La cronaca di Concita De Gregorio e Il commento di Curzio Maltese alla (finta) uscita di scena del nefasto clown,
la Repubblica, 5 agosto 2013 Viene in mente, per l'abissale contrasto, una famosa uscita di scena di un grande clown, Charlie Chaplin, in Luci della ribalta.
Quella maschera triste in scena a palazzo Grazioli
di Concita De Gregorio
Non sono venuti. La prima a salire sul palco per dare un’occhiata portandosi la mano alla fronte come si fa davanti ad orizzonti di folla oceanici è Daniela Santanchè, già candidata alla vicepresidenza della Camera nel governo di larghe intese e miti pretese, oggi qui impegnata a dire che la grazia dal Quirinale deve arrivare e che lei di Napolitano non ha paura, «è un uomo come noi», che lei è pronta a fare la rivoluzione a marciare sul Colle. Già questo dettaglio indice di quanto la “manifestazione spontanea” possa impensierire il presidente del Consiglio Enrico Letta, a Napolitano caro come un figlio, circa le sorti di un governo di cui il pregiudicato Silvio Berlusconi è azionista di riferimento e Santanchè cupa cheerleader. Purtroppo non sono venuti. I 500 pullman attesi, tutto pagato per tutti, devono aver avuto un intoppo che non è solo, come dice Fabrizio Cicchitto col consueto senso delle istituzioni, l’ostinazione di «quel cretino di Marino», sindaco di Roma, a dire che la manifestazione non è stata autorizzata, che nessuno ha chiesto il permesso di bloccare via del Plebiscito e di deviare gli autobus dal centro della Capitale. Di usare la città come se fosse il suo personale salotto e pazienza per chi da piazza Venezia doveva passare ieri per esempio per andare in ospedale, o a un appuntamento d’amore o a prendere il treno, in fondo è domenica, è agosto e chissenefrega degli altri. “Il Popolo della Libertà per la libertà di Silvio”, dice uno striscione. Il senso della mesta messa in scena è tutto qui: un partito al servizio della personale vicenda privata del suo duce. Ed è difatti dal Balcone, che ci si aspetta che si affacci. In un gioco di specchi nei balconi di Palazzo Venezia sono invece assiepati oggi i fotografi, il dirimpettaio sul suo terrazzino ha messo su la bandiera tricolore, è un uomo di Stato intende dire, l’una volta missino Gasparri si protende dall’alto del balcone verso i militanti e li incita a cantare. “Meno male che Silvio c’è”, intona qualcuno memore del “Silvio ci manchi” su cui Francesca Pascale, fidanzata dell’ex premier, ha investito fin dai tempi di Telecafone con successo.
Sono le sei e un quarto di pomeriggio quando, in una giornata torrida insolentita dai gesti di scherno di Alessandra Mussolini legittima nipote e dal ribollire dell’asfalto, il Nostro non dal balcone si affaccia ma dal portone, e sale sul palchetto replicato da un paio di schermi. Qualche migliaio di persone sventolano bandiere opportunamente fornite agli angoli della via dall’organizzazione, bandiere di Forza Italia giacchè è da lì, dal suo personale partito e non dal Popolo delle libertà, che il condannato B. intende ripartire. «Sono qui, resto qui, non mollo», dice, e dunque boia chi molla.
Gli autobus che hanno portato i manifestanti — molte coppie di anziani, parecchi giovanotti con occhiali scuri a goccia, una grande maggioranza di signore in età che siripetono commenti sul suo charme — sono dall’Umbria sono alla fermata Anagnina, quelli da Reggio in piazza Venezia dove però purtroppo non possono sostare, sempre per via di “quel cretino” del sindaco, dunque gli autisti stanno in moto girano in tondo. Matteoli e Micchichè raggiungono il retropalco, Franco Carraro è già in prima fila, Anna Maria Bernini e Mara Carfagna arrancano fra i sudati annaffiati da bottigliette d’acqua fornite dal servizio d’ordine. È chiaro che chi è dentro al Palazzo ha maggior rango rispetto a chi è fuori, segnali di dispetto di alcuni esclusi che, platealmente — Carraro fra questi — se ne vanno.
Dal palco, con la maschera del volto atteggiata ad un pianto senza lacrime, Berlusconi deve dire due cose: che il governo vive, questa è la più importante e la prima, la più deludente per quelli che erano arrivati coi cartelli “Basta larghe intese”, “Ora condannateci tutti”. Vive, il governo, perché la libertà dell’ex premier per cui il suo Popolo è venuta a manifestare prevede che ci sia qualcuno che gliela garantisce, e il cinico calcolo dice che solo tenendo in vita questo governo Berlusconi può sperare. Se poi sarà il Pd a volere le elezioni faccia pure, lui per parte sua, sia chiaro, resta. Condannato in ultima istanza, ma resta. Ed è questa la seconda cosa che ha da dire, a proposito della condanna: che lui è innocente. Ovazione, boato. Innocente condannato da giudici comunisti, tristi impiegatucci dello Stato — sventolare di bandiere — che non lo fermeranno, certo che no, perché lui di quel 7 milioni e rotti che doveva allo Stato negli anni in cui di quello stesso Paese era alla guida, mica qualche migliaio di euro di Imu saldati in ravvedimento come la Idem, di quei 7 milioni frodati al fisco ha già ripagato tutto, perciò cosa vogliono da lui.
Si capisce che Enrico Letta sia in apprensione, sì, in specie quando pensa a una campagna elettorale eventuale. E si capisce anche la prudenza di un discorso breve, inconcludente, che lascia perplessa la minoranza di manifestanti venuta da casa senza bus che si aspettava invece — dice la signora Gemma, romana — che “Silvio mandasse tutto a monte, perché Silvio è il numero uno e se si va a votare domani vince lui”. Questo un po’ il rischio, in effetti, visto da altre dimore politiche. In piazza gridano “libero, libero” a un uomo che con ogni evidenza è libero già: di fare della pubblica via il suo teatro e di dire che la Cassazione è comunista e antidemocratica. Tre o quattro ragazzi di passaggio intonano Bella Ciao, vengono aggrediti da una selva di voci che gridano “in Siberia” e cacciati dalla strada. Una donna dice che nessun pregiudicato dovrebbe stare al governo, le lanciano monetine. Per chi deve tornare a Gallipoli in bus s’è fatta una cert’ora, la sparuta pattuglia in occhiali scuri comincia a defluire. Carfagna era già stata scortata via mezz’ora fa. Le finestre di palazzo Venezia si chiudono, quelle di fronte di casa Berlusconi si accostano. Era questo, solo questo. Un piccolo intermezzo agostano ad uso delle tv, con parecchi figuranti e il protagonista a difendere se stesso, come sempre. Ricordava un po’ le antiche manifestazioni dell’ultimo Msi, pochi ma molto convinti. Letta ha seguito in diretta tv. Napolitano è stato costantemente informato. Poteva andare peggio, in fondo, dal loro punto di vista. E’ stato breve, ma triste.
NON si voterà a ottobre. Il governo Letta non cadrà, i ministri della destra non si dimetteranno e neppure i parlamentari. Alla fine come sempre Berlusconi ha compiuto la scelta più astuta e pragmatica, mantenendo l’unico salvacondotto di cui oggi può disporre: rimanere nella maggioranza di governo e condizionarne il cammino.
All’(ex) uomo più potente d’Italia questo oggi rimane, di tanta speme. Il suo popolo comincia ad abbandonarlo, come testimoniavano ieri le sparute comitive di pasdaran accorsi all’appello. C’era davvero poca gente davanti a Palazzo Grazioli, nonostante i tentativi del Tg5, in versione cinegiornale Luce, di farla apparire una folla oceanica. Falsa cronaca e truccati i sondaggi che sbandierano un’impennata di consensi alla quale il capo è il primo a non credere. Berlusconi dunque non rovescerà il tavolo perché probabilmente non otterrebbe l’agognato salvacondotto dagli elettori. Tanto meno può sperare di ottenerlo dal Quirinale.
Non s’è mai visto un presidente della Repubblica concedere una grazia a un condannato che è anche imputato in molti altri processi, non si è mai ravveduto e anzi continua ad attaccare la magistratura. Senza contare che il gesto di clemenza avrebbe un effetto devastante sull’immagine del-l’Italia all’estero, dove la «caduta del buffone» (The Economist) da giorni suscita commenti in bilico fra disgusto, fastidio e commiserazione per il nostro Paese. L’argomento principale dei cortigiani alla Santanchè, e cioè che uno votato da dieci milioni di italiani (in realtà sono otto) avrebbe diritto naturale alla grazia, oltre Chiasso fa ridere. Richard Nixon aveva appena stravinto le elezioni in 49 stati su 50 quando fu travolto dal Watergate, ben prima dei processi. Helmuth Kohl aveva governato quasi quanto Bismarck, unificato la Germania e preso venti milioni di voti dei tedeschi, quando fu spazzato dalla scena politica per aver creato fondi neri per 300 mila euro. Meno di un millesimo dei fondi neri creati dal nostro.
Senza potersi appellare al popolo o al Quirinale, l’unico salvacondotto che rimane a Berlusconi è quello del governo di larghe intese. Non sarebbe del resto stato semplice convincere i ministri della destra, che ieri non si sono fatti vedere al bel funerale, a mollare le poltrone. Ora il problema politico passa paradossalmente tutto nel campo del Pd. Il premier Letta e il partito di maggioranza sono attesi a prove ardue. Berlusconi non rimarrà buono e calmo nei prossimi mesi, continuerà ad alternare le giornate da statista a quelle da arruffapopolo, i toni concilianti responsabili a quelli
ricattatori. Il Pd è come quei signori eccentrici che prendono a guinzaglio un ghepardo e pretendono di trattarlo come un chihuahua. Dovranno tenere a bada gli istinti ferini del Cavaliere e della corte al seguito, nello stesso tempo fronteggiare la rivolta morale della base e negli intervalli pensare a come uscire dalla crisi. Un compito difficile perfino per gente bravissima nell’arte del temporeggiare. Già oggi la grande missione del governo, quella di portare fuori il Paese dalla crisi, per la destra è diventata secondaria rispetto all’urgenza di prendersi una vendetta sulla magistratura, mascherata da riforma della giustizia.
Condividere o meno il governo del paese con un grande evasore fiscale (7 miliardi di €) condannato in via definitiva da una magistratura indipendente è o no una questione politica? E allora la politica sappia decidere, oppure lasci libero il campo all'anarchia. Il manifesto, 3 agosto 2012
Per evitare di rispondere a questa che è la semplice ma vera questione da porsi oggi dopo la decisione della Cassazione ci si potrebbe trincerare dietro a considerazioni di tipo istituzionale. È evidente, ad esempio, che la divisione dei poteri fa sì che le decisioni della magistratura non possano esercitare alcuna influenza diretta sugli equilibri parlamentari, di conseguenza il rispetto della sentenza e l'esecuzione della condanna non comportano di per sé il venir meno della maggioranza di governo. L'affermazione di Epifani che impegna il Pd a far «rispettare, applicare e eseguire» la sentenza è dunque del tutto corretta, ma non concludente. Anzi, la richiesta rivolta alle forze politiche, e al Pdl in particolare, di «non usare forzature istituzionali» mostra una difficoltà a scendere sul vero terreno di scontro per affrontare i reali termini del problema politico che la condanna di Berlusconi pone. Più incisiva la nota del Quirinale, diffusa dopo la sentenza, che non solo richiama al rispetto verso la magistratura, ma chiarisce anche quali sono le condizioni per proseguire il cammino comune: ponendo al centro dell'agenda politica i problemi della giustizia.
Non si può vivere in questo Paese prigionieri della magistratura, è necessario riportare sotto controllo quei pubblici funzionari che non essendo «eletti dal popolo ma selezionati attraverso un concorso» non possono porsi come «potere dello Stato». In realtà non può stupire che vi sia uno spirito punitivo nei confronti dell'ordine della magistratura e che l'indipendenza sia il vero oggetto polemico, nonché l'asse di un possibile accordo politico. I toni bassi tenuti alla vigilia della decisione della cassazione, imposti esclusivamente da ragioni di strategia processuale, sono già scomparsi. È evidente che Forza Italia ri-nascerà rivendicando «la più indispensabile di tutte le riforme», per liberare l'Italia da «un esercizio assolutamente arbitrario del più terribile dei poteri: quello di privare un cittadino della sua libertà».
Le altre forze politiche, il Pd in primo luogo, ma anche il Presidente del consiglio, sono disposti a farsi trascinare sul terreno della «vendetta» nei confronti della magistratura? Non ci si illuda ancora una volta, non si potrà evitare lo scontro ed immaginare che si possano pacatamente affrontare le reali e gravi disfunzioni che affliggono il sistema giudiziario. Se è stato impossibile sin qui, ora il clima è peggiorato.
Come uscirne? Con un'azione di chiarezza e verità. La maggioranza delle larghe intese ha sino ad ora combinato poco sul piano economico (i dati statistici sono impietosi e la paralisi politica sulle decisioni di maggior respiro sono palesi) e sta operando in modo confuso e avventato sul piano istituzionale (dalla legge sui rimborsi elettorali alla revisione costituzionale). Se non si vuole «andare avanti ad ogni costo» si deve definire un programma di governo diverso da quello fin qui non realizzato, che magari ponga al centro del proprio operato un'uscita dalla crisi economica socialmente compatibile. Le proposte non mancano. Vero è che esse sono assai diverse tra loro, tagliano trasversalmente le forze politiche e gli stessi gruppi parlamentari tanto di maggioranza quanto di opposizione. Abbiamo assistito, in questo inizio di legislatura alla costituzione di diversi «intergruppi», che si sono formati su proposte concrete e assai avanzate. Si potrebbe pensare a rilanciare l'azione di governo sulla base di programmi innovativi.
Si spaccherebbe il fronte che attualmente sostiene il governo? È possibile, forse probabile, magari auspicabile. Ma almeno si creerebbero le condizioni per un rilancio dell'azione di un governo che si rivolge al futuro del paese, guardando oltre la sentenza di condanna per reati fiscali.
Una chiara illustrazione del merito della sentenza e della portata del giudizio della magistratura. E i primi segnali dei tentativi della
politique politicienne di annullarne le conseguenze politiche. La Repubblica, 2 agosto 2003
Ma Berlusconi, proprio per via della condanna che supera i due anni, e per la legge Severino sulle cause di non candidabilità, non solo non potrà essere eleggibile per sei anni, in base al tetto massimo stabilito, ma il suo stato dovrà essere sottoposto a un voto del Senato, dove è stato eletto. Il decreto legislativo 235 del dicembre2012, all’articolo 3, stabilisce che la sopravvenuta «causa di incandidabilità » comporti un voto del Parlamento. A “salvarlo” potrebbe essere l’indulto di 3 anni del 2006 che riduce la sua pena da 4 anni a uno solo. A questo punto dovrà essere la giunta per le elezioni e autorizzazioni del Senato a dirimere il caso, a stabilire se prevale la «condanna» a quattro anni,oppure la pena effettiva di un anno frutto dello sconto dell’indulto.
Sarà il tormentone dell’estate e dei prossimi mesi. Il presidente di Sel della giunta Dario Stefàno annuncia che intende trattare «subito » la questione. Altrettanto fa il capogruppo Pd, l’ex pm Felice Casson. Già mercoledì prossimo, nella prima seduta utile, si discuterà della questione che si prean-nuncia “calda” tant’è che Pier Ferdinando Casini parla di legge sull’incandidabilità non applicabile proprio per via dell’indulto.
Ma torniamo alla Cassazione, all’aula Brancaccio, dove per tre giorni s’è concentrata l’attenzione dei media di tutto il mondo. Torniamo a quell’attimo di suspense che c’è stato al momento della lettura della sentenza, proprio per via del rinvio a Milano dell’interdizione. Il presidente Antonio Esposito - seduto accanto al relatore Amedeo Franco, ai giudici Claudio D’Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo - legge il dispositivo, conferma la condanna dei coimputati, il produttoreUsa Frank Agrama a 3 anni, l’ex consulente Mediaset Daniele Lorenzano a 3 anni e 8 mesi, e l’ex manager dell’azienda Gabriella Galetto a un anno e 2 mesi e, poi affronta la questione dell’interdizione.Esposito parla di «annullamento con rinvio» e tutti pensano che l’intero processo sia destinato a saltare, rinviato interamente in appello, proprio come gli avvocati del Cavaliere avevano chiesto con forza il giorno prima.
Invece ecco il passaggio successivo, il rinvio riguarda la sola interdizione, proprio come aveva chiesto il sostituto procuratore generale Antonello Mura, toga di Magistratura indipendente, quindi certo non un magistrato “rosso”. Sostenuto dall’intera procura della Cassazione, tant’è che davanti all’aula Brancaccio, per salutarlo, si è fermato mercoledì lo stesso pg Gianfranco Ciani, sottoscrivendo la sua requisitoria, Mura aveva chiesto la piena conferma delle due sentenze di Milano, dissociandosi dal calcolo dell’interdizione. Aveva proposto di ridurla da 5 e 3 anni. Il collegio ha preferito non agire di sua iniziativa, anche se avrebbe potuto farlo,ma rinviare alla corte d’appello. Che, a questo punto, dovrà attendere le motivazioni della sentenza, poi potrà riunirsi e decidere. Berlusconi, a verdetto emesso, potrà di nuovo presentare appello. Una procedura che nel suo insieme, tra motivazioni, nuovo appello e ulteriore ricorso alla Suprema corte, potrebbe anche portare via sei-otto mesi.
Ma eccoci a un bilancio del processo. Vince la procura di Milano, perdono i legali di Berlusconi. Respinti del tutto i 94 motivi di ricorso presentati da Niccolò Ghedini e Franco Coppi che, 90 minuti dopo il verdetto, in una nota congiunta con Piero Longo, l’altro avvocato storico di Berlusconi che in Cassazione ha ceduto il posto alla new entry Coppi, parlano di una sentenza che «lascia sgomenti ». Per loro c’erano «solidissime ragioni e argomenti giuridici per una piena assoluzione». Annunciano che, nelle prossime ore, «valuteranno ogni iniziativa utile, anche nelle sedi europee, per far sì che questa ingiusta sentenza sia radicalmente riformata».
Ghedini e Coppi, quasi presagendo il risultato, snobbavano la lettura della sentenza. In aula c’è la figlia di Coppi, Francesca, ci sono gli avvocati Pisano, Mazzacuva e Dinacci per Agrama, Lorenzano e Galetto. Ma loro, i due protagonisti della difesa, restano a palazzo Grazioli con Berlusconi. L’appassionata difesa del giorno prima è risultata del tutto perdente, non ce l’ha fatta Ghedini, con il suo pesante affondo contro il pg Mura, né tantomeno Coppi, su cui Berlusconi aveva puntato le ultime speranze. Vince la tesi della pubblica accusa per cui Mediaset è stato «un giusto processo» dove non sono stati lesi i diritti della difesa, come lamenta Ghedini.
Soprattutto, dalle carte, emerge in pieno la colpevolezza di Berlusconi, quel suo essere l’ideatore e il regista di un preciso progetto di evasione fiscale realizzato gonfiando i costi nell’acquisto dei diritti tv per evadere le tasse e creare fondi neri, poi spostati sulle società off-shore. Inutilmente Coppi ha sostenuto che Berlusconi, dal ’94, non ha più seguito la vita delle sue aziende. Quindi non può essere colpevole. Se anche lo fosse, dovrebbe rispondere non di un reato, ma di un semplice abuso penalmente irrilevante. All’opposto il collegio ha riconosciuto la sua piena responsabilità e colpevolezza. Nessuna sentenza annullata, come avrebbe preteso Coppi, ma confermata in pieno.
Quasi trent’anni di politica basati su una immane frode fiscale. C’est l’Italie!
La Repubblica, 2 agosto 2013
Questa era in realtà la vera posta in gioco, e pesava infatti quasi fisicamente sulle toghe dei giudici che leggevano ieri in piedi la sentenza in nome del popolo italiano: sapendo che da oggi si trasformeranno in bersagli polemici e personali per la furia iconoclasta della destra, nello sciagurato Paese in cui ci vuole coraggio anche solo per amministrare la giustizia secondo diritto. La posta in gioco era dunque arrivare non alla condanna, come abbiamo sempre detto, ma alla sentenza. Dimostrare che anche in Italia vige lo Stato di diritto, e vale la separazione dei poteri. Confermare che per davvero la legge è uguale per tutti, com’è scritto sui muri delle aule di giustizia.
Altro che processo politico. La Cassazione ha sanzionato ieri definitivamente una frode imprenditoriale gigantesca, da parte dell’imprenditore “che si è fatto da sé” e che “ama il suo Paese” Adesso sappiamo qual è la sostanza di questo amore e di quella costruzione industriale e politica. Gli stessi sottosegretari sbandati che ieri sera annunciavano di andarsi a dimettere «nelle mani di Berlusconi » non si accorgono che stanno confermando come tutta questa destra italiana si muova dentro uno Stato a parte, dove valgono altre leggi, diverse sudditanze, logiche separate e gerarchie autonome.
Tutto questo porta a credere che il governo non cadrà, ma per impotenza. Il governo è infatti l’ultima espressione politica che resta a questa destra senza più leader, l’unico strumento per tenerla viva, e insieme. Anzi, Berlusconi – che già attacca la magistratura «irresponsabile» – proverà a trasferire la sua tragedia personale dentro la maggioranza e nelle istituzioni, contagiandole con la sua anomalia, ieri certificata nelle televisioni e nei siti di tutto il mondo.
L’unica salvezza per la sinistra e per le istituzioni è leggere con spirito di verità quanto è avvenuto in questi anni e la Cassazione ha certificato ieri, dando un giudizio preciso sulla natura di questa destra e del suo leader, senza nascondere la testa dentro la sabbia, perché su questa natura si gioca la differenza per oggi e per domani tra destra e sinistra, cioè il nostro futuro.
Non è la destra che deve decidere se può restare al governo dopo questa sentenza. È la sinistra. Perché la pronuncia della Cassazione non è politica: ma il quadro che rivela è politicamente devastante. Per questo chi pensa di ignorarlo per sopravvivere avrà una vita breve, e senz’anima.
Per vent'anni i dirigenti del PD hanno voluto assomigliare a Berlusconi: logico che ora dicano "vogliamo governare con lui anche se è condannato per frode fiscale".
Il manifesto, 31 luglio 2013
Siamo messi male, lo sapevamo, ma in queste ore ne abbiamo vistosa conferma, persino patetica, con quell'immagine dell'Italia, paese alla periphery d'Europa, come con franchezza ci definisce, e deferisce, il Fondo monetario. Che osserva, come del resto tutte le televisioni che stazionano sulla scalinata del Palazzaccio romano, le istituzioni repubblicane e le sorti del governo appese alle ultime battute di un processo decennale.
Siamo arrivati a questo passaggio cruciale mentre ancora brucia il risultato delle ultime elezioni politiche, con l'autoaffondamento del centrosinistra e la disintegrazione delle liste di alternativa. Il dopo-elezioni ha sparso altro sale sulla ferita, rendendoci spettatori della rissa del gruppo dirigente del Pd e, soprattutto, della scelta presidenziale delle larghe intese.
In questo ultimo passaggio giudiziario la colonna sonora è oltretutto scandita da un grande festival dell'ipocrisia, interpretato dai ritornelli dei più accaniti fan del condominio con Berlusconi. Costoro cantano in coro che non capiscono perché mai bisognerebbe proprio ora rompere con l'alleato di palazzo Chigi solo per una eventuale sentenza di condanna. Dicono che governare con il pregiudicato non cambia nulla, anzi sostengono che fingendo indifferenza per i suoi destini penali, il governo dà prova di difendere la propria autonomia. La verità naturalmente è un'altra: amministrare con i berlusconiani non è una necessità, ma l'approdo per cui il Pd, o larga parte del partito, ha lavorato sodo. E ora, giustamente, il sudato traguardo viene difeso a qualunque prezzo. Anche perché il non aver saputo battere politicamente l'avversario degli ultimi vent'anni ha una spiegazione semplice, logica, coerente: volergli somigliare. Fino a raggiungere la massima condivisione con l'unico leader politico di riferimento, e regalargli una rendita di posizione che né lui, né i suoi alleati hanno interesse a dilapidare.
Il copione di questo ultimo atto si svolge avendo sullo sfondo una situazione economica che ci colloca fuori dall'Europa. Un piccolo esempio spiega meglio di un saggio la deriva nazionale: su 100 pannelli solari installati in Italia, 98 sono importati, 1 è prodotto da un'impresa estera in Italia e 1 da un'impresa italiana. Una struttura produttiva fuori gioco e la situazione sociale va di concerto.
Tuttavia qualche segnale positivo la giornata di attesa l'ha prodotto: le azioni Mediaset e Mondadori hanno messo le ali, come se il mercato avesse annusato che per il Cavaliere tira buon vento. Se i lauti guadagni in Borsa delle imprese berlusconiane fossero l'annuncio di una sentenza favorevole, avremo solo la conferma dell'impunità che sempre ne ha accompagnato la lunga carriera politica. Oltre a riconoscere che spendere una fortuna in avvocati alla fine è un ottimo investimento. Del resto quanti «berlusconi» sono ospiti delle nostre fatiscenti carceri? Se pure per una volta la legge fosse uguale per tutti, sarebbe l'eccezione che conferma la regola.
Naturalmente, una eventuale assoluzione, totale o parziale (con il conseguente rischio della prescrizione), è da escludere che sia frutto delle forsennate pressioni a preservare un assetto di potere che si appresta a chiudere il cerchio della crisi modellando l'impianto costituzionale nella forma più aderente ai nuovi equilibri.
Papa Francesco da un lato, la politicuzza dall’altro. Che baratro in mezzo! Lì cadranno i birilli, trascinando tutti noi.
La Repubblica, 31 luglio 2013
L’HA detto pure papa Francesco, il 25 luglio nella cattedrale di San Sebastiàn a Rio de Janeiro: meglio fare casino, hacer lio, Ecco cos’è non lapolitica liquida che si sperde e che tanti decantano, ma la resilienzadi una materia dura che resiste, e sotto gli urti rimbalza. «Le parrocchie, le scuole, le istituzioni sono fatte per uscire fuori (…). Se non lo fanno diventano una Ong e la Chiesa non può essere una Ong».
Se il signor Sposetti sapesse quel che dice, sul partito democratico di cui è tesoriere dal 2001, non sosterrebbe senza arrossire: «Sarà la fine di tutto, se i giudici condannano Berlusconi: il Pd non reggerà l'urto e salterà come un birillo». Saprebbe la differenza che c’è tra il resiliente e l’acqua che si chiude intatta sulla barca che affonda. Fra l’intelligenza e quella che lui stesso chiama la «fase fessa» del proprio partito e della democrazia italiana.
Qualche giorno fa l’aveva detto anche Obama: che il suo paese è tuttora malato di razzismo, che l’Unione americana non sarà mai perfetta ma meno imperfetta può divenire. Che il divenire è tutto. Che tra gli americani, e non solo tra i loro politici, deve iniziare unesame di coscienza, dopo la mancata condanna di chi nel febbraio 2012 ammazzò a bruciapelo un disarmato diciassettenne afro-americano, Trayvon Martin. Che deve infine cominciare una «conversazione sulla razza», in grado di vedere nell’Altro o nel Diverso «non il colore della pelle, ma il contenuto del suo carattere». Altrettanto in Germania: fin dal 1999, quando Schröder divenne Cancelliere, fu cambiata la legge sulla concessione della nazionalità, adottando lo ius soli accanto allo ius sanguinis cui per secoli i tedeschi erano rimasti aggrappati. Il governo socialdemocratico-verde capì che, nella globalizzazione, l’omogeneità etnica era divenuta bieco anacronismo.
Non così in Italia, dove in politica regnano le cerchie scostanti, i clan che fuggono l’aria aperta, inaccessibili e sordi al resto della cittadinanza e al mondo che muta. Vent’anni di diseducazione civica, di leggi infrante, di immunità, hanno asserragliato politici e partiti nelle cantine dei propri clericalismi: immobili, disattenti alla società dove «si fa casino», si disturba e si fa baccano. Sono diocesi incapaci di correggersi, di entrare in quella che papa Bergoglio chiama l’onda della rivoluzione copernicana.
Cos’è per lui rivoluzione? «Ci toglie dal centro e mette al centro Dio. Apparentemente sembra che non cambi nulla, ma nel più profondo di noi stessi cambia tutto. La nostra esistenza si trasforma, il nostro modo di pensare e di agire si rinnova, diventa il modo di pensare e di agire di Gesù, di Dio. Cari amici, la fede è rivoluzionaria e io oggi ti chiedo: sei disposto, sei disposta a entrare in quest’onda rivoluzionaria?». E dove nasce l’onda? «Nelle periferie esistenziali», dove l’indifferenza dilaga. E come mai s’è andata formando l’indifferenza? «Vedete, io penso che questa civiltà mondiale sia andata oltre i limiti, perché ha creato un tale culto del dio denaro, che siamo in presenza di una filosofia e di una prassi di esclusione dei due poli della vita (gli anziani, i giovani), che sono le promesse dei popoli». Sui giovani ha aggiunto: «Abbiamo una generazione che non ha esperienza della dignità guadagnata con il lavoro».
Di simile trasformazione avrebbe bisogno la politica, affetta dall’isterico ristagno che è la stasi: non del liquido Renzi, ma della dura e antica materia che fa fronte alle scosse. Non di un Tony Blair che s’assoggetti al culto del denaro, alle guerre di Bush jr., e vinca uccidendo la sinistra. La destra ha le sue impassibilità morali, e non stupisce. Ha da difendere privilegi, clan, impunità: in particolare quella del proprio padre- padrone, senza il quale teme di morire. Vivrà anche se il capo, condannato per frode fiscale, estromesso dal Senato, comanderà da fuori: mentre i Democratici no, cadono come birilli a forza d’inconsistenze e tradimenti.
Il Pd è cresciuto in questo clima e ne è stato contaminato (non è vero che è stato troppo antiberlusconiano: il ventennio è stato tutto all’insegna della compromissione) ma tanti elettori e alcuni aspiranti leader sentono che bisogna far casino se non si vuol restare fessi. Perché se il Pd insiste nell’autodistruzione e nell’immobilità, chi guiderà coalizioni diverse, se sarà necessario, e cosa andrà messo «al centro»?
Qualche sera fa, il 26 luglio a una festa dei Democratici a Cervia, il ministro Kyenge, già chiamata orango non da un leghista qualunque ma dal vicepresidente del Senato Calderoli, è stata fatta bersaglio di un lancio di banane. Nel Pd: breve indignazione, presto dimenticata. È stata breve anche con Calderoli. Nessuno ha avuto l’ardire di rispondere: non entreremo in Senato, i giorni in cui a presiedere sarà lui.
Non sono mancati, come è giusto, gli elogi della reazione ironica di Cécile Kyenge (“Che spreco di cibo! Uno schiaffo alla povertà”). «Non c’è miglior modo di contrastare chi si sente razza superiore, che farlo sentire un cretino e mostrarlo al mondo», scrive Alessandro Robecchi. Ma i provocatori fascisti hanno potuto fare irruzione senza problemi, e i servizi d’ordine che alzino barriere non esistono da tempo. L’ironia è ignominia per un partito che seppe resistere, in ore gravi della storia italiana. L’esclusione va combattuta, assieme al razzismo. E che si aspetta per una legge sull’omofobia? Anche qui ascoltiamo Bergoglio, sull’aereo di ritorno da Rio: «Le lobby tutte non son buone. Ma se una persona è gay, chi sono io per giudicarla?».Basta un papa, per la rivoluzione copernicana che s’impone? Dante era convinto che occorresse il potere sovrano dell’imperatore,perché il pastore della Chiesa «rugumar può» – può ruminare le Scritture – ma non guidare laicamente la città dell’uomo. È una saggezza che vale ancora. Ma è difficile quando l’autorità laica non cura il bene pubblico ma solo i privilegi e il potere dei propri potentati. L’opposizione della dirigenza Pd a primarie aperte per la futura guida del Pd (e per la candidatura alla premiership) è segno di quest’otturazione di spazio, attorno a un centro che è stato tolto. Anche qui: meglio perdere e salvare la parrocchia, senza avventurarsi in alto mare alla ricerca non solo dei cari iscritti estinti ma degli elettori vivi.
Meglio il Regno della Necessità di Enrico Letta, che farà magari alcune leggi buone con alcuni buoni ministri ma è pur sempre figlio delle larghe intese che gli italiani non volevano. Né si può dire che Letta sia solo lì per fare una legge elettorale e risparmiarci immediati crolli economici. Il cantiere che ha messo in piedi prevede una vasta revisione della Costituzione. E con chi si trova a riformarla se non con un capo del Pdl per cui le larghe intese sono non un provisorium ma una pacificazione, dunque un appeasement, un salvacondotto. Come riscriverla se non con un Parlamento di nominati, che la Cassazione ha già dichiarato non legittimo, visto che potenzialmente incostituzionale è la legge elettorale da cui discende.
È una gran fortuna che il Vaticano non si intrometta nella città dell’uomo. Ma l’ipocrisia diminuirebbe un po’, se la politica venisse scossa, rimessa al centro, e, parafrasando Bergoglio, qualcuno chiedesse di non farne un frullato, perché «c’è il frullato di arancia, c’è il frullato di mela, c’è il frullato di banana, ma per favore non bevete frullato di politica». Anche la politica è intera, come la fede, «e non si frulla».che chiudersi dentro i recinti delle proprie parrocchie e immaginarsi potenti, anche se dentro già si è morti. Meglio «uscire fuori, per strada», e disturbare, e farsi valere, piuttosto che installarsi «nella comodità, nel clericalismo, nella mondanità, in tutto quello che è l’essere chiusi in noi stessi».
Non basta dire “chi sono io per giudicare” se si ha il potere di cambiare.
La Repubblica, 30 luglio 2013
È MOLTO probabile che i commenti alle dichiarazioni del Papa sulle persone omosessuali si dividano in due correnti tra loro contrapposte. Da un lato coloro che desiderano una decisa riforma delle posizioni della Chiesa cattolica intenderanno le parole del Papa come rivoluzionarie, diverse, foriere di cambiamenti. Dall’altro lato coloro che intendono conservare lo status quo leggeranno le stesse parole del Papa come del tutto coerenti con le posizioni di sempre, quelle ribadite più volte da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E occorre dire in verità che, in assenza di atti effettivi di governo da parte di papa Francesco volti a modificare la legislazione canonica vigente, entrambe le posizioni hanno una loro legittimità. Il Papa infatti non ha detto nulla che anche Benedetto XVI non avrebbe sottoscritto, dicendo che: 1) le persone omosessuali in quanto tali vanno accolte e per nulla discriminate, mentre gli atti sessuali delle stesse non possono trovare accoglienza all’interno dell’etica cattolica; 2) per i divorziati risposati il primato deve essere assegnato alla misericordia; 3) la donna deve avere più spazio nel governo della Chiesa, anche se la Chiesa non potrà giungere a concederle l’ammissione al sacerdozio, alle donne cattoliche definitivamente precluso.
Perché allora da parte di tutti nel mondo si avverte nelle parole del Papa un senso di novità e di speranza, di innovazioni? Perché questo entusiasmo per parole che nei contenuti non modificano in nulla la tradizionale impostazione etica e dogmatica cattolica? Io penso che sia per il clima di empatia che circonda la persona del Pontefice e per il bisogno di cambiamento e di riforma che i cattolici di tutto il mondo avvertono. Ma soprattutto per la frase, questa sì del tutto innovativa per un Papa, “chi sono io per giudicare?”. Una frase che, a mio avviso, né Benedetto XVI né Giovanni Paolo II avrebbero mai potuto o voluto pronunciare.
Queste parole collocano il Papa non più tra i capi di Stato e i potenti di questo mondo che per definizione giudicano, ma tra i discepoli di Gesù attenti a mettere in pratica le parole del maestro: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati, perdonate e sarete perdonati” (Luca 6,37). Da tutto questo però deve scaturire una conseguente azione di governo finalmente all’insegna della novità evangelica (così come lo sono i gesti straordinariamente semplici e potentissimi di questo Papa).
Ho parlato prima di empatia e vorrei sottolineare che l’empatia è molto importante, non solo, com’è ovvio, a livello psicologico, ma anche a livello teologico. Il termine infatti rimanda alla parola greca pathos, che significa passione, e che costituisce uno dei concetti centrali del cristianesimo, a partire dalla passione di Cristo e dall’amore che definisce l’essenza di Dio, amore che a sua volta è passione e genera passione. Il fatto che papa Francesco sia circondato da un abbraccio di empatia a livello mondiale non si spiega solo a livello umano per la sua carica personale e per la spontaneità e la semplicità dei suoi gesti; si spiega anche a livello teologico e spirituale per il suo essere in grado di rappresentare la passione di Dio per il mondo. Quindi l’empatia che circonda il Papa (e che porta a vedere in ogni sua parola qualcosa di nuovo anche quando di per sé non c’è nessuna novità) è estremamente preziosa, è un segno dello Spirito si direbbe nel linguaggio teologico. E il Papa non la deve deludere, deve esserne all’altezza fino in fondo, venendo incontro al bisogno di cambiamento che la gran parte dei cattolici nel mondo avverte riguardo alla Chiesa.
È infatti insostenibile la posizione cattolica tradizionale riguardo sia alle persone omosessuali, sia alle persone divorziate, sia al ruolo attualmente ricoperto dalle donne all’interno del governo della Chiesa. E occorre coerenza: non si può proclamare a parole il rispetto per le persone omosessuali e la pari loro dignità di figli di Dio e poi giudicare la loro condizione come condannata dalla legge naturale e dalla Bibbia; al contrario, se veramente si vuole mostrare in modo concreto il rispetto di cui si parla nei loro confronti, occorre mettere in atto ermeneutiche conseguenti sia della legge naturale (da intendersi in senso formale come armonia delle relazioni e non come definizioni di ruoli e di comportamenti) sia delle pagine bibliche che condannano le persone omosessuali relegando tali pagine accanto a quelle che favoriscono la guerra o l’inimicizia verso le altre religioni (e che non meritano di essere più prese in considerazione).
Occorre cioè giungere all’evangelico “non giudicare” e “non condannare”. Allo stesso modo se veramente si vuole che sia la misericordia ad avere il primato per i divorziati risposati occorre mettere in atto una disciplina canonica dei sacramenti che conceda loro di accostarvisi senza nessuna discriminazione (segnalo al riguardo il recente libro di Oliviero Arzuffi, Caro papa Francesco. Lettera di un divorziato, Oltre edizioni). Allo stesso modo, infine, se veramente si vuole che la donna abbia maggiore potere all’interno della Chiesa si deve procedere di conseguenza e, anche senza giungere all’ordinazione sacerdotale, si deve permettere che le donne diventino cardinali e ministri con pieni poteri del governo della Chiesa (oggi per accedere al cardinalato occorre essere diaconi o sacerdoti, e le donne possono accedere al diaconato, lo testimonia il Nuovo Testamento, basta leggerlo e applicarlo).
“Chi sono io per giudicare?”, ha detto il Papa e in questo si è fatto discepolo di Gesù. Ma Jorge Mario Bergoglio in quanto pontefice regnante può far sì che questa mentalità non giudicante diventi la prassi corrente della Chiesa in ordine alle persone omosessuali e ai divorziati risposati. Di fronte a lui sta il compito di non deludere l’empatia che lo circonda e le speranze di rinnovamento evangelico di molti credenti e “uomini di buona volontà”.
Si continua a sperare che il Pd cambi strada, almeno un po’. Ma i contadini dicevano: a lavar l’asino si perde il ranno e il sapone.
La Repubblica, 30 luglio 2013
CHI fiocinerà il “moby pig”, questo mostruoso e inaffondabile sistema elettorale che infesta i mari della politica? Finora, nessuno dimostra il coraggio di un Capitano Achab. Eppure tutti disprezzano il Porcellum, a incominciare dai loro ideatori, “i saggi” del centrodestra, allora guidati dal (dis)onorevole Roberto Calderoli. Ma se si può comprendere l’imbarazzato silenzio di questa parte politica, non si capisce proprio la timidezza e l’afasia del centrosinistra, e del Pd in particolare. È vero che il Partito democratico fatica a decidere qualunque cosa ma almeno potrebbe ritrovarsi unito nello sconfessare il gioco di rinvii e rimandi con cui si seppelliscono le ipotesi riformatrici della legge elettorale. L’invenzione dilatoria degli ultimi giorni è quella di costituzionalizzare il sistema elettorale. Una insensatezza tipica del genio politico italico.
In nessun grande paese democratico la carta costituzionale specifica quale debba essere il sistema di voto per il Parlamento. Questo per una ragione molto semplice: le leggi elettorali necessitano di “manutenzione”, di aggiustamenti e di revisioni periodiche. Non ha senso dover attivare complesse procedure di revisione costituzionale per decidere se, ad esempio, la soglia di sbarramento vada spostata dal due al quattro per cento, oppure se in un sistema misto si debba usare una sola scheda al posto di due. La noncostituzionalità delle norme elettorali nelle democrazie mature riflette anche un consensus sulle regole e un certo grado di fair play quando vi si mette mano. Se si infrange questo stile, come accadde in Francia quando nel 1986 il presidente François Mitterrand volle introdurre d’un colpo il sistema proporzionale per motivi strumentali — mettere in difficoltà la droite gollista e moderata e favorire il nascente Front National di Jean-Marie Le Pen — i contraccolpi sono forti, tanto che, all’epoca, un ministro di peso come Michel Rocard si dimise e due anni dopo si ritornò al precedente sistema a doppio turno.
Forse il ministro per le Riforme, buon conoscitore della Francia, ha in mente quell’episodio e, vista la “porcata” dei suoi sodali dieci anni fa, vuole mettere la legge al riparo da colpi di mano. Al netto delle buone intenzioni, fatto sta che la soluzione proposta dal ministro, oltre ad essere sbagliata in sé, è del tutto inopportuna. Restare appesi al Porcellum ancora per tutto il lungo tempo necessario per una riforma costituzionale, ammesso e non concesso che si arrivi a un accordo e non si ripeta la pantomima della Bicamerale quando Silvio Berlusconi rovesciò il tavolo da un giorno all’altro, significa non poter più (ragionevolmente) andare al voto. Significa, in buona sostanza, congelare questo governo e la permanenza del Pdl nella stanza dei bottoni, con tutte le conseguenze che ne derivano, come ha dimostrato, tra gli altri, il caso del rimpatrio forzato della moglie e della figlia del dissidente kazako.
La vera posta in gioco nella querelle sul sistema elettorale è questa, e nulla a che fare con le dotte discussioni sul miglior sistema possibile. Ma ancora: è comprensibile che un ministro del Pdl sia sensibile alle strategie del proprio partito; lo è molto meno che il Pd vi si adatti. Evidentemente alla classe dirigente dei democrat sfugge un passaggio, e cioè che il Pdl ha molta più forza di condizionamento sul governo in assenza di una nuova legge perché nessuno, a incominciare dal Quirinale, vuole tornare a votare con il Porcellum. E dato che maggioranze alternative non sono in vista, il Popolo della libertà usa anche questa arma di pressione. Tra l’altro, una mancata riforma sarebbe addebitata tutta al Pd, in quanto partito di maggioranza. Il Partito democratico ha fin qui dimostrato scarsa capacità propositiva su praticamente ogni terreno. Almeno metta le proprie impronte digitali sulla riforma elettorale cancellando una norma così impopolare.
Approvata la bozza del disegno di legge del governo per disFARE l'assetto istituzionale dell'Italia. Ma il percorso è ancora lungo. Per ora si distrugge, poi (forse, e chissà come) si costruirà.
La Repubblica, 27 luglio 2013, con postilla
? Il manifesto, 27 luglio 2013
1. L'allarme lanciato venerdì dal manifesto sull'intenzione politica di far tornare l'acqua di Napoli in mano ai privati è più che giustificato. La proposta di legge della giunta Caldoro, nel ridisegnare i confini degli ambiti territoriali ottimali in cui è suddiviso il servizio idrico in Campania e quindi l'affidamento dello stesso, appare esattamente congegnata per provare ad affossare la prima esperienza di ripubblicizzazione definitivamente completata dopo i referendum di 2 anni fa, quella che si è costruita attorno alla nuova Azienda speciale Abc di Napoli.
Estremo appello al PD perché interrompa il suicidio e almeno aiuti ad abolire il Porcellum. Scommettiamo che resterà inascoltato? Vorremmo perdere, ma …
La Repubblica, 25 luglio 2013
La linea di condotta di blindare il governo rendendo difficile, oneroso e lungo il processo di riforma della legge elettorale non è saggia proprio se si ha a cuore la durata del governo. Infatti, non è la stabilità empirica - il durare nel tempo - che dà garanzia di tenuta politica. Se le forze politiche di questa alleanza sanno di poter godere senza sforzo del privilegio della sopravvivenza garantita - e a questo scopo invocano appunto la dottrina della necessità, per cui non si dà via d’uscita possibile e praticabile a questa maggioranza - esse saranno indotte a rischiare il meno possibile. Vivacchiare invece che vivere. Ma questo non favorisce chi ha fatto accettare ai propri elettori il boccone indigesto di una maggioranza anomala nel nome di un’emergenza economica da gestire, domare e possibilmente cercare di risolvere. Il Pd che ha promesso di accettare questa alleanza costrittiva per lanciare politiche di occupazione o contrastare la crescente povertà delle famiglie italiane ha tutto da perdere da una immobile sopravvivenza: e una maggioranza blindata da una legge elettorale inagibile è la premessa peggiore perché premia una stabilità poco virtuosa, nonostante l’impegno del Presidente del Consiglio. Sapere che il governo può terminare il suo operato fungerebbe da stimolo: perché solamente un’azione efficace gli garantirebbe il diritto di restare in carica.
L’idea che avere una legge elettorale agibile fin da ora significherebbe correre alle urne è anch’essa poco convincente; inoltre è un argomento non proprio ragionevole e diremmo anzi non proprio legittimo. Un governo democratico deve avere in ogni momento una legge elettorale agibile per operare in un’atmosfera che sia compiutamente democratica. La necessità di preservare un governo non la si conquista rendendo le elezioni impraticabili ma rendendo ogni alternativa a quel governo meno conveniente.
Non ci avventuriamo nell’immaginare che cosa convenga al Pdl. Ma è certo che conviene al Pd far sì che la situazione nella quale si trova impegnato in prima persona corrisponda il più possibile a quel che ha promesso al suo elettorato quando ha accettato obtorto collo di allearsi con il suo antico avversario: promuovere politiche economiche volte a combattere la disoccupazione e a creare le condizione per la crescita, e mettere mano alla legge elettorale per togliere i due vulnus che la minano: il fatto che non aiuta ma compromette la formazione di una maggioranza e il fatto che non rappresenta con eguaglianza e giustizia tutti i cittadini.
«. La Repubblica, 24 luglio2013
La stabilità assurge a valore supremo, non negoziabile, e se vogliamo custodirla dobbiamo disgiungerla da princìpi democratici essenziali come l’imperio della legge, la responsabilità del governante, la sua imputabilità: tutte cose che turbano. Viviamo nel regno della necessità e del sonno, non della libertà e del divenire. Non c’è alternativa alle larghe intese, da cui ci si attende nientemeno che la pace, o meglio la pacificazione. Cos’è stata ed è l’opposizione a Berlusconi? Guerra. Le critiche a Alfano? Guerra. L’Italia ha già vissuto epoche simili, a bassa intensitàdemocratica: sin da quando fu necessario, nella Liberazione, far patti con la mafia. O nella guerra fredda, escludere i comunisti dal governo. Stesso clima negli anni della solidarietà nazionale contro il terrorismo, dell’emarginazione di Falcone e Borsellino durante le stragi di mafia. La storia dell’Italia postbellica è cronicamente all’insegna della stabilità idolatrata. Il mito delle larghe intese è figlio di questa idolatria. Dalla convinzione, diffusa nei vari partiti, che i mali del Paese siano curabili solo se lo scontro politico s’attenua, fra destra e sinistra: se i contrari si fondono, ut unum sint.
Si glorifica il compromesso storico, e sulla sua scia le grandi coalizioni, le strane maggioranze. È un mito che urge sfatare, e non solo perché il Pdl di Berlusconi non è comparabile alle destre europee. Più fondamentalmente, il mito è un inganno.Le unità nazionali, anche in condizioni democratiche normali, sono sempre strade di ripiego, votate all’instabilità. Furono sempre malferme, le grandi coalizioni tedesche: le riforme decisive vennero fatte dalla sinistra o dalla destra quando governavano da sole. Furono labili e piene di disagio (di fibrillazioni:
anche qui il termine è psico-medico) le coabitazioni francesi fra maggioranze presidenziali e parlamentari discordanti. Non è vero che i mali si medicano abolendo il conflitto fra blocchi contrapposti. In Europa e America, le unioni sacre immobilizzano la politica, e l’immobilità non è vera stabilità.
Anche di fronte a pericoli gravi (terrorismo, mafia, autoritarismo) non sono le larghe intese a garantire stabilità. Vale la pena ricordare la Grande Coalizione tentata prima dell’avvento di Hitler, nella Repubblica di Weimar. Fra il 1928 e il 1930 nacque un governo di socialdemocratici, Popolari tedeschi e bavaresi, Centro cattolico. Furono anni di tensioni indescrivibili, che accelerarono la fine della democrazia e che Hindenburg, Presidente, coscientemente usò per sfibrare i socialdemocratici, imporre un regime presidenziale (Präsidialregierung), cedere infine a Hitler (il partito nazista non supera il 2,6 per cento dei voti nel ‘28. Nel 1930 otterrà il 18,3, nel ‘33 il 43,9). L’ultimo governo parlamentare di Weimar, diretto dal socialdemocratico Hermann Müller, s’infranse su scogli che riecheggiano i nostri in maniera impressionante.
Un’austerità dettata dai vincitori della prima guerra mondiale, una disoccupazione che raggiunse 2,8 milioni nel marzo ‘29, e la coalizione che vacillò sull’acquisto di costosi armamenti (la Corazzata-A), e l’insanabile conflitto su tasse e sussidi ai senza lavoro: ecco i veleni che uccisero Weimar, e paiono riprodursi oggi in Italia. A quel tempo, fuori dai Palazzi del potere, rumoreggiavano i nazisti sempre più tracotanti, i comunisti sempre più costretti da Mosca a imbozzolarsi nella separatezza. Il movimento di Grillo imita quell’imbozzolamento. Casaleggio non riceve ordini esterni ma è come se li ricevesse. Non si capisce altrimenti come mai d’un sol fiato profetizzi immani tumulti sociali, e respinga ogni futuro accordo tra 5Stelle e Pd. Le sue parole scoperchiano quel che è destabilizzante nelle larghe intese; ma le rendono più che mai ineludibili, fatali.
Come nella guerra la prima vittima è la verità, così nelle grandi coalizioni la prima vittima è il principio, autocorrettore, della responsabilità dei ministri, collettiva e individuale (art. 95 della Costituzione). Prioritario è durare: la sacrata stabilità è a questo prezzo. Il prezzo di una responsabilità triturata dai sofismi (è politica? O oggettiva?), di una Costituzione disattesa, o di una moratoria chiesta dalla destra sulle questioni etiche (leggi su omofobia o coppie gay: una promessa elettorale della sinistra). Difficile chiamare stabilità questo non strano, più che ovvio guazzabuglio. Nella Fattoria degli animali, la casta trionfatrice dei maiali narrata da Orwell annuncia a un certo punto che tutti gli animali sono eguali, ma ce ne sono di più eguali degli altri. Nelle grandi coalizioni accade qualcosa di analogo. Anch’esse secernono una casta, pur di sfuggire ai partiti sottoscrittori delle intese, e i governanti assumono una postura singolare: si fanno prede di leggi deterministe, è come non possedessero il libero arbitrio e di conseguenza non fossero imputabili. Il leone che sbrana la gazzella agisce così: mosso dalla necessità della sopravvivenza, non deve render conto a nessuno, tribunale o popolo elettore.
Le unioni nazionali funzionano sempre male, ma se funzionano è perché ciascuno riconosce e rispetta i limiti che il partner non può valicare senza rinnegarsi. La grande coalizione di Weimar naufragò perché Hindenburg l’aveva suscitata col preciso intento di consumare i socialdemocratici. La morte della democrazia parlamentare era programmata dall’inizio; il governo presidenziale di Brüning, ultimo Cancelliere della Repubblica, era già da tempo concordato tra Centro cattolico e destre popolari.
I guai succedono quando l’abitudine alla non-responsabilità diventa tassello principale della stabilità, o governabilità. Enorme è il chiasso, ma ogni cosa stagna: è la stasi. Nessuno si avventuri a staccare spine, ammonisce Napolitano. Tantomeno si provi a irritare i mercati e le banche d’affari, che già l’hanno fatto sapere: non si fidano di Stati con Costituzioni nate nella Resistenza (rapporto di JP Morgan del 28-5-13). Per questo è interessante sapere quel che intenda la Banca d’Italia, quando nell’instabilità vede un freno alla crescita. Quale stabilità?
Ci sono momenti in cui si ha l’impressione che l’Italia abbia vissuto nel Regno della Necessità quasi sempre, tranne nel momento magico del Comitato di liberazione nazionale, della Costituzione repubblicana. I governanti che sono venuti dopo sono stati potenti stabilizzatori, più che responsabili. Quando parla al popolo, lo stabilizzatore gli dà poco rispettosamente del tu e d’istinto cade nel frasario del gangster: «Ti faccio un’offerta che non potrai rifiutare».
Una lettura psicanalitica delle ragioni profonde che hanno condotto alle “larghe intese” e al governo Letta-Berlusconi getta inaspettati raggi di luce sulla situazione politica italiana, che gli eletti dal popolo (e forse il popolo stesso) non sanno o non vogliono vedere.
La Repubblica, 23 luglio 2013
Prendiamo una storia clinica narrata da Freud: una madre colpita dalla tragedia della perdita prematura di una figlia la sostituisce con un pezzo di legno che avvolge in una coperta che tiene amorevolmente in braccio sussurrandogli tutte quelle parole dolci e affettuose che la figlia morta non potrà più sentire. Questa sostituzione implica la negazione delirante di una realtà troppo dolorosa per essere riconosciuta come tale. Il pezzo di legno cerca di supplire pietosamente al buco scavato dalla realtà dal trauma della morte prematura della bambina. Quella figlia così teneramente amata non esiste più, se n’è andata, è morta.
L’idea della pacificazione non assomiglia forse a questa sostituzione delirante? Essa non può aspirare ad alcuna dignità politica, non può essere la base di un nuovo patto politico, perché si fonda su una negazione delirante della realtà. Di quale realtà? La realtà della morte in Italia di una destra autenticamente liberale, capace di fare gli interessi generali del Paese anziché essere uno strumento al servizio di un uomo che avendo notevoli problemi con la giustizia da un ventennio utilizza la politica per difendere strenuamente i propri interessi personali. Nell’esempio raccontato da Freud il delirio consiste nel rifiuto della realtà e nella sostituzione della realtà con qualcosa che non esiste.
Come la povera madre che anziché affrontare il dolore per la morte della propria figliola, la rimpiazza con un pezzo di legno, il governo Letta sembra insistere nel credere – sfidando davvero ogni principio di realtà – che sia possibile governare con una destra pronta ad occupare le sedi dei Tribunali e a far cadere il governo se il suo capo non verrà messo al riparo dall’azione della giustizia.
In psicoanalisi esiste una legge del funzionamento mentale che vale la pena oggi ricordare perché si presta a leggere anche i fenomeni della vita collettiva: quello che si vuole cancellare dalla memoria – nel nostro caso il ventennio berlusconiano – ritorna sempre nella realtà e ha spesso la forma dell’incubo. Per generare cambiamento autentico, nella vita individuale come in quella collettiva, è necessaria innanzitutto la memoria della nostra provenienza.
La difesa della continuità governativa sic et simpliciter, lasciando passare questo episodio come un infortunio di qualche funzionario distratto, non ripara il danno gigantesco di credibilità del nostro Paese agli occhi della comunità internazionale. La Repubblica, 21 luglio 2007
Il principio venne poi sancito in Francia nellaDichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (art. 15) laddove si asserisce solennemente che «la Società ha il diritto di chiedere conto ad ogni agente pubblico della sua amministrazione ». Quindi, poiché ogni atto del governo è compiuto in nome del ministro, questi deve assumerne la responsabilità di fronte al Parlamento e di fronte all’opinione pubblica. Se sono stati commessi errori il ministro può prendere provvedimenti disciplinari e sanzionatori nei confronti dei funzionari, ma ciò, come scrivono i costituzionalisti anglosassoni, «non lo assolve dalla responsabilità politica». A meno che il governo intero non si assuma collettivamente l’onere dell’azione compiuta. È esattamente quanto ha fatto Enrico Letta.
Pur avendo voluto più di ogni altro far luce sulla questione dell’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia, il presidente del Consiglio ha fatto scudo ad Alfano (e alla Bonino) avocando a tutto il governo la responsabilità – collettiva – dell’affaire kazako. In questo modo al pluri-incaricato ministro dell’Interno, vice presidente del Consiglio e segretario del Pdl, Angelino Alfano è stata assicurata la salvezza politico-personale. I costi di questa rescue-operation rischiano però di essere superiori ai benefici. Il presidente della Repubblica ha steso il suo manto protettivo sul governo per evitare rischi di instabilità e metterlo al riparo dalle pressioni speculative di una estate che si preannuncia torrida su questo versante. C’è da sperare che sia stata la scelta più opportuna per il sistema nel suo complesso. Tuttavia la difesa della continuità governativa sic et simpliciter, lasciando passare questo episodio come un infortunio di qualche funzionario distratto, non ripara il danno gigantesco di credibilità del nostro Paese agli occhi della comunità internazionale.
L’intrusione nei più delicati apparati dello Stato e ai livelli più alti di un ambasciatore (sic!) e di altro personale diplomatico di un Paese non alleato e tenuto a distanza dal consesso delle nazioni democratiche per i caratteri autocratici del suo regime mette in pessima luce l’affidabilità e l’impermeabilità della nostra amministrazione. Abbiamo dato la sensazione di avere un apparato di sicurezza influenzabile e penetrabile da emissari di Paesi retti da despoti autoritari e, per di più, di essere supini e servizievoli nei confronti delle richieste di questi interlocutori esterni, tanto da venire persino telecomandati nelle indagini. Infine, abbiamo manifestato totale insensibilità e disprezzo (proprio gli italiani brava gente) nei confronti di persone deboli e indifese – una donna e una bambina – impacchettate e spedite a forza verso la totale disponibilità del satrapo kazako.
In tutto questo c’è la responsabilità politica del ministro che ha oggettivamente (e forse soggettivamente) consentito l’operazione deportazione; e tutto questo non accadeva in una sperduta caserma dell’entroterra molisano, ma ai piani alti del suo ministero. Se Alfano non è nemmeno politicamente responsabile dei vertici della sua struttura, allora è veramente irresponsabile. E la sua irresponsabilità finirà per costarci carissima nell’impalpabile quanto inflessibile “mercato” della credibilità internazionale.
L’unica via d’uscita da un ulteriore “schettinizzazione” dell’immagine del nostro Paese consiste in un atto autonomo da parte del ministro dell’Interno, con un sussulto di dignità che gli farebbe e gli restituirebbe onore: offrire dimissioni volontarie. Se Alfano non ha questa sensibilità nelle sue corde, almeno che ci sia qualcuno a suggerirglielo.
«Il manifesto, 20 luglio 2013
È regola eterna che nel vuoto della politica le istituzioni di garanzia tendano ad assumere poteri governanti, supplendo alle mancanze dei soggetti titolari. Ciò non è certamente un bene, soprattutto se questo spostamento, contro la natura delle cose, tende a diventare permanente, annullando l'ordine e i ruoli definiti nella Costituzione. Sin dai più antichi studi sulle forme di governo il pericolo maggiore di degenerazione complessiva del sistema è stato espressamente individuato nell'affermarsi, in via di fatto, di un potere che finisce per assorbire stabilmente quello degli altri soggetti i quali dimostrano di non essere più in grado di governare. Così, per Aristotele, se la politia è quella forma di governo nella quale i governanti mirano al bene comune, qualora il potere sia assorbito da un unico soggetto, essa rischia di trasformarsi in tirannide, dove chi è al governo mira soltanto al proprio vantaggio.
V'è un unico modo per ostacolare l'affermarsi delle forme di governo «deviate»: attenersi al rigoroso rispetto del governo delle leggi. Anche in tempo di crisi. Se ci si affida invece al governo degli uomini, la «passione» finirà per sconvolgere gli assetti di potere. Perle di saggezza che hanno retto il governo della polis e che ci sono state tramandate nel corso dei secoli, per essere reinterpretate dalla tradizione illuministica che ha indicato nella divisione dei poteri il fondamento di ogni sistema politico non assolutistico. «È un'esperienza eterna - scriverà Montesquieu - che qualunque uomo che ha un certo potere è portato ad abusarne». C'è un solo modo affinché ciò non avvenga: «Bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere».
La crisi del sistema politico italiano è tutta qui. A fronte di soggetti politici afoni, lacerati da lotte intestine (vedi il Pd) o preoccupati di salvaguardare interessi personali (vedi il Pdl), si è andato espandendo il potere di governo del garante della Costituzione. Inizialmente non poteva che essere così. Il Capo dello Stato, infatti, nel nostro sistema costituzionale ha il compito di «reggere» e quindi «risolvere» gli stati di crisi. Non può stupire, dunque, se nell'agonia dell'ultimo governo Berlusconi, in assenza di un'opposizione in grado di far cadere il governo e dar vita a una nuova maggioranza, il Presidente abbia assunto un ruolo decisivo. Si fosse trattato di un intervento straordinario, unico nel suo genere, compiuto per la salvezza delle Repubblica e la salvaguardia del sistema costituzionale, persino alcune forzature istituzionali si sarebbero potute giustificare.
Il punto critico è però apparso via via con sempre più preoccupante evidenza: gli interventi operati in via di supplenza dal Capo dello Stato, in modo sempre più intenso e penetrante, non sono riusciti a ristabilire l'ordine delle competenze e superare la crisi politica. Probabilmente, accecati dal contingente e dalla prolungata crisi economica, s'è sottovalutata la profondità di quella politica. In ogni caso, quel che conta è che si è assistito a una progressiva resa di tutti i poteri governanti: prima il Parlamento, sempre più relegato a strumento di registrazione di decisioni altrove assunte, poi lo stesso Governo, non più in grado di reggere il peso delle proprie responsabilità, nonostante l'appoggio fantasma di un numero spropositato di parlamentari di una maggioranza tanto larga quanto impotente. Il governo Letta, e ancor prima la vicenda della ri-elezione di Napolitano, sembrano ora chiudere il cerchio.
Un'unica istituzione garante occupa il vuoto lasciato dai poteri governanti. Non è, evidentemente, un problema di uomini, bensì di governo delle leggi. È la grande regola della divisione dei poteri, la necessità che a fronte di chi esercita il potere nel pieno della propria responsabilità costituzionale, deve esservi - oltre ad una viva opposizione che controlla - chi garantisce il rispetto delle regole costituzionali. Nella distinzione dei ruoli di ciascuno. Se non si dovessero ristabilire al più presto gli equilibri della nostra forma di governo i rischi di degenerazione sono assai probabili. Ma se si vuole evitare la caduta è necessario che la politica riprenda a parlare il linguaggio della polis , «bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere».
Da Enrico Letta e Giorgio Napolitano nei rapporti con il Kazakistan, a Roberto Calderoli e l'indecenza razzista, per non parlar di Angiolino Alfano e del PD. Episodi recenti del doloroso tramonto di uno Stato democratico.
La Repubblica, 20 luglio 2013
MOLTI fatti, in questi giorni, hanno destato scandalo, suscitato proteste, acceso qualche fuoco d’indignazione. Ma non sono il frutto di una qualche anomalia, non rientrano nella categoria delle eccezioni o degli imprevisti. Appartengono a quella “normalità deviata” che caratterizza ormai da anni il funzionamento del sistema politico. Ha corroso il costume civile, accompagna il disfacimento del sistema industriale e la terribile impennata della povertà.
Il caso Alfano è davvero una illustrazione esemplare del modo in cui questa normalità deviata è stata costruita, fino a divenire l’unica, riconosciuta forma di normalità istituzionale. Lasciando da parte la responsabilità oggettiva per fatti di cui non avrebbe avuto conoscenza, bisogna chiedersi quale ruolo giochi la responsabilità politica. Dove va a finire questa specifica forma di responsabilità quando si adotta questo tipo di argomentazione? Scompare, anzi è da tempo scomparsa, creando una zona di immunità nella quale i titolari di incarichi istituzionali si muovono liberi, quasi estranei alle strutture che pure ad essi fanno diretto riferimento, anche quando il funzionamento di queste strutture produce gravi conseguenze politiche. La responsabilità politica, anzi, finisce con l’essere considerata come una insidia, un rischio. Guai a farla valere se così vengono messi in pericolo la stabilità del governo, gli equilibri faticosamente o acrobaticamente costruiti.
Questo particolare tassello della normalità deviata finisce con il rivelare la più profonda distorsione del nostro sistema politico – l’essere ormai prigioniero di uno stato di emergenza permanente. Questo è divenuto l’argomento che inchioda il sistema politico alle sue difficoltà, negandogli la possibilità di sperimentare soluzioni diverse da quelle che, via via, mostrano i loro evidenti limiti, fino a sottrarre alla politica ogni legittimo margine di manovra. Di nuovo la normalità deviata, di fronte alla quale vien forte la tentazione di pronunciare un “elogio della follia politica”, che spesso consente di cogliere i tratti reali di una situazione assai meglio del realismo proclamato. Era davvero imprevedibile quello che sta accadendo, l’intima fragilità delle “larghe intese” che, prive di qualsiasi collante politico, sono in ogni momento esposte a fibrillazioni, ricatti, strumentalizzazioni? È la mancanza di coraggio politico a produrre instabilità.
Così non soltanto l’orizzonte dell’azione di governo si accorcia sempre di più, fino a ridursi al giorno dopo. Soprattutto si perde la capacità di operare in modo adeguato alle situazioni di crisi e di ripartire le risorse rispettando le vere priorità, le emergenze effettive. Infatti, si accettano come variabili indipendenti quelle che, invece, sono pretese settoriali o prepotenze di parte. Problemi procedurali a parte, com’è possibile ripartire le scarse risposte disponibili assumendo come tabù intoccabile l’acquisto degli F-35, mentre premono altre e più drammatiche necessità? Com’è possibile inchiodare fin dal primo giorno l’azione del governo intorno alla questione dell’Imu, condizionando l’intera strategia economica per soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svaniscono quelle del Pd?
In questa normalità sempre più deviata non riescono a trovare posto le vere, grandi emergenze. Mentre si dissolve l’apparato industriale, non vi sono segni di una vera politica industriale. Neppure questa è una novità, perché si tratta di una eredità dei governi Berlusconi e pure del governo Monti, dove quelle due parole venivano liquidate quasi con disprezzo come si facesse cenno a una inammissibile interferenza nel mercato. E da questa ulteriore assenza di politica viene un contributo all’aggravarsi della situazione economica, che ormai deve essere letta partendo dalle cifre impressionati sulla povertà. Le ha analizzate efficacemente e impietosamente Chiara Saraceno, sottolineando pure la necessità di modifiche strutturali, come quelle riguardanti l’avvio di forme di reddito garantito. Un governo blindato, non è necessariamente sinonimo di governo forte e efficiente.
Ma la normalità deviata non la ritroviamo solo nel circuito istituzionale. È dilagata nella società, con effetti perversi che verifichiamo continuamente osservando il degradarsi delle regole minime della convivenza civile. So bene che il caso Calderoli è vicenda miserevole. Ma bisogna ritornarci perché si sono ricordati i precedenti di questo eminente rappresentante della Lega, dalla maglietta contro l’Islam all’annuncio di passeggiate con maiali dove si pensava di costruire una moschea. Nulla di nuovo, allora. Gli insulti alla ministra Kyenge appartengono a questa perversa normalità, accettata e addirittura premiata con incarichi istituzionali. Ma Calderoli non era e non è solo, è parte di una schiera che ha fatto del linguaggio razzista, omofobo, sessista un essenziale strumento di comunicazione, per acquisire consenso e costruire identità. E infatti, per giustificarlo, si è detto che le sue erano parole da comizio, dunque legittime, senza rendersi conto dell’enormità di questa affermazione: la propaganda politica può travolgere il rispetto dell’altro, negandone l’appartenenza stessa al comune genere umano, pur di arraffare un miserabile voto.
Ma era una battuta, si è detto. Lo sentiamo dire da anni, senza che questa pericolosa deriva sia mai stata contrastata seriamente da nessuno. Anzi, è stata sostanzialmente legittimata da due categorie – i realisti e i derubricatori. Innocue quelle battute, derubricate a folklore, a modo per avvicinare il linguaggio della politica a quello dei cittadini. Ma il linguaggio è strumento potente e impietoso, e oggi ci restituisce l’immagine di una società degradata, nella quale sono stati inoculati veleni che l’hanno drammaticamente intossicata. Inutili moralismi, ribattono i realisti, che guardano alla Lega come forza politica, addirittura come una “costola della sinistra”. Ma una cosa è considerare la rilevanza politica di un fenomeno, altro è accettarne ogni manifestazione, rinunciando a contrastare proprio ciò che frammenta la società, ne esaspera i conflitti.
Altre deviazioni potrebbero essere ricordate. E tutto questo ci dice che, per tornare ad una decente normalità, serve una innovazione politica profonda, che esige altre idee e altri soggetti.
Epifani: “il caso non è chiuso”: Cercheranno paletti per contenere i berluscones, intanto sono i pali che li sorreggono. Tra tanti modi possibili per concludere un’esperienza politica il partito democratico ha scelto il peggiore.
La Repubblica, 19 luglio 2013
I
l governo Letta deve andare avanti, il ministro Alfano non sarà sfiduciato dal Pd. Ma il “caso kazako” non è chiuso: non può essere archiviato così. «Sono troppi i dubbi, le nebbie, è una vicenda grave», ammette Epifani, confermando però la linea dei Democratici, che lega in un nodo inestricabile le dimissioni di Alfano e la tenuta dell’esecutivo. Fino all’ultimo ieri, il segretario democratico ha sperato, prima di entrare nella fossa dei leoni dell’assemblea dei senatori, che qualcosa potesse accadere: che Alfano cioè, in un sussulto di responsabilità, lasciasse il Viminale. Niente da fare. Stamani a Palazzo Madama si voterà la mozione di sfiducia presentata da Sel e dal M5S, e il Pd voterà contro. I senatori democratici alla fine si sono messi in riga, anche i renziani che avevano chiesto di presentare almeno un documento di censura nei confronti del responsabile dell’Interno.
Ma il dissenso e il disagio nel Pd è fortissimo. I Democratici chiedono che Zanda oggi in aula censuri politicamente Alfano e che il partito non smetta il pressing perché il ministro lasci il Viminale, restituisca al più presto le deleghe: c’è una sua responsabilità politica nel caso Shalabayeva. «Alfano rifletta suun passo indietro», insistono i bersaniani. Dario Franceschini, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, nella riunione alza il cartellino rosso: «Dentro questo governo si sta in squadra, è spiacevole vedere che c’è chi ci mette la faccia, e chi dice “io farei così” perché altri si sporcano le mani». E qui, scoppia lo scontro a distanza con Pippo Civati. Civati, che ha criticato il capo dello Stato («Napolitano? Siamo al commissariamento») sente minaccia di espulsione da parte di Franceschini nei confronti dei dissidenti. Il ministro nega con un tweet di fuoco: «Da Civati falsità e discredito, si scusi immediatamente, mai detto né pensato a espulsioni». Deputato e candidato alla segreteria, Civati contrattacca e spiega che, pur non essendo alla riunione, il senso era chiaro e perciò darà forfait alla riunione serale alla Camera. Malesseri crescenti. Il Pd teme spaccature e fratture fino alla scissione. Per questo la settimana prossima è convocata una direzione del partito con Letta per discutere del governissimo e dei paletti da mettere al Pdl. «Ci vuole un rilancio dell’azione del governo», ripetono in tanti, sia sui temi ma anche un rimpasto e il cambio al Viminale. Verducci non molla: «Via le deleghe a Alfano». Intanto il comitato per le regole del congresso ha stabilito la distinzione tra segretario e candidato premier.
Le cifre riportate e il trend che denunciano dovrebbero inorridire di più chi, appartenendo alla razza umana e no a quella padana o simili, sa che questa piccola provincia, e nel primo mondo di cui essa fa parte, vivono ceti privilegiati rispetto al vasto resto dl pianeta: Qualcuno ne avrà colpa, qualcosa andrà cambiata.
La Repubblica, 18 luglio 2013
Solo per gli anziani che vivono da soli l’incidenza della povertà assoluta non è aumentata e quella della povertà relativa è diminuita un po’ (per effetto del peggioramento complessivo del restante della popolazione). È probabilmente l’effetto positivo del mantenimento dell’indicizzazione per le pensioni più basse. Stante l’elevato numero di coloro che – come segnalato ieri dal rapporto annuale Inps – hanno una pensione attorno, o inferiore, ai 500 euro, esso non è stato tuttavia sufficiente a ridurre la povertà degli anziani che vivono con altri e la cui pensione è talvolta l’unico reddito sicuro in
famiglia.
A parte le pensioni, ci si può interrogare sull’adeguatezza degli ammortizzatori sociali messi in campo. Sempre il rapporto Inps ha evidenziato che la spesa per il sostegno al reddito non è piccola: oltre 22 miliardi nel 2012, di cui sei per la sola cassa integrazione, il resto per indennità di disoccupazione e mobilità, invalidità civile, contributi figurativi e simili. Sicuramente queste misure di sostegno hanno impedito a molte famiglie di cadere in povertà assoluta. Ma, a fronte dell’aumento di quest’ultima e delle caratteristiche di chi la sperimenta, non ci si può esimere dal riflettere sui costi sociali della mancanza, nel nostro Paese, di due strumenti che in altri si sono rivelati piuttosto efficaci nel contrastare gli effetti più negativi della povertà. Il primo è l’assegno per i figli, che aiuti chi ha figli a sostenerne il costo, perciò impedendo che la scelta individuale di investire sul futuro si traduca in povertà per sé e per i propri figli. Il secondo è un reddito di garanzia per chi si trova, appunto, in povertà, integrato da misure di inclusione e attivazione. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei occidentali a non avere né l’uno né l’altro strumento, affidandosi invece a misure frammentate e categoriali, che, mentre lasciano molti, di solito i più deboli, scoperti, talvolta beneficiano chi invece non ne avrebbe bisogno. Sarebbe opportuno che la presa d’atto dell’emergenza sociale evidenziata dai dati sulla povertà sollecitasse in tutti la necessità di una revisione della spesa per il sostegno al reddito, in direzione di una maggiore
equità ed efficacia.
«Nel mondo globale, si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati».
La Repubblica, 14 luglio 2013
Nelle parole ferme ed eloquenti di Malala si deve cogliere proprio questo spirito. Non vi è soltanto il rifiuto del terrorismo, l’orgogliosa rivendicazione del “non mi piegheranno”. Vi è una indicazione politica precisa: il diritto all’istruzione è l’arma più potente, e per ciò più temuta, nella lotta al terrorismo. Sì che la strategia militare, l’unica effettivamente praticata con enorme dispendio di risorse economiche, non può mai essere sufficiente. Vi è un dovere degli Stati di intervenire perché il diritto all’istruzione sia effettivo e garantito a tutti: quelli che insistono sulla necessità di accompagnare al discorso dei diritti quello dei doveri, dovrebbero cimentarsi con temi come questo, e non usare l’insistenza sui doveri come strumento per svuotare di significato soprattutto i diritti sociali.
La riflessione sulla lotta al terrorismo al di là della pura logica militare o poliziesca incontra la questione del Datagate. La reazione ad una schedatura planetaria ad opera degli Stati Uniti ha rimesso in onore un diritto, quello alla privacy, alla protezione dei dati personali, di cui si era certificata la morte proprio per legittimare qualsiasi raccolta di informazioni personali, riducendo le persone al ruolo di fornitori obbligati di dati ritenuti necessari per il funzionamento del mercato e di meccanismi totalizzanti di controllo. Di nuovo la rivendicazione planetaria di un diritto, di cui siamo tornati a scoprire la funzione di tutela di libertà fondamentali.
Al fondo di queste due vicende si scopre l’assoluta mancanza di rispetto per i diritti di tutti e di ciascuno, sempre sacrificabili per una ragion di Stato o di
mercato. Si è radicata quella indifferenza peraltro denunciata a Lampedusa dal Pontefice, con accenti che toccano in primo luogo e giustamente i migranti, ma che davvero riguardano tutti. La costruzione intorno ai migranti di un nuovo modo d’intendere i diritti è davvero questione ineludibile, per la qualità e quantità del fenomeno, globale per definizione e dal quale dipende l’assetto futuro del mondo. È una “politica dell’umanità” che deve essere avviata, indispensabile perché ciascuno di noi possa uscire da una condizione che ci ha fatto prigionieri dell’egoismo, che ha interrotto i legami sociali, che ci consegna una società frammentata nella quale, come ha scritto Luigi Zoja, facciamo i conti con “la morte del prossimo”.
Nel suo ultimo romanzo, Aldo Busi ha descritto con parole dirette questa condizione: «C’erano una volta gli altri e poi improvvisamente scomparvero dalla faccia della terra e io non fui pertanto più un altro per nessuno». Alla scomparsa delle persone, sostituite da astratti simulacri modellati sulle esigenze del consumo o del controllo, si reagisce proprio rivendicando la materialità dell’essere e dei bisogni, e misurando su questi i diritti di ciascuno. Ritorna imperioso il bisogno di pronunciare la parola più negletta della triade rivoluzionaria, “fraternità”, ricordando che l’articolo 2 della nostra Costituzione parla di “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Non a caso si invoca oggi una “solidarietà globale” come orizzonte della politica. Così la rivendicazione dei diritti, che qualcuno vuol leggere come estrema frontiera dell’individualizzazione, si immerge invece nel contesto sociale, trova le sue radici in una “rivoluzione della dignità” che non è solo quella del singolo, ma la “dignità sociale” alla quale si riferisce l’articolo 3 della Costituzione. Forse possono tornare tempi propizi per quello che Eligio Resta ha chiamato un “diritto fraterno”.
Queste non sono dichiarazioni di buoni propositi o sentimenti, ma linee direttive lungo le quali si muovono concretissimi interventi a tutela della persona e dei suoi diritti. Se, per fare un solo esempio, si considerano le molte sentenze con le quali diverse corti hanno affrontato il conflitto tra il diritto fondamentale alla salute e il potere di Big Pharma, delle grandi multinazionali farmaceutiche, si coglie una tendenza a far prevalere le ragioni della salute su quelle del profitto con caratteristiche davvero globali, visto che si va dalle corti costituzionali di Sudafrica e India alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Quest’ultima, il 13 giugno, ha pronunciato una sentenza che pone limiti alla brevettabilità del genoma, con diverse specificazioni, ma sostanzialmente accogliendo le sollecitazioni di chi voleva infrangere il monopolio di una società, Myriad Genetics, per quanto riguardava i test riguardanti il cancro al seno. E, in più di una decisione, la prevalenza accordata ai diritti fondamentali è strettamente collegata con la considerazione come beni comuni dei mezzi direttamente necessari per la loro attuazione.
Nel mondo globale, dunque, si sprigiona oggi una forza dei diritti che si manifesta nei luoghi più vari e ad opera di una molteplicità di soggetti. Si affiancano, e talora si sostengono reciprocamente, movimenti popolari e interventi delle corti, iniziative legislative e azioni di gruppi sociali organizzati. Qui la politica deve fare le sue prove, pena la sua crescente marginalizzazione. Dobbiamo ricordarlo oggi, perché si avvicinano le elezioni europee e la delegittimazione dell’Unione, dovuta alla sua totale identificazione con la logica dei “sacrifici”, può essere arrestata solo se si ricorda che esiste un ordine europeo nel quale, con lo stesso valore giuridico dei trattati, esiste una Carta dei diritti fondamentali.
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La politologa fa parte del Comitato per le riforme: non sono intransigente, ma non potrei tollerare una sfida alla Cassazione.
La Repubblica, 13 luglio 2013
Si è trovata d’accordo con la decisione della sua collega?
«Ci siamo parlate e scambiate delle mail. Sin dall’inizio la Carlassare aveva mostrato delle insicurezze e delle tensioni circa il nostro lavoro. Che in parte vivo anche io. Però penso che andarsene adesso significhi lasciare maggiori spazi e margini di manovra a chi nel comitato ha delle visioni diverse dalla nostra».
Quindi lei per ora resiste...«Mi faccio questa domanda: lasciare il campo oppure presidiarlo? Non è il momento dell’intransigenza, almeno per me. Nonostante viva un tumulto interiore, in mezzo a due fuochi: i miei principi da una parte, il dovere di difenderli dall’altro».
Il gesto della Carlassare ha più che altro un valore simbolico. Lei dice: “I saggi sono frutto di questa maggioranza. E io in questa maggioranza non voglio più starci”. Cosa ne pensa?«Vivo la stessa sofferenza. Mi sento un’anima in pena. C’è un Pd che non ci aiuta nell’essere coerenti con le nostre idee. Ci rende la vita difficile, non ci dà alcun supporto. È un partito diviso in bande armate, con milizie contrapposte in lotta. Si comporta nel peggior modo possibile. Proprio per questo non dobbiamo lasciare il campo a chi vorrebbe una riforma presidenziale».
Nel vostro gruppo in quanti pensano più o meno le sue, le vostre, stesse cose?«Sa, non mi metto a contare... L’impressione comunque è che ci siano due dialettiche ben definite. Due schieramenti. Uno in difesa del parlamentarismo, che pure può essere migliorato e siamo lì apposta. Un altro, invece, per il semipresidenzialismo. I primi faticano molto, in questo contesto».
Qual è il limite che lei si pone, una linea oltre la quale non si va?«Aspetto di vedere cosa succede con il pronunciamento della Cassazione. Se Berlusconi venisse condannato e se il Pd finisse per salvarlo, allora davvero basta. Sarebbe un atto di sfida ad un altro organo costituzionale senza precedenti».
Intanto il Pd ha presentato un disegno di legge per superare la legge 361 del 1957: sostituendo il principio di ineleggibilità con quello di incompatibilità. Così Berlusconi avrebbe un anno di tempo per decidere cosa fare, se restare senatore o se tenersi le aziende. Come giudica questa iniziativa?«È una forma pilatesca che cerca di mettere insieme tutto e il suo contrario. Che sia il Pd a proporre scappatoie a misura per il potente di turno è assurdo».
Il Caimano, descritto con pochi essenziali parole, e il Pd, giustamente uniti nella tagliente invettiva del grande maestro di diritto.
La Repubblica, 13 luglio 2013
Da vent’anni siamo preda d’una compagnia mercenaria. Se l’è assoldata Berlusco Magnus, monarca assoluto. «Nomina sunt omina» ossia indicano gesta passate e future: nel catalogo medievale nomi malfamati erano indizio ad inquirendum, come la «mala physiognomia»; e la radice «lusco» descrive modi obliqui. Costui divorava mezzo mondo mescendo volgarità garrula, piagnistei, colpi a sorpresa. Sono tanti i trasgressori abituali. Lui configura una specie rara, anzi rarissima, essendosi ingigantito al punto da sfidare autorità e poteri, quasi invulnerabile: falsifica, corrompe, froda, plagia; inter alia, compra giudici; schiva le condanne perdendo tempo finché i delitti s’estinguano, essendosi tagliati i termini; già presidente del consiglio, costituisce fondi neri in paradisi fiscali, simulando passività. Tale l’oggetto del processo dove ha subito due condanne milanesi (tribunale e corte d’appello), passando in giudicato le quali, sarebbe interdetto dai pubblici uffici: la causa pende davanti alla Cassazione; sarà discussa martedì 30 luglio. Alla difesa fanno comodo tempi lunghi, perché parte del reato s’estinguerebbe, ma la Corte era obbligata a prevenire tale evento. Il caso, dunque, sarà deciso sulla base degli atti, come avviene sempre. Qui sta il punto: Sua Maestà rivendica privilegi d’excepta persona; rispetto a lui, non esistono norme; già l’accusa offende un tre volte benedetto dal voto popolare. Non valgono logiche giudiziarie: se i tali fatti siano avvenuti, corrispondano a modelli legali e l’autore debba essere punito; ragionando così i sacrileghi sminuiscono l’Unto. Provocatio ad populum. Ha dello sbalorditivo che in pieno ventunesimo secolo favole simili corrano nell’Europa evoluta. Ottantanove anni fa dei sicari uccidono l’oppositore Giacomo Matteotti: il regime fascista rischia il collasso, sebbene comandi ogni leva; lo sporco affare finisce in un giudizio truccato, chiuso da condanne miti. Mussolini fingeva ossequio alla legge. L’Olonese se la mette sotto i piedi.
A che punto siamo regrediti, lo dicono gli schermi. Uomini del re parlano e gesticolano a gara. Pigliamone uno dal rango ministeriale (e portafoglio, infrastrutture): milita in Comunione e Liberazione, visita la Terrasanta; venera divum Berlusconem. Mercoledì 10 luglio commenta l’accaduto: qualcosa d’orribile, «attentato alla democrazia»; tale essendo l’atto col quale «una parte della magistratura » tenta d’espellere l’uomo più votato dagl’italiani (che io sappia, non esistono decisioni deliberate dall’intero corpo), e via seguitando, più mimica stralunata. E nel merito della causa? Che domanda: è innocente, non potendo non esserlo; verità ontologica, direbbe sant’Anselmo. Nel dialogo evade dai punti pericolosi eruttando suoni vaghi. E fosse respinto il ricorso? Impossibile, ipotesi aberrante, fuori del mondo, intollerabile. In molti casi, però, s’era salvato per il rotto della cuffia, risultando estinti i reati. Colpa dei giudici, imparino il mestiere, poi nega che la voliera d’Arcore contenga colombe e falchi: credono tutti nel Silvius Magnus; o meglio, salmodiano in posa da credenti (sarebbe interessante qualche scorcio dei dialoghi tra collocutori sans gêne). Non era un capolavoro d’arte dialettica. Vi ricorreva la parola «storia», comune ad altre ugole: i Pdl hanno laringi collegate a un cervello collettivo; anche nel drammatico bisbiglio della Pasionaria risuonava lo stesso bisillabo. Qualcuno vuole dal premier una condanna dell’atto eversivo compiuto dalla Corte e lui resiste, gentiluomo equidistante: i Pd ortodossi «rispettano» le scelte giudiziarie, auspicandole tali da non turbare lo sterile idillio governativo; quando poi i partner chiedono tre giorni d’astensione dai lavori parlamentari, segnale polemico alla Cassazione, non è atto onorevole accordarne uno. Nessuno se ne stupisce. L’alambicco genetico fa degli scherzi. Palmiro Togliatti, temprato nel pragmatismo staliniano, aveva idee chiare; e forbito umanista (disputava con Vittorio Gorresio sul gerundio nello Stilnovo), non avrebbe degnato Re Lanterna, al quale i discendenti parlano rispettosi, cappello in mano, ormai cugini d’Arcore. Vedine due. Massimo D’Alema, sibilante uomo d’apparato, implacabile contro i concorrenti; e Luciano Violante, alias Vysinskij, feroce pubblico ministero nei dibattimenti moscoviti 1936-38. Non trascuriamo una componente craxiana: postcomunisti governativi distano poco da Fabrizio Cicchitto; in Sandro Bondi, venuto dal partito-chiesa, persistono invece cromosomi frateschi.
Conteremo i trasmutati dal voto sulla questione se B. fosse eleggibile. No, dicono norme più chiare del sole, ma esistendo accordi sotto banco, i partiti erano concordi nello svuotarle con una lettura da ubriachi, nel senso che l’incapacità colpisca solo i titolari della concessione, ossia Fedele Confalonieri, e l’effettivo padrone resti fuori causa, quando anche s’interessi alla gestione, come esemplarmente avveniva nel caso deciso dalla sentenza Mediaset. Il voto pro B. (in perfetta mala fede) significherebbe: qui comanda lui; non importa che due elettori su tre lo rifiutino; gli oligarchi hanno deciso cospirando nella notte 19-20 aprile perché restasse al Quirinale l’assertore delle «larghe intese», utili solo al pirata. Voto sicuro, secondo gl’informati. Toglieva ogni dubbio un’intervista 20 giugno, dove lo junior neocapogruppo Pd alla Camera afferma che tale sia la norma (rectius, lettura asininofraudolenta d’un testo), e molto applaudito ex adverso, sabato 13 luglio recita un autodafè: il Pd era «giustizialista», «sfrenatamente antiberlusconiano», non lo sarà più; inalbera l’insegna «garantismo » (in semiotica berlusconiana, impunità); annuncia anche una riforma in materia d’intercettazioni. Ha viso ed eloquio imperiosi questo giovane castigamatti del gruppo Pd, paternamente accudito da Pierluigi Bersani (icona e notizie in Wanda Marra, nel «Fatto Quotidiano, 9 luglio). Se i voti gli pesano e vuol perderne, l’infelice partito se lo tenga caro.
Il lungo tradimento della democrazia e della decenza perpetrato dalla sinistra che non c'è.
Il manifesto, 13 luglio 2013
L'unica legge che c'è è la Frattini. Grazie alla quale il Cav resta il «dominus» di Mediaset
Giustamente, come in ogni legislatura da vent'anni, il centrosinistra si prepara a non intervenire sul conflitto di interessi. E per farlo bene, anzi per non farlo, presenta una proposta di legge che non potrà, o non vorrà, approvare.
Ma gli anni passano e questa volta non ci lasciano neanche la suspense. Avremmo potuto dare oggi la notizia dell'iniziativa legislativa del Pd, preparandoci tra qualche mese o qualche anno a notare che era rimasta senza seguito. Invece dobbiamo fare tutto assieme, visto che anche il presentatore del nuovo disegno di legge, il senatore già vicedirettore del Corriere Massimo Mucchetti, di fronte alla prime polemiche del Pdl garantisce che «non è una legge fatta per Berlusconi» e che «comunque non farebbe mai in tempo a essere approvata».
Un atto di onestà. Del resto fare una legge per bloccare il ventennale gioco sui due tavoli di Berlusconi - politica e comunicazione, ovviamente - essendo al governo con Berlusconi è piuttosto difficile. Walter Veltroni era riuscito a fare (anzi, a non fare) di meglio, visto che nel 2009, reduce dalla sconfitta elettorale e dimessosi da segretario del Pd, presentò una proposta sul conflitto di interessi essendo il Pd all'opposizione e Berlusconi saldamente in maggioranza. La proposta, molto rigorosa, è negli archivi del parlamento, insieme alla lunga storia delle promesse mancate del centrosinistra.
Vicende non sempre limpide, anzi quasi mai, tanto che una volta a Romano Prodi scappò detto che sul conflitto di interessi non si riusciva a muovere foglia perché «si fanno volutamente delle manfrine». Ce l'aveva, probabilmente, proprio con Veltroni, le cui prove d'intesa con Berlusconi a cavallo tra il 2007 e il 2008 (ricordate, c'è una famosa foto dei due che si stringono la mano, mentre a palazzo Chigi c'era Prodi che arrancava) bloccò l'ultimo tentativo del Pd di approvare una legge «all'americana». Niente di rivoluzionario, tant'è che quando fu approvata in commissione affari costituzionali - era conosciuta, all'epoca, come legge Violante - i berlusconiani non votarono contro. Eppure in aula non arrivò mai.
Destino condiviso con almeno altre due proposte di legge del centrosinistra, che del conflitto di interessi in questi anni ha molto parlato. In genere per chiedere scusa, non lo faremo più, abbiamo sbagliato, ma alla prossima legislatura... L'hanno detto un po' tutti, D'Alema, Prodi, Veltroni. Qualche volta si sono dati la colpa reciprocamente: abbiamo visto Prodi contro Veltroni, non può mancare Veltroni che accusa D'Alema: «Quando c'era la bicamerale tutto era sospeso...». Si riferiva, l'ex sindaco di Roma, al niente di fatto numero due, quello del 1996-2001, quando al governo c'era l'Ulivo e a scrivere le regole del conflitto di interessi fu chiamato Franco Frattini. Anche allora la legge fu approvata alla camera ma restò acquattata al senato fino alla fine della legislatura. Il fallimento numero uno data 1995, governo Dini, maggioranza di centrosinistra uscita scottata dalla vittoria elettorale di Berlusconi l'anno prima. La strada scelta fu quella del trust «cieco», si partì allora dal senato ma il risultato fu identico: parlamento sciolto prima che la camera potesse approvare definitivamente la legge.
E dunque l'unica che abbiamo è la legge Frattini (che oggi è un «saggio» della commissione per le riforme). Fatta in casa dal centrodestra, contiene regole tanto stringenti da aver permesso a Silvio Berlusconi di continuare - lo ha scritto la corte d'appello nel processo Mediaset - a essere il «dominus indiscusso» delle sue aziende. Ha dovuto, però, lasciare la presidenza del Milan.
«Come costituzionalista sono sconvolta, si è oltrepassato ogni limite. La sospensione era in realtà un’intimidazione bella e buona verso la Cassazione».
La Repubblica, 12 luglio 2013
«Siamo alla disfatta morale, per favore lo scriva» dice Lorenza Carlassare, giurista e costituzionalista. Faceva parte dei 35 saggi per le riforme, ma dopo il blocco del Parlamento voluto dal Pdl ha deciso di dimettersi. Lo ha fatto inviando una lettera al ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello, poi pubblicata sul sito di Libertà e Giustizia.
Professoressa, come mai questa decisione?
«Voglio fare una premessa: nella commissione mi sono trovata bene, anche con Quagliariello i rapporti erano e sono ottimi. Però qualcuno doveva pur fare qualcosa. Certe cose non succedono nemmeno in Africa, non so se ci rendiamo conto... ».
Quagliariello le ha risposto con un’altra lettera in cui spiega che è “prassi consolidata delle Camere deliberare una breve sospensione dei propri lavori per consentire ai parlamentari di un gruppo di partecipare ad attività di particolare rilievo”.
«Ci ho parlato con il ministro, era dispiaciuto per la mia scelta. Ma come costituzionalista sono sconvolta, si è oltrepassato ogni limite. La sospensione era in realtà un’intimidazione bella e buona verso la Cassazione. Bastava ascoltare le parole di Daniela Santanché mercoledì mattina. Certe
regole devono necessariamente restare ben salde in questo Paese. Non potevo e non posso tacere di fronte a un atto di questo tipo. Sono sempre stata libera di poter dire come la pensavo nel corso della mia vita, faccio lo stesso anche adesso».
Dal punto di vista tecnico, da giurista, qual è stata la regola infranta?
«Si è infranto nel suo insieme lo spirito costituzionale. La maggioranza ha mostrato un’assoluta estraneità ai valori dello Stato di diritto, così pure il disprezzo per il costituzionalismo liberale e i suoi più elementari principi. Il bello è che poi si dicono tutti liberali».
I suoi colleghi della commissione invece come hanno commentato gli ultimi fatti?
«Non li ho sentiti. Ma noi siamo comunque un gruppo di persone messe lì a lavorare da questa maggioranza. A me dispiace andarmene. Però proprio perché la commissione è frutto delle larghe intese ho il dovere di manifestare questo dissenso. Soprattutto non comprendo il Pd: qualsiasi cosa gli chieda il Pdl loro la fanno, ma è mai possibile?».
Quindi a lei non piace questa maggioranza?
«Sono sempre stata convinta che questo governo non dovesse neanche nascere. Lo dico anche da un punto di vista politico-costituzionale, perché il percorso che ha condotto alla sua formazione mi è sempre sembrato - diciamo così - perlomeno dubbio».
Le sue dimissioni sono legate anche al fatto che si stesse discutendo al vostro interno del presidenzialismo?
«Assolutamente no e voglio che sia chiaro. È vero che quando mi fu proposto di far parte del comitato ero assai perplessa e indecisa se accettare o meno. Ma poi sul campo mi sono trovata molto bene. L’orientamento prevalente non era quello di una modifica in senso presidenziale».
E a che punto siete, anzi eravate, arrivati?
«C’era un accordo su come migliorare il funzionamento del sistema parlamentare. Ad esempio dando al premier la possibilità di revoca dei ministri, una sola Camera politica e il Senato organo territoriale. Quindi migliorare il sistema, ma senza andare verso il presidenzialismo».