loader
menu
© 2025 Eddyburg
L’editoriale di Norma Rangeri e la cronaca di Antonio Sciotto sulla manifestazione organizzata dlla FIOM a Piazza San Giovanni a Roma. «La Fiom combatte una battaglia molto difficile, sull'estrema trincea di un paese che sembra aver smarrito la visione di un futuro civile e democratico»,

il manifesto 19 maggio 2013

I costituzionalisti
di Norma Rangeri

Una bella società civile. Quella che fa del lavoro e della difesa della nostra Costituzione i due comandamenti laici, da riportare al centro dell'agenda nazionale, ieri si è radunata, ancora una volta, a piazza S.Giovanni. Decine di migliaia di persone, raccolte in una manifestazione nazionale forte politicamente, per i suoi contenuti e per il messaggio lanciato, anche se non straordinaria nei numeri. Donne e uomini in cassa integrazione, esodati, precari, altrimenti soli nella disperazione, nel dramma che ormai diventa funesta cronaca quotidiana, hanno ripreso parola, con la rabbia, la determinazione, la voglia di difendere la democrazia, la dignità di ciascuno e di tutti.
Questa carica emotiva interpretata da operai e impiegati della Fiom, accompagnata dalla presenza di quelli di Sel, dei grillini, dei comunisti italiani, tanto più colpisce se paragonata alla paura che il Pd ha persino della propria ombra. Al punto da disertare, con qualche eccezione, la mobilitazione sindacale. Come se in quella piazza non ci fosse il cuore e la ragione della sinistra. E, proprio come ha scritto Maurizio Landini sul manifesto, e ripetuto ieri dal palco, è difficile capire come si può essere al governo con Berlusconi e «avere paura di essere qui». La Fiom combatte una battaglia molto difficile, sull'estrema trincea di un paese che sembra aver smarrito la visione di un futuro civile e democratico. Perché le larghe intese riverberano sulle confederazioni sindacali e c'è il rischio che si torni indietro, su pressione della Confindustria, anche rispetto al diritto di voto sui contratti.

Perché il governo di Pd-Pdl, si stringe nelle maglie di una oligarchia che genera sentimenti populisti. Perché sotto il ricatto berlusconiano, il Pd marcia verso riforme istituzionali utili a manomettere i principi di fondo di una pur esangue democrazia rappresentativa. Perché si va verso la separazione tra democrazia e lavoro, dividendo quel che i costituenti unirono nel primo articolo della Carta. E allora non deve stupire se ieri chiunque prendesse la parola dal palco di S.Giovanni per raccontare la sua condizione di cassintegrato o la difficile vertenza della sua fabbrica, collegava crisi economica e perdita dei diritti costituzionali. Così si spiegano gli applausi verso Stefano Rodotà, e la sua nomina di presidente ad honorem dell'associazione no-profit degli operai dello stabilimento Fiat di Pomigliano. Rodotà sta diventando sempre più punto di riferimento a sinistra, proprio perché la sua storia politica è nel segno della difesa dei diritti, tutti, e della carta costituzionale, che oggi qualcuno vorrebbe cambiare, invece di applicare.
Con una crisi economica che trasferisce la sede della sovranità popolare dal parlamento al mercato, con la perdita di credibilità dei partiti politici, e di quelli della sinistra specialmente, con la difficoltà dei movimenti a trovare nuove forme di partecipazione capaci di fare massa critica, un obiettivo importante - tenere insieme lavoro e democrazia - può tuttavia traballare, fino a mettere a repentaglio la tenuta del paese. E un sindacato come la Fiom rischia di trovarsi quasi solo nella trincea più scomoda e scoperta. Riprendere il filo a sinistra tra questi pezzi di sindacato, di forze organizzate, da Sel a parti della ex sinistra libertaria e comunista, e quella parte del Movimento 5 Stelle che fa della Costituzione punto di riferimento, è oggi la condizione minima per tenere aperta una prospettiva e far esplodere le contraddizioni del Partito democratico. Anche prima del congresso.
Comunque è stato Landini a riassumere perfettamente il senso di un pensiero, di una strategia politica, di una difficoltà: «essere rivoluzionari oggi è fare applicare la Costituzione perché solo da qui potrà partire la ricostruzione sociale e politica del paese». Appunto: un'impresa di questa portata non può pesare solo sulle spalle di una parte del sindacato.

«Il Pd ha paura della piazza»
di Antonio Sciotto

«Non capisco come si può essere al governo con Berlusconi e avere paura di essere qui». Il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, torna ad attaccare il partito democratico, e lo fa dalla storica piazza «rossa», San Giovanni. L’ultimo dei paradossi – ma in Italia si realizzano, si sa – è che alla manifestazione degli operai, il leader del Pd Guglielmo Epifani, ex segretario Cgil, non si è fatto vedere manco in cartonato. I metalmeccanici ieri hanno sfilato in corteo a Roma, per chiedere «un cambiamento, subito» al governo Letta: nuove politiche economiche e del lavoro, attenzione ai diritti. Tra le 50 mila e le 100 mila persone, ma la piazza visibilmente non era piena. Bisognerà anche capire, a freddo, come mai mancavano gli studenti e i tanti precari che pure Landini aveva invitato. Contenuti belli e condivisibili, urgenti: ma il corteo era composto solo e soprattutto da tute blu e dallo zoccolo duro della sinistra – dai piddini anti «inciucio» fino a Sel e Prc-Pdci, inclusi pezzi di M5S – ma non si sono visti i movimenti, se non qualche bandiera di Action e No Tav.

Landini ha rivendicato la centralità della piazza operaia: «Siamo la parte migliore del Paese, per noi pagare le tasse è un diritto». «Ogni volta che parliamo di diritti salta fuori il bocconiano di turno che ha studiato e dice: "ma dove si trovano i soldi?". Io non ho studiato tanto ma le cose vanno cercate dove sono. La Banca d’Italia spiega che negli ultimi 20 anni c’è stato un passaggio di 15 punti di Pil dai salari ai profitti e alle rendite, pari a 230 miliardi di euro. Soldi che non sono finiti negli investimenti ma nella rendita finanziaria e nella speculazione. Bisogna ripartire da lì».

La Fiom chiede quindi una «reale redistribuzione della ricchezza», e Landini critica la riforma dell’Imu: «È vero, era una tassa fatta coi piedi – dice – Ma non credo che il vero problema sia cancellarla per tutti. Le ricchezze, dove ci sono, vanno tassate. A partire dalle rendite finanziarie».

Quindi lo scollamento del governo, in primis del Pd, dai problemi reali del Paese: «Trovo folle che dopo l’esperienza Monti, bocciata alle elezioni, ci ritroviamo al governo sempre le stesse forze politiche, mentre il voto popolare si era espresso per un vero cambiamento. E infatti l’astensionismo dilaga». La «cura», per Landini, sta nella Costituzione: «Dobbiamo difenderla, e non accettare che la Ue ce la stravolga. Ma, al contrario, dobbiamo essere noi a estenderla in Europa. Noi della Fiom saremo con Rodotà e Zagrebelsky il 2 giugno a Bologna».

In concreto, quello che il governo Letta deve fare subito, è «investire sul lavoro: contrattando in Europa un allentamento dei vincoli di bilancio, e per esempio spingendo i fondi pensione a investire i loro 100 miliardi, che sono soldi di lavoratori e imprese, su titoli e aziende italiane». E poi: «Cancellare l’articolo 8; tornare alla tutela piena dell’articolo 18, che è stato stravolto. Defiscalizzare i contratti di solidarietà e rimodulare gli orari per bloccare i licenziamenti. Estendere a tutti la cassa integrazione ordinaria, così da non dover più mettere risorse sulla cassa in deroga, e poter finalmente istituire il reddito di cittadinanza. E poi estendere i diritti di cittadinanza: è assurdo che possano votare gli italiani all’estero e non gli immigrati che da tanti anni vivono e lavorano in Italia».

Dal palco hanno parlato diversi operai, tra i quali quelli della Fiat di Pomigliano, oggetto di un braccio di ferro infinito conl’ad Sergio Marchionne. Molto applaudito l’intervento della cantante Fiorella Mannoia. «Queste facce sono quelle che avrei voluto vedere alla guida del Paese. Penso che insieme noi ce la possiamo ancora fare – ha detto – Le risorse per il lavoro si possono trovare mettendo mano alle spese militari. Solo un casco da pilota di un F35 costa circa 500 mila euro. E noi siamo ancora in Afghanistan: non sono bastati migliaia di morti, gli oltre 2 milioni di euro che spendiamo ogni giorno». Gino Strada, di Emergency, ha parlato della povertà: «Abbiamo assistito a una cosa vergognosa sul piano politico – ha detto – Anche l’Italia è un Paese in guerra. C’è una guerra contro i poveri, i cittadini, che ogni giorno fa migliaia di vittime».

Infine, applauditissimo come sempre negli ultimi mesi, è intervenuto Stefano Rodotà, che è tornato a difendere la Costituzione e ha messo in guardia dal progetto di introdurre il presidenzialismo. Poi ha smontato la propaganda del Pd sulla «pacificazione nazionale», quella che dovrebbe giustificare l’"inciucio": «Dobbiamo pacificarci con chi? Per tutelare quali interessi? Abbiamo sentito tante volte la parola "sacrifici", ma io voglio fare due domande: sacrifici perché? E per chi?

«Mentre la politica volutamente cincischia sulle riforme, la svolta arriva dalla magistratura. Succederà così anche con la legge elettorale»Ma le leggi non le fa e le abroga il Parlamento? Se è così, allora che cosa aspettano gli eletti dal popolo ad abrogare il Porcellum e tornare alla legge elettorale di prima?

La Repubblica, 17 maggio 2013

PROPRIO così. L’ordinanza con cui i supremi giudici accolgono il ricorso dell’avvocato Aldo Bozzi, a nome di altri 27 firmatari, è già pronta. Anche già sottoscritta. Manca solo la materiale diffusione. Ormai è questione di ore. Lì è scritto che solo la Consulta può decidere ormai sui pesanti rilievi mossi da Bozzi al Porcellum, una legge «irragionevole» per numerosi motivi e quindi incostituzionale. «Una legge truffa peggiore di quella che ne porta il nome e che al suo confronto era bellissima» taglia corto Bozzi quando, nel suo studio di Milano, apprende da Repubblica che la Cassazione ha deciso in linea con quanto proprio lui chiedeva alla fine di un articolato ricorso “pesante” di oltre 50 pagine.

È un personaggio Aldo Bozzi. Ben 79 anni, ma la voce di un giovanotto. E l’energia pure. Nipote «prediletto», come lui stesso ammette, dello zio che aveva lo stesso nome, famoso liberale e protagonista della Resistenza. Il “giovane” Bozzi è un avvocato esperto in diritto amministrativo, che dopo trent’anni da avvocato dello Stato e venti di professione, adesso si dedica soprattutto ai ricorsi per il Tribunale dei diritto dell’uomo di Strasburgo. Non ha sponsor politici. Perché, allora, da anni tenta in tutti i modi di far cadere il Porcellum? «La mia è una ribellione personale». Le ragioni? «È una legge vergognosa, un imbroglio pazzesco, che produce un Parlamento di “nominati” e non di eletti. Gli italiani non eleggono i loro rappresentanti, e questo è contro la Costituzione».

Quanto è importante la scelta della Cassazione? Bozzi ride di una risata piena. Poi sillaba: «È una decisione i-m-p-o-r-t-a-nt- i-s-s-i-m-a». Chiosa: «È la scossa elettrica che serviva». Innegabile la sua valutazione. Soprattutto perché — incredibilmente — la politica tutta ha dimostrato in questi anni di essere sorda. Anche ai messaggi spediti dalla Consulta. L’ultimo è del presidente Franco Gallo. Fresco del 12 aprile. Eccolo rispondere così a una domanda: «La legge elettorale va cambiata. Non sta ame dire come debba essere quella futura. Ma il Porcellum è di dubbia costituzionalità». La Corte non è mai stata tenera con la legge Calderoli. Basta andare a rileggersi le sentenze del 2008, la 15 e la 16, relatori per la prima l’ex presidente Ugo De Siervo e per la seconda Gaetano Silvestri, con cui si respingevano due possibili referendum, e ancora la 13 del 2012, relatore Sabino Cassese. Lì è scritto che la Corte, nell’impossibilità, in quel tipo di decisione, «di dare un giudizio anticipato di legittimità costituzionale », tuttavia segnala al Parlamento «l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici della legge con particolare riguardo all’attribuzione di un premio di maggioranza, sia alla Camera che al Senato, senza che sia raggiunta una soglia minima di voti e/o di seggi».

Bisognerà leggere l’ordinanza della Cassazione per capire quali “dubbi” i supremi giudici hanno deciso di inviare alla Consulta. Per certo Bozzi, nel suo ricorso scritto con i colleghi Claudio Tani e Giuseppe Bozzi, ne ha indicati molti. Alcuni illustrandoli anche alla luce dei risultati delle recenti elezioni politiche. Il fil rouge è «l’irragionevolezza ». È irragionevole «un premio di maggioranza senza una soglia minima di voti ottenuti ». Un simile premio dovrebbe «assicurare la governabilità». Ma al Senato «18 premi di maggioranza, ognuno in base ai risultati di una Regione, garantiscono solo l’ingovernabilità». Palesemente violato l’articolo 48 della Costituzione perché «il voto di un elettore residente in Lombardia vale circa 10 volte quello di un residente in Umbria o in Basilicata». Si aggiunge la discrasia tra Camera e Senato, «l’illegittimità di due quozienti differenti per l’attribuzione dei seggi». Ma l’anomalia delle anomalie resta il voto indiretto perché la legge «non consente quello diretto ai singoli candidati concorrenti». Negata la preferenza, c’è il vulnus all’articolo 48 della Carta laddove parla di «un voto personale ed eguale, libero e segreto» e al 56 dove c’è il riferimento al «suffragio universale e diretto». Bozzi vede leso anche il potere del presidente della Repubblica di nominare il premier perché il voto dell’elettore vale anche come indicazione dell’unico capo della coalizione che figura già inserita nella scheda elettorale».

A questo punto è questione di tempi. Quelli della Consulta sono solitamente lunghi, ci vogliono in media tra i sei e gli otto mesi per verificare l’ammissibilità, calendarizzare, tenere l’udienza pubblica e decidere e poi scrivere la sentenza. Ma forse per una questione epocale come questa, e con il voto politico dietro l’angolo, un’accelerazione potrebbe essere realistica. Sempre che la politica non decida a sua volta di battere la Corte

ILa Repubblica, 16 maggio 2013

ROMA — Stefano Rodotà non entrerà nel comitato di saggi che il governo sta per istituire al fine di agevolare il percorso di riforme istituzionali. Non intende accettare procedure extraparlamentari nella revisione della Carta. «Modificare le norme sulla revisione costituzionale che costituiscono la più intensa forma di garanzia - osserva rischia di mettere in discussione l’intero impianto della Costituzione ».

Professore, Palazzo Chigi sembra però intenzionato a chiederle una partecipazione nella commissione governativa di saggi che affiancherà la commissione affari costituzionali. Repubblica ha anticipato l’apertura del Pdl nei suoi confronti: l’hanno chiamata?
«Finora nessuno mi ha telefonato chiedendomi se voglio far parte del Comitato di saggi del governo.Ma, chiamato o non chiamato, l’idea di una commissione estranea al Parlamento non mi è congeniale: la via corretta delle riforme costituzionali è quella Parlamentare. Modificare poi le norme sulla revisione costituzionale che costituiscono la più intensa forma di garanzia rischia di mettere in discussione l’intero impianto della Costituzione. Aggiungo che io non sono mai stato pregiudizialmente ostile alle riforme. Da anni insisto sulla necessità di lavorare a quella che chiamo la “buona manutenzione della seconda parte” della Costituzione. È l’unico modo per non rischiare di incidere sui diritti e i principi fondamentali della prima parte e per sfuggire alle tentazioni di accentramento dei poteri e di riduzione dei controlli. Modifiche come quelle riguardanti il bicameralismo e la riduzione del numero dei parlamentari vanno nella direzionegiusta».

E questo come dovrebbe avvenire?
«Si dovrebbe cominciare in Parlamento e nella sede specifica delle commissioni affari costituzionali, ripartendo il lavoro fra le due commissioni di Camera e Senato in modo che i tempi si accelerano. Ma non costituendo una sorta di terza Camera, con le due commissioni che scelgono al loro interno i membri di una commissione speciale che procede a redigere il testo delle nuove norme. Duecommissioni, lo dico semplificando, che cominciano a lavorare sui due temi specifici indicati prima».

La riforma più urgente?
«Senz’altro la riforma elettorale, la sola che potrebbe permetterci di riprendere a discutere seriamente di politica. È grave che il Pdl subordini alle riforme costituzionali il cambiamento della legge elettorale ».

E invece?
«Invece la legge elettorale deve essere modificata subito. E per due ragioni. Una di sostanza: questa legge elettorale ha un vizio di incostituzionalità. L’ha detto la Corte costituzionale, lo ha ripetuto il suo Presidente. Eliminare questo vizio è prioritario. Non mi spingo fino a dire che questo Parlamento è illegittimo: ma certamente è stato eletto con una legge “viziata”. In qualunque paese in cui ci sia un residuo di cultura istituzionale, una situazione di questo genere non sarebbe tollerata. E poi c’è una ragione politica. Berlusconi ha potere di vita o morte su questo governo perché sa che ora può decidere di staccare la spina nel momento in cui i sondaggi gli daranno la ragionevole certezza di vincere le elezioni: facendo l’en plein sia alla Camera che al Senato ».

E con l’eliminazione del Porcellum?
«Questo potere di condizionamento, di ricatto sul governo verrebbe, non dico eliminato del tutto, ma certamente diminuito. Una cosa che ci permetterebbe di tornare alla normalità costituzionale, alla normalità politica. E questa è una priorità istituzionale assoluta ».

Come interpreta l’apertura del Pdl nei suoi confronti?
«Non sono cambiato né ho cambiato le mie idee negli ultimi tempi. Forse ho avuto maggior visibilità e legittimazione per la vicenda legata alla presidenza della Repubblica. Probabilmente l’attenzione che mi viene dedicata è legata a questo fatto. La registrazione di un dato di realtà».

Contribuirebbe a un governo dove, oltre al Pd, c’è anche Berlusconi?
«Non è una cosa astratta, e mi scusi se torno sulla mia vicenda tante volte travisata. Io mi sono speso in quella direzione per un unico motivo: favorire una soluzione di governo che non portasse alla maggioranza attuale».

Ma se le chiederanno di entrare nella Convenzione dirà di sì o di no?
«Questo modo di aggirare il Parlamento non è il mio. C’è incompatibilità fra come si prospetta questa linea di riforma costituzionale e quello che io ho sempre sostenuto. Lo ripeto: a questa extraparlamentarizzazione della riforma costituzionale sono assolutamente contrario».

Un titolo palesemente errato. Sono tre NO che tutti dovrebbero pronunciare, con le parole e con i fatti. Ma il "mercato" chiede altro.

La Repubblica, 16 maggio 2013

CI SONO almeno due concetti che potrebbero essere evitati nelle cronache ormai quotidiane sulla violenza contro le donne.Il primo è il concetto di “emergenza”. C’è infatti uno strano automatismo nel nostro Paese. Secondo il quale se episodi analoghi e gravi si ripetono con una certa frequenza vuol dire che si deve rispondere con una logica emergenziale. Ed invece nel bollettino quotidiano dell’orrore contro mogli, fidanzate o amanti c’è una violenza stratificata e con radici profonde. Più aumentano i casi, più si dovrebbe ragionare in termini di problema strutturale e quindi culturale.

Il secondo concetto è quello di 'raptus', riportato spesso nei titoli dei giornali. Quando però si va a leggere il pezzo si capisce che di improvviso non c’è stato proprio nulla. Ciò che è stato definito “raptus” era invece un gesto ampiamente annunciato. Penso ad uno degli ultimi casi: Rosaria Aprea, ventenne di Caserta, ridotta in fin di vita da un fidanzato geloso fino all’ossessione. Stordita dall’anestesia, ha avuto la forza di indicare il suo compagno come l’autore di quella violenza. Lo stesso che già due anni fa l’aveva mandata in ospedale, a furia di calci e pugni. Ed è stata forse improvvisa, la morte di Maria Immacolata Rumi qualche settimana fa a Reggio Calabria? È arrivata in ospedale in fin di vita per le percosse subite. Il marito ha raccontato di averla trovata dolorante e “intronata” una volta tornato a casa. Ma gli stessi figli hanno dichiarato: “Nostro padre l’ha picchiata per tutta la vita, era geloso, non voleva che lavorasse”. Ecco perché parlare di morti improvvise appare addirittura grottesco. Sette donne su 10, prima di essere uccise, avevano denunciato una violenza o avevano chiamato il 118. E allora perché non sono state protette?

Dunque il più delle volte sarebbe meglio parlare di assassinii premeditati e di omissioni da parte di chi avrebbe potuto e dovuto tutelare le vittime. Il comitato “Se non ora quando” di Reggio Calabria dopo l’omicidio di Maria Immacolata si è chiesto: tutto questo si sarebbe potuto evitare se fossero state rifinanziati case-rifugio o centri antiviolenza? Non potremo mai sapere se Maria Immacolata si sarebbe rivolta a queste strutture, ma di certo sappiamo che sono troppo poche in Italia. E che sono ancora meno quelle in grado di offrire ospitalità alle donne. Si parla di un posto ogni 10mila abitanti. Dunque non c’è più tempo da perdere: i soldi per rifinanziare i centri antiviolenza devono essere trovati.

Alcuni mi fanno notare che sarebbe utile introdurre un’aggravante per i casi di femminicidio. Altri, invece, sottolineano che non servono nuove norme, ma un’effettiva applicazione di quelle già esistenti. Se è così, allora bisogna capire dove e perché si inceppa il meccanismo dell’attuale legislazione. Si potrebbe dunque immaginare una sorta di monitoraggio dell’applicazione delle norme in materia di violenza alle donne. Monitoraggio che non rientra nelle mie competenze di presidente della Camera, ma che mi farò carico di sottoporre alla competente commissione Giustizia, presieduta dall’onorevole Donatella Ferranti, della quale conosco sensibilità e impegno su questo tema. Intanto può servire che l’Italia ratifichi la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne: il 27 di maggio andrà in aula alla Camera come richiesto dalle deputate dei più vari gruppi politici.

C’è poi la questione della violenza via web. Ciò che mi sta a cuore è che si eviti l’equazione secondo cui, se le minacce, gli insulti sessisti, avvengono sulla rete, sono meno gravi. Non è così: la rete invece amplifica e pensare di minimizzare vuol dire non aver capito la portata del danno che dal web può derivare sulla vita reale delle donne. Questo non significa, lo ripeto, invocare un bavaglio. Semplicemente far sì che le norme già esistenti possano trovare effettiva applicazione anche per la rete. Oggi invece false identità o server collocati all’altro capo del mondo offrono un comodo riparo.

Infine, l’utilizzo del corpo della donna nella pubblicità e nella comunicazione. L’Italia è tappezzata di manifesti di donne discinte ed ammiccanti, che esibiscono le proprie fattezze per vendere un dentifricio, uno yogurt o un’automobile. In tv i modelli femminili che vengono proposti in prevalenza sono la casalinga e la donna-oggetto, possibilmente muta e semi-nuda. Da lì alla violenza il passo è breve. Se smetti di essere rappresentata come donna e vieni rappresentata esclusivamente come corpo-oggetto, il messaggio che passa è chiarissimo: di un oggetto si può fare ciò che si vuole. E invece è proprio a tutto questo che bisogna dire no.
Vorrei farlo usando le parole di una donna, una poetessa messicana, Susanna Chavez. Per anni si era battuta contro rapimenti, violenze e femminicidi nella sua città, Juarez. Un impegno che ha pagato con la vita, due anni fa è stata uccisa anche lei nello stesso modo delle vittime che aveva tentato di difendere. “Ni una mas”, era il suo slogan, “Non una di più”.

Questo è l'intervento del presidente della Camera, , al convegno che si terrà oggi a Roma, presso lo Spazio Europa, organizzato dall'Unione forense per i diritti umani e da Earth-Nlp.

«Convinta com’è che siano i mercati e nessun altro a disciplinarci, Berlino si muoverà solo se la politica prevarrà su tesi economiche degenerate in dogmi; se governi, partiti e cittadini accamperanno visioni chiare di quella che deve essere un’altra Europa».

La Repubblica, 15 maggio 2013
SUCCEDE solo in quest’Europa, attratta dal naufragio non a causa dell’economia ma della convulsa scempiaggine della sua politica: parliamo dello scandalo di una Corte costituzionale tedesca divenuta cruciale per ogni cittadino dell’Unione, mentre la Corte costituzionale in Portogallo vale zero. Parliamo di Jens Weidmann, governatore della Banca centrale tedesca, che accusa Draghi di oltrepassare il suo mandato – salvando l’euro con i mezzi a sua disposizione – e senza vergogna dichiara guerra a una moneta che chiamiamo unica proprio perché non appartiene solo a Berlino. Il mandato della Bce è chiaro infatti, anche se Weidmann ne contesta la costituzionalità: mantenere la stabilità dei prezzi (articolo 127 del Trattato di Lisbona), ma nel rispetto dell’articolo 3, che prescrive lo sviluppo sostenibile dell’Europa, la piena occupazione e il miglioramento della qualità dell’ambiente, la lotta all’esclusione sociale, la giustizia e la protezione sociali, la coesione economica, sociale e territoriale, la solidarietà tra gli Stati membri. Qualcosa non va nella storia che si sta facendo, se l’articolo 3 neanche fa capolino sul sito Internet della Bce, per timore che Berlino magari s’adombri.

Fra poco più di un anno, nel maggio 2014, voteremo per il rinnovo del Parlamento europeo. Soprattutto per gli italiani sarà una data diversa dal solito. Perché l’Europa della trojka (Bce, Commissione, Fmi) pesa sulle nostre vite come mai in passato. Perché le sue medicine anti-crisi sono contestate ovunque dai popoli, scuotendo perfino il medico che più ardentemente le propina: il 22 settembre i tedeschi andranno al voto e forse premieranno un partito antieuropeo –Alternativa per la Germania –appena nato nel febbraio scorso. I partiti dovranno smettere le menzogne che vanno dicendo, sulla possibilità di «piegare» Angela Merkel. Specie in Italia, dovranno piantarla di tradire elettori e cittadini. Per la prima volta infine, se oseranno, potranno indicare il presidente della Commissione. Sta nei trattati.

Se parliamo di menzogne, è perché nessun governo è in grado di piegare Berlino con gli argomenti esclusivamente economici fin qui sbandierati: un po’ meno austerità, un po’ di crescita, qualche condono. Convinta com’è che siano i mercati e nessun altro a disciplinarci, Berlino si muoverà solo se la politica prevarrà su tesi economiche degenerate in dogmi. Se governi, partiti e cittadini accamperanno visioni chiare di quella che deve essere un’altra Europa: non quella presente, dotata di risorse minime, precipitata in ottocenteschi equilibri di potenze.

L’Unione somiglia oggi a una Chiesa corrotta, bisognosa di uno Scisma protestante: di una Riforma del credo, dei vocabolari. Di un piano con punti precisi (erano 95 le tesi di Martin Lutero). Il Papato economico va sovvertito opponendogli una fede politica. Solo così la religione dominante s’infrangerà, e Berlino dovrà scegliere: o l’Europa tedesca o la Germania europea, o l’egemonia o la parità fra Stati membri. Sempre ha dovuto scegliere in tal modo: l’Europa, disse Adenauer nel ‘58, «non va lasciata agli economisti». L’ortodossia tedesca è antica ormai, s’affermò nel dopoguerra e si chiama ordoliberalismo:

i mercati sanno perfettamente correggere gli squilibri, senza ingerenze dello Stato, perché dotati di immutata razionalità. È l’ideologia della «casa in ordine»: ogni nazione espierà le proprie colpe da sola (Schuld vuol dire debito e colpa, in tedesco). Solidarietà e cooperazione internazionale vengono dopo, a coronare i compiti a casa se benfatti. Come in Inghilterra, viene invocata ingannevolmente anche la democrazia: trasferire parte della propria sovranità svuota i parlamenti nazionali. Per questo la Corte costituzionale tedesca è pregata di pronunciarsi su qualsiasi mossa europea.

Se è inganno, è perché nella fattoria-Europa non tutte le democrazie sono eguali: ce ne sono di sacrosante, e di dannate. Il 5 aprile scorso, la Corte costituzionale portoghese ha rigettato quattro misure dell’austerità imposta dalla trojka (tagli agli stipendi statali e alle pensioni), perché contrarie al principio di uguaglianza. Il comunicato diramato due giorni dopo dalla Commissione europea, il 7 aprile, ignora del tutto il verdetto, «si felicita» che Lisbona prosegua la terapia concordata, rifiuta ogni rinegoziato: «È essenziale che le istituzioni politiche chiave del Portogallo restino unite nel sostenere» il risanamento così com’è. Il diverso trattamento riservato ai giudici costituzionali tedeschi e portoghesi è a tal punto disonesto che l’Europa difficilmente sopravviverà come ideale nei suoi cittadini. Alcuni dicono che può sopravvivere se l’egemonia tedesca si fa più benevola, restando egemonia. George Soros l’ha chiesto nel settembre 2012 sul New York Review of Books, con solidi argomenti. Lo esige il governo polacco. In Germania lo domanda chi teme non già l’egemonia, ma una poco splendida, introversa autoidolatria.Egemonia e autoidolatria sono tuttavia i sintomi, non la causa del male che cronicamente assilla la Germania. Sempre ai suoi governi è toccato fare i conti con il dogma della casa in ordine.

Sin dal dopoguerra la sua politica della memoria fu mutila: conscia come nessun altro del passato nazi-fascista, ma dimentica del ciclone economico che tramortì i tedeschi, negli anni ‘30, con l’austerità delle riparazioni inflitte dai vincitori. Lo scherzo della storia è atroce: proprio Keynes, che aveva denunciato nel ‘19 la punizione disciplinatrice dello sconfitto, è l’economista più inviso in Germania.

Se la Germania ha voluto un’Europa sovranazionale, fino a inserirla nella Costituzione, è perché gli ordoliberali (nella Banca centrale, nelle accademie) sono stati ripetutamente disarcionati. Adenauer impose la Cee e il patto franco-tedesco a un ministro dell’Economia – Ludwig Erhard – che fece di tutto per affossarli. Che accusava la Cee di «endogamia» protezionista, di «scemenza economica». Con Londra provò a sabotare i trattati di Roma, preferendo di gran lunga una zona di libero scambio. Non l’ascoltarono né Adenauer, né il primo capo della Commissione Hallstein, grazie ai quali la razionalità politica vinse. Lo stesso scenario riapparve con l’euro: anche qui, aggrappato a Parigi, Kohl antepose la politica scavalcando economistiMainstreame Banca centrale. Oggi il bivio è simile, ma con politici camaleontici, senza più volontà ferme. La crisi ha disilluso il popolo tedesco. L’ordoliberalismo si politicizza, assapora vendette antiche.

Non resta quindi che lo Scisma: la costruzione di un’altra Europa, che parta dal basso più che dai governi. Un progetto già c’è, scritto dall’economista Alfonso Iozzo: secondo i federalisti, può divenire un’»iniziativa dei cittadini europei » (articolo 11 del Trattato di Lisbona), da presentare alla Commissione. L’idea è di munire l’Unione di risorse sufficienti per fare crescita al posto di Stati costretti al rigore. Una crescita non solo meno costosa, perché fatta insieme, ma socialmente più giusta e più ecologica, perché alimentata dalla tassa sulle transazioni finanziarie, dalla carbon tax (biossido di carbonio) e da un’Iva europea. Dalle prime due tasse si ricaverebbero 80/90 miliardi di euro: il bilancio comune rispetterebbe la soglia dell’1,27 concordata a suo tempo. Mobilitando Banca europea degli investimenti ed eurobond, avremmo un piano di 300/500 miliardi, e 20 milioni di nuovi posti di lavoro nell’economia del futuro (ricerca, energia). Per fare queste cose occorre tuttavia che la politica torni alla ribalta e ridiventi, come dice l’economista Jean-Paul Fitoussi, non un insieme di regole automatiche ma unascelta. Occorre l’auto-sovversione di Lutero, quando scrisse le sue 95 tesi e disse, secondo alcuni: «Qui sto diritto. Non posso fare altrimenti. Che Dio mi aiuti, amen».

Cronache dal fondo dell’abisso. Ma per favore, Maltese, Renzi no!

La Repubblica, 12 maggio 2013

CENTO anime e nessuna identità. Il dramma pirandelliano del Pd, il «caro defunto» lo chiama qualcuno, prosegue con toni e riti sempre meno comprensibili al comune cittadino. Anche ieri, nel giorno dell’elezione di Epifani, si sono fatti rubare la scena da Berlusconi, nel bene o nel male. Tumulti da prima pagina a Brescia, minuetti dal palco dellaFiera di Roma.

Nella lunga lista degli intervenuti, a rappresentare con tutele da manuale Cencelli tutte le correnti interne, non se n’è trovato uno capace di stare sul fatto del giorno. E magari dire con chiarezza che un condannato in appello per evasione fiscale dovrebbe dimettersi, insieme ai ministri manifestanti, invece di arringare le folle in piazza. Così, per dare un contentino ai poveri elettori. I quali, al solito, stanno da un’altra parte. Sono in piazza a Brescia, a contestare Berlusconi, l’innominato dell’assemblea Pd. Quello che i dirigenti del partito debbono fingere di considerare davvero uno statista, un alleato affidabile, una sponda per le riforme necessarie a rilanciare il Paese. Non un caimano che pensa ai troppi affari suoi, convoca l’ennesima piazza eversiva e vi raduna i ministri appena nominati a fare da claque per i soliti attacchi alla magistratura.ùL’unico che aveva intenzione di dirlo, il sindaco di Bari Michele Emiliano, non l’hanno neppure fatto entrare nella sala dell’assemblea. È rimasto fuori a masticare amaro: «Ci stiamo mettendo una vita per nominare un camerlengo. Berlusconi per scegliere il suo (Alfano,
ndr) ha impiegato due minuti».

Questo è più o meno il senso di un’altra giornata vissuta come in un acquario. Con qualche momento patetico, come la salita sul palco di Pierluigi Bersani, salutato con uno svogliato tentativo di standing ovation,subito abortito. «Si vince insieme, si perde da soli» ha detto l’ex futuro premier, guardando dalla parte dei dalemiani, i quali naturalmente applaudivano. Per quattro anni avevano fatto finta di essere bersaniani e un minuto dopo la sconfitta su Prodi intorno a Bersani non c’era più nessuno.

Nel caos calmo del Pd, il blocco dei dalemiani e quello dei popolari, in pratica i post comunisti e i post democristiani, costituiscono l’unica certezza. Sono stati loro i registi delle ultime scelte del partito. Il boicottaggio della candidatura di Prodi, l’affossamento della linea Bersani, il ripescaggio di Napolitano e l’alleanza con la destra. La nuova «svolta di Salerno» dicono dal palco. Una bella inversione a U in autostrada, secondo altri. Sono passati vent’anni e comandano sempre loro. Hanno usato Veltroni contro Prodi e poi Bersani contro Veltroni, adesso Letta contro Bersani. Ora la strategia prevedeva la nomina di un reggente di scarso peso, Guglielmo Epifani, per traghettare il partito fino all’autunno, in attesa di farsi venire una buona idea per far fuori Matteo Renzi.

Il sindaco di Firenze, persona sveglia, l’ha capito. Nel suo intervento, uno dei pochi comprensibili e perfino affascinanti, si è permesso di ricordare a chi da vent’anni elabora vecchie soluzioni per nuovi problemi che il mondo cambia in fretta, senza aspettare i tempi del centrosinistra italiano. Si è permesso pure qualche soddisfazione personale e qualche brillante battuta da esperto di twitter: «Se non si prendono i voti degli elettori delusi del centrodestra, poi tocca prendere i ministri della destra». Renzi è l’unico in grado di dare una nuova e moderna identità a un partito mai nato e aggrappato a due identità vecchie e ormai inutili, ex Pci ed ex Dc. «Una sinistra che da decenni non conosce e quindi non riconosce il nuovo mondo del lavoro che dovrebbe rappresentare», spiega il sociologo e neo eletto Franco Cassano. Per queste ragioni gli oligarchi del Pd, dalemiani ed ex popolari, ora cercano di usare Enrico Letta contro il sindaco di Firenze. La scelta inconsueta di far finire l’assemblea del partito con le conclusioni del presidente del Consiglio in carica è significativa. La strategia è far durare il governo il tempo necessario per rottamare il rottamatore e presentare alle elezioni Letta candidato premier del centrosinistra. Più tardi, con calma, dalemiani e popolari penseranno anche a come far fuori Letta, come hanno fatto con ben sette leader del centrosinistra. Un merito che è limitativo attribuire al vanesio Berlusconi. Hanno già deciso tutto. Poi però le cose cambiano, il mondo corre in fretta come dice Renzi, Berlusconi torna a rivelare la natura di caimano. La politica e la vita alla fine sono quel che accade mentre elabori progetti sbagliati.

Finalmente un “esperto” anche alla commissione cultura: molto esperto in cemento e infrastrutture,perfetto partner per il minostro del ramo, Maurizio Lupi.

Il Fatto Quotidiano", 11 maggio 2013

Salvatore Settis ha scritto che una serie di ministri per i Beni culturali come Sandro Bondi, Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi, “fosse stata a Firenze nel Quattrocento, sarebbe riuscita a insabbiare il Rinascimento”. Ottimo motivo per eleggere uno di questi tre draghi (Galan, nella fattispecie) alla presidenza della commissione Cultura della Camera, no? Se tra le macerie del Pd qualcuno avesse ancora a cuore le sorti della cultura, tuttavia, avrebbe potuto ricordare che esiste un motivo ben più grave e specifico per ritenere il nome di Galan davvero impresentabile e radicalmente incompatibile con ogni responsabilità in fatto di cultura: ancora più incompatibile, se possibile, di quanto sia quello di Nitto Palma con la commissione Giustizia.

Quel motivo è il saccheggio della Biblioteca dei Girolamini a Napoli. Del quale saccheggio Galan non ha responsabilità penale: ma ha tutta intera la responsabilità politica, pesante come un macigno. Nell’ordinanza del Gip di Napoli, Francesca Ferri, che ha confermato la detenzione in carcere del direttore-ladro Marino Massimo De Caro (condannato a sette anni in un primo processo, e ora rinviato a un secondo giudizio) si legge che la nomina dello stesso De Caro alla direzione dei Girolamini è avvenuta “ad onta di ogni regola e grazie all’influenza politica correlata all’incarico fiduciario di consigliere dell’ex ministro per i Beni e le attività culturali, Gianfranco Galan”. La nomina a direttore (non fatta da Galan, ma resa possibile solo dal fatto che De Caro era consigliere di Galan al Mibac) fu dunque il decisivo punto di partenza di “un piano criminale studiato in ogni dettaglio” , facilitato dalla “perdurante assenza di controllo e vigilanza da parte degli organi del ministero a ciò deputati” (così sempre il Gip).

Galan ha chiesto pubblicamente scusa per la sua parte di responsabilità in questa storiaccia, ma poi si è appreso che un altro consigliere ministeriale (Franco Miracco) dette l’allarme sulla figura e l’opera di De Caro fin dall’estate del 2011: perché, allora, né Galan né il suo staff ne tennero conto? Perché De Caro era il braccio destro di Marcello Dell’Utri (anche lui indagato perché in possesso di alcuni volumi rubati ai Girolamini), ex capo di Galan in Publitalia. E quando è stato chiesto a Galan perché avesse nominato proprio consigliere uno come De Caro (senza alcun titolo: non è manco laureato), Galan ha risposto candidamente: “Me lo aveva presentato un uomo al quale devo tutto nella vita: Marcello Dell’Utri”. C’è dunque solo da sperare che Dell’Utri non abbia più nulla da chiedere al novello presidente di commissione.

Particolare grottesco, anche Galan aveva ricevuto in dono un libro rubato ai Girolamini da De Caro: ma l’attuale presidente della commissione Cultura è così interessato alla cultura da aver gettato quel volume a casaccio nella sua anticamera ministeriale, dove la Procura di Napoli l'ha rinvenuto. Ora nessuno chiede la gogna mediatica o l’esilio, ma in quale paese ad appena un anno dall’esplosione dello scandalo dei Girolamini uno con le responsabilità di Galan avrebbe la faccia di tornare a occuparsi di cultura? E in quale paese il partito (ex) antagonista del suo lo voterebbe per una simile posizione, umiliando e offendendo Napoli, e tutto il mondo della cultura italiana? Irresponsabilità, amnesia, incompetenza, impudente arroganza: una perfetta costellazione per illuminare le magnifiche sorti e progressive della cultura italiana nell’era Letta-Letta.

Roberto Ciccarelli intervista uno dei protagonisti della difesa e del rinnovamento della Costituzione repubblicane e del consolidamento concettuale e giuridico della nozione di "beni comuni". «Lavoriamo su diritto di proprietà, testamento biologico, reddito, territorio, democrazia costituzionale. Ma non punto a un nuovo partitino».

Il manifesto, 10 maggio 2013

Marcello De Vito, candidato a sindaco di Roma per il Movimento 5 stelle, ha annunciato di volere sgomberare il teatro Valle per «riportare la legalità». Stefano Rodotà ci risponde al telefono proprio mentre si sta dirigendo al Valle per un incontro della «Costituente dei beni comuni».

Come giudica questa uscita?
Mi sembra infelice, è ispirata ad un'aggressività che non ha ragione d'essere, ancor più se confrontata con la reale esperienza del Valle che tutto mi sembra tranne che aggressiva. È più che altro il segno del personaggio che l'ha pronunciata. Altri candidati a sindaco di Roma come Ignazio Marino oppure Sandro Medici hanno ben altra considerazione di questa esperienza. Del resto, l'uscita di De Vito mi sembra in contraddizione anche con quello che i gruppi parlamentari del movimento 5 stelle sostengono nel comunicato redatto dopo l'incontro che abbiamo avuto alla camera mercoledì, dove si afferma l'impegno di questo movimento a proseguire il lavoro politico nella piena attuazione della Costituzione e dei beni comuni. È un lavoro da fare, ci possono essere delle imprecisioni, ma l'impegno va in questa direzione.
Che cos'è per lei il teatro Valle?
Il teatro Valle è stato occupato per restituire un bene comune alla cittadinanza, altrimenti sarebbe stato abbandonato al suo destino. Pensare di sgomberarlo con la forza pubblica significa non considerare il progetto di Fondazione che sta nascendo che è un'opportunità per l'intero paese, e non solo per la città di Roma. Con il progetto della «Costituente dei beni comuni» che, insisto, non vorrei fosse etichettata come una riedizione della «commissione Rodotà» del 2007, attorno al Valle si sta costituendo una rete molto ampia e significativa che non può essere liquidata come un'irregolarità. Questa rete già oggi coinvolge movimenti e associazioni di diversa natura e sta riscuotendo un forte interessamento. Tanto è vero che mi ha chiamato anche il segretario della Fiom Maurizio Landini. Mi auguro che questo interessamento abbia un seguito e ampli il lavoro della Costituente, perché è la prova della grande rilevanza sociale e politica che ormai hanno assunto i beni comuni in Italia tra tutte le parti attive della società. L'obiettivo è rendere il Valle un modello. Rispetto all'incontro con i 5 stelle mi permetta però di aggiungere una precisazione. Durante l'incontro non ho fatto alcun riferimento a quel che ha fatto o avrebbe dovuto fare il presidente Napolitano. Trovo irrispettoso mettersi abusivamente nei panni degli altri, a maggior ragione se sono quelli del presidente della Repubblica. Sono stato chiarissimo: avrei dato un incarico per formare un governo che prendesse in parola il Movimento 5 Stelle per le dichiarazioni che aveva fatto, dunque a una personalità diversa dagli appartenenti a quel movimento.

Tornando alla «Costituente dei beni comuni» di cosa si occuperà e come funzionerà?
I nostri lavori saranno completamente aperti, si terranno in forma assembleare e saranno itineranti, verranno ospitati di volta in volta da realtà attive nei diversi territori. Tre sono gli obiettivi di questa Costituente: il primo è formulare una nuova disciplina del diritto di proprietà, già in parte elaborata dalla Commissione nel 2007, provando a definire la categoria dei beni comuni e a superare così la categoria tradizionale della proprietà; il secondo è perfezionare alcune proposte di legge sui beni comuni, il reddito, il testamento biologico, il territorio e la disciplina delle proposte di legge di iniziativa popolare; il terzo è istituire quella che con Gaetano Azzariti definiamo una «convenzione per la democrazia costituzionale» che dovrebbe contribuire a rafforzare, appunto, la nostra democrazia costituzionale.

Non le sembra che i beni comuni siano a dir poco scollati dal dibattito che c'è tra i partiti della sinistra, tra «cantieri» che nascono e governi di larghe intese?
La ringrazio per la domanda perché mi permette di spiegare il momento complicato dopo i giorni dell'elezione del presidente della Repubblica. In quei giorni ero tranquillissimo. Poi mi sono ritrovato in una condizione che non è la mia, non rispecchia il lavoro che ho fatto nella mia vita, né quello che a me interessa fare. Non sono certamente il fautore di un nuovo partitino di sinistra, né di coalizioni come mi sembra sia stata Rivoluzione civile che raccoglieva più che altro l'intenzione di alcune realtà a mantenere le proprie identità. Senza considerare che proprio la coalizione formata da Pd e Sel intitolata al «bene comune» non abbia retto al primo urto. Non voglio lasciare alibi a nessuno, non sono uno di quelli che dice 'armiamoci e partite'. Le assicuro che in Italia esistono migliaia di persone che al solo udire di queste intenzioni si allontanerebbero in un secondo. Il lavoro da fare è un altro ed è quello di costruire una rete capace di rispondere all'esigenza di partecipazione dei cittadini

La proposta è giusta, sebbene incompleta, sul piano della tattica. Ma la strategia deve essere più ampia, e guardare più lontano, e più a fondo. Ne riparleremo, a partire dalla domanda: che cos'è il lavoro per l'uomo?

La Repubblica, 10 maggio 2013

Il nuovo governo ha dichiarato di volersi impegnare a fondo allo scopo di creare lavoro. Nel perseguire tale proposito dovrà compiere diverse scelte, alcune che gli sono note perché presenti da tempo nella discussione su questo tema, altre pressoché ignorate ma non di minore importanza. Il suo problema è quindi duplice: evitare di fare le scelte sbagliate tra quelle note, ma anche individuare scelte originali, attinenti a situazioni di cui al momento sia il governo sia i commentatori che lo spronano ad agire per creare lavoro sembrano ignorare.

Prima di toccare queste ultime, è opportuno un cenno a una scelta che sarebbe sbagliata, ma ha già fatto capolino in alcuni interventi del presidente Enrico Letta. Consisterebbe nel rispolverare l’idea che la flessibilità dell’occupazione – tradotto: una maggior facilità di licenziare, o di assumere tramite contratti di breve durata – serva a creare un maggior numero di posti di lavoro. La flessibilità è un ritornello diffuso dall’Ocse quasi vent’anni fa, con l’ausilio di un marchingegno chiamato Epl (acronimo inglese che sta per “legislazione a protezione dell’occupazione”). Quanto più elevato l’indice Epl osservato in un paese, dicevano i rapporti Ocse a metà degli anni Novanta, tanto più alto il suo tasso di disoccupazione. Circa dieci anni dopo, dietrofront: un altro rapporto Ocse diceva che gli studi empirici condotti su tale correlazione portavano a risultati contrastanti, e per di più la loro solidità era dubbia. Altri rapporti apparsi in tempi più recenti hanno concluso che il rapporto tra rigidità della protezione dell’impiego e il tasso di disoccupazione è assai ambiguo. Ad onta della sua inconsistenza, il ritornello dell’Ocse ha fatto presa in molti paesi e un risultato lo ha sicuramente avuto. Con il rapporto Virville in Francia, le leggi Hartz in Germania, le riforme del mercato del lavoro italiane del 1997, 2003 e 2012, tutte effettuate all’insegna della flessibilità, o sono stati creati milioni di precari, oppure quelli che erano già precari sono stati mantenuti in tale stato. Parrebbe dunque giunto il momento di congedare definitivamente l’idea di flessibilità.

La situazione che impone oggi nuove scelte sul fronte dell’occupazione e delle politiche economiche è la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie elettroniche.

È in corso da decenni, ma negli ultimi tempi ha fatto registrare sia una straordinaria accelerazione, sia una prepotente espansione in settori lavorativi e professionali che sembravano esserne immuni. Si sa qual è l’obiezione: la tecnologia crea tanti posti di lavoro quanti ne distrugge. Su tale assunto chi scrive ha espresso dubbi in un testo di quindici anni fa. Quel che sta succedendo con la diffusione dell’elettronica mostra che esso non regge più. Recenti studi americani (per esempio Ford 2009, MacAfee e altri 2011) arrivano alla stessa conclusione: la tecnologia continua a creare posti di lavoro, ma ne sopprime molti di più. La differenza l’hanno fatta microprocessori sempre più potenti e minuscoli, e programmi (o software) sempre più complessi e intelligenti. Per cui da un lato il lavoro umano continua a venire espulso dalle fabbriche perché le auto, le lavatrici e i televisori li fabbricano oramai i robot, controllati da computer costruiti da altri computer. Dall’altro, la novità è che sia mansioni impiegatizie di medio livello, sia attività professionali di fascia alta sono sostituite da macchine. Non scompaiono soltanto l’impiegata

del check-in all’aeroporto, il bigliettaio in stazione, la cassiera del supermercato, perché una macchinetta permette (o impone) al cliente di fare da solo, ovvero il libraio o il negoziante soppiantato dalla vendita in rete. Scompare anche il praticante con laurea e master di uno studio da avvocato, perché adesso c’è un software che in pochi secondi trova qualunque articolo di qualsiasi legge; il giovane architetto che trasformava in un dettagliato disegno tecnico lo schizzo del maestro, perché un computer lo fa meglio di lui; il matematico che disegnava complicati algoritmi per le transazioni di borsa computerizzate, perché ora che la sua banca ha acquistato un nuovo programma, di matematici gliene bastano due in luogo di dieci; l’insegnante delle medie che perde il posto insieme a metà delle colleghe, perché la sua materia gli studenti adesso la imparano con un sistema di e-learning che assegna pure i voti e fornisce consigli per studiare meglio. Risultato: senza scelte originali un tasso di occupazione intorno o al disotto del 5 per cento, il meno che si possa chiedere a una società decente, al posto dello scandaloso 12 per cento di oggi, l’Italia non lo rivedrà neanche fra trent’anni. Con i suddetti sviluppi della tecnologia non siamo affatto dinanzi alla fine del lavoro, quale preconizzava Jeremy Rifkin dieci anni fa. Siamo dinanzi alla necessità di concepire in modo radicalmente diverso la creazione di occupazione e l’allocazione di questa a differenti settori produttivi.

L’obiettivo primario dev’essere quello di creare posti ad alta intensità di lavoro. C’è soltanto da scegliere. Ci sono gli acquedotti che dalla sorgente al rubinetto perdono metà dell’acqua che convogliano e i beni culturali che cascano a pezzi. Ci sono milioni di abitazioni ancora costruite in modo da consumare energia in misura cinque o dieci volte superiore a quella necessaria per assicurare lo stesso livello di comfort e le scuole da mettere a norma per evitare che caschino in testa agli studenti. Ci sono migliaia di chilometri di torrenti e fiumi, e decine di migliaia di chilometri quadrati di boschi e terreni da sistemare affinché ogni volta che piove non ci scappi il morto e siano distrutte case e officine. C’è la metà almeno di ospedali da ristrutturare perché oggi terapie e degenze richiedono spazi organizzati in modo diverso rispetto a quando furono costruiti, mezzo secolo fa, e forse la metà degli edifici esistenti, in mezza Italia, che dovrebbero venire protetti dal rischio sismico con le tecniche oggi disponibili.

Tutto ciò significa milioni di posti ad alta intensità di lavoro, e qualifiche professionali che vanno dal manovale al perito all’ingegnere, che aspettano di venire creati a vantaggio dell’intero paese. Ci si potrebbero impegnare migliaia di piccole imprese, di cooperative, di artigiani, in parte forse coordinate da imprese pubbliche o private più grandi.

E qui cade una seconda scelta originale che il governo dovrebbe decidersi a fare. È inimmaginabile che un’attività del genere si possa avviare con qualche riduzione d’imposta o qualche incentivo alle imprese che assumono e simili. È necessario un piano. Un piano che miri a collegare la creazione rapida di occupazione alla necessità di effettuare una transizione regolata di masse di lavoratori verso settori produttivi diversi da quelli tradizionali, dove essi saranno sempre di meno, e perché no a una idea un po’ più alta del paese in cui si vorrebbe vivere.

Postilla

«Post Berlusconem non vale più la discriminante vero-falso, né esistono figure così ignobili che uno debba vergognarsene; in trent’anni d’antipedagogia s’è allevate fameliche turbe berlusconoidi. Le grancasse indicano un guasto genetico».

La Repubblica, 9 maggio 2013

Abbiamo un governo e con quanta festa l’accolgono i commenti: ringiovanito, «fresco», senza cariatidi inamovibili; vi figurano sette donne; non esistono precedenti. Ottimisti falsari proclamano che niente sia più come prima. Nuovo cielo, nuova terra ( Apocalisse, XXI capitolo). La politica diventa geometria non euclidea: tolto il quinto postulato, risultano pensabili triangoli la somma dei cui angoli non dia 180°; era classico quesito teologale se Iddio possa comporre tali figure (sì, secondo Cartesio, contraddetto da Spinoza). E qual è il postulato rimosso? L’idea d’uno Stato dove i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario appartengano a organi diversi e siamo tutti eguali davanti alla legge, due canoni malvisti dalla parte dominante nel ventunesimo secolo. I maestri cantori li mandano in soffitta (metafora giolittiana, a proposito del marxismo in casa socialista).

Il tempo storico ha degli scatti. Ogni tanto gli scenari mutano improvvisamente. Venerdì 19 aprile tiravano il fiato milioni d’italiani, confortati dall’idea d’un trasloco. L’uscente dal Quirinale aveva idee pericolose: che Silvio Berlusconi sia rispettabile statista; e ad ogni passo raccomandava «larghe intese», refrain ossessivo. Dio sa con quale titolo (forse la «justice retenue » posseduta dai monarchi francesi ancien régime) aveva ammonito tribunali e corti: pendano congelati i dibattimenti relativi all’insigne politico, dove manca solo la sentenza; e nella tattica berlusconiana la stasi vale battaglie vinte, con tanti saluti alla divisione dei poteri, nonché al conto dei voti («omnipotence de la minorité», direbbe Tocqueville).

Riconsideriamo l’eventus mirabilis. I predestinati alla vittoria sbagliano ogni mossa, nel modo più goffo, mentre il Re di denari imbonitore sfiora l’en plein recitando parti da vecchio comico con punte torve. Vengono fuori tre schieramenti minoritari e complica lo stallo la corsa al Quirinale. Avesse la testa sul collo, il Pd sosterrebbe Prodi, insidiato dai bicameristi, finché le Cinque Stelle convergano, ma circolano idee torbide: la candidatura fallita al primo colpo nasceva dal patto sotto banco con l’affarista supremo; gli avevano sottoposto dei nomi affinché scegliesse; e saltando al capo opposto (terzo salto in quaran-tott’ore), mandano emissari al Quirinale con una supplica. Li salvi ricandidandosi. Eroicamente lui accondiscende. Rieletto sul campo, ripete l’oracolo: esiste una sola via, intendersi con Silvius Magnus; il quale non sta nella pelle, tanto gli piace questa musica; e passa al Totem l’inno delle serate osées: «Meno male che Giorgio c’è». Infatti, traghetta un Pd più morto che vivo, come se nel 1932 Hindenburg, vegliardo feldmaresciallo, presidente dell’odiata Repubblica nata a Weimar, installasse un gabinetto presieduto da von Papen, nel quale siedano lo stremato Brüning e l’invadente Goering. Avviene tutto in famiglia. Con arte democristiana i due Letta, zio e nipote, escludono dall’équipe falchi e poiane d’Arcore, intollerabili dagli elettori furenti, ma agl’Interni, vicepresidente del consiglio, va Angiolino Alfano, chierichetto scampanellante dallo sguardo severo, né tubano quali innocue colombe i quattro commilitanti (due, garruli, impersonano l’ultras cattolico vivamaria): comanda un padrone; e solo qualche farceur può raccontare che ormai il Caimano sia pesciolino rosso. «Governo politico», esclama l’ostetrico sabato 28, ore 17.15, uscendo dalla Vetrata. La mutazione genetica sopravviene nel Pd, i cui rigoristi parlano d’espulsione se qualcuno non vota fiducia al nascituro. Qui viene in mente La fattoria degli animali, ultimo capitolo, dove maiali umanoidi camminano eretti e barano giocando a carte. Regna l’euforia d’una festa funebre: risulta ufficialmente morta la sinistra, già esanime; gli appetiti dicono quanto siano vivi i convitati. Il partito rosabiancofiore s’è tagliate le gambe: ogni cedimento ai modelli berlusconiani aggrava l’effetto ripulsivo nell’elettorato; e chi gli crederebbe quando, bruciato dalla mésaillance, risfoderasse intenzioni virtuose?

I falchi d’Arcore stridono, chiedendo politica forte, ossia poltrone, ma B. è troppo furbo per disfarsi d’un Pd ingaglioffito. Tutto sta nel tenere il governo sotto tiro. L’abbiamo visto irremovibile nell’imporre un suo fido presidente della commissione giustizia al Senato. Nel Pd ha un socio debole, quindi condiscendente (tutto fuorché le urne); e poiché il porcellum garantisce una Camera ubbidiente, la riforma elettorale scivola alla settimana dei tre giovedì. I ventidue resteranno in sella finché lui abbia cavato tutto l’utile: lo sappiamo giocosamente feroce; non farà sconti sul salvacondotto, servendogli il quale lo sventurato partner s’infogna, e cade l’intero sistema. Abolire l’Imu è slogan da fiera: sa che mancano i soldi; l’importante era mettersi dalla parte dei contribuenti scaricando l’ira sul povero partner.

L’aspetto patetico sta nel fatto che due italiani su tre non vogliano finire così. Niente esclude, anzi pare probabile un governo dalla vita media o persino lunga, con l’incognita biologica: quanto duri lui; gl’interessati la studiano freddamente; correva l’ipotesi d’una successione familiare. Complimenti al Pd, senza dimenticare l’occasione persa dalle Cinquestelle (votare Prodi al quarto turno). Nelle storie umane esiste anche l’imponderabile. Speriamo che stavolta porti bene, ma resta il segno: post Berlusconem non vale più la discriminante vero-falso, né esistono figure così ignobili che uno debba vergognarsene; in trent’anni d’antipedagogia s’è allevate fameliche turbe berlusconoidi. Le grancasse indicano un guasto genetico.

"L'amaca",

La Repubblica, 9 maggio 2013

A i fautori delle larghe intese sfugge la folle anomalia italiana.
Qui non si tratta di superare o smussare le differenze ideologiche tra destra e sinistra, compito improbo ma concepibile in tempi di emergenza sociale. Si tratta di fare finta che non gravino, sul leader di uno dei due schieramenti, processi e sentenze; di disinnescare uno scontro ventennale non sull’Imu o altre somme e sommette, ma sull’indipendenza della magistratura e sulla giudicabilità del potere politico. Così che ad ogni stormire di scartoffia, ad ogni refolo di tribunale, tutti tremano e sono costretti a sperare che una tregua o una distrazione o un caritatevole trucco possano rimandare a chissà quando il Giorno del Giudizio, che non varrà – capite la pazzia – solo per Lui, varrà per tutti, per il governo, per la legislatura, per la destra idolatra che se lo è scelto senza fiatare, per la sinistra imbelle che se lo è sciroppato fino a questa disperata partnership, per tutto lo sciagurato Paese che vive, da vent’anni, in ostaggio di un uomo che altrove (vedi Bernard Tapie in Francia) sarebbe stato rimesso al suo posto in un paio d’anni al massimo.
Ieri era Nitto Palma, oggi una sentenza, domani un nuovo scontro al penultimo sangue tra avvocati, magistrati e parlamentari sempre inchiodati alla stessa croce. È politica, questa? O è la sua sospensione fino a nuovo ordine?

Ecco il terreno su cui nascono e pascolano la “grande intesa” e la “solidarietà nazionale”: l'energia inquinante, le Grandi opere” inutili e spesso dannose, defiscalizzazione degli appalti, la finanza di progetto all’italiana (paga Pantalone): tutti al lavoro per ls crescita della città della rendita.

La Nuova Venezia, 8 maggio 2013
Energia, Tav, cantieri defiscalizzati, nuovo ospedale Padova I retroscena e le prospettive dell’incontro a Palazzo Balbi

Negli ultimi mesi Luca Zaia è sceso dal primo al terzo posto nella classifica di popolarità tra i governatori regionali, registrando un -0,8% di consensi. Lo afferma l’indagine trimestrale dell’istituto Datamonitor che colloca al primo posto il nuovo presidente del Lazio Nicola Zingaretti, seguito dal toscano Enrico Rossi. Il veneto non se la prende più di tanto: «Credo che l’exploit di Zingaretti sia legato alla vicinanza alla campagna elettorale, faccia tre anni di mandato come i miei e poi ne riparliamo», ha commentato. Quanto al possibile legame con i successi del fratello attore nelle vesti televisive del commissario Montalbano, Zaia ammette: «In effetti può esserci in effetti un effetto ’pubblicità occultà, io non ho nessun fratello da mettere in campo... ».

Nel cassetto il fazzoletto verde, in soffitta la bandiera rossa, Luca Zaia e Flavio Zanonato sottoscrivono un patto di non belligeranza all’insegna del pragmatismo. La mossa, maturata lunedì nel corso della visita del ministro a Palazzo Balbi, riflette l’urgenza della congiuntura economica e sociale ma risponde anche a reciproche convenienze politiche. Il governatore sconta il travaglio della Lega e le tensioni del suo gruppo dove la longa manus del rivale Flavio Tosi pilota la metà dei consiglieri; e l’assenza di risorse finanziarie minaccia di compromettere progetti cruciali nella strategia della sua amministrazione, condannandolo all’impotenza. Il ministro, da parte sua, è chiamato a dirigere un dicastero di prima grandezza - lo Sviluppo economico - che ha nel mondo dell’impresa un interlocutore obbligato ma tradizionalmente lontano dalla sinistra; cosciente delle aspettative create dalla sua nomina, avverte la necessità di centrare obiettivi significativi e visibili. Ecco allora delinearsi l’intesa su quattro punti prioritari: conversione della centrale Enel di Porto Tolle (2,5 miliardi di appalto e 5 mila posti di lavoro per tre anni); accelerazione e ampliamento della Tav con ingresso di capitali privati; defiscalizzazione (Irap e Ires) delle opere pubbliche immediatamente cantierabili; nuovo ospedale di Padova. Traguardi strategici, volani formidabili per il sistema produttivo ed il mercato occupazionale. Zanonato non risparmierà gli sforzi in questa direzione: «Nel Governo darò voce al Veneto, alla Regione Veneto e al suo presidente»; e Zaia - che a breve, insieme a Maroni e Cota, incontrerà il premier Letta per discutere di macroregione nordista - gli promette manforte. Ma c’è altro e c’è di più. Al rendez-vous veneziano ha presenziato anche il consigliere democratico Piero Ruzzante, padovano e vicinissimo a Zanonato. È stato lui, durante la discussione della legge finanziaria, a gettare una testa di ponte in terra leghista, proponendo con successo (grazie all’esplicito assenso di Zaia) il dirottamento di 14 milioni nel fondo emergenza sociale.

La circostanza ha segnato l’avvio di un “dialogo sui fatti” favorito anche dal cambio della guardia nel centrosinistra: l’elezione in Parlamento di Laura Puppato, fautrice di un’opposizione ideologica alla maggioranza di centrodestra che relegava oggettivamente il Pd ai margini del confronto, è coincisa con la nomina a capogruppo di Lucio Tiozzo, amministratore di lungo corso dotato di grande concretezza. Inciuci in vista? «Neanche per sogno, alla giunta Zaia non faremo sconti né ora né mai», reagisce Ruzzante, quasi echeggiando le parole del governatore («Restiamo su posizioni politiche diametralmente opposte»). C’è da crederci, perché il copione non scritto prevede mani libere sul piano della politica nazionale e dei prìncipi (ultimo, in ordine di tempo, il tema dirimente del diritto alla cittadinanza) ma vincola a un gioco di squadra sull’asse Roma-Venezia. Per fronteggiare una recessione che provoca lacrime e sangue e non fa distinzione tra fazzoletti verdi e bandiere rosse

A proposito di un rimprovero inaspettato alla ministra per 'integrazione: «o si sta con Cecile Kienge e Giorgio Napolitano o si sta magari in nome di una prudenza governativa, con Mario Borghezio.

www.huffingtonpost.it, 7 maggio 2013
È davvero difficile che provi indignazione alla lettura dei giornali. Evidentemente, come gran parte dei giornalisti, ho raggiunto anch'io una certa dose di cinismo. Ma stamattina l'indignazione è inaspettatamente risorta di fronte all'editoriale di Gian Antonio Stella sul Corriere della sera. L'editorialista rimprovera alla ministra per l'integrazione Cecile Kienge una "euforica loquacità" che l'ha portata, senza il rispetto di alcuna cautela, a dichiarare il passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli, cioè ad una legge che sancisca il diritto di cittadinanza per tutti i nati in Italia.

Non l'ha fatto nel modo giusto, dice Stella, ma in modo spiccio, creando una situazione di inquietudine se non di ostilità. Invece bisogna andarci cauti, esaminare, discutere, vagliare, studiare... E qui l'editorialista snocciola dati, enumera posizioni, racconta come si sono comportati altri paesi. Certo, Stella non approva le "reazioni isteriche di razzisti del web o della politica come Mario Borghezio", ma il suo editoriale è dedicato alle "inutili forzature" di Cecile Kienge ponendosi di fatto su una illusoria linea di mezzo fra le posizioni razziste e quelle della "euforica" ministra.

Allora dove nasce l'indignazione? Dal fatto che non c'è alcuna linea di mezzo fra il razzismo e l'affermazione di un diritto. Che non c'è alcuna posizione di appoggio al governo (e il Corriere della sera e i suoi editorialisti degli equilibri di questo governo sono soprattutto preoccupati) che giustifichi questa equidistanza, perché - lo sappiamo - una volta affermato un principio poi le modalità applicative, si trovano. Che non si può citare Napolitano, che afferma le stesse cose della ministra, per usarlo in contrapposizione. La domanda è semplice: ha diritto un bambino che nasce da genitori stranieri in Italia e poi ci studia, e magari ci lavora ad avere gli stessi diritti di un suo coetaneo che è nato da genitori italiani?

Se la risposta è sì, questa è la battaglia da fare. Anche in fretta, bruciando i tempi della burocrazia. (Ma Stella non ha fatto molte battaglie contro la lentezza nell'approvazione delle leggi?). Magari con convinzione, con entusiasmo, con decisione e passione. Questi non sono peccati.Il peccato è la prudenza, l'ambiguità, l'equilibrismo. Tertium non datur, caro Stella, o si sta con Cecile Kienge e Giorgio Napolitano o si sta magari in nome di una prudenza governativa, con Mario Borghezio.

«Il cardinale Bagnasco ha dichiarato che il finanziamento pubblico alla scuola privata permette allo Stato di risparmiare. Non comprende che non siamo di fronte a una questione contabile.». Non è il solo, ahimè.

il manifesto, 5 maggio 2013

Cari amici del manifesto,
si svolge domenica 26 maggio a Bologna un referendum sul finanziamento alla scuola privata importante, difficile e rischioso. Ma la politica, quella vera, è anche, e in molti casi soprattutto, proprio capacità di assumere rischi quando sono in questione principi, quando bisogna cercar di promuovere mutamenti nella società e nel sistema politico-istituzionale. Quel che dovrebbe sorprendere, allora, non è che qualcuno abbia avuto l'ardire di promuovere un referendum, ma che questo referendum si debba fare. E oggi, in presenza di iniziative politiche a dir poco azzardate, è più che mai necessario riprendere il filo, spezzato in questi anni, della politica costituzionale e della legalità che essa esprime.

L'oggetto specifico è quello ricordato - risorse pubbliche a beneficio di scuole private. Per giustificare questa scelta, a Bologna, e non solo, si adoperano argomenti di opportunità e ritornano le contorsioni giuridiche alle quali da anni si ricorre per aggirare l'articolo 33 della Costituzione. Ma questo, davvero, è un punto non negoziabile, per almeno due ragioni. La prima riguarda la necessità di rispettare la chiarissima lettera della norma costituzionale che parla di una scuola privata istituita «senza oneri per lo Stato». Ma bisogna anche ricordare - e questa è la seconda considerazione - che è sempre la Costituzione a prevedere che lo Stato debba istituire «scuole statali per tutti gli ordini e gradi». In tempi di crisi, questa norma dovrebbe almeno imporre che le scarse risorse disponibili siano in maniera assolutamente prioritaria destinate alla scuola pubblica in modo di garantirne la massima funzionalità possibile. Non a caso, Piero Calamandrei definì la scuola pubblica «organo costituzionale», individuando la linea dalla quale non può allontanarsi nessuna istituzione dello Stato.
Il cardinale Bagnasco ha dichiarato che quel finanziamento permette allo Stato di risparmiare. Non comprende che non siamo di fronte a una questione contabile. Si tratta della qualità dell'azione pubblica, del modo in cui lo Stato adempie ai suoi doveri nei confronti dei cittadini. La consapevolezza di questi doveri si è assai affievolita in questi anni, e le conseguenze di questa deriva sono davanti a noi. È ottima cosa, allora, che siano proprio i cittadini a ricordarsene e a chiedere con un referendum che la legalità costituzionale venga onorata.
I cittadini bolognesi hanno oggi la possibilità di far valere un principio, al di là delle convenienze. E, comunque si concluda questa vicenda, è stata fatta una buona azione civile, destinata a lasciare un segno nelle coscienze.
Buon voto a tutte e a tutti.

La nuova ministra per l'integrazione, italiana con la pelle nera, aggredita da soliti, sostiene che «L'Italia ha una cultura dell'accoglienza ben radicata, ma c'è una non conoscenza dell'altro, non si capisce che la diversità è una risorsa».

Il manifesto, 4 maggio 2023

«Non mi aspettavo tanti insulti. Sono rimasta ferita, ma non credo che gli insulti possano fermarmi». Gli insulti, razzisti, sono quelli che, non solo via web, sono stati scagliati contro un'altra donna, la nuova ministra per l'integrazione, Cécile Kyenge, non «di colore» - chiarisce lei - ma «nera, e lo ribadisco con fierezza», cittadina italiana originaria del Congo. Ma «è solo una minoranza, l'Italia non è un paese razzista», confida, presentandosi ai giornalisti. Però, aggiunge, «da questi attacchi ho imparato tante cose. L'Italia ha una cultura dell'accoglienza ben radicata, ma c'è una non conoscenza dell'altro, non si capisce che la diversità è una risorsa».

La ministra dice di sentirsi comunque «tutelata», riferisce che «sia il premier sia gli altri ministri mi hanno tutti espresso solidarietà». Ma deve attendere qualche ora dal termine del suo incontro con i giornalisti per una presa di posizione pubblica, con una nota congiunta, da parte di Enrico Letta e Angelino Alfano, che si dicono «fieri di averla nel governo».
L'ex ministro dell'interno leghista, Roberto Maroni, poi, aspetta giorni per commentare l'orrido Mario Borghezio, distintosi anche in questo caso. A precisa domanda, il segretario del Carroccio e presidente della Lombardia risponde: «No, non condivido. Ho parlato con lui al telefono per dirglielo». Provvedimenti? «Vedremo». Ma gli insulti alla ministra a Maroni «non piacciono» perché «si prestano solo a critiche e non portano alcun vantaggio». Visti gli argomenti, avrebbe fatto meglio a stare zitto anche Maroni. Anche perché se un altro leghista come Luca Zaia cambia registro - se andrà in Veneto Cécile Kienge «verrà accolta con tutti gli onori» dice ora - c'è n'è sempre un altro che vuole farsi riconoscere. Come l'ex parlamentare Erminio Boso che vomita razzismo alla La zanzara.
«Il discorso razzista in Italia è un problema che perdura da tempo, gli eventi più recenti confermano da un lato l'urgenza di affrontare la questione e dall'altro che le autorità devono mettere in atto misure più efficaci», dice il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks.
Delle misure che dovrebbe prendere il governo parla la ministra: «Bisogna dare risposte ai tanti figli di stranieri che nascono e crescono in Italia e non si sentono né italiani né del paese di origine dei loro genitori». E ancora, ospite di Gad Lerner su La 7, a proposito dei Cie: «Non si possono trattenere 18 mesi le persone perché non hanno un documento o perché sono irregolari. Ci sono irregolarità e molte cose che vanno cambiate. Tutti devono essere uguali davanti alla legge, e i diritti sono universali. Le persone in questi luoghi sono come sospesi, non hanno diritti e a volte stanno peggio di quelli che sono in carcere». Certo, riconosce Kyenge, «nel governo ci sono forze politiche diverse dalla mia come il Pdl o Scelta Civica», aveva detto in conferenza stampa. Ma «dobbiamo cercare uno spazio comune e un terreno condiviso, sempre nel rispetto dell'altro, senza mai offendere».

«Credo che la situazione storica sia assolutamente inequivocabile: l’Unione Europea è in grado di realizzare gli interessi nazionali più di quanto potranno mai fare le nazioni da sole. Perché si affermi questa convinzione, è necessario battersi in Europa per l’Europ».

La Repubblica, 4 maggio 2013
IL 2013 assomiglia davvero al 1789, come scrive allarmato il giornaleLe Point,pigiando sulla tastiera del simbolismo storico della grande nation? Oppure è l’ironia dell’estremo disorientamento che vuole attirare l’attenzione pubblica giocando con una metafora rivoluzionaria deliberatamente sbagliata? Viviamo in “tempi rivoluzionari” – anche se senza rivoluzione e senza soggetto rivoluzionario. Ciò che prima era a buon diritto chiamato “rivoluzione” si è per così dire trasferito nelle condizioni generali. Lo si può osservare con la massima chiarezza nel tramonto del linguaggio, delle coordinate politiche e dei concetti-chiave. Prendete quelli che volete: il nazionalismo, che nel mondo interdipendente non fa che acuire ogni problema; la distinzione tra indigeni e stranieri; la demarcazione tra natura e società; la famiglia; primo e terzo mondo; centro e periferia; Unione Europea – ovunque formule linguistiche svuotate, coordinate spezzate, istituzioni devitalizzate.

Il prefisso “post” è la parola-chiave del nostro tempo: postmoderno, post-democrazia, costellazione post-nazionale. “Post” è il bastone per ciechi degli intellettuali – la piccola parola del grande disorientamento che regna ovunque.Lo spettro della “post-grande nation” si aggira per la Francia e per l’Europa. La narrazione del ruolo peculiare della Francia in Europa e nel mondo, che ha formato l’autocoscienza della grande nation a partire dal 1945, perde il suo senso storico. All’interno l’orgoglio francese si fondava sul “modello sociale” dello Stato forte e centralizzato. L’industria dell’energia nucleare organizzata e controllata dallo Stato era considerata il museo del futuro, nel quale potevano essere ammirate le conquiste del progresso dello Stato moderno. Nella politica estera la potenza globale della Francia era costruita sulla base della posizione eccezionale del Paese nell’Unione Europea e perpetuata nel motore franco-tedesco dell’europeizzazione.

La forza persuasiva di tutti e tre questi progetti viene meno. Il modello sociale è eroso poiché il regime neoliberista del mercato mondiale domina ovunque. La catastrofe di Fukushima che cova ancora sotto la cenere ha spezzato l’orgoglio nucleare dei francesi. E non c’è bisogno di ripeterlo: l’Unione Europea versa in una crisi profonda. Di più: l’idea che le faccende europee vengano regolate in una coalizione franco-tedesca dominata dalla Francia viene messa in crisi non soltanto dalla cattiva performance politica della Francia, ma soprattutto anche dal fatto non più dissimulabile che la politica di risparmio viene progettata a Berlino e che “Merkiavelli” detta legge in Europa. Nello stesso tempo, però – ecco la schizofrenia – essa si rifiuta di assumere la responsabilità per il bene comune europeo.

Sicuramente, il primo anno del presidente François Hollande è stato deludente. Ma questo comporta forse il pericolo che il presidente debba finire sotto la ghigliottina, come suggerisce Le Point? Certo non si può dire che in questo primo anno la fortuna abbia baciato il presidente. Occorre riconoscere che egli ha quasi sistematicamente deluso le aspettative suscitate nella campagna elettorale. Dopo essere stato eletto per respingere l’isteria della politica del risparmio e per fare accomodare alla cassa i ricchi, non è riuscito – almeno finora – a fare né l’una né l’altra cosa. Il governo si è dedicato a praticare tagli drastici al bilancio. Nel frattempo la tassa sui ricchi è diventata una farsa dopo che la Corte costituzionale l’ha respinta e lo scandalo Cahuzac ha diffuso il suo devastante messaggio sulla doppia morale dei governanti.

Tuttavia, il desiderio dei commentatori, nutrito da un misto di disorientamento e disperazione, di decapitare François Hollande sulla ghigliottina dei titoli di giornale, è del tutto esagerato ed eccessivo. Gideon Rachman, confrontando la situazione della Francia con quella della Gran Bretagna e dell’Italia, giunge alla conclusione che la Francia non sta poi così male. Il deficit di bilancio di quest’anno ammonterà al 3,7%, mentre quello della Gran Bretagna corrisponde al 7,4%. Il saldo passivo della Francia ammonta ora a più del 90% - ma il debito italiano è più del 125%. Il tasso di disoccupazione è dolorosamente aumentato al 10,6%, ma in Spagna ha raggiunto un insostenibile 26%. A differenza dalla Spagna e dall’Italia i francesi possono ancora ottenere crediti a tassi convenienti. E l’economia francese è pur sempre la quinta del mondo. Hollande non entusiasma e attualmente la sua presidenza è turbata da incidenti di percorso. Ma è indubbiamente intelligente, serio ed è consapevole che la Francia deve reinventarsi in Europa e nel mondo globalizzato.
Quando le tempeste dei rischi globali scuotono un paese, sono possibili tre reazioni: la ritirata, l’apatia o la trasformazione. La prima – la ritirata – è tipica dell’alleanza tra la cultura moderna e il nazionalismo. I rischi vengono negati. E si noti il paradosso: il nazionalismo è diventato nemico delle nazioni europee perché non fa che acuire tutti i problemi delle nazioni e dell’Europa. Nelle ultime elezioni presidenziali in Francia il nazionalismo di destra e quello di sinistra hanno ottenuto circa il 30% dei voti – e, stando ai sondaggi, sono ancora in crescita. Qui sta la vera sfida per la Repubblica francese! Non vedo nessuno oltre al presidente Hollande, attualmente così in difficoltà, in grado di superarla e di salvare la grande nation.

La seconda reazione – l’apatia – è il nichilismo postmoderno, che in tutti i paesi ha radici più profonde della disillusione nei confronti della politica attuale, benché le élite politiche abbiano perduto in misura spaventosa qualsiasi credibilità agli occhi di molti cittadini.

La chiave per la terza risposta, la trasformazione, sta nel futuro dell’Europa – e non nella tentazione di cercare una via di fuga nei grandiosi e turbolenti passati nazionali. Come potrebbe presentarsi questa visione del futuro europeo? Al riguardo è necessario un dibattito in tutta l’Europa: qual è il senso e lo scopo dell’Unione Europea? L’Unione Europea ha poi un senso? Perché l’Europa? Perché non il mondo intero? Perché la Francia non può starsene per conto suo, o perché non possono starsene per conto loro la Germania, l’Italia, la Spagna, la Grecia, eccetera? Per avviare questo dibattito estremamente urgente, vorrei abbozzare (per punti) quattro risposte parziali.

Il primo senso e il primo scopo dell’Ue, che sta riacquisendo importanza, consiste nell’esperienza per la quale i nemici sono diventati vicini; non sempre buoni vicini, magari vicini che litigano, si ignorano, coltivano stereotipi, ma non più spauracchi. Sullo sfondo della storia di violenza dell’Europa, di questa “storia clinica di folli” (Gottfried Benn), tutto ciò equivale a un miracolo. Occorre fare molta attenzione affinché l’ortodossia della politica tedesca del risparmio imposta all’Europa e i riflessi antitedeschi non continuino ad acuirsi. Per questa via, alla fine i vicini potrebbero ridiventare nemici.

Il secondo senso e scopo dell’Europa può essere sviluppato come risposta alla globalizzazione. L’Europa è una polizza di assicurazione contro il pericolo che le nazioni europee scompaiano nel buco nero dell’irrilevanza. Il futuro delle nazioni europee può essere riconquistato solo
nell’Europa, non contro di essa. Una Francia post-europea sarebbe una Francia perduta, una Germania post-europea una Germania perduta, una Spagna e un’Italia post- europee una Spagna e un’Italia perdute, eccetera.

Il terzo senso e scopo può essere riassunto in questa formula: il futuro dell’Europa sta nella risposta ai rischi globali. Il modello della modernità nazional-statale e industrial- capitalistica, che l’Europa e l’Occidente hanno imposto a tutto il pianeta, si è rivelato difettoso, anzi, autodistruttivo. L’Europa (per riprendere una metafora del sociologo francese Bruno Latour) si trova nella situazione di un’azienda automobilistica che constata che i suoi modelli di punta hanno freni malfunzionanti e producono emissioni di anidride carbonica nocive per la salute dei guidatori e dei passeggeri. Cosa fa l’azienda? Ritira il suo prodotto! L’Europa deve riportare in un’officina di riparazione il suo modello di modernità autodistruttiva – ossia: ripensarlo e ricollaudarlo politicamente.

La mia quarta risposta alla domanda sul senso e lo scopo dell’Europa vuol essere un sussulto liberatorio, per così dire. Tutti si interrogano sull’Europa, ma nessuno ribalta da capo a piedi la domanda sull’Europa. Non dobbiamo soltanto riflettere sulla visione di un altro futuro europeo, ma anche sulla visione di una “altra nazione”: come si possono liberare dall’orizzonte del XIX secolo e come si possono aprire al mondo cosmopolitico del XXI secolo l’autocomprensione della grande nation, del nazionalismo e la categoria dello Stato nazionale democratico? Occorre allora distinguere chiaramente tra un fondamentalismo nazionale non-patriottico, che si rifugia nella nostalgia e si chiude all’Europa e al mondo, e un nazionalismo cosmopolitico, che ridefinisce i suoi interessi nazionali aprendosi al mondo, nell’alleanza cooperativa con gli altri paesi europei. Che l’Ue abbia un futuro dipende da una Francia europea, una Grecia europea, una Germania, una Spagna, una Polonia, un’Olanda, ecc. europee. Immaginiamo che in Gran Bretagna gli euroscettici prendano il sopravvento e che la Gran Bretagna esca dall’Ue. I britannici avrebbero allora un senso più chiaro della loro identità? Avrebbero più sovranità per decidere sulle loro faccende? No! Molto probabilmente gli scozzesi e i gallesi rimarrebbero nell’Ue; di conseguenza, si creerebbe una frattura dell’United Kingdom. E la Gran Bretagna – no, l’Inghilterra! – subirebbe una notevole perdita di sovranità, se per sovranità si intende il potere reale di influenzare le proprie faccende e le decisioni degli altri. Credo che la situazione storica sia assolutamente inequivocabile: l’Unione Europea è in grado di realizzare gli interessi nazionali più di quanto potranno mai fare le nazioni da sole. Perché si affermi questa convinzione, è necessario battersi in Europa per l’Europa.

(Traduzione di Carlo Sandrelli) . - Dell’autore è appena uscito in libreria Europa tedesca. La nuova geografia del potere, Laterza. Per un approfondimento di questi temi è anche disponibile il recente volume La crisi dell’Europa, il Mulino

“Io, minacciata di morte ogni giorno non ho paura e non voglio scorte ma dico basta all’anarchia del web”: Questo il titolo che

la Repubblica (3 maggio 2013) ha dato all’intervista di Concita De Gregorio. L’abbiamo cambiato, perché ci è venuta in mente la bella canzone delle mondine, poi fatta propria dalla Lega dei socialisti e dal movimento femminile. Il link alla canzone, interpretata da Paola Daffinà, è in calce.

— Laura Boldrini, seduta alla sua scrivania di Presidente della Camera dei deputati, legge attentamente i messaggi che la sua giovane assistente Giovanna Pirrotta le porge. Sono minacce di morte, di stupro, di sodomia, di tortura. Accanto al testo spesso ci sono immagini. Fotomontaggi: il suo volto sorridente sul corpo di una donna violentata da un uomo di colore, il suo viso sul corpo di una donna sgozzata, il sangue che riempie un catino a terra. Centinaia di pagine stampate, migliaia di messaggi. A ciascuna minaccia corrisponde un nome e un cognome, un profilo Facebook, l’indirizzo di una pagina Internet. Le minacce — tutte a sfondo sessuale, promesse di morte violenta — si sono moltiplicate nel giro di due settimane con il tipico effetto valanga che la Rete produce: al principio erano una decina, qualche sito le ha riprese e rilanciate, i siti più grandi le hanno richiamate dai siti più piccoli con la tecnica consueta: dichiarare in premessa l’intenzione di denunciare l’aggressione col risultato, in effetti, di divulgarla ad un pubblico sempre più ampio. In principio, quasi all’indomani della sua nomina, aveva preso a circolare una foto che a questo punto della vicenda pare addirittura innocente: una donna nuda, in spiagga, indicata come Laura Boldrini e affiancata da commenti machisti. Poi le prime minacce, altre e altre ancora sempre più gravi fino ad arrivare alle ultime, pochi giorni fa: una donna sgozzata, uno stupro. Siti di destra, razzisti e xenofobi, pagine Facebook, di seguito l’effetto macchia d’olio, incontrollabile. Dunque cosa fare?, è l’intatto quesito che si ripropone ogni volta che ci si trova di fronte a messaggi, comunicati, rivendicazioni di una minoranza violenta. Dar loro visibilità e amplificarli, facendo il loro gioco, o tacere, subire, reagire sul piano della denuncia individuale senza offrire un più largo palcoscenico a quelle miserevoli gesta.
«Io non ho paura», mormora la presidente della Camera mentre ascolta questa discussione, i suoi collaboratori attorno a lei. «Nel senso che certo, sì. Ho paura quando i fotografi inseguono mia figlia di 19 anni in motorino, ho paura che possa spaventarsi e avere un incidente, mi si gonfia in cuore. Ho paura quando si appostano sotto casa di mio fratello Enrico, il più piccolo dei miei fratelli, che soffre di una forma grave di autismo. Non capisco come possano farlo, e ho paura per lui. Ma non ho paura io, adesso, di aprire un fronte di battaglia, se necessario. Daremo visibilità a un gruppo di fanatici? Sì, è vero. Ma non sono pochi, sono migliaia e migliaia, crescono ogni giorno e costituiscono una porzione del Paese che non possiamo ignorare: c’è e dobbiamo combatterla. Non posso denunciarli tutti individualmente: è un’arma spuntata, la giustizia cammina lentamente al cospetto della Rete, quando arriva la minaccia è già altrove, moltiplicata per mille. E poi non è una questione che riguarda solo me. Ci sono due temi di cui dobbiamo parlare a viso aperto. Il primo è che quando una donna riveste incarichi pubblici si sca-
tena contro di lei l’aggressione sessista: che sia apparentemente innocua, semplice gossip, o violenta, assume sempre la forma di minaccia sessuale, usa un lessico che parla di umiliazioni e di sottomissioni. E questa davvero è una questione grande, diffusa, collettiva. Non bisogna più aver paura di dire che è una cultura sotterranea in qualche forma condivisa. Io dico: un’emergenza, in Italia. Perché le donne muoiono per mano degli uomini ogni giorno, ed è in fondo considerata sempre una fatalità, un incidente, un raptus. Se questo accade è anche — non solo, ma anche — perché chi poteva farlo non ha mai sollevato con vigore il tema al livello più alto, quello istituzionale. Dunque facciamolo, finalmen-
te».
Sul tavolo della presidente le pagine in cui uomini con nome e cognome, dati a cui corrispondono persone reali, scrivono «ti devono linciare, puttana», «abiti a 30 chilometri da casa mia, giuro che vengo a trovarti», «ti ammanetto di chiudo in una stanza buia e ti uso come orinatoio, morirai affogata», «gli immigrati
mettiteli nel letto, troia». Accanto alla foto della donna sgozzata: «Per i Boldrini in rete ecco l’Islam in azione».
La seconda questione è se possibile ancora più delicata, riguarda i reati commessi via web. Ogni volta che si interviene a cancellare un messaggio, ad oscurare un sito — dice Roberto Natale, portavoce della Presidente — c’è una reazione fortissima della rete che invoca la libertà e parla di censura. Valentina Loiero, responsabile comunicazione: «Al principio abbiamo individuato un sito, di cui è titolare Antonio Mattia, che aveva diffuso la foto di una nudista spacciandola per Laura ed aveva dato il via ai commenti sessisti. Abbiamo informato la polizia postale. La reazione dell’uomo alla visita delle forze dell’ordine
è stata una denuncia di violazione della privacy a cui hanno fatto seguito in rete accuse di abuso di potere, subito riprese da esponenti politici della destra».
Boldrini: «Abbiamo due agenti della polizia postale, due, che lavorano alla Camera, distaccati qui a vigilare sulle moltissime violazioni di cui un luogo istituzionale come questo può essere oggetto. C’è stato il caso della parlamentare del Movimento Cinque Stelle di cui è stata violata la posta personale. C’è il caso di una deputata oggi ministra che non ha più potuto accedere ai suoi social network e teme che a suo nome si possano divulgare messaggi non suoi. Poi ci sono le minacce di morte nei miei confronti. Tutte donne, lo dico come dato di cronaca. So bene che la
questione del controllo del web è delicatissima. Non per questo non dobbiamo porcela. Mi domando se sia giusto che una minaccia di morte che avviene in forma diretta, o attraverso una scritta sul muro sia considerata in modo diverso dalla stessa minaccia via web. Me lo domando, chiedo che si apra una discussione serena e seria. Se il web è vita reale, e lo è, se produce effetti reali, e li produce, allora non possiamo più considerare meno rilevante quel che accade in Rete rispetto a quel che succede per strada». C’è in questi giorni la discussione sulla scorta. «Io ho chiesto di non essere scortata. Non ho paura di camminare per Roma, non ho paura di andare da casa in ufficio. Può accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento, certo, ma questo vale per chiunque. Piuttosto mi pare molto più grave, molto più pericoloso che si diffonda in rete una cultura della minaccia tollerata e giudicata tutt’al più, come certi hanno scritto, una “burla”. Mi sento molto più vulnerabile quando penso che chiunque, aprendo un computer, anche mia figlia, anche i suoi amici, anche i ragazzi giovanissimi che vivono connessi al computer possono vedere il mio volto sovrapposto a quello di una donna sgozzata. Mi domando che effetti profondi e di lungo periodo, fra i più giovani, un’immagine così possa avere».
La campagna contro Laura Boldrini si è impennata all’indomani della sua visita alla comunità ebraica, il 12 aprile scorso. In quell’occasione, incontrando i dirigenti della comunità, ha parlato della necessità di «ripristinare il rigore della legge Mancino» a proposito dell’incitamento al razzismo e all’odio razziale su web. È infatti dell’8 aprile la sentenza di condanna dei quattro gestori di Stormfront, sito web neonazista, condannati per antisemitismo. È la prima sentenza che riconosce un’associazione a delinquere via web: a quella si richiamava Boldrini nel suo discorso alla comunità. Da quel giorno è partita la valanga. Il sito “Tutti i crimini degli immigrati” associa il volto del presidente della Camera alle notizie di reati commessi da cittadini stranieri. “Resistenza Nazionale”, “Fronte Nazionale”, “MultiKulti” e altri indirizzi web diffondono. Poi i fotomontaggi, e le minacce. Dal 28 aprile, dopo la sparatoria davanti a palazzo Chigi, hanno iniziato a circolare centinaia di messaggi che dicono «Dovevano sparare a te», «la prossima sei tu», «cacati sotto, a morte i politici come te». La magistratura è avvertita, le denunce sono partite. «Ma è come svuotare il mare con un bicchiere. Credo che ci dobbiamo tutti fermare un momento e domandarci due cose: se vogliamo dare battaglia — una battaglia culturale — alle aggressioni alle donne a sfondo sessuale. Se vogliamo cominciare a pensare alla rete come ad un luogo reale, dove persone reali spendono parole reali, esattamente come altrove. Cominciare a pensarci, discuterne quanto si deve, poi prendere delle decisioni misurate, sensate, efficaci. Senza avere paura dei tabù che sono tanti, a destra come a sinistra. La paura paralizza. La politica deve essere coraggiosa, deve agire»

«Se mi chiede di trovare un filo rosso nelle vicende politiche degli ultimi giorni mi viene da rispondere: il disprezzo per i cittadini». Il parere dell’autorevole costituzionalista Lorenza Carlassara sulle minacciate modifiche alla Costituzione.

Il manifesto, 3 maggio 2013

Lorenza Carlassare, professoressa emerita a Padova e illustre Costituzionalista, spiega le ragioni della sua contrarietà alla «Convenzione» del governo Letta: «La procedura di revisione costituzionale prevede modifiche limitate ed omogenee. L'articolo 138 non è una porta attraverso la quale far passare lo stravolgimento della Carta». Quanto agli ultimi due mesi, Carlassare parla di una «sospensione» dei risultati elettorali, decisa infine dalla «condizioni quasi impossibili» che Napolitano ha imposto a Bersani: «La fiducia del parlamento si verifica nel voto, prima non può essere "certa"». Intanto anche i comitati Dossetti chiedono che si parta dalla riforma elettorale. «Se mi chiede di trovare un filo rosso nelle vicende politiche degli ultimi giorni mi viene da rispondere: il disprezzo per i cittadini». A Lorenza Carlassare non è piaciuto il modo in cui il parlamento è uscito dallo stallo post elettorale - il governo Letta - e ancora meno piace la piega che sta prendendo il dibattito sulle riforme costituzionali. Riforme che ancora una volta vengono proposte in maniera strumentale, stavolta per puntellare un governo fragile. E non solo: «Secondo me - dice l'illustre costituzionalista - l'obiettivo principale è ancora quello di rimandare la modifica della legge elettorale. Si propongono percorsi che il minimo che si possa dire sono lunghi e complicati e intanto si cancella dall'orizzonte l'unica riforma che invece si potrebbe fare velocemente. Che è tanto più urgente vista la pessima prova della legge Calderoli e visto che siamo in presenza di un governo insicuro, che può andare in crisi in qualsiasi momento. Evidentemente - aggiunge Carlassare - gli estimatori di questa legge elettorale si tengono nascosti ma sono ancora la maggioranza».

Professoressa, come giudica la Convenzione costituente, tratteggiata dai «saggi» del Quirinale e proposta ufficialmente dal presidente del Consiglio Letta?
Mi pare un'assurdità. Semplicemente non si può fare. È una proposta illecita: la procedura di revisione costituzionale, l'articolo 138, prevede modifiche limitate e omogenee. Non è una porta attraverso la quale si può far passare la redazione di una diversa Costituzione, come mi pare si voglia fare. La procedura non può essere saltata. E la Costituzione non può essere modificata nei principi fondamentali e nella struttura di base, la forma di stato. Né possono essere cancellati i diritti e le limitazioni al potere, il principio democratico e l'appartenenza continua della sovranità al popolo (non solo in occasione delle elezioni). I rapporti fra gli organi costituzionali sono stati disegnati conformemente al principio della divisione dei poteri: se concentriamo tutto il potere in un solo organo, primo ministro o presidente della Repubblica che sia, si cambia la forma di stato non solo quella di governo. E poi l'idea che un piccolo gruppo prenda in mano i destini del paese mi fa paura, è un ulteriore segnale dello spirito autoritario che si sta affermando.

Cosa pensa delle alternative in campo, premierato forte e semipresidenzialismo?
Si tratta della riproposizione di contenuti non voluti dal corpo elettorale. Quella Costituzione di tipo autoritario, col rafforzamento dei poteri del primo ministro in modo tale da renderlo capace di superare qualsiasi ostacolo, era già stata proposta da Berlusconi e dalla Lega ed era stata respinta dagli elettori. Tornare lì adesso è un primo schiaffo ai cittadini che nel 2006 hanno bocciato quella riforma con il referendum. Un secondo schiaffo è immaginare di approvare di nuovo queste modifiche con una maggioranza tale da impedire un altro referendum confermativo, come è accaduto da poco con l'articolo 81. Sono riforme oltretutto inutili, che si spiegano solo con l'eterna pulsione a non attuare la parte sociale della Costituzione. Così ogni volta che, magari per caso, si profila la possibilità sviluppare i principi sociali della Costituzione con un governo che non sia espressione della pura conservazione, succede qualcosa che lo impedisce.

Sta parlando del fallimento, tra marzo e aprile, del tentativo di Bersani?
I risultati delle elezioni di febbraio sono stati come sospesi per due mesi. Eppure una cosa era apparsa chiara da subito, lo ha scritto Gianni Ferrara: senza il centrosinistra non sarebbe potuto nascere nessun governo. Il presidente della Repubblica - in un regime non (ancora) presidenziale - ha scelto però di porre al leader della coalizione che, di poco, era risultata vincente una condizione quasi impossibile: la garanzia di una fiducia certa. In politica non si può mai essere sicuri di avere i numeri fino al momento della prova, e del resto abbiamo già avuto nella storia repubblicana governi sfiduciati all'indomani della nomina. Questa volta, al limite, avremmo sostituito un governo dimissionario lontanissimo da qualsiasi gradimento del parlamento (di quello vecchio e di quello nuovo), parlo del governo Monti, con un governo Bersani, dimissionario anch'esso e in carica solo per gli affari correnti, ma almeno rappresentativo della coalizione più votata dagli elettori.

Invece abbiamo avuto il governo Letta, che ha messo insieme gli avversari delle elezioni.
Questo è il terzo segno di evidente disprezzo degli elettori. Chi ha votato per Berlusconi mai avrebbe voluto l'alleanza con Bersani, e viceversa. È stata fatta invece l'unione degli opposti, degli incompatibili. Una soluzione che mi pare condannata alla paralisi, come si vede dai primi ricatti. Un governo di coalizione si può fare con un sistema elettorale proporzionale, come in passato, quando comunque ad unirsi erano le forze più vicine e non quelle assolutamente contrastanti. Il Pd e il Pdl, o almeno i loro elettori, sono due mondi opposti. Paragonare il loro esecutivo al «connubio» tra Cavour e Rattazzi - espressione entrambi di un gruppo ristretto di elettori della stessa classe sociale - mi pare un insulto alla storia.

Gravi preoccupazioni per l’avvio del governo costruito da Berlusconi sulle macerie del PD. Ma non tutte le carte sono ancora giocate:«molte forze vitali sono già in campo, e non mancheranno di far sentire la loro voce».

La Repubblica, 3 maggio 2013

COME, e da chi, sarà governato questo paese nella fase che si è appena aperta? La prima risposta è tutta politica e deve partire dalla constatazione che Berlusconi è il vincitore della partita sulle macerie del Pd. E, in quanto tale, non sarà solo il lord protettore di questo governo, ma il depositario di un potere di vita e di morte.

La seconda riguarda il modo stesso in cui il governo si è costituito e si è presentato: un governo “per sottrazione”, non tanto per l’esclusione di pezzi del vecchio personale politico (in realtà, una vera “rottamazione” riguardante il solo Pd), quanto piuttosto per il silenzio su una serie di questioni evidentemente ritenute “divisive” (l’orrenda parola che connota sinistramente il nuovo lessico politico). La terza risposta è istituzionale ed è affidata all’invenzione di una Convenzione che dovrebbe, nelle parole del presidente del Consiglio, farci uscire dalla Seconda e traghettarci nella Terza Repubblica. La quarta, ma in verità la prima, è quella sociale, che riassume le urgenze dell’economia e il dramma delle persone.

Partiamo, allora, proprio da quest’ultimo tema. Sono stati descritti, in questi anni, alcuni caratteri che veniva assumendo la società italiana, caratterizzata da una serie di fratture profonde, non riferibili soltanto alla sfiducia crescente verso politica e istituzioni, ma soprattutto alla progressiva lacerazione del tessuto sociale. Ma queste rilevazioni oggettive non sono mai state prese seriamente in considerazione. Poiché l’unica bussola è stata quella dell’economia, e il mercato è vissuto come un’invincibile legge naturale, tutto il resto è stato ritenuto “sacrificabile”. E infatti la parola “sacrifici” è stata correntemente usata con allarmante leggerezza, senza essere capaci di rendersi conto che così veniva messa a rischio la coesione sociale e s’inoculava il virus della violenza. Quella inammissibile dell’aggressione armata, ma pure quella terribile del “tempo dei suicidi”, accompagnate dall’aumento dei reati documentato da commercianti e imprenditori come effetto del disagio che spinge all’illegalità chi vede in ciò una via obbligata per la sopravvivenza. E’ giusto, allora, invocare misura nel linguaggio, invito che tuttavia dovrebbe essere rivolto a tutti coloro che nel corso degli anni si sono fatti seminatori di discordia e imprenditori della paura. Ma è doveroso un riconoscimento a chi incanala la protesta sociale nelle forme della legalità. Penso alla Fiom, tante volte aggredita, che ha scelto la via giudiziaria per affermare i diritti dei lavoratori.

Siamo ormai di fronte ai drammi dell’esistenza, e la capacità di governo dei processi sociali si misurerà proprio in questa dimensione, che non può essere dominata dalla prepotenza dell’economia. Se la politica vuole ritrovare il filo costituzionale perduto, deve pur ricordare che la Costituzione parla di “esistenza libera e dignitosa” collegata alla retribuzione, sì che né il lavoro può essere considerato una merce, né l’azione pubblica può essere pensata solo come rimedio per le situazioni di povertà, pur essendo evidente che interventi in quest’ultima direzione siano urgenti. La discussione generale sul reddito di cittadinanza non può essere elusa in una prospettiva che guarda a un nuovo welfare, così come il mondo del lavoro non può essere lasciato privo di una legge sulla rappresentanza sindacale.

Legalità e Costituzione ci portano al non detto del programma di governo, al suo essere prigioniero della logica della sottrazione. Non una parola del presidente del Consiglio sui diritti civili, terreno sul quale in tutto il mondo si discute, si sperimenta, si innova, si legifera. I prossimi anni saranno quelli di un isolamento civile del nostro paese? Eppure, davanti a Governo e Parlamento stanno questioni ineludibili. La legge sulla procreazione assistita, la più ideologica e sgangherata tra i tanti mostri legislativi partoriti dalle maggioranze di destra, è stata fatta a pezzi dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: coerenza vorrebbe che si abbandoni la logica proibizionista, che ha prodotto un turismo procreativo che discrimina le donne in base alle loro risorse finanziarie, e si approdi ad una legge essenziale, rispettosa del diritto all’autodeterminazione e di quello alla salute, come la Corte costituzionale ha detto chiaramente. Il presidente della Corte ha recentemente ricordato una sentenza della Consulta che ha riconosciuto alle coppie di persone dello stesso sesso il diritto fondamentale a veder riconosciuta la loro situazione, rinviando correttamente al Parlamento la definizione delle modalità del riconoscimento. Può il Parlamento lasciare senza garanzie un diritto fondamentale delle persone? Possono gli eletti del Pd dimenticare che questo era un aspetto assai sbandierato del loro programma e compariva tra gli 8 punti di Bersani? Si potrebbe continuare, ma bastano questi esempi per mostrare che cosa si sacrifichi sull’altare delle larghe intese.

Conosco la vecchia obiezione. I diritti sono un lusso in tempi di crisi, Bertolt Brecht fa dire a Mackie Messer, nell’Opera da tre soldi, “prima la pancia, poi vien la morale”. Ma la dignità delle persone, il rispetto dovuto a ciascuno sono ormai un elemento costitutivo delle società democratiche. Possiamo dimenticarlo, sia pure per un momento? Peraltro, la cancellazione della dimensione dei diritti contraddice la dichiarata attenzione per l’Unione europea, dove ormai la Carta dei diritti fondamentali ha lo stesso valore giuridico dei trattati e afferma chiaramente l’indivisibilità dei diritti. Le convenienze purtroppo spingono in questa direzione, e tuttavia questo erode la legittimità del governo e la credibilità del Pd, cosa che dovrebbe preoccupare assai, e spingere ad azioni concrete, quei parlamentari che hanno manifestato critiche e preoccupazioni. E che dovrebbero essere memori, di nuovo, degli 8 punti di Bersani, dove comparivano la legge sui conflitti d’interesse e sull’incandidabilità, sul falso in bilancio e sulla prescrizione dei reati. Tutti temi che, malinconicamente, sembrano archiviati.

Qui nasce un ulteriore, significativo problema politico. I gruppi di opposizione hanno responsabilmente parlato della loro volontà di valutare nel merito, senza pregiudizi, i singoli provvedimenti del governo. E tuttavia il ruolo dell’opposizione non può ridursi al gioco di rimessa. Utilizzando anche le norme regolamentari che assegnano spazi garantiti per la discussione delle loro proposte, i gruppi d’opposizione presenteranno certamente proposte proprie, tra le quali con ragionevole probabilità compariranno alcune almeno tra quelle ricordate. Saranno valutate dalla maggioranza di governo con lo stesso spirito costruttivo manifestato dalle opposizioni? O questa si trincererà dietro un rifiuto pregiudiziale, vedendo in quelle proposte l’intenzione di mettere in difficoltà il governo?

Ma il punto più inquietante della linea istituzionale enunciata dal presidente del Consiglio risiede nella proposta di istituire una Convenzione per le riforme. Preoccupa il collegamento tra riforma elettorale e modifiche costituzionali, che contraddice la proclamata urgenza del cambiamento della legge elettorale e rischia, in caso di crisi, di farci tornare a votare con il porcellum (legge che contiene un clamoroso vizio d’incostituzionalità). Preoccupa la spensieratezza con la quale si parla di mutamento della forma di governo. Preoccupa lo spostamento in una sede extraparlamentare di un lavoro che – cambiando il titolo V della Costituzione, l’articolo 81, le norme sul processo penale – le Camere hanno dimostrato di poter fare, con il rischio di avviare un improprio processo costituente “suscettibile di travolgere l’insieme della Costituzione” (parole di Valerio Onida nella relazione dei “saggi”). Inquieta la pretesa di Berlusconi di vedersi attribuire la presidenza di questa Convenzione, dopo essere stato l’artefice di una riforma costituzionale clamorosamente bocciata nel 2006 da sedici milioni di cittadini.

Rispetto a questa linea si manifesteranno certamente le opinioni critiche in quel mondo della sinistra che, in questi anni, ha cominciato a ricostruire una vera linea di politica costituzionale, consapevole dei problemi della democrazia rappresentativa, ma convinta che la via d’uscita non sia quella dell’accentramento dei poteri e della cancellazione dei diritti. Molte forze vitali sono già in campo, e non mancheranno di far sentire la loro voce.

Tre articoli di Andrea Fabozzi, Paolo Favilli, e Pierfranco Pellizzetti.

Il manifesto, 1 maggio 2013

BERLUSCONI IL RIFORMATORE
di Andrea Fabozzi

Ieri il governo delle larghe intese ha avuto la fiducia anche del senato, ma poco prima Berlusconi gliel'aveva già tolta. Parlando dell'Imu e della convenzione per le riforme, il cavaliere alleato ha espresso un pensiero semplice: o si fa come dico io o faccio cadere il governo. Prima ancora di cominciare a crederci, dunque, il presidente del Consiglio Letta può scambiarsi di posto con il vice presidente Alfano. Realizzerebbe oltretutto il desiderio che ha confessato in aula: sedere tra i ministri ma non come primo ministro. In effetti non sembra che lo lasceranno guidare.

L'illusione di un Berlusconi affidabile è durata così 24 ore. Si potevano risparmiare anche quelle evitando di resettare la memoria degli ultimi 20 anni. Il Pd, di fronte all'immediato sgretolarsi del suo piano B (o era il piano A?) ha reagito con quel riflesso di responsabilità che tanti insuccessi ha garantito. Ha richiamato i nuovi alleati alla nobiltà del compromesso. I nuovi alleati hanno risposto con la nobiltà, e la grazia, di un Brunetta o di un Gasparri. Immaginate.

Ci toccano le repliche del governo Monti, due mesi dopo. Il Pd a puntellare l'insostenibile e il Pdl ad ammonticchiare quotidiane macerie per scalare la sua rimonta elettorale, regalando il resto a Grillo. Non che gli strateghi democratici e quirinalizi siano così ingenui, anche in questo caso hanno un piano. Concepiscono le larghe intese come il purgatorio necessario per uscire dall'inferno del bipolarismo conflittuale (che pure non gli era sembrato tanto male, all'ora). Tentano ancora di costituzionalizzare Berlusconi, in questo caso adattando la Costituzione a Berlusconi. Che continua a illuderli, presentandosi adesso come il nipote di De Gaulle. Dal bipolarismo conflittuale alla coalizione ricattatoria non c'è chi non veda il progresso. Ora il Pd può coerentemente dare al cavaliere alleato la guida della nuova bicamerale, evitando richieste peggiori. Tipo Lorenzin alla sanità, Quagliariello alle riforme o Lupi alle telecomunicazioni, non si sa mai.


GOVERNISSIMO
È TORNATO IL SIGNORE DELLA CORRUZIONE
di Paolo Favilli

Paolo Volponi, ne Le mosche del capitale, (1989) osserva un paesaggio italiano ancora «bello e pingue, ma svagato e stracco come se aspettasse una passata di peste e una notte da Medioevo». Il romanzo è ambientato nel 1980 ed è, nella sua lucidità, un premonizione ragionata della barbarie che stava arrivando. I suicidi «per cause economiche», episodi estremi, si manifestano come indicatori, spie dei modi di declinazione della barbarie nei tempi dell'inversione del progetto democratico.

Il progetto democratico, infatti, è del tutto compenetrato dalle logiche di uno svolgimento intrinsecamente opposto a quello della barbarie: un percorso in cui si declinano le forme storicamente possibili dell'uguaglianza, scandite dall'ampliamento progressivo della sfera dei diritti.

La dinamica regressiva dell'ultimo trentennio, le sue cause strutturali, non sono purtroppo elemento essenziale del discorso politico. Non è un caso. Da tempo ormai la politica ha scelto l'irrilevanza. Questo non è un problema per le parti politiche organiche alle classi dominanti. Il pilota automatico (si fa per dire, la scelta politica è implicita) che gestisce economia e società è garanzia di funzionamento adeguato per logiche e interessi cui tali parti politiche sono organiche. Per le parti la cui funzione storica era stata quella dell'emancipazione dei subalterni, si è trattato, invece, della catastrofe. Catastrofe di quella funzione storica, non certo dei destini personali dei molti che, di quella parte, provengono dal ceto politico dirigente. Anzi mai come negli anni dell'inversione del progetto democratico i loro destini sono stati contrassegnati da onori e privilegi.

Si è avverata la profezia di Leonardo Sciascia che ne Il contesto fa dire ad un leader del partito di governo sollecitato ad «aprire» nei confronti del partito di Enrico Berlinguer: «Questo paese non è ancora arrivato a disprezzare il partito del signor Amar quanto disprezza il mio. Nel nostro paese il crisma del potere è il disprezzo». Ora disprezzo e potere si sono alfine pienamente coniugati. Ecco allora che dell'orrore in cui siamo immersi possiamo dare conto solo prendendo le distanze dal luogo della narrazione dei giochi incrociati tra i poteri, per immergersi nel luogo della narrazione delle punte estreme dell'orrore quotidiano, della banalità dell'orrore. D'altra parte sappiamo bene, ormai, come in genere sia proprio l'analisi dei «margini» a darci conoscenza sulla verità del «centro».

La microstoria del triplo suicidio «per povertà», avvenuto recentemente a Civitanova Marche, non è altro che la riduzione di scala di problemi di ben più ampia dimensione. Vanno affrontati con analisi politiche e socio-economiche a quello stesso livello. Una microstoria innervata del senso profondo della storia generale che stiamo vivendo. Romeo Dionisi e Maria Sopranzi, i due coniugi che si sono impiccati in un garage di Civitanova, avevano interiorizzato la lezione sulla dignità dell'uomo che ha caratterizzato la storia dell'emancipazione dei subalterni, e non hanno retto alla vergogna del suo attuale naufragio.

La vergogna è paralizzante, distrugge le risorse interiori proprio perché è la condizione prodotta dalla perduta dignità. Romeo Dionisi e Maria Sopranzi si trovavano a giudicare degradante una situazione economico-sociale degradata. L'identità va in pezzi. Se gli esiti suicidali rimangono marginali, tuttavia il processo descritto riguarda ormai milioni di persone. La povertà diventa miseria proprio perché la povertà è indotta da un ulteriore ciclo di modernizzazione. Il ciclo dell'invenzione della scarsità, della scarsità socialmente costruita.

La modernizzazione della povertà, la sua riduzione a miseria, è uno dei parametri fondamentali su cui si articola l'analisi del capitalismo nell'età contemporanea. Nei cosiddetti «trenta gloriosi» (fine anni Quaranta, fine anni Settanta), si era avviata un'inversione di tendenza, un ciclo opposto: quello del percorso democratico; poi uno nuovo di modernizzazione. La banalizzazione del moderno, ma insieme la sua riduzione a senso comune dominante, la si può cogliere bene nell'affermazione lapidaria di una delle firme del Corriere della Sera relativamente al merito maggiore della Thatcher: «Ha costretto l'Inghilterra a diventare moderna» (Severgnini, 22/04/'13). La tragedia sociale dei subalterni come indice di modernità.

Alla banalizzazione della modernità si accompagna, in particolare nel caso italiano, la banalizzazione del nesso tra questione politica, questione morale e questione criminale. Il braccio destro (o sinistro) di Berlusconi è stato condannato in via definitiva per corruzione in atti giudiziari. La corruzione è avvenuta con l'utilizzazione di fondi riconducibili al suo datore di lavoro ed a vantaggio dello stesso. Il suo braccio sinistro (o destro) è stato condannato in primo e secondo grado (cioè nel giudizio di sostanza) per concorso in associazione mafiosa. In particolare nel suo ruolo di interfaccia (protettiva o meno) tra tale associazione e il solito datore di lavoro. È necessario ricordare che la lunga fase politica in cui siamo ancora immersi è cominciata proprio con il tridente d'attacco Berlusconi, Previti, Dell'Utri, cioè la triade fattuale di ciò che è stato provato: intreccio di questione politica, questione morale, questione criminale. Il corpo a cui appartengono il braccio sinistro ed il destro, dopo una breve parentesi, è ritornato ad essere uno dei signori della politica italiana. Si tratta di un fenomeno obbiettivamente mostruoso («che suscita stupore e meraviglia, straordinario» ), ma ancora più mostruoso il fatto che non sia avvertito come tale da chi ancora, qualche volta, evoca Enrico Berlinguer, sia pure in riferimenti del tutto retorici.

Tale mostruosità ha a che vedere con i lineamenti lunghi di una tipicità italiana. Lineamenti che si manifestano in maniera carsica, ma che tendono sempre a ritornare in superficie nei momenti in cui le risposte alle crisi emergono dalla decomposizione di climi caratterizzati da forte tensione etico-politica. Per dirla con il fulminante incipit tolstoiano di Anna Karenina: «Le famiglie felici si rassomigliano tutte. Ogni famiglia infelice, invece, lo è a modo suo». E nella famiglia Italia la crisi fa emergere componenti di lungo periodo che si coniugano agevolmente con la tradizione, anch'essa di lungo periodo, della politica come luogo privilegiato della coltivazione raffinata della pianta cinismo. Il fatto che lo scioglimento del nodo rappresentato dalla suddetta triade, vero e proprio paradigma della politica alta, sia stato sterilizzato, tolto dal campo della politica, dimostra come quella pianta sia divenuta rigogliosa.

«Intese non sono orrore...», ha tuonato Napolitano divenuto il presidente di una Repubblica con una nuova costituzione materiale. L'affermazione è un'ovvietà. Le intese figlie di un cinismo tanto profondo e radicato sono invece proprio l'orrore. Un indicatore preciso di barbarie politica. Solo la presa di coscienza degli aspetti fondamentali di questa barbarie, delle loro radici profonde, della necessità di una discriminante netta, sia etico-politica che analitica, nei confronti del vasto fronte della banalizzazione cinica, può costituire il punto di riferimento unitario di una sinistra divisa e dispersa.


PAROLE KILLER
INCIUCIO, IL LESSICO DEL POTERE
di Pierfranco Pellizzetti

Il presidente taumaturgo Giorgio Napolitano, quale primo atto ad alto valore simbolico della sua sacralizzazione, ha posto all'indice il termine inciucio. Nel frattempo la clacque si è premurata di spiegare che il compromesso sarebbe l'essenza stessa della politica, nel machiavellismo d'accatto del fine che giustifica i mezzi (e Albert Camus rispondeva: «Ma chi giustifica i fini?»). C'è, tuttavia, compromesso e compromesso. Per dire, quello keynesiano è un po' diverso dall'accordo collusivo sottobanco definito - appunto - inciucio. La rimozione lessicale per diktat presidenziale indica che questo lungo tramonto inverecondo della «Seconda Repubblica» trova uno dei suoi principali campi di battaglia nell'imposizione delle parole che determinano il pensiero pensabile mainstream. In perfetta simmetria con quanto già era avvenuto proprio agli albori di tale fase politica nazionale.

Infatti, agli inizi degli anni Novanta - mentre la crisi di Tangentopoli veniva aggirata virando la questione morale in questione istituzionale (maggioritario versus proporzionale, elezione diretta dei sindaci, ecc.), deviando l'attenzione dai comportamenti concreti alle regole astratte - i laboratori sul libro-paga del Potere elaborarono il nuovo lessico al servizio del controllo sociale. Parole-killer incaricate di ferire a morte tendenze incontrollabili e dunque pericolosissime per i gestori degli immaginari.

Fu il tempo in cui comunista perse qualsivoglia riferimento storico e culturale diventando sinonimo di generica ignominia, un po' come giudeo in bocca a un nazista; quando giustizialista compì la trasmigrazione di significato da movimento peronista degli anni Cinquanta in utilizzo ingiusto dell'azione penale allo scopo di perseguitare innocenti.

Le odierne perversioni linguistiche, che iniziano a risuonare nelle invettive dei pompieri che accorrono a frotte per sostenere il nuovo corso sulla carta stampata e nei talk show, privilegiano demagogo e populista. Sicché viene bollato con il marchio infamante della demagogia chiunque osi avanzare dubbi sull'apprezzabilità che la corporazione trasversale del potere abbia realizzato il proprio salvataggio aggrappandosi a un antico apparatciki migliorista, fossilizzato nell'idea che la priorità democratica consiste nel preservare il controllo dei partiti sulla società. Populistica diventa la messa in discussione dell'assunto che la mattanza dei diritti sociali e la precarizzazione della vita, effetto di massa del paradigma liberistico, corrisponda al migliore dei mondi possibili; anzi, all'one best way della società nella vaticinata fine della storia.

Se di sovente le parole sono pietre, talvolta diventano catene per imprigionare i corpi attraverso le menti. Per occultare l'inconfessabile. La ricostruzione mistificatoria del paesaggio mentale, di cui siamo agli albori, induce a pensare che si stanno ponendo le basi per equilibri di lungo periodo. Alla faccia del «governo di servizio per fare cinque cose cinque e poi le elezioni», teorizzato dal vice direttore de la Repubblica Massimo Giannini nel tentativo di salvare la collocazione del quotidiano.

Ormai il clima sta cambiando, dopo i giorni in cui le maldestraggini dei rivoluzionari onirici del web e i gattopardismi dei rinnovatori altalenanti hanno spianato la strada alla protervia dei restauratori. E si è realizzata l'operazione perfetta della collusione spartitoria innominabile (massì, inciucio). Clima destinato a durare, che rischia di andare rafforzandosi nel momento in cui l'indignazione generale - come qualche segnale induce a pensare - scivola nel fatalismo di massa, l'istanza collettiva a difesa del principio democratico preso sul serio ripiega nella ricerca individuale di tutele materiali. Parlando il linguaggio della sottomissione.

a Repubblica, 1 maggio 2013

Quasi quest’ultimo prefigurasse un Cristo (falso, peraltro) che porge la guancia all’avversario e per questo rifiuta l’elmo di bronzo, la corazza, la spada – cui non è abituato – portando con sé solo cinque ciottoli lisci e la fionda.In realtà David li porta per uccidere Golia, non per schivare il duello. Golia, il gigante filisteo alto sei cubiti e un palmo, cadrà a terrà ferito dal primo ciottolo. Il colpo finale, la decapitazione, il giovane pastore l’assesta con la spada, che sguaina dal fodero dell’avversario atterrato. L’atto fa di lui il pretendente al trono di Saul.

Chi ha visto il dipinto di Caravaggio ricorderà la resa dei conti, l’inorridita testa amputata di Golia, che ancora grida. Difficilmente gli verranno in mente le grandi intese magnificate da Letta alle Camere, l’era delle contrapposizioni finite, un intero ventennio di abusi di potere rimosso. Golia non è spodestato (Machiavelli direbbenon è spento):anzi, con lui si vuole difendere la Repubblica dalle avversità. È un Golia riabilitato, perfino premiato. Brandisce addirittura la spada, sull’Imu, per mostrare chi comanda in città. Nell’Antico Testamento, il gigante non è in predicato di divenire senatore a vita, o peggio presidente della Convenzione che ridisegnerà il regno e la sua costituzione. E Letta non è, come nel libro di Samuele, il temerario ragazzo che si getta nell’agone per «allontanare la vergogna da Israele»: indifferente ai fratelli che, impauriti, l’accusano di «boria e malizia », trascinato dalla fede. Nessuna boria né malizia, in Letta che apre le porte a Golia. Ma la fede qual è, dov’è? Quale convinzione forte lo spinge a esautorare il Parlamento — e i cittadini rappresentati — affidando a un organo parallelo e separato la rifondazione della politica, della Costituzione, della giustizia? Come può pensare, se non in una logica di compromissione più che di compromesso, di assegnare la regia della nuova Bicamerale nientemeno che a Golia?

La fede, Letta la possiede su punti tutt’altro che irrilevanti. Fede in un’altra Europa, unita in una Federazione dove non dominino gli Stati più potenti: Monti non osò, non credendoci. Fede in politiche che riducano diseguaglianze e impoverimento creati dalle terapie anti-crisi. Due ministri, Emma Bonino e Fabrizio Saccomanni, sono competenti e determinati in ambedue i campi, soprattutto quello europeo. È il linguaggio di verità sul patto con Berlusconi che manca. Gli italiani (compresi gli 11,5 milioni che si sono astenuti, per rassegnazione o rabbia) hanno condannato vent’anni e più di politica offesa da tornaconti partitocratici. Sono stati ignorati: la politica sarà rimaneggiata non dai loro rappresentanti ma da pochi cosiddetti saggi, di nuovo, che pretendono di sapere più degli altri per potere più degli altri.

Sarà verità sovversiva, dice Letta, e invece siamo tuttora immersi in quella che è stata chiamata – da quando Bush iniziò la guerra in Iraq – l’era della post-verità: degli eufemismi che imbelliscono i fatti, dei vocaboli contrari a quel che intendono. Ne citiamo solo due: la parola riforma,sinonimo ormai di tagli ai servizi pubblici; laresponsabilità,per cui la compromissione ènecessità naturale che esclude ogni alternativa. Giustamente, ieri, Ezio Mauro ha scritto: «L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica» non è vittoria della politica.

Non è vera questa storia della necessità: il patto Pd-Pdl, e l’eventuale elevazione di Berlusconi a Padre Costituente o senatore a vita (in sostanza: a futuro capo di Stato) non sono necessità, ma scelte discrezionali. Per questo abbiamo evocato la post-verità di Bush jr: l’offensiva in Iraq fu presentata come guerra di necessità, quando era di scelta. L’Europa acefala ne uscì a pezzi, la Nato si rivelò arnese di Washington. Speriamo che Bonino ne prenda atto: europeismo e atlantismo non sono più la stessa cosa.Napolitano ci ha ammoniti severamente, il 24 aprile: «Confido che tutti cooperino – e quando dico tutti mi riferisco anche in particolare ai mezzi di informazione – a favorire il massimo di distensione piuttosto che il rinfocolare vecchie tensioni». Mi permetto di difendere non solo il diritto, ma l’utilità del rinfocolamento. Che altro opporre alla riaccesa torcia del berlusconismo, se non la fiamma della critica, del No. La democrazia è compromessa, l’etica della responsabilità abusata, quando dall’agenda Pd scompare, grazie ai 101 traditori di Prodi, ogni accenno al conflitto di interessi e al dominio berlusconiano sulle tv.

Solo la disputa tra idee contrarie, solo l’Uno che si apre al due, può un po’ riavvicinare i cittadini allo Stato, alla politica. Solo se i media ridiventano quarto potere, libero da doveri di «cooperare»; se i partiti stessi smettono la perversa fratellanza con lo Stato. Solo se nasce, negli uni e negli altri, quella che Fabrizio Barca chiama «mobilitazione cognitiva»: la diatriba diffusa, non riservata a cerchie, cricche, attorno a conoscenze e pareri contrastanti. Salvatore Settis lo ricorda, nell’intervista al Secolo XIX di domenica: 30.000 associazioni cittadine, oggi, rappresentano 5-6 milioni di persone. Non son poche. Il potere negativo del sovrano popolare non muore.

Proprio in questi giorni abbiamo avuto una prova, decisiva, dell’utilità della non-cooperazione con la ragion di Stato. Ne ha riferito Paul Krugman, in un articolo che dichiara defunta, almeno nelle accademie, l’Austerità (Repubblica,27 aprile). È un dogma cui l’Europa è appesa da anni: se non cresciamo economicamente, è solo perché gli Stati sono troppo indebitati. A sfatare l’assioma: tre economisti non ortodossi dell’università di Massachusetts- Amherst (i professori Michael Ash e Robert Pollin, lo studente di dottorato Thomas Herndon) che hanno scoperto errori di computer (l’errore Excel) commessi nel 2010 dai due economisti di Harvard, Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart. Il dogma («i Paesi che si indebitano oltre il 90 per cento del Pil non possono crescere») è in pezzi. Non si tratta solo di un errore Excel ma di un’ideologia, che mescola abilmente economia, politica, democrazia oligarchica: Krugman smaschera il «diffuso desiderio di trasformare l’economia in un racconto morale, in una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze. Abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo l’inevitabile prezzo. Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema potrebbe e dovrebbe essere risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci attraverso la sofferenza».

Così torniamo al governo necessariodi Letta. Se le dispute e le tensioni vengono tacitate, sarà difficile sperimentare nuove vie, istituzionali e anche economiche. Cosa dice il ministro Saccomanni dell’errore Excel e della deduzione di Krugman («Ciò che il più ricco 1 per cento della popolazione desidera, diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare »)? Se l’agenda Monti non è rimessa in questione, se non si mobilitano conoscenze alternative, come superare la crisi? Se non credo nell’evidenza dei fatti scoperchiata dagli economisti dissidenti – si domanda alla fine Krugman – «Cosa sto facendo della mia vita»?

«La democrazia si difende con la democrazia». Ma finchè all'ircocervo dei movimenti si contrappone l'ircocervo del PD le speranze sono poche.Il manifesto, 30 maggio 2013

Sessantacinque anni fa, nel quadrilatero romano dei cosiddetti Palazzi del potere, davanti all'uscita secondaria di Montecitorio - non lontano da Palazzo Chigi e a cento metri dalla sparatoria di questi giorni che ha ferito così drammaticamente due carabinieri - venne colpito a rivoltellate Palmiro Togliatti, il capo del Partito comunista italiano e tra i leader dei comunisti e del movimento operaio nel mondo. Allora la destra, rappresentata in larga parte dalla Dc, fece di tutto per dimostrare che quel gesto più che mirato fosse solo opera dello studente Pallante, un «isolato» quando non squilibrato. Oggi la destra, quasi tutta rappresentata da un governo di larghe intese sotto ricatto del redivivo Silvio Berlusconi, si adopera a spiegarci in modo sporco che quello dell'operaio disoccupato, disperato e spostato sociale, è un attacco alle istituzioni repubblicane e alla democrazia, mirato nientemeno che a colpire lo sforzo «immane» di avviare il nuovo governo Letta, ambiguamente voluto da uno schieramento così vasto da diventare oscuro all'orizzonte. Attacco del quale è responsabile «l'estrema sinistra», ha ripetuto il Cavaliere. Come se non bastasse, viene evocato un rapporto dei Servizi segreti, tenuto pronto all'uso nel cassetto, che rivela il pericolo rappresentato da una nuova «insorgenza sociale».

Bene ha fatto dunque la presidente della Camera Laura Boldrini a ricordare il precipizio umano della condizione italiana. Quando ha parlato di «emergenza» e per lo sparatore Luigi Preiti, definendolo una «vittima che diventa carnefice», invitando così ad una drammatica riflessione i partiti vecchi e nuovi. Male, malissimo invece ha fatto il presidente del Senato Pietro Grasso che ha invitato a questo punto a chiudere il periodo delle tensioni sociali, come se queste possano essere accese o spente dall'alto con il telecomando, o quel che è peggio per decreto legge.
È invece vero che solo la rappresentazione in movimenti delle tensioni sociali, anche in questa fase di forzata scelta di un governo unanime, può essere garanzia di mantenimento del processo democratico italiano. La democrazia si difende con la democrazia. Anche perché il governo Letta costruisce una compagine unitaria tra fronti dichiaratamente contrapposti, deludendo tutte le componenti e le aree di partito, umilia le aspettative di un indirizzo nuovo, di un cambiamento, e mostra una debolezza interna e internazionale, in Europa soprattutto, profonda.
Urge a questo punto sapere cosa resta della sinistra che, come per Luigi Pintor nel suo ultimo editoriale dieci anni fa, non esiste più come l'abbiamo conosciuta. Quale ricostruzione è necessaria nell'epoca dei movimenti post-politici e post-democratici, quali radicamenti sociali e di classe servono e come costruire nuovi insediamenti e istituti. Nella consapevolezza che gli ultimi movimenti post-politici - al di là del ridicolo di attribuire tutte le colpe al povero Movimento 5 stelle - si presentano come uno strano, mostruoso ircocervo, una sorta di bolscevismo senza prospettiva rivoluzionaria, con bolscevichi estremi ma senza progetto di transizione ad una società superiore. E in più, per la loro radicalità manichea e programmaticamente riduttiva ed elencatoria, capaci intanto di destabilizzare l'esistente, allargando così una voragine già sprofondata, che prima o poi rischia, in assenza di una proposta alternativa, di essere riempita da una nuova, insidiosa destra dotata stavolta di ascolto sociale dell'odio affluente.

Al di là «della vocazione governativa e lealista della destra comunista, da sempre capace di interpretare il punto di vista dello Stato ben più di quello della società, dei movimenti, degli umori popolari», del PCI non è rimasto nulla. E soprattutto, «per quanti anni ancora varrà, a sinistra, il pregiudizio contro il “radicalismo minoritario”?»

. La Repubblica, 30 maggio 2013

Al di là «della vocazione governativa e lealista della destra comunista, da sempre capace di interpretare, nella lunga storia repubblicana, il punto di vista dello Stato ben più di quello della società, dei movimenti, degli umori popolari», del PCI non è rimasto nulla.
Di tutto il resto – quel cospicuo resto che è la sinistra di Berlinguer e di Occhetto, della Bolognina e della “svolta maggioritaria” di Veltroni al Lingotto, dell’Ulivo, dei sindacati e dei movimenti di massa, dei due milioni di persone con Cofferati al Circo Massimo, dei cortei infiniti e delle infinite attese di “cambiamento” – non rimane, nel consociativismo lettiano, alcuna presenza riconoscibile e significativa.
Almeno in questo senso il principio di rappresentatività è rispettato: eletti ed elettori di quel grande ceppo fondante del Pd che fu la diaspora comunista non fanno parte del governo Letta. Non un solo leader della generazione di mezzo (i D’Alema, i Veltroni, i Bersani) è direttamente partecipe di una compagine che pure pretende di reggersi su tante gambe quante sono quelle all’altezza dell’emergenza politica, e dunque della responsabilità istituzionale. Domina la componente popolare e cristiano sociale; e nei pochi casi (vedi le neoministre Kyenge e Idem) in cui la sinistra italiana può riconoscere almeno qualcuna delle proprie migliori aspirazioni, non si tratta di dirigenti politiche ma di una sorta di evidenza sociale che bypassa il partito: è il partito che le porta in spalla, ma sono loro a salutare la folla.
A meno che, in questo scomparire di una intera generazione di capi politici della sinistra, ci sia un sottile calcolo (“meglio, in questa fase, farsi notare il meno possibile”), se ne deve dedurre un fallimento epocale. Quello di una classe dirigente logorata dal tatticismo e sfibrata dalle rivalità interne; e di un modello di partito così poco permeabile alla società che, evidentemente, non ha potuto selezionare i propri uomini e le proprie donne nel vivo dei conflitti, e si è illuso di potere coltivare in vitro, nel chiuso dei propri ruoli di competenza, una élite che invecchiava, perdeva mordente, perdeva sguardo su una società che guardava a sua volta altrove.
In una recente intervista al “Manifesto” di Stefano Rodotà, al netto delle opinioni che si possono avere sulla persona e sul tentativo politico di portarlo al Colle, ci si riferiva a un episodio che fotografa con assoluta spietatezza la crisi strutturale della sinistra italiana, e del Pd in particolare. Subito dopo la clamorosa e inattesa vittoria nei cinque referendum del 2011 sull’acqua pubblica e altro (quorum ottenuto, dopo molti anni, grazie all’auto-organizzazione sul territorio), Rodotà racconta di avere inutilmente sollecitato un incontro tra i Comitati vittoriosi (con i quali aveva lavorato) e i dirigenti del Pd. Quell’incontro non ebbe luogo, forse non interessava o forse nel Pd c’erano cose più urgenti da fare. Fatto sta che, con il senno di poi, possiamo ben dire che in quel caso la sinistra perdente (quella degli apparati) perse l’occasione di confrontarsi con la sinistra vincente, quella auto-organizzata, vivace, attiva che ebbe tante parte, tra l’altro, anche nella vittoria di Pisapia a Milano e nella caduta del centrodestra in molte città italiane.

Perché quell’episodio è amaramente simbolico? Perché da molti anni – diciamo, per comodità, dalla Bolognina a oggi: e sono più di vent’anni – ogni tentativo di osmosi tra la sinistra-partito e la sinistra-popolo ha cozzato una, dieci, cento, mille volte contro finestre e porte chiuse. La domanda è semplice, ed è tutt’altro che “populista”, riguardando, al contrario, il tema cruciale della formazione di una élite: quanti potenziali leader, quanti quadri politici appassionati, quante nuove idee, quanta innovazione, quanta energia è stata perduta dalla sinistra italiana a causa, soprattutto, della sua incapacità di fare interagire le sue strutture politiche e il suo popolo, i dirigenti e i cittadini? Quante di quelle energie sono confluite nelle Cinque Stelle, portandosi dietro altrettanti voti? Quanto alto è stato il costo politico di un partito che per timore di perdere “centralità” ha perduto realtà, e infine ha perduto competenze, autorevolezza, e con l’autorevolezza il senso stesso della missione di qualunque vera avanguardia politica?
Infine e soprattutto: per quanti anni ancora varrà, a sinistra, il pregiudizio contro il “radicalismo minoritario” (sono state queste, più o meno, le ragioni addotte da alcuni per spiegare il loro no a Rodotà), quando le sole vittorie recenti, dall’acqua pubblica alle amministrative, sono il frutto evidente di scelte radicali, e non per questo meno popolari, e infine maggioritarie? Chi è più snob – per usare un termine tanto di moda – Rodotà che lavora con i Comitati per l’acqua e vince il referendum o un partito così castale, così impaurito da rinserrarsi a litigare, per anni, nel chiuso delle proprie stanze?

© 2025 Eddyburg