dalla lista "L'altra Europa con Tsipras.

Il Fatto quotidiano online, 18 maggio 2014

Non è un mistero per nessuno che la Lista L’Altra Europa con Tsipras abbia subito un oscuramento mediatico inaudito. Ma anziché gridare allo scandalo, un gruppo di geniali professionisti milanesi si è messo all’opera e, gratuitamente, con passione, divertimento e senso della sfida, ha realizzato quattro video inventati e realizzati in poco più di una settimana: attori, attrici, regista, fonico, truccatrice, autori…e la voce fuori campo di Moni Ovadia.

Gli argomenti, giocati con ironia e con un rovesciamento finale, sono la disoccupazione, il disastro scolastico, il crescente ricorso alle mense dei poveri e l’erosione dell’assistenza sanitaria per i più deboli. Non sono argomenti scelti a caso, perché figurano tra i maggiori parametri utilizzati dagli specialisti per stabilire quando ci si trova di fronte a una crisi umanitaria. La novità inaudita dell’Europa delle tecnocrazie – dapprima in Grecia, e sempre più anche in Italia – è che lo scenario di bisogno e abbandono che si era soliti collocare nel cosiddetto Terzo mondo, sempre più ci riguarda e ci interroga. E non in conseguenza di sciagure naturali, epidemie o guerre civili, ma di politiche economiche scientemente decise e imposte da un potere sovranazionale cui i governi democratici si assoggettano.

Tra i parametri con cui – secondo i dati elaborati due anni fa da Amnesty International – si stabilisce che un paese fronteggia una crisi umanitaria, vi è la crescita percentuale del numero di persone “autoctone” che chiedono pacchi viveri e necessitano di rivolgersi alle mense pubbliche per mangiare; la crescita percentuale delle persone che si rivolgono ai presidi sanitari delle Ong per gli immigrati (è il caso delle strutture di Emergency, soprattutto nel sud d’Italia, alle quali chiedono assistenza sempre più italiani che non riescono a pagare il ticket delle prestazioni mediche e dei medicinali); la crescita percentuale della disoccupazione giovanile e delle persone che perdono l’impiego e non riescono più ad accedere a un’occupazione stabile; il decadimento crescente dell’istruzione pubblica, in qualità e strutture.

I primi tre video sono su YouTube, con nomi provvisori: quelli definitivi saranno decisi dal web. Il quarto video è in fase di lavorazione e uscirà a breve.

Per ora li trovate in fondo al post di Daniela Padoan, qui.

Mentre i massmedia continuano a oscurare l'unica lista schiettamente europeista che vuole tutelare e promuovere i beni comuni, a partire dal lavoro e dall'ambiente, prosegue la campagna elettorale dei rosso-verdi italiani Lunedì il candidato alla presidenza della Commissione europea, Alexis Tsipras, sarà a Milano, Torino. E Bologna per il gran finale. L'attesa per il voto amministrativo in Grecia. L'appello della cultura. Il manifesto, 17 maggio 2014

Sarà a Milano a mez­zo­giorno, poi arri­verà a Torino e infine appro­derà a Bolo­gna per il comi­zio della sera, dalle 21 in piazza Mag­giore. Ale­xis Tsi­pras, lea­der della greca Syriza e can­di­dato pre­si­dente della Com­mis­sione della lista L’Altra Europa torna in Ita­lia lunedì 19 per il rush finale della cam­pa­gna elet­to­rale. Nel capo­luogo lom­bardo sarà all’università per un incon­tro con gli stu­denti, in quello pie­mon­tese nel pome­rig­gio farà una pas­seg­giata dalla sta­zione di Porta Nuova fino all’appuntamento di un’iniziativa pub­blica a Palazzo Nuovo.

Ker­messe di musica con Nicola Pio­vani, attori e ’sor­prese’ invece nella serata di Bolo­gna, con­dotta da Moni Ova­dia — che è anche can­di­dato — e la gio­vane autrice sati­rica Fran­ce­sca For­na­rio (suoi due spas­sosi spot per la cam­pa­gna elet­to­rale della lista). A quell’ora saranno noti i risul­tati del primo turno delle ammi­ni­stra­tive gre­che, che si svol­gono dome­nica 18. Un risul­tato cru­ciale per la corsa verso il voto anti­ci­pato ad Atene, ma anche un (auspi­ca­bile) tram­po­lino per le euro­pee del 25 mag­gio. Per l’occasione Bolo­gna cam­bia topo­no­ma­stica, almeno nelle indi­ca­zioni degli orga­niz­za­tori: «Largo al red­dito di cit­ta­di­nanza» e «Largo all’Europa sociale», «Via l’Austerity», «Via il Fiscal Com­pact», così saranno ribat­tez­zate altret­tante vie intorno a piazza Mag­giore, che ovvia­mente sarà «Piazza dell’Altra Europa».

Intanto ieri a Roma è stato pre­sen­tato l’appello di molti autori del mondo della cul­tura a soste­gno della lista per Tsi­pras. Un’iniziativa ana­loga la scorsa set­ti­mana era stata pre­sen­tata in Gre­cia. «Siamo con­vinti che tra le disu­gua­glianze sociali c’è anche l’accesso ai saperi e alla cono­scenza», scri­vono a Tsi­pras, «È anche in que­sto senso che alcune forze intel­let­tuali e poli­ti­che si bat­tono per un’altra Europa», «un’Europa legata alle neces­sità e allo svi­luppo dei popoli, che rico­no­sca i diritti dei lavo­ra­tori della cul­tura, che difenda e sostenga i luo­ghi della pro­du­zione e dif­fu­sione cul­tu­rale, che con­si­deri la cul­tura, la cono­scenza e la ricerca come bene pub­blico e diritto ina­lie­na­bile». «Serve che la sini­stra metta que­sti temi al cen­tro della sua inter­pre­ta­zione della realtà», che lavori «per un nuovo uma­ne­simo che si opponga ai pro­cesso distrut­tivi che rischiamo di per­cor­rere» dopo gli anni di Ber­lu­sconi che «hanno costruito un senso comune cui nem­meno una parte rile­vante della sini­stra (o meglio del centro-sinistra) si è sottratta».

Pro­muove l’appello il regi­sta Citto Maselli. Tra gli altri ade­ri­scono il pit­tore Enzo Api­cella, il musi­ci­sta Piero Arcan­geli, il pro­fes­sor Mino Argen­tieri, l’urbanista Paolo Ber­dini, lo sto­rico Piero Bevi­lac­qua, il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni Fer­rara, l’attrice e autrice Sabina Guz­zanti, la sto­rica Fran­ce­sca Koch, lo scrit­tore Felice Lau­da­dio. E anche Lucio Mani­sco, Ivano Mare­scotti, Paolo Pie­tran­geli, Anto­nio Vene­ziano, Edoardo Sal­zano e lo scrit­tore Ermanno Rea (che è anche candidato).

Ma tra i mol­tis­simi fir­ma­tari spicca il nome di Andrea Camil­leri, ’padre’ del popo­lare Com­mis­sa­rio Mon­tal­bano. Lo scrit­tore era stato fra i primi a pro­muo­vere la lista per Tsi­pras, ma poi non aveva accet­tato - con qual­che pole­mica - di far parte del comi­tato dei garanti. Ora torna della par­tita. A tutti loro Tsi­pras si rivol­gerà lunedì sera dal palco di Bologna

Daniela Preziosi ntervista Barbara Spinelli: «giusto imporre il voto su Genovese, rischiavamo di essere complici dei rinvii del Pd. Su molti temi siamo vicini al M5S. Ma senza alleati nel parlamento europeo loro si condannano al limbo della testimonianza». «La provocazione del bikini? Si è trasformata in sberleffo che ha oscurato il progetto».

Il manifesto, 16 maggio 2014

«I fermi di ieri a Bru­xel­les sono una cosa grave. Non c’era stata alcun tipo di vio­lenza da parte dei mani­fe­stanti. Mi torna in mente il rap­porto della JP Mor­gan del 2013, dove si sostiene che le Costi­tu­zioni più influen­zate dall’antifascismo vanno sman­tel­late per­ché difen­dono diritti troppo avan­zati, com­preso il diritto di pro­te­sta. La poli­zia di Bru­xel­les si è già ade­guata?». La prima tele­fo­nata con Bar­bara Spi­nelli, capo­li­sta di L’Altra Europa con Tsi­pras, è al mat­tino men­tre da Bru­xel­les arri­vano le noti­zie di 249 fer­mati fra i mani­fe­stanti con­tro il sum­mit delle Con­fin­du­strie. Fra loro un altro can­di­dato, Luca Casa­rini. Pro­viamo a scher­zare: era per cose come que­ste che qual­cuno dei pro­mo­tori della lista non voleva Casa­rini? La rispo­sta è seria: «Sta­vano solo mani­fe­stando. Comun­que le con­danne per disob­be­dienza civile non sono un motivo di esclu­dere qual­cuno dalle nostre liste». Nel pome­rig­gio, per for­tuna, saranno tutti rilasciati.

Il can­di­dato del Pse Mar­tin Schulz dichiara a Repub­blica: «Se vince la destra ci saranno altri cin­que anni di auste­rità». Se vince il Pse l’austerità sarà cancellata?
Que­sta dichia­ra­zione è una vera beffa agli elet­tori. Gli anni di auste­rità li abbiamo avuti gra­zie alle intese fra socia­li­sti e popo­lari. In Ger­ma­nia l’accordo sulla Grande Coa­li­zione è stato nego­ziato fra Angela Mer­kel e Schulz, per la parte euro­pea. Il risul­tato è stato che la Spd ha rinun­ciato a ogni cri­tica dell’austerità, all’idea del piano Mar­shall che pure aveva difeso in cam­pa­gna elet­to­rale e ha ’dimen­ti­cato’ gli euro­bond. Insomma sull’Europa ha ceduto su tutto. Le parole di Schulz non cor­ri­spon­dono a quello che i social­de­mo­cra­tici hanno fatto negli anni di crisi.

Schulz non esclude lar­ghe intese future con il Ppe. Dice: «Prima del voto non è il tempo di par­lare di accordi».
Que­sto non è leale verso l’elettorato. In realtà si pre­para alle lar­ghe intese senza dirlo. Schulz sa bene che se il Pse diventa il primo gruppo e se lui vuol fare il pre­si­dente della Com­mis­sione avrà biso­gno dell’appoggio del Ppe.

Invece voi cosa farete? Farete pesare i vostri voti, even­tual­mente, nell’elezione di Schulz? E innan­zi­tutto: quando dico ‘voi’ dico la ‘Sini­stra europea’?
Non è detto che il futuro gruppo si iden­ti­fi­chi tutto con il Gue. Si è impe­gnato comun­que a «stare con Tsi­pras», cioè a non entrare in altri gruppi. In ogni caso peserà molto per­ché, quale che sia il risul­tato ita­liano, è una for­ma­zione che aumen­terà note­vol­mente. In Fran­cia, Spa­gna, Ger­ma­nia la sini­stra non socia­li­sta è in aumento.

Tsi­pras dice: «Saremo la terza forza».
È pos­si­bile. Spero che la lista per Tsi­pras abbia la forza e l’indipendenza di giu­di­zio per aprire un dia­logo con i 5 stelle e deci­dere su punti spe­ci­fici poli­ti­che con­cor­date. Ci sono molte cose in comune. Per esem­pio l’idea della con­fe­renza che riduca e comu­ni­ta­rizzi il debito è una nostra idea che il M5S ha fatto pro­pria. Ora Tsi­pras ha appro­vato il ‘New Deal 4 Europe’ dei fede­ra­li­sti: è un’iniziativa cit­ta­dina che sta rac­co­gliendo firme in tutta l’Unione per un grande piano comune di inve­sti­mento. Sarebbe inte­res­sante sapere cosa nel pensa il M5S.

Per la verità Grillo sem­bra più inte­res­sato alla cam­pa­gna for­sen­nata con­tro il Pd.
Ci sono molte posi­zioni di Grillo com­ple­ta­mente con­di­vi­si­bili, e fra l’altro simili se non iden­ti­che alle nostre. M5S potrebbe svol­gere un ruolo molto impor­tante. Mi chiedo però cosa faranno i suoi eletti, nel par­la­mento euro­peo. Se non si alleano con altri dovranno entrare nel gruppo dei non iscritti, una sorta di gruppo misto. Saranno con­dan­nati ad un ruolo di testi­mo­nianza. A un limbo.

In Ita­lia però siete in com­pe­ti­zione con loro. L’ultimo scon­tro è di ieri, alla camera, fra Sel che fa ostru­zio­ni­smo con­tro il decreto Poletti e il M5S che ci ripensa per anti­ci­pare il voto sull’arresto di Genovese.
Il decreto Poletti sarebbe pas­sato comun­que, l’ostruzionismo era ormai sim­bo­lico. Con­di­vido la linea del M5S: il voto su Geno­vese era l’emergenza. È stato giu­sto met­tere il Pd di fronte alle sue respon­sa­bi­lità e costrin­gerlo a votare sull’arresto. Il reato di cui è accu­sato Geno­vese è gra­vis­simo. Si rischiava di essere com­plici di una stra­te­gia del rin­vio, acca­rez­zata nel Pd.

Renzi ha tagliato il nodo impo­nendo il voto subito.
Ma è stato pos­si­bile solo gra­zie alle pres­sioni di M5S.

Torno al voto. Tsi­pras è ancora poco conosciuto.
Cer­chiamo in tutti i modi di spie­gare per­ché la Gre­cia è un caso para­dig­ma­tico, e che Tsi­pras sta inven­tando un modo di fare sini­stra total­mente nuovo. Ma è una strada in salita

Le tv non vi aiutano.
Spesso ci boi­cot­tano addi­rit­tura. Rispetto a noi hanno più spa­zio sia Fra­telli d’Italia sia la Lega. Un po’ per­ché nes­suno vuole più avere a che fare con le sini­stre radi­cali. Ma soprat­tutto per­ché il nostro poten­ziale elet­to­rato porta via voti al Pd.

Per que­sto avete preso anche ini­zia­tive pro­vo­ca­to­rie, come quella del bikini?
Non è una stra­te­gia della lista. È una mossa pro­vo­ca­to­ria nata all’interno del gruppo comu­ni­ca­zione, dan­nosa per il nostro pro­getto e per molti can­di­dati: per giorni lo sber­leffo ha oscu­rato il pro­gramma. Non so dirle per­ché sia nata; so solo che si tende a tra­sfor­marla in un’offensiva ideo­lo­gica con­tro il fem­mi­ni­smo, e anche con­tro la mia can­di­da­tura. Per quanto mi riguarda, con­si­dero la dia­triba del tutto assurda: non ho mai fatto parte né del movi­mento «Se non ora quando», né di altri movi­menti femministi.

Renzi dice che le euro­pee non deb­bono essere un refe­ren­dum sul suo governo.
Renzi ha una sin­go­lare poli­tica sull’Europa. Attri­bui­sce tutti i suoi mali alla ‘buro­cra­zia’ di Bru­xel­les. Ma è una vec­chia stra­te­gia, risale ai tempi della That­cher: è un alibi die­tro il quale si nascon­dono i governi, che invece sono i veri ese­cu­tori delle poli­ti­che euro­pee. Non esi­ste la Fede­ra­zione euro­pea, pur­troppo. Se esi­stesse, l’Europa sarebbe più soli­dale. Ma la respon­sa­bi­lità delle poli­ti­che è dei governi. Quindi è ine­vi­ta­bile che nel voto euro­peo si parli dei governi.

Lei fer­me­rebbe l’Expo di Milano, come dice Grillo, o la farebbe andare avanti per dimo­strare di avere uno stato più forte dei ladroni, come dice Renzi?
È dif­fi­cile fer­mare le mac­chine ora. Ini­zia­tive di que­sto genere in una crisi così pro­fonda è meglio non farle. In Ita­lia poi tutte le grandi opere sono infil­trate dalle mafie: non siamo di fronte a una nuova Tan­gen­to­poli, ma alla pro­se­cu­zione di quella dei primi anni 90.

Lo scan­dalo favo­rirà Grillo nelle urne?
Direi di sì. Potrebbe anche favo­rire noi, che diciamo cose ana­lo­ghe su cor­ru­zione e mafia.

C’è chi sospetta del tem­pi­smo dei pm.
In Ita­lia la cor­ru­zione c’è da lungo tempo. Ogni tanto ci sono degli arre­sti. Sic­come siamo una demo­cra­zia con con­ti­nue ele­zioni dob­biamo dire che ogni volta il tem­pi­smo è sba­gliato? Allora deci­diamo che la magi­stra­tura non fac­cia più niente. Un modo per evi­tare gli arre­sti in cam­pa­gna elet­to­rale c’è: la poli­tica e le classi diri­genti evi­tino la cor­ru­zione prima che inter­venga la magi­stra­tura. In demo­cra­zia non c’è un momento buono per un arre­sto: c’è nei regimi auto­ri­tari dove la giu­sti­zia è al ser­vi­zio della politica.

«Per la prima volta i candidati in pectore alla guida dell'eurocommissione si sfidano in un dibattito televisivo continentale. Un format da definire meglio ma che va sulla strada giusta. Tra i temi toccati, l'austerità, la crisi ucraina, il caso Snowden, l'intreccio tra mafia e politica in Italia e la stretta sull'aborto in Spagna». Il manifesto, 16 maggio 2014

La verde Ska Kel­ler la migliore, il demo­cri­stiano Jean-Claude Junc­ker il peg­giore. Il primo, sto­rico, dibat­tito in diretta tele­vi­siva fra can­di­dati alla pre­si­denza della Com­mis­sione Ue fini­sce con una chiara vin­ci­trice – la gio­vane e bril­lante euro­de­pu­tata tede­sca – e un chiaro scon­fitto – il vete­rano ex pre­mier del Lus­sem­burgo. Buona la per­for­mance di Ale­xis Tsi­pras della Sini­stra euro­pea, al di sotto delle attese l’esperto social­de­mo­cra­tico Mar­tin Schulz e il libe­rale Guy Verhof­stadt: troppo com­pas­sato il primo, ecces­si­va­mente esa­gi­tato il secondo.

Nell’aula dell’Europarlamento tra­sfor­mata in stu­dio tele­vi­sivo è andato in scena un evento a suo modo epo­cale: mai prima d’ora una discus­sione poli­tica aveva riguar­dato con­tem­po­ra­nea­mente tutti i cit­ta­dini dei 28 Paesi dell’Ue. Con­du­zione affi­data all’italiana Monica Mag­gioni (diret­trice di Rai­news), for­mat tipico di que­sto genere di dibat­titi: domanda uguale per tutti e ciclo di rispo­ste brevi, con tre jolly da gio­carsi per even­tuali repli­che. Ormai ci siamo abi­tuati, ma l’impressione è che gli inter­venti con­cessi ai can­di­dati siano stati troppo brevi: 1 minuto a rispo­sta e 30 secondi per pos­si­bili repli­che appa­iono fran­ca­mente poco. Dif­fi­cil­mente si rie­sce ad arti­co­lare qual­cosa che vada oltre uno slo­gan o un’allusione: e manca per­sino il tempo per pole­miz­zare davvero.

Nono­stante la rigi­dità del for­mato, sono comun­que emerse le dif­fe­renze. Il demo­cri­stiano Junc­ker (Ppe, in Ita­lia sono Forza Ita­lia e il Nuovo cen­tro­de­stra) ha difeso l’austerità con­tro la quale si sono invece sca­gliati, con pari vee­menza, sia la verde Kel­ler che Tsi­pras. Schulz e Verhof­stadt hanno assunto posi­zioni inter­me­die: la disci­plina di bilan­cio è neces­sa­ria, ma l’eccesso di rigore può fare danni. Punti di vista diversi sulla crisi ucraina, con Junc­ker e Tsi­pras agli anti­podi: il primo a insi­stere sull’inasprimento delle san­zioni con­tro il pre­si­dente russo Vla­di­mir Putin e il secondo a denun­ciare lo scan­dalo della pre­senza di neo­na­zi­sti nel nuovo governo di Kiev. Una­ni­mità fra i can­di­dati in un solo caso: tutti pen­sano che il pros­simo capo della Com­mis­sione debba essere uno di loro, e non qual­cuno che venga «con­ce­pito» nelle segrete stanze del Con­si­glio dei capi di stato e governo (come sem­bre­rebbe pre­fe­rire invece la can­cel­liera tede­sca Angela Merkel).

All’ecologista Kel­ler va il merito di avere citato il nego­ziato sul Ttip, il trat­tato di libero scam­bio Ue-Usa che mette a repen­ta­glio i diritti di lavo­ra­tori e con­su­ma­tori, e le pro­te­ste con­tro di esso, com­prese quelle di ieri a Bru­xel­les. Tsi­pras ha cer­ta­mente colto nel segno nel citare, nel corso del dibat­tito, sia lo scan­dalo del ten­ta­tivo di contro-riforma dell’aborto in Spa­gna sia, a pro­po­sito del tema cor­ru­zione, gli intrecci tra mafia e poli­tica in Ita­lia. Il momento migliore di Verhof­stadt è stato nel pas­sag­gio sulla vicenda di Edward Sno­w­den, che per il lea­der libe­rale dimo­stra la neces­sità di difen­dere meglio la pri­vacy dei cit­ta­dini euro­pei, men­tre a Schulz è man­cato un colpo ad effetto. Il social­de­mo­cra­tico, che molti vedono come pre­si­dente in pec­tore, è apparso troppo com­pas­sato, quasi si sen­tisse in dovere di assu­mere una posa «isti­tu­zio­nale». Kel­ler e Tsi­pras deci­sa­mente i più sciolti.

Il dibat­tito visto sugli schermi di Rai­news 24 risul­tava cer­ta­mente appe­san­tito della tra­du­zione simul­ta­nea, che, peral­tro, non sem­pre è apparsa impec­ca­bile. E tut­ta­via, non c’era alter­na­tiva: per ren­dere l’appuntamento frui­bile a un pub­blico vasto non poteva essere tra­smesso in lin­gua ori­gi­nale (pos­si­bi­lità riser­vata a chi lo vedeva in strea­ming). Pur con molti limiti (com­presi per­so­na­liz­za­zione e spet­ta­co­la­riz­za­zione), il primo pre­si­den­tial debate della sto­ria della Ue va con­si­de­rato un passo nella dire­zione giu­sta: quella della crea­zione di un’opinione pub­blica euro­pea che rie­sca a con­tra­stare il pre­do­mi­nio dei governi nazio­nali nella deter­mi­na­zione del destino poli­tico dell’Unione europea.

«Regole giu­ri­di­che per gli appalti. La legge appro­vata nel 1994 che prese il nome dall’allora mini­stro Mer­loni era un prov­ve­di­mento rigo­roso e si trat­tava solo di spe­ri­men­tarla e miglio­rarla. Si scelse la strada oppo­sta. Fu subito accu­sata di rigi­dità e fu variata, emen­data e stra­volta: oggi siamo alla sua quarta ste­sura».

Il manifesto, 15 maggio 2014

Quando Fri­ge­rio e Gre­ganti erano più gio­vani di 20 anni, sulla spinta dell’indignazione dell’opinione pub­blica furono rico­struite le regole giu­ri­di­che per gli appalti. La legge appro­vata nel 1994 che prese il nome dall’allora mini­stro Mer­loni era un prov­ve­di­mento rigo­roso e si trat­tava solo di spe­ri­men­tarla e –sem­mai– miglio­rarla. Si scelse la strada oppo­sta. Fu subito accu­sata di rigi­dità e fu variata, emen­data e stra­volta: oggi siamo alla sua quarta ste­sura. A svin­co­lare dalla legge l’aggiudicazione dei grandi appalti ci pensò il secondo governo Berlusconi.

Appro­vando nel 2001 la «legge obiet­tivo» che con il con­vinto soste­gno del mondo delle mag­giori imprese for­niva sem­pli­fi­ca­zioni per i grandi appalti. Ancora peg­gio fecero nel 2002 i decreti attua­tivi e fu pos­si­bile così spe­ri­men­tare la mac­china della Pro­te­zione civile di Guido Ber­to­laso. Tutti i grandi appalti veni­vano aggiu­di­cati con un sistema pale­se­mente discre­zio­nale: lo scan­dalo che seguì aveva dun­que radici salde nella man­canza di regole. Ma anche il set­tore degli appalti minori è rima­sto indenne. Da anni i comuni ita­liani pos­sono appal­tare a trat­ta­tiva sem­pli­fi­cata — senza una vera gara di evi­denza pub­blica — lavori di importo fino a 500 mila euro. Nel 2011, l’Autorità di vigi­lanza sui con­tratti pub­blici, Avpc, denun­ciava ina­scol­tata che il 28% degli appalti pub­blici per un valore di 28 miliardi veniva appal­tato senza gara. I grandi lavori hanno bene­fi­ciato di un ter­reno legi­sla­tivo spe­ciale men­tre quelli minori sono stati lasciati nella discrezionalità.

Come mera­vi­gliarsi dun­que dell’esplodere dell’ennesimo scan­dalo? Le radici stanno nell’assenza di regole: la poli­tica affa­ri­stica tiene sotto con­trollo le imprese e le rube­rie sono all’ordine del giorno, come denun­ciano la Corte dei Conti e la Tra­spa­rency Inter­na­tio­nal. Ha dun­que ragione Livio Pepino che sulle pagine del mani­fe­sto di ieri affer­mava che «non siamo di fronte ad una cor­ru­zione nel sistema ma ad una ben più grave cor­ru­zione del sistema». La vera tra­ge­dia che stiamo vivendo sta però nel dif­fe­rente atteg­gia­mento del legi­sla­tore e dei mezzi di comu­ni­ca­zione. Se vent’anni fa ci fu un inne­ga­bile scatto di dignità isti­tu­zio­nale, oggi siamo den­tro ad un inau­dito attacco alla «buro­cra­zia» rea di ogni colpa.

Due giorni fa a Milano a discu­tere del futuro di Expo 2015 c’era il mini­stro per le infra­strut­ture Mau­ri­zio Lupi. Non è sol­tanto la pre­senza del suo nome nelle inter­cet­ta­zioni della cricca dell’Expo a susci­tare pre­oc­cu­pa­zione (come noto egli ha smen­tito ogni legame con i dete­nuti) quanto un gra­vis­simo annun­cio reso pub­blico nell’audizione da lui tenuta l’11 marzo scorso presso la com­mis­sione ambiente della Camera dei Depu­tati. In quella sede ha infatti espresso il parere di scio­gliere l’Autorità di vigi­lanza sui lavori pub­blici e ripor­tare tutte le com­pe­tenze presso il mini­stero da lui diretto.

L’attacco è stato moti­vato dalla neces­sità di «snel­lire e sbu­ro­cra­tiz­zare». La realtà è diversa. L’Avcp – che pure ha un diri­gente coin­volto nell’affare Expo e non è immune da cri­ti­che– aveva negli anni scorsi denun­ciato alla Magi­stra­tura inqui­rente molti appalti sospetti. I casi più cla­mo­rosi hanno riguar­dato l’appalto per la sede dell’Agenzia spa­ziale ita­liana (l’ex pre­si­dente Sag­gese è in car­cere per tan­genti) e l’ispezione com­piuta sull’appalto della Pede­mon­tana lom­barda, opera tanto cara al sistema di potere sma­sche­rato dall’inchiesta Expo. Troppo per i nostri libe­ri­sti. Così, forse anche per la pre­senza presso il suo mini­stero in qua­lità di Capo di Gabi­netto di Gia­como Aiello che era stato capo dell’ufficio legi­sla­tivo della Pro­te­zione civile di Ber­to­laso, Lupi vuole scio­gliere quell’organismo indipendente.

La dram­ma­tica crisi di lega­lità che viviamo deriva dalla man­canza di orga­ni­smi terzi indi­pen­denti dalla poli­tica e auto­re­voli sotto il pro­filo morale, delle com­pe­tenze e della libertà di movi­mento. E invece il governo per­se­gue la demo­li­zione del resi­duo di lega­lità e di senso dello Stato che ancora non è stata spaz­zata via dal ven­ten­nio ber­lu­sco­niano. Oltre a Lupi, anche il primo mini­stro Renzi sem­bra osses­sio­nato dalla volontà di demo­lire quanto resta delle fun­zioni pub­bli­che, dalle Soprin­ten­denze fino alla Magi­stra­tura.

L’immagine dell’Italia infranta dell’Expo 2015 non si salva solo con la pre­senza di uomini del livello di Raf­faele Can­tone. Si recu­pera riscri­vendo regole rigo­rose per gli appalti pub­blici e resti­tuendo dignità e auto­no­mia alle fun­zioni pub­bli­che mor­ti­fi­cate da venti anni. Nella migliore sto­ria degli appalti pub­blici — che pure esi­ste — c’è sem­pre stata una ten­sione cul­tu­rale nel per­se­guire un futuro migliore. A furia di sem­pli­fi­care e di affret­tarsi senza senso si con­se­gna defi­ni­ti­va­mente il paese allo stra­po­tere del peg­giore affa­ri­smo poli­tico e imprenditoriale.

«Il PNR (Programma nazionale di riforme) propone un set di obiettivi da raggiungere riguardo temi rispetto ai quali i cittadini sono molto più sensibili: occupazione, povertà, istruzione terziaria e abbandoni scolastici, spesa in ricerca e sviluppo, emissioni, efficienza energetica ed energie rinnovabili. Si tratta della strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, in arte "Europa2020"».

Sbilanciamoci.info, 13 maggio 2014 (m.p.r.)

Nell’ambito della nuova procedura di bilancio armonizzata a livello europeo (il cosiddetto “Semestre Europeo di coordinamento della politica economica”) ad aprile gli Stati Membri devono presentare alla Commissione Europea il Def (Documento di Economia e Finanza) che si compone di tre sezioni: il Programma di stabilità, l’Analisi della finanza pubblica, e il Programma nazionale di Riforme (PNR).

Il Programma di Stabilità offre il quadro macroeconomico e stima l’impatto degli interventi previsti dal governo rispetto ai vincoli del patto di stabilità e alla finanza pubblica in generale. Il PNR presenta le misure che il governo intende introdurre, risponde alle osservazioni presentate dalla Commissione nell’Annual Growth Survey (il documento di partenza del “Semestre europeo”) e lo stato di avanzamento verso gli obiettivi di qualità della crescita fissati dalla strategia Europa 2020.

Quando l’Europa, in particolare la DG ECFIN, ci bacchetta, lo fa rispetto agli indicatori definiti dal Patto di Stabilità e Crescita, sostanzialmente gli ormai arcinoti parametri di Maastricht, il rapporto Debito/Pil e il rapporto Deficit/Pil. Se non rispettiamo gli obiettivi rispettivamente del 60% e del 3% è anche possibile incorrere in procedure d’infrazione per deficit eccessivo, dove il controllo da parte della Commissione diventa più stringente ed in casi estremi si può arrivare a delle penali (che tuttavia ad oggi non sono mai state inflitte a nessun paese). Più recentemente si viene bacchettati anche rispetto ad una lunga lista di indicatori di possibili squilibri macroeconomici (trattati nel PNR) e che possono attivare le cosiddette Macroeconomic Imbalance Procedures (MIP) al fine di correggerle.
Ma, come detto, il PNR propone anche un set di obiettivi da raggiungere riguardo temi di non minore importanza e probabilmente rispetto ai quali i cittadini sono molto più sensibili: occupazione, povertà, istruzione terziaria e abbandoni scolastici, spesa in ricerca e sviluppo, emissioni, efficienza energetica ed energie rinnovabili. Si tratta della strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva (smart, sustainable and inclusive growth), in arte Europa2020, perché fissa obiettivi quantitativi da raggiungere al 2020. La strategia arriva nel 2015 al giro di boa e la Commissione si appresta a rivederla.

Ma che cos’è Europa 2020? Nel 2010, alla scadenza della precedente Strategia di Lisbona per la crescita e il lavoro, i governi dell’Unione hanno definito delle linee d’azione perché gli obiettivi di medio periodo della politica economica non siano limitati alla sola crescita economica ma estesi ad alcuni elementi fondamentali che caratterizzino il modello europeo. Nell’idea della Commissione si vuole “accrescere la competitività dell’Unione mantenendo il modello di economia sociale di mercato e migliorando l’uso efficiente delle risorse”.

Si tratta di 8 indicatori per i quali sono stati fissati degli obiettivi da raggiungere entro il 2020 tanto per l'Unione nel suo insieme, come per i singoli stati membri. L’inclusività della crescita è data da maggiore occupazione e partecipazione all’istruzione (più laureati e meno abbandoni prima del diploma) nonché dalla riduzione del cosiddetto rischio di povertà, ovvero non solo redditi bassi ma anche l’appartenenza a famiglie senza lavoro e l’impossibilità di potersi permettere beni o attività essenziali, la grave deprivazione. L’intelligenza della crescita sta nell’obiettivo di portate la spesa per ricerca e sviluppo al 3% del Pil. La sostenibilità sta nella riduzione delle emissioni e nella crescita dell’efficienza energetica e dell’uso delle energie rinnovabili. Il dettaglio della strategia è presentato nella tavola 1. È da notare che gli obiettivi non sono gli stessi per tutti i paesi: esiste un obiettivo generale europeo, e poi ogni paese si è dato degli obiettivi alla propria portata.

Tavola1. Europa2020 - Gli obiettivi Italiani ed europei al 2020
Target IT
Target UE
Spesa in Ricerca e Sviluppo in % PIL
1,53
3
Quota di 30-34enni con istruzione terziaria
26%
40%
Abbandoni scolastici
16%
10%
Tasso occupazione 20-64enni
75%
75%
Riduzione della popolazione a rischio povertào esclusione rispetto al 2005
(-2.2 milioni)
-20 milioni
Riduzione delle emissioni gas serra rispetto al 1990
20%
20%
Quota di energia rinnovabile sul consumo finale interno lordo
17%
20%
Efficienza energetica (riduzione dei consumi di energia)
20%
20%
I pro.

Con Europa2020 l’Europa si è dotata di un percorso di medio periodo da seguire in modo da realizzare, in qualche maniera, un’idea di Europa. Questo è stato fatto attraverso un accordo politico tra i 27 governi che si sono impegnati a rispettarne la realizzazione. Gli obiettivi politici di ampio respiro (crescita intelligente, inclusiva e sostenibile) sono stati declinati in indicatori misurabili, quindi monitorabili e con obiettivi numerici ben definiti, rendendo i governi “accountable” di fronte ai cittadini e alla Commissione. Il fatto che siano pochi rende chiare le prorità e facilmente comunicabile la strategia nel suo complesso. In più tali obiettivi sono inseriti all’interno del semestre europeo per cui ogni governo si impegna a fornirne il monitoraggio annuale e a dichiarare, proprio con il PNR, in che maniera si propone di raggiungere gli obiettivi. Tra i pro, è da notare anche il fatto che la strategia si inserisce in un dibattito che sta avendo molta risonanza su scala internazionale, sulla necessità di misurare il progresso delle società, e il benessere dei cittadini, attraverso misure che vadano “oltre il Pil”. In Italia la concretizzazione di questo movimento è l’iniziativa CNEL-Istat per la misurazione del BES, il Benessere Equo e Sostenibile (si veda www.misuredelbenessere.it). Europa2020 non è il migliore set di indicatori di misurazione del progresso di una società, ma è la formale presa di coscienza da parte delle istituzioni europee che la crescita del Pil da sola non basta e che deve necessariamente essere dotata di caratteristiche qualitative che la rendano più giusta e sostenibile.

I contra e le proposte di riforma.

Un’analisi critica della genesi ed attuazione della strategia può fare riferimento alle diverse fasi dell’intero processo:
1. la definizione degli obiettivi e degli indicatori proposti è criticabile tanto nel metodo, mettendo in discussione la legittimità politica di una decisione di medio periodo presa a porte chiuse dal Consiglio europeo, come nel merito: sono stati inclusi tutti gli elementi rilevanti? sono misurati nella maniera più opportuna?;
2. il tipo di procedure che sono attivate per il monitoraggio dei risultati e l’opportunità di avere processi di infrazione anche su obiettivi esterni al Patto di Stabilità;
3. infine sul processo di comunicazione da parte delle istituzioni comunitarie e nazionali che estenda il controllo sui governi anche all’opinione pubblica.

Iniziamo dalla questione della scelta degli obiettivi. È chiaro che la definizione di accordi intergovernativi sia nelle competenze dell’Unione, ma quando si tratta di definire obiettivi strategici di lungo periodo sarebbe opportuno ascoltare fasce più ampie della cittadinanza, al di fuori dei ministeri nazionali e della tecnocrazia europea. La crisi della rappresentanza democratica degli eletti è messa in discussione da tutti i fronti, e in tutti i paesi, e ancor di più lo è quella della dirigenza ministeriale e della Commissione Europea. Non a caso la Commissione cerca in tutte le occasioni di aprire consultazioni pubbliche sulle principali direttive proprio per supplire il suo evidente deficit democratico. Europa2020 è frutto di un accordo a porte chiuse che elude da qualsiasi reale legittimità democratica. La sua riforma dovrà necessariamente fare in modo (e sembra che questo sarà fatto nei prossimi mesi) di tenere conto delle opinioni e delle priorità dettate dalla società civile e delle parti sociali europee.

Entrando nel merito degli obiettivi e degli indicatori si aprirebbero discussione che non trovano spazio per essere approfonditi in questa sede: c’è chi propone di introdurre indicatori di qualità del lavoro, e non solo di occupazione, o di competenze, e non solo di livello di istruzione; chi vorrebbe una misura del reddito mediano delle famiglie o indicatori di salute mentale della popolazione; sul fronte ambientale c’è chi, come il Commissario all’ambiente Potocnik, vuole introdurre misure della quantità di materia (e non solo di energia) usata dal sistema produttivo. In termini più generali si richiama spesso al problema di definire tutti obiettivi di risultato e non di input. Ad esempio utilizzando anziché la spesa per la ricerca come misura della “smartness”, il numero di innovazioni introdotte. Infine, affinché si potesse raggiungere un accordo, ogni paese ha potuto fissare obiettivi propri con il risultato che a volte si tratta di obiettivi poco ambiziosi (come il caso della spesa per la ricerca in Italia per la quale si punta all’1,53 anziché al 3% del Pil). Il risultato paradossale è che anche qualora tutti i paesi raggiungessero i propri obiettivi, l’Unione non raggiungerebbe quelli europei.

Come detto il monitoraggio degli indicatori di Europa2020 avviene nell’ambito del cosiddetto Semestre Europeo assieme a diverse altre procedure di monitoraggio. Quello che abbiamo imparato a vedere è che rispetto agli obiettivi che l’Europa si è data, quelli macroeconomici hanno completamente eclissato quelli sociali, anche quando questi sono stati presentati come indicatori di qualità della crescita. Sebbene attraverso la crisi l’occupazione crollasse e la povertà e l’esclusione sociale esplodessero, questi segnali non hanno mai dato adito, da parte della Commissione, di alcuna richiesta d’azione per invertire tali tendenze che le politiche d’austerità, attente ossessivamente al 3% di deficit, hanno chiaramente aggravato.

A questo si potrà controbattere dicendo che le questioni sociali non ricadono nelle dirette competenze dell’Unione Europea, ma lo stesso è vero per gli squilibri macroeconomici, sui quali invece la Commissione non esita a dare indicazioni. Di fatto, nel PNR, il Governo si impegna a rispondere alle osservazioni della Commissione rispetto agli squilibri macroeconomici, mentre non presenta alcun impegno riguardo i ritardi nel raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020: non solo lo spazio dedicato alla strategia è minimo e relegato in fondo al documento, ma l’analisi dei dati è seguita solo dalla presentazione di quanto fatto in passato sui diversi temi, mentre nulla è detto su cosa il Governo si propone di fare in futuro. Infine, è significativo come nel documento di partenza del semestre europeo, l’Annual growth survey, Europa 2020 non abbia alcun ruolo: insomma la strategia di lungo periodo per l’Unione non è presa in considerazione all’inizio del percorso, poi compare per un attimo in un documento, il PNR che ha pochissima risonanza, e poi torna nel dimenticatoio. Se si crede che Europa2020 sia realmente la strategia che l’Europa deve seguire, allora i processi decisionali e di monitoraggio devono essere profondamente rivisti per garantirne la centralità.

Chiudiamo con la questione della diffusione.

Nel nostro Paese, e non solo, la strategia Europa2020 appare nota solo agli addetti ai lavori. In Italia il 9 aprile, dopo la pubblicazione del DEF, tutti i giornali vi hanno dedicato almeno una notizia, se non molte pagine; in alcuni casi si è citato il PNR; nessuno mi risulta abbia parlato di Europa 2020 e mostrato gli effetti delle misure presentate dal Governo sui nostri 8 indicatori presentati dal Governo. Una ricerca di news su Google, l’11 aprile, mostra una differenza nel numero di uscite tra Governo+DEF, e Governo+”Europa 2020” da 44900 a 138. È naturale e giusto il grande interesse della stampa per il DEF e le misure in esso contenute, ma nella attuale organizzazione dei documenti del semestre è inevitabile che Europa2020 scompaia.

Se esiste la volontà politica di darsi una strategia di sostenibilità e inclusione sociale nel medio periodo è essenziale che questa sia promossa ed entri a far parte del dibattito pubblico. La revisione di medio termine della Strategia deve quindi prevedere anche l’avvio di una campagna di comunicazione che coinvolga non solo le istituzioni ma anche la società civile sull’esempio di quanto fatto dalle Nazioni Unite in occasione degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio: la Millennium Campaign lavorava per diffondere i risultati dei percorsi di avvicinamento agli obiettivi cercando di coinvolgere istituzioni, media e società civile nell’attività di monitoraggio e di pressione sui governi. Quando i vincoli al raggiungimento degli obiettivi sono politici, come in questo caso dove non si incorre nel rischio di procedure di infrazione, è solo la pressione da parte cittadinanza a poter rendere tali vincoli realmente efficaci.

La presidenza italiana.

La revisione di Europa2020 avverrà nel prossimo anno a partire da ora: entro fine 2014, proprio durante il semestre di presidenza italiano, avverrà la consultazione dei cittadini e delle parti sociali, nella prima metà del 2015 avverrà invece la trattativa istituzionale. Il Governo italiano può quindi giocare un ruolo cruciale nella promozione di un dibattito europeo che dovrebbe rilanciare il modello economico e sociale europeo. Nell’ambito delle attività della presidenza, ad ottobre si terrà a Bruxelles una nuova conferenza “Beyond GDP” (dopo quella molto influente del 2007) che speriamo possa riportare il nostro governo su posizioni avanzate rispetto al modello di sviluppo che l’Europa sceglierà. Le recenti dichiarazioni del primo ministro Renzi riguardo a “crescita e occupazione come valori costitutivi dell’Unione”, sebbene comprensibili per far fronte al quadro di solo rigore in cui ci troviamo, non tengono conto delle imprescindibili garanzie di equità e sostenibilità [1].

[1] Di fatto tornando indietro ai principi della Strategia di Lisbona.

«Non c’è solo la povertà economica a rendere problematico il presente e il futuro di molti bambini in Italia. Esiste anche una più subdola povertà educativa. Un piano di

Save the Children per migliorare l’offerta di servizi e la partecipazione dei minori alle attività culturali ed educative». Lavoce.info, 13 maggio 2014 (m.p.r)

Un indice per la povertà educativa. In Italia, i minori a rischio di povertà economica e di esclusione sono il 34 per cento di bambini e adolescenti, una delle percentuali più elevate dell’Unione europea. (1) Oltre a quella economica c’è però anche una povertà meno visibile, ma ancora più insidiosa, perché capace di lasciare segni profondi, a volte non rimediabili nel futuro educativo, lavorativo, emotivo e sociale dei giovani: la povertà educativa. Per povertà educativa si intende la privazione della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare liberamente capacità, talenti e aspirazioni nei primi stadi del processo vitale, periodo in cui il capitale umano è più malleabile e recettivo.

Un’analisi della situazione in Italia, basata su una raccolta dettagliata, e in parte nuova, di dati e indicatori su vari aspetti della povertà educativa si può trovare nel rapporto di Save the Children, dal titolo “illuminante” di La lampada di Aladino. Molti indicatori mostrano una situazione allarmante. Sul piano dei risultati cognitivi, il 17 per cento dei giovani non consegue il diploma superiore e lascia prematuramente ogni percorso di formazione. I risultati dei test Pisa per gli alunni quindicenni sono inoltre tra i più bassi dei paesi Ocse, nonostante qualche recente miglioramento. Al di là dei risultati cognitivi, ci sono altri indicatori che mostrano un rapporto debole o inesistente con la cultura e lo sport. Quasi il 90 per cento dei giovani tra i tre e i diciassette anni guarda la Tv tutti i giorni, ma solo uno su due ha letto un libro e uno su quattro non ha mai fatto attività fisica, mentre circa il 60 per cento dei bambini non ha mai visitato un museo.
Per documentare questa situazione e mostrarne la distribuzione territoriale, è stato costruito il primo e sperimentale indice di povertà educativa (Ipe): è costituito da indicatori sulla copertura dei nidi e servizi integrativi pubblici, classi a tempo pieno nella scuola primaria e secondaria, istituzioni scolastiche con servizi mensa, scuole con certificato di abilità agibilità, aule connesse a internet, dispersione scolastica, bambini che sono andati a teatro, concerti, che hanno visitato musei o monumenti o siti archeologici, bambini che praticano sport, che utilizzano internet e che hanno letto libri.

Tabella 1 – Indice di povertà educativa per Regione

La tabella ci mostra che tra le prime tre Regioni ci sono il Friuli, la Lombardia e l’Emilia Romagna, mentre tra le ultime la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia. Il ranking conferma che nelle Regioni dove vive il più alto numero di bambini in povertà economica ci sono anche i livelli più alti di povertà educativa sia in termini di offerta di servizi che di partecipazione dei minori alle attività culturali ed educative.

Piano d'azione concreto. Come migliorare la situazione? Sono molte le cose che si possono fare e il rapporto di Save the Children le indica seguendo gli elementi della storia della lampada di Aladino, ma costituiscono obiettivi realizzabili. Il primo passo è “strofina l’anello: promuovi la conoscenza e la ricerca”. Significa raccogliere dati e indicatori più dettagliati sulla situazione educativa dei bambini, completare l’anagrafe scolastica e valutare gli interventi. Il secondo passo è “segui la luce”: è necessario iniziare da azioni basilari, come rifinanziare il piano nidi varato nel 2007 ma interrotto nel 2010, soprattutto nelle aree dove quasi non ne esistono, formare in modo continuo i docenti, intervenire contro la dispersione scolastica, pianificare per l’edilizia scolastica. Le ultime due mosse sono “strofina la lampada” e “libera il genio nei quartieri difficili”.

Proprio agli ultimi due punti, si lega il nuovo piano di Save the Children per contrastare il fenomeno: inizia da quest’anno e si chiama appunto “Illuminiamo il futuro”. Il programma prevede la creazione di centri (Punti luce) dove i bambini possono giocare e avere accesso ad attività educative e sportive. Nei Punti luce, creati nelle zone più difficili e prive di servizi del paese, bambini e ragazzi potranno attivare una loro dote educativa, che si concretizza in un piano individuale di supporto per libri, attività sportive, musicali e culturali. (2) Il programma non solo ha un forte obiettivo di advocacy e può essere un passo importante per dare visibilità a un fenomeno che sta compromettendo il futuro dei giovani. Ma dà anche l’avvio a esperienze e attività concrete per combattere la povertà educativa. In questo percorso, sono fondamentali gli interventi a supporto di tutte le istituzioni che hanno in carico l’informazione, l’istruzione, la cura dei minori.
(“La lampada di Aladino” Save the Children Italia, Roma, maggio 2014. L’articolo è pubblicato anche su ingenere.it)
(1) EU Survey on Income and Living Conditions 2013
(2) Per i dettagli del programma, si veda www.savethechildren.it

«Corruzione. La sentenza definitiva per Dell’Utri, dopo quelle di Berlusconi e Previti, chiude il cerchio ma non interrompe la continuità tra ventennio berlusconiano e nuova fase politica, siglata dalla sintonia tra il governo Renzi e il capo di Forza Italia».

Il manifesto, 15 maggio 2014

Lo stu­pore, il mera­vi­gliarsi sono, secondo la grande tra­di­zione del pen­siero filo­so­fico occi­den­tale, gli ele­menti fon­da­tivi di una seria rifles­sione sul senso degli acca­di­menti. Nei giorni scorsi si è veri­fi­cato un acca­di­mento di note­vole rile­vanza per la com­pren­sione di un non tra­scu­ra­bile spac­cato della sto­ria d’Italia: la con­ferma della con­danna defi­ni­tiva di Mar­cello Dell’Utri per con­corso esterno in asso­cia­zione mafiosa. Non mi sem­bra che stu­pore e meraviglia abbiano eser­ci­tato alcuna fun­zione nei com­menti tanto della pub­bli­ci­stica che del ceto poli­tico main­stream.
Anzi, per­sino la noti­zia in sé ha rapi­da­mente assunto l’aspetto di una scon­tata nor­ma­lità. Ed è pro­prio la a-normale nor­ma­lità in cui viviamo, un tempo sospeso da circa un ven­ten­nio, il pro­blema di fondo che carat­te­rizza la ormai lunga deca­denza italiana.

La sen­tenza defi­ni­tiva su Dell’Utri mette il sigillo finale ad una vicenda la cui sostanza e con­torni erano già chiari da molti anni. Ora però è un dato incon­tro­ver­ti­bile che l’operazione Berlusconi-Dell’Utri-Previti del 1994 aveva come fine quello di assi­cu­rarsi un rap­porto biu­ni­voco e fun­zio­nale tra sfera cri­mi­nale e sfera poli­tica. Da que­sto punto di vista l’operazione può con­si­de­rarsi per­fet­ta­mente riu­scita. L’operazione è col­let­tiva, ma il suo cen­tro è Ber­lu­sconi. Pre­viti cor­rompe per Ber­lu­sconi e con i soldi di Ber­lu­sconi. Dell’Utri è tra­mite e garante dell’accordo Ber­lu­sconi mafia. Ber­lu­sconi pro­pone Pre­viti come guar­da­si­gilli. Solo la decisa oppo­si­zione di Scal­faro fece sì che il cor­rut­tore fosse dirot­tato alla difesa. Non è una domanda ille­git­tima chie­dersi se Gior­gio Napo­li­tano, visto il teo­riz­zato cini­smo dei mezzi in vista di un buon fine (sta­bi­lità, riforme…), visto che allora Ber­lu­sconi si tro­vava in con­di­zioni di assai mag­giore legit­ti­mità rispetto ad oggi, si sarebbe com­por­tato come Luigi Scalfaro.

Nel momento attuale il bene­fi­cia­rio prin­cipe di quel tipo di «discesa in poli­tica» si pro­pone ancora come «padre della patria». A di là dell’evidente for­za­tura pro­pa­gan­di­stica c’è un aspetto di verità in quell’affermazione. Il pro­getto di un’Italia dav­vero nuova, inner­vata dalla ten­sione costante verso forme sem­pre più avan­zate di demo­cra­zia e con­tem­po­ra­nea­mente con­sa­pe­vole fino in fondo di quel prin­ci­pio libe­rale di civi­liz­za­zione della poli­tica che con­si­ste nella teo­ria e nella pra­tica della limi­ta­zione del potere, ha, con tutta evi­denza, ben altri padri. Sono i Cala­man­drei, i De Gasperi, i Togliatti la cui rifles­sione nasce dalla neces­sità di una rot­tura netta sia con anti­che e nega­tive costanti della sto­ria ita­liana, sia con le radici cul­tu­rale e sociali del fasci­smo. Poi vi è l’Italia giunta allo «ultimo gra­dino di degra­da­zione e decom­po­si­zione dello spi­rito pub­blico nazio­nale» (P. Bevi­lac­qua, il mani­fe­sto, 9 mag­gio). Di que­sta patria i Ber­lu­sconi, i Dell’Utri, i Pre­viti pos­sono, a buon diritto, con­si­de­rarsi, padri.

Il fatto inquie­tante è che i padri di que­sta seconda patria, sep­pure, in modi diversi, alla fine del loro ciclo, hanno molte pos­si­bi­lità di entrare nel pan­theon mate­riale della patria che si sta attual­mente dise­gnando. Per ragioni di lungo periodo e per pre­cise scelte con­tin­genti. Scelte che sono state fatte in tutta libertà, scelte tra alter­na­tive diverse non giu­sti­fi­cate da nes­sun stato di necessità.
Le ragioni dei vent’anni ber­lu­sco­niani affon­dano pro­fon­da­mente nelle sfera sociale e in quella poli­tica ita­liane. Non c’è stata nes­suna inva­sione degli Hyk­sos. Se ne esce solo con lo spi­rito che aveva ani­mato i primi padri della patria: una rot­tura netta sostan­ziata da una vera ana­lisi del feno­meno. Le scelte con­tin­genti di cui s’è detto con­fer­mano, invece, la per­si­stenza delle lun­ghe continuità.

In que­sto momento, ad esem­pio, leggo un lan­cio di agen­zia. Renzi pro­clama: «Fer­miamo i delin­quenti». Leggo anche un titolo sull’home page di Repub­blica. Intima il diret­tore: «Poli­tica, affari, ille­ga­lità. Renzi deve fare puli­zia». Lode­vole pro­po­sito, lode­vole invito. Intanto Renzi dovrà eser­ci­tare, però, tutta sua arte reto­rica nell’impossibile ten­ta­tivo di spie­gare una con­trad­di­zione non com­po­ni­bile. In «pro­fonda sin­to­nia» con il delin­quente prin­cipe, con il grande cor­rut­tore, si accinge, infatti, a cam­biare aspetti strut­tu­rali del pano­rama isti­tu­zio­nale ita­liano. Una con­ti­nuità evi­dente per metodo ed obiet­tivi con alcune delle logi­che prin­ci­pali che hanno carat­te­riz­zato il ciclo aperto agli inizi degli anni Ottanta e rive­la­tosi con chia­rezza in età berlusconiana.

Sul piano del metodo poli­tico il periodo in que­stione rap­pre­senta il livello estremo, quello più basso e degra­dato, del trionfo della «ragion cinica». Nel 1983 un filo­sofo tede­sco, Peter Slo­ter­dijk, ha scritto un impor­tante libro di Cri­tica della ragion cinica. La data non è casuale; seb­bene la ragion cinica sia una costante anche della ragion poli­tica, nel secondo dopo­guerra comin­ciò a diven­tare ele­mento domi­nante di misti­fi­ca­zione in coin­ci­denza con l’apertura dell’attuale ciclo di accu­mu­la­zione. Slo­ter­dijk ha argo­men­tato con rigore il mec­ca­ni­smo tra­mite cui il cini­smo dei mezzi giu­sti­fi­cato con la nobiltà dei fini altro non sia che un masche­ra­mento ideo­lo­gico. Il cini­smo dei mezzi ha come esito ine­vi­ta­bile il cini­smo dei fini.

Nel caso dello «spet­ta­colo disa­stroso» ita­liano (cito l’espressione da un gior­nale libe­rale sviz­zero) non c’è nep­pure più biso­gno dell’ideologia come masche­ra­mento. «Non lo sanno, ma lo stanno facendo», diceva Marx a pro­po­sito della «falsa coscienza». Que­sti padri della patria lo fanno e sanno cosa stanno facendo. Non c’è più biso­gno nep­pure di un fine alto per giu­sti­fi­care il cini­smo dei mezzi. Il fine è aper­ta­mente altret­tanto cinico: un sistema elet­to­rale che garan­ti­sca gli attuali equi­li­bri economico-sociali. Che garan­ti­sca una com­pe­ti­zione senza vera lotta poli­tica, una com­pe­ti­zione gio­cata mediante un rap­porto di riva­lità mime­tica con l’avversario.

Se que­sta è poli­tica…. potremmo chie­derci para­fra­sando Primo Levi. Cer­ta­mente que­sta è la poli­tica, risponde in coro il con­sesso dei nuovi padri della patria. Dob­biamo augu­rarci che siano molti coloro che in que­sta patria non si rico­no­scono. Ed ope­rare con un’altra poli­tica per un’altra patria.

Nella partita sul futuro dell'isola la palla passa alle Istituzioni. Commento e scheda dell'isola di Roberta de Rossi, cronaca dell'asta e presentazione dell'acquirente Luigi Brugnaro di Vera Mantegoli.

La Nuova Venezia, 14 maggio 2014 con postilla


Il COMUNE FARA' VALERE IL DIRITTO DI PRELAZIONE
Roberta De Rossi
«Gli scenari sono due: o il Demanio riterrà congruo il prezzo di 513 mila euro per vendere Poveglia o annullerà l'asta. Nel primo caso il Comune eserciterà il diritto di prelazione: i soldi li troveremo di sicuro, è certo. Se, invece, il Demanio preferirà annullare l'asta, abbiamo formalizzato al ministero la richiesta di trasferimento gratuito al Comune dell'isola nell'ambito del federalismo demaniale, anche se stante le molte difficoltà che il direttore regionale Soragni ci sta facendo per il trasferimento degli altri beni, la soluzione migliore è la prelazione». Così il sindaco Orsoni s'impegna a togliere l'isola dalle mani di Luigi Brugnaro per mantenerla pubblica, in qualche modo rimediando al pericoloso scivolone di non averla inserita da subito nella partita dei beni del federalismo demaniale, consegnandola così all'asta pubblica di ieri, alla quale la mobilitazione dei cittadini ha certamente fatto cambiare senso.
Dunque, Poveglia al Comune: ma per farne cosa? «Voglio tranquillizzare tutte le migliaia di cittadini dell'associazione per Poveglia: il Comune farà tutto il possibile perché l'isola segua il programma da loro immaginato. Troveremo il modo di lavorare assieme, magari dando loro la concessione per la gestione: la Certosa insegna che l'abbiamo già fatto con successo». Non ci sono vincoli che vietino al Comune di acquisire l'isola (caduti a fine 2013 i veti della Finanziaria), anche se il Patto di stabilità impone, per comprare Poveglia, di tagliare 513 mila euro altrove. D'altra parte, la partita federalismo è lenta e "litigiosa". «Ad aprile, abbiamo inserito Poveglia tra i beni chiesti al Demanio», osserva il vicedirettore generale Luigi Bassetto, «ci sono questioni in sospeso, perché il ministero rivendica per sé il possesso di beni parzialmente in uso allo Stato, come Palazzo Ducale, mentre noi riteniamo che questo non impedisca il trasferimento della parte restante. Un altro aspetto è legato ai beni che abbiamo già valorizzato con i privati, come Punta della Dogana, e che ora il ministero vorrebbe togliere dalla partita. Infine, il confronto per quei beni per i quali non prevediamo un recupero culturale, come la Celestia, destinata a social housing».

POVEGLIA, NESSUNO RILANCIA
Vera Mantengoli
Nessun vincitore e nessun vinto, almeno fino a ora. L'apertura delle buste ieri ha confermato, come anticipato dalla Nuova, che l'anonimo concorrente era il presidente di Umana Luigi Brugnaro che ieri si è aggiudicato l'asta on line per acquistare Poveglia. Ma 1'ultima parola spetterà alla Commissione di Congruità del demanio che dovrà verificare se la somma proposta, 513 mila euro, corrisponda all'effettivo valore dell'isola. La cifra raccolta fino all'ultimo minuto dall'Associazione Poveglia non è bastata a raggiungere la base dell'asta di 513 mila euro, nonostante abbiano partecipato alla colletta quasi 4000 cittadini. Il rilancio tanto atteso a colpi di mille euro è andato quindi in bianco, senza che l'imprenditore veneziano aumentasse la proposta.

Il Comune ha fatto sapere che se l'asta verrà aggiudicata a Brugnaro eserciterà il diritto di prelazione. Se invece verrà annullata perché la somma non è ritenuta sufficiente, allora proverà la strada del fiscalismo demaniale. Insomma, le carte sono state scoperte, ma i giocatori stanno ancora studiando la prossima mossa, inclusa l'Associazione Poveglia che sta aspettando dei segnali per capire che ruolo potrà svolgere nei prossimi mesi.

Asta. La sfida tra Associazione Poveglia e Brugnaro si è giocata sulla possibilità di rilanciare la somma proposta lo scorso 7 maggio. La prima manche si era conclusa con un 513 mila a 160 mila euro. Ieri i riflettori erano puntati su come si sarebbe svolto il secondo incontro. Fino a ieri non era infatti sicuro che il concorrente in gara fosse Luigi Brugnaro, nonostante molti indizi lo dessero per candidato sicuro.

L'associazione. Ieri mattina il direttivo dell'Associazione Poveglia si incontra in quello che è diventato il quartier generale degli iscritti, il Bar Palanca della Giudecca, il locale di Andrea Barina, uno dei soci della prima ora che il 3 aprile scorso lanciò l'idea di acquistare l'isola per non darla in mano ai privati. L'appuntamento è alle 11 sul sito del demanio. La sera prima una quarantina di soci si è incontrata per fare il punto, riconoscendo di non raggiungere la base d'asta. La strategia migliore è quella di rimanere fermi e di sperare che il concorrente non rilanci in modo che la somma rimasta sia così esigua da annullare l'asta. L'ipotesi peggiore è invece che Brugnaro voglia l'isola a tutti i costi e pur di averla sia disposto a proporre qualche milione di euro, cosa che non succede. Dalle 11 alle 12, tempo minimo per rilanciare, gli occhi sono puntati sul monitor fino a quando appare la scritta che dichiara la fine della vendita. La stanchezza accumulata dal direttivo dell'Associazione Poveglia nel corso di un mese di intenso lavoro, trova sfogo in un'acclamazione di gioia generale. L'ipotesi della vendita dell'isola sembra scongiurata. In quell'istante il demanio rende pubblico il nome del concorrente come "amministratore delegato di Umana Spa".

Brugnaro. Il volto di chi nei giorni scorsi per legge non poteva essere reso noto ora ha un nome. Luigi Brugnaro. La somma dell'imprenditore viene confermata come migliore proposta. Non appena la notizia si diffonde lo staff del patron dell'Umana convoca i giornalisti a una conferenza stampa all'Urban Space di Marghera, per spiegare le sue motivazioni e intenzioni. Brugnaro dichiara di non voler costruire alberghi e di essere disposto a incontrare l'Associazione Poveglia per vedere i progetti elaborati dai gruppi di studio, ma anche le idee di altre associazioni che hanno altre proposte. Durante l'incontro attaccherà duramente i giornalisti colpevoli di aver giudicato negativo il possibile ingresso di un privato e di non aver capito quanti soldi ci vogliono se si vuole restaurare Poveglia.


ABBANDONATA DA 46 ANNI C'ERA IL GERIATRICO
Roberta De Rossi
Tutti da decenni la vogliono, sinora l'ha avuta solo il degrado. La storia "recente" di abbandono di Poveglia ha inizio nel 1968, quando chiuse l'allora ospedale geriatrico: per anni lo Stato trattò con il Touring Club - che voleva farne un villaggio - trovando infine un partner nel Club Mediteranée, che evidentemente avrebbe spostato l'equilibrio verso quel turismo di lusso che è stato il marchio di gran parte delle conversioni delle isole della laguna. Nel 1985 si arrivò ad un'asta demaniale: Poveglia fu messa in vendita per appena 100 milioni di lire. Ma non se ne fece nulla. Nel 1997 sembrava cosa fatta: un progetto di turismo giovanile del Cts con la sponsorizzazione nientemeno che di Bill Gates. Restava da rispolverare il problema della cessione dal Demanio al Comune: un buco nell'acqua anche quella volta.

Sette ettari all' altezza di Malamocco, di Poveglia si hanno notizie storiche fin dall'anno 1000: l' isola - oggi pericolante negli immobili - ha un campanile del Cinquecento, numerosi edifici, alcune costruzioni rurali, due ville neogotiche, un patrimonio naturalistico prezioso (anche se vittima anch'esso del degrado): è stata la più importante stazione marittima sanitaria dell' Alto Adriatico e in seguito un ospedale geriatrico, fino all'abbandono nel 1968.
(Roberta De Rossi)


postilla
Se il comune volesse ottenere che l'isola di Poveglia rimanesse nelle mani della collettività non avrebbe neppure bisogno di "tagliare 513 mila € altrove". Potrebbe aprire una trattativa con i suoi elettori, i cittadini che hanno già raccolto 420.000 € e sono certamente disposti a raggiungere la cifra equivalente a quella offerta dall'imprenditore (uno dei "poteri medio-forti") di Venezia e a sottoscrivere un impegno ad assicurare una gestione dell'isola e dei suoi manufatti concordata e sorvegliata dalle istituzioni pubbliche competenti, nell'interesse degli abitanti di oggi e di domani.

«Siamo di fronte alla crisi siste­mica di un modello che, per poter pro­se­guire, è neces­si­tato ad aggre­dire i diritti sociali e del lavoro e ad impos­ses­sarsi dei beni comuni. Il Forum dei movimenti per l’acqua torna in piazza contro le politiche europee fondate su fiscal compact, pareggio di bilancio, svendita del patrimonio pubblico».

Il manifesto, 13 maggio 2014 (m.p.r.)
Tre anni fa, nel giu­gno 2011, la mag­gio­ranza asso­luta del popolo ita­liano votò un refe­ren­dum per dire che l’acqua e i beni comuni, essen­ziali alla vita delle per­sone e garan­zia di diritti uni­ver­sali, dove­vano essere sot­tratti alle regole del mer­cato e ricon­se­gnati alla gestione par­te­ci­pa­tiva delle comu­nità locali. Si è trat­tato di una cesura sto­rica con­tro la favola, da decenni impe­rante, del pen­siero unico del mer­cato e della pro­messa di ric­chezza pro­dotta dal suo libero dispiegarsi.

Venne allora decre­tata la fine del con­senso all’ideologia del “pri­vato è bello”, men­tre la miriade di con­flit­tua­lità sociali aperte sulla difesa dei beni comuni e dei ter­ri­tori sug­gerì la pos­si­bi­lità e l’urgenza di un altro modello sociale. Fu allora che, com­plice la crisi, arti­fi­cial­mente costruita attorno alla trap­pola del debito pub­blico — in realtà una crisi del sistema ban­ca­rio, sca­ri­cata sugli Stati e fatta pagare ai cit­ta­dini — venne pro­po­sto, con rin­no­vata forza e fero­cia, il para­digma del “pri­vato” che, anche se non più bello, va comun­que accet­tato come “obbli­ga­to­rio e ineluttabile”. L’obiettivo, tut­tora in campo, è la con­se­gna della società, della vita delle per­sone e della natura ai grandi capi­tali accu­mu­la­tisi in trent’anni di spe­cu­la­zioni finan­zia­rie, che, per uscire dal cir­colo vizioso di bolle che pre­pa­rano altre bolle, neces­si­tano di inve­sti­menti su asset nuovi e alta­mente pro­fit­te­voli, beni comuni in primis.

Ed è esat­ta­mente nella faci­li­ta­zione del rag­giun­gi­mento di que­sto obiet­tivo che si col­loca la stra­te­gia delle élite politico-finanziarie al comando dell’Unione euro­pea e l’azione com­pul­siva del governo Renzi: pri­va­tiz­za­zione di tutti i beni pub­blici, siano essi patri­mo­nio o ser­vizi, dere­go­la­men­ta­zione totale delle con­di­zioni di lavoro, messa a valo­riz­za­zione finan­zia­ria del ter­ri­to­rio e della natura, piena libertà di movi­mento per i capi­tali finan­ziari e messa a dispo­si­zione degli stessi della ric­chezza sociale e delle risorse a dispo­si­zione. In attesa che, con il Par­te­na­riato Tran­sa­tlan­tico sul Com­mer­cio e gli Inve­sti­menti (Ttip), in piena e segreta nego­zia­zione fra Ue e Usa, si crei la più grande area di libero scam­bio del pia­neta rea­liz­zando l’utopia delle mul­ti­na­zio­nali. Che tutto que­sto neces­siti di una dra­stica ridu­zione della demo­cra­zia, appare evi­dente da diversi fat­tori di stretta attua­lità: le pro­po­ste di riforme isti­tu­zio­nali e di una nuova legge elet­to­rale, tese all’azzeramento di ogni ruolo dell’attività par­la­men­tare e al raf­for­za­mento auto­ri­ta­rio dei poteri degli ese­cu­tivi; l’attacco defi­ni­tivo alla fun­zione pub­blica e sociale degli enti locali, con l’obbligo, sotto la scure del patto di sta­bi­lità, della messa sul mer­cato di patri­mo­nio, ser­vizi e ter­ri­to­rio; la repres­sione messa in campo con­tro i movi­menti sociali, dalle assurde accuse di ter­ro­ri­smo per gli atti­vi­sti No Tav alla scon­si­de­rata gestione dell’ordine pub­blico nelle piazze di Roma e Torino.

Siamo di fronte alla crisi siste­mica di un modello che, per poter pro­se­guire, è neces­si­tato ad aggre­dire i diritti sociali e del lavoro e ad impos­ses­sarsi dei beni comuni. Le con­se­guenze di que­sta per­se­ve­ranza nelle poli­ti­che di auste­rità sono più che evi­denti: un dram­ma­tico impo­ve­ri­mento di ampie fasce della popo­la­zione, sot­to­po­ste a per­dita del lavoro, del red­dito, della pos­si­bi­lità di accesso ai ser­vizi, ai danni ambien­tali e ai con­se­guenti impatti sulla salute, con pre­oc­cu­panti segnali di dif­fu­sione di dispe­ra­zione indi­vi­duale e sociale.

Ma a tutto que­sto è giunto il momento di dire basta. In que­sti anni, den­tro le con­flit­tua­lità aperte in que­sto paese, sono matu­rate espe­rienze di lotta mol­te­plici e varie­gate, tutte acco­mu­nate da un comune sen­tire: non vi sarà alcuna uscita dalla crisi che non passi attra­verso una mobi­li­ta­zione sociale dif­fusa per la riap­pro­pria­zione sociale dei beni comuni, della gestione dei ter­ri­tori, della ric­chezza sociale pro­dotta, di una nuova demo­cra­zia partecipativa. Sono espe­rienze che, men­tre pro­du­cono impor­tan­tis­sime resi­stenze sui temi dell’acqua, dei beni comuni e della difesa del ter­ri­to­rio, dell’autodeterminazione ali­men­tare, del diritto all’istruzione, alla salute e all’abitare, del con­tra­sto alla pre­ca­rietà della vita e alla mer­ci­fi­ca­zione della società, pre­fi­gu­rano la pos­si­bi­lità di una radi­cale inver­sione di rotta e la costru­zione di un altro modello sociale e di democrazia.

Gra­zie ad una pro­po­sta avan­zata dal Forum ita­liano dei movi­menti per l’acqua, tutte que­ste espe­rienze si sono incon­trate, si sono rico­no­sciute e hanno giu­di­cato maturo il tempo di pren­dere parola, per ria­prire lo spa­zio pub­blico della spe­ranza e dell’alternativa, pro­muo­vendo tutte assieme una mani­fe­sta­zione nazio­nale a Roma per sabato 17 mag­gio. Un appun­ta­mento col­let­tivo — radi­cale nei con­te­nuti, paci­fico, colo­rato e par­te­ci­pa­tivo nelle pra­ti­che — che chiama le donne e gli uomini di que­sto paese a dire, tutte e tutti assieme, come non vi sia alcuna uscita pos­si­bile dalla crisi, per­se­guendo le poli­ti­che di auste­rità dell’Unione euro­pea e del governo Renzi, fatte di Fiscal Com­pact, patto di sta­bi­lità, pareg­gio di bilan­cio, sven­dita del patri­mo­nio pub­blico e dei ter­ri­tori, pre­ca­riz­za­zione e privatizzazioni.

Una grande alleanza sociale dal basso, aperta e inclu­siva, per riap­pro­priarsi della pos­si­bi­lità di un futuro diverso, e per affer­mare come, tra la Borsa e la vita, abbiamo scelto la vita. Con l’allegria di chi vede l’orizzonte, con la deter­mi­na­zione di chi cono­sce l’insopportabilità del presente.

«Ci sentiamo dentro a un assurdo paradosso: dovremmo svenarci per poter comprare un bene demaniale, cioè statale, cioè nostro. I veneziani, quelli nati qui e quelli che lo sono diventati, adesso vogliono contare davvero». La

Repubblica, 13 maggio 2014 (m.p.r.)

Venezia. Alle 17.35 la Costa Fascinosa occupa il canale della Giudecca davanti alla Palanca (bar, osteria e soprattutto quartier generale dell’associazione “Poveglia per tutti”) e oscura come in un’eclissi totale la Salute e il campanile di San Marco. «Ecco, questa è la Venezia che non vogliamo più». È nata in questa osteria, a marzo, la prima protesta che forse riuscirà a cambiare la città di San Marco. «Non vogliamo – dicono Andrea Barina e Lorenzo Pesola, fra le guide dell’associazione – che un’isola che è sempre stata “nostra” diventi proprietà privata, aperta a pochi ricchi e chiusa a tutti gli altri. Con la nostra protesta abbiamo toccato un nervo scoperto. I veneziani sono saturi di un certo tipo di turismo e non vogliono più una città assuefatta e rassegnata».

Si deciderà oggi – forse – il destino di un’isola bellissima, famosa «per la fertilità della terra e la salubrità dell’aria». C’è infatti la seconda puntata di un’asta assurda, che potrebbe mettere nelle mani di Mister 513 (così viene chiamato l’ignoto imprenditore che dopo la prima asta risulta in testa con un’offerta di 513 mila euro) un vero gioiello: sette ettari di terreno ed edifici storici, sia pure cadenti, con un volume di 42 mila metri cubi. Con mezzo milione di euro, nel centro storico veneziano, compri un appartamento di 60 metri quadri. Con la stessa cifra puoi diventare padrone di mezzo ettaro di vigneto nel Barolo o mezzo ettaro di meleto in Alto Adige. «Ci sentiamo dentro a un assurdo paradosso: dovremmo svenarci per poter comprare un bene demaniale, cioè statale, cioè nostro ». L’asta si riaprirà alle 11. «Finora abbiamo raccolto 400 mila euro e nella notte ci potrebbero essere sorprese. Ma abbiamo un forte dubbio: anche se superassimo i 513 mila euro, sarebbe giusto rilanciare? Mister 513 potrebbe farlo a sua volta, diventando così padrone di Poveglia. Se non c’è rilancio, il demanio potrebbe ritenere incongrua l’offerta e fermare tutto. Potrebbero intervenire le istituzioni, Comune in testa. Finalmente si potrebbe discutere di Venezia e del suo futuro, smettendo di vendere a pezzi e bocconi un patrimonio costruito nei secoli».
Tanti dubbi in testa, una sola certezza. «Anche se perdiamo l’asta, non sarà la fine ma un nuovo inizio. I veneziani, quelli nati qui e quelli che lo sono diventati, adesso vogliono contare davvero». Non a caso la protesta è nata alla Giovecca. «Siamo l’unico pezzo di città – raccontano Barina e Pesola – dove gli abitanti sono in aumento. Qui cerchiamo di vivere in modo normale e il canale della Giovecca è il nostro “Mar Rosso” che ci divide e ci protegge dal turismo delle comitive e del mordi e fuggi. Ci siamo ribellati perché Poveglia è davvero nel nostro Dna».
Nella luce del tramonto l’isola mette in mostra tutti i suoi colori. «Nei primi anni ’70 è stato chiuso l’ospedale geriatrico, costruito lì per l’aria buona e nel 1978 se n’è andato anche l’ultimo custode. L’isola è diventata il nostro fuori porta. Ci sono decine di barchini, il sabato e alla domenica. Si va a fare la grigliata, si va passeggiare con i bambini nei sentieri ormai nascosti dalla selva. Per decenni un pezzo dell’isola ha sfamato centinaia di famiglie che andavano là a coltivare un orto. Per questo, quando sulla Nuova Venezia abbiamo letto che il nostro posto era in vendita, ci siamo organizzati. Novantanove euro a testa, per partecipare all’asta. Soldi sono arrivati anche da mezzo mondo. Gli iscritti a Poveglia per tutti sono 3.500 e solo la metà sono veneziani».
Troppe isole, fino ad oggi, sono diventati l’isola che non c’è. «Se parti in barca da San Marco e vai verso Poveglia, trovi San Clemente, isola ex manicomio. Nel 2003 è stato costruito un mega hotel di lusso, fallito due anni fa. A Sacca Sessola (ex sanatorio) si sta costruendo un resort di lusso che però ancora non riesce ad essere inaugurato. Le Grazie sono state comprate nel 2007 per costruire anche qui appartamenti per ricchi. Altri 60 appartamenti sono previsti a Santo Spirito ma i lavori sono fermi a metà. Fra fallimenti e difficoltà una sola cosa è sicura: in tutte queste isole c’è il divieto di accesso. Non sono più isole veneziane». Poveglia non deve diventare un’altra isola proibita. «Abbiamo messo al lavoro architetti e ingegneri e soprattutto abbiamo raccolto le idee dei cittadini. Se l’isola diventerà nostra cioè di tutti, potremo fare subito un restauro del verde. Torneranno gli orti. Ci sarà posto – queste alcune proposte già ricevute – per una scuola di vela tradizionale, per una piccola cantieristica, per congressi… L’isola dovrà tornare alla vita. Nei secoli scorsi lì c’era una Pieve con mille persone. Ora è rimasto solo il campanile, fra l’altro bellissimo. Siamo veneziani, e non siamo certo contrari al turismo di chi ha soldi. Ma non è possibile che un solo ricco compri un’isola al prezzo di un piccolo appartamento. E poi chiuda i cancelli in faccia a un’intera comunità»

Il manifesto, 11 maggio 2014


TRENTAMILA SENZA PAURA
di Maurizio Pagliassotti

Pro­ba­bil­mente quello di ieri pome­rig­gio è stato il cor­teo Notav più mas­sic­cio di sem­pre, per dare un’idea i par­te­ci­panti sono stati almeno il dop­pio rispetto la recente mani­fe­sta­zione per il primo mag­gio. Torino ha dimo­strato il suo soste­gno morale e poli­tico nei con­fronti dei quat­tro mili­tanti incar­ce­rati, lo ha fatto senza paura, nono­stante un clima di inti­mi­da­zione molto pesante che ha accom­pa­gnato i dimo­stranti, non meno di tren­ta­mila per­sone, lungo tutto il per­corso. Alle due del pome­rig­gio, ora­rio di con­cen­tra­mento in piazza Adriano la città appare deserta, avvolta in un col­tre di paura data dalla sce­no­gra­fia da action movie, che pre­vede uno spie­ga­mento di forze dell’ordine buono per i check point dell’Iraq ma non per la civile mani­fe­sta­zione annun­ciata. Così, cir­con­dati da un accam­pa­mento mili­tare ambu­lante, i Notav hanno ini­ziato il loro cam­mino verso Piazza Castello, il cuore di Torino. Ser­rande abbas­sate, silen­zio spet­trale, vec­chine affac­ciate dai bal­coni con facce scon­volte dalla paura ma incu­rio­site, ogni incro­cio pre­si­diato da cara­bi­nieri e poli­zia in assetto anti som­mossa. Scudi alzati, caschi e manganelli.

Alle tre del pome­rig­gio la gior­nata per i Notav appare com­pli­cata per­ché Torino, meda­glio d’oro per la Resi­stenza, si mostra nella sua fac­cia più gelida e indif­fe­rente. Appa­ren­te­mente il cor­teo non sem­bra nem­meno troppo cor­poso ma, cam­min facendo, la folla si ingrossa fino a diven­tare un fiume. La sfi­lata dei Notav davanti alla Sta­zione di Porta Susa, blin­da­tis­sima oltre ogni buon senso, dura un’ora. Apre come al solito la banda della Val Susa e alcuni rap­pre­sen­tanti delle isti­tu­zioni locali; poi un fiume umano com­patto, che va dai gio­va­nis­simi agli anzia­nis­simi di ogni estra­zione sociale. Ci sono accenti che testi­mo­niano pro­ve­nienze varie: romani, mila­nesi, veneti, napo­le­tani. Ma soprat­tutto si è aggiunta una massa inat­tesa di tori­nesi. Un popolo che ha come unica riven­di­ca­zione il diritto al dis­senso senza che que­sto debba essere tra­sfor­mato, come sta acca­dendo nel caso dei quat­tro gio­vani incar­ce­rati, nell’accusa di «atten­tato con fina­lità ter­ro­ri­sti­che». E, per tutto il pome­rig­gio, ad essere in secondo piamo è pro­prio il Tav, il can­tiere, lo spreco di denaro, la ‘ndran­gheta, gli appalti. L’unico pen­siero dei mani­fe­stanti è rivolto alla libertà di dis­senso messa sotto attacco.

Il fiume umano supera la sta­zione di Porta Susa e l’annessa caserma volante espo­sta in bella evi­denza, e imbocca via Cer­naia, la via dello shop­ping tori­nese. Qui si mani­fe­sta la chiave di volta di tutto il pome­rig­gio, per­ché i tori­nesi ter­ro­riz­zati dai mezzi di comu­ni­ca­zione sull’arrivo delle orde bar­ba­ri­che si ren­dono conto che peri­colo non c’è, e quindi la vita riprende nor­mal­mente. Negozi aperti, ser­rande rial­zate, signore e signori a spasso che né soli­da­riz­zano, né si ter­ro­riz­zano. Sem­pli­ce­mente vedono una mani­fe­sta­zione sì mas­sic­cia, ma nor­male. E fatta sor­pren­den­te­mente da per­sone nor­mali, nem­meno un ter­ro­ri­sta. Una mani­fe­sta­zione come tante altre che in que­sti anni hanno costel­lato la vita del movimento.

Lo stri­scione por­tato dai ragazzi dei cen­tro sociali di Torino recita: «Siamo tutti col­pe­voli di resi­stere. Libertà per i Notav». Un con­cetto ripreso da Nico­letta Dosio, tra le fon­da­trici del movi­mento oltre venti anni fa che dice: «Siamo qua per riven­di­care il diritto al dis­senso, alle libertà demo­cra­ti­che sono messe in crisi da un atteg­gia­mento per­se­cu­to­rio verso chi prova a disco­starsi dal pen­siero unico. Oggi la nostra paura va ben al di là della costru­zione del Tav, per­ché ci ren­diamo conto che qual­siasi forma di diver­sità di pen­siero potrebbe rice­vere lo stesso trat­ta­mento riser­vato ai quat­tro ragazzi accu­sati di terrorismo».

Pre­sente anche il magi­strato Livio Pepino: «Una grande mani­fe­sta­zione che dimo­stra come il movi­mento Notav sia paci­fico, di fronte a cui la mili­ta­riz­za­zione della città è stata ecces­siva. Un movi­mento che chiede dalle isti­tu­zioni un’apertura al dia­logo. La rispo­sta, pur­troppo, con­ti­nua ad essere la mili­ta­riz­za­zione, come dimo­stra quanto acca­duto oggi. Oggi abbiamo avuto una grande lezione di civiltà e capa­cità di stare insieme, che con­ti­nua dimo­strare quanto la repres­sione dura e pura non serva a nulla».

Atteso dagli orga­niz­za­tori del Salone del Libro lo scrit­tore Erri de Luca ha pre­fe­rito pren­dere parte al cor­teo dei Notav. Le sue parole: «Pre­fe­ri­sco par­te­ci­pare alla pro­te­sta in mezzo ai cit­ta­dini che soli­da­riz­zano verso quat­tro ragazzi accu­sati di ter­ro­ri­smo per­ché avreb­bero incen­diato un com­pres­sore». L’arrivo nella cen­trale piazza Castello ha quan­ti­fi­cato la por­tata della mani­fe­sta­zione per­ché tutta la spia­nata è stata riem­pita, ed una note­vole parte del cor­teo non è nem­meno riu­scita ad entrare. La Que­stura ha quan­ti­fi­cato tutto que­sto in due­mila per­sone, poco più di una riu­nione di con­do­mi­nio ben riuscita.

Inspie­ga­bil­mente gli unici momenti di ten­sione si sono avuti durante i comizi con­clu­sivi, quando una colonna di poli­ziotti in assetto anti som­mossa si è avvi­ci­nata velo­ce­mente alla piazza ricolma di per­sone pas­sando da una via late­rale e fer­man­dosi solo pochi metri prima di rag­giun­gere il cuore della folla, che stava ascol­tando paci­fi­ca­mente gli inter­venti. Alcuni momenti di ten­sione per la mano­vra appa­ren­te­mente inspie­ga­bile, e poi un ordine di die­tro­front ha spento gli animi bollenti.

Ora, dopo il suc­cesso di que­sta mani­fe­sta­zione popo­lare, la palla passa allo Stato. Con­ti­nuare ad usare la mano infles­si­bile della repres­sione o costruire un per­corso comune che metta da parte ogni forma di estremismo.

TORINO CITTà APERTA
di Marco Revelli

Torino città chiusa. Blin­data. Ser­rata in un dispo­si­tivo mili­tare sof­fo­cante, che aveva sigil­lato die­tro un muro di armati ogni strada late­rale, ogni svin­colo, ogni piazza. Il movi­mento No Tav l’ha aperta «come una sca­tola di tonno», con la pro­pria forza tran­quilla. Un cor­teo immenso, sor­ri­dente, ami­che­vole è pene­trato al suo interno scio­glien­dola e con­qui­stan­dola alle pro­prie ragioni. Tra­sci­nando con sé gli spet­ta­tori. Mostrando un volto che la Valle già cono­sceva – le fami­glie con i bam­bini in testa, la banda che suona le musi­che delle sagre mesco­late a quelle par­ti­giane, gli anziani con i nipoti, i gruppi di paese e di fra­zione -, ma che la città in parte igno­rava, acce­cata da un’informazione tos­sica, che ogni volta mani­pola e nasconde.

Il monu­men­tale tri­bu­nale vuoto, asso­lu­ta­mente vuoto, cir­con­dato dai blin­dati e dalle grate di ferro anco­rate col cemento al suolo come la zona rossa di Genova nel 2001 - quasi lì den­tro ci fosse l’oggetto del desi­de­rio della folla che gli sfi­lava accanto -, è il sim­bolo dell’ottusità del potere. Della sua inca­pa­cità di capire e pen­sare, come accade, appunto, a ogni potere, quando perde la ragione del pro­prio agire, e resta appeso al pro­prio appa­rato della forza senza giu­sti­zia (che si rivela, appunto, violenza).

Guar­dando quella folla mul­ti­co­lore, che sfi­lava serena, a volto sco­perto, davanti ai cor­doni cupi, cata­fratti, chiusi die­tro i pro­pri scudi, che sigil­la­vano il per­corso con un muro nero blu e verde scuro (c’erano tutti i corpi dello Stato, cara­bi­nieri, poli­zia, guar­dia di finanza) era dif­fi­cile imma­gi­nare come sui primi fosse pos­si­bile disten­dere l’ombra fosca del ter­ro­ri­smo e sui secondi appic­ci­care l’etichetta della lega­lità. Ai primi la vio­lenza, agli altri la giu­sti­zia. Piut­to­sto, ver­rebbe da dire, il contrario.

Il Movi­mento No Tav ieri, come altre volte, ha vinto. Con una sem­plice mar­cia ha strap­pato di mano ai pro­pri nemici ogni ele­mento di cre­di­bi­lità per soste­nere l’assurda teo­ria – ma sarebbe meglio chia­marlo teo­rema – che tenta di ricon­fi­gu­rare le azioni di pro­te­sta di quella popo­la­zione sotto il segno cruento dell’accusa di ter­ro­ri­smo. E nello stesso tempo ha mostrato l’isolamento, l’irragionevolezza, la povertà di argo­menti di chi, per soste­nere una causa razio­nal­mente inso­ste­ni­bile, è costretto a ridurla a que­stione di ordine pub­blico, in cui, come è noto, chi ha il man­ga­nello dalla parte del manico decide.

Da oggi, almeno qui, sull’asse che va da Piazza Castello alla Sagra di San Michele, quell’operazione si è infranta con­tro un mate­riale resi­stente e intel­li­gente che sarà dav­vero dif­fi­cile ignorare.

© 2025 Eddyburg