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. La Repubblica, 12 luglio 2013

ADESSO più che mai l’abolizione del porcellum costituisce un’urgenza democratica. Un dovere costituzionale che un governo che si proclama di necessità per il bene del Paese deve avvertire come priorità assoluta. E che il Presidente della Repubblica dovrebbe cercare di imporre con ogni mezzo al vertice dell’agenda nazionale, perché un paese senza una praticabile legge elettorale è privo di effettiva agibilità democratica.

Una regola legittima e riconosciuta dai cittadini non svolge la sua funzione solo in caso di elezioni, ma agisce ogni giorno come monito ed opportunità per tutti gli attori in campo. È la precondizione esistenziale di una democrazia: vitale come è per un corpo l’aria che si respira. Altrimenti è come un fiume rimasto senza fonte. Smette di scorrere, ristagna, imputridisce. Diventa pantano, buono solo per tafani, alligatori e, appunto, caimani.

Se questo è vero sempre, figuriamoci in questo desolante passaggio italiano dove un atto dovuto del vertice della giurisdizione ha scatenato una crisi politica e una ridda di ultimatum al governo. Ma ci troviamo a dover subire tutto perché tanto “finché c’è il porcellum…”. Così diventano possibili i più disparati ricatti che non sai se definire eversione o disperato folklore, ma anche la paralisi e i veti incrociati trovano il terreno più fertile. Tocchiamo così con mano che la riforma elettorale è la precondizione per la stessa ipotesi di una qualche efficacia dell’azione della legislatura: dal versante economico a quello delle vagheggiate riforme istituzionali si può coltivare un lumicino di speranza di un sussulto virtuoso delle larghe intese, solo se i partiti avvertono come un monito sempre possibile il ritorno all’esame dei cittadini. Se invece resta l’impedimento del porcellum è come pagare una tassa da paralisi decisionale ogni minuto che passa.

Ecco perché un governo coerente con quel che dice, dovrebbe oggi mettere la legge elettorale davanti a tutto. Lo si è voluto politico e non tecnico proprio per accelerare le mediazioni anche su questo fronte dove gruppi parlamentari e partiti sono fisiologicamente bloccati dal proprio calcolo particolare, come avviene del resto per la legge sul finanziamento. Scriva allora il governo una norma elettorale per collegi uninominali (come chiedono Pd e M5S) con un secondo turno nazionale per l’attribuzione del premio di maggioranza (come è più congeniale al Pdl), riservando una quota proporzionale come diritto di tribuna per le più piccole minoranze. Una norma semplice idonea a risolvere insieme gran parte dei problemi istituzionali e non sbilanciata a favore di nessuno. Un sistema che andrebbe bene persino ove dovesse passare il presidenzialismo.

La scriva il governo e la porti di urgenza alle camere; chi si oppone se ne assume la responsabilità e ogni relativa conseguenza. Se invece come è doveroso la norma elettorale passa non c’è nessun automatismo che porti solo per questo al voto anticipato. Anzi il consiglio d’Europa raccomanda che le riforme elettorali siano sganciate e il più possibile lontane dall’appuntamento con le urne. Ciò che soltanto cambierebbe è che il governo resterebbe in piedi sino a quando ha benzina nel motore ed è davvero utile per il paese.

Per questo Letta deve farlo, se è vero che non vuole tirare a campare. E lo dovrebbe pretendere il Pd se non vuole confermare nei suoi elettori l’amara sensazione che l’intesa con il Pdl stia cambiando natura; da coabitazione provvisoria necessaria per il paese, a sodalizio politico per i più retrivi interessi di bottega.

«Presumo che un giorno salterà fuori qualcosa e finalmente ci riporterà alla piena occupazione. Tuttavia, non posso fare a meno di ricordare che l’ultima volta che ci trovammo in una situazione del genere quel qualcosa fu la Seconda guerra mondiale».

La Repubblica, 11 luglio 2013

Il rapporto sull’andamento dell’occupazione reso noto venerdì scorso non era poi malaccio. Ma tenuto conto di quanto continua a essere depressa la nostra economia, ogni mese dovremmo in realtà creare oltre 300mila nuovi posti di lavoro, non meno di 200mila. Come fa notare l’Economic Policy Institute, di questo passo serviranno oltre cinque anni di crescita dei posti di lavoro per ritornare ai livelli di disoccupazione anteriori alla Grande Recessione. La piena ripresa appare tuttora molto di là da venire. E, per quanto mi riguarda, inizio a temere che possa non venire mai.

Poniamoci una domanda difficile: di preciso, che cosa ci riporterà alla piena occupazione? Di certo, non possiamo fare affidamento sulla politica fiscale. La combriccola di chi promuove l’austerity ha subito una fenomenale batosta nel dibattito intellettuale, ma “stimolo” è ancora oggi una parola blasfema. E ancora non si vede, e forse mai si vedrà, un ponderato programma per la creazione di posti di lavoro.L’aggressiva azione monetaria intrapresa dalla Federal Reserve – qualcosa di simile a ciò che la Banca del Giappone sta collaudando adesso – potrebbe servire allo scopo, ma invece di diventare più aggressiva la Fed parla di “diminuire a poco a poco” i propri sforzi, e questo ha già inferto danni concreti. Ma ne riparleremo tra un minuto.

Nondimeno, anche se non abbiamo e non avremo una politica finalizzata alla creazione di posti di lavoro, possiamo quanto meno fare affidamento sui naturali poteri di rigenerazione del settore pubblico? Probabilmente no. È vero che, dopo una recessione prolungata, di solito il settore privato trova buoni motivi per ricominciare a spendere. Gli investimenti in apparecchiature e software sono già di gran lunga maggiori rispetto ai livelli anteriori alla recessione, in buon parte perché la tecnologia fa progressi e se vogliono restare al passo le aziende devono spendere. Dopo che in America, in pratica, non si sono costruite nuove case per sei anni, il settore immobiliare sta cercando di predisporre un recupero. Quindi sì, in definitiva l’economia sta dando qualche segnale di voler guarire.

Tuttavia, questo processo di guarigione non andrà molto lontano se i policymaker lo intralceranno o lo fermeranno, in particolare alzando i tassi di interesse. Non si tratta di una preoccupazione da poco. È risaputo che un presidente della Fed dichiarò che suo compito era quello di togliere di mezzo la caraffa del punch proprio quando l’atmosfera della festa si stava ravvivando. Purtroppo, la storia ci offre molteplici esempi di banchieri centrali che hanno levato la caraffa del punch prima ancora che la festa avesse inizio.
I mercati finanziari, in realtà, stanno scommettendo che la Fed presto ce ne offrirà un ulteriore esempio. I tassi di interesse a lungo termine, che per lo più riflettono le aspettative sui futuri tassi a breve termine, sono schizzati alle stelle dopo il rapporto sull’occupazione reso noto venerdì, rapporto che – ripeto – è stato nel migliore dei casi appena accettabile. Il settore immobiliare potrà cercare di darsi una mossa e ripartire, ma il rilancio adesso deve vedersela con le spese di finanziamento in fortissimo aumento: i tassi sui mutui trentennali sono cresciuti di un terzo da quando due mesi fa la Fed ha iniziato a dire che intendeva ridurre i suoi sforzi.

Perché sta accadendo tutto ciò? La causa, in parte, è che la Fed si trova sotto le costanti pressioni dei falchi monetari, che vogliono sempre una rigida politica monetaria e tassi di interesse più alti. Questi falchi hanno trascorso anni interi a mettere in guardia dal fatto che c’era in agguato un’inflazione galoppante. Avevano torto, naturalmente, ma invece di cambiare idea si sono semplicemente limitati a inventare nuovi motivi — la stabilità finanziaria, e qualsiasi cosa saltasse loro in mente — per reclamare tassi più alti. A questo punto è evidente che in fondo essere falchi monetari è per lo più un modo per abbracciare quella forma di puritanesimo così ben espressa da H.L. Mencken con queste parole: «La paura ossessionante che qualcuno, da qualche parte, possa essere felice». Resta in ogni caso pericolosamente influente.

Purtroppo, nei pregiudizi dei falchi monetari c’è in ballo anche una questione di ordine tecnico. Le procedure statistiche alle quali ricorrono spesso i policymaker per calcolare il “potenziale” economico – il massimo livello di produzione e di occupazione che si può raggiungere senza dar luogo a un surriscaldamento dell’inflazione – si sono rivelate fortemente errate: esse interpretano qualsiasi recessione economica prolungata nel tempo come un potenziale decadimento, così che i falchi possono mostrare tabelle e fogli di calcolo, che si presume servano a dimostrare che non c’è granché spazio per la crescita.
In sintesi, c’è un rischio concreto che una cattiva politica soffochi la nostra ripresa, per altro già inadeguata. Ma gli elettori alla fine non esigeranno di più? Ebbene, è proprio a questo riguardo che mi sento particolarmente pessimista. Si potrebbe pensare che un’economia povera in modo continuativo – un’economia nella quale sono disoccupati milioni di persone che potrebbero e dovrebbero essere proficuamente occupati, e che in molti casi sono senza lavoro da moltissimo tempo – alla fine scateni lo sdegno dell’opinione pubblica. Ma le scienze politiche dispongono ormai di indiscutibili prove relative all’andamento dell’economia e alle elezioni: a contare è il ritmo col quale avviene il cambiamento, non il livello.

Mettiamola in questi termini: se durante un anno di elezioni la disoccupazione sale dal 6 al 7 per cento, il presidente in carica quasi certamente ne esce sconfitto. Se invece la disoccupazione resta ferma all’8 per cento per l’intero mandato del presidente in carica, molto probabilmente quest’ultimo o quest’ultima vincerà un nuovo mandato. Questo significa che è possibile esercitare una pressione politica davvero esigua per porre fine alla nostra depressione che, per quanto piccola, si protrae. Presumo che un giorno salterà fuori qualcosa e finalmente ci riporterà alla piena occupazione. Tuttavia, non posso fare a meno di ricordare che l’ultima volta che ci trovammo in una situazione del genere quel qualcosa fu la Seconda guerra mondiale.

(Traduzione di Anna Bissanti) © 2013, The New York Times

Da anni c’è chi sostiene, giustamente, che B. era ineleggibile fin dall’inizio .Non l’hanno voluto ammettere i D’Alema e i Violante, e con loro tutto l’ex PCI. «Ma perché mai, se si è sbagliato finora, il peccato deve essere recidivo?». Articoli di Luigi Saraceni e Vincenzo Vita, entrambi su

Il manifesto, 11 luglio 2013

IL DOVERE (SEMPLICE) DEL SENATO
di Luigi Saraceni
Non c'è dubbio che la questione della (in)eleggibilità di Berlusconi - su cui la Giunta del senato prima o poi dovrà prendere una decisione - ha anzitutto un'altissima valenza politica. La "prudenza" del Pd, stretto nell'alleanza delle larghe intese, è del tutto comprensibile. Ma questa esigenza politica non può essere contrabbandata per corretta interpretazione giuridica.

Si dice che non si può dichiarare ineleggibile un soggetto che ha riscosso nelle urne un ampio consenso popolare. L'argomento è davvero singolare. Nel nostro sistema le cause di ineleggibilità vengono sempre accertate dopo l'elezione, perciò, se si applicasse questo criterio, nessun eletto potrebbe mai essere dichiarato ineleggibile. Né potrebbe valere un criterio quantitativo. Dove collochiamo la soglia oltre la quale il numero dei voti dovrebbe prevalere sulla regola? La verità è che questo argomento, non insolito anche a sinistra, trascura che il rispetto delle regole è, insieme al consenso elettorale, uno dei fattori fondanti della democrazia rappresentativa.

Un altro singolare argomento dice che non si può applicare una legge di oltre mezzo secolo fa, quando le tv private neppure esistevano. A questa stregua alle aziende televisive non si potrebbero applicare neppure le regole del codice civile, visto che risale al 1940.

Un argomento, proposto anche da valenti giuristi, dice che non si possono oggi contraddire le ripetute e risalenti affermazioni che hanno escluso la ineleggibilità di Berlusconi in quanto titolare non "in proprio" di concessioni televisive. I "precedenti" hanno certamente un valore che non si può ignorare. Ma, come tutti sanno, nessuna pronuncia di natura giurisdizionale è vincolante per le decisioni successive ed anzi, se si riconosce che è sbagliata, è doveroso correggere l'errore. Ne sono esempio non solo le giurisprudenze dei giudici ordinari, compresa la Cassazione, ma anche le decisioni della Corte costituzionale su questioni di grande rilevanza. Per quarant'anni la Consulta ha tollerato che il governo legiferasse attraverso la ininterrotta reiterazione di decreti legge mai convertiti, finché nel 1996 non ha posto fine a questo malcostume istituzionale. E solo dal 2007, dopo averlo negato per cinquant'anni, ha stabilito che un decreto può essere annullato anche dopo la sua conversione, se non ricorrono i presupposti di necessità e urgenza previsti dalla Costituzione. Il Senato, dunque, deve dire in piena autonomia se le precedenti decisioni della Camera - secondo le quali il destinatario della ineleggibilità sarebbe solo l'intestatario formale della concessione e non il suo effettivo beneficiario - sia conforme alla "intenzione del legislatore", da cui, secondo le regole dell'interpretazione, non si può prescindere nella ricostruzione del vero significato della legge.

Orbene, è già irragionevole supporre che il legislatore del 1957 sia stato così insensato da escludere dalla ineleggibilità il dominus delle società commerciali, che certamente più del formale intestatario della concessione è interessato a sovrapporre la cura degli interessi economici della società concessionaria all'esercizio della funzione parlamentare. Ma, ove ce ne fosse bisogno, il legislatore ha chiarito la sua intenzione quando, per la prima volta nel 1990, ha disciplinato proprio la specifica materia delle concessioni dell'etere a società private. Con l'art. 17 della legge n. 223/90 (legge Mammì), il legislatore ha detto chiaramente che le predette società possono ottenere la concessione a condizione che «siano comunque individuabili, le persone fisiche che detengono o controllano le azioni aventi diritto di voto». Si tratta, palesemente, della estensione delle regole che disciplinano le società concessionarie all'azionista di riferimento, che viene equiparato, nel suo "statuto", agli organi formali della società.

Questa interpretazione di elementare buon senso è stata fatta propria nel 2004 dalla Consulta, che nella sentenza n. 86 ha affermato che le disposizioni della legge n. 223/90 «devono essere interpretate nel senso che non solo le persone fisiche concessionarie, ma anche i soggetti che effettivamente controllino, direttamente o indirettamente, le società concessionarie» sono destinatari della disciplina prevista nel citato art. 17. Perciò l'equiparazione dell'azionista di riferimento di società commerciali concessionarie dell'esercizio di impianti televisivi a chi è titolare "in proprio" di tali concessioni, non può essere ignorata, se non a costo di violare il dettato costituzionale.

In conclusione, i termini giuridici della questione sono chiari ed evidenti. Spetta ai componenti della Giunta dire se su di essi deve prevalere la ragione politica. Ma è auspicabile che la discussione non rimanga confinata alla fase preliminare e segreta che si conclude con l'archiviazione. Il Pd dovrebbe avvertire il dovere di assicurare ai suoi elettori una discussione pubblica almeno in Giunta, se le larghe intese proprio la sconsigliano nell'assemblea plenaria di Palazzo Madama.

INELEGIBILE, PERCHE' SI
di Vincenzo Vita

Comincia oggi la discussione nella competente Giunta del Senato sull'ineleggibilità di Berlusconi. È un nervo scoperto, che si trascina dall'inizio della famosa scesa in campo del 1994. Sel e M5S si esprimeranno per l'applicazione della norma del 1957, che recita che - appunto - non risulta eleggibile chi «in proprio o rappresentando soggetti diversi eserciti concessioni amministrative economicamente rilevanti...». Nel Pd prevale davvero un realismo annidatosi dietro lo schermo del «Berlusconi va sconfitto politicamente e non ricorrendo ad una legislazione ormai vecchia?» E così in Scelta civica? Naturalmente, il Pdl è sulle barricate. E ci mancherebbe. Ma non pare ai parlamentari di buona volontà doveroso «cercare ancora», per citare - ricordandolo con nostalgia - Claudio Napoleoni? Perché mai, se si è sbagliato finora, il peccato deve essere recidivo? Se c'è, l'inferno non basta: serve un soppalco. Il quadro, tra l'altro, è chiarissimo e dubbi non dovrebbero esserci. Quali sono, infatti, le principali tesi di coloro che si sgolano per non applicare le regole? Il 1957 è lontano - si dice - quando la televisione era ai primi passi, in bianco e nero (?!), monopolio pubblico. Simile approccio è francamente risibile, in quanto con tale griglia interpretativa gli omicidi o i furti perpetrati con le odierne tecnologie non sarebbero punibili. Non solo. La sequenza legislativa di questi anni (persino il Testo unico varato dall'ex ministro Gasparri nel 2005, come si ricordò nella prima puntata della rubrica) ha reso più chiari i concetti di controllo e di collegamento, per cui da verificare non è solo il titolare formale della concessione o della licenza - Fedele Confalonieri, per capirci - bensì chi ha il potere di fatto. Del resto, le motivazioni della sentenza di appello sui diritti sportivi hanno sottolineato che Silvio Berlusconi ha sempre mantenuto un ruolo chiave nelle sue aziende. Siamo, qui, nel vivo del conflitto di interessi, che spesso non si appaleserebbe se si guardasse unicamente all'involucro esterno di un apparato. È mai possibile che il ramo del Parlamento cui è demandata la decisione sia al di sotto dell'accertamento già avvenuto da parte della magistratura?

Ha ben argomentato, con straordinaria lucidità, Franco Cordero (La Repubblica del 4 luglio) che il d.P.R. del 1957 va letto in parallelo alla legge 223/1990, quella legge Mammì che legittimò proprio i confini dell'avvenuta conquista dell'etere: gli articoli 12 e 17. Vale a dire che il sistema giuridico nazionale, per quanto fragile e pieno di buchi neri, sul punto della coincidenza di fatto tra divisa formale e proprietà reale è chiaro. Senza equivoci. Qualcuno sostiene che sarebbe preferibile rinviare ad una auspicabile legge sul conflitto di interessi. Siamo seri: la legge colpevolmente non è stata fatta, da anni. Complicare il discorso, per nulla cambiare, assecondando il gattopardismo insito in una certa parte della cultura di massa italiana, è amorale. È doveroso avere il coraggio della verità, uscendo dall'ambivalenza intrapresa dal discorso politico. Se un bidello di una scuola pubblica non è eleggibile...
Del resto, la vicenda berlusconiana è a un tornante decisivo. Non è credibile far finta che la storia italiana non sia bloccata da un grumo inestricabile. Il nodo va sciolto, anche perché una malriposta benevolenza ben poco potrebbe probabilmente nella ormai avanzata parabola giudiziaria del Cavaliere. Chissà, forse se lo augura persino la destra perbene che è sepolta dal peronismo all'italiana di Berlusconi. Forse lo sperano anche i tantissimi bravi professionisti di Mediaset, offuscati dall'egoismo proprietario della casa madre. In ogni caso, le forze democratiche non possono ritrarsi. Questo sì sarebbe un tradimento.

Una lettura appassionata e profonda della visita ai migranti da parte di un papa che fa politica attraverso la testimonianza. «Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la
globalizzazione dell’indifferenza».

La Repubblica, 10 luglio 2013

Immaginiamo dunque questo: che Papa Francesco abbia accettato di firmare un’enciclica scritta quasi per intero da Joseph Ratzinger, perché all’enciclica non era affatto interessato. Quel che lo interessava sopra ogni cosa, che lo convocava, era il viaggio a Lampedusa, sul bordo di quel Mediterraneo dove sono morti, dal 1988, 19mila migranti in fuga dalla povertà, dalle guerre, dalle torture. Altri drammi vedremo, con l’Egitto che sprofonda nel caos e nell’eccidio.
Così grave è il male di questo mondo, così vaste le colpe dei singoli, dei loro Stati, anche della Chiesa, che occuparsi di teologia in modo tradizionale – con precetti, verità assolute – può apparire una distrazione, se non un’incuria. Si riempie un vuoto, per occultarlo. Lo si affolla di parole dottorali, quando altra è l’emergenza: andare in quell’isola, simbolo delle nostre ipocrisie e del nostro disonore. La teologia non fa piangere, e di lacrime c’è soprattutto bisogno, ha detto il Pontefice. Il mondo è uscito dai cardini, 19mila morti sono lo scandalo che nessun politico grida, e il Papa ha trovato la parola che lo mette a nudo e lo definisce: la
globalizzazione dell’indifferenza.


È come se il Papa dicesse (ma stiamo immaginando): «Io non scrivo encicliche, per ora. O meglio ne propongo una tutta nuova: facendomi testimone e pastore che non teorizza ma agisce. Io vado dove le lacrime sono sostanza del mondo». Come Achab, il cacciatore della balena bianca in
 Moby Dick:
di sotto al cappello calcato, cade nell’oceano una sua lacrima. «Tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia ». Perché dove c’è
 teologia 
non c’è
 teofania:
dove c’è ideologia si
 parla
di Dio, ma Dio non si
 manifesta.

Immaginiamo che sia una forma di esilio, questo rifiuto di scrivere encicliche ora. Un «esiliarsi rimanendo lì», spiega Carlo Ossola in un articolo del febbraio 2012 sul 
Sole 24 ore:
 una 
peregrinatio in stabilitate,
 secondo i monaci antichi. Una «disoccupazione di spazi» per accogliere il prossimo senza che esso diventi ingombro, disse una volta Roland Barthes. È quello che fece Gesù, che non scriveva trattati ma andava in giro fra la gente «nelle oscure vie della città» (nelle «periferie esistenziali» evocate a marzo dal Papa), come il Cristo raccontato da Dostoevskij che torna in terra e scampa alla prigione del Grande Inquisitore di Siviglia.
Gesù non scolpisce leggi divine sulla pietra, quando assiste al processo dell’adultera: urge fermare un linciaggio. In un primo momento tace, si china a terra, e scrive sulla sabbia un’altra legge, che non si fissa perché sulla sabbia passa il vento. Importante è che la sua parola s’incammini nelle menti, aprendo un vuoto e facendo silenzio tutto intorno. Dicono che non è teologia: in realtà è teologia diversa. Gianfranco Brunelli lo spiega bene, in un articolo sul 
Regno:
 esiste uno 
stile cristiano
(lo stile di Gesù), non meno sofisticato delle dottrine, e il Papa lo fa proprio quando proclama: «Il mondo di oggi ha tanto bisogno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita» (18 maggio 2013). 
La 
Parola è centrale nel cristianesimo, e nelle religioni del Libro. Non la parola scritta dottamente. Ma quella che dici
all’altro: 
a i sommersi, sofferenti; ai «cari immigrati musulmani», cui il Papa augura un Ramadan ricco di «abbondanti frutti spirituali»; e ai tanti che di fronte al soffrire dicono al massimo poverino! e impassibili passano oltre. Francesco non passa oltre, anzi mette se stesso fra i colpevoli d’indifferenza: «Tanti di noi,
mi includo anch’io,
 siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. (...) Ci siamo abituati alla sofferenza dell'altro, non ci riguarda, non è affare nostro!».

La Chiesa romana è peccatrice, proprio come nella 
Commedia
 di Dante è responsabile del mondo uscito dai cardini, disastrata dal potere temporale. E colpevoli sono i sovrani d’Occidente, che tollerano quelle povertà estreme, e un Mediterraneo funebre, e l’immondo commercio di chi «sfrutta la povertà degli altri, facendone fonte di guadagno».
 Arrivando a Lampedusa il Papa ha sorriso ai migranti, ma altrimenti il volto era assorto, il capo chino. Durante la messa non è andato tra la folla, per lo scambio dei saluti. Non sta col capo chino chi edifica dottrine, l’occhio fisso sul crocifisso: dunque più sulla morte di Gesù che sulla sua vita e le sue opere terrene. Tiene il capo chino chi espia, o è rattristato, o semplicemente
pensa,
e tace come Gesù con l’adultera.

A che pensa il Papa? Nell’omelia lo racconta. Fin da quando ha saputo dei tanti morti in mare, il pensiero della tragedia s’è conficcato «come una spina nel cuore che porta sofferenza». Allora ha sùbito risposto sì all’invito di visitare l’isola. L’enciclica gli era indifferente (immaginiamo, ancora): «Ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta». Due volte ha detto il verbo – «
Non si ripeta per favore
» – come un mendicante che ha rabbia dentro e la trattiene.
Ha anche pensato alle poche parole che Dio rivolge all’umanità, nella Genesi. Una prima volta all’uomo che appena creato pecca: «Dove sei Adamo? ». Poi al primo fratricida: «Caino, dov’è tuo fratello?». Ne è nata una «catena di sbagli che è una catena di morte». Di qui la terza domanda, del Pontefice: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?». La conclusione cui giunge non è quella cui siamo abituati: nessun accenno al relativismo, al nichilismo, parole europee dei secoli scorsi. Essenziali sono le lacrime, l’anestesia
del cuore.
«Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza
del piangere, del patire-con». Ecco la globalizzazione dell’indifferenza: è tremenda perché «ci ha tolto la capacità di piangere». Perché si
nutre di politiche che generano caos, e lo chiamano pace.
Tutto questo possiamo immaginare, senza scostarci troppo dal vero. Dicono che un Papa così è impolitico, perché va nelle
periferie esistenzialidetestate
dai Grandi Inquisitori, e 
fa politica
quando potrebbe installarsi in un’enciclica. L’irritazione è massima. Basti citare la reazione di Cicchitto, araldo di Berlusconi: «Un conto è la predicazione religiosa, un altro è la gestione da parte dello Stato di un fenomeno così difficile quale l'immigrazione irregolare». Cose simili dice il ministro greco dell’Interno (Nikos Dendias, uomo di Samaras), blandendo i nazisti di Alba Dorata.

Il peccato d’indifferenza ha una lunga storia in Europa. Lo scrittore Herman Broch lo chiamò, narrando la Germania pre-hitleriana,
crimine dell’indifferenza:
 più grave ancora del peccato di omissione, perché non perseguibile penalmente (nel primo caso c’è almeno il reato di omissione di soccorso). L’indifferente non è stato sveglio, quando si poteva. «Non è stato attento al mondo in cui viviamo», dice il Papa: «Non abbiamo curato e custodito quello che Dio ha creato per tutti». Chi difende il proprio benessere buttando a mare gli «uomini di troppo» usa il cristianesimo, mal dissimulando il razzismo e facendo quadrato attorno alla triade «Dio, famiglia, patria tribale». Ha perfino, come Cicchitto, l’impudenza di invocare la laicità: che lo Stato governi, e i Papi scrivano encicliche. Disobbediente, imperturbato, il Papa infrange quest’ordine imbalsamato. Non a caso il suo nome è Francesco. Sappiamo che le prediche di Francesco mutarono il
mondo.


Un'opinione che parrebbe in decisa controtendenza rispetto ad altre, forse maggioritarie forse no, spinte a un'idea autoritaria di stato e governo, del territorio e non solo.

L'Unità, 9 luglio 2013 (f.b.)

La riflessione sul nesso stringente tra crisi della democrazia rappresentativa e crisi dei partiti, che ci spinge a cercare nuovi metodi di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte di governo, deve entrare nel nostro dibattito precongressuale. Il tema decisivo è come organizzare la partecipazione democratica nel nostro tempo. La mancanza di luoghi di coinvolgimento attivo e responsabile nei processi decisionali conduce alla parcellizzazione dei punti di vista o allo stallo, alle scorciatoie personalistiche o populistiche. Questo vale tanto nella vita pubblica quanto nella vita interna ai partiti. E il Pd, che è un argine a questi vizi, tuttavia non ne è immune: non basta la coda ad un gazebo a ristabilire una connessione profonda tra rappresentanti e rappresentati.

In queste settimane, alla guida di un ministero cruciale per ridefinire un modello di sviluppo ormai insostenibile, sia dal punto di vista ambientale che sociale, ho avuto modo di interrogarmi a fondo proprio su questo tema. Il mancato coinvolgimento dei cittadini nelle scelte ha alimentato, in molti casi, quella contrapposizione tra sviluppo e ambiente che non può, non deve più avere luogo. Prendiamo il caso delle opere infrastrutturali. Nel nostro Paese, più che altrove, vi è una reazione quasi automatica di profonda diffidenza se non di ostilità dei cittadini e delle comunità locali per ogni intervento che modifichi il territorio. Nascono movimenti, comitati, per impedire la realizzazione delle opere, spesso riuscendovi. Il modello (asettico e tecnocratico) delle procedure autorizzate vigenti (Conferenza di servizi, Via, Aia) peraltro da razionalizzare e semplificare assicura soltanto (e non sempre) la legittimità di un iter e di un progetto. La tradizionale concertazione con gli enti locali non basta più. E tanto meno è accettabile il vecchio scambio implicito proposto alle popolazioni locali: più salari in cambio di un peggioramento, spesso definitivo, della qualità ambientale di un territorio.

Queste crescenti resistenze delle comunità locali non si possono sempre liquidare come «ambientalismo dei no», «localismo dei no». Sono tra i sintomi più acuti della crisi della democrazia rappresentativa, dei corpi intermedi e delle organizzazioni sociali, che in Italia più acutamente si pone. Ma è solo attraverso un investimento sulla partecipazione attiva che la politica e le istituzioni a tutti i livelli specie su questioni sentite come quelle ambientali, su opere che impattano fortemente sul territorio possono ricostruire un rapporto di fiducia coi cittadini. Non è solo una questione di metodo, ma anche di merito. Perché le soluzioni progettuali migliori non possono che derivare da un confronto anche duro, serrato tra visioni e approcci diversi. Solo se coinvolgimento e partecipazione vengono garantiti fin dall’inizio, le scelte potranno essere perseguite con efficacia e tempestività, in quanto «accettate» in fase decisionale e non contestate a posteriori fino allo stallo. Con questo metodo anche i «no» a progetti sbagliati potranno essere adeguatamente motivati.

Sulla base di questo convincimento, ho deciso di sottoporre al Consiglio dei ministri, nelle prossime settimane, l’esigenza di introdurre nel nostro Paese lo strumento del débat public (tratto dall’esperienza di successo francese, ma anche da significative sperimentazioni di alcune regioni italiane), attraverso procedure vigilate da un soggetto pubblico indipendente, da svolgersi in tempi certi di consultazione delle popolazioni e dei portatori di interesse diffusi, sulla realizzazione delle opere che incidono sull’ambiente, i territori e la vita delle comunità locali.

Ora, io credo che di strumenti del genere dovrebbero farsi promotori i partiti, metodi simili dovrebbero adottare anche al loro interno, per non trovarsi più di fronte a quel drammatico scollamento tra decisioni dall’alto e «sentimenti» dei militanti e dell’elettorato, che abbiamo registrato in questo difficile avvio di legislatura. Il nostro dibattito congressuale, almeno fin qui, non sembra ne abbia piena consapevolezza. La discussione è tutta avvitata su nomi e posizionamenti, e quando si discute di regole lo si fa troppo astrattamente o strumentalmente. Intorno al tema dell’organizzazione della democrazia, per la verità, vi sono stati momenti di riflessione interessanti, penso al contributo di Fabrizio Barca. Ma vi è ora la necessità di inserirli a pieno titolo in una discussione sul profilo politico, ideale e valoriale del partito, sulla sua funzione indispensabile di mediazione tra cittadini e autorità. Non ho nascosto, nemmeno in queste settimane di impegno istituzionale, i miei orientamenti e le mie simpatie sulle candidature in campo. Ma nulla come un confronto su questo aspetto decisivo della vita democratica del partito e del suo ruolo nella società è un'urgenza che tutti devono avvertire se si vuole salvaguardare, o meglio, costituire, un patrimonio di idee e comportamenti veramente condivisi.

Chiara sintetica analisi dei crescenti squilibri sociali e loro ragioni, che purtroppo desinit in piscem.

La Repubblica, 9 luglio 2013, postilla

Mentre le ultime rilevazioni dell’Istat indicano un vero e proprio crollo dei consumi delle famiglie, uno studio commissionato dall’Unione Europea, Gini-Growing inequality impact, ha messo in evidenza che l’Italia è tra i paesi europei che registrano le maggiori diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito, e con livelli di disparità superiori alla media dei paesi Ocse. Non solo: da noi la favola di Cenerentola si avvera con sempre minor frequenza, nel senso che le unioni si verificano non tanto tra fasce di reddito diverse ma entro le stesse fasce frenando la mobilità sociale. Inoltre, appare che la ricchezza si sta spostando verso la popolazione più anziana accentuando il divario tra generazioni.

Il crollo dei consumi in Italia è dunque associato ad un divario nella distribuzione della ricchezza che si è accentuato durante la crisi: oggi circa la metà del reddito totale è in mano al 10% delle famiglie, mentre il 90% deve dividersi l’altra metà.

La domanda che si impone è: come siamo arrivati a questo punto?

La risposta non è difficile: questa situazione va ricondotta al pensiero dominante di ispirazione neoliberista, che si è affermato all’inizio degli anni ’80 negli Stati Uniti e in Inghilterra e che poi ha influenzato la politica economica dell’Unione europea. La teoria economica neoliberista si fonda sull’assunto che la diseguaglianza non inficia in alcun modo la crescita. Anzi, detassare redditi e soprattutto patrimoni immobiliari e mobiliari dei più ricchi genererebbe un “effetto a cascata” che dai piani alti della società trasferirebbe la ricchezza fino ai piani bassi, portando ad un arricchimento generale e ad una maggiore crescita. Questa idea ha aperto la strada alle privatizzazioni e alladeregulatio dei mercati finanziari (inclusa la proliferazione dei paradisi fiscali) per permettere agli “spiriti animali” di dispiegare liberamente tutta la loro forza propulsiva. Così lo Stato diventa un “disturbatore”, fonte di sprechi e di inefficienza, e pertanto deve essere ridotto ai minimi termini. “La società non esiste, ci sono solo individui e famiglie. E nessun governo può far nulla. La gente deve pensare a se stessa”: così Margaret Thatcher in una sentenza diventata tristemente famosa.

Dall’inizio degli anni ’80, il drastico ridimensionamento della capacità di intervento dello Stato nell’economia e il progressivo indebolimento dei lavoratori, che cominciano a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive, interrompono l’espansione della classe media che si era registrata nell’Età dell’Oro (1945-1973). Ma una crescita fondata su diseguaglianze crescenti può destabilizzare l’economia riportando indietro di anni il livello di benessere della popolazione. Joseph Stiglitz ha sintetizzato i risultati delle sue ricerche in una formula che dimostra come diseguaglianza e sviluppo economico siano inversamente proporzionali.

Insomma, l’effetto a cascata auspicato dai liberisti non si è assolutamente verificato e sono risultati evidenti gli effetti nefasti della polarizzazione della ricchezza, così come era stato teorizzato da Karl Marx.

Dopo la crisi esplosa nel 2008 lo Stato è dovuto intervenire massicciamente per salvare il settore privato dal collasso, il che ha determinato un’espansione rapidissima del rapporto tra debito pubblico e Pil in tutti i paesi avanzati. E ora si è scatenata una nuova controffensiva del settore privato e dei mercati per tagliare i servizi sociali e più in generale la spesa pubblica aggravando la situazione delle fasce più deboli ed alimentando diseguaglianze sempre più marcate. Il ceto medio è il vero motore dei consumi sia perché rappresenta la fascia più larga della popolazione, sia perché tende a convertire in consumi una percentuale proporzionalmente molto più elevata del proprio reddito. Se far ripartire i consumi è una delle principali chiavi per promuovere l’intera economia ecco allora l’importanza di politiche che favoriscano una più equa distribuzione della ricchezza ed il rafforzamento del middle class.

La politica dei redditi deve dunque tornare al centro della politica economica se vogliamo uscire dalla crisi che sta alimentando tensioni sociali destinate a diventare insostenibili.

Postilla
Forse qualche ragionamento si quali consumi far ripartire, quali gruppi sociali favorire, quali componenti del reddito far crescere e quali calare andrebbe almeno tentato, o no?

Riflessioni un po’ fuori dal coro di un abile analista, commentate da una postilla metà da piangere e metà da sorridere.

La Repubblica, 8 luglio 2013

È SINGOLARE, ma anche significativa, la vicenda delle Province. Da oltre trent’anni si parla di cancellarle o, comunque, di ridurle sensibilmente. Con effetti del tutto opposti. Erano, infatti, 95 negli anni Settanta. E già si parlava di “abolirle”. Rimpiazzarle con altri enti intermedi. Negli anni Novanta sono salite a 103. E oggi sono divenute 110. Il problema è che le Province non sono solamente ambiti amministrativi e di governo locale, ma rappresentano, da sempre, un riferimento dell’appartenenza territoriale per le persone.

Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, suLimes). Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.

Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate – le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale. Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare. Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.

Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili a scomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.

C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo. Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.

Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali. Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro. Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.

Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.

Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.

Postilla

Leggendo le ragionevoli osservazioni di Ilvo Diamanti vengono in mente due pensieri: un dato, e una storiella.
Il dato. Le gravi responsabilità di quei partiti della Prima Repubblica che non vollero afferrare la grande occasione storica di rifondare l’antico istituto degli ordinamenti napoleonici affidandogli i compiti moderni del governo di “area vasta”: arroccati negli asfittici equilibri di piccolo potere che avevano raggiunto, travolti dalle conseguenze dello svelamento di Tangentopoli, convinti che la “fine della storia” giustificasse la rinuncia delle proprie ideologie per abbracciare quella del neoliberalismo, furono incapaci di proseguire la riforma regionale rifondando il tassello costituzionale della Provincia.
La storiella. L’atteggiamento dei “tecnici” cui la malapolitica si è affidata e la durezza delle loro inossidabili “ragioni” ricordano un’antica storiella, che vi presento.
Uno scienziato (nella storiella naturalmente è tedesco) decide di studiare sperimentalmente le caratteristiche motorie della pulce. Nel suo report annota scrupolosamente le fasi dell’esperimento e le sue conclusioni:
- 1° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b e lo depongo su una base di 128mm x610mm. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 420 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 2° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b e lo depongo su una base di 128mm x610mm. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 420 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 3° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta posteriore sinistra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 360 mm dal punto di partenza.
- 4° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta anteriore destra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 316 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 5° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta anteriore destra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 183 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 6° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm, e gli asporto la zampetta anteriore sinistra. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto salta e si pone a 106 mm dal punto di partenza. Rimetto il soggetto nella celletta.
- 7° giorno. Estraggo il soggetto dalla celletta Haf5/b, lo depongo su una base di 128mm x610mm. Schiocco il pollice contro l’anulare a una distanza di circa 800 mm dal soggetto. Il soggetto non salta. Ripeto lo schiocco per tre volte dalla stessa distanza. Il soggetto non salta Rimetto il soggetto nella celletta.
- 8° giorno. Stendo il rapporto sull’esperimento. La conclusione è: Ove si asportino in progressione le zampette al soggetto esso diviene sordo.

Tutti (o quasi) d'accordo a impiegare i carri armati contro la democrazia anche in Italia.

Il manifesto, 7 luglio 2013

«Correggere una costituzione non è impresa minore del costruirla per la prima volta». La saggezza bi-millenaria di Aristotele non trova ascolto nell'Italia delle larghe intese. Dominato dall'ossessione del tempo, l'intero processo di riforma della nostra costituzione (da completarsi entro 18 mesi o cade il governo) appare destinato a sprofondare nel vuoto e mostra di non saper affrontare con un'adeguata cultura istituzionale la complessità di un'opera di revisione del testo che si pone alla base della convivenza sociale e politica del paese. Tutto ciò che può far perder tempo - il dialogo, il dubbio, la meditazione e il confronto delle idee - è considerato un ostacolo da evitare. Ma la fretta e l'improvvisazione è proprio ciò che i nostri costituenti hanno voluto scongiurare.
La pausa di tre mesi tra una deliberazione e l'altra per dar modo ai parlamentari di riflettere e approfondire i singoli temi, le maggioranze qualificate e lo sforzo di coinvolgere il più ampio numero di forze politiche oltre la maggioranza semplice del governo, il referendum di natura oppositiva come strumento ultimo di verifica dell'effettivo consenso alla revisione operata dai nostri rappresentanti sono il cuore delle garanzie costituzionali sulla revisione, scritte in modo chiaro all'articolo 138. Non solo, anche la previsione (definita all'art. 72, nel combinato disposto tra 2˚ e 4˚ comma) che impone per i disegni di legge in materia costituzionale la «procedura normale» di esame e approvazione, escludendo che si possa adottare il procedimento abbreviato previsto per i casi in cui sia dichiarata l'urgenza, segnala come la discussione sulla costituzione e le sue modifiche non possa essere piegata alla contingenza del momento o alle necessità della politica. Eppure, il governo di larghe intese con il passo del bulldozer spiana la strada alla riforma, costringendo il parlamento ad approvare tutto e subito. Ha iniziato presentando direttamente il ddl costituzionale che impone una procedura straordinaria per l'approvazione delle riforme costituzionali.
Con una disinvoltura che lascia sgomenti, non solo si accinge a derogare alle garanzie procedurali previste dalla nostra costituzione (all'articolo 138), ma per di più impone i modi e le forme del dibattito parlamentare. Strozzandone i tempi. Ottenuta la procedura d'urgenza al Senato (in barba all'articolo 72 cost.) è riuscito, con il contributo attivo di tutti i partiti delle larghe intese, a smaltire la discussione e la votazione sugli emendamenti nello spazio di una giornata. Nel modo più semplice: non prendendoli in considerazione. Alcune modifiche, strettamente concordate dalla maggioranza (e solo da questa) sono state introdotte. Ma non per migliorare il testo, semplicemente per irrigidire i lavori del Comitato parlamentare che dovrà esaminare i progetti di legge costituzionali o per ridistribuire i tempi dell'implacabile crono-programma prestabilito.
Solo in un caso la modifica introdotta appare significativa, ed è indicativa dello stato di confusione nel quale versano gli affrettati fautori della riscrittura del testo della costituzione. In modo assai sprovveduto, inizialmente, il governo aveva indicato le materie su cui si sarebbe dovuti intervenire: forma di Stato, forma di governo, bicameralismo e, da ultimo, in coerenza con le revisioni adottate, la legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali. L'illusione era di poter così circoscrivere la portata delle modifiche costituzionali. È stato sufficiente che qualcuno (Donato Bruno del Pdl) notasse come la materia della giustizia non potesse venire esclusa nel caso si giungesse al mutamento della forma di governo, che, d'improvviso, s'è aperto il vaso di pandora. La riscrittura di così ampie parti della costituzione non può, infatti, che comportare la ridefinizione di tutti gli equilibri tra i poteri. Ed ecco allora che si è ammesso quanto era già evidente agli occhi dei più attenti osservatori: questa riforma, se avrà successo, non si limiterà a riscrivere parti ma finirà per travolgere l'intera costituzione.
Dal fondo degli abissi già si ode l'urlo terribile e drammatico (come lo definiva Carl Schmitt) del potere costituente. La breccia dalla quale riuscirà a imporsi è stata individuata: l'articolo 2, comma 1 bis. Un «piccolo» emendamento - presentato come una sconfitta delle pretese del centrodestra sulla giustizia e una vittoria del centrosinistra - che ammette modifiche di ogni parte della costituzione purché «strettamente connesse» alle materie espressamente indicate.
Se si fosse letto qualche libro e si avesse avuto il tempo per soffermarsi un poco a meditare sarebbe apparso evidente quel che va ripetendo dall'inizio del secolo scorso la dottrina costituzionale e che qualunque revisore della costituzione dovrebbe sapere. Tutta la nostra costituzione è «strettamente connessa», svolgendo un ruolo essenzialmente di integrazione sociale e politica, definendo un «sistema ordinato» di principi tra loro tutti collegati. È questa, in fondo, la ragione per la quale si dovrebbero proporre solo modifiche puntuali su argomenti specifici. Ogni volta invece che si è passati dalla «revisione costituzionale» (art. 138) alla «grande riforma» in deroga s'è finito per stravolgere il sistema costituzionale costituito. Ma evidentemente nella fretta ci si è distratti. Ed eccoci ad un passo dal baratro del potere costituente. Grande appare, inoltre, la disattenzione per il complesso delle garanzie e delle regole che dovrebbe sovraintendere l'opera del revisore costituzionale. Tutto viene sacrificato in nome dell'unica norma fondamentale che deve essere osservata: la «legge» del rispetto dei tempi. Basta qui un solo esempio, ma che sembra assai eloquente.
La cavalcata che dovrebbe portare al nuovo assetto costituzionale non prevede nessuna possibilità di ripensamento, stravolgendo così l'intero impianto della revisione costituzionale indicata all'articolo 138. Vengono, infatti, mantenute le quattro deliberazioni formali dinanzi alle Camere, sebbene se ne accorcino drasticamente i tempi. Quel che è più grave, però, è che questi passaggi sono resi del tutto inutili. Infatti, dovendo rispettare i 18 mesi a disposizione, è evidente che non si potrà cambiar nulla di quanto deciso nella Camera che delibera per prima. Se l'altro ramo del parlamento esercitasse i suoi poteri costituzionali e modificasse i progetti che gli vengono sottoposti si dovrebbe ricominciare da capo. E il crono-programma salterebbe. Per non dire della seconda lettura, la quale non potrà che limitarsi a una mera ratifica formale di quanto deciso 45 giorni prima. Un parlamento sotto ricatto: se esercita le sue prerogative salta il governo che - come ha minacciato il presidente del consiglio nel discorso di insediamento davanti alle Camere - non dovrebbe avere «esitazioni a trarne immediatamente le conseguenze». C'è da sperare che il nostro parlamento alzi la testa e faccia valere la propria dignità, e con essa la superiore legalità costituzionale.

La "popolarità" del gesto tirannico (o del golpe militare) è una giustificazione ammissibile per la violenza alla democrazia? La simpatia dei giornali italiani per chi ha cacciato i fratelli musulmani dal potere in Egitto è un brutto segnale anche per il nostro paese.

Il manifesto, 7 luglio 2013

Non c'è solo la vicenda del diktat del Consiglio supremo di difesa italiano al parlamento sugli F35 a richiamare un nostrano clima egiziano. C'è anche il modo con cui i media democratici e indipendenti stanno raccontando il golpe al Cairo. Dalle colonne del Corriere della sera al Tg3, fino a Rainews 24, è una gara a negare e nascondere che di colpo di stato militare si tratta. La spiegazione data è inquietante. Il colpo di stato dei militari egiziani guidati dal generale-ministro della difesa Al Sisi sarebbe infatti «popolare», perché applaudito da folle oceaniche giubilanti.

L'informazione libera e la sensibilità della sinistra si sono formate, fra l'altro, in questo paese proprio sulla denuncia dei tentativi di colpo di stato, dei vari «rumor di sciabole», di quella ingerenza violenta e stragista più volte tentata per sconvolgere l'assetto della democrazia costituzionale su mandato della "piazza" rumorosa o della maggioranza silenziosa di turno.

Perché questa sensibilità ora dovrebbe ancora valere per l'Italia e non invece per un grande paese arabo come l'Egitto? Visto che il presidente Morsi e il suo partito, i Fratelli musulmani, hanno vinto solo un anno fa democratiche elezioni alla fine convalidate, nonostante denunce di brogli, dagli osservatori internazionali e dalle Nazioni unite? Non è vero, come sostengono a Rainews 24, che per Morsi - alle prese fra l'altro con un dopo-Mubarak di miseria e di imposizioni del Fmi - si è trattato di «29 mesi di incapacità politica»: i mesi sono dodici. Fermo restando il giudizio negativo per le sue gravi responsabilità, per esempio nell'incapacità di rappresentare le trasformazioni sociali in corso nella nuova Costituzione, ancorato com'è ad una visione islamo-centrica, Morsi è stato eletto il 30 giugno del 2012. E allora quanti golpe militari dovremmo augurarci in Italia, contro i governi fallimentari che si susseguono ad esecutivi coalizzati e nemmeno eletti, inconcludenti e per tempi perfino più ridotti? Vogliamo i colonnelli?

Ma il golpe in Egitto, sostiene Antonio Ferrari nel suo editoriale di ieri sul Corriere della Sera, «è popolare». Era forse meno «popolare» quello in Cile del generale Augusto Pinochet dell'11 settembre 1973, quando assunse il potere, ben coordinato dalla Cia, per rispondere - sosteneva - «alle richieste del popolo», quella classe media che da mesi scendeva in piazza contro il governo di sinistra di Allende democraticamente eletto, con proteste oceaniche e rumorose di piazza, mentre i camionisti bloccavano il paese e i commercianti serravano i negozi impedendo gli approvvigionamenti, e i soldati si pronunciavano nelle caserme?

Forse in queste posizioni c'è qualcosa di più di una semplice adesione alla superficialità dominante nell'epoca del lettismo-berlusconismo. C'è, ed è grave, una piena complicità con il silenzio-assenso che sul golpe egiziano viene da Washington. Cioè da molto vicino, visto il rapporto subalterno padrone-servo che gli Stati uniti hanno assegnato all'esercito egiziano, sotto Mubarak, con Morsi e in questi giorni. Mentre il golpe era in corso e le agenzie e i giornali di tutto il mondo titolavano semplicemente quello che era sotto gli occhi di tutti «colpo di stato militare in Egitto», dal Dipartimento di Stato Usa arrivava una specie di bofonchio da tre scimmiette che non vedono, non parlano, non sentono: «Non ci risulta...», è stata la frase lapidaria. Fino alle verità della dichiarazione illuminante di Obama di ieri: «...Si ripristini al più presto il processo democratico». Non pare di ricordare che la necessità dei colpi di stato militari facesse parte del Discorso del Cairo di Obama nel 2009.

Il fatto è che gli Stati uniti hanno da poco staccato l'assegno annuale di un miliardo e mezzo con cui sostengono l'esercito, il suo ruolo e le sue istituzioni; soldi ben spesi a quanto pare, che fanno dei militari la vera realtà sociale garantita in Egitto, uno stato nello stato che «se si muove - dice lo scrittore Aswani - lo fa solo per difendere i propri interessi». Un ruolo che è inevitabilmente destinato a confliggere con gli interessi dei settori laici, dei ribelli e dello stesso El Baradei che ora plaudono. Anche grazie a questo controllo, gli Stati uniti hanno condizionato la presidenza Morsi, impegnandola nella continuità dei trattati di pace con Israele, vale a dire sacralizzando lo status quo del dominante a scapito dei palestinesi dominati, e inoltre impegnando Il Cairo, a fianco dell'Arabia saudita e del Qatar, in una politica di pericoloso sostegno del jihad sunnita anti-Assad in Siria. Tra le colpe di Morsi c'è anche l'avere accettato questo condizionamento.

Ultima considerazione, come ricordava Gian Paolo Calchi Novati: è già accaduto che ad una affermazione elettorale dell'islamismo politico si sia risposto con un golpe militare o con il violento boicottaggio internazionale, nel 1992 con la vittoria del Fis in Algeria e nel 2006 con quella di Hamas in tutta la Palestina (non solo a Gaza, anche in Cisgiordania). Il risultato di questi interventi ha sconvolto il Medio Oriente e il mondo, allargando le ferite delle sue crisi.

«Diceva Norberto Bobbio che rendere pubblico il potere implica togliergli il velo della segretezza: questa è una delle promesse più importanti della democrazia».

La Repubblica, 7 luglio 2013

Si scoprì alla fine della Guerra fredda che la Stasi, il servizio segreto della Germania comunista, aveva un dossier su ogni cittadino e aveva fatto di ogni tedesco una spia. In una società dove la vita privata delle persone non conosceva segretezza lo Stato godeva della massima segretezza. Nascondimento è potere fuori da ogni controllo. Ci si chiese allora che senso avesse lo spionaggio quando tutti erano spiati. Ma un senso c’era perché se è vero che per essere efficace il controllo deve essere selettivo, è altresì vero che occorre raccogliere tutte le informazioni per poter selezionare quelle “utili”. È pertanto fatale che la schedatura dilaghi a macchia d’olio. All’opposto, non vi è più radicale nemico della segretezza di Stato di un governo fondato sul pubblico e i diritti civili.

Diceva Norberto Bobbio che rendere pubblico il potere implica togliergli il velo della segretezza: questa è una delle promesse più importanti della democrazia. Una promessa che sta insieme alla pace e alla libertà. Alla pace, perché il sistema di segretezza e di spionaggio presume nemici potenziali o effettivi, la preparazione dei conflitti, non della cooperazione. Alla libertà, perché un governo che cela ciò che fa e raccoglie informazioni in segreto non può garantire la protezione dei diritti. I realisti hanno sempre deriso i democratici di idealismo, eppure con la loro proverbiale giustificazione della politica come arte della dissimulazione e della segretezza essi non sanno distinguere tra governo libero e governo arbitrario. Idealisti e realisti si trovano oggi a misurarsi di fronte a quello che sembra essere il caso di spionaggio più pervasivo e totale dalla fine della Guerra fredda.

Non la Stasi ma l’intelligence americana, non la Germania comunista ma gli Stati Uniti sono oggi il problema. In questo caso, i realisti sono gli americani che hanno messo in atto una gigantesca operazione spionistica non solo verso potenziali ed effettivi nemici, ma anche verso amici e alleati militari, come gli Stati europei e la Ue. La ragione accampata è la protezione dal rischio di terrorismo. Evidentemente il governo americano non si fida degli “amici” europei se acconsente a far mettere cimici nelle loro ambasciate e “scheda” la loro corrispondenza elettronica. Che le agenzie di cui si avvale la Cia emulino la Stasi ha del paradossale anche perché la Casa Bianca ha fatto dei diritti umani un cavallo di battaglia per condannare governi autoritari e aiutare movimenti di resistenza e rivoluzionari.

Le rivelazioni di Edward Snowden, l’ex analista del National Security Agency (Nsa), hanno avuto un effetto dirompente per la legittimità internazionale di Barack Obama che da questa vicenda non ne uscirà bene (nonostante la sorprendente docilità dei leader europei). E con lui il Partito democratico, del quale si dice, con buone ragioni, che ora tace perché governa la Casa Bianca, eppure fece in passato un’opposizione durissima al repubblicano George W. Bush su questioni di violazione della privacy e di diritti civili per ragioni di difesa nazionale.

Il paradosso di Obama è di essere forte nei sondaggi perché difensore dei diritti civili – nei giorni scorsi ha esultato per la decisione della Corte Suprema di interpretare il matrimonio come un’unione non eterosessuale – eppure pronto a violare il diritto alla privacy, un valore che per gli americani ha un significato fondamentale, orgogliosi fino a pochi anni fa di rifiutare di avere documenti di identità e ora schedati fin nella loro corrispondenza. Obama con una mano dà diritti, con l’altra li offusca.

I realisti dicono che tutti i governi devo avere servizi segreti, agenzie per la raccolta di dati ed eserciti pronti a intervenire anche in violazione dei diritti, se ciò è necessario alla difesa del Paese. Nulla di nuovo, dunque. Ma così non è quando di mezzo c’è un governo democratico e, soprattutto, una cultura che ha fatto della società aperta il punto di riferimento per l’espansione del libero mercato in tutti gli angoli del pianeta. Oggi veniamo a sapere che l’ideologia del libero mercato ha il sapore di una truffa perché le multinazionali riescono ad avvantaggiarsi delle informazioni carpite per le agenzie americane di intelligence, che insomma il libero mercato riposa su una condizione di privilegio dell’informazione e assomiglia a un governo arbitrario che si camuffa con la propaganda della libertà. L’intervista rilasciata da Snowden, ascoltabile nel sito di Repubblica.it, è inquietante: spiegando la ragione per la quale ha deciso di diventare un ricercato globale senza un luogo dove vivere in sicurezza, ha messo a nudo la doppiezza della politica del suo governo. E ha ricordato ai realisti che un governo che mette in piedi un sistema di spionaggio mondiale sostenendo che è per il bene del Paese è pericoloso perché toglie al pubblico la possibilità di giudicare sui metodi usati per la sicurezza.

Snowden ha legato insieme come perle di una collana le qualità che sorreggono la democrazia e i diritti e ha spiegato perché si devono controllare le agenzie governative che conservano le informazioni su milioni di persone semplicemente perché potrebbero essere utili al governo in futuro. Dietro il paravento del terrorismo si cela la formazione di un sistema pervasivo di raccolta di dati che un qualunque potentato potrebbe usare a proprio vantaggio. Ecco perché il pubblico deve sapere e togliere il velo della segretezza ai governi, quelli democratici in primi luogo.

Dove vanno i soldi estratti dalle tasche del popolo e destinati dai governi ad altri popoli? Ecco a chi. «Il 77 percento dei 206 miliardi di aiuti, distribuiti in 23 tranches alla Grecia da Ue e Fondo monetario, è finito nelle tasche della finanza». La denuncia in un rapporto di Attac Austria.

Sbilanciamoci.info, 5 luglio 2013

In un report apparso nel mese di giugno sul suo sito, Attac Austria ha pubblicato i risultati delle ricerche sulla destinazione degli aiuti economici ricevuti dalla Grecia dall’inizio della crisi. Dal marzo del 2010 la Grecia ha ricevuto un totale di 206,9 miliardi di euro suddivisi in 23 tranche da Unione europea e Fondo monetario internazionale. Tuttavia non è stata prodotta alcuna documentazione che riportasse l’utilizzo effettivo di tali risorse. Attac Austria ha quindi deciso di approfondire la questione arrivando a scoprire che il 77% del totale dei fondi di salvataggio sono finiti direttamente o indirettamente nelle tasche della finanza. Il materiale è disponibile sul sito di Attac Austria in tedesco ed inglese.

È necessario prima di tutto un breve riepilogo dei due programmi di salvataggio ricevuti dalla Grecia fino ad oggi. Il primo è stato deciso all’inizio del maggio 2010 tra Unione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale (dopo che il paese ne aveva fatto ufficialmente richiesta il 23 aprile dello stesso anno). Il prestito ha raggiunto i 110 miliardi di euro, di cui 80 messi a disposizione dai paesi dell’Eurozona e 30 dal Fmi. Dei 110 miliardi, 73 sono stati effettivamente trasferiti mentre i restanti 34 sono passati al secondo programma di aiuti.

Il 21 febbraio 2012 è partito il secondo programma di aiuti sulla base delle decisioni prese nel luglio dell’anno precedente. La somma del secondo pacchetto ammonta a 172,6 miliardi di euro, di cui 144,6 messi a disposizione da Efsf e 28 dal Fondo monetario. Dal marzo 2012 al momento della stesura del report di Attac (giugno 2013) del secondo pacchetto di aiuti il paese ha ricevuto 133,891 miliardi.

Le ricerche di Attac Austria hanno rintracciato le destinazioni dei pagamenti sia con l’ausilio di documenti ufficiali sia utilizzando fonti alternative come media e giornali. Il documento specifica in dettaglio la destinazione delle risorse: 58,2 miliardi (28,13%) sono stati utilizzati per la ricapitalizzazione del settore bancario e 101,331 miliardi (48,89%) sono andati ai creditori dello stato greco, di cui 55,44 miliardi sono stati utilizzati per coprire la scadenza di titoli di stato, invece di lasciare ai creditori il peso del rischio per il quale erano già stati indennizzati dal pagamento degli interessi, aggiunge il report di Attac. Altri 36,6 miliardi sono serviti come incentivo per fare accettare ai creditori l’haircut del marzo 2012, mentre 11,3 miliardi sono stati utilizzati per ricomprare pezzi di debito senza valore.

Lisa Mittendrein, responsabile nazionale di Attac Austria afferma: “L’obiettivo delle elite politiche non è quello di salvare la popolazione greca ma il settore finanziario del paese. Centinaia di milioni di euro di risorse finanziarie pubbliche sono stati utilizzati per salvare le banche ed altri istituti finanziari dalla crisi finanziaria che loro stessi hanno causato”.

La destinazione dei fondi alla Grecia documentato dalle ricerche di Attac si scontra pesantemente con l’interpretazione pubblica delle politiche europee di salvataggio del paese, distorta ad arte dalle elite politiche le quali hanno sostenuto fosse la popolazione greca a trarre vantaggio dai prestiti internazionali. È scandaloso, aggiunge Lisa Mittendrein, che la Commissione europea abbia pubblicato report da centinaia di pagine senza specificare dove finissero effettivamente questi soldi.

Ad aver beneficiato dei fondi sono state banche come Eurobank Ergasias, posseduta dalla famiglia Latsis una delle più ricche del paese e speculatori come l’hedge fund Third Point, che hanno intascato 500 milioni di euro dal riacquisto del debito nel dicembre 2012. Come commenta Lisa Mittendrein, “la solidarietà con la Grecia espressa dal Presidente della commissione europea Barroso non si capisce verso chi sia stata”.

Dei 43,6 miliardi (22,46%) destinati alle finanze pubbliche più di 34,6 miliardi sono stati pagati ai creditori sotto forma di interessi, senza considerare che 10,2 miliardi sono andati alle spese militari, sembra sotto pressione dei governi di Berlino e Parigi che avrebbero voluto proteggere gli interessi delle industrie militari nazionali.

Le elite politiche, incalza ancora il report di Attac, nei cinque anni di crisi internazionale hanno fallito anche nell’implementare quelle riforme necessarie per la regolamentazione del settore bancario e dei mercati finanziari, riforme necessarie proprio ad evitare il ripetersi di episodi come questi dove i contribuenti sono costretti a pagare le perdite degli istituti di credito. I governi devono sottrarre questa capacità di ricatto del settore bancario. Ancora peggio, aggiunge il report citando fonti Reuters poi confermate da Marica Frangakis di Attac Grecia, per beneficiare dei miliardi di aiuti pubblici le banche greche hanno utilizzato pratiche poco trasparenti per passarsi a vicenda da conti offhsore prestiti non coperti in modo da attrarre capitale privato ed avere le condizioni per ricevere i fondi di salvataggio.

Occorre prima di ogni cosa maggiore trasparenza da parte delle istituzione internazionali unita ad un cambio radicale di politiche nella gestione della attuale crisi europea e che si evitino in particolar mode manipolazioni utilitaristiche dell’elettorato. Come afferma Lisa Mittendrein, “dopo tre anni di austerità la Grecia ha bisogno di un pacchetto di aiuti che raggiunga davvero la popolazione”.

Il report si conclude con una serie di episodi tanto bizzarri quanto inquietanti scoperti durante le ricerche. Unione europea e Fondo monetario hanno più volte smentito o rimandato di settimane e mesi gli accordi sui pacchetti di salvataggio per esercitare pressioni sulla democrazia greca, nell’autunno del 2011 per evitare il referendum nazionale sulle politiche di austerità e nel maggio-giugno del 2012 per aumentare le probabilità di elezione di partiti vicini alla troika. Con questo gioco perverso di promesse e smentite il governo greco è stato costretto ad emettere titoli a scadenza soggetti ad elevati tassi di interesse. Difficile quindi credere che le istituzioni internazionali avessero davvero a cuore la situazione delle finanze pubbliche greche se hanno forzato il governo di Atene al ricorso a tali misure.

Nel giugno del 2012 una tranche dei fondi del valore di un miliardo è stata utilizzata per finanziare il contributo obbligatorio della Grecia alla creazione del Mes. In sostanza la creazione del Mes ha comportato non solo l’impiego del capitale del precedente Efsf ma anche l’utilizzo di fondi pubblici di quei paesi che il fondo europeo servirebbe a sostenere.

Ma non basta. Klaus Regling, il direttore del Efsf e del Mes nella sua carriera si è alternato piu volte tra grande finanza e politica. Prima di assumere la carica al Efsf ha lavorato per il governo tedesco, per l’hedge fund Moore Capital Strategy, come direttore generale della commissione Economia e affari finanziari della Commissione europea sia per l’hedge fund Winton Futures Fund Ltd. Regling rappresenta il simbolo dell’intreccio tra finanza e politica il quale spiega in parte perché gli aiuti siano finiti in gran parte al settore finanziario.

Una nota negativa arriva dai costi di gestione del Efsf. Nel 2011 il personale che ha gestito il fondo (12 dipendenti) è costato ben 3,1 milioni di euro, una media di 258.000 euro a testa. Al direttore Regling sono stati corrisposti 324.000 euro annuali più eventuali extra. Queste sono le persone, conclude il report di Attac, che hanno deciso per la riduzione del salario minimo mensile a 580 euro in Grecia (510 per i giovani).

«Uno dei principali compiti culturali che si pongono a qualsiasi gruppo oppresso è di minare o screditare la giustificazione del ceto dominante». Ossia, recuperare l'indignazione all'impegno politico abbattendo l'autorità morale della sofferenza e dell'oppressione». I

l manifesto, 5 luglio 2013

In politica le aspettative deluse producono frustrazione.Quanto accadde già al tempo del primo centrosinistra, che doveva inaugurare la stagione delle riforme e si impantanò negli sfinimenti morotei; sta avvenendo oggi, mentre i presunti tsunami di febbraio rifluiscono nello sfibrante scirocchetto romano.

A quei tempi la frustrazione produsse fatalismo di massa, ma anche circoscritte quanto sanguinose insorgenze. La scommessa odierna è quella di una generale passivizzazione, resa ancora più probabile dal fatto che se negli anni Sessanta esistevano accumuli di energia sociale di notevole potenza e per vario utilizzo, oggi la società risulta sfiancata da impoverimenti e precarizzazioni.

Questo è quanto sembrano indicare i barometri delle tendenze collettive, registrando minime oscillazioni statistiche nell'orientamento al voto verso Pd e Pdl, a fronte di una caduta di quello verso M5S e la contestuale espansione a macchia d'olio dell'astensionismo. Dati che confermano l'utilità del condominio di governo per le forze dell'attuale ("strana"?) maggioranza, tranquillamente indifferenti al restringersi della base elettorale. La rendita di posizione consente di definire gli organigrammi ripartendo il suffragio residuo. Dati - soprattutto - che premiano Letta jr. nel suo ruolo di giovane premier, per aver raggiunto il vero obiettivo di mandato che aveva ricevuto insieme all'incarico: evitare le elezioni; pericolose tanto per un Pd perennemente in cantiere come per Berlusconi, che difficilmente potrebbe trovare una collocazione più favorevole di quella attuale.

Ovviamente il cicaleccio ufficiale della politica blatera di tutt'altro: riforme a go-go, disoccupazione giovanile o meno da sconfiggere, rilancio economico da attuare e - naturalmente - ruolo dell'Italia nell'Unione europea da valorizzare.Ma è solo rumore, a coprire i sussurri di una corporazione politica che per continuare a durare deve far sbollire la pressione sociale. E la lancetta che misura il trend positivo nell'operazione in corso è quella che indica il costante diffondersi del disincanto fatalistico. Che consentirà ancora una volta alla corporazione della politica di perpetuare la propria presa sulla società. Visto che, grazie agli sfinimenti di un democristianesimo redivivo, sta consolidandosi in chi sino a ieri si indignava, la convinzione dell'inutilità della protesta.

Si diffonde la sottomissione, mentre ancora una volta i ceti dominanti fissano le priorità di cosa è socialmente necessario (in sostanza la tutela delle proprie funzioni). Quel meccanismo mentale che il sociologo Barrington Moore jr. - in un saggio edito da Comunità nel 1978 ("Le basi sociali dell'obbedienza e della rivolta") - indicava come la modalità più economica per esercitare la coercizione: l'interiorizzazione in termini di apprezzamento da parte delle sue stesse vittime. Una sorta di "sindrome di Stoccolma" applicata alla politica (il vassallaggio psicologico del sequestrato nei confronti dei sequestratori).

Da qui la contromossa suggerita da Moore: «Uno dei principali compiti culturali che si pongono a qualsiasi gruppo oppresso è di minare o screditare la giustificazione del ceto dominante». Ossia, recuperare l'indignazione all'impegno politico abbattendo l'autorità morale della sofferenza e dell'oppressione.Ma chi è pronto a impegnarsi in questo ruolo critico di smascheramento per nuovi inizi democratici? I Cinquestelle, in bilico tra un corso di ragioneria contabile e la Santa Inquisizione? La sinistra di Pd e Sel, con tutti i loro riflessi condizionati di politica politicante? Un'intellighenzia nazionale che in larga misura ha tratto dal postmodernismo solo la sufficienza di uno scetticismo blu refrattario all'impegno? Intanto proseguono indisturbate le operazioni che, sotto il paravento di un'ennesima stagione delle riforme, sterilizzano la rabbia sociale attraverso l'uso sistematico del rinvio.

Qualche giornalista (e qualche giornale) esce dal coro e adopera ragione e conoscenza Sebbene il motivo per criticare l'abolizione delle province non sia prevalentemente nel lavoro.

Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2013

Che non si potessero abolire le Province con un decreto legge è evidente: sono Enti previsti dalla Costituzione, serve una legge costituzionale; che significa doppio passaggio in Parlamento, eventuale referendum, insomma un paio d’anni ed esito incerto. Ma non c’è da strapparsi i capelli: i risparmi di spesa conseguenti all’abolizione non sono granché.

Il problema non è chiamare le cose con un nome diverso; è cambiarle. Se le Province devono davvero essere abolite, questo vuol dire che quello che fanno è inutile. Se invece inutile non è, tanto che è necessario istituire settori di Regioni e di Città metropolitane che facciano le stesse cose che prima facevano le Province, conservando lo stesso numero di dipendenti e di strutture; allora che senso ha abolirle? Quello che si risparmia è qualche presidente e consigliere provinciale in meno. Il che è una bella soddisfazione sul piano politico, ma poco produttiva sul piano economico: a quanto ammontano gli stipendi risparmiati? Intendiamoci: una riduzione della spesa pubblica ottenuta con il taglio di costi della politica è sempre una buona cosa e certamente rincuora i cittadini; ma non ha effetti decisivi sulla crisi. Che invece ci sarebbero se, oltre ai politici, fossero eliminati (in realtà significativamente ridotti in proporzione alle effettive esigenze di servizio) i dipendenti pubblici. E qui siamo nei guai.

Le Province italiane contano circa 60.000 dipendenti; diciamo dunque da 40.000 a 50.000 famiglie (ci saranno pure dipendenti single). Che succede se 200.000 persone mal contate si trovano, dall’oggi al domani, senza mezzi di sussistenza? Che ne è di gente che, il 27 del prossimo mese, non avrà i soldi per pagare il mutuo o l’affitto, per fare la spesa, per riscaldarsi in inverno? Può il Paese far fronte a un’emergenza del genere? E il caso delle Province è solo uno: in Italia gli impiegati pubblici sono 3 milioni e mezzo. Quanti sono inutili? E chi lo sa? Ma il costo di questo ignoto numero di persone, se eliminato, avrebbe importanti effetti positivi sull’economia italiana; e, contemporaneamente, ne avrebbe di disastrosi sul piano sociale e politico. In Grecia ci sono 750.000 dipendenti pubblici, un numero pari a quelli impiegati nel settore turistico che, in quel Paese, significa il 16 % del Pil. Per essere ammessa al piano di salvataggio, la Grecia ha ridotto gli stipendi dei dipendenti pubblici del 20% e ha promesso di ridurne il numero di un quinto.

Se in Italia si applicassero le stesse misure, si dovrebbero licenziare circa 700.000 dipendenti pubblici con conseguenze disastrose sul piano sociale e politico: altro che Alba Dorata, il partito neofascista greco.

Ecco perché l’eliminazione delle Province e la sentenza della Corte costituzionale che le ripristina sono un falso problema. Il problema reale è sempre lo stesso: il lavoro deve essere produttivo; che vuol dire fornire le risorse necessarie per remunerare il lavoratore e garantire un utile; se così non avviene si trasforma in un costo per la collettività. Ma in un Paese in cui “diritto al lavoro” significa dovere per lo Stato di fornire a tutti un posto di lavoro, anche quando ciò è economicamente impossibile, la cosa è trascurabile. Per questo siamo in bancarotta.

Vedi in proposito l'eddytoriale n. 159

Perchè la riduzione dei diritti dei lavoratori è nemica dell'aumento della produttività.

La Repubblica, 5 luglio 2013
Sostenendo con le sue azioni dal 2004 in avanti il principio che per produrre come si deve bisogna oggi ridurre i diritti dei lavoratori, principio che la Consulta ha ora bocciato, Marchionne non ha ovviamente inventato nulla di nuovo. Ha deciso di seguire la polverosa strada bassa delle relazioni industriali, progettata e costruita in Usa e nel Regno Unito dai governi Reagan e Thatcher degli anni 80, poi percorsa attivamente in Francia e in Germania anche da governi sedicenti socialisti o socialdemocratici, o comunque con l’appoggio dei partiti così denominati. Si veda, nella prima, la legge sulla modernizzazione del diritto del lavoro, e nella seconda la sequela delle leggi Hartz — dal nome di un ex capo del personale cui il governo ritenne di affidare, nientemeno, che il compito di insegnare ai lavoratori ad essere più responsabili. Il che ha significato accettare senza discutere salari “moderati”, potere e rappresentatività dei sindacati in picchiata, condizioni di lavoro sempre più pesanti.

Parrebbe giunto il momento di riconoscere che la strada bassa delle relazioni industriali è stata una pessima costruzione. Ha compresso in misura iniqua quanto economicamente insensata la quota salari in Europa come in America; ha contribuito a produrre milioni di disoccupati; ha favorito la scomparsa di interi settori produttivi. Peggio che mai in Italia, dove la generalizzazione della ricetta Marchionne a tutto il settore industriale non sarà stata la sola causa, ma di fatto si è accompagnata a crolli paurosi della produzione: in un decennio scarso la costruzione di auto è scesa della metà, non si fabbricano più grandi navi, sono in crisi tessili ed elettrodomestici, l’aerospaziale ha i problemi suoi, la chimica è un nano rispetto a quello che era tempo addietro.

In questo quadro più nero che grigio, che cosa significa reinventare e ripensare il lavoro in chiave di innovazione e produttività, per usare le parole della presidente della Camera? Significa varie cose. Che bisognerebbe smetterla di concepire la produttività come lavorare sempre più in fretta sotto il controllo di un computer, come vorrebbe la metrica Fiat imposta dal cosiddetto accordo di Pomigliano: con il risultato ultimo, osservabile in tutti i comparti produttivi, che nel momento in cui finalmente gli operai lavorano come robot, vengono subito sostituiti da robot nuovi di zecca (come ho ricordato altre volte, l’Italia è da anni il secondo maggior acquirente europeo di robot industriali).
La produttività andrebbe invece correttamente vista come valore aggiunto per ora lavorata, un risultato che si ottiene innovando, contando sull’intelligenza dei lavoratori invece che sulla loro disciplinata obbedienza, riconoscendo che nelle critiche che essi ed i sindacati fanno all’organizzazione del lavoro – e perché no ai prodotti – c’è più produttività da ricavare che non imponendo ritmi forsennati di lavoro. Per tacere della ricetta di Henry Ford, che non era precisamente il titolare di un’opera pia, ma all’incirca un secolo fa scoprì una formula che i manager di oggi sembrano avere dimenticato: raddoppiò il salario giornaliero agli operai contando sul fatto – allora puntualmente verificatosi – che essendo pagati meglio potevano acquistare i prodotti che fabbricavano. Al fine di concretare questi contenuti della produttività, la tutela dei diritti di rappresentanza, di parola, di partecipazione dei lavoratori attraverso i sindacati riveste più che mai un ruolo fondamentale.

LA PROVINCIA è come la coda della lucertola, quando la tagli ricresce. Nessuno è mai riuscito ad abolirla, è uno degli impossibili della politica italiana, come la riforma della Rai. L’ente inutile degli stipendi inventati, del nascondimento della disoccupazione e delle clientele, la piccola patria degli uscieri, il centro di spesa del keynesismo straccione ha questa misteriosa facoltà di resurrezione

Che è garantita dalla Corte costituzionale. E certo la Consulta avrà le sue ragioni formali a bocciare lo strumento del decreto legge utilizzato senza «la straordinaria necessità ed d’urgenza» ma è paradossale che la controversia su una forma, di cui si fa abitualmente abuso, sia più forte della sostanza politica, del buon senso, dell’emergenza economica, della volontà del Parlamento e della volontà popolare.

È vero che la Corte non è una assemblea politica, ma non è neppure un asettico consesso di tecnici che si pronunciano su questioni che interessano solo gli specialisti. I suoi giudici non vengono chiamati a esercitare il loro compito dal voto degli elettori, ma «non sono lontani ed estranei – ha scritto Valerio Onida – alla vita democratica del paese e ai suoi problemi ». Ebbene, la Consulta non può certo ignorare che tenendo in vita la Provincia ha offerto il suo scudo stellare al peggiore simbolo, non solo sul piano istituzionale, dell’arretratezza italiana, alla casta e all’odioso ceto politico che non vuole accettare per sé i sacrifici che impone a tutti gli altri cittadini.

Ed è sorprendente che ad avere abolito la Provincia sia rimasta solo la Sicilia, che è l’isola della Tortuga, il regno degli sperperi, la regione autonoma dove la casta è davvero speciale grazie al suo statuto speciale – una casta con le sarde l’avevamo chiamata – perché colleziona privilegi di ogni genere, e ha circa quarantamila stipendiati tra dipendenti della Regione, forestali e assunti nelle società partecipate, con una spesa complessiva che supera il miliardo di euro all’anno.

L’abolizione delle Province è stata e tornerà ad essere il cavallo di battaglia (sempre azzoppato) di tutte le opposizioni, lo slogan (sempre tradito) di tutte le campagne elettorali, da De Mita a Berlusconi, da Prodi a Beppe Grillo, a Bersani. Solo la Lega si era battuta apertamente per mantenerle in vita perché per sua vocazione difende tutti i piccoli feudi dell’identità e vorrebbe addirittura moltiplicarli, a cominciare dalla Ladinia come terza Provincia autonoma nella Regione Trentino Alto Adige. D’altra parte, quella provinciale è la sola fetta di casta e di clientele che è rimasta alla Lega. E infatti Bossi minacciò una rivolta nel nome di Bergamo.

Ma la verità è che l’abolizione delle Province, come per magia, ha sempre cambiato natura all’ultimo momento. C’era chi proponeva di cancellare, al posto delle Province, le prefetture; una volta la soppressione divenne trasformazione in area metropolitana; più spesso è stata proclamata e subito insabbiata in attesa di una futura legge attuativa. Insomma, si è sempre fermata davanti all’egoismo della politica. Raccontano che, già ai tempi della Bicamerale, Massimo D’Alema abbia gelato il costituzionalista Augusto Barbera con la seguente battuta: «E se l’inutile fossi tu?». Francesco Storace, che è fascista ma spiritoso, riassunse così la battaglia del governo Berlusconi contro le Province: «Avevamo promesso di abolire le Province e il bollo auto, ed è finita che ora affidiamo la gestione del bollo auto alla province».

E ora anche la morte per accorpamento che fu decretata dal governo Monti benché deludente e tremebonda perché uccideva le identità ma non le competenze (non sottraeva ma addizionava) è stata comunque bocciata come una bestemmia dalla Corte costituzionale per una volta d’accordo con la sola forza politica anticostituzionale che c’è in Italia: la Lega.

Forse in questa resistenza della Provincia non c’è solo l’ostruzionismo del ceto politico che si spinge a negare e a bollare come demagogiche le stime che, se l’abolizione fosse vera e completa, calcolano il risparmio attorno ai 12 miliardi di euro. C’è anche il sarcofago egiziano che l’italiano di strapaese si porta addosso. E va bene che qui il discorso diventa antropologico e non più istituzionale, so che è audace dirlo, ma l’intervento della Corte rischia di fare passare per costituzionale il modello standard dell’idea di Nazione- Italia: «Paese mio che stai sulla collina / disteso come un vecchio addormentato / la noia, l’abbandono, il tempo son la tua malattia …». Nel senso che la Corte potrebbe avere stabilito che non si possono abolire con un semplice decreto l’albero degli zoccoli, le lucciole pasoliniane, la Racalmutometafora di Sciascia, le melanzane e il latte di capra come archetipi di una modesta ma sicura felicità, la vita come una lunga partita a carte che ricomincia ogni pomeriggio e non finisce mai.

Volete la prova del nove? Persino in Sicilia l’abolizione della Provincia rischia di rivelarsi un sotterfugio di allegra tradizione napoletana più che sicula. Il disegno di legge abolisce infatti le nove Province, ma non cancella il livello intermedio tra Comuni e Regioni perché, sempre per specialità di Statuto, darà vita ai liberi consorzi comunali che, con 5 milioni di abitanti, presto potrebbero essere ben 33. Al posto di 9.

Postilla

Che bello sarebbe se i giornalisti, in Italia, sapessero di che parlano quando affrontano temi un po’ più complessi di quelli della politique politicienne! Soprattutto quando hanno la penna accattivante e godono credito nell’opinione pubblica. Ma l'articolo di Francesco Merlo merita una risposta un po' piò ampia dello spazio di una postilla. A domani

«Chiamiamoli dunque con il nome che Snowden e Manning danno a se stessi:

whistleblower, cioè coloro che lavorando per un servizio o una ditta non smettono di sentirsi cittadini democratici e soffiano il fischietto, come l’arbitro in una partita, se in casa scorgono misfatti». La Repubblica, 3 luglio 2013

ALCUNI li chiamano talpe, o peggio spie. Altri evocano le gole profonde che negli anni ’70 permisero ai giornali di scoperchiare il Watergate. Sono i tecnici dei servizi segreti o i soldati o gli impiegati che rivelano, sui giornali, le illegalità commesse dalle proprie strutture di comando, dunque dallo Stato. Oggi tutti questi appellativi sono inappropriati. Non servono a indovinare uomini come Edward Snowden o Bradley Manning: le loro scelte di vita estreme, inaudite. Non spiegano la crepa che per loro tramite si sta aprendo in un rapporto euroamericano fondato sin qui su silenzi, sudditanze, smorte lealtà.

Continuare a chiamarli così significa non capire la rivoluzione che il datagate suscita ovunque nelle democrazie, non solo in America; e il colpo inferto a una superpotenza che si ritrova muta, rimpicciolita, davanti alla cyberguerra cinese. Già nel 2010 fu un terremoto: i tumulti arabi furono accelerati dai segreti che Manning e altri informatori rivelarono a Wikileaks sui corrotti regimi locali, oltre che sui crimini di guerra Usa. Ora è il nostro turno: senza Snowden, l’Europa non si scoprirebbe spiata dall’Agenzia nazionale di sicurezza americana (NSA), quasi fossimo avversari bellici. Perfino il ministro della Difesa Mario Mauro, conservatore, denuncia: «I rapporti tra alleati saranno compromessi, se le informazioni si riveleranno attendibili ».

In un’intervista su questo giornale a Andrea Tarquini, il direttore del settimanale Die Zeit, Giovanni di Lorenzo è più esplicito: «Snowden ha voluto mostrare all’opinione pubblica come i servizi segreti possono mentire, e le reazioni positive dei tedeschi al suo tentativo sono un cambiamento fondamentale per il mondo libero. Un terzo dei cittadini si dice disposto a nascondere Snowden. Un terzo, fa un grande partito». Chiamiamoli dunque con il nome che Snowden e Manning danno a se stessi: whistleblower, cioè coloro che lavorando per un servizio o una ditta non smettono di sentirsi cittadini democratici e soffiano il fischietto, come l’arbitro in una partita, se in casa scorgono misfatti.

La costituzione è per loro più importante delle leggi d’appartenenza al gruppo. Sono i cani da guardia delle democrazie, e somigliano ai rivoluzionari d’un tempo. Vogliono trasformare il mondo, rischiano tutto. Snowden dice: «Non volevo vivere in una società che fa questo tipo di cose. Dove ogni cosa io faccia o dica è registrata». Sono convinti che l’informazione, libera da ogni condizionamento, sia la sola arma dei cittadini quando il potere agisce, in nome del popolo e della sua sicurezza, contro il popolo e le sue libertà. Come i rivoluzionari sono ritenuti traditori, da svilire anche caratterialmente. Infatti sono liquidati come nerd: drogati da internet, narcisisti, impo-litici, asociali. Ben altra la verità: le notizie date a Wikileaks usano entrare nella filiera «tradizionale», trovando sbocco su quotidiani ad ampia diffusione, attraverso articoli di giornalisti investigativi (è il caso di Glenn Greenwald del Guardian, cui Snowden s’è rivolto). Non sono rivelati, inoltre, i documenti altamente confidenziali.

Siamo nell’ambito dell’atto di coscienza per il bene collettivo, non di gesti isolati di individui fuori controllo. È utile conoscere il tragitto dei moderni whistleblower. Il soldato Manning a un certo punto non ce la fece più, e passò al fondatore di Wikileaks Assange documenti e video su occultati crimini americani: l’attacco aereo del 4 maggio 2009 a Granai in Afghanistan (fra 86 e 147 civili uccisi); il bombardamento del 12 luglio 2007 a Baghdad (11 civili uccisi, tra cui 3 inviati della Reuters. Il video s’intitola Collateral Murder, assassinio collaterale). Accusato di alto tradimento è l’informatore, non i piloti che ridacchiando freddavano iracheni inermi.
Arrestato e incarcerato nel maggio 2010, Manning è sotto processo dal 3 giugno scorso. Un «processo- linciaggio , nota lo scrittore Chris Hedges, visto che l’imputato non può fornire le prove decisive. I documenti che incolpano l’esercito Usa restano confidenziali; e gli è vietato invocare leggi internazionali superiori alla ragione di Stato (princìpi di Norimberga sul diritto a non rispettare gli ordini in presenza di crimini di guerra, Convenzione di Ginevra che proibisce attacchi ai civili). Gli stessi rischi, se catturato, li corre Snowden, ex tecnico del NSA: ne è consapevole, come appunto i rivoluzionari. A differenza delle vecchie gole profonde, i whistleblower militano per un mondo migliore. Sono molto giovani: Snowden ha 30 anni, Manningne aveva 22 quando mostrò il video a Wikileaks. Sono indifferenti a chi bisbiglia smagato: «Spie ce ne sono state sempre». Non fanno soldi. Alcuni agiscono all’aperto: Snowden ha contattato Greenwald, che da anni scrive sul malefico dualismo libertà-sicurezza. Altri rimangono anonimi finché possono, come Manning. Daniel Ellsberg, il rivelatore dei Pentagon Papers che nel ’71 accelerò la fine dell’aggressione al Vietnam, può essere considerato il capostipite dei whistleblower. Per lui Snowden è un eroe. Quel che ci ha dato è la conoscenza: esiste un’Agenzia, che nel buio sorveglia milioni di cellulari e indirizzi mail in America e nel mondo. È vero quello che dice il direttore della Zeit: il giudizio dei cittadini tedeschi su Snowden segnala mutamenti profondi, il cui centro è un nuovo tipo di informazione, che passa attraverso la stampa ma nasce in internet. Il giornalista Denver Nicks, autore di un libro su Manning, sostiene che lo spartiacque fu il video Collateral Murder: «È l’inizio dell’era dell’informazione che esplode su se stessa ». L’era dell’informazione sveglia il mondo libero, e non libero.

Grazie a Snowden, e a giornalisti come Greenwald, l’Europa s’accorge di essere terra di conquista per l’America, trattata come Mosca trattava i paesi satelliti. Leggendo i rapporti dei servizi Usa pubblicati da Spiegel, i tedeschi scoprono di esser chiamati “alleati di terza classe”: non partner, ma infidi subordinati. La crisi dell’euro ha spinto Obama non a promuovere la federazione europea come l’America postbellica, ma a spiare i Paesi, le loro liti, le comuni istituzioni. Indignarsi per l’intrusione imperiale non basta. Né basta rifiutare gli F-35.

È su se stessa che l’Europa deve gettare uno sguardo indagatore, trasformatore, se vuol svegliarsi dal sonno che l’imprigiona in un atlantismo degenerato in dogma, e che la condanna a restare sempre minorenne. Un’Unione priva di una sua politica estera e di difesa, viziata per decenni dalla tutela americana: questo è sonno dogmatico. Come ipnotizzati, gli europei hanno partecipato alle guerre Usa anti-terrorismo senza mai domandarsi se avessero senso, se fossero vincibili. Senza mai ridiscuterle con l’alleato. Senza chiedersi – oggi che regna Obama – se i droni che uccidono a sorpresa (i targeted killing in zone belligeranti e non: Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen, Somalia) siano internazionalmente legali. Dogmaticamente digeriscono una Nato che serve solo gli Usa, quando serve. È stato necessario Snowden per capire che gli Usa offendono la legalità che pretendono insegnare al mondo, e screditano le democrazie tutte.

Il 4 luglio, tanti americani celebreranno la Dichiarazione d’indipendenza manifestando in difesa dell’articolo 4 della Costituzione, che vieta allo Stato di interferire nelle vite dei cittadini. Anche per l’Europa è ora di dichiarare l’indipendenza dall’alleatosegugio. Se avesse coraggio, esaudirebbe il desiderio di quel terzo di cittadini tedeschi che vuol offrire rifugio a Snowden, e protesterebbe contro il linciaggio giuridico di Manning. Non troverà questo coraggio. Ma potrebbe accorgersi che i suoi cittadini, tutt’altro che minorenni male informati, la pensano diversamente. Orfani di una sinistra che trasforma il mondo, gli europei sono privi di propri whistleblower. È sperabile che ne avremo anche noi.
Quando avremo compreso, oltre singoli episodi, chi è stato il mandante del sequestro e assassinio di Moro sapremo chi ha provocato il passaggio dalla speranza al degrado sociale, economico politico e morale. Le cronache di Miguel Gotor e di Andrea Colombo,

il manifestola Repubblica del 30 giugno 2013

La Repubblica
Moro, ultimo giallo “Cossiga era già lì”
di Miguel Gotor

LE TARDIVE rivelazioni dei due artificieri arrivati per primi in via Caetani la mattina del 9 maggio 1978 sono importanti perché contribuiscono a rafforzare un’idea. Quella che sugli ultimi giorni, e in particolare sulle ultime ore di Aldo Moro, le autorità governative italiane, le gerarchie vaticane e il fronte brigatista abbiano stretto un durevole patto del silenzio, della reticenza e dell’oblio. Il primo testimone ha dichiarato di essere giunto sul posto alle ore 11 e di avere constatato che il sangue era ancora fresco, il secondo di avere scorto una o due lettere sul sedile della macchina di cui si è perduta ogni traccia.

In effetti, le dinamiche della morte di Moro costituiscono forse il momento più oscuro dell’intera vicenda, giacché la versione ufficiale fornita dai brigatisti in sede processuale e memorialistica continua a fare acqua da tutte le parti. Anzitutto perché l’autopsia ha stabilito che Moro è stato ucciso intorno alle 10, mentre le Brigate rosse hanno sempre sostenuto di averlo trucidato all’alba e poi, con il cadavere ancora caldo, si sarebbero assunte l’incredibile rischio di trasportarlo dalla periferia di Roma in via Caetani, ossia in uno dei luoghi tra i più controllati dai servizi segreti durante la guerra fredda: a pochi metri da una base del Sisde attiva in Palazzo Caetani; sotto il campanile di una Chiesa ove erano istallati ripetitori per intercettare la vicina sede del Pci; a poche decine di metri dal Ghetto ebraico, una zona presidiata dal Mossad per evitare attentati palestinesi.

Inoltre, fino a oggi appariva del tutto inverosimile che le Brigate rosse avessero lasciato intorno alle 8 di mattina il cadavere di Moro incustodito e poi avessero atteso oltre quattro ore prima di avvisare Francesco Tritto con la celebre telefonata di Valerio Morucci. Infine bisogna ricordare che sul cadavere di Moro, in corrispondenza dei fori dei proiettili, furono trovati dei fazzolettini per tamponare la fuoriuscita del sangue, un macabro particolare sfuggito alla ricostruzione di Germano Maccari, Mario Moretti, Maria Laura Braghetti e Prospero Gallinari, ossia coloro i quali avrebbero dovuto compiere una simile drammatica operazione.

Basti pensare che a tutt’oggi non si conosce l’esecutore materiale dell’assassinio in quanto coesistono tre versioni diverse che lo elevano, sul piano antropologico, al rango di un omicidio rituale: in base ai processi sarebbe stato Gallinari; nel ricordo di Moretti, lo stesso Moretti; secondo Lanfranco Pace, Maccari. Tre mani diverse per un omicidio politico rivendicato dalle Br, che nelle ultime ore dovette subire una torsione imprevista e imprevedibile. E così Moro fu consegnato beffardamente cadavere nelle ore in cui l’entourage di Paolo VI e il ministro Cossiga si attendevano la sua liberazione.

Il manifesto
Via Caetani 35 anni dopo «Cossiga vide il cadavere prima della telefonata Br»
di Andrea Colombo

A prenderla per buona la notizia è effettivamente clamorosa: il corpo di Aldo Moro sarebbe stato ritrovato, il 9 maggio 1978 in via Caetani, con circa un'ora di anticipo sulla telefonata con cui Valerio Morucci, alle 12,13, avvisò il professor Franco Tritto dell'avvenuta esecuzione. L'allora artificiere Vito Antonio Raso sostiene ora di essere arrivato in via Caetani molto prima, in seguito a una segnalazione anonima che denunciava la presenza di una macchina forse esplosiva, e di aver scoperto prima delle 12 il cadavere del presidente della Dc. Non solo: l'allora ministro degli interni Francesco Cossiga sarebbe arrivato molto prima dell'orario ufficiale, intorno alle 14, addirittura prima della scoperta del corpo, insieme al capo della Digos romana Spinella e al colonnello dei carabinieri Cornacchia, braccio destra del generale Dalla Chiesa.

La testimonianza è allo stesso tempo confermata e smentita dal superiore diretto di Raso, maresciallo capo Giovanni Circhetta. Anche lui sostiene che il corpo del leader democristiano fu ritrovato in realtà tra le 11 e le 12. Le due versioni però differiscono in alcuni elementi centrali. Circhetta esclude che la segnalazione dell'auto sospetta sia partita da una telefonata anonima. Cita anche lui un colonnello dei carabinieri che poteva essere Cornacchia ma non nomina Cossiga. Afferma inoltre di essersi recato in via Caetani, poco dopo le 11, perché messo al corrente del rinvenimento del corpo di Moro. Raso invece sostiene di aver iniziato a perlustrare l'abitacolo della Renault quanto Cossiga e Cornacchia si erano già allontanati, e di aver trovato la salma nel bagagliaio molto più tardi.
Non sono particolari secondari. Se la doppia testimonianza fosse in qualche modo confermata, significherebbe che Cossiga se ne tornò tranquillamente in ufficio pur sapendo che il corpo di Moro giaceva in via Caetani, senza avvertire nessuno, aspettando la rivendicazione ufficiale. In questo caso sarebbe inevitabile chiedersi perché il ministro decise di prendere tempo. Circhetta parla anche di una busta, forse contenente una lettera, che si trovava sul sedile anteriore della Renault e della quale non si è mai più saputo niente. Ma anche se così fosse, nulla impediva a Cossiga e di far sparire la lettera e comunicare lo stesso ai familiari di Moro e al paese intero la notizia. Se poi si desse credito alla versione di Raso, le domande si moltiplicherebbero: non ci capisce infatti cosa stavano a fare Cossiga e il braccio destro di Dalla Chiesa in via Caetani addirittura prima che il cadavere fosse rinvenuto. Raso sostiene che Cossiga non sembrava stupito. Ma, anche a prescindere dal valore delle sensazioni personali dell'artificiere, resterebbe inspiegabile la presenza di Cossiga prima e non dopo il ritrovamento del cadavere.
«A caldo - sostiene lo storico Marco Clementi, uno dei pochi che si sia occupato seriamente e non dietrologicamente della vicenda - la mia impressione è che Circhetta racconti davvero come è andato il ritrovamento, ma giocando o equivocando sugli orari. Insomma che stia parlando di quel che successe dopo e non prima la telefonata di Morucci. Anche perché, nella stessa intervista, dice di non aver segnato nel verbale l'orario del ritrovamento della salma perché era "un dato di dominio pubblico"». C'è una ragione in più per prendere con le pinze la versione dei due artificieri: il fatto cioè che abbiano scelto di raccontare una verità così clamorosa solo dopo la morte di tutti i protagonisti della vicenda, Cornacchia, Cossiga e infine Giulio Andreotti, allora presidente del Consiglio. Raso aveva già fatto qualche accenno in un suo libro peraltro anch'esso recente, L'uomo bomba , ma in termini molto più vaghi ed ellittici. Se da un interrogatorio molto più approfondito di quanto non si possa richiedere ai giornalisti dell' Ansa e del sito web www.vuotoaperdere.org che ieri hanno raccolto le due interviste, la versione fosse confermata significherebbe che, almeno sul fronte dello stato se non su quello brigatista, buona parte di quella storia è ancora nascosta. In caso contrario, si tratterebbe dell'ennesima bufala spacciata per rivelazione deflagrante. Non che ce ne siano

Repubblica, 28 giugno 2013

BERLINO. 
«La sinistra deve ritrovare il coraggio d’essere creativa come ai tempi di Willy Brandt e di Olof Palme, per affrontare le cupe sfide attuali alla democrazia. E gli intellettuali progressisti devono uscire dal loro assordante silenzio. Se altrimenti finirà male, non si potrà dire “non è stata colpa mia”». Il monito, facile indovinarlo, è di Günter Grass. In un dialogo-contraddittorio con il candidato Spd alla Cancelleria Peer Steinbrück nella sede del partito, a meno di tre mesi dalle elezioni, il Nobel è tornato in campo. Proponendosi come ispiratore e critico scomodo, dalla lingua spietata. Ecco il suo dialogo con Steinbrück, moderato
dal più famoso leader Spd dell’Est tedesco, Wolfgang Thierse.


Thierse:
 Günter, oggi torni in campo. Quando e come decidesti negli anni Sessanta di schierarti con Brandt?


Grass:
 Quando lui, borgomastro di Berlino Ovest che lottava in piazza a fianco di Kennedy contro il Muro della vergogna costruito dall’Est, venne diffamato dal “cristiano” Adenauer come “figlio illegittimo” ed “esule”, perché Willy fu partigiano in Norvegia. Dovetti superare un duplice scoglio interno, per decidere di propormi a lui come intellettuale impegnato. Lo scoglio dell’ammirazione infinita che io – in gioventù stupidamente sedotto dal nazismo, militare nelle Ss, convinto fino all’ultimo nella vittoria finale del Reich – provavo per lui che in guerra, al contrario di me, aveva già capito come doversi schierare, e che cosa il conflitto in cui io credevo avrebbe provocato alla Germania e al mondo. Avevamo entrambi i media contro: lui per la coerenza di sinistra e la Ostpolitik, io perché considerato un anarchico: i miei punti di riferimento non erano i classici, bensì Albert Camus e Jean-Paul Sartre.


Thierse:
 Peer, quando iniziò la tua militanza?.


:
Nel ’69, poco dopo che Grass aveva fondato l’iniziativa pro-Spd degli intellettuali in campagna elettorale. Fu un segnale
grande. Gli intellettuali portarono al fianco della Spd lo Zeitgeist, lo spirito del tempo della società. Ci vorrebbe anche oggi, per la sinistra in Germania e in tutta Europa.


Thierse:
 Günter, come immaginavi e immagini il ruolo dell’intellettuale impegnato di sinistra?


Grass:
 Un ruolo di voce scomoda, sempre capace di dire le cose più spiacevoli. Una voce critica: allora saltando la siepe dell’ammirazione sconfinata per Brandt, e critica più che mai oggi contro i troppi silenzi e ritardi della sinistra democratica europea. Allora cercavo di star vicino a Brandt anche nei momenti di depressione. Ma lui aveva una statura che troppo spesso ai leader politici di oggi manca, anche a sinistra. Resisteva alle diffamazioni,
ebbe l’idea geniale della Ostpolitik, mano tesa a Polonia e Urss restando fedele alleato degli Usa. Scrisse per l’Onu il profetico Rapporto Nord-Sud, che la sinistra dovrebbe ancora rileggersi oggi. Lui vedeva lontano, capì allora che il divario crescente ricchi-poveri avrebbe portato guerre e terrorismo. Ecco di quali visioni, di quali capacità di avvistare problemi in tempo, sento oggi la mancanza a sinistra. E al tempo stesso c’è bisogno del suo grande pragmatismo nell’azione quotidiana di governo. Ecco perché voglio essere una voce amica, ma molto scomoda per la sinistra europea.


:
Ma non sempre Brandt seguì i suoi consigli. Che si aspetta dalla sinistra attuale?.


Grass:
 Insisto, non sono né hegeliano né un idealista tedesco, furono le polemiche tra Sartre e Camus a formarmi. Il tema sono le
scelte necessarie: la sinistra come Sisifo, oggi al pari di allora.


:
 Insomma, Grass voleva e vuole essere consigliere,
mentore, mugugnone, tutto insieme. Può e potrà essere molto irritante. Ma con Brandt mostrò come politici e intellettuali possono condurre un
pas-de-deux.
Quel tipo di
pas-de-deux
con gli intellettuali cambiò la Spd. Io mi auguro un nuovo impegno degli intellettuali nel dibattito politico, nella Germania d’oggi. Non lo vedo, purtroppo per la sinistra. L’ultimo grande impegno pubblico degli intellettuali tedeschi fu la querelle degli storici sulle tesi di Ernst Nolte sul nazismo. Oggi pesa il loro silenzio, anche su quel grande ideale di Brandt, una Germania buona amica di tutti i vicini, ideale oggi rovinato dall’inflessibile rigore che Angela Merkel cerca di imporre a tutti. In una Germania dove le disuguaglianze so-
ciali si aggravano. Queste sfide, le carenze di noi politici di sinistra e i silenzi degli intellettuali possono minacciare di strappare alla sinistra la sua aspirazione originaria a essere la voce della modernità.


Grass:
 Ha ragione, i rapporti con i partner europei sono al peggio, la sinistra anche su questo dovrebbe dire di più. Merkel ha una doppia formazione: prima abituata ad adeguarsi per opportunità quando era nella Fdj, la gioventù comunista dell’est, poi alla scuola di tattica del potere ai tempi di Helmut Kohl. Anche il compito di ricostruire i rapporti in macerie con i partner è una sfida per la sinistra in un’Europa e in un mondo dove il rigore, lo strapotere delle lobbies sui Parlamenti, le nuove povertà, allontanano
molti elettori e anche noi intellettuali. Weimar cadde perché solo due partiti, Spd e Centro, e troppi pochi cittadini vollero difenderla, non dimentichiamolo.


:
Insisto, perché tanti intellettuali rifuggono dall’impegno?


Grass:
 La generazione mia e di Brandt fu scottata dal nazismo, dalla guerra, dai crimini tedeschi. Oggi s’allontana la memoria del terribile interrogativo di allora, perché una società civile come Weimar cadde sconfitta dal nazismo. Il motivo principale fu che, appunto, pochi la difesero. Anche pochi intellettuali, salvo Tucholsky e qualche altro. Scrittori e intellettuali di oggi sono cresciuti in tempo di pace, non hanno vissuto quelle memorie.
Lo stesso vale per i politici. È necessario impegnarsi, ripeto. Per la giustizia sociale, contro lo scandalo della crescente povertà che colpisce anziani e tanti giovani, anche nella ricca Germania. Battersi per un’Europa che diventi politicamente legittimata, con poteri eletti e in equilibrio tra loro. Osare più democrazia, lo slogan con cui Brandt vinse, deve tornare valore centrale della sinistra in tutta Europa. Ripetere parole, frasi, concetti è letale per il letterato, ma indispensabile in politica. La crisi dell’Europa tra povertà e sfiducia nella politica non deve per forza far scoccare l’ora dei nazionalismi populisti, può far scoccare l’ora delle socialdemocrazie. Dobbiamo riuscirci

Preoccupanti legami tra banchieri, privati e pubblici, imbroglioni, e affamatori del "popolo bue". Il manifesto, 28 giugno 2013

Chi o che cosa ha autorizzato i nostri governi a giocare al casinò dei derivati con il denaro degli italiani? Quale regolamento interno, quale legge, quale norma della Costituzione? E perché non se ne può sapere quasi niente? Secondo quanto riferito da la Repubblica (e dal Financial Times) del 26 giugno, il Tesoro italiano è esposto per 160 miliardi di euro (più di un decimo del Pil italiano) con operazioni sui derivati la cui data di stipulazione non è nota. Il governo Monti ne ha rinegoziati nel corso dell'anno scorso per un importo di 31 miliardi, registrando su queste operazioni una perdita potenziale, non ancora giunta a scadenza, di circa 8 miliardi (poco meno dell'importo con cui la ministra Gelmini e, dopo di lei, il ministro Profumo sono riusciti a distruggere sia la scuola che le università italiane). Naturalmente il ministro del Tesoro ha subito smentito ogni rischio, ma quella smentita vale zero. Infatti solo un anno fa su un'altra partita di derivati del Tesoro si era già registrata una perdita di 3 miliardi, saldata dal governo Monti. Su di essa c'era stata una interrogazione parlamentare dell'Idv e una elusiva risposta - «si tratta di un caso unico e irripetibile» - del sottosegretario Rossi Doria; designato a rispondere non si sa perché, dato che si occupa di scuola e non di finanza, materia sui cui è lecito supporre una sua totale incompetenza. Ma se tanto dà tanto, sui 160 miliardi di derivati in essere, le perdite «a futura memoria», che verranno cioè caricate sul bilancio dello stato nel corso degli anni, per poi dire che gli italiani sono vissuti «al di sopra delle loro possibilità», potrebbero ammontare a molte decine di miliardi di lire.

Ma facciamo un passo indietro: da tre anni ci ripetono che la Grecia ha fatto il suo ingresso nell'euro truccando i conti perché, in base al suo indebitamento, non ne avrebbe avuto titolo; di qui i guai - e che guai! - in cui è incorsa successivamente. Successivamente. Perché all'epoca del suo ingresso nell'euro nessuno si era accorto di quei trucchi. Poi si è scoperto che a organizzarli era stata la banca Goldman Sachs, allora diretta, per tutto il settore europeo, da Mario Draghi, nel frattempo assurto alla carica di presidente della Bce, cioè dell'organo preposto a garantire la riscossione di quei debiti contratti in modo truffaldino. E di quei trucchi non si è più parlato.

Ma lo stratagemma a cui il governo greco e Goldman Sachs erano ricorsi per truccare i conti era proprio quello di nascondere un indebitamento eccessivo (secondo i parametri di Maastricht) dietro a derivati da saldare in futuro. Nello stesso periodo - o poco prima, cioè con maggiore preveggenza - il governo italiano sembra essere ricorso esattamente allo stesso stratagemma: ufficialmente per coprire il debito italiano dai rischi del cambio (allora c'era ancora la lira) e dalle variazioni dei tassi di interesse: i derivati sono stati infatti introdotti nel mondo della finanza come forma di assicurazione contro la volatilità dei cosiddetti mercati; ma, come si vede, la funzione che svolgono è esattamente il contrario.

E' comunque del tutto evidente che lo scopo effettivo di quelle operazioni era quello di "truccare" i conti e garantire così anche all'Italia l'ingresso nell'euro. Qui la presenza ricorrente dello stesso personaggio è ancora più dirompente; perché nel periodo che intercorre tra la probabile - non se ne sa ancora molto - sottoscrizione di quei derivati e l'emersione dei primi debiti che essi comportano Mario Draghi è stato direttore generale del Tesoro (l'organismo contraente) dal 1991 al 2001; poi, utilizzando in modo spregiudicato il cosiddetto sistema delle "porte girevoli", responsabile per l'Europa di Goldman Sachs (una delle banche sicuramente coinvolta in queste operazioni), poi Governatore della Banca d'Italia e poi presidente della Bce e in questo ruolo uno degli attori più decisi a far pagare agli italiani - e agli altri infelici popoli vittime degli stessi raggiri - la colpa (in tedesco schuld, che, come ci ricordano i ben informati, vuol dire anche debito) di essere vissuti "al di sopra delle proprie possibilità".

Non basta: ogni sei mesi, ci informa sempre Repubblica, il Tesoro è tenuto a trasmettere una relazione sullo stato delle finanze pubbliche, comprensivo anche dei dati sull'esposizione in derivati, alla Corte dei Conti. Ma in venti anni o quasi, questa si è accorta solo ora dei rischi connessi a queste operazioni e, per saperne di più, ha inviato la Guardia di Finanza nelle stanze del Tesoro; che però si sarebbe rifiutato di esibire la relativa documentazione. Ci ricorda qualcosa tutto ciò? Si ci ricorda da vicinissimo le recenti vicende del Monte dei Paschi di Siena i cui dirigenti - oggi in carcere o sotto inchiesta perché considerati dalle procure di Siena e Roma degli autentici delinquenti - sono riusciti a nascondere alla vigilanza della Banca d'Italia (che combinazione!) una esposizione debitoria incompatibile con il regolare funzionamento di una banca, nascondendola sotto degli onerosissimi derivati, che hanno tenuto rigorosamente nascosti per anni.

Il casinò dei derivati accomuna così le istituzioni di governo del paese alle banche truffaldine (per ora MPS; ma chissà quante altre si trovano nelle stesse condizioni, e non solo in Italia. Mario Draghi al vertice della Bce non ispira certo tranquillità). Per saperne di più, cioè per capire in che mani siamo finiti, in che mani ci hanno messo i governi che si sono succeduti negli ultimi 30 anni (da quando la teoria liberista e il pensiero unico la fanno da padroni e, in termini pratici, da quando è stato portato a termine il famigerato divorzio tra Tesoro e Banca centrale che ha messo le politiche dei governi in balia della finanza: leggi degli speculatori internazionali), basta leggere la sinossi di come funziona il casinò dei derivati che ne fa Luciano Gallino (Repubblica, 26 giugno).

«Nel mondo - spiega Gallino - circolano oltre 700 trilioni di dollari (in valore nominale) di derivati [cioè 700mila miliardi, oltre 10 volte il valore presunto del prodotto lordo mondiale, nota mia], di cui soltanto il 10 per cento, e forse meno, passa attraverso le borse. Il resto è scambiato tra privati, come si dice, "al banco", per cui nessun indice può rilevarne il valore». Ma aggiunge, anche di quel dieci per cento scambiato nelle borse, a definirne il valore concorre solo il 40 per cento [cioè il 4 per cento degli scambi complessivi, nota mia]. «Di quel 40 per cento, almeno quattro quinti hanno finalità puramente speculative a breve termine...Di tali transazione a breve, circa il 35-40 per cento nell'eurozone e il 75-80 per cento nel Regno Unito e in USA si svolgono mediante computer governati da algoritmi...che operano a una velocità anche di 22mila operazioni al secondo...Ne segue che chi parla di "giudizio dei mercati" [praticamente tutti gli esponenti del mondo politico, imprenditoriale, manageriale e accademico europei, nota mia] dovrebbe piuttosto parlare di "giudizio dei computer". «Macchine cieche e irresponsabili - aggiunge Gallino - opache agli stessi operatori e ancor più ai regolatori. E per di più, inefficienti». Ma molto efficienti però, aggiungo io, nel trasferire ricchezza dai redditi da lavoro e dalla spesa sociale ai profitti e alla rendita, compito che nel corso degli ultimi trent'anni hanno svolto egregiamente. E non senza che gli addetti alla "regolazione" dei mercati, siano essi manager o politici, o entrambe le cose grazie al sistema delle "porte girevoli", ci abbiano messo tutta la loro scienza e il loro potere per portare questo trasferimento fino alle estreme conseguenze, quelle che oggi possiamo vedere esposte in vetrina nella catastrofe della Grecia. Ma allora, perché continuare a rimaner sottomessi a un sistema simile? Non è ora di trovare la strada per tirarsene fuori al più presto?

La Repubblica, 26 giugno 2013

Uscito di prigione dov’era finito per aver esagerato con i suoi traffici, il finanziere Gordon Gekko dice al pubblico stipato in sala che, guardando il mondo da dietro le sbarre, ha fatto delle profonde riflessioni. E le condensa in una domanda: «Stiamo diventando tutti pazzi?» La scena fa parte di un film su Wall Street, ma la stessa domanda uno poteva porsela giovedì 20 giugno mentre gli schermi tv e tutti i notiziari online sparavano ancora una volta notizie del tipo: “I mercati prendono male le dichiarazioni del governatore della Fed”; “crollo delle borse europee”; “bruciati centinaia di miliardi”; “preoccupati per il futuro, i mercati affondano le borse”. E, manco a dirlo, “risale lo spread”.

Esistono due ordini di motivi che giustificano il chiedersi se – cominciando dai media e dai politici – non stiamo sbagliando tutto preoccupandoci dinanzi a simili notizie di superficie in cambio di ciò che realmente significano. In primo luogo ci sono dei motivi, per così dire, tecnici. Nel mondo circolano oltre 700 trilioni di dollari (in valore nominale) di derivati, di cui soltanto il dieci per cento, e forse meno, passa attraverso le borse. Il resto è scambiato tra privati, come si dice “al banco”, per cui nessun indice può rilevarne il valore. Ma anche per i titoli quotati in borsa le cose non vanno meglio. Infatti si stima che le transazioni che vanno a comporre gli indici resi pubblici riguardino appena il 40 per cento dei titoli scambiati; gli altri si negoziano su piattaforme private (soprannominate dark pools, ossia “bacini opachi” o “stagni scuri”) cui hanno accesso soltanto grandi investitori. Di quel 40 per cento, almeno quattro quinti hanno finalità puramente speculative a breve termine – niente a che vedere con investimenti “pazienti” a lungo termine nell’economia reale. Non basta. Di tali transazioni a breve, circa il 35-40 per cento nell’eurozona, e il 75-80 per cento nel Regno Unito e in Usa, si svolgono mediante computer governati da algoritmi che esplorano su quale piazza del mondo il tale titolo (o divisa, o tasso di interesse o altro) vale meno e su quale vale di più, per avviare istantaneamente una transazione. L’ultimo primato noto di velocità dei computer finanziari è di 22.000 (ventiduemila) operazioni al secondo, ma è probabile sia già stato battuto. Ne segue che chi parla di “giudizio dei mercati” dovrebbe piuttosto parlare di “giudizio dei computer”. Con il relativo corredo di ingorghi informatici, processi imprevisti di retroazione, episodi d’imitazione coatta, idonei a produrre in pochi minuti aumenti o cadute eccessive dei titoli, del tutto disconnessi da fattori reali.

In sostanza, i mercati finanziari presentati al pubblico come fossero divinità scese in terra, alla cui volontà e giudizio bisogna obbedire se no arrivano i guai, sono in realtà macchine cieche e irresponsabili, in gran parte opachi agli stessi operatori e ancor più ai regolatori. E, per di più, pateticamente inefficienti. Soltanto dal 2007 in poi la loro inefficienza è costata a Usa e Ue tra i 15 e i 30 trilioni di dollari. Emergono qui i motivi politici per guardare ai mercati in modo diverso da quello che ci chiedono. Cominciando, ad esempio, a rivolgere ai governanti e alle istituzioni Ue una domanda (un po’ diversa da quella di Gekko, ma nello stesso spirito): se in effetti sono i mercati ad essere dissennatamente indisciplinati, perché mai continuate a raccontarci che se noi cittadini non ci assoggettiamo a una severa disciplina in tema di pensioni, condizioni di lavoro, sanità, istruzione, i mercati ci puniranno?

In verità una domanda del genere governi e istituzioni Ue se la sono posta da tempo, pur senza smettere di bacchettarci perché saremmo noi gli indisciplinati. Fin dal 2007 la Ue aveva introdotto una prima Direttiva sui mercati degli strumenti finanziari (acronimo internazionale Mifid). Non è servita praticamente a nulla, meno che mai a temperare la crisi. Ma governi e istituzioni Ue non si sono arresi. Prendendosi non più di cinque o sei anni di tempo, intanto che i mercati finanziari contribuivano a devastare l’esistenza di milioni di persone, si sono messi alacremente al lavoro per elaborare una Mifid II. E poche settimane fa l’hanno sfornata – in ben tre versioni differenti. Esiste infatti una versione del Consiglio dell’Unione, una del Parlamento europeo e una della Commissione europea. Gli esperti assicurano che nel volgere di un anno avremo finalmente una versione definitiva, che emergerà dal “trialogo” fra le tre istituzioni. Quando entrerà pienamente in vigore, nel volgere di un biennio o due dopo l’approvazione come si usa, anche i mercati finanziari saranno finalmente assoggettati a una robusta disciplina, non soltanto i cittadini che han dovuto sopportare, a colpi di austerità, il costo delle loro sregolatezze. Saranno trascorsi non più di otto o dieci anni dall’inizio della crisi.

È tuttavia probabile che di una vera e propria azione disciplinare i mercati finanziari non ne subiranno molta, e di certo non tanto presto. In effetti, il meno che si possa dire della tripla Mifid è che le divergenze fra le tre versioni sono altrettanto numerose e consistenti delle convergenze, mentre in tutte quante sono pure numerose e vaste le lacune. Da un lato ci sono notevoli distanze nei modi proposti per regolare le piattaforme di scambio private (i dark pools), le transazioni computerizzate ad alta frequenza, l’accesso degli operatori alle stanze di compensazione. Dall’altro lato, non si prevede alcun dispositivo per regolare i mercati ombra; vietare la creazione e la diffusione di derivati pericolosi perché fanno salire i prezzi degli alimenti di base; limitare l’entità delle operazioni meramente speculative. Ovviamente, tra divergenze e assenze le potenti Lobbies dell’industria finanziaria ci guazzano. Sono già riuscite a ritardare l’introduzione di qualsiasi riforma di una decina d’anni dopo gli esordi della crisi, una riforma che sia una di qualche incisività a riguardo sia dei mercati sia del sistema bancario; se insistono, magari riescono pure a raddoppiare questi tempi. I governi e le istituzioni Ue hanno dunque larghi spazi e tempi lunghi davanti, per insistere nel disciplinare i cittadini invece dei mercati finanziari.

La Repubblica, 26 giugno 2013

IL TEMPO storico ha degli scatti, scrive Franco Cordero su questo giornale (9 maggio), e ogni tanto gli scenari mutano improvvisamente: un tabù civilizzatore cade; avanza un nuovo che scardina la convivenza cittadina regolata. Gli Stati di diritto d’un colpo son traversati da crepe, come il Titanic quando urtò l’iceberg e in principio parve un nonnulla. Oggi, è «l’idea d’uno Stato dove i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario appartengano a organi diversi e siamo tutti eguali davanti alla legge» a esser malvista dalla parte dominante nel XXI secolo. Soprattutto, sono malviste le Costituzioni nate dalla Resistenza. Specie quelle del Sud Europa: in Italia, Grecia, Spagna, Portogallo. Nessuno Stato lo proclamerebbe a voce alta. Ma lo dice con grande sicurezza, perché fiuta larghi consensi, una delle più potenti banche d’affari del mondo, JPMorgan, in un rapporto sulla crisi dell’euro pubblicato il 28 maggio.

È un testo da leggere, perché in quelle righe soffia lo Spirito del Tempo. Il proposito di chi l’ha redatto è narrare la crisi ( narrazione è termine ricorrente) e la morale è chiara: se l’Europa patisce recessioni senza tregua, significa che le sue radici sono marce, e vanno divelte. Berlusconi lo disse già nel febbraio 2009: la nostra Costituzione fu «scritta sotto l’influsso della fine di una dittatura da forze ideologizzate che vedevano nella Costituzione russa un modello». Sapeva di avere il vento in poppa. Oggi è azzoppato da una sentenza che lo giudica un fuori-legge, ma che importa se il pericolo vero è la Costituzione (solo Vendola chiede le dimissioni). Anche JPMorgan è accusata dal Senato Usa di speculazioni fraudolente, ma che importa. La radice europea è il delicato equilibrio tra poteri fissato nelle Carte postbelliche. È il bene pubblico e l’uguaglianza. C’è un problema di retaggio, pontifica il rapporto: un’eredità di cui urge sbarazzarsi, in un’Unione dei rischi condivisi. Troppi diritti, troppe proteste. Troppe elezioni, foriere di populismi (è il nome dato alle proteste). All’inizio si pensò che il male fosse economico. Era politico invece: altro che colpa dei mercati. Unico grande colpevole: «Il sistema politico nelle periferie Sud, definito dalle esperienze dittatoriali» e da Costituzioni colme di diritti fabbricate da forze socialiste. Ecco lo scatto che compie la storia: una crisi generata dall’asservimento della politica a poteri finanziari senza legge viene ri-raccontata come crisi di democrazie appesantite dai diritti sociali e civili. Senza pudore, JPMorgan sale sul pulpito e riscrive le biografie, compresa la propria, consigliando alle democrazie di darsi come bussola non più Magne Carte, ma statuti bancari e duci forti. Le patologie europee sono così elencate: «Esecutivi deboli; Stati centrali deboli verso le regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso sfocianti in clientelismo; diritto di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo». Di qui i successi solo parziali, in Sud Europa, nell’attuare l’austerità: «Abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)».In tempi più lontani si suggeriva di correggere la democrazia «osando più democrazia »: lo disse Willy Brandt. Non così quando la Cina vince senza democrazia.

E non s’illuda chi vuol rafforzare i diritti riversandoli in una Costituzione europea. Se il guaio è l’eredità, il testamento svanisce e i padri costituenti vanno uccisi: non ovunque magari - Berlino sta rafforzando il suo Parlamento e la Corte costituzionale - ma di certo nei paesi indebitati, dove guarda caso la Resistenza fu popolare e vasta. Il rapporto di JPMorgan è uscito prima che, la notte dell’11 giugno, venisse chiusa l’Ert, equivalente greca della Rai, aprendo una falla nelle torbide larghe intese di Samaras. Di sicuro il colpo di mano sarebbe stato applaudito: anche l’informazione non-commerciale è costoso bene pubblico di cui disfarsi. La trojka (Commissione europea, Bce, Fondo Monetario) ha ottenuto molto, concludono i sei economisti autori del rapporto. Ma il mutamento cruciale, delle istituzioni politiche, «neanche è cominciato». «Il test chiave sarà l’Italia: il governo ha l’opportunità concreta di iniziare significative riforme».

Alla luce di rapporti simili si capisce meglio la smania italiana, o greca, di nuove Costituzioni; e l’allergia diffusa alle sue regole fondanti, che vietano l’uomo solo al comando, l’ampliarsi delle disuguaglianze, la svendita delle utilità pubbliche. L’economista Varoufakis s’allarma: «Murdoch e simili saranno in estasi: l’Ert smantellato diverrà un modello per privatizzare la Bbc, o l’Abc in Australia, o la Cbc in Canada ». O la Rai. Si capisce infine la trepidazione di costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky: ferree leggi dell’oligarchia imporranno una riscrittura delle Costituzioni che svuoterà Parlamenti e democrazia.

Discutendo il presidenzialismo, Zagrebelsky vede in azione il perturbante: «Penso che il tema andrebbe trattato non come fosse al centro di una guerra di religione, ma guardando empiricamente come funziona il presidenzialismo nei vari paesi». Colpisce l’accenno alle guerre di religione, perché fideistica è l’apparente sfrontatezza degli economisti di JPMorgan. Il neo-liberismo s’irrigidisce in credo, come intuì nel 1921 Walter Benjamin nel frammento Capitalismo come religione.Invece di una svolta, di un rinnovamento, abbiamo una sorta di anticipato Giudizio Universale al cui centro c’è il binomio punitivo colpa/ debito. In tedesco Schuld significa le due cose ed è parola «diabolicamente ambigua », ricorda Benjamin. Non prefigura redenzioni, ma trasforma l’economia in divina legge di natura, e volut amente perpetua «un’inquietudine senza via d’uscita». Siamo prede del Destino, fatto di sventura e colpa: «una malattia dello spirito propria del capitalismo». Chi la pensa così ha un credo, per di più autoassolutorio. La storia delle nazioni, quel che hanno costruito imparando dagli errori: non è che un incomodo, ribattezzato status quo.

In un libro appena uscito, Roberta De Monticelli parla di catarsi mancata dall’Italia, di una speranza «non aperta al vero se non ha memoria» (Sull’idea di rinnovamento, Raffaello Cortina). Il rapporto di JPMorgan non ha contezza di tragedie e catarsi.

È vero, le Costituzioni sono la risposta data ai totalitarismi. I cittadini devono poter protestare, se dissentono dai governi. Quando l’articolo 1 della nostra Carta scrive che la Repubblica è fondata sul lavoro, afferma che economia e finanza vengonodopo, non prima della dignità della persona. Quando l’articolo 41 sostiene che l’iniziativa economica privata è libera, ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», ricorda che il bene pubblico è legge per i mercati. L’Unione sovietica ignorava la legge. La Resistenza ci ha affidato questo retaggio. Ha generato, contemporaneamente, sia l’unità europea, sia la lotta alla povertà e il Welfare. Sfrattare le Costituzioni vuol dire che l’Europa sarà autoritaria, e decerebrata perché senza memoria di sé. Per altro è nata, conclude De Monticelli: «Perché le leggi di natura scendessero giù, nel fondamento muto delle nostre vite, e in alto invece – al posto del cielo e delle stelle – fossero poste leggi fatte da noi, fatte per porre un limite a ciò che c’è in noi di violento e di rapace (...) Fatte soprattutto perché la giustizia cosmica non c’è, perché l’ordine del cosmo è per noi umani cosmica ingiustizia ». Demolire le Costituzioni in nome della cosmica giustizia dei mercati: questo sì sarebbe colpa-debito, e inquietudine senza via d’uscita.

Una sistematica analisi sociologica e politica dei movimenti in corso, che ne sottolinea analogie sia con primavere arabe e caso turco, che con precedenti fasi - Europa, Usa - di liberazione sociale.

Il manifesto, 26 giugno 2013 (f.b.)

In queste ultime settimane in Brasile è in atto, pur fra molte contraddizioni, un risveglio politico. L'ultimo caso così rilevante di manifestazioni popolari risale al lontano 1992, quando i cittadini ottennero le dimissioni del presidente Collor. Da allora il Paese è notevolmente trasformato. Le politiche economiche hanno portato grandi mutamenti, che si rispecchiano nella piramide sociale. Una lieve crescita dei cittadini con alto reddito corrisponde ad una forte emersione dalla classe bassa, ovvero nuclei familiari con reddito mensile inferiore ai 1085 reais mensili (al tasso di cambio attuale 365 euro circa). Statistiche mostrano come tra il 2003 e il 2009 più di venti milioni di persone siano uscite dalla classe bassa, incontrando redditi migliori. Ma, anche in un panorama positivo, le ineguaglianze rimangono notevolmente visibili. L'apertura al mercato riscontrabile nel mandato di Dilma Rousseff preoccupa chi vorrebbe che la tendenza di ridistribuzione delle ricchezze continuasse.

Le recenti proteste sono animate prevalentemente dalla nuova classe media, che in anni recenti ha avuto accesso ad un maggiore potere acquisitivo. A scendere in piazza sono, a fianco di gruppi più politicizzati e critici, giovani che in molti casi non hanno ricevuto un'educazione di qualità. Masse che sono spesso prive di una reale coscienza politico-ideologica, perché alla crescita economica non è corrisposto un miglioramento dell'educazione. Ma che sono in grado di vedere i problemi. La coppa del mondo e le olimpiadi che saranno ospitate del Brasile nei prossimi anni sono percepiti come un trampolino mediatico, ma l'attenzione dei brasiliani che stanno scendendo in piazza è focalizzata sulla necessità di un sistema sanitario pubblico migliore e l'ancora più grave debolezza del sistema scolastico. Una fotografia scattata oggi sul panorama dell'educazione mostra uno squilibrio evidente tra quella privata di alta qualità, a cui la maggior parte della popolazione non ha accesso, e uno scarsissimo investimento nelle scuole pubbliche.

Il tema dei trasporti collettivi, che in Brasile sono quasi totalmente gestiti da imprese private, è risultato un ottimo collettore per le istanze di protesta. L'assenza di una reale politica pubblica e gli enormi interessi economici della gestione privata rendono impossibile l'implementazione di un servizio efficiente per i cittadini. Se le proteste sono state scatenate dall'aumento del costo del biglietto urbano nella città di São Paulo, l'obiettivo sembra essere ora quello del passe-livre, ovvero dell'abbattimento del costo del biglietto. Libertà di movimento quindi, che permetterebbe anche ai residenti di aree urbane penalizzate di avere accesso alla città. Una posta importante dunque, ovvero la possibilità di avere accesso a servizi, cultura e spazi che generalmente sono negati alle classi meno abbienti.
Il movimento tuttavia ingloba una moltitudine di tematiche di una eterogeneità spiazzante, che va riconosciuta. I nuclei più politicizzati del movimento lottano, ad esempio, anche contro la recente approvazione del trattamento dell'omosessualità come malattia o per una maggiore attenzione ai movimenti sociali. Ma esistono anche altre settori di manifestanti che, sostenendo istanze reazionarie, propongono messaggi antiabortisti o in supporto della riduzione dell'età penale. Condivisa da tutti è la necessità di una lotta alla corruzione, che tuttavia è un elemento contrastante. Se da una parte è chiaro che essa è un problema endemico del tessuto politico brasiliano, dall'altra risuona nelle parole della gente come slogan, suggerito e veicolato dai mass-media in gran parte privati e spesso svincolato da qualsiasi tentativo di proporre alternative politiche.
Lontano dagli allarmismi causati dagli episodi di violenza e legati più che altro al corretto svolgimento della coppa, il Brasile si trova dunque in un momento complesso e importante. Il positivo risveglio di una molteplicità di soggetti che rivendicano una partecipazione politica è danneggiato dai tentativi di una sua strumentalizzazione, in vista delle elezioni politiche dell'anno prossimo. Una strumentalizzazione facile visto il basso livello di politicizzazione della maggioranza di queste masse. La corruzione, uno dei cavalli di battaglia della critica del Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb) all'attuale governo, appare in questo senso forse come il tema più pericoloso per il Partido dos Trabalhadores (Pt) della presidente.
Dilma promette una politica di inclusione e di destinare tutti i proventi derivanti dallo sfruttamento delle risorse petrolifere all'educazione. Una dichiarazione tenue che non soddisferà la maggior parte della popolazione, ma che comunque è un'apertura alle proteste. Il governo deve ora velocemente dare concretezza a queste dichiarazioni, evitando a tutti i costi la repressione. Dilma, seguendo il modello di Lula, adotta strategie inglobanti rispetto alle proteste, cercando di istituzionalizzare i movimenti per farli, seppur parzialmente, dialogare con il governo. Probabilmente questo avverrà per molte rivendicazioni puntuali, ma ancora non è chiaro come verranno gestite le accuse più ampie, di corruzione e di malagestione delle risorse economiche.
Dal canto loro, i movimenti sociali devono ricercare strategie per continuare la protesta e per canalizzare la partecipazione della popolazione, senza sfociare nella violenza e in forme pericolose di anti-politica che già in passato hanno veicolato forme autoritarie di governo. Il Movimento Passe Livre sembra per ora essere il settore più strutturato della protesta: la lotta che sta conducendo ha già portato risultati eccellenti e ne promette altri. Su questi nuclei e mediante l'utilizzo dei social network, che contrastano l'egemonia dei gruppi privati sulla circolazione delle informazioni, potrebbe fondarsi una nuova alternativa politica, che tuttavia, ha ancora molte sfide dinnanzi a sè.

Abbiamo scelto due commenti tra i tanti dopo la condanna penale (quella morale e quella politica seguono altre vie) dell'uomo che s'impadronì dell'Italia per i suoi interessi: Norma Rangeri dal

manifesto ed Ezio Mauro da la Repubblica, entrambi del 25 maggio 2013

il manifesto

Le due facce della medaglia
di Norma Rangeri

Onestamente, i magistrati non hanno dovuto faticare molto. Non ci volevano due anni e 50 udienze per giudicare ridicola la balla della nipote di Mubarak, per valutare il comportamento gravemente concussivo di un presidente del consiglio che in piena notte, dal vertice internazionale di Parigi, telefona sei volte alla questura di Milano per sollecitare il trasferimento di una ragazza minorenne, sua ospite nelle notti di Arcore, nelle mani della maestra di burlesque, alias la consigliera regionale Nicole Minetti. Del resto né l'imputato eccellente, né i suoi difensori avevano negato le telefonate incriminate. Dunque bisognava solo dimostrare di non credere alla favola dell'incidente diplomatico con il rais egiziano.

Né bisognava essere menti raffinate per svelare "un sistema prostitutivo", maldestramente camuffato dalla trovata delle cene eleganti, alimentato da carovane di ragazze stipate nel falansterio di via Olgettina, foraggiate da fiumi di denaro. Un traffico di carne fresca così intenso e sfibrante da far sbottare una amica del Cavaliere come l'onorevole Maria Rosaria Rossi con la frase fatidica che poi darà il titolo alla saga («...allora stasera bunga bunga...mi tocca vestirmi da femmina...»).

Questa condanna a sette anni con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici è una sentenza severa, che chiama in causa i funzionari della questura di Milano, le "olgettine", fino al musico di corte Apicella. I giudici hanno smontato, una dopo l'altra, le fantasiose ricostruzioni difensive dell'onorevole Ghedini. E il macigno del giudizio penale del processo Ruby si aggiunge alla condanna a quattro anni sui diritti Mediaset, con Berlusconi giudicato colpevole di una "colossale" evasione fiscale, come è scritto nella sentenza, questa volta di secondo grado dunque senza possibilità di appello per il merito dell'indagine.

Il caso ha voluto che nella stessa giornata la ministra Josefa Idem, per una vicenda di Ici non pagata per intero, fosse chiamata a renderne conto pubblicamente e poi invitata a dimettersi. Scegliendo di lasciare ha dato il buon esempio a una classe politica di pluricondannati incollati alla cadrega. E tanto più sono apprezzabili le dimissioni di Idem, quanto più fanno risaltare la differenza tra chi ha rispetto di se stesso e degli elettori e chi, invece, insiste a recitare la gag del perseguitato. Sono due facce della stessa medaglia: pulita quella della ministra per le pari opportunità, moneta di scambio quella dell'ex presidente del consiglio che non molla neppure di fronte alle accuse più infamanti.

Le verità giudiziarie svelano la natura criminale di un'anomalia politica che, sotto il mantello del conflitto di interessi, ha segnato e continua a connotare la vicenda italiana degli ultimi decenni. Una leadership sfigurata che in qualunque angolo del mondo avrebbe lasciato il campo, e che, al contrario, nonostante le condanne del tribunale e la sonora, doppia sconfitta elettorale (ratificata dai ballottaggi siciliani), torna invece a dettare l'agenda nella surreale cornice delle larghe intese.


La Repubblica
L’abuso e la dismisura

di Ezio Mauro

Un'Italia compiacente e intimidita si chiede che cosa succederà adesso, dopo la sentenza sul caso Ruby del Tribunale di Milano che condanna in primo grado Silvio Berlusconi a sette anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Nessuno si pone la vera domanda: cos’è successo prima, per arrivare ad una sentenza di questo genere? Cos’è accaduto davvero negli ultimi vent’anni in questo sciagurato Paese, nell’ombra di un potere smisurato e fuori da ogni controllo, che concepiva se stesso come onnipotente ed eterno? E com’è potuto accadere, tutto ciò, in mezzo all’Europa e agli anni Duemila?

La condanna sanziona infatti due reati molto gravi — concussione e prostituzione minorile — sulla base del codice penale, dopo un processo di due anni e due mesi, con più di 50 pubbliche udienze. L’accusa ha dunque avuto ragione, vedendo un comportamento criminale nel tentativo di Silvio Berlusconi di sottrarre una minorenne accusata di furto al controllo della Questura, imponendo ai funzionari la sua autorità di presidente del Consiglio, addirittura con l’invenzione di uno scandalo internazionale, perché Ruby era «la nipote di Mubarak».

La difesa sostiene che non ci sono vittime per i reati ipotizzati, non ci sono prove e c’è al contrario la criminalizzazione di uno stile di vita e di comportamenti privati (le cosiddette “cene eleganti”), distorti da una visione voyeuristica e moralista che li ha abusivamente trasformati in crimine, fino alla sanzione di un Tribunale prevenuto, anche perché composto da tre donne.

Io credo in realtà che ci sia un metro di giudizio che viene prima della condanna e non ha nulla a che fare con il moralismo. Si basa su due elementi che Giuseppe D’Avanzo quando rivelò questo scandalo richiamò più volte — da solo e ostinatamente — sulle pagine di Repubblica. Sono la dismisura e l’abuso di potere. Di questo si tratta, e cioè di due categorie politiche, pubbliche, e impongono un giudizio politico per un leader politico che nel periodo in cui è scoppiato il caso Ruby aveva anche una responsabilità istituzionale di primissimo piano, come capo del governo italiano. «La questione — scriveva D’Avanzo — non ha nulla a che fare con il giudizio morale, bensì con la responsabilità politica. Questo progressivo disvelamento del disordine in cui si muove il premier e della sua fragilità privata ripropone la debolezza del Cavaliere, tema che interpella la credibilità delle istituzioni», perché tutto ciò «rende vulnerabile la sua funzione pubblica, così come le sue ossessioni personali possono sottoporlo a pressioni incontrollabili».

La dismisura dunque come cifra dell’eccesso di comando, grado supremo della sovranità carismatica, con il voto che cancella ogni macchia e supera ogni limite, rendendo inutile ogni domanda, qualsiasi dubbio, qualunque dovere di rendiconto. E l’abuso di potere come forma politica di quella sovranità sciolta da ogni controllo, e insieme sua garanzia perenne. Perché nel sistema berlusconiano, dice D’Avanzo, «il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici, senza scrupoli e apertamente. Con l’intervento a favore di Ruby quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo pubblica finanche la sfera privatissima dell’Eletto. In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Nell’infelice Italia invece l’abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica».

Questo è ciò che ci interessa. Il disvelamento clamoroso di comportamenti privati di un uomo politico che imbarazzano le istituzioni e addirittura le espongono al ricatto, e spingono quel leader ad alzare la posta dell’abuso, imprigionandosi ogni volta di più in una rete di richieste esose, traffici pericolosi, intermediari vergognosi, pagamenti affannosi: fino al momento in cui si avvera la profezia di Veronica Lario sul «ciarpame senza pudore» delle «vergini offerte al Drago», si costruisce un castello di menzogne sui rapporti con la minorenne Noemi, si soffoca nel taglieggiamento incrociato dei profittatori e mezzani Lavitola e Tarantini, e infine si inciampa nel codice penale sul caso Ruby, perché qualcosa di inconfessabile spinge il premier a strappare quella ragazza dalla Questura, affidandola ad una vedette del bunga-bunga spacciata per “consigliere ministeriale”, per scaricarla subito dopo da una prostituta brasiliana.

Si capisce che questo processo milanese, costruito sull’inchiesta di Ilda Boccassini, sia stato vissuto da Berlusconi come la madre di tutte le accuse. L’ex premier nei due anni del dibattimento ha potuto giocare tutte le carte della sua difesa, compreso lo straordinario peso mediatico di un leader politico che ha invocato “legittimi impedimenti” ogni volta che ha potuto spostando ad hoc persino le sedute del Consiglio dei ministri, e ha addirittura imbastito due serate di gran teatro televisivo (una prima della requisitoria, l’altra prima della sentenza) sulle reti di sua proprietà con una sceneggiatura che sembrava anch’essa di sua proprietà, per parlare direttamente alla pubblica opinione sanzionando in anticipo la propria innocenza.

Questo “concerto” aveva da qualche mese una musica di fondo la “pacificazione”, che è il concetto in cui l’egemonia culturale berlusconiana tenta di trasformare la ragione sociale del governo Letta, nato dall’emergenza e dalla necessità, e dunque senza radice e cultura ideologica, com’è naturale per un esecutivo che tiene insieme per un breve periodo gli opposti, cioè destra e sinistra. Questa necessità, e questa urgenza, per il Pdl e per i suoi cantori sono diventate invece qualcosa di diverso, quella “pacificazione” che dovrebbe chiudere i conti con il passato, sacralizzare Berlusconi come punto di riferimento istituzionale del nuovo quadro politico e del nuovo clima, farlo senatore a vita o vertice di un’improvvisata Costituente, in modo da garantirgli un salvacondotto definitivo.

Praticamente, è la proposta di prendere atto che lo scontro tra la legalità delle norme e delle regole e la legittimità berlusconiana derivata dal voto popolare sta sfibrando il sistema senza un esito possibile. Dunque il sistema costituzionalizzi l’anomalia berlusconiana (reati, conflitti d’interesse, leggi ad personam, strapotere economico e mediatico) e la introietti: ne risulterà sfigurato ma infine pacificato — appunto — perché nel nuovo ordine tutto troverà una sua deforme coerenza.

L’egemonia culturale crea senso comune, che in Italia si spaccia per buon senso. E dunque la destra pensava che il “clima” avrebbe prima addomesticato la Consulta, chiamata alla pronuncia definitiva sul legittimo impedimento che avrebbe ucciso il processo Mediaset, dove l’ex premier è già stato condannato a quattro anni. Poi l’“atmosfera” avrebbe dovuto contagiare il Tribunale di Milano, già avvertito fisicamente del cambio di clima dalla manifestazione dei parlamentari Pdl sul suo piazzale e nei corridoi. Infine la “pacificazione” dovrebbe salire le scale della Cassazione, per il giudizio Mediaset, sfiorare il Colle che ieri Brunetta chiamava in causa dopo aver definito la sentenza «atto eversivo», bussare alla porta di Enrico Letta (che ha già detto di no) e soprattutto del Parlamento, visti i tanti vagoni fantasma che aspettano nell’ombra delle stazioni morte il treno del decreto svuota-carceri, pronti ad assaltarlo con il loro carico di misure salva-premier, dalle norme sull’interdizione dai pubblici uffici fino all’amnistia, generosamente suggerita dai montiani. Il disegno berlusconiano prevede colpi di mano e maggioranze estemporanee, col concorso magari di quei parlamentari cannibali del Pd che nel voto segreto hanno già dimostrato di essere buoni a nulla e capaci di tutto.

Da ieri tutto questo è più difficile. La Consulta ha fatto il suo dovere, ricevendo in cambio accuse vergognose. E il Tribunale di Milano ha portato fino in fondo il processo - che è il risultato più importante - assicurando giustizia e uguaglianza del trattamento dei cittadini davanti alla legge nonostante le intimidazioni preventive. Nella sentenza c’è un giudizio di condanna durissimo, per due reati molto gravi, soprattutto per un uomo di Stato che ha rappresentato le istituzioni. Non solo: il Tribunale ha trasmesso gli atti che riguardano 32 testimoni alla Procura, perché valuti se hanno reso falsa testimonianza in dibattimento. Sono ragazze “olgettine”, a libro paga del Cavaliere, amici suoi e stretti collaboratori, funzionari della Questura come Giorgia Iafrate. Con questa decisione, il Tribunale sembra convinto di aver individuato una vera e propria rete di organizzazione della falsa testimonianza di gruppo. Sarà la Procura a valutare se è così e chi è l’organizzatore, mentre è già chiaro che il beneficiario è Berlusconi. L’influenza economica, l’abuso di potere potrebbero arrivare fin qui.

Restano le conseguenze politiche. La più netta, la più chiara, sarebbe il ritiro di Berlusconi dalla politica, come accadrebbe dovunque. Ma in Italia non accadrà. La politica è il vero scudo del Cavaliere. E il governo, con la sua maggioranza di contraddizione, è l’ultimo tavolo dove cercherà di trattare, assicurando qualsiasi cosa (la durata dell’esecutivo fino alla fine della legislatura, la personale rinuncia a candidarsi alla Premiership) in cambio di un aiuto sottobanco. Altrimenti, salterà il banco, e dopo la breve parentesi da statista, il Cavaliere tornerà in piazza, incendiandola. Perché il populismo ha questa concezione dello Stato: o lo si comanda o lo si combatte, nient’altro.

L'Uomo del No Ponte ha vinto. Se si può fare a Messina si può anche altrove. I vecchi partiti possono non intralciare se c'è una volontà concorde sulle priorità. Il manifesto, 25 giugno 2013


Nessuno ci aveva creduto, anche se tanti ci speravano. Nessun esperto,politologo, sociologo o opinion leader che conosce Messina avrebbe scommesso unsoldo sulla vittoria di Renato Accorinti e del movimento che lo ha sostenuto«Cambiare Messina dal basso». Un movimento contro una intera armata : dal Pdall'Udc ed a parte del Pdl , che significa di fatto tutta la vecchia Dc, che aMessina aveva storicamente percentuali che sfioravano il 50 per cento. Nel primo turno questa corazzata aveva preso con nove liste il 65.7per cento dei voti, contro il 9 per cento del movimento che sosteneva RenatoAccorinti sindaco. Ma, nella scelta del sindaco- dato che il voto è disgiunto -Calabrò, candidato delle nove liste aveva preso il 49.94 per cento, Accorintiil 23.5 per cento superando il candidato ufficiale del Pdl ed andando così alballottaggio.

Dietro Felice Calabrò, i poteri forti di Messina, i boss dellapolitica e degli affari da Francantonio Genovese a Gianpiero d'Alia, allafamiglia Franza che ha il monopolio dei trasporti su gomma nello Stretto diMessina. Dietro Renato Accorinti solo tanto entusiasmo, una mobilitazionespontanea di una parte crescente della città, dai ceti medi intellettuali aigiovani senza futuro delle periferie, la generazione degli anni '70 - quella acui Renato Accorinti appartiene - insieme alla nuove generazioni, senzasoluzione di continuità, in un abbraccio carico di speranza e di progettualitàche ha guidato tutta la campagna elettorale.

Renato Accorinti non è sceso in campo oggi, perché è sul campo dellebattaglie ambientaliste e pacifiste da quarant'anni, è stato il leader delmovimento No Ponte, è stato dentro tutti i conflitti sociali e le lotte per ladifesa del territorio dell'Area dello Stretto. La sua semplicità, la suacoerenza estrema, ma sempre non violenta (anche in campagna elettorale non hamai demonizzato o insultato i suoi avversari) hanno fatto breccia sullapopolazione messinese. Renato è diventato un leader malgré lui meme, perché èla gente dei quartieri popolari quanto dei ceti medi che lo ha visto comeun'ancora di salvezza, per fare uscire questa città da oltre mezzo secolo diabbandono e di crescente degrado. E' diventato un punto di riferimento perchéha parlato al cuore e non alla pancia della gente. Non ha promesso nessunacamionata di soldi, di grandi opere o mega progetti, ha chiesto invece tanto epiù volte: siete voi miei concittadini che vi dovete riprendere in mano lacittà perché nessuno lo potrà fare al vostro posto. Con tutta l'umiltà che locontraddistingue, ha formato una giunta comunale con tecnici di valore edonestà ampiamente riconosciute, che hanno già redatto un piano di rilancioecosostenibile della città, fino agli anni '50 del secolo scorso, uno deicentri urbani più prospero e vitale del Mezzogiorno.

Questavittoria ha poco a che fare con altre vittorie che hanno contraddistinto leultime elezioni municipali in Italia, così come quelle precedenti di Napoli,Milano, Genova, ecc. Innanzitutto perché a Messina è stato sconfitto ilcentro-sinistra. Anzi, di più: sono state sconfitte le «larghe intese» perchédi fatto i capi residui del Pdl avevano stretto un accordo sottobanco con iveri capi del Pd-Dc che dominava la città. In secondo luogo, Renato Accorintinon è un magistrato o avvocato di successo, un noto docente universitario, ungrande comunicatore o un ex-comico, ma un semplice professore di educazionefisica alle scuole medie che nei momenti più caldi della campagna elettorale acontinuato ad andare a Scuola, a fare gli scrutini, proprio nel giorno delprimo turno elettorale. Infine, perché questa vittoria manda un segnale precisodal profondo Sud: la classe politica che ha tenuto sottoscacco il Mezzogiornodopo la seconda guerra mondiale è arrivata al capolinea. Non solo per scandalied incapacità, ma anche per un dato strutturale: non ci sono più le risorseeconomiche per alimentare queste macchine elettorali che hanno governato perdecenni. Il successo, alle regionali, di Grillo in Sicilia aveva mandato unprimo messaggio, un chiaro segnale che il controllo clientelare/mafioso deivoti era saltato. Ma, si trattava ancora di un voto di protesta, mentre conl'elezione di Renato Accorinti - l'uomo del No Ponte che porta sempre sullamaglietta - si è aperta una nuova stagione non solo per il Sud d'Italia, ma pertutto il paese.
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