Truffava il fisco e i suoi stessi sodali per formare e accrescere fondi neri da usare come sappiamo: a comprare voti nel Parlamento e nel paese E’ così uno statista all’italiana? Lo pensano evidentemente quelli che si danno da fare per garantirgli la "agibilità politica"che agli altri colpevoli non è concessa.
La Repubblica, 30 agosto 2013
Qui sta la “specialità” di Berlusconi. Che invece di spiegare agli italiani come tutto questo sia potuto succedere, ieri ha parlato di “sentenza allucinante e fondata sul nulla”, nonostante tre gradi di giudizio abbiano confermato il meccanismo criminale che lo ha visto per anni dominus indiscusso, mentre frodava fisco, azienda e azionisti di minoranza, oltre agli italiani cui aveva raccontato la favola del libero mercato. Ora il quadro è chiaro e soprattutto è definitivo. La politica, ovviamente, non c’entra nulla, trattandosi di una truffa perpetrata a lungo, poi svelata, quindi provata e infine sanzionata secondo il codice penale. Ieri affacciandosi dalle sue televisioni Berlusconi ha detto che ogni tentativo di eliminarlo attraverso la sentenza sarebbe “una ferita per la democrazia”.
Ma il leader del Pdl dovrebbe rendersi conto, leggendo le motivazioni, che lui solo è l’autore della sua sventura, fabbricata con le sue stesse mani nei giorni dell’onnipotenza, inseguendo un potere improprio perché il potere legittimo non gli bastava.Applicare la legge, perseguire i reati, pronunciare le sentenze ed eseguire le condanne fa parte in Occidente del normale funzionamento della democrazia che riconosce la separazione dei poteri e la loro libera autonomia. La vera “ferita” è una sola, l’eccezione al diritto e all’uguaglianza in nome della forza, del ricatto, della casta. O della paura.
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| Staino, l'Unità |
Diritti civili e dignità della persona umana, progressi compiuti di ieri e doveri e speranze per domani: così parla uno statista. Altrove.
Il Fatto quotidiano, 20 agosto 2013
Il discorso di Obama era particolarmente atteso. Pur essendo il primo presidente nero della storia Usa, Obama non ha mai parlato volentieri della questione della “race”. In sole due occasioni il presidente si è lasciato andare. La prima volta è stata nel 2008, quando l’allora candidato alla Casa Bianca rispose alle polemiche sulla sua appartenenza alla chiesa del reverendo Jeremiah Wright. L’altra occasione è arrivata il mese scorso, dopo la sentenza che ha sollevato da ogni accusa l’assassino di Trayvon Martin. “Ci sono pochi afro-americani in questo Paese, me compreso, che non sono stati seguiti dai commessi mentre facevano shopping in un grande magazzino”, ha detto Obama per riassumere il senso di frustrazione di molti neri.
Per il resto, il presidente ha sempre preferito collocare la battaglia per i diritti dei neri in un contesto generale, che comprende tutti i gruppi che in qualche modo soffrono di discriminazioni: i neri, ma anche gli ispanici, gli omosessuali, le donne. “Il mio lavoro, come presidente, è quello di favorire politiche che creino opportunità per tutti”, ha spiegato lo scorso maggio ai laureandi del Morehouse College, dove si diplomò Martin Luther King. L’apparente distacco di Obama ha tra l’altro generato particolare delusione, in certi casi anche manifesta insofferenza, proprio nella leadership politica afro-americana, che ha accusato Obama, cresciuto alle Hawaii e in Indonesia, di non sentire davvero un senso di vicinanza ideale con leader come Martin Luther King, e di essere troppo prudente sulle questioni della discriminazione razziale. “E’ il presidente di tutti gli americani, non soltanto di un gruppo”, ha detto la sua amica e consulente alla Casa Bianca, Valerie Jarrett. Ma intanto, in questi anni, la delusione di molti neri d’America è cresciuta nei confronti di un presidente nel quale avevano riposto enormi speranze. Oggi soltanto il 25 per cento degli afro-americani pensa che la sua vita sia cambiata in meglio con l’elezione di Obama.
Dal Lincoln Memorial, cinquant’anni dopo Martin Luther King, Obama ha dunque parlato soprattutto a questa America, prima entusiasta, poi perplessa e delusa dal proprio presidente. Ha riconosciuto i meriti della generazione che lo ha preceduto nella lotta per l’eguaglianza – “E’ perché hanno marciato”, ha declamato più volte, con un tono che ha ricordato quello del reverendo King – ma ha anche ricordato che la battaglia per l’eguaglianza non è completa e che “l’arco dell’universo morale può piegarsi verso la giustizia, ma non si piega da solo”. Cercando di inquadrare il problema afro-americano nel quadro più vasto della recessione economica, Obama ha poi ricordato che l’obiettivo della marcia del 1963, oltre alla tolleranza razziale, era “quello dell’eguaglianza economica”. E da questo punto di vista, 50 anni dopo, i risultati non sono confortanti. La disoccupazione tra i neri è al 12,6 per cento, il doppio di quella degli americani bianchi. Il reddito medio di una famiglia nera è circa il 60 per cento di quello di una famiglia bianca – e la differenza di reddito è aumentata dal 2009. Circa un nero su tre vive sotto il livello di povertà.
Obama ha detto di aver chiesto al Congresso maggiori fondi per le infrastrutture, l’educazione, la ricerca, “per colmare le differenze di reddito” e ha spiegato, per far rivivere la sua agenda di riforme in gran parte bloccata al Congresso, che gli Stati Uniti si trovano oggi di fronte, proprio come nel 1963, a una scelta storica tra stallo e progresso: “Possiamo continuare per la strada attuale, in cui la nostra grande democrazia è frenata e i nostri figli devono accettare un’esistenza di minori aspettative – ha detto Obama -. O possiamo avere il coraggio di cambiare. E la Marcia su Washington ci insegna che non siamo intrappolati negli errori della Storia, e che siamo noi stessi i padroni del nostro destino. Ma la promessa di questa nazione può essere mantenuta soltanto quando lavoriamo insieme”. Un altro passaggio che è sembrato un riferimento esplicito all’opposizione decisa che l’agenda interna di Obama incontra al Congresso ad opera dei repubblicani.
La celebrazione dei cinquant’anni dal discorso di Martin Luther King è arrivata in un momento particolare per i neri d’America. Oltre all’esito del processo per l’assassinio di Trayvon Martin, a turbare e alimentare la sensazione di un Paese in cui la giustizia non è ancora uguale per tutti è arrivata anche la sentenza della Corte Suprema che ha cancellato una parte importante del Voting Rights Act – quella che garantiva la partecipazione elettorale di minoranze e giovani . Proprio a questa sentenza hanno fatto riferimento i due ex-presidenti, Jimmy Carter e Bill Clinton – particolarmente duro è stato proprio Clinton, che ha detto che “una grande democrazia non rende più difficile votare che comprare una pistola”. Della decisione della Corte Suprema ha parlato anche Obama, in un passaggio di particolare durezza per un presidente di solito prudente. La sentenza, ha detto Obama, mostra che “per garantire i successi che il Paese ha raggiunto ci vuole continua vigilanza e non compiacenza”.
Il senso della giornata è stato comunque riassunto da uno dei primi oratori, John Lewis, il deputato oggi 73enne che è l’unico ancora vivente tra quelli che parlarono nella Marcia del 1963. Allora, Lewis intervenne a nome dello “Student Nonviolent Coordinating Committee”. Oggi è uno degli ultimi e più rispettati esponenti del movimento per i diritti civili. “Abbiamo fatto tanta strada in questo Paese negli ultimi 50 anni – ha detto Lewis – ma abbiamo tanta strada ancora da fare prima di realizzare il sogno di Martin Luther King”.
Propensione all’intrigo da parte del padrone, propensione alla subordinazione da parte dei servi: furbi alcuni di questi, sciocchi gli altri. Noi, intanto, paghiamo.
La Repubblica, 29 agosto 2013
Chi sia l’Olonese, lo sapevamo: falsario, circonventore d’inermi, predone fraudolento, spietato nell’arte d’inquinare le anime, estorsore, ma da 7 anni il Colle predicava un regime consortile; il Pd vi pareva incline; e sconta questo penchant mangiandosi una comoda vittoria elettorale contro la mummia pirata, il cui terzo malgoverno era rovinosamente fallito. Non che i due precedenti fossero meglio, vende fumo da 19 anni. Due elettori su tre non lo vogliono più tra i piedi, ma dalle urne esce un Parlamento a tre teste: in lieve maggioranza relativa nella Camera alta, il Pdl deve pigliarsi un socio; e non tenta accordi seri con le Cinquestelle. Qua e là resta l’idea d’un matrimonio innaturale, affievolita. Non ci sarà più lo sponsor pronubo: compiuti i sette anni, l’Inquilino ormai sloggia; l’ipotesi d’un secondo settennio, lanciata dal campo d’Arcore, è talmente assurda che l’interessato obietta d’essere troppo vecchio (88 anni e alla fine sarebbero 95, età patriarcale). Ma l’intrigo è uno dei pochi caratteri che l’Italia 2013 abbia ereditato dai fasti rinascimentali (vedi Ludovico Sforza, detto il Moro). Venerdì 19 aprile il candidato Pd al Quirinale era Romano Prodi, forte dei numeri, e sarebbe débâcle berlusconiana, ma 101 franchi tiratori l’affossano; l’indomani l’uscente rientra al Quirinale, e sull’asse dei Letta zio-nipote, uno là, uno qui, prendono subito corpo «larghe intese»: che al grosso degli elettori ripugnino, è irrilevante. Inutile dire chi abbia vinto. Va in scena il capolavoro delle frodi: avendo le marionette al governo, B. tutela interessi poco rispettabili; scarica scelte impopolari sullo sventurato consorte (Imu e Iva); accumula risorse elettorali fingendosi campione dei contribuenti; e un pubblico intronato beve.
L’amaca
di Michele Serra
Il socialista (cose da pazzi) Brunetta annuncia gongolante che non si pagherà l’Imu sulla prima casa, qualunque reddito si abbia. Non può non sapere che niente è più iniquo che trattare allo stesso modo i poveri e i ricchi, ma non sembra importargliene più di tanto: l’importante era far pagare il prezzo politico della campagna elettorale del suo capo a tutto il Paese.
Perché mai uno come me (e come tanti italiani che l’Imu volevano e potevano pagarla) debba essere esentato da quella tassa allo stesso modo del pensionato o dell’operaio monoreddito, non si capisce. Neppure si capisce che genere di copertura, e a spese di chi, sarà escogitata per coprire il buco, sempre per pagare la campagna elettorale di Berlusconi. Una politica onesta dovrebbe dire ai cittadini che abolire una tassa (specie una tassa come l’Imu) pesa sulle finanze degli enti locali, costringendo a tagliare i servizi sociali. E dunque penalizzando i deboli. La demagogia disonesta si guarda bene dal fare questo genere di conti in pubblico. Strilla “vi levo l’Imu” per avere gli applausi e i voti degli sprovveduti. Che poi si domandano furibondi perché non passa più l’autobus, o perché aumentano i ticket sui farmaci.
Una tassa che allunga la vita
di Micaela Bongi
Vince chi se la cava meglio con twitter: «Missione compiuta, Imu cancellata», digita svelto Angelino Alfano dal consiglio dei ministri che volge al termine. «Parola Imu scomparirà dal vocabolario del futuro», insiste il vicepremier per la gioia di Silvio Berlusconi, assicurando che per finanziare l'abolizione dell'Imu non aumenteranno altre tasse.
In effetti Alfano non mente: la parola Imu scomparirà. Sarà sostituita da Taser (la cosiddetta service tax). Non «altre tasse» che aumentano, ma una nuova tassa, federale. Slogan che mette d'accordo tutti: «Nel 2013 l'Imu non sarà pagata». Da nessuno. Ma vanno ancora trovate le coperture per il saldo di dicembre 2013, da indicare nel decreto che accompagnerà la legge di stabilità (c'è tempo fino al 15 ottobre) e va articolato ciò che Enrico Letta preferisce chiamare «superamento» dell'Imu piuttosto che abolizione: partirà ora il confronto con i comuni.
Ma adesso «guardiamo al futuro con più fiducia», è soddisfatto il presidente del consiglio, che grazie al gioco di prestigio e alla ormai consueta tattica del rinvio guadagna per il governo da lui presieduto almeno qualche mese di vita. Anzi, «il governo non ha più scadenza», assicura. Sarà eventualmente Berlusconi - in base all'evoluzione delle sue vicende giudiziarie e all'andamento delle sue aziende - a decidere di fissarne un'altra. Per ora il Pdl in coro è autorizzato anche a strapazzare i generosi alleati: «Bravo Angelino. Sconfitti i tassofili. Vittoria Pdl», cinguetta Maurizio Gasparri. Più generoso Silvio Berlusconi, che alla cancellazione dell'Imu aveva appeso la vita delle larghe intese ritenendola un «punto cardinale», non solo «pratico» ma anche «simbolico»: «Il Popolo della Libertà ha rispettato il patto con i suoi elettori e il presidente Letta ha rispettato le intese con il Pdl», dichiara in una lunga nota che arriva in tempo per la conferenza stampa al termine del consiglio dei ministri e nella quale annuncia un futuro di prosperità, con redditi più alti, consumi che subito ripartiranno e nuovi posti di lavoro.
Ma se sul «punto pratico» si preferisce per ora non approfondire (Renato Brunetta assicura invece che anche dalla service tax saranno abolite prime case, terreni agricoli e prefabbricati, ma non dovrebbe essere così), su quello «simbolico» sottolineato dallo stesso Cavaliere un risultato il leader del Pdl lo ha già ottenuto: la service tax, spiega Letta, riguarderà appunto i servizi e non il concetto di «proprietà dell'abitazione». Il premier comunque assicura anche che alla fine si arriverà a «una diminuzione del carico fiscale sulle famiglie».
«Apprezziamo che la service tax sia introdotta a partire dal 2014, potendo così disporre del tempo necessario al miglior decollo di questo nuovo tributo», commenta Piero Fassino, sindaco di Torino e presidente Anci.
Nella conferenza stampa a palazzo Chigi una giornalista chiede a Alfano se dunque si tratti di una vittoria del Pdl. Ma è Letta a rispondere stoppando il suo vice: «E' una vittoria del governo». «E' una vittoria di Berlusconi», dicono invece in coro i ministri pidiellini, sperando così anche di tranquillizzare l'ex premier. Ma ora tocca «alla battaglia più importante, quella per la democrazia», rilancia subito Daniela Santanchè riferendosi alla questione della decadenza di Berlusconi da senatore.
Di fonte a tanto orgoglio pidiellino, il Pd si concentra soprattutto sugli altri provvedimenti contenuti nel decreto varato ieri: il rifinanziamento, con 500 milioni, della cassaintegrazione in deroga, e circa 700 milioni di euro in 5 anni favore di altri 6.500 esodati, quelli indicati come «licenziamenti individuali». Entusiasmi raffreddati dalla Cgil, che ritiene le risorse stanziate per la Cig in deroga sufficienti appena per l'emergenza ma non per risolvere il problema, così come per gli esodati: «Fondi scarsi e poco significativi». E durante il cdm alcuni ministri del Pd avevano chiesto di allargare la platea degli esodati su cui intervenire.
Caustico, poi, Massimo D'Alema, ieri alla festa del Pd di Firenze, chez Matteo Renzi: «Fa piacere che si sia trovata una soluzione alla questione dell'Imu, adesso speriamo che il governo possa dedicarsi più intensamente a questioni più importanti, che sono quelle della crescita e dell'occupazione». E aggiunge, rompendo le uova nel paniere: «E' stata trovata una soluzione equilibrata, nel senso che è stata cancellata la prima rata dell'Imu, poi subentrerà un'altra tassazione, affidata ai comuni, come è giusto, e che dovrà essere applicata, secondo me, non ai cittadini meno abbienti».
Il presidente del consiglio invece ingaggia anche una polemica a distanza con Mario Monti. Il Professore lamenta il cedimento di Letta, Saccomanni e del Pd al Pdl e a Berlusconi. Ribatte il premier: «Difendo questa riforma per il merito, non per le intese politiche». Diverse le parole pronunciate in consiglio dei ministri: «Se superiamo questo scoglio avremo la strada indiscesa».
Drammatica la situazione del Sud Mediterraneo, l’aggrovigliarsi dei suoi problemi: «se così vasto è il nodo cui si pensa in America ed Europa, non è con un mortifero bel gesto contro Assad che lo si scioglierà».
La Repubblica, 28 agosto 2013
Ecco il dilemma che sta di fronte agli Occidentali, nel momento in cui alzano la voce contro Damasco, denunciano l’»oscenità morale» delle armi chimiche contro cittadini inermi (le parole sono di John Kerry, segretario di Stato), e affilano i coltelli nella convinzione che un intervento punitivo sia a questo punto necessario, dunque legittimo. Il dilemma esiste perché sulle conseguenze di un’offensiva nessuno pare avere idee chiare. Neppure sull’obiettivo c’è per la verità chiarezza, il che inquieta ancor più: in nome di quale disegno aggredire Assad? Ed esistono prove credibili che quest’ultimo abbia usato i gas, oppure Kerry ha dedotto le sue certezze consultando, come ammesso lunedì, i social network?
È quanto fa capire l’ex capo di Stato maggiore Usa, Jack Keane, che da mesi preconizza più decisivi interventi ma che li ritiene improbabili. Intervistato dalla Bbc, dopo le parole di Kerry, il generale ha specificato che un semplice segnale castigatore, un colpo di avvertimento, lascerebbe le cose come stanno. «Il giorno dopo Assad ricomincerà i bombardamenti sulle popolazioni civili, con armi chimiche o senza. I rapporti di forza fra regime e ribelli nella sostanza non muteranno». La coalizione dei volonterosi che Obama sta provando a raggruppare avrà detto la sua, ma l'ultima parola molto probabilmente non sarà lei ad averla e il controllo su quel che accadrà dopo neppure. Lo stesso Keane ha detto in passato che la Siria di Assad non è la Libia di Gheddafi. Dispone di armi più sofisticate, le sue truppe di terra e di aria combattono i ribelli con notevole successo da due anni. E ha alleati assai potenti: l’Iran, la Russia, e dietro le quinte la Cina che come sempre sta a guardare, gigante che aspetta infinitamente paziente che l’America si rompa un osso dopo l’altro.
Neppure il paragone con il Kosovo è pertinente. È vero, siamo davanti a un disastro umanitario la cui oscenità è evidente. Ma l’osceno avviene per sua natura «fuori scena »: non è visibile come lo fu in Kosovo, e la sicurezza esibita da Kerry è quantomeno labile, per ora. Gli ispettori dell’Onu sono lì per verificare, come a suo tempo tentarono di verificare in Iraq l’esistenza di armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein. A un certo punto l’America decise di entrare in guerra comunque, e gli ispettori vennero scaricati senza essere ascoltati. Hans Blix, che guidava il team dell’Onu, non cessa di evocare con amarezza la sordità dell’amministrazione Bush. Si parla di un’operazione simile al Kosovo perché cominciò allora la pratica della coalizione dei volonterosi, architettata sotto la guida di Washington per aggirare il Consiglio di sicurezza Onu e quindi Mosca. Ma Milosevic era già vinto quando scattò l’offensiva, mentre Assad no.
Sabato, sul New York Times,è intervenuto con un articolo singolare lo studioso di storia militare Edward Luttwak, a suo tempo difensore delle guerre antiterroristiche. Oggi scrive che meglio stare a guardare la Siria da fuori, aspettando che i contendenti si scannino a vicenda. Meglio lo stallo, prolungato ma tenuto in stato di continua incandescenza: aiutando massicciamente i ribelli anti-Assad, ma smettendo l’aiuto non appena questi diventino troppo forti e stiano per vincere. Il ragionamento si finge astuto, prudente. In realtà è perverso, e palesemente sprovvisto di ambizione politica. «L’America perde in ambedue i casi», conclude Luttwak. Nessun occidentale, e men che meno Parigi e Londra, ha in questa vicenda ambizioni politiche, oltre che intellegibili obiettivi. E quanto bluffano poi Parigi e Londra? Sarebbero pronte a intervenire senza America e a fianco di Israele, ripetendo la rovinosa spedizione contro Nasser a Suez, che Eisenhower provvidenzialmente bloccò nel ’56?
Questo significa che la Siria è un vespaio prima ancora che scatti l’eventuale attacco euro-americano. La questione morale apertasi con l’uso del sarin è innegabile, ma la catastrofe umanitaria non la si può combattere come la si è combattuta in Kossovo, o peggio in Iraq. E non solo perché mancano prove inoppugnabili che attestino le responsabilità di Assad, non solo perché i più forti, tra i ribelli, sono al momento le milizie di Al Qaeda, e la scelta è tra la peste e il colera. Solo forze di interposizione Onu potrebbero proteggere i civili siriani da nuovi attacchi (sferrati da Assad o dai ribelli) e agire in nome del divieto di ricorrere a armi chimiche. La coalizione dei volonterosi è incompatibile con la via dell’Onu, e si propone altro.
Cosa, precisamente? Forse per questo il ministro Bonino si mostra dubbiosa: «L'Italia non prenderebbe parte a soluzioni militari al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu». L’analista Yagil Levy, studioso del peso esercitato dai militari nell’edificazione dello Stato israeliano, enumera le tre ragioni per cui la questione morale non può esser risolta da interventi militari (Haaretz 26-8). In primo luogo perché farebbe un gran numero di vittime e distruggerebbe le infrastrutture del Paese, come già accaduto in Kossovo e Libia. In secondo luogo perché non placherebbe la guerra fra regime e ribelli ma la acuirebbe. Terzo motivo, cruciale: l’intervento tenderebbe a «favorire un cambio di regime artificiale». Dipendente da aiuti esterni, il futuro potere sarebbe senza radici.
La storia delle guerre negli ultimi 14 anni (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia) conferma le inquietudini di Yagil Levy. Nessuna di esse ha creato nuovi ordini stabili, tutte sono finite in pantani diabolicamente gelatinosi, nei quali non si distinguono le persone fidate dalle inaffidabili. I costi in termini di vite umane, una volta sconfitto Gheddafi, sono già oggi enormi: i morti del dopo-guerra sono quasi equivalenti alla metà dei caduti prima dell’uccisione del rais.
Fanno bene le democrazie, fanno bene Parigi e Londra, a indignarsi per l’uso eventuale di gas. Ma l’indignazione morale suona falsa, quando non calcola le conseguenze delle proprie azioni e neanche sa bene chi sia il colpevole. Quando il passato non insegna nulla, e cadono nell’oblio le false prove date da Colin Powell contro Saddam, e sono senza peso le sconfitte cui sono andate incontro le guerre umanitarie lungo gli anni.
Nell’intervista di Liana Milella l’insigne costituzionalista ribadisce le ragioni di una “presa d’atto” ed esprime un amaro pessimismo sull'esito delle manovre che impudenti furbacchioni stanno intessendo per calpestare le regole elementari della convivenza civile. La Repubblica, 27 agosto 2013
- I no - «chiari e tondi» - si sarebbero dovuti dire nella fin troppo lunga stagione delle leggi ad personam. Adesso, purtroppo, «rischia di essere tardi». A farne le spese saranno le istituzioni. È pessimista, il professor Gustavo Zagrebelsky, sull’affaire Berlusconi. Giudica «umiliante» che, per un leader di partito, si discuta di carcere, di domiciliari, di rieducazione sociale. E a chi sbandiera la tesi della sua agibilità politica, Zagrebelsky contrappone la necessità, da tanti avvertita, che «la politica sia protetta dall’illegalità». Per questo il Senato dovrebbe «prendere atto» della condanna del Cavaliere e rispettare la legge Severino. Il ricorso alla Consulta «è possibile» ma, ironizza il professore, cosa potrebbe negare un Parlamento che ha consentito di far passare la tesi di Ruby nipote di Mubarak? Infine la grazia: Zagrebelsky ne ragiona con la freddezza di chi ci vede «un nuovo elemento divisivo» che potrebbe solo «intaccare» la figura del capo dello Stato.
Da un mese il dibattito politico è paralizzato. Berlusconi e il Pdl, perfino con il ministro dell’Interno Alfano, chiedono una cosa sola: cancellare quella condanna. Quanto è anomala e pericolosa la situazione che si vive in Italia?
«Una cosa è da dire, innanzitutto: era tutto prevedibile. Per anni si è creduto di tenere sotto controllo un conflitto che, alla fine, si dimostra non componibile con un compromesso. Non è componibile, perché sono in gioco non interessi politici tra cui può esserci mediazione, ma principi ultimi che o si rispettano o si violano. Nel momento in cui è stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna, è venuto il momento del redde rationem: o la forza della legge o certe aspettative della politica. Per anni si è andati avanti con stratagemmi più o meno scaltri: rinvii, leggine personali mascherate da generali, impedimenti e furbizie varie, tollerate colpevolmente a tutti i livelli, politici e istituzionali, nella vana speranza che il conflitto si potesse controllare politicamente e che, alla fine, si spegnesse da sé. Se una lezione è da trarre, a futura memoria, è che i piccoli cedimenti iniziali sono destinati ad aprire la strada ad altri, e che, cedimento su cedimento, si forma una massa che non si riesce più a fermare. Il rigore istituzionale implica il dovere e la forza di dire dei “no” chiari e tondi, soprattutto all’inizio, quando è più facile».
Il neologismo “agibilità politica” può diventare una categoria per giustificare un trattamento speciale per Berlusconi? O la legge non sarebbe più, a quel punto, “uguale per tutti”?
«Effettivamente, che il capo d’un partito che raccoglie molti voti e che ha governato per molti anni sia in carcere o, più facilmente, “ai domiciliari” o, peggio, lo si debba rieducare con opere di bene “ai servizi sociali”, è una prospettiva umiliante: non (solo) per lui, ma (soprattutto) per tutti noi. S’invoca il diritto dei tanti elettori che l’hanno votato di poter sperare ancora nell’attività politica del loro leader. Ciò è comprensibile, ma non può essere senza limiti. Ritorniamo al rapporto legge-politica. Siamo in una democrazia, ma anche in uno Stato di diritto. La “agibilità politica” che la democrazia richiede a favore di tutti non cede forse di fronte all’esigenza dello Stato di diritto che la politica non sia o non cada nelle mani di chi è stato riconosciuto colpevole di gravi reati contro la cosa pubblica? La politica, più di ogni altra attività sociale, non deve essere protetta dall’illegalità? Dal punto di vista dell’agibilità politica, un condannato per gravi reati è “meno uguale” di chi non lo è stato. L’art. 48, terzo comma, della Costituzione prevede infatti la più classica delle limitazioni alla “agibilità politica”, cioè l’ineleggibilità per effetto di una sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge».
Questo suo ultimo argomento, però, pare a molti, formalistico: Berlusconi, per i suoi sostenitori, non è uno come tanti altri, è un unicum e quindi merita una particolare considerazione.
«Sì, si dice così. L’uguaglianza di fronte alla legge varrebbe per gli uomini comuni, come siamo tutti noi. Lui, però, è un megantropo. Applicargli la legge comune sarebbe come chiudere ipocritamente gli occhi di fronte alla realtà. Ma, dicendo così, si finisce per denunciare una stortura ancor più grave: l’aver lasciato crescere nella democrazia un corpo estraneo: un’aggregazione di potere economico, comunicativo e politico in una sola persona, dove il potere acquisito in un campo serve ad alimentare il potere negli altri campi. Questo è un disequilibrio assai grave, che denominiamo impropriamente “conflitto d’interessi”, mentre dovremmo chiamarlo accumulo d’interessi (e di potere)».
Il Parlamento ha varato la legge contro la corruzione e, al suo interno, il decreto sull’incandidabilità dei condannati fino a due anni. Anche il Pdl ha detto sì. Berlusconi rientra nei casi previsti dalla legge. Lei vede una via d’uscita dalla sua decadenza dal Senato e dalla sua impossibilità a ricandidarsi?
«Il Senato, pacificamente, è chiamato a prendere atto della sentenza e delle sue conseguenze e, per questo, ci sarà un voto. Trattandosi d’una presa d’atto, l’esito dovrebbe essere scontato, non potendo implicare una valutazione nel merito della sentenza di condanna. Però, nessuno può sapere che cosa accadrà. Se ci fosse un rifiuto, si aprirebbe un conflitto costituzionale di grande portata. Di nuovo: politica contro giustizia. Siamo sempre lì».
Il Senato - la giunta per le immunità prima, l’aula in seconda battuta - possono rivolgersi alla Consulta?
«Certo che “possono”! Chi potrebbe impedirglielo? Se, però, “potere” significa “essere lecito”, per rispondere dovrei entrare in argomenti strettamente giuridici. Preferisco non rispondere. Troppe sono le cose dette dai giuristi e troppo diverse tra loro. Crediamo forse che le forze politiche si orienteranno secondo l’argomento migliore, quando una maggioranza ha votato senza battere ciglio che una ragazza di nome Ruby è nipote d’un presidente egiziano? La realtà è che, in queste questioni, ciò che conta non è la forza degli argomenti, ma la forza dei numeri. Agli argomenti dei giuristi ci si appiglia solo come a pretesti. Sarebbe bene che, per l’onorabilità nostra e della nostra disciplina, in questa circostanza ci si astenesse dal fornire, per l’appunto, pretesti. In attesa ditempi migliori per il diritto».
La grazia. Napolitano si è espresso in proposito. Berlusconi deve chiederla ed essa non coprirebbe comunque le pene accessorie. Ma nella situazione penale di Berlusconi - un’altra condanna in primo grado e altri processi in corso - una grazia è possibile? Soprattutto: è eticamente accettab«Quando, nel 2006, la Corte costituzionale ha definito i caratteri del potere di grazia, l’ha sottratto al Governo, poiché il Governo esprime per sua natura orientamenti di parte, mentre la grazia deve prescinderne. Per questo, è stata assegnata al potere esclusivo del Presidente della Repubblica, rappresentante dell’unità nazionale. Ora, a parte le altre questioni, cui lei accenna nella domanda, le pare che in questo caso la grazia sarebbe un atto di unità? Non fomenterebbe, invece, profonde reazioni - come si dice - divisive, che intaccherebbero la figura stessa del Capo dello Stato?».
Una situazione come quella di questi giorni e la prospettiva della crisi di governo farà saltare la scommessa di una nuova legge elettorale. Rischiamo di tornare alle urne con il Porcellum oppure lei vede vie d’uscita?
«Una proposta meritevole d’attenzione c’è: sistema proporzionale con premio di maggioranza dato a chi prevale con una certa percentuale di voti oppure, in mancanza, assegnato con ballottaggio. Le idee non mancano. Ciò che manca è una convergenza d’interessi su una proposta. Se c’è una materia su cui, più che su ogni altra, si giocano gli interessi immediati delle forze politiche, e le ragioni di principio, cioè le visioni di giustizia, sono recessive, è proprio la materia elettorale. Gli interessi non si sommano ma si elidono. Per questo, c’è poco da essere ottimisti. Un’occasione s’è persa quando la Corte costituzionale ha bloccato un referendum per il ritorno alla legge precedente, imperfetta ma certo migliore dell’attuale. Perciò, è assai probabile che si ritorni a votare con la legge attuale, da tutti deprecata per il suo marcato carattere oligarchico, per la possibile abnormità del premio di maggioranza e per l’incoerenza degli esiti, tra Camera e Senato: tre ragioni d’incostituzionalità. Ora, che si possa essere chiamati a votare con una legge che la Corte costituzionale, di passaggio in una sentenza di qualche anno fa, ha bollato come incostituzionale, è una delle non ultime ragioni della malattia che sfianca la democrazia nel nostro Paese».
«Da quasi vent'anni Berlusconi schianta la giustizia sugli scogli dei propri guai giudiziari, e divide il paese. E' giunta l'ora di finirla»
. il manifesto, 25 agosto 2013
È proprio un indecente teatrino, questo dell'agibilità politica di Berlusconi». L'ultima trovata è l'amnistia, per cui abbiamo anche una sponsorizzazione ministeriale che fa riflettere. La legge costituzionale del 1992 riformò l'articolo 79 sull'amnistia e l'indulto, prevedendo una maggioranza di due terzi dei componenti. All'avvio della stagione di tangentopoli fu un forte segnale contrario a clemenze facili e «politiche». Il percorso è impervio. Ma proprio per questo è singolare l'uscita dei ministri Cancellieri e Mauro. Sanno che una simile maggioranza di fatto non esiste nei numeri parlamentari. Sanno che il maggior partito che sostiene l'esecutivo è contrario. Sanno che Letta cerca disperatamente di separare le sorti del governo da quella personale di Berlusconi. Come è possibile allora che sponsorizzino l'amnistia, quasi manifestassero la propria opinione in un seminario di politologi? È un siluro dall'interno? È una presa d'atto che la barca fa acqua? È una captatio benevolentiae a futura memoria? Fra i tanti sintomi di salute precaria di un governo nato in provetta, questo non è da poco.
Ieri su queste pagine Andrea Fabozzi ha sostenuto che l'occasione è da cogliere, per la necessità impellente di ridare condizioni umane alle carceri, e perché - riguardando comunque molti - sarebbe un male minore e fatto alla luce del sole rispetto a strappi più gravi o occulti fatti nel solo nome di Berlusconi. Un'opinione che non condivido. Anzitutto, ridare umanità alle carceri attraverso la sola clemenza è illusorio. Per avere risposte durature è necessaria una strategia integrata che contemperi una tutela incisiva della legalità con adeguate risorse per una vita dignitosa nelle carceri, il recupero, il reinserimento, il contrasto preventivo al bisogno, il rafforzamento degli strumenti di crescita civile, di coesione sociale, di solidarietà. Di una simile strategia nemmeno si parla in queste ore, e mancherebbero le risorse se si volesse metterla in campo. Mentre l'esperienza dimostra che, se manca, gli effetti della clemenza sono effimeri, e il sovraffollamento si riproduce in breve. Una percentuale elevata di chi esce dal carcere vi rientra, e non è certo un caso che tornino dentro gli emarginati e i poveracci piuttosto che i colletti bianchi. L'effetto ultimo è che la clemenza è letta dalla pubblica opinione come debolezza dello stato ed evanescenza della legalità, dagli apparati volti alla repressione dei reati come prova di inutilità del proprio impegno, e da chi esce dal carcere per poi rientrarvi come illusione e inganno. Lo strappo è sostanzialmente inutile, oltre che grave. Vi sono paesi che puntano sul carcere. A quanto si sa, la popolazione carceraria degli Stati uniti supera i due milioni - in proporzione, molte volte quella italiana. La Cina segue a qualche distanza. Ma anche paesi europei, ad esempio la Gran Bretagna, registrano cifre superiori a quelle italiane. C'è un ampio dibattito sull'efficacia di simili strategie. Si discute del giusto rapporto tra repressione carceraria, tutela della legalità, lotta alla povertà, al bisogno, all'ignoranza. Ma non è civile un paese - il nostro - in cui non si valuta affatto un corretto bilanciamento di interessi, e non si mettono in campo politiche mirate a risposte strutturali. E non è di sinistra l'ipotesi che - nell'inerzia complessiva - si giunga a una amnistia berlusconiana. Non basta l'argomento che almeno avremmo un provvedimento in chiave di eguaglianza. Sappiamo tutti che l'amnistia si concederebbe solo perché Berlusconi la pretende, e non per tutte le altre ragioni che potrebbero sostenerla. Nella realtà della politica sarebbe una concessione a lui, un riconoscimento delle sue ragioni, un sostanziale avallo dell'assurda tesi della persecuzione giudiziaria. In questo la gravità dello strappo, non minore degli altri perché ugualmente connotato dall'uso del poteri pubblici per le ragioni di uno. Un'essenza di arbitrio sotto l'apparenza di norma generale e astratta.
La parola "crisi" è diventata l'alibi per proseguire ad infinitum ciò che è, ed è marcio. Per uscirne c'è un passo obbligato: la Costituzione e le forze che la difendono devono affrontare il nodo della legge elettoraleUn appello per una proposta di legge d'iniziativa popolare.
Il manifesto, 24 agosto 2013
La nostra vita politica, come la nostra quotidianità, sono da tempo dominate da un termine, crisi , che ne determina l'auto-rappresentazione simbolica, l'azione politica e ogni prassi di mutamento. Il termine ha perso uno dei significati originari, ossia "stato di tensione verso un nuovo equilibrio" per imporsi solo nell'accezione di "stato di sofferenza" e quindi di negazione di ogni progettazione del futuro. Se viviamo politicamente, dentro e fuori di noi, la crisi come inarrestabile e necessario declino e quindi come impossibile cambiamento, siamo ben dentro quella condizione moderna di cui parla Hannah Arendt, la condizione di de-realizzazione, l'incapacità, cioè, di conoscere e aderire alla vita reale e alla vita delle emozioni legate alla volontà di cambiamento e quindi permanendo in una sorta di assoggettamento al potere presente. Forse a descrivere le ultime vicende italiane possono essere paradossalmente delle considerazioni elaborate nel Cinquecento in un libello, Il discorso sulla servitù volontaria , da un giovane magistrato francese, Etienne de La Boétie: «Colui che vi domina così tanto ha solo due occhi, due mani, un corpo [....]come farebbe ad avere tante mani per colpirvi, se non le prendesse da voi? Ha forse un potere su di voi che non sia il vostro? Oserebbe attaccarvi se voi stessi non foste d'accordo?». Visto che sono parole scritte da un magistrato, la tentazione di attualizzare questo passaggio e vedervi il ritratto anticipato di Berlusconi è grande. Non voglio cedere a questa banalizzante attualizzazione e voglio invece appuntare l'attenzione su questo "voi", su questo soggetto politico collettivo che crea e accresce il potere dell'uno e agisce in sua vece. E' esattamente quello che sta accadendo nelle scelte politiche del Pd da molti anni, ma adesso con un'accelerazione degna di nota poiché sta mostrando una sorta di volontà di perpetuare il potere carismatico dell'Uno anche al di là del suo effettivo potere. Come interpretare diversamente l'intervista di Luciano Violante Corriere della sera (10 agosto), dove delinea gli impegni futuri del governo che al di là degli interventi economici dovrebbe varare una nuova legge elettorale e immediatamente dopo la riforma dell'articolo 138 della Costituzione «poiché la vera stabilità può venire soltanto da una riforma costituzionale». Pensare di legare la nuova legge elettorale e la riforma della Costituzione a questo scenario delle precarie "larghe intese", che riescono a portare avanti solo le compatibilità di bilancio e quelle priorità finanziarie discendenti dall'agenda Monti e dai diktat della Ue e del Fmi, significa non avere della democrazia la stessa idea di chi si professa di sinistra. E soprattutto significa dare una legittimità a farlo a chi in più occasione questa stessa carta Costituzionale ha disprezzato e tacciato di parzialità e di stalinismo. Ma si sa gli italiani hanno la memoria corta e facilmente dimenticano chi li offende, lo aveva già detto Machiavelli a proposito del popolo nei confronti del Principe.
«L’estrema degradazione della politica la cogliamo in questo momento, con la minaccia di far cadere il governo qualora il Pd voti al Senato per la decadenza di Berlusconi. Un passaggio obbligato, una presa d’atto prevista da una legge vengono trasformati in un atto di discrezionalità politica. Una volta di più la legalità scompare, quasi che non facesse più parte del nostro corredo istituzionale».
La Repubblica, 20 agosto 2013
IN QUESTE affannose giornate abbiamo avuto la conferma che il nostro sistema vive in un vuoto di politica e in una precarietà costituzionale che stanno corrodendo la democrazia in alcuni suoi elementi costitutivi – l’eguaglianza davanti alla legge e la costituzione della rappresentanza. La consapevolezza di questo rischio traspare dalle dichiarazioni del presidente della Repubblica sul rispetto delle sentenze e le condizioni per la concessione della grazia.
Così come dalla decisione del Senato di affrontare con procedura d’urgenza la riforma della legge elettorale, ora presentata come priorità assoluta dal presidente del Consiglio. Ma queste indicazioni non paiono aver modificato il modo d’essere d’una politica ormai avvelenata.
Sono gli effetti di un lungo incancrenirsi, mai adeguatamente contrastato. Ci si è affidati sempre più all’azzardo, si rimane appesi a dichiarazioni personali che possono fare o disfare un governo, l’orizzonte si riduce sempre di più, davvero si vive alla giornata, e persino la giornata si accorcia, si è appesi a quello che qualcuno dirà nella mezz’ora successiva. Privata di senso, prigioniera di emergenze vere o costruite, la politica italiana comunica un senso di vuoto. Lo rendono evidente le vicende del governo, poiché la dignità con la quale Enrico Letta cerca di farlo sopravvivere finisce con il sottolineare ogni giorno, impietosamente, proprio la dipendenza da una condizione che subordina questa sopravvivenza agli interessi di un autocrate e alle schermaglie personali che percorrono il Pd. L’estrema degradazione della politica la cogliamo in questo momento, con la minaccia di far cadere il governo qualora il Pd voti al Senato per la decadenza di Berlusconi. Un passaggio obbligato, una presa d’atto prevista da una legge votata anche dal Pdl, vengono trasformati in un atto di discrezionalità politica. Una volta di più la legalità scompare, quasi che non facesse più parte del nostro corredo istituzionale, mentre sarebbe il caso di riflettere sul fatto che nell’incandidabilità si riflette una più profonda logica costituzionale, la necessità di sanzionare l’“indegnità morale”, di cui parla nell’articolo 48 a proposito dell’esclusione dal diritto di voto.
Ma dalle minacce a Parlamento, governo e partiti si è ora passati ad una pressione esplicita sul presidente della Repubblica, ben oltre le “interferenze” alle quali Napolitano aveva reagito. Cercando di coinvolgerlo in una crisi propriamente politica, e così imputandogli indirettamente la responsabilità di una eventuale crisi di governo, si vuol produrre una rottura istituzionale, imponendo la prevalenza delle ragioni di una parte su principi e regole che garantiscono gli equilibri costituzionali. L’irresponsabilità di questi comportamenti è evidente, e rivela quale sia il modo in cui il Pdl ha inteso il suo esser parte delle “larghe intese”, trasformando l’argomento dell’emergenza nella pretesa di imporre il proprio punto di vista. Un governo dichiarato senza alternative può dunque divenire terreno per le manovre più spregiudicate e pericolose.
Per uscire da questa situazione, bloccata e non “blindata”, serve fermezza nelle risposte istituzionali e chiarezza nelle reazioni politiche, da parte del Pd in primo luogo. Verranno? Solo se la scena politica verrà sgombrata da questo rischio, sarà possibile affrontare seriamente la riforma elettorale, poiché sappiamo che la sopravvivenza della legge Calderoli aggiunge emergenza a emergenza, viola la Costituzione, sì che non si può tornare a votare con quelle regole. Vi è dunque un obbligo costituzionale di liberare dall’illegittimità un atto fondativo della democrazia, la costituzione stessa della rappresentanza politica. E, nel momento in cui ci si arrovella intorno all’ingovernabilità, è bene avere memoria del fatto che quella legge fu concepita proprio per impedire alla coalizione guidata da Prodi, pronosticata vincitrice alle elezioni del 2006, di poter governare. Lì è la vera origine di molti guai di oggi, e di un inquinamento della politica dal quale è indispensabile liberarsi senza continuare a subordinare questa riforma alle convenienze. Dietro le parole assai esplicite di Enrico Letta vi è anche la consapevolezza che la priorità attribuita a questa riforma esige l’apertura di una discussione parlamentare che non può essere confinata nel recinto sempre meno praticabile delle larghe intese?
Proprio le ultime vicende, inoltre, rivelano l’urgenza di uscire da una logica per cui ci si dichiara continuamente prigionieri politici di una qualche emergenza, distogliendo così lo sguardo dalle possibili dinamiche parlamentari, che non sono necessariamente quelle che abbiamo conosciuto in questi mesi. Si è costruita l’immagine di un sistema bloccato intorno ad un’unica possibile maggioranza, istituendo una nuova
“conventio ad excludendum”, che si alimenta di reciproche incomprensioni e associa la fine dell’attuale maggioranza con il ritorno al voto. Ma lo scioglimento delle Camere, in una democrazia rappresentativa, non è un atto d’imperio, ma deve partire dalla registrazione di un dato di realtà — l’impossibilità di dar vita ad un diverso governo, ad un’altra maggioranza. Questa riflessione appartiene agli obblighi della politica, al modo in cui si costruiscono le relazioni tra le forze parlamentari, mai date una volta per tutte, alla capacità di non di alzare steccati. Ci vuole coraggio per questo allargamento di orizzonti, e in giro se ne vede poco. Anzi, i tentativi di far sì che il nostro non si presenti come un sistema bloccato, in grado di uscire dalle strettoie sempre più evidenti di questa maggioranza, si scontrano con la vista corta dei vari protagonisti.
Proprio questo bisogno di aperture e di ritorno al coraggio politico impone di non dimenticare la regressione nella quale siamo piombati, ormai vera e propria barbarie, con marcati caratteri eversivi. I vizi di una politica intossicata non possono essere registrati senza una reazione. Se oggi il tema capitale è quello della ricostruzione di una vera cultura politica, siamo
di fronte ad un compito che appartiene non a una generica “società civile”, invocata troppe volte con effetti disastrosi, ma esige un impegno delle diverse forze politiche, sociali, civili che in questi anni hanno concretamente mostrato come un’altra politica sia possibile. Non si tratta di vicende marginali o minoritarie. Ricordo l’opposizione vincente alla “legge bavaglio”; i ventisette milioni di votanti vittoriosi nei referendum contro la privatizzazione dell’acqua, il nucleare, le leggi ad personam; la concreta e coraggiosa battaglia per la legalità dell’associazione Libera; la scelta della Fiom di credere nei giudici e di farsi così sindacato dei diritti; Emergency, con una proiezione internazionale del diritto alla salute che lo fa diventare emblema di una lotta per la pace; manifestazioni come quella del 2 giugno a Bologna, dove decine di associazioni si sono unite per la difesa della Costituzione.
Ma la difesa della Costituzione non può esaurirsi nella sacrosanta denuncia delle manipolazioni delle regole di garanzia relative al suo cambiamento. Vi sono ormai le condizioni perché proprio dai suoi principi parta la ricostruzione di una politica che torni ad essere, come deve, “costituzionale”. Questo è il punto d’incontro delle diverse forze appena ricordate che, non a caso, vogliono individuare un terreno comune di azione. Dal vuoto politico ad uno spazio politico. Qui anche le persone di buona volontà presenti nel sistema politico potranno trovare, se lo vorranno, possibilità di dialogo e consenso sociale, indispensabili per battere le resistenze che lì si annidano.
L’ambiguità non giova al PD: se non ne esce «andrà in pezzi, eil Caimano potrà allegramente piangere la digestione del suo agognato boccone democratico».
La Repubblica, 21 agosto 2013
È comprensibile che Enrico Letta difenda l’operato del proprio governo. Nelle condizioni date può vantare anche alcune lodevoli iniziative; in particolare l’aver insistito sul ritorno all’Europa ripreso da Mario Monti. Ma le condizioni date, cioè la coabitazione con un partito che ha sempre privilegiato interessi settoriali, e persino personali, rispetto a quelli generali, costituiscono una zavorra pesantissima. Obbligano il presidente del Consiglio a una continua mediazione tra visioni politiche contrapposte. Forse va ricordato ancora una volta: il governo Letta-Alfano, come amano precisare i dirigenti del Pdl, nasce dall’emergenza, non dalla convinzione di avere una mission comune e di condividere le stesse prospettive. Non si configura in nulla come un governo di grande coalizione, che è tutt’altra cosa.
Infatti il Pdl è perfettamente cosciente della provvisorietà di questo esecutivo, nonostante spanda una mielosa cortina fumogena in cui lo esalta come frutto di larghe intese e addirittura volto alla “pacificazione”. Ne è talmente cosciente che interpreta l’azione di governo come un momento della prossima campagna elettorale. Non per nulla ha elevato l’Imu ad icona intangibile della sua partecipazione governativa. Che l’abolizione della tassa sugli immobili metta di nuovo in sofferenza le finanze pubbliche non ha alcuna importanza: l’essenziale è guadagnare consensi trasversali grazie a un messaggio così fortemente emotivo e seducente. Navigare in queste acque è difficile, ed Enrico Letta ci sta provando con tutta la sua capacità e buona volontà. Ma forse dovrà arrendersi all’evidenza dei fatti. E cioè che il Pdl è solo e soltanto interessato a sfruttare elettoralmente la propria presenza al governo. E se fino a poche settimane era l’Imu l’alfa e l’omega dei pidiellini per cui o Letta si piegava o l’esecutivo saltava, ora si è aggiunta anche la decadenza da senatore di Silvio Berlusconi.
Le prime dichiarazioni dei democratici, a partire da quella del segretario Guglielmo Epifani, poi riprese, seppur con tono più sfumato, dallo stesso presidente del Consiglio, non lasciavano spazio ad una via di uscita per il Cavaliere. Ma da qui alla decisione finale passerà almeno un mese. Un tempo lunghissimo a disposizione di Berlusconi per esercitare ogni tipo di pressione al fine di trovare una soluzione “politica”. Altrimenti, dichiarano oggi i falchi, un minuto dopo i ministri del Pdl si dimetteranno. Questa minaccia - del tutto credibile perché non c’è nessuno in quel partito che possa nemmeno ventilare una ipotesi diversa dalla chiusura a riccio a difesa del leader - paradossalmente butta la palla in campo al Pd: se i democratici non trovano un modo per evitare la decadenza di Berlusconi saranno loro i responsabili della crisi di governo. Questo ricatto non sembra senza effetto tra i democratici. Alle dichiarazioni sdegnose di alcuni fanno pendant operazioni di sostegno toto corde al premier (documento Boccia) che, alla bisogna, possono tramutarsi nella richiesta di una “iniziativa politica” per salvare il governo (cioè Berlusconi). L’offensiva mediatica contro i “falchi” del Pd ha già trovato una certo eco nelle parole di Letta al meeting di Rimini quando ha parlato di professionisti del conflitto. Lungo questa strada si arriva alla delegittimazione di chi considera il Pdl tuttora l’avversario da contrastare. Invece, la democrazia dell’alternanza, benché sia stata messa in mora da un risultato elettorale inedito e dalla disastrosa gestione post elettorale del Pd, non per questo ha perso il suo valore. La si può mettere tra parentesi per circostanze eccezionali e per una durata limitata. Ma la contrapposizione tra forze politiche alternative è la norma, e a tale normalità democratica è necessario tornare quanto prima. Per la salute del sistema politico, innanzitutto.
Si sta invece diffondendo la richiesta che il Pd sia, ancora una volta, “responsabile”, come fosse una sorta di fratello maggiore di giovani scavezzacollo. Tocca a lui essere giudizioso; e anche magnanimo e comprensivo. E quindi trovare un accomodamento alle magagne altrui. In effetti, la responsabilità è un tratto storico degli antenati del Pd sia di marca comunista (con in cima i miglioristi di Giorgio Amendola e Giorgio Napolitano) che democristiana (pensiamo ai placidi dorotei di tante legislature). Il presidente della Repubblica ha fatto appello a questo fattore genetico nel novembre 2011 al momento della nascita del governo Monti, e vi insiste ancor oggi. Queste pressioni sul partito democratico aumenteranno giorno dopo giorno. Alla fine rischierà lui di pagare il prezzo della condanna di Berlusconi: se si divaricheranno le posizioni tra chi vuole mantenere un atteggiamento rigoroso e chi, in nome della responsabilità e della governabilità, vuole accedere a qualche forma di salvataggio del Cavaliere il Pd andrà in pezzi. E il Caimano potrà allegramente piangere la digestione del suo agognato boccone democratico.
Il potere fa il diritto. Ma chi detiene davvero il potere? Non solo in Egitto, nel mondo.
Mohammed Morsi è stato eletto presidente in elezioni democratiche. Dopo la vittoria a valanga dei partiti islamici nel voto per il parlamento, Morsi s'impose nelle elezioni presidenziali ma questa volta per un'incollatura al secondo turno sul candidato del vecchio regime e dell'esercito.
Secondo molte testimonianze, Morsi avrebbe esercitato il potere in modo abusivo. Più per debolezza e imperizia che per uno sfoggio di forza. E infatti il suo bilancio è deludente proprio sulle non meglio precisate riforme. Il parlamento fu sciolto dalla magistratura con un pretesto. Il presidente si prese una rivincita di Pirro affossando il principio della separazione dei poteri. Non immaginava che di lì a poco, invocati dalla piazza, esercito e polizia agli ordini del generale che lui stesso aveva scelto per il vertice della gerarchia militare avrebbero deposto, arrestato e fatto sparire il presidente eletto con la copertura della Corte suprema e dei ribelli o ex-ribelli per la libertà.
La legittimità originaria del potere di Morsi è un dato di fatto. Lo ha riconosciuto anche Barack Obama, interrompendo per qualche minuto le vacanze, a costo di dispiacere al generale Abdel Fatah al-Sisi e al fronte liberal-secolarista che ha grandemente contribuito ad affossare il governo dei Fratelli.
Obama non ha più il prestigio di quattro anni fa, quando presentò la nuova politica sul Medio Oriente parlando dal Cairo (come ospite di Mubarak), ma è ancora il presidente americano. L'enorme eco del discorso del 2009 era il prodotto di un eccesso di fede nel Destino manifesto dell'America dopo gli otto anni bui di George W. A confronto dell'appannamento complessivo dell'appeal del primo presidente nero Usa, la decisione comunicata con un po' di imbarazzo che gli Stati Uniti continueranno a foraggiare i militari egiziani con l'ormai consueto sussidio di un miliardo e mezzo di dollari ogni anno è solo routine. A suo modo, è stata una dichiarazione d'impotenza (ancora il potere). Il sistema di «sicurezza» con cui gli Usa mantengono il controllo strategico del Medio Oriente per la lotta contro il terrorismo, presidiando il petrolio del Golfo e lo status quo in Israele, non può fare a meno dell'Egitto.
In Egitto e più in generale nel Medio Oriente l'esercito è stato determinante nell'opera destruens dell'ancien régime ma si è rivelato del tutto incapace di elaborare un progetto valido e inclusivo di stato democratico ricomponendo via via la società in evoluzione nel rispetto dei diritti. Con la riforma agraria e le nazionalizzazioni, il processo di modernizzazione perseguito da Nasser ha sforbiciato lo strapotere dei ceti parassitari ma alla fine lo stesso raïs dovette ammettere che invece dei lavoratori la rivoluzione aveva beneficiato una borghesia egoista e avida. Le liberalizzazioni di Sadat e Mubarak non hanno neppure incominciato a cimentarsi con le aspettative degli «esclusi». L'islam politico, con tutti i limiti della sua scarsa sensibilità per la dimensione istituzionale, vuole o vorrebbe rappresentare le classi che sono sempre state sacrificate. Nelle situazione di una società con più giovani e più istruiti, la tentazione che spinge ora l'esercito a riprendere in proprio il potere è di far pagare la modernizzazione agli strati bassi pur di assicurarsi il consenso dei ceti che contano?
Non è all'islam che va attribuita la responsabilità della crisi della democrazia in Egitto ma semmai ai vizi di un ordine che sembra condannare le forze armate a riempire con le buone o con le cattive tutti gli spazi invece di favorire doverosamente la pluralità (di cui in teoria un parlamento funzionante dovrebbe essere lo specchio).
È clamoroso che i ribelli così occidentalizzanti di Piazza Tahrir, uomini e donne, abbiano aperto la strada di nuovo alla dittatura militare. Eppure, anche se non spinte dall'islam, le rivoluzioni del 2011 non sono mai state contro l'islam. Si può capire allora perché, dopo le aperture iniziali agli islamici, Stati Uniti e governi europei siano tentati di riallacciare con le élites militari e civili che conoscono meglio: gli stati attesi oggi alle sfide del mercato globale sono per certi aspetti il secondo o terzo tempo dell'opera coloniale e neocoloniale. È probabile che in Occidente molti abbiano rimpianto i militari anche quando Erdogan è sembrato traballare sotto la minaccia della protesta nelle strade e piazze di Istanbul.
Nella rappresentazione prevalente, le «Primavere arabe» hanno due immagini di marca ben distinte: nella fase che Alberoni definirebbe dell'innamoramento un movimento spontaneo senza capi e senza programmi; nella fase del contratto l'insediamento come forza dirigente della Fratellanza musulmana, portavoce dell'islam politico, da sola, in coalizioni o come un valore più mistico che politico sullo sfondo per il futuro. Sono passati solo due anni (ed è poco) ma si faticherebbe a dare una configurazione precisa al «riformismo» dei Fratelli. Ad aver rotto la crosta dell'indifferenziato c'è solamente la controversia, in parte nominalistica, sulla formulazione dei passaggi ritenuti critici delle nuove Costituzioni. Pressoché tutte le Costituzioni dei paesi arabi hanno sempre indicato nell'islam la religione ufficiale dello stato ma poiché gli islamisti sono usciti dalle catacombe, quando si parla di religione o di principi generali del diritto o dei rapporti di genere c'è più diffidenza e si centellinano i sostantivi e gli aggettivi. Per il resto, laici e religiosi pescano nello stesso bagaglio sui temi dello sviluppo salvo confrontarsi con gli impedimenti di una realtà che livella implacabilmente i buoni propositi. Si intuisce che alla base del blocco a favore del «progresso» ci sono la città, la piccola borghesia, i professionisti mentre l'islam ha la sua base fra i poveri e le masse rurali. Non è più disponibile l'opzione socialista a indirizzare, magari solo virtualmente, il cambiamento. Così come non c'è un'Urss a far balenare un'alleanza alternativa al patto ineguale del capitalismo e del neo-colonialismo. È dai tempi del primo Khomeini, quando il bipolarismo non era ancora stato liquidato, che la «rivoluzione» - tanto più nel mondo islamico - ha perso i connotati convenzionali. Anche per questo la religione ha preso così tanto piede come fattore di aggregazione e mobilitazione nelle promesse, nonché, sull'altro fronte, nella resistenza persino cieca di chi vede minacciato un modo di vita ritenuto superiore.
Ovviamente, né Morsi né il governo tripartito a direzione Ennahada in Tunisia aveva i mezzi e ha avuto il tempo per rinnovare significativamente le strutture produttive e distributive di paesi che languono nella morsa del capitalismo dipendente. Era un sogno, un'illusione, per di più in un periodo di crisi e con gli effetti secondari, a strascico, di settimane e mesi di agitazioni. Adesso è un argomento di mera polemica. In Libia lo stato è al collasso ma siccome il petrolio ha ritrovato i volumi di quando c'era Gheddafi l'emergenza ha meno ripercussioni all'esterno.
Stando alla vulgata della globalizzazione, le crisi più pericolose potevano sempre essere tenute a freno se non risolte imitando o esportando il modello che aveva trionfato nella guerra fredda. Gli sconquassi vaticinati da Samuel Huntington avrebbero selezionato i migliori, se necessario mediante guerre piccole o medie. Non è questa la legge suprema del mercato, la ragione delle sue fortune?
Con quanto è successo nel Nord Africa l'agenda del Nuovo ordine mondiale ha bisogno di una profonda rivisitazione. Si diceva che le rivolte pacifiche vincevano più facilmente perché trovavano comprensione e appoggio nel mondo "civile" ma ormai, accantonate le rivoluzioni arancione che misero in allarme anche la Russia con le sommosse nel suo «estero vicino», dilaga l'impiego delle armi. Dalla Libia in poi la scena è di nuovo occupata dalle rivolte cruente, poco importa se per iniziativa dei ribelli o per la repressione scatenata dai regimi in pericolo. Dopo quanto è accaduto al Cairo sarà imbarazzante riproporre il passaggio obbligato di elezioni free and fair. Qualificare come «terrorismo» la reazione dei sostenitori di Morsi e della Fratellanza è un artificio - e un falso per Tariq Ramadan - ma è anche una profezia che prima o poi rischia di auto-realizzarsi. La Fratellanza musulmana non è confinata all'Egitto: la cancellazione della sua vittoria elettorale e addirittura del movimento peserà sicuramente di più sul piano regionale dello strappo dei militari algerini contro il Fronte islamico della salvezza vent'anni fa.
A questo punto il presunto modello islamico a cui concorreva anche la Turchia perde ogni parvenza di omogeneità e persino di verosimiglianza. Nessuno parla più del Califfato. Lo scisma fra sunniti e sciiti, con terreni di scontro nelle due questioni cruciali di Siria e Iran, non lascia molti margini. L'Arabia Saudita ha rotto l'incantesimo e ha scelto il «male maggiore» apprestandosi a difendere con la forza tutto ciò che è conservazione. Avendo praticato ovunque possibile la guerra con prove che l'hanno divisa fra Marte e Venere, l'Europa si illude ancora di farsi sentire partendo dai suoi compitini e dai suoi aiutini? Sarebbe molto più realistico se tutti prendessero atto che l'idea di un apparato di seconda istanza a livello mondiale gestito con spirito di parte al fine di rimediare alla carenze dei singoli stati del Sud in transizione e delle rispettive leadership si è dissolta nei massacri e nei fuochi della Tian'anmen egiziana e che non ci si può più sottrarre a una vera svolta.
Un’analisi disperata d’un disumano appiattimento sul presente, raccontata con lo sguardo raso-terra sulla politica italiana d’oggi.
La Repubblica, 19 agosto 2013
Ispirava l’azione e, anzitutto, i messaggi della politica. I leader e i partiti erano tutti impegnati a scrivere programmi, progetti. A fare promesse. Perché anche le promesse riguardano il futuro. La politica della Prima Repubblica: era orientata da ideologie. Grandi narrazioni della storia, proiettate nel futuro. Che sarebbe stato migliore del passato e del presente.
La politica della Seconda Repubblica ha, invece, affidato la produzione di immagini del domani agli esperti di marketing. Ha ricondotto le identità e i progetti alla personalità del leader. Così il tempo ha perduto significato. Come i progetti.
La figura di Berlusconi, modello e artefice di quest’epoca, ha riassunto in sé ogni promessa. Facendola apparire attuale e attuabile, se non oggi, almeno domani. La sua biografia “personale”, in un tempo pervaso dal mito del mercato e della competizione individuale, ha comunicato alla società che tutti “ce la potevano fare”. Tutti potevano diventare come lui. Egli stesso “prometteva” sviluppo e benessere al Paese. Perché il Paese, in fondo, è come un’azienda. E lui, il Grande Imprenditore, era l’unico in grado di farla funzionare. Così, del futuro, in politica, si è perduta ogni traccia. E noi ci siamo trovati incapsulati nel presente infinito.
Oggi, nessuno pare in grado di guardare lontano. Le utopie, gli ideali: non funzionano più neppure come slogan. Le promesse: si riducono all’abolizione dell’Imu sulla prima casa. Entro agosto, ovviamente, per non fare passare troppo tempo. Perché un mese è già un orizzonte troppo lontano, per la politica dei nostri tempi.
D’altronde, l’ispiratore della Seconda Repubblica, Berlusconi, fatica ad alzare gli occhi oltre l’immediato. È lì, a casa, in attesa del prossimo 9 settembre, quando la Giunta per le elezioni si esprimerà sulla sua decadenza dallo status di senatore. Con il voto del Pd. In quel caso, ha avvertito – e minacciato – il ministro Gaetano Quagliariello, la vita del governo sarebbe a rischio. Il presidente, Giorgio Napolitano, tuttavia, ha ribadito, anche di recente, che, senza una legge elettorale diversa, in grado di garantire governabilità, dopo il voto, non scioglierà le Camere. Dunque, il “futuro” tracciato dal Pdl è lungo (si fa per dire) un mese. Poi si vedrà. Anche perché il Pdl, in realtà, non esiste più. È una sigla vuota. Rinnegata, più che negata, per primo, da Berlusconi stesso. Il quale, per guardare avanti, ha fatto un salto all’indietro. Di quasi vent’anni. Ha, infatti, deciso di rilanciare Forza Italia. La sigla del suo partito personale, insieme al quale è “sceso in campo”. Nel 1994.
Silvio Berlusconi, d’altra parte, è costretto a scandire il tempo e il calendario in una successione di scadenze, a breve distanza, l’una dall’altra. Per motivi politici e giudiziari. Possibili – e improbabili – elezioni. E nuovi gradi di giudizio, che lo attendono. Così, ieri, in un messaggio ai suoi sostenitori, non ha indicato un percorso. Si è limitato a dire: “Io resisto”. Il Pdl oppure Forza Italia e tutte le sigle che fanno riferimento all’universo politico di Berlusconi appaiono, quindi, sospese. Incapaci di dettare non una prospettiva, ma un’agenda per i prossimi mesi. Perché non hanno un nome certo. Perché la precarietà del loro leader – unico e insostituibile – si riproduce su di loro, moltiplicata.
L’altro soggetto politico che davvero conti, oggi, è il Partito Democratico. L’unico vero “partito”, lo ha definito ieri Eugenio Scalfari. Di certo non il partito unico. Né unitario. Ma, semmai, incerto. Sulla leadership possibile. Da cui dipende la sua strategia, se non il suo futuro. Il Pd è atteso da una stagione tesa e instabile. Il congresso, in settembre. Le primarie per il segretario di partito, a fine novembre. Probabilmente. Anche se molto dipende dal destino del governo. Che nessuno, nella maggioranza, ha voglia o, comunque, è in grado di far cadere. Ma neppure di sostenere in modo convinto. Così, il governo procede “per necessità”. Ed è come se corresse sul filo. Sempre in bilico. Non può dare l’idea di avere un futuro. Né, per questo, può proporre un’idea di futuro. Gli altri partner di maggioranza, d’altra parte, il futuro l’hanno consumato in fretta. Scelta Civica, la formazione politica di Mario Monti, ormai, è poco rilevante, nell’opinione pubblica. Riavvicinata, nei sondaggi, dall’Udc. A causa del calo di Scelta Civica, assai più che per la ripresa dell’Udc. Così, dimostra un futuro corto non solo la prospettiva di un soggetto politico di Centro, capace di ancorare il sistema politico italiano.
Ma anche l’idea di una Destra diversa, guidata da un Centro sicuramente affidabile. E, tuttavia, troppo piccolo per essere preso sul serio. Peraltro, neppure le forze politiche di opposizione sembrano avere un futuro sul quale investire. Non la Lega, divisa all’interno. Impegnata, per sopravvivere, per avere ascolto, a ingaggiare battaglie di respiro corto e senza dignità. Come quella intrapresa contro la ministra Kyenge. Neppure il M5S sembra interessato a progettare il futuro. Perché il suo successo è strettamente legato all’insuccesso degli altri. Di soggetti politici senza futuro. E, comunque, il modello di azione e di comunicazione interpretato da Beppe Grillo enfatizza il presente. L’immediato. È la politica come happening permanente. Sostenuta dalla Rete e attraverso la Rete. Un ambiente dove è possibile a tutti inter-agire, in modo diretto. E immediato. Non a caso Enrico Letta, aprendo il meeting di Cl, a Rimini, ha “promesso” che a ottobre la legge elettorale sarà riformata. Si andrà oltre il “Porcellum”. A ottobre. Perché è difficile guardare più in là di ottobre. D’altronde, anche con una nuova legge, al di là degli annunci, pochi sembrano disposti ad affrontare nuove elezioni. In Parlamento, ma anche fra i cittadini.
Lo stesso Letta, non a caso, gode di un consenso personale elevato e gran parte degli elettori si dice contraria all’ipotesi che il suo governo cada. Non per “fiducia”, ma per “timore”. Di quel che potrebbe capitare poi. In fondo, anche noi ci siamo adattati. Alla scomparsa del domani. Così invecchiamo senza rendercene conto, perché, insieme al tempo, abbiamo abolito i giovani e la gioventù, dal nostro orizzonte. Stiamo diventando professionisti dell’incertezza. Navigatori dell’eterno presente. Ma proseguire in questa direzione ancora a lungo pare impossibile. Se il futuro è scomparso, restituiteci almeno il passato.
Le trasformazioni della distribuzione della popolazione incidono sull'assetto urbanistico sia a livello di bacini locali, di quartiere, metropolitani, regionali, che a livello globale. Un caso europeo paradigmatico, e una prospettiva di osservazione che troppo spesso sfugge, anche alle star del giornalismo nostrano.
The New York Times, 13 agosto 2013, postilla (f.b.)
Titolo originale: Germany fights population drop - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
SONNEBERG — A una prima occhiata, questa cittadina di medie dimensioni nella Germania centrale, schiere di ampie case costruite quando qui fioriva l'industria dei giocattoli, appare linda e prosperosa. Ma Heiko Voigt, vicesindaco, ci indica decine di abitazioni vuote, che dubita troveranno mai un acquirente. Il fatto è che la popolazione tedesca diminuisce, e centri come questo fanno di tutto per nascondere i vuoti. Voigt ha già fatto da supervisore alla demolizione di sessanta case e dodici condomini, infilando strategicamente spazi verdi in quelli che erano un tempo insediamenti assai più densi. “Cerchiamo di mantenere almeno un bell'aspetto” spiega.
Non c'è nulla di meglio della Germania profonda, per osservare gli effetti di un calo di fertilità in tutta Europa che dura da decenni, una questione inquietante per l'economia e anche la psicologia del Continente. In alcune aree abbondano giardini abbandonati, finestre sbarrate, problemi con le fognature che non funzionano adeguatamente per il fatto di essere troppo vuote. Una forza lavoro sempre più coi capelli bianchi, e le catene di montaggio che vengono riorganizzate per ridurre al minimo piegamenti e spostamenti di pesi. Dall'ultimo censimento, la Germania ha scoperto di aver perduto un milione e mezzo di abitanti. Entro il 2060, secondo gli esperti, il paese potrebbe perderne ancora un 19%, fino a scendere a 66 milioni.
E a parere dei demografi c'è un futuro simile in vista per altri paesi europei, una questione sempre più urgente dato che con la crisi il problema non fa altro che aggravarsi. Al tempo stesso col peso dei problemi bancari e di bilancio, sono davvero in pochi a riuscire a far qualcosa in proposito. Ma la Germania è una specie di oasi di tranquillità, e qui si prova a investire parecchio per cercare una via d'uscita dalle fosche prospettive, e indicare la strada anche al resto del Continente. Però sinora, nonostante i quasi 200 miliardi di euro in sostegni alle famiglie, si è solo capito quanto sia difficile provarci. Ciò anche perché la soluzione sta nel ridefinire valori, atteggiamenti, abitudini, in un paese con una storia difficile riguardo all'accoglienza degli immigrati, e dove le donne con figli che lavorano vengono tuttora considerate in qualche modo “corvi”, che trascurano la famiglia.
Ma se la Germania vuole non ritrovarsi senza una adeguata forza lavoro, secondo gli esperti, deve trovare un modo per far continuare a lavorare anche gli anziani, dopo decenni di tentativi per farli andare presto in pensione, e attirare immigrati facendoli sentire a casa propria e costruirsi una nuova vita. Deve anche far entrare più donne nel mercato del lavoro, sostenendole al tempo stesso perché facciano più figli: cosa difficile in un paese che tradizionalmente mette sull'altare la madre casalinga. Pochi dubbi che per l'Europa si tratti di una crisi urgente. Molti recenti studi mostrano come storicamente tassi elevati di disoccupazione — oltre il 50% dei giovani — in paesi quali Grecia, Italia o Spagna, facciano abbassare ulteriormente il numero delle nascite. Secondo l'Unione Europea, il totale dei nati vivi in 31 paesi è calato del 3,5%, da 5,6 a 5,4 milioni, fra il 2008 e il 2011. Solo nel 1960 nei 27 paesi dell'unione erano nati 7,5 milioni di bambini.
Anche prima dell'emergere di queste tendenze c'erano previsioni di calo demografico per molti paesi entro il 2060; in alcuni casi, vedi Lettonia o Bulgaria, anche più della Germania. Con una quota di anziani sempre più elevata. A ciascun pensionato nell'Unione corrispondono quattro persone in attività. Nel 2060, in media diventeranno due, secondo i calcoli ufficiali sull'invecchiamento pubblicati nel 2012. Alcuni esperti temono che la Germania abbia atteso anche troppo a lungo per affrontare il problema. Altri giudicano questa posizione troppo pessimista. Comunque sia, la Germania ci sta pensando molto seriamente.
Le famiglie numerose hanno smesso di essere la norma già dagli anni '70 in quella che era allora la Germania Occidentale, paese ricco e con un tasso di fertilità che diminuiva a 1,4 figli per donna, restandoci poi in seguito, ben al di sotto del 2,1 che garantisce una popolazione. Storia simile in altri paesi anche se non in tutti. Esiste in Europa una fascia della fertilità estesa dalla Francia alla Gran Bretagna ai pesi della Scandinavia, sostenuta sia dagli immigrati che dai servizi sociali per le donne che lavorano. Accrescere il tasso di fertilità per la Germania si è rivelato assai poco facile. Secondo i critici il paese ha sbagliato sprecando soldi messi a disposizione delle famiglie, secondo criteri di sostegno a figli, casalinghe, esenzioni fiscali per coppie sposate. Secondo i demografi sarebbe assai meglio investire a sostegno delle donne che provano a bilanciare maternità e lavoro, ampliando i servizi scolastici e per l'infanzia. Dati recenti dimostrerebbero che così si potrebbe accrescere il tasso di fertilità. “Osservando le cifre si nota come più eguaglianza tra i generi significhi più nascite” commenta Reiner Klingholz dell'Istituto Berlinese per la Popolazione e lo Sviluppo.
Ma è certo difficile ribaltare anni di sussidi alla famiglia tradizionale. “Toccare queste cose significa suicidarsi politicamente” spiega Michaela Kreyenfeld dell'Istituto Max Planck per la Ricerca Demografica di Rostock. E tutte le madri che lavorano affrontano ostacoli tali da disincentivare più figli. Nonostante la recente legge che garantisce un posto all'asilo per tutti i bambini oltre un anno, contro il minimo di tre anni precedente, secondo gli esperti le strutture sono ancora carenti per accessibilità a tutti. Poi le scuole finiscono le lezioni a mezzogiorno, pochi i programmi di doposcuola. Melanie Vogel, 39 anni, di Bonn, trova difficile, costoso, deprimente cercare di conciliare casa e lavoro, e ha deciso di avere un solo figlio. Tutte le sue amiche lavorano al massimo a tempo parziale, la suocera disapprova, e lo stesso vale per i clienti dell'impresa di cui è contitolare insieme al marito. “Prima che nascesse il figlio, per tutti ero Melanie, donna d'affari” racconta la Vogel. “Poi per quasi tutti sono diventata solo una mamma”.
Molte madri che lavorano si ritrovano emarginate in “mini” occupazioni a bassi salari: diciamo 17 ore la settimana per meno di 500 euro al mese. Sono più di quattro milioni in Germania, circa un quarto della forza lavoro femminile, con lavori così. Un altro modo per intervenire sul declino demografico è convincere gli anziani a posticipare la pensione. Il governo sta agendo gradualmente, da 65 a 67 anni, e le imprese hanno reagito in fretta. La quota della fascia d'età dai 55 ai 64 anni è cresciuta al 61,5% nel 2012, contro il 38,9% del 2002. La Volkswagen ha riorganizzato la catena di montaggio per rendere più rari i piegamenti e sollevare le braccia, cose che affaticavano. Tre anni fa sono stati introdotti sgabelli reclinabili che sostengono il collo anche nelle posizioni più difficili per raggiungere alcuni punti dell'automobile in costruzione, mentre l'installazione delle parti pesanti, ruote e frontali, oggi è totalmente automatizzata.
Altre compagnie offrono orari flessibili per i più anziani. Hans Driescher, fisico dell'ex Germania Orientale, a 74 anni lavora ancora al Centro Aerospaziale, a dieci anni dall'età del pensionamento ufficiale. Ha iniziato con 55 ore al mese, ma ora è sceso a 24. D'estate sta nel suo orto, lavora il resto dell'anno. Con i forti tassi di disoccupazione in Europa orientale e meridionale, il paese ha un'ottima occasione per scegliere i migliori lavoratori dai paesi vicini, e ha iniziato a farlo. Ma con migliaia di posizioni ancora disponibili è opinione di molti che sia necessario modificare le leggi sull'immigrazione, accettando curricula esteri, per competere con altri paesi nella medesima situazione.
Si è dimostrato difficile in passato integrare in Germania i lavoratori stranieri, specie i turchi, e oggi si riflette sulla propria cultura, su cosa c'è da fare per diventare più ospitali. Non è chiarissimo con quali risultati. Una recente ricerca rileva che più della metà dei greci e spagnoli se ne vanno dalla Germania entro un anno. Molti sono i giovani altamente qualificati che guardano al mercato globale. E tanti se se ne presentasse la possibilità tornerebbero volentieri a casa. L'immigrazione è un fatto più temporaneo, con gli spostamenti facili tra un paese europeo e l'altro. “Credo che dovremo cominciare a guardare anche fuori dall'Europa” conclude Klingholz.
postilla
Ecco, questo scenario europeo con l'esempio della Germania, è esattamente l'opposto di quanto ci raccontano in Italia non solo la Lega Nord e le formazioni razziste sempre terrorizzate all'idea della convivenza, ma anche fonti “insospettabili” come il professor Giovanni Sartori. Il quale proprio il giorno di Ferragosto ha approfittato di un editoriale su Corriere della Sera per affiancare in modo assolutamente incongruo la crisi climatica globale, la bomba demografica della sovrappopolazione del pianeta, e last but not least la cosiddetta incompetenza tecnica del ministro Cécile Kyenge a trattare di ius soliius sanguis. Tutto proprio nel momento in cui, come ci racconta l'articolo dal New York Times, parrebbe delinearsi uno scenario in cui esiste un rapporto diretto fra uscita dalla crisi economica (che impedisce tra l'altro politiche demografiche e energetico-ambientali) e libera circolazione e integrazione (f.b.)
L’istituto giuridico della grazia in Italia: come, perché e quando, se è chiesta, può essere concessa; "ragioni umanitarie" e "agibilità politica. Un commento di Gaetano Azzariti e un'intervista di Andrea Fabozzi ad Andrea Pugiotto.
Il manifesto, 15 agosto 2013
L'esercizio del potere di grazia - ha scritto la Consulta - risponde a finalità essenzialmente umanitarie. Nel caso di Silvio Berlusconi quali sarebbero le ragioni umanitarie? A scanso d'equivoci, si tenga presente che gli argomenti dell'accanimento-persecuzione dei giudici nei confronti del leader del centrodestra ovvero la pretesa rivendicazione di innocenza nei confronti dello specifico reato di evasione fiscale non possono essere utilizzati per motivare la domanda di grazia, dovendo darsi per scontato che l'atto di clemenza individuale ha come suo presupposto il riconoscimento della legittimità della pena inflitta. Come si scrive in ogni manuale di diritto, l'istituto della grazia incide sull'esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta. Non si spiegherebbe altrimenti la ritrosia di molti detenuti alla presentazione della domanda di grazia: Adriano Sofri, ad esempio, rivendicando la propria innocenza, non ha mai accettato di presentare domanda.
Nel caso di Berlusconi appare assai significativo, inoltre, che il capo dello Stato abbia sì fatto riferimento alla possibilità di esaminare con attenzione un'eventuale richiesta di clemenza, ma abbia altresì escluso di poter concedere la grazia motu proprio, come pure l'articolo 681 del codice di procedura penale autorizzerebbe a fare. Dunque, la richiesta al leader del centrodestra è anzitutto quella di smentire se stesso, ponendo fine alla sua guerra personale con i giudici.
Riconosciuta, però, così la legittimità della condanna, per quale ragione dovrebbe essere concessa la grazia? Non vi sono gravi ragioni di salute che in molti casi motivano l'atto di clemenza. Né può dirsi che le condizioni in cui verrebbe a scontare la pena (gli arresti domiciliari presso una delle sue ville ovvero l'affidamento al servizio civile) possono essere ritenute contrarie al senso di umanità che deve essere assicurato al condannato ai sensi dell'articolo 27 della nostra costituzione. Né, infine, può sostenersi nel caso di Berlusconi che la grazia favorirebbe «l'emenda del reo ed il suo reinserimento nel tessuto sociale» (seguendo le indicazioni di una sentenza della Corte costituzionale del 1976, n. 134).
In realtà, è evidente a tutti l'unica ragione per la quale si dovrebbe accordare la grazia a Silvio Berlusconi: la ragion di Stato, che nel nostro piccolo si sostanzia con la sopravvivenza del governo di larghe intese. È il ruolo di «leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza» (così Napolitano) che indurrebbe a restituire almeno una parte di «agibilità politica» ad un condannato per reati accertati in via definitiva dalla Corte di cassazione sulla scia di due precedenti e conformi giudizi. Dunque, una grazia «politica».
E qui è il vero ostacolo che dovrebbe precludere la strada alla concessione della grazia da parte del nostro presidente della Repubblica. Almeno se ci si vuole attenere a quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale richiamata da Napolitano (la n. 200 del 2006), che, se ha assegnato l'esclusiva titolarità del potere di grazia al presidente della Repubblica, ha altresì ritenuto di escludere che si possano ritenere fondamentali altri elementi se non quelli di natura umanitaria. Il potere di grazia - ha scritto la Consulta - spetta al capo dello Stato proprio perché egli rappresenta l'«unità nazionale» ed è dunque estraneo al «circuito» dell'indirizzo politico-governativo. Non dovrebbero dunque rientrare tra le sue valutazioni quelle attinenti alla sfera della politica, ma limitarsi ad adottare provvedimenti di clemenza per ragioni umanitarie.
Molti costituzionalisti - chi scrive tra questi - hanno criticato a suo tempo la decisione della Consulta, proprio sostenendo l'indeterminatezza di questa distinzione tra ragioni umanitarie e ragioni politiche che si pongono alla base di ogni decisione di clemenza nei confronti di un condannato; proprio per questo non si condivise - a suo tempo - l'attribuzione al solo presidente della Repubblica di un potere di grazia. Ma, come per le sentenze della Cassazione, anche le decisioni del giudice costituzionale devono essere applicate con rigore. In assenza di ragioni umanitarie la grazia a Berlusconi non può essere concessa, mentre il suo ruolo decisivo per la salvaguardia degli equilibri politici, così fortemente custoditi dal presidente Napolitano, non possono essere posti alla base di un atto di clemenza. Un comma 22 per il soldato Berlusconi.
La grazia? Un rischio per Letta
Andrea Pugiotto intervistato d Andrea Fabozzi
Se il presidente della Repubblica graziasse Berlusconi innescherebbe un cortocircuito istituzionale. Si tratterebbe di un atto irregolare che ricadrebbe sul ministro che deve controfirmarlo e su tutto il governo
Andrea Pugiotto è professore di diritto costituzionale nell'Università di Ferrara. Ha scritto diversi articoli e monografie dedicati al potere presidenziale di grazia. Professore, nella nota del Quirinale si fa riferimento a un provvedimento di clemenza per Berlusconi, specificando la necessità che venga formalmente richiesto. Le pare corretto?
Sì. L'articolo 681 del codice di procedura penale - richiamato nella nota - riconosce l'impulso alla concessione della grazia su domanda del condannato o su proposta di altri soggetti legittimati (ad esempio un suo legale o un familiare). La titolarità del potere porta con sé anche la possibile concessione d'ufficio da parte del Quirinale. In tutti i casi, è messa in moto una complessa istruttoria che sfocia nella decisione del Capo dello Stato, sentito il parere non vincolante del Guardasigilli.
A suo avviso il caso di Silvio Berlusconi rientra tra quelli che in astratto possono essere oggetto di un atto di clemenza individuale?
La risposta è nella Costituzione, così come interpretata dalla Consulta nella sentenza n. 200/2006: la grazia si giustifica solo quale «eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria». Ha uno scopo eminentemente equitativo, dunque, non di politica attiva. Da qui il riconoscimento della titolarità del potere al «Capo dello Stato, quale organo super partes, rappresentante dell'unità nazionale, estraneo al circuito dell'indirizzo politico-governativo». Quella sentenza ha inteso spoliticizzare l'atto di clemenza - fino ad allora abusato - proprio per evitare che una decisione governativa possa interferire con l'operato della magistratura, giudicante e di sorveglianza.
Eppure non sono mancate, in passato, grazie politiche
È vero, quando erano concesse in serie e supplivano a un mancato provvedimento d'indulto. E tutto si svolgeva in modo opaco e senza garanzie procedurali di sorta, con un presidente sempre con la penna in mano chiamato a firmare quanto deciso da altri. La sentenza della Corte ha segnato uno spartiacque tra un «prima» e un «dopo». Il cambio di registro si vede già dalle cifre: per dire, Einaudi concesse 15.578 grazie, Leone 7.498, Pertini 6.095, Cossiga 1.395; Napolitano, il primo presidente a dover fare i conti con la sentenza costituzionale, ne ha finora concesse, non a caso, una ventina.
Tra queste, nessuna è qualificabile come atto politico di clemenza?
La regola fissata in Costituzione è stata seguita fedelmente dal presidente Napolitano. Fino al suo ultimo atto di grazia, concessa il 5 aprile scorso, al generale statunitense Joseph L. Romano, condannato in via definitiva per aver concorso in Italia al rapimento dell'iman Abu Omar, deportato e torturato in Egitto. Leggendone le motivazioni, si è trattato di un atto dettato da ragioni di politica estera. Proprio per ciò è da dubitare della sua regolarità costituzionale. E ciò che non è regolare non è un precedente valido su cui è lecito costruire una prassi. In tal senso, trovo opportuno che il Quirinale, nella sua nota, torni a richiamare espressamente le norme di legge, la giurisprudenza e le consuetudini costituzionali in materia, dalle quali - cito - «il Capo dello Stato non può prescindere».
Ma se il potere di dare la grazia è presidenziale, chi controlla la regolarità del suo atto di clemenza?
Per Costituzione, tutti gli atti del presidente vanno controfirmati, a pena d'invalidità, anche la grazia. È il ministro di giustizia che, controfirmandola, ne attesta la regolarità. Non si tratta di un atto dovuto: se la grazia ha finalità politiche (e non umanitarie) la controfirma va negata, a tutela delle prerogative governative. Non facendolo, il Guardasigilli risponderà politicamente davanti al parlamento, e con lui il governo di cui fa parte.
Dunque se in futuro prendesse forma un atto di clemenza per Berlusconi...
La Guardasigilli Cancellieri e il governo Letta non potrebbero chiamarsi fuori. Un bel cortocircuito istituzionale: la nota del Quirinale risponde ad una preoccupazione fondamentale di stabilità del quadro politico e di rispetto della separazione tra poteri. Eppure, prefigurando la possibilità di un atto di clemenza, squisitamente politica, rischia di mettere in serie difficoltà non solo la magistratura, ma pure l'esecutivo.
Un'eventuale grazia a Berlusconi inciderebbe anche sulla pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici?
Questo è un altro punto molto delicato, perché prefigura la possibilità che un soggetto, interdetto da una sentenza e da una decisione del senato giuridicamente obbligata, venga politicamente riabilitato dalla grazia presidenziale. È un ulteriore prova che ci si sta muovendo fuori dal perimetro costituzionale di una clemenza umanitaria. Segnalo che la nota del Quirinale circoscrive espressamente gli effetti dell'eventuale grazia «sull'esecuzione della pena principale». È una scelta che rientra nelle prerogative presidenziali. In passato lo stesso Napolitano ha, invece, concesso provvedimenti di clemenza riguardanti esclusivamente la pena accessoria, ma solo perché quella principale era già stata espiata o dichiarata prescritta: condizioni in cui non si trova Berlusconi.
Rispetto ai precedenti richiamati dal Quirinale, come incide il fatto che Berlusconi non ha ancora iniziato a scontare la pena e che su di lui pendono altri processi ed altre condanne?
Incide molto. Prima di ogni decisione sulla concessione della grazia vengono sempre svolti rigorosi accertamenti circa il periodo di pena espiato, l'assenza di pericolosità del condannato, gli esiti del processo rieducativo, la condotta tenuta in detenzione. Aggiungo che, secondo il Quirinale, la grazia non può essere concessa a ridosso dalla sentenza definitiva di condanna, perché non è un quarto grado di giudizio. E il presidente Napolitano ha sempre espresso contrarietà a graziare condannati per reati di particolare gravità (e frode fiscale, concussione per costrizione e prostituzione minorile lo sono).
Esclusa, dunque, la praticabilità costituzionale della grazia, l'alternativa della commutazione della pena è meno problematica?
Commutare le pene detentive in pecuniarie è prerogativa del Quirinale, concessa nel «caso Sallusti», evocato in questi giorni. Impropriamente: la condanna di un direttore di giornale per omesso controllo sul contenuto di un articolo assomiglia a una responsabilità oggettiva. La pena detentiva sarebbe stata, dunque, priva del suo scopo rieducativo. da qui la sua giustificata commutazione. Nessuna analogia, dunque, con il caso Berlusconi.
Dunque il problema della «agibilità politica» del Cavaliere non si risolve al Quirinale?
No, se il principio di legalità ha ancora cittadinanza in questo paese. Dove esiste un problema di giustizia negata e di pene che le condizioni delle carceri commutano in trattamenti inumani e degradanti, per i quali l'Italia è condannata dalla Corte di Strasburgo. Ripetutamente, come un criminale recidivo. Entro il 28 maggio 2014 siamo condannati a risolvere un sovraffollamento carcerario «strutturale e sistemico». Invece di cercare salvacondotti ad personam, perché non ragionare di un provvedimento di clemenza collettiva per la Repubblica e la sua legalità costituzionale?

Il manifesto, 15 agosto 2013
Le immagini e le notizie che arrivano dal Cairo, direttamente raccolte per il manifesto con rigore e coraggio dal nostro Giuseppe Acconcia, parlano di morte. In un massacro è sfociato alla fine, del resto così com'era cominciato, l'ultimo atto dei militari golpisti egiziani che il 3 luglio scorso hanno deposto il presidente democraticamente eletto Morsi. Perché un golpe è un golpe è un golpe. Anche se una parte del paese - quella filo-occidentale ma sostenuta dalla petromonarchia saudita - batte le mani "ribelli". Che altro se non un massacro ci si doveva aspettare? Quando si depone con la forza un presidente eletto, lo si arresta e lo si sbatte in galera con tutti i leader del suo movimento, quando si chiudono tutti i media a lui favorevoli, quando si spara ormai da più di un mese sui manifestanti che lo sostengono?
Come si sta violando la Costituzione per garantire, dietro l’alibi della “stabilità”, la subordinazione del centrosinistra agli interessi di un evasore fiscale condannato da una sentenza definitiva. Domani sapremo se Giorgio Primo avrà saputo dire le parole giuste.
La Repubblica, 13 agosto 2013
Che differenza c’è tra la temuta paralisi e l’auspicata “stabilità”? In attesa che se ne discuta in apposito concilio (da convocarsi a Bisanzio), alcuni soloni d’accatto stanno illustrando urbi et orbi quale è oggi il prezzo della “stabilità”: un scambio di salvacondotti. A Berlusconi, condannato per frode fiscale, dev’essere garantita “agibilità”, cioè l’impunità; in cambio, si assicura la sopravvivenza del governo Letta. Il suo ruolo di capopartito e capopopolo conferirebbe a Berlusconi, secondo costoro, uno status speciale, come il capo di un esercito invasore che tratti alla pari col governo del luogo; compito precipuo del capo dello Stato, o se no del governo, o se no del Parlamento, sarebbe dunque inventarsi un inghippo per cancellare la condanna appena pronunciata. Ma, come ha scritto Ezio Mauro, «il fatto è che in democrazia, e vigente una Costituzione, non c’è modo di trascrivere questa specialità nel diritto, nei suoi codici e nelle procedure».
Questo preteso “stato di eccezione” (che suona come una campana a morto per la legalità) ha già provocato un capovolgimento delle priorità del governo Letta, del quale i voti controllati da Berlusconi sono essenziale puntello. Si era detto che una nuova legge elettorale e le emergenze dell’economia e del lavoro sarebbero state in cima alla lista, ma non è più così, perché anche qui vige la logica dello scambio (più appropriata, a dire il vero, per i sequestri di persona): non vi sarà riforma elettorale senza riforma della Costituzione, come è infatti previsto nel disegno di legge costituzionale 813. Ed è giusto così, secondo la Road Map delle riforme costituzionali, redatta da Massimo Rubechi, che il Pd ha diffuso il 7 agosto fra i suoi deputati del Pd, dato che «la riforma della legge elettorale è naturalmente legata alla forma di governo e pertanto vi è un nesso di consequenzialità tra revisione costituzionale e forma elettorale ». Si alza dunque il prezzo dello scambio: per garantire la precaria “stabilità” che il governo deve conquistarsi centimetro per centimetro e giorno per giorno, il Pd deve impegnarsi a portare a termine la riforma della Costituzione (la Road Map può sembrare una specie di catechismo per deputati riottosi o distratti).
Secondo Alessandro Pizzorusso, «le revisioni della Costituzione devono essere necessariamente puntuali e circoscritte, dovendosi far luogo a una specifica legge costituzionale per ogni singolo emendamento»; secondo Alessandro Pace, il ddl 813 configura «un uso illegittimo del potere di revisione al fine di poter modificare surrettiziamente la Costituzione », anche perché configura una radicale modifica della Carta nel vasto ambito di “supermaterie” come (recita testualmente il ddl 813) «la forma di Stato e la forma di governo». Eppure, ci assicura la Road Map,chiunque sollevi dubbi sul ddl 813 «sposa impostazioni estremiste », e lo fa «per fini propagandistici ». La Costituzione va cambiata, e in fretta: perciò la procedura prevista dal ddl 813 è in deroga all’articolo 138 della Costituzione (unica procedura legittima per modificarla): ma, secondo la famosa formula di Alf Ross, in tutte le Costituzioni «la norma chestabilisce le condizioni del mutamento si colloca a un livello superiore a quello della norma da modificare » (Groppi). Secondo la Road Map, al contrario, le deroghe all’articolo 138 sono legittime, per «non sottoporre il processo di revisione alle storture del nostro sistema parlamentare», cioè al bicameralismo. In altri termini, per modificare la Costituzione che prevede il bicameralismo, bisogna dare per scontato (prima della modifica) che esso è una stortura, e agire in deroga, come se fosse stato già abolito.
Tanta è la fretta, e tanta la voglia di cambiare la Carta, che si è inventata un’inedita procedura: la Costituzione-matrioska. Come in un gioco di scatole cinesi, la nuova Costituzione che sarà approvata dalle Camere contiene una scatola più piccola, quella della Commissione dei 42 (nominati dai capigruppo e dei presidenti delle Camere) prevista dal ddl 813, che predisporrà i testi da portare poi in aula. Dentro questa scatola, un’altra ancora: la Commissione per le riforme istituzionali nominata dal governo Letta il 12 giugno (i 35 “saggi”, oggi 34 dopo le dimissioni di Lorenza Carlassare), che è al lavoro nell’ombra, tanto per non perdere un secondo. E infine la scatola più piccola, i “saggi” nominati dal Presidente della Repubblica il 30 marzo, che in quattro e quattr’otto ha prodotto le sue proposte di riforma costituzionale, datate 12 aprile. Si dà per scontato che le idee prodotte dai “saggi” del Presidente in dodici giorni siano il seme di quelle su cui lavorano i “saggi” del Governo, per consegnarle poi ai 42 delle Camere, e infine alle assemblee. Peggio, si dà per scontato che cambiare la Costituzione debba essere un lavoro fatto en petit comité, da gruppi nominati dall’alto e non (come la Costituente del 1946) eletti dal popolo con il compito specifico di definire la forma di Stato e la forma di governo.
La Road Map descrive con esultanza questa procedura, neppure adombrata nell’unica norma vigente per la modifica della Carta, l’articolo 138, anzi ricorda come precedente la Commissione nominata da Berlusconi nel 1994 e presieduta dal leghista Speroni, ministro per la devoluzione. Ma il paradosso principale è un altro: quello che abbiamo è, grazie al Porcellum, un Parlamento non di eletti ma di nominati, eppure è ad esso che dobbiamo chiedere a gran voce, noi cittadini, un atto di resipiscenza e la difesa, non lo stravolgimento, della Costituzione.
Abolire il "porcellum è necessario, ma tornare al "mattarellum non basta per avere un istituzioni nazionali democratiche capaci di legiferare e governare.
Corriere della Sera, 11 agosto 2013
Caro Direttore, nella attuale fase politica di accresciuta incertezza, che potrebbe preludere ad una crisi del governo di «larghe intese», c'è un punto su cui è difficile dissentire, almeno per chi non metta i propri immediati interessi di parte al di sopra di ogni altra considerazione: è più che mai urgente approvare una nuova legge elettorale, prima che si vada al voto. Che l'attuale legge sia la più inadatta alle circostanze dipende non solo dai suoi difetti principali tante volte denunciati (premio di maggioranza spropositato e liste bloccate), ma anche dalla particolarità del sistema politico che in questo momento caratterizza il Paese. Se si andasse a votare oggi, con un Paese diviso non già fra due grandi partiti concorrenti per la maggioranza, ma fra almeno quattro o cinque (o come minimo tre) schieramenti apparentemente incompatibili fra loro, l'unica cosa che conterebbe sarebbe come conquistare un voto in più degli altri.
In un quadro almeno tripolare (centrodestra, centrosinistra, Movimento 5 Stelle, senza contare il centro e la sinistra «radicale»), se uno di questi tre «poli» conquistasse la maggioranza dei seggi, in quanto minoranza più forte (anche per un voto), avremmo un Parlamento assai poco rappresentativo, quindi poco adatto a mantenere un minimo di unità del Paese. Nel caso di vittoria del centrodestra o del centrosinistra, avremmo inoltre la prosecuzione a oltranza di una situazione (che ben conosciamo) di scontro frontale e di reciproca delegittimazione; nel caso (meno probabile) di vittoria dei Cinque Stelle, che esprimerebbe una sorta di definitiva affermazione dell'antipolitica, si aprirebbe una enorme incognita sugli indirizzi politici del paese. Se poi nessuno dei tre schieramenti prevalesse in entrambe le Camere, saremmo da capo con la situazione di oggi. Ancora, questo tipo di competizione porterebbe le forze maggiori a includere e valorizzare, per avere «un voto in più», le forze «estreme» che svolgono un ruolo tendenzialmente divaricante e foriero di rigide contrapposizioni: gli atteggiamenti delle forze maggiori sarebbero fatalmente condizionati e influenzati dalla spinta «estremizzante» delle forze minori forzatamente reclutate. Anche una eventuale evoluzione del sistema in senso tendenzialmente bipolare avverrebbe nella direzione di un bipolarismo «estremizzante» e iper-conflittuale.
Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Ma quale? Il semplice ripristino del «Mattarellum» che pure farebbe superare alcuni dei difetti dell'attuale legge, non risponderebbe alle esigenze della situazione descritta. Si riprodurrebbe, solo spostata nei singoli collegi, la gara per «un voto in più», con la quasi certezza che a «vincere» sarebbe sempre una minoranza in ogni collegio, e una minoranza, oppure nessuno, sul piano nazionale. Diverso sarebbe se si passasse ad un sistema a doppio turno (con ballottaggio a due nel secondo): in ogni collegio si formerebbe una maggioranza, e sarebbero gli elettori a determinare, nel secondo turno, le affinità e le «alleanze» capaci di produrre tale maggioranza. Conseguentemente a livello nazionale potrebbe prodursi, anche se non necessariamente si produrrebbe, una «vera» maggioranza. Una limitata quota proporzionale (già presente nel «Mattarellum») potrebbe ridurre il rischio della totale scomparsa delle «terze forze» e in generale delle forze minori in Parlamento.
Non è vero che in tal modo si sarebbe destinati necessariamente allo stallo permanente: al contrario, alleanze e coalizioni (larghe o meno larghe, ma sempre maggioritarie) potrebbero formarsi sulla base di reali affinità di intenti e di programmi, e non su quella precaria dell'interesse elettorale immediato e della necessità di «contrapporsi». Le forze minori che non vogliano o non possano convergere, comprese quelle «estreme», potrebbero avere la loro voce in Parlamento, ma non impedire che maggioranze, larghe o meno larghe, si formino per governare il Paese sulla base di indirizzi sufficientemente coerenti. I sistemi elettorali, si sa, non sono buoni o cattivi in sé, ma in relazione alla configurazione esistente del sistema politico. In un momento storico in cui tutto nel nostro Paese appare precario, in cui i partiti esistenti sono, per diverse ragioni, tutti in crisi, in cui non ci sono solo inevitabili contrasti ma sfide «mortali», e quindi emerge un bisogno di ricomposizione e di ricollocazione delle forze politiche e dello stesso elettorato, chiamato a fare le sue scelte su basi più razionali e meno immediatamente emotive, tutto fa pensare che questa potrebbe essere la linea giusta. Magari rinviando ad un Parlamento così eletto anche il compito di mettere mano alle possibili riformecostituzionali.
«È ora che il governo metta da parte l’ideologia e la retorica della larghe intese dalla quale è come ipnotizzato, per tornare a fissare tre o quattro punti essenziali e dirci se è in grado o meno di realizzarli nell’arco dei prossimi mesi. Altrimenti si concentri almeno su uno, la nuova legge elettorale, e si torni al voto».
La Repubblica, 10 agosto 2013
È ingiusto dire che il governo non stia facendo nulla. Sta facendo, come ha ammesso il reggente del Pd Epifani, «piccole cose buone». La legge sul femminicidio è un esempio di queste buone cose, neppure tanto piccole. Ma per quanto riguarda tutto il resto, l’emergenza economica e quella politica, le due autentiche missioni del governo, il durare finora si è rivelato nemico del fare. La legge elettorale è in alto mare e a occhio e croce vi rimarrà a lungo. La politica economica e quella fiscale sono tutte da definire. Sta per arrivare il treno di una ripresa economica che l’Italia rischia di perdere, perché non esiste ancora un singolo provvedimento governativo a favore del credito alle imprese. La politica fiscale, altra leva per rilanciare il Paese, è ancora più in alto mare della legge elettorale. Qui si scontrano due concezioni semplicemente opposte di equità fiscale, come ha scritto Massimo Giannini ieri, fra destra e sinistra. Con un debito pubblico che ha sfondato la quota dei 2mila miliardi, il governo delle larghe intese non riesce neppure a mettersi d’accordo sull’Imu, una voce che riguarda al massimo 3 o 4 miliardi del gettito fiscale. Nel tentativo di mediare a tutti i costi, il ministro dell’economia Saccomanni è arrivato a proporre ieri nove diverse soluzioni al problema dell’Imu, una trovata da far impallidire le celebri “rose dei nomi” dell’era dorotea. Quando è evidente a chiunque che di soluzioni ne esistono soltanto due, mantenere la tassa sulle prime case oppure abolirla. In un caso come nell’altro cambierà pochissimo nell’economia del Paese e nelle tasche dei cittadini. Compresi i proprietari dellacasa di famiglia, il cui vero problema non è l’Imu, ma semmai i tassi altissimi dei mutui.
Un governo a termine, d’emergenza, si sarebbe posto ben altre questioni. Ma l’ideologia delle larghe intese impone di parlare di ciò che non è importante e di fare quel che non serve, nell’attesa di trovare un compromesso su qualsiasi cosa. Così una nazione che negli ultimi cinque anni ha perso il 25 per cento della produzione industriale e l’8 per cento del Pil si sta accapigliando da quattro mesi sui processi di Berlusconi, la ridicola guerra dell’Imu, la riforma della Costituzione e quella della giustizia. In pratica, la solita surreale agenda imposta dai media di Berlusconi. La stessa agenda che ci ha portato a un passo dal baratro e dalla bancarotta di Stato, mentre si parlava d’altro.
È ora che il governo metta da parte l’ideologia e la retorica della larghe intese dalla quale è come ipnotizzato, per tornare a fissare tre o quattro punti essenziali e dirci se è in grado o meno di realizzarli nell’arco dei prossimi mesi. Altrimenti si concentri almeno su uno, la nuova legge elettorale, e si torni al voto.
Visione equilibrata (troppo) delle difficoltà del PD a causa dell'incapacità a proporre un’uscita dalla crisi alternativa a quella neoliberista, a cui rimane subalterno. Nel partito, della sinistra rimangono solo i fantasmi.
LaRepubblica, 8 agosto 2013
POSTA di fronte al «fatto enorme» (parola di Epifani) della condanna definitiva di Berlusconi, la direzione del Partito Democratico oggi è costretta a fare i conti con la paura di cambiare che la attanaglia. I primi cento giorni del governo Letta sono vissuti con imbarazzo: lo stesso Epifani parla di un governo con le mani legate dal debito pubblico, ostaggio degli eccessi di rigorismo dell’Unione europea, vincolato dai parametri di bilancio imposti all’Italia.
Insomma, nessuna svolta riformista di cui la sinistra possa menar vanto: il segretario del Pd riconosce che Letta sta facendo solo «piccole cose, buone ma piccole». Eppure, ben al di là dei rapporti di forza parlamentari con cui il Quirinale l’ha costretto a fare i conti, permane in questo gruppo dirigente un dubbio esistenziale. L’eventualità di governare l’Italia senza la destra, nel bel mezzo di una crisi drammatica e dall’esito ignoto, è davvero augurabile?
Le oscillazioni e l’insicurezza sono sintomi talmente fastidiosi che ci viene fin troppo facile accusare il Pd di autolesionismo. Ma non è certo invidiabile la posizione di chi guida in Italia un partito riformista tuttora sprovvisto di convincenti terapie alternative per la cura della malattia misteriosa che dal 2008 ha ridotto del 25% la produzione industriale, impoverito la maggioranza dei cittadini, aggravato il debito pubblico, diminuito e resi più precari i posti di lavoro. La Grande Depressione non apre certo scenari rivoluzionari in alternativa al fallimento dei riformisti. Ma costringe semmai questi ultimi a fare i conti con gli eccessi di compiacenza mostrati nei confronti della grande finanza globalizzata. Questione scomoda da elaborare. Nel frattempo, messi alle strette, i principali dirigenti del Pd forse si stanno chiedendo se non sia solo velleitaria, ma perfino sconveniente, la fine dell’alleanza col Pdl cui Napolitano li “costringe” dal novembre 2011.
Dietro ai pretestuosi litigi sulle regole congressuali e dietro all’ormai stantio dilemma “Renzi o non Renzi”, s’intravedono motivazioni più profonde che rendono ostico al Pd riconoscersi nel governo Letta. Basti pensare, in estrema sintesi, al paradosso per cui il più “eretico” dei dirigenti economici del partito, Stefano Fassina, è stato chiamato a fare il vice del ministro più “ortodosso” del governo stesso, Fabrizio Saccomanni. Come già nel governo Monti, anche nel governo Letta si è voluto garantire che i processi decisionali in materia economico- finanziaria siano delegati a figure di tramite, rese autorevoli in Europa dalla loro fisionomia tecnica. Il medesimo paradosso rovesciato s’incarna nell’avventura di Fabrizio Barca che durante la settimana lavorativa fa il dirigente al ministero dell’Economia per poi, durante il week end, mettere in guardia i militanti del Pd da quelle stesse compatibilità di cui egli fu portatore come ministro tecnico del governo Monti.
Né per Fassina né per Barca si può parlare di furbizia. Al contrario. Essi personificano il disagio di essere chiamati a recitare in commedia un copione diverso, se non opposto, a ciò in cui credono. Per quanto tempo ancora ha da protrarsi la forzatura di un’ortodossia imposta dall’esterno sulle gracili spalle della sinistra riformista italiana, prima che le tocchi il destino dei socialisti greci del Pasok, ridotti ai minimi termini per lealtà ai diktat europei?
La destra non ha simili problemi di credibilità. Può stare nel governo di unità nazionale per convenienza del suo capo evasore fiscale condannato, e al tempo stesso sparare cannonate contro l’euro e la Merkel. Può condividere con Casaleggio una visione catastrofista del futuro incognito che ci attende, magari pregustando come fa Grillo i vantaggi elettorali che la sofferenza sociale gli garantirà. La sinistra invece non può essere catastrofista. Nel 2013 non promette rivoluzioni miracolose, è per sua natura europeista, rifiuta di contrapporre i popoli l’uno all’altro. Pesa troppo su di noi la memoria delle tragedie novecentesche. Ma se anche i presagi di ripresa economica amplificati da governo e Bankitalia fossero veritieri, chissà quando, non toccherà alla sinistra poterla rivendicare, dato il contesto di ingiustizia sociale e perdita di diritti in cui s’inserisce.
Succede così che lo stato di necessità in cui il Pd si trova imbrigliato almeno dal novembre 2011 – quando Napolitano nominò Monti senatore a vita e organizzò il sostegno parlamentare al suo governo tecnico – espunga dal suo dibattito interno le questioni più scabrose. Ha senso, come e quanto, pagare gli interessi su un debito pubblico che rimarrà inestinguibile? Dove reperire le risorse per interventi efficaci contro la povertà? È attuabile una “tosatura” della finanza speculativa? Il fiscal compact è un imperativo categorico? Gli accordi internazionali sottoscritti sulle spese militari sono modificabili?
Mantenersi volutamente ambigui su scelte dirimenti di questa natura, come su tante altre, è certamente spiegabile con la loro estrema difficoltà. Ma il non scegliere ha già condannato la politica all’impotenza e all’eterodirezione. Rassegnarsi all’eccezionalismo come regola induce a perdere la fiducia in se stessi. E spiega perché oggi qualcuno nel Pd viva ancora come necessario perfino l’appoggio di una destra che predica la sospensione del principio di legalità a vantaggio del suo capo.
Appello alla responsabilità di Pd e M5S, decisiva nel momento politico, e una domanda: «c’è un’Italia che ha saputo tenere campo e contrapporsi ad una “pedagogia” berlusconiana intrisa di disprezzo per lo Stato?».
La Repubblica, 6 agosto 2013
È davvero un’autobiografia della seconda repubblica quella che ci è stata posta sotto gli occhi dalla scomposta mobilitazione del centrodestra? Da quell’aggressione alla costituzione che ha accomunato falchi e amazzoni?
Che ha accomunato Bondi e i fedelissimi d’agosto, presunte colombe e veri esecutori a comando? Lo è solo in parte, certo, ma qualcosa pur ci dice l’impresentabile coorte di Silvio boys che si è mobilitata nei giorni scorsi: ce lo dice il fatto stesso che quella mobilitazione non abbia provocato e non provochi un ulteriore e immediato crollo dei consensi al centrodestra. Negli ultimi mesi e anni ci avevano detto qualcosa di importante anche i tratti nuovi della corruttela, il salto di qualità rispetto a Tangentopoli: il prevalere della corruzione “privatistica” su quella che ancora si appellava ad esigenze di partito, l’assenza persino di giustificazioni ideologico- politiche, l’assuefazione al congiunto operare di arricchimento illecito e di eversione delle regole della democrazia.
Ora si è toccato un nuovo culmine: il primo avviso di garanzia già incrinò la credibilità di Bettino Craxi ma una condanna definitiva non è stata sufficiente sin qui a far scomparire dalla scena pubblica Silvio Berlusconi, come avverrebbe in ogni altra nazione europea. Una condanna definitiva, va aggiunto, sancita da giudici della Corte di Cassazione che il Giornale stesso cha definito in un titolo, all’indomani della sentenza, “toghe moderate e di lungo corso” (e il giorno dopo ha dato avvio alla “macchina del fango” contro di esse). Una condanna che non è stata preceduta da molte altre solo per le prescrizioni garantite da indecenti leggi ad personam.
Rispetto a vent’anni fa, inoltre, è mutata la forma di autodifesa dei leader: così fan tutti, diceva Craxi, e invocava un’autoassoluzione collettiva. Così faccio io e mi proclamo innocente, ha gridato dal palco abusivo davanti casa Silvio Berlusconi. Io, unico potere legittimo perché eletto dal popolo: non essendo stata eletta, la magistratura non è un potere dello Stato. E il potere giudiziario, di grazia, chi lo dovrebbe esercitare? La cuoca di Arcore?
Appare chiaro da tempo che Tangentopoli fotografa solo una fase di passaggio, non il culmine di un percorso iniziato negli anni Ottanta: segnala un’occasione perduta di Ricostruzione, di riconquista delle ragioni del nostro essere nazione. Solo la prima tappa del pessimo cammino che ci ha portati sin qui. Si è discusso più volte sul “perché” quell’occasione non sia stata colta e la richiesta di giustizia sia stata dissipata, quasi colpevolizzata con lo scorrere del tempo. Forse non se ne è discusso a sufficienza ma occorre ora rivolgere con decisione lo sguardo a questi ultimi vent’anni: agli effetti della stagionedi Berlusconi sul centrodestra e sul centrosinistra, e al tempo stesso sul corpo vivo della società italiana. Da tempo la capacità di presa dell’ex Cavaliere sul suo elettorato si è grandemente indebolita, puntellata solo dalla inadeguatezza degli avversari: lo testimoniano gli oltre sei milioni di voti persi alle ultime elezioni politiche e il successivo crollo a quelle amministrative. Una ulteriore conferma, queste ultime, che nel Paese c’è ancora un (ristretto) “zoccolo duro” dell’antidemocrazia e dell’illusionismo berlusconiano ma non “un popolo”, come in parte c’era pur stato, né una classe dirigente (e neppure il fantasma di essa), che non c’è mai stata. Non occorreva poi attendere l’ultima, mal riuscita mobilitazione agostana per comprendere come il finale del “Caimano”, con la sollevazione popolare contro i giudici, sia da moltissimo tempo fuori dal campo del possibile.
Occorre però chiedersi: c’è un’Italia che ha saputo tenere realmente il campo e contrapporsi ad una “pedagogia” berlusconiana intrisa di disprezzo per lo Stato (per le regole fiscali come per l’istruzione pubblica, per la magistratura come per ogni valore e bene collettivo)? Quella “pedagogia” ha trovato di fronte a sé, contro di sé, un’altra e opposta “pedagogia”, un’altra Italia? L’ha trovata nella politica? L’ha trovata nella società civile? Troppo poco, occorre dire, altrimenti non saremmo arrivati a questa barbarie, a questa diffusa indifferenza verso l’eversione quotidiana.
Da questa consapevolezza occorre prender avvio se vogliamo trovare una leva per ripartire. Il baratro che si è rivelato per intero in questi giorni ci fa comprendere che sarà impresa difficile, se non difficilissima, e di lunghissimo periodo. E che ci riguarda tutti: nella stagione di Berlusconi la devastazione delle regole ha fatto passi da gigante nell’insieme della società, non solo nel Palazzo, e anche lì va contrastata con una forza e con una decisione che sin qui sono apparse solo in parte. La necessaria inversione di tendenza riguarda naturalmente, in primissimo luogo, la politica. Prima ancora della condanna di Berlusconi la finzione delle larghe intese è stata lacerata in via definitiva dal centrodestra, dalla sua estraneità dichiarata alle regole costitutive di ogni patto: ogni sua rassicurazione è stata ed è un’ingannevole cortina fumogena volta a guadagnar tempo. Ad attendere il momento migliore per andare all’offensiva, e a quel punto alla disperata.
Il centrosinistra è la prima forza del Paese, detti regole e contenuti essenziali per chiudere rapidamente questa fase: in primo luogo accelerando (e radicalizzando) le misure annunciate su costi e moralità della politica, e dando corpo in tempi brevi alla legge elettorale possibile, fosse anche una legge di transizione, per uscire dal porcellum. Riconquisti, anche, quel senso di responsabilità che le lotte interne hanno sin qui offuscato, per usare un eufemismo.
All’assunzione di responsabilità è chiamato con forza, infine, anche il Movimento Cinque Stelle. Oggi è chiaro quali errori ha compiuto all’indomani del voto, e quali conseguenze ne sono venute: se si sottraesse di nuovo alle scelte necessarie avrebbe molte difficoltà a presentarsi ai suoi stessi elettori. Annibale è già dentro le mura, il tempo è scaduto da molto.
«Il manifesto, 6 agosto 2013
A questa fenomenologia di profondo degrado politico e morale si sono accompagnati, e da un certo momento in poi si sono profondamente intrecciati, due altri aspetti di eguale portata storica. Il primo è rappresentato dal vasto consenso che, nella latitanza di una politica alternativa seria, hanno riscosso le proposte di una politica corrotta (sul molteplici piani) e affaristica.
Qui il discorso dovrebbe calarsi sull'Italia: su ciò che l'Italia è o non è, su ciò che avrebbe potuto essere e non è stata (dall'Unità nazionale in poi, s'intende; ma in maniera più pressante dalla Resistenza fino ai nostri giorni). Non possiamo dilungarci. Basti qui rilevare che, nel corso degli ultimi trent'anni, cui all'inizio alludevamo, le due sponde del processo si sono avvicinate sempre di più: la politica corrotta ha favorito l'emergere di una nazione infetta; la nazione infetta ha manifestato un suo ampio consenso, e persino la sua gratitudine, alla politica corrotta.
L'altro aspetto storico di notevole importanza è di segno opposto. L'affermazione di una politica corrotta all'interno di una nazione infetta ha incontrato un argine, forse superiore alle previsioni, nell'applicazione delle leggi, cioè da parte, essenzialmente, della magistratura. Ciò è accaduto sia nei primi grandi casi di corruzione della politica (l'affarismo democristiano, l'avventura socialistico-craxiana); sia, ancor più clamorosamente, nei casi recenti riguardanti scelte personali, scelte affaristiche e scelte politiche tout court di Silvio Berlusconi.
Questa resistenza ha avuto un aspetto positivo e uno negativo. L'aspetto positivo riguarda, appunto, la forza di resistenza di pezzi intieri dell'apparato dello Stato, allevati nel culto della separazione dei poteri e dello Stato di diritto, e non corrompibili (se lo fossero stati, no?, questa storia non sarebbe nemmeno cominciata). L'aspetto negativo riguarda l'evidente incapacità della politica, - quella sana, o presunta tale, - di sottrarsi con le sue sole forze al ricatto della corruzione.
Richiamo queste poche e piccole cose, che tutti conoscono ma pochi ricordano, per dare maggior forza alle mie argomentazioni successive. Ciò di cui oggi parliamo non nasce a caso, ha radici profonde. Le mezze misure non bastano più, gli accomodamenti fanno ancora più male. Dico questo perché penso che quel che è avvenuto in queste ultime settimane e in questi ultimi giorni nel nostro paese non costituisca una scoperta improvvisa, una novità sorprendente, ma un punto di non ritorno. Dalla direzione che ora s'imbocca dipende tutto il resto.
Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale. Quello che, su questa legittima e ormai incontestabile sentenza, egli è riuscito a costruire seduta stante ha tutti caratteri di una manovra eversiva contro la separazione dei poteri e contro lo Stato di diritto, cioè contro la nostra democrazia. Non ci sono parole per descrivere ciò che ha detto nel suo messaggio televisivo. Non ci sono parole per descrivere il senso dell'appello alla piazza nei dintorni della sua principesca abitazione romana, e il fatto medesimo che esso sia stato possibile e si sia realizzato.
Siamo cioè di fronte a un pregiudicato che per salvarsi, e persino per rilanciarsi, fa appello alla folla, cioè all'indeterminato più incontrollabile della volontà popolare (per un gioco della sorte Palazzo Venezia è a due passi), per dire che le regole del gioco son quelle che lui ha inventato e pratica per sé. Anche un bambino capirebbe che la sua dichiarazione di lealtà al Governo Letta non è che una copertura al suo gioco eversivo. Tengo in piedi il Governo, a patto che mi riconosciate l'impunità.
Questo gioco va immediatamente contrastato e sconfitto. Io, che sono un moderato fra gli estremisti, dico che in questo momento la questione decisiva non è quella della sopravvivenza del Governo Letta. La questione decisiva è la difesa della libertà repubblicana. Questa è la linea del Piave delle istituzioni, del Parlamento e dei partiti «sani», che su questo punto devono dimostrare se la loro «sanità» è vera o solo presunta. Sono gli altri, i «berluscones», che devono accettare la difesa della legalità a tutti i costi, se vogliono tenere in piedi il governo; non viceversa, come, ahimè, cercheranno in tutti i modi di motivare e fare (e non solo loro, ma anche altri).
La difesa della legalità repubblicana consiste del resto in questo momento in tre semplici cose: 1) l'applicazione in tutti i suoi modi e forme della sentenza; 2) la decadenza ipso facto - cioè, anche qui, pura e semplice - del condannato dal suo seggio parlamentare; 3) la moltiplicazione urbi et orbi di tutte le voci disponibili (istituzioni, Parlamento, politica) a favore della legalità repubblicana e di condanna esplicita e senza riserve delle molteplici, infami dichiarazioni dei sostenitori del Capo contro la magistratura e a favore della sovversione (serve fare esempi?).
Un ruolo importante, anzi decisivo, è destinato a svolgere in questi frangenti il Presidente Napolitano. Come lui sa meglio di chiunque altro, la difesa della legalità repubblicana non tollera né mediazione né sconti: paradossalmente, come già dicevo, è perciò più semplice, c'è solo da tener ferme le regole, e difenderle contro gli attacchi forsennati cui sono sottoposte.
Chiedo, chiediamo al Presidente Napolitano di farsi garante della corretta e totale applicazione della sentenza della Cassazione, con tutte le necessarie e inevitabili ricadute. Chiedo, chiediamo, al Presidente Napolitano che vada in televisione a dire, con uno di quei suoi discorsi semplici e diretti di cui è capace, che a nessuno è consentito di evocare e sollecitare lo scontro con lo stato di diritto e contro la separazione dei poteri, e che la campagna eversiva suscitata da Silvio Berlusconi e dai suoi amici in questi giorni non è tollerabile, è anch'essa un reato, che replica un reato.
La crisi delle democrazie in Europa nel corso del Novecento, e segnatamente in Italia, sono state sempre favorite dalla debolezza delle classi dirigenti e dalla loro incapacità di segnalarne la progressiva avanzata. Il rischio che la democrazia fosse travolta in genere è stato segnalato ventiquattro ore dopo che sera stata travolta (così come il più delle volte coloro che ne segnalavano il rischio sono stati accolti dalle risate e dal dileggio dei contemporanei). L'Italia, come sempre, è un paese speciale. In Italia oggi il rischio della catastrofe della democrazia non consiste nel colpo di Stato (di cui peraltro, il nostro personaggio, se ce ne fosse bisogno, sarebbe capace). Consiste in una cosa anch'essa più semplice, e in fondo più lurida, e cioè nella pratica cancellazione e dissoluzione delle regole e dei valori che la sovraintendono e la rendono possibile. Questo rischio oggi è assolutamente reale: non a caso il pregiudicato invoca come prima riforma la riforma della giustizia, con lo scopo, ora e sempre, di mettersi al riparo dai rischi della sua applicazione.
O lo si ferma prima che questa soglia sia varcata: oppure tutto il resto, - governo e governance, riscatto possibile dei partiti democratici dalla loro subalternità, ricostruzione del rapporto etica-politica - sarà perduto. Chi sottovaluta è complice. Solo chi è consapevole di questo, e agisce di conseguenza, può ricominciare.