
l manifesto, 27 settembre
Mercoledì scorso, all'indomani dell'affondo spagnolo sulla proprietà di Telecom, L'Unità e Il Tempo uscivano con un titolo di prima pagina praticamente identico nel suo significato: Fermiamo la svendita dell'Italia. Stampa e telegiornali elencavano sconsolati le numerose aziende italiane passate «in mani straniere», i «gioielli del made in Italy» che avevano cambiato nazionalità. Su queste stesse pagine, in un articolo peraltro apprezzabile, Enrico Grazzini, affermava in conclusione: «Il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia».
Tutto ciò è preoccupante e sono, come sempre accade, il linguaggio e la rappresentazione a segnalare il pericolo. Che non è affatto riconducibile alla conduzione scriteriata di singole vicende, sia pure rilevanti, come quella di Telecom o di Alitalia. Già nel definire «straniere», mani europee, si indirizza l'opinione pubblica verso una concezione competitiva della presenza dei singoli stati nell'Unione. Se poi ci si mette di mezzo anche il «patriottismo» i termini della questione si fanno ancora più sinistri. In tutta la discussione sul mercato delle aziende e sulla politica industriale la dimensione europea semplicemente scompare. Si torna a parlare di famiglie e di «gioielli di famiglia». Ma, tanto per restare nel campo dei gioielli in senso stretto, dubito che anche un solo disoccupato o precario italiano si sia disperato per il passaggio di Bulgari «in mani straniere». Così come non credo che i capitali esteri penetrati nelle griffe del bel paese, soffocheranno la «creatività» del made in Italy, se ancora ve ne è una, e ridurranno una occupazione ormai ampiamente delocalizzata. O che la proprietà transalpina di Parmalat debba farci rimpiangere Calisto Tanzi.
C'è qualcosa di paradossale, anzi di incomprensibile, nel rivendicare l'italianità delle imprese italiane dopo avere elencato con dovizia di particolari l'insipenza, o la corruzione, della classe politica, allegramente privatizzatrice, che ci ha governato e ci governa. Dopo aver illustrato la grettezza, l'inefficienza, la vista corta di buona parte del nostro mondo imprenditoriale. Fino a reclamare una Norimberga (La Repubblica) per i crimini commessi in Italia «contro il capitalismo». Che dio li perdoni per questo paragone. Sarebbe dunque questa l'italianità da preservare? La patria economica da difendere fino alla morte, magari accettando tassi di sfruttamento più «competitivi»? O qualcuno intravede un improvviso e imprevisto momento di redenzione? Che i capitali circolino liberamente e i mercati si attengano solo alle proprie regole non è certo una novità. Il problema è che altro non circola, resta racchiuso nella presuntuosa impotenza delle «patrie».
C'è poi una singolare leggenda presente soprattutto nella mitologia sindacale. Quella secondo cui i padroni nazionali sarebbero più teneri con i loro dipendenti, forse preoccupati da una ostilità sociale più prossima, meno cinici dello «straniero» che si avvale della distanza. È una visione paternalistica, arcaica e stucchevole, smentita innumerevoli volte. Nessun patriottismo imprenditoriale (fatta salva l'eticità difesa fino alla disperazione da qualche piccola o media impresa) è mai valso a contrastare chiusure, delocalizzazioni, esuberi, riduzione dell'occupazione e dei salari. C'è infine chi crede che i padroni nostrani sarebbero più ricattabili, o condizionabili, da un governo del paese seriamente impegnato nella politica industriale. L'esperienza ci dice il contrario. A maggior ragione in una situazione di crisi in cui scarseggiano tanto i bastoni quanto le carote. Ci dicono i sindacati italiani: Telefonica, la compagnia spagnola che sta assumendo il controllo di Telecom, ha scaricato diversi settori produttivi, creando esuberi e disoccupazione. Lo stesso potrebbe fare anche qui da noi. Ma dove stavano il sindacato italiano e gli altri sindacati europei quando questo accadeva? Nelle rispettive patrie, naturalmente, a strepitare contro l'Europa invece di organizzare lotte sovranazionali che la trasformino, contrastando le politiche liberiste. Al di sotto della dimensione europea, rinchiusi nel cortile nazionale, si perde sempre e comunque. Facile a dirsi, ne convengo. Ma se non si coltiva almeno un simile immaginario contro ogni forma di patriottismo (economico, politico o culturale), di retorica dell'italianità e del «sistema-paese» l'Europa e tutto ciò che essa contiene resterà saldamente non in «mani straniere», ma in quelle di una élite speculativa senza remore e senza argini.
Un piccolo esempio di «internazionalismo» possibile, e uso di proposito questo termine desueto: le politiche restrittive imposte dalla troika alla Grecia stanno conducendo alla chiusura dei maggiori atenei di quel paese. Non sarebbe un segnale chiaro e determinato se tutte le università d'Europa chiudessero, almeno per un giorno, in segno di lutto per qualcosa che accade altrove, ma incombe sul futuro di tutti? Si avvicina il centenario del 1914. Cerchiamo di celebrarlo con saggezza.
a Repubblica) e Norma Rangeri (manifesto), 27 settembre 2013
La Repubblica
L’EVERSIONE BIANCA
di Ezio Mauro
ADESSO Silvio Berlusconi è solo davanti alla crisi di sistema che sta provocando. Anche se ha costretto i suoi parlamentari a firmare dimissioni in bianco per tentare un ultimo atto di forza che è in realtà una dichiarazione estrema di debolezza e di paura, è istituzionalmente solo.
La gravità di questo richiamo, su elementari principi di democrazia, segnala l’emergenza istituzionale in cui siamo precipitati. Bisognava fermare per tempo — istituzioni, opposizioni, intellettuali, giornali, un establishment degno di questo nome — la progressione di un’avventura politica che costruiva se stessa come sciolta dalle leggi, dai controlli, dalle norme stesse della Costituzione: disuguale nella pratica abusiva, nel potere illegittimo e nella norma deformata secondo il bisogno. Ora si vedono i guasti, con la disperata pretesa di unire in un unico fascio tragico i destini di un uomo, del governo, del parlamento e del Paese, nell’impossibile richiesta di salvare dalla legge un pregiudicato per crimini comuni.
Bisogna fermarlo, subito. Tutte le forze che si riconoscono nella Costituzione devono dire basta, difendere i fondamentali della Repubblica, respingere l’estorsione politica, sconfiggere questa anomalia nel parlamento, nella pubblica opinione, nel voto. In Occidente non c’è spazio per questo sovvertimento istituzionale, per questa eversione bianca strisciante e ora firmata e conclamata.
Chi non la combatte è complice.
manifesto
FRUTTI AVVELENATI
di Norma Rangeri
L'Aventino della destra ha un obiettivo molto semplice: togliere al capo dello stato, in caso di crisi di governo, la possibilità di chiamare il parlamento a esplorare l'esistenza di un'altra maggioranza come prevede e stabilisce la Costituzione.
Non sono infatti i ministri a dare le dimissioni, ma i parlamentari a prometterle. Una mossa inedita e disperata, «un fatto istituzionalmente inquietante... che produrrebbe l'effetto di colpire alla radice la funzionalità delle Camere», come ha ben compreso il capo dello stato, che infatti reagisce duramente ricordando che «non meno inquietante» è la pressione che in questo modo si vorrebbe esercitare per arrivare «allo scioglimento delle camere». Le sentenze, torna ancora a ripetere il presidente della repubblica, in uno stato di diritto «si applicano». Mentre il presidente del consiglio, inseguito dal fantasma di Jo Condor, serra i ranghi e chiede un chiarimento in parlamento.
Ma gli effetti perversi e «inquietanti» della mossa estremista di Berlusconi sono già abbastanza chiari e originano dalla eccezionale torsione impressa al quadro politico proprio da chi ha creduto che un'alleanza di governo con un eversore in doppiopetto potesse disinnescarlo e tamponare le falle di un sistema allo sbando da ogni punto di vista (costituzionale, politico, sociale, economico).
Chi ha immaginato che il grumo del ventennio berlusconiano potesse essere arginato da un confronto diretto tra Napolitano e Berlusconi ha drammaticamente sottovalutato la natura sfascista di un partito nato e cresciuto in conflitto con poteri costituzionali (legislativo, esecutivo, giudiziario). Chi ha pensato che la sorda lontananza tra i partiti e gli elettori potesse essere colmata senza promuovere e riconoscere un protagonismo sociale (e il nostro paese per fortuna ne è ricco) capace di riaprire i canali ostruiti di un assetto democratico debole, svuotato, narcotizzato, ha sottovalutato la frattura crescente tra una classe dirigente asserragliata nel bunker dei propri privilegi e una maggioranza dei cittadini impauriti del futuro.
Siamo a un giro di boa, con l'uomo ancora potente che prende il sopravvento sul politico al tappeto, convinto che falsificando i dati di realtà («la sinistra è criminale», «la democrazia non c'è più», «la magistratura è eversiva»), la sua carriera fuorilegge, la sua figura deformante potrà mimetizzarsi e sfuggire al giudizio finale anche dei suoi stessi elettori. Ma il marketing che in tempo di «pace» è stato capace di affascinare i berlusconiani e gli arcoriani di complemento (una parte della sinistra politica e televisiva), oggi, nel tempo delle sentenze e dell'elmetto, fa paura anche ai sodali della prima ora che invano consigliano a Berlusconi di prendere atto della realtà, di dimettersi, rassegnarsi agli arresti domiciliari e liberare la strada al governo.
Anche per questo chi scenderà in piazza il 12 ottobre vede se possibile rafforzato il compito di difendere i diritti tutelati dalla Costituzione (a cominciare da quelli del lavoro). L'iniziativa, aperta e indipendente dai partiti, chiede di tornare con i piedi nella società, invita cittadini e associazioni a una partecipazione larga, oltre i confini della sinistra. La migliore garanzia di una tenuta democratica.
Se Stefano Rodotà, di fronte al recente proclama eversivo di di Silvio Berlusconi in televisione, avesse dichiarato che si trattava di un atto "deprecabile ma comprensibile", nessuno di noi si sarebbe stupito. E' senza dubbio vergognoso che un delinquente, condannato in via definitiva, compaia a reti unificate a tentar di scatenare i propri seguaci contro i propri giudici, ma nel contempo si può perfettamente capire perché uno con quella storia di impenitente frodatore dello Stato a cui sia stata regalata la golden share del governo usi quel potere di ricatto per difendere la propria pessima causa. Allo stesso modo potremmo dire che la carognata del ministro Alfano nei confronti di uno dei più rispettabili e nobili cittadini di questo paese è "deprecabile ma comprensibile". Nel senso che l'uscita a freddo, brutale nella sua volgarità, del ministro degli interni contro il mitissimo Rodotà fa senza dubbio indignare, ma nel contempo si può capire benissimo perché l'abbia fatto ora, quando serve un diversivo per mascherare le malefatte del padrone del suo partito. E soprattutto nel momento in cui occorre mobilitare tutte le energie disponibili a difesa di un sistema degli affari che ha nel Tav la propria cupola e il proprio forziere.
È a proposito del Tav che è stata evocata la parola tossica "terrorismo", varcando un confine linguistico cruciale. Perché rimetterla in circolazione oggi, proiettandola su quella realtà territoriale sensibilissima, giocandola in una congiuntura politica e sociale delicatissima, significa assumersi una responsabilità grave: significa cioè alzare il tiro in misura spropositata, abnorme, sdoganando il potenziale simbolico distruttivo del termine, evocando scenari astorici o anti-storici ma carichi di tensioni emotive, creando le condizioni per la messa al bando "lineare" di ogni posizione antagonistica, di ogni atto non conforme, delle stesse espressioni del pensiero critico schiacciate su quell'immaginario cruento (come appunto il ministro dell'interno ha fatto). Significa, in altre parole, introdurci artificialmente nella dimensione esistenziale di uno "stato d'eccezione" permanente, nel senso originario e letterale del termine, il quale evoca una situazione di sospensione della normalità e della Norma (a cominciare dalla Norma fondamentale, la Costituzione, giù giù verso le "normali" regole del Diritto, fino alle regole del linguaggio e a quelle del corretto comportamento personale e istituzionale). Il che non vuol dire negare che in quel contesto possano essere stato commessi reati, su cui è legittimo indagare e per i quali se comprovati comminare sanzioni commisurate alla gravità effettiva dell'atto, ma a cui non è ammissibile somministrare l'alto voltaggio di una straordinarietà emotivamente alimentata e politicamente enfatizzata.
Terrorista, d'altra parte - lo ricordava ieri Guido Viale su questo giornale - è l'epiteto con cui l'ex governatrice dell'Umbria Maria Rita Lorenzetti aveva qualificato un Dirigente dell'Assessorato all'Ambiente della Regione Toscana, colpevole di mettere i bastoni tra le ruote alla cricca politico-affaristica legata ai lavori costosissimi e devastanti del Tav fiorentino. Aveva aggiunto anche «mascalzone, bastardo e stronzo», a esemplificazione di un quadro mentale da "razza padrona" saturo di senso di onnipotenza - è la stessa che in una conversazione telefonica se ne era uscita con un «e a noi chi ci ammazzerà mai?!» per esprimere gergalmente la propria certezza di impunità - che pervade ormai, come una gramigna, il ceto politico di potere trasversalmente, facendo registrare una sorta di mutazione antropologica. Che a sua volta rivela un nuovo, preoccupante, salto di qualità nel rapporto tra politica e affari e, di conseguenza, tra dimensione affaristica della politica e deterioramento democratico delle istituzioni.
Il fatto è che quando in gioco c'è una grande quantità di denaro, intorno ad esso si eleva un muro che sospende la normale dialettica politica e le stesse regole della deliberazione democratica. E quanto più la posta si fa ricca, tanto più quel muro si fa invalicabile, il meccanismo intoccabile, la discussione inutile perché la decisione sta a monte. La Tav resta, oggi, la più ricca preda in questo gioco: quella in cui maggiore è la concentrazione monetaria e più facile la gestione nei circuiti affaristico-clientelari. Ma la logica del governo delle grandi intese non è diversa: anche qui una cinta muraria istituzionale isola (fin che può, ma il suo potere è alto) un'artificiale maggioranza di governo da ogni possibile turbolenza esterna perché la governabilità deve essere data come un a priori. L'alternativa che non tollera alternative.
Per questo quanto accade in val di Susa ha un valore paradigmatico, che sarebbe importante tener ben presente in questi giorni difficili, in cui tra mille difficoltà si rende urgente riorganizzare una qualche forma di resistenza civile a una deriva pericolosa. Ed il bisogno di riempire il vuoto di senso - e di legalità costituzionale - nel cuore del sistema politico, si fa impellente. Il 12 ottobre sarà una tappa importante di questo processo, che interpella tutti, e da cui - come ha sottolineato don Ciotti nel presentare la manifestazione - nessuno si deve sentire escluso.
Il capitalismo italiano ha preferito la speculazione immobiliare, e poi quella finanziaria, all'attività produttiva, la rendita al profitto Chi governava, dagli anni Ottanta in poi ha lasciato fare, per non dover contrastare il "blocco edilizio". Eccone gli effetti .
Il manifesto, 25 settembre 2013
Un governo inetto e senza idee ha rispolverato nelle scorse settimane la geniale idea di privatizzare i beni pubblici. Non sappiamo cosa effettivamente si vorrebbe vendere e Letta non lo dice a noi, ma va a raccontarlo in giro per il mondo. Evidentemente nessuno sembra pensare che cedere un rilevante volume di immobili in un mercato estremamente depresso significherebbe andare incontro ad un fallimento totale. Se invece si trattasse di esitare delle quote di imprese ancora a controllo pubblico, vorrebbe dire che si è cancellata del tutto la memoria degli eventi passati, come è ormai del resto normale nel nostro paese. Da questo punto di vista vogliamo credere, per essere benevoli, che l'annuncio sia stato imposto dalla troika ad un governo sempre più commissariato, per placare un po' i burocrati di Bruxelles e i funzionari della Bundesbank.
L'Italia, negli anni novanta, ha portato avanti la più grande dismissione di beni pubblici dell'intera Europa. La vendita si è rivelata uno dei più clamorosi fallimenti politici del dopoguerra e le sue conseguenze le stiamo sentendo ancora oggi. Una dismissione che, insieme agli accordi del 1992, governo-sindacati-industria, sulla concertazione e alla legge Treu del 1997 sulla flessibilità, è stato il capitolo iniziale di un crollo progressivo del complesso di grandi imprese e il punto di avvio di una crisi profonda del sistema industriale, che da allora non si è più ripreso. Ricordiamo così, tra le altre, le vicende incredibili dell'Ilva, dell'Alitalia, vicina all'insolvenza, di Autostrade, da cui i Benetton traggono molte risorse spremendo gli automobilisti a volontà, infine della stessa Telecom Italia, ora ceduta per pochi soldi alla spagnola Telefonica.Il capitale straniero punta alle imprese che possono essere profittevolmente integrate nelle loro reti mondiali o, comunque, ai settori nei quali il nostro paese ha ancora (per quanto?) qualcosa da dire, come l'agroalimentare o il sistema moda.
Nel primo caso si spartiscono il bottino soprattutto gli spagnoli (tra acquisizioni vecchie e nuove ricordiamo Riso Scotti, Fiorucci Salumi, Bertolli, Carapelli, Olio Sasso) e i francesi (con Parmalat in particolare, Galbani, Locatelli, Invernizzi, Orzo Bimbo), mentre i cinesi si affacciano nel Chianti. In quello della moda sono invece i transalpini a prevalere (Loro Piana, Bulgari, Fendi, Gucci, Pucci, Bottega Veneta, Brioni, ecc).; anche in questo caso si stanno affacciando i cinesi con i cantieri Ferretti. E la storia ha cominciato ora a svolgersi persino nel calcio, con la Roma e l'Inter in mani lontane.
Se veniamo al settore specifico delle telecomunicazioni, tutti i principali operatori presenti sul mercato italiano (Telecom Italia, ora spagnola,Vodafone, britannica, Wind, russo-egiziana, 3 italia, cinese) sono ora stranieri. Si potrebbe affermare che nelle economie aperte è normale che delle aziende siano possedute dal capitale di altri paesi; quello che appare meno normale è che invece il bottino all'estero delle imprese italiane sia di recente davvero magro. Ricordo, per marcare quanto le cose siano cambiate, che alcuni decenni fa i francesi si erano allarmati molto dell'invasione che allora sembrava in atto nel paese da parte del capitale italiano.
Il problema è che nessun imprenditore italiano ha i mezzi e/o la voglia per intervenire in Telecom. Nel frattempo lo stesso problema si pone per Alitalia, Pirelli, Ilva e per molte altre. Nel settore bancario sarebbero necessari migliaia di miliardi per ricapitalizzare gli istituti in difficoltà, da Monte dei Paschi, a banca delle Marche, a Bpm, a banca Carige. Ma nessuno sa dove si potranno prendere i soldi e intanto il governo si occupa del finanziamento ai partiti e se Berlusconi deve o no pagare l'Imu.
Per altro verso appare grottesco che ora gli stessi partiti assedino il governo, con tutta la demagogia e la faccia tosta di cui sono capaci, chiedendo ad alta voce sempre al povero Letta di dare conto delle cessioni Telecom e Alitalia, come se si trattasse di fulmini a ciel sereno di cui non si capisce la ragione. Quelli che strillano naturalmente hanno almeno altrettante colpe di chi cerca invece di nascondersi.
Merita comunque di ricordare le esemplari vicende di Telecom Italia, nata nel 1994 dalla fusione di cinque diverse società operanti nel settore. Nel 1997 si procede, con Prodi presidente del consiglio, alla privatizzazione, azione mal concepita e mal gestita, la prima di una serie di disavventure. Telecom passa sotto il controllo precario di un gruppo di soci guidato dagli Agnelli, che mettono pochi soldi nell'impresa. Presto arriva Roberto Colaninno con altri imprenditori piccoli e medi del nord, il governo li celebra come un soffio d'aria nuova nelle stanze stagnati del capitalismo italiano. L'azienda sarà pagata moltissimo, soprattutto facendo debiti, naturalmente tutti accollati al gruppo. I capitani coraggiosi non ce la faranno a gestire l'enorme indebitamento e nel 2001 passano il testimone ad un altro geniale imprenditore, Tronchetti Provera, con sullo sfondo il sostegno di Enrico Cuccia, le cui grandi imprese finanziarie stanno finalmente dando in questi ultimi anni i loro frutti migliori. L'imprenditore, come al solito, paga la Telecom ad un prezzo esorbitante e la riempie di altri debiti. Interviene un nuovo governo Prodi. Nel voler salvare l'italianità del gruppo, si preoccupa anche molto, però, di salvare lo stesso Tronchetti Povera. Così si fa di nuovo viva Mediobanca, che, nel 2007, forma una nuova cordata con le due grandi banche di "sistema", nonché Generali e infine Telefonica come partner industriale. Incidentalmente, il sistema bancari non nega soldi, e tanti, a nessuno degli attori in commedia.
I nuovi soci prendono la quota di controllo di Telco, che possiede a sua volta il 22,4% delle azioni Telecom, nel frattempo crollate a livelli infimi. Arriva un nuovo gruppo dirigente e Franco Bernabè diventa amministratore delegatoper non decidere sostanzialmente alcunché. A suo discarico si deve considerare che nessuno vuole mettere soldi in una società che avrebbe un disperato bisogno di capitale fresco e che intorno a lui nuotano molti squali, tra i quali lo stesso Berlusconi, che per un momento sembra volersi impadronire della presa, per poi cambiare idea, visti anche i problemi al contorno.
L'azienda è oggi in un angolo in un mercato ultracompetitivo, con una rete vetusta, con un mercato di riferimento, quello italiano, in grande difficoltà e con il solo punto forte in America Latina. Ecco che ora Telefonica si offre di comprare il tutto versando un obolo. Si pongono in ogni caso dei problemi molto rilevanti. Intanto la Telecom dovrebbe fare grandi investimenti nella banda larga, ma la società è indebitata (circa 66 miliardi di euro) ed avrebbe bisogno di un aumento di capitale. Telefonica si guarderà bene dal portare avanti le due pratiche, mentre il nostro paese continuerà a perdere terreno sia rispetto a quelli industrializzati ed a quelli emergenti (una diffusione ampia della banda larga potrebbe portare ad un aumento di un punto nel Pil annuo del nostro paese) e, d'altro canto, è giusto che una infrastruttura di base venga abbandonata al capitale estero senza alcun vincolo?
Un'altra questione riguarda Tim. La società è un protagonista importante della scena brasiliana, che anzi contribuisce a sostenere i bilanci della capogruppo; ma Telefonica è già oggi il numero uno del settore in quel paese, mentre Tim è il numero due. L'antitrust locale obbligherà i nuovi padroni a disporre in tutto o in parte della nuova preda; allora Telecom Italia diventerà come impresa molto meno appetibile.
Naturalmente la questione più grande rimanda al governo e agli imprenditori nazionali; di fronte ai problemi veri ambedue i protagonisti rimangono inerti per quanto riguarda le competenze rispettive. Ma almeno per gli imprenditori c'è, del resto, un precedente illustre. Durante la crisi degli anni trenta Mussolini voleva praticamente regalare la telefonia agli Agnelli, ma i grandi imprenditori, con lungimiranza, rifiutarono. Il settore era troppo nuovo e i rischi rilevanti. Ora avanti con l'Alitalia. Siamo sicuri che i capitani coraggiosi della nostra penisola si faranno avanti entro pochi giorni per mettere tutti i soldi necessari e tutte le loro vaste competenze per rilanciare la nostra magnifica compagnia di bandiera.
Da tre giorni infuria lo scontro al lussuoso shopping center il Westland Center di Nairobi, nel cuore del "pianeta degli slums". Corrispondenza di Rita Plantera e commento di Luciano Del Sette.
Il manifesto, 24 settembre 2013
Nairobi campo di battaglia tra polizia e qaedisti
di Rita Plantera
Continua ormai da tre giorni il braccio di ferro al Westgate di Nairobi tra le forze di sicurezza kenyane e militanti del gruppo islamico al-qaedista somalo Al-Shabaab che sabato scorso vi hanno fatto irruzione facendo esplodere granate e colpi d'arma da fuoco all'Artcafè israeliano del lussuoso shopping center.
Circa 69 i morti - di nazionalità kenyana, ghanese, canadese, francese, olandese e britannica - 170 i feriti, un migliaio le persone liberate e un imprecisato numero di dispersi probabilmente ancora ostaggi del commando che da sabato notte è asserragliato da qualche parte nel prestigioso centro commerciale di proprietà anche israeliana. Tre al momento gli assalitori uccisi durante le operazioni lanciate per rompere l'assedio a partire da sabato sera e continuate fino a ieri da parte delle Kenya Defence Forces, la Regular and Administration Police e l'Anti-Terror Police Unit coadiuvate da agenti dell'Fbi e del Mossad israeliano.
Sebbene a rivendicare l'assedio di Nairobi sia stato il gruppo Al-Shabaab di matrice qaedista, la portata dell'assalto e le forze antiterrorismo coinvolte hanno sin dalle prime ore palesato che il target dell'attacco potesse andare ben oltre i confini kenyani per includere quelli dello Stato ebraico. Ipotesi ora confermata dalle dichiarazione di Jiulius Karangi, capo di stato maggiore generale del Kenya secondo cui il commando terroristico sarebbe «chiaramente una formazione multinazionale da ogni parte del mondo» e «questo non è un evento locale ma di terrorismo globale».
Lo stesso Al-Shabaab ha diffuso via twitter i nomi di 9 assalitori, tutti di età compresa tra i 22 e i 27 anni e di nazionalità americana, britannica, canadese, somala, finlandese e kenyota. Al Shabaab nonostante sia un gruppo islamico di estrazione somala riesce a coinvolgere adepti stranieri nella sua lotta contro le politiche dell'Unione africana e dei Paesi occidentali in Africa.
L'attacco al Westgate di Nairobi di sabato va ad aggiungersi agli attentati all'ambasciata americana a Nairobi del 1998 con 200 morti e a quello del 2002 contro l'Hotel Paradise di Mombasa, Kenya, di proprietà israeliana - 13 le vittime - e il tentativo di abbattimento di un aereo di linea israeliano. Ma Israele era stato obiettivo di attacchi terroristici in Africa già nel 1976 quando fu dirottato il volo dell'Air France diretto in Uganda. In quell'occasione fu l'esercito kenyota a fornire preziosa assistenza per liberare gli ostaggi durante il raid all'aeroporto di Entebbe.
Risale ai tempi del Ministro degli Esteri israeliano Golda Meir e del Primo ministro della Repubblica del Kenya Mzee Jomo Kenyatta il rafforzamento delle solide relazioni soprattutto militari che vedono l'impegno costante di Israele a fornire non solo armi ma anche know-how alla più grande economia dell'Africa orientale, partner prezioso perché gateway strategico tra il Mediterraneo e i Paesi dell'Africa sub-sahariani. Ed è con lo stato ebraico che a novembre 2011 la Repubblica del Kenya raggiunge accordi a supporto dell'Operation Linda Nchi ( Defend the Country ) con cui aveva invaso la Somalia neanche un mese prima per cacciare Al-Shabaab dalle città di confine e per costruire una regione autonoma a difesa degli interessi turistici della zona di costiera ed economici di sfruttamento delle risorse, come poi fu svelato da Wikileaks a proposito dell'operazione Jubaland.
La stessa area di frontiera che sebbene sia sede della città portuale di Mombasa - centro di transito commerciale verso tutta l'Africa orientale e i Paesi occidentali - rimane strangolata da decenni dalla povertà dei quartieri popolari e dall'emergenza dei campi profughi di Kakuma e Dadaab dove sono stipati almeno 450.000 rifugiati in uno spazio destinato a 170.000 nell'indifferenza generale delle autorità kenyote e della comunità internazionale.
Simbolo della crescita vertiginosa degli interessi economico-finanziari dell'Occidente e della sua espansione nelle economie più forti dell'Africa, da sabato scorso il Westgate Shopping Mall di Nairobi si sta rivelando un monito e un allarme su scala globale ai governi forti di tutto l'Occidente.
Il Westgate, enclosure per la minoranza ricca
di Luciano Del Sette
Centro commerciale di lusso. Con questa definizione i media hanno liquidato nelle cronache il Westgate, teatro della strage di Nairobi. Troppo sbrigativamente, perché i centomila metri quadri, gli ottanta negozi, i bar, i ristoranti, che ogni giorno spalancano le porte ai clienti, rappresentano ben di più. Il Westgate è la perfetta metafora dell'enorme e incolmabile distanza tra il popolo degli slum e i ricchi politici e imprenditori kenyani; è un mondo invalicabile anche per chi, ad esempio i colletti bianchi, può contare su uno stipendio.
Ricchezza per pochi
Sotto accusa l'Artcaffé
Metafora nella metafora delle distanze sociali ed economiche sono l'Artcaffé, e la sua terrazza, da cui, insieme alle gradinate di accesso, hanno fatto irruzione all'interno dell'edificio i terroristi di Al Shabaab. Il locale appartiene, come gran parte del complesso, a un gruppo di imprenditori israeliani. Sulla terrazza sfilano in passerella i privilegiati di Nairobi e siedono i turisti. Spazi enormi ripartiti in aree (caffetteria, bar, ristorazione, pasticceria), arredati guardando a New York e alle metropoli d'Europa. Un addetto filtra il flusso degli avventori. Dietro i banchi e in mezzo ai tavoli, ragazze e ragazzi bellissimi spendono sorrisi. O meglio sono costretti a farlo. Su internet si incontrano decine e decine di blog che mettono sotto accusa l'Artcaffé.
Nessun assunto
Nessun cameriere è assunto, moltissimi lavorano il tempo di un weekend e poi si vedrà, gli stipendi sono da fame; chi viene preso in forza, sempre senza contratto, deve comprarsi la divisa. A ciò si aggiunge un diffuso razzismo nei confronti di coloro che (neri di pelle) non sono ritenuti all'altezza del posto. Leggendo i blog, sembra di stare nel Sudafrica dell'apartheid: un posto rifiutato anche quando c'è, frasi sprezzanti tipo «ma lo sai che qui un caffè costa molto caro?», chiamate facili alla polizia se qualcuno insiste a protestare. Su Trip Advisor svariate recensioni denunciano episodi simili o peggiori.
Schiaffo a parte e sonoro, la decisione del management israeliano di non comprare il caffè in Kenya, ma di importarlo da altri Paesi. Che nella scelta terroristica del Westgate e dell'Artcaffé come obiettivi abbia dato il suo contributo tutto questo, appare allora ipotesi non certo affidata a un vuoto esercizio di dietrologia.
No, Berlusconi questa volta non c’entra: ma c’entriamo tutti noi, portatori e vittime del pensiero corrente. La forza delle parole a volte è assassina.
La Repubblica, 20 settembre 2013
IERI le cronache erano un camposanto di donne uccise. Di mattina, la rassegna di Radio 3 e la discussione di “Tutta la città ne parla” rimettevano a confronto l’allarme per le violenze contro le donne e il femminicidio con la minimizzazione. La minimizzazione è brutta, presume a torto di avere i fatti dalla sua, e non ha capito.
A Ferragosto il ministero dell’Interno ha comunicato i dati sulla criminalità. Circa il 30 per cento degli omicidi commessi in Italia, ha detto il ministro, ha come vittime le donne. I giornali hanno scelto questa frase per intitolare (Il totale era di 505 omicidi). Poi ho letto commenti come questo: “Ma allora il 70 per cento degli ammazzati sono uomini! E parlano di femminicidio”. Naturalmente, le cifre rilevanti riguardano il confronto fra il numero di uomini uccisi da donne, e il numero di donne uccise da uomini. Un uomo ucciso da un uomo è senz’altro un maschicidio, anzi doppio, perché è maschio l’autore e la vittima. E nessuno si sognerebbe di chiamare femminicidio l’uccisione di una donna da parte di un’altra donna.
Ammoniscono: è diventato di moda gridare all’allarme per i femminicidi. Può darsi, ma non era meglio quando – negli ultimi ventimila anni, diciamo – era di moda non parlarne, tranne qualche tragico greco. Deplorano: si grida all’emergenza per mettersi in mostra. Argomento scivoloso, basta rovesciarlo: mi si noterà di più se sconfesso l’emergenza?
Infine: le comparazioni statistiche fra noi e la Finlandia, o la Lettonia. Mostrano un paio di cose. Intanto, che là curano meglio le statistiche. Poi quello che ho appena detto, che il progresso nei costumi è zoppo, da questa gamba. Poi, che le notti sono lunghe e senza luce, e gli uomini bevono, e picchiano la moglie. Si suicidano anche, di più. Ma anche là, dove l’emancipazione è più spinta, le mogli probabilmente bevono di più, ma non picchiano il marito in proporzione. I romanzi di Larsson andavano presi sul serio, soprattutto nelle didascalie informative premesse a ogni capitolo. Mostravano le magagne, di genere e politiche, della bella Svezia, anche lei tentata di prendersela con l’immigrazione. Dopo di che, senza dimenticare per un momento le percentuali dei panni sporchi dentro le “nostre” famiglie, l’immigrazione ci e si pone un problema. Per lei, spesso, lo scontro con la libertà femminile è ancora più brusco e frontale. Che a volte reagiamo in modo orrendamente simile, noi e uno zio pakistano espiantato, è solo un ulteriore avvertimento sulla scorza sottile.
Vogliono proseguire nella svendita di beni pubblici per far cassa e uscire dalla crisi. Non hanno imparato che il danno per i cittadini è certo, e i vantaggi solo per i ricchi che compreranno? «La realtà è che il debito pubblico è insostenibile, si può solo congelarlo». Il manifesto, 17 settembre 2013
Letta ha annunciato che il prossimo impegno del governo, se resterà in piedi, sarà un grande programma di privatizzazioni, cioè di svendita di quote di aziende statali e di misure per costringere i Comuni a disfarsi del loro residuo controllo sui beni comuni e sui servizi pubblici locali. Il tutto, naturalmente, per far quadrare i bilanci, abbattere il debito pubblico e riportare il deficit (che ormai viaggia verso il 3,5% del Pil) entro il margine "prescritto". Tutti obiettivi impossibili: ai prezzi odierni, la svendita anche di tutti i beni pubblici vendibili (un grande affare per chi compra) non porterebbe nelle casse statali che un centinaio di miliardi o poco più; cioè meno di quanto lo Stato pagherà in un anno tra interessi e rateo di rimborso del debito imposto dal fiscal compact. E l'anno dopo ci si ritroverà al punto di prima, ma senza più beni comuni e aziende pubbliche. La realtà è che il debito pubblico italiano è insostenibile e l'unico modo per farvi fronte è congelarlo.
Ma per capire dove portano le privatizzazioni già largamente praticate dai precedenti governi di centrosinistra guardate l'Ilva: un gioiello tecnologico (di 50 anni fa) creato dall'industria di Stato e ispirato alla cultura allora imperante del gigantismo industriale; poi svenduto, una ventina di anni fa - a una famiglia già compromessa che aveva fatto i soldi con i rottami di ferro - in ossequio alla cultura delle privatizzazioni messa in auge dagli allora campioni del centrosinistra: Andreatta, Ciampi, Prodi & Co. La motivazione di quel passaggio di mano era che le cattive performance del settore (peraltro in crisi, da allora, in tutta Europa) erano dovute ai condizionamenti della "politica", ormai insediatasi nel management dell'azienda; e che solo una gestione privata l'avrebbe salvato da quelle interferenze. La validità di quella tesi può essere verificata dal fatto (tra gli altri) che i Riva sono oggi i principali azionisti privati di Alitalia, cioè di quella cordata fallimentare messa su da Berlusconi per gestire in nome dell'italianità della "nostra" compagnia aerea la sua campagna elettorale del 2006: le interferenze della politica funzionano tanto con la proprietà pubblica che con quella privata. In cambio di quell'operazione senza alcun senso economico i Riva si erano però garantiti mano libera nella prosecuzione di una gestione scellerata dell'azienda.
Nonostante due condanne penali in cui il capostipite della dinastia era già incorso. Tra i risultati di quello scambio di favori c'è stata un'autorizzazione integrata ambientale (Aia) confezionata su misura dell'Ilva dalla ministra Prestigiacomo e da un uomo per tutte le stagioni, vero "dominus" del Ministero dell'Ambiente, Corrado Clini.
Così i Riva hanno gestito gli impianti dell'Ilva "a esaurimento": investendo cioè solo l'indispensabile per tenerli in funzione e fare profitti da imboscare all'estero, fottendosene dell'impatto ambientale, della salute, della sicurezza e della vita di maestranze e cittadinanza; contando sul fatto che gli impianti sarebbero andati a rottamazione più o meno nel momento in cui il mercato globale avrebbe reso insostenibile la gestione di uno stabilimento di quelle dimensioni.
Per questo l'idea di risanarlo e ammodernarlo (che è cosa differente dal mettere in sicurezza maestranze e città fin che continuerà a funzionare) è un po' peregrina. Non c'era, dietro la gestione Riva, alcuna strategia che non fosse quella di spremere uomini, impianti e territorio fin che fosse possibile. Come non c'è altra strategia dietro la gestione dell'odierno commissario e del suo vice. In più, all'Ilva c'era - ed è rimasta operativa anche dopo la nomina di Bondi - una conduzione criminale del personale e delle lavorazioni, affidata a una struttura parallela e illegale di "fiduciari": cioè di persone non incluse nell'organico dell'azienda, che comandano in fabbrica al posto dei capi - imponendo quelle operazioni pericolose che sono all'origine dei morti, degli infortuni e di gran parte dell'inquinamento della città - ma che non rispondono mai del loro operato, perché ufficialmente «non esistono»; una struttura che dipendeva direttamente dai Riva e che ora - verosimilmente - risponde al presidente Ferrante: un altro uomo per tutte le stagioni: già Prefetto, candidato del centrosinistra a sindaco di Milano, presidente di Impregilo sotto accusa per i disastri dei rifiuti in Campania e dell'alta velocità nel Mugello.
Sono stato un solo giorno a Taranto, nell'agosto dell'anno scorso, invitato dal Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti, e in un giorno solo sono venuto a sapere tutto di quella struttura illegale. Tutti sapevano che c'era e che cos'era, con nomi e cognomi. Ma per mesi e per anni nessuno, a quanto mi consta - né sindacati, né partiti, né amministrazioni locali, né curia, né Regione, né governo, né tantomeno il nuovo presidente, il commissario o il suo vice - ha sentito il bisogno di denunciare una pratica del genere. E' dovuta intervenire la magistratura, con diciotto anni - verosimilmente - di ritardo, per arrestare la cupola di quell'associazione a delinquere. Il che dà un'idea del livello di compromissione costruito intorno all'intreccio tra "politica", in senso lato, e "privatizzazioni". D'altronde l'Ilva ha un dopolavoro - l'Associazione Vaccarella - attraverso cui transitano ingenti finanziamenti gestiti dai sindacati, che non ne hanno mai dato conto; e a Taranto c'è un palazzetto dello sport dell'Ilva, denominato - chissà perché? - PalaFiom. Ve lo immaginate voi un PalaFiom della Fiat di fronte ai cancelli di Pomigliano o di Mirafiori? Evidentemente qualcosa non quadra.
Ora che i Riva hanno fermato per ritorsione tutti gli altri impianti italiani, Letta deve decidere che cosa fare. Ma non può fare niente, perché sia lui che i suoi predecessori si sono legati le mani con leggi e accordi di cui si sono fatti garanti e con cui hanno legato una pietra al collo del paese per mandarlo definitivamente a fondo. Il governo non può ridare l'Ilva ai Riva, per lo meno fino a che non avranno restituito almeno gli otto miliardi che hanno rubato. Non può cercare un compratore estero, perché questi userebbe l'impianto per mettere piede in Italia e poi dismetterlo il più in fretta possibile, come hanno fatto tutti gli altri cosiddetti «investitori esteri», non solo con la Lucchini nel siderurgico; ma con Alcoa, Siemens, Telecom, Alstom, Parmalat e tante altre. Non può nazionalizzare l'Ilva o gli altri stabilimenti dei Riva sotto sequestro perché l'Europa «non lo consente»; e perché "i soldi" per l'esproprio aumenterebbero deficit e debito; e non si può fare.
Ma la nazionalizzazione - dell'Ilva, o del Gruppo Riva, o degli stabilimenti Fiat condannati alla cassa integrazione perpetua, o di qualsiasi altra fabbrica in crisi - è per ora impraticabile anche per chi fosse eventualmente propenso a "passar sopra" a quei vincoli (e per ora nessuno di coloro che hanno voce in capitolo lo è). Perché manca la struttura per gestire aziende del genere. Una volta c'era l'Iri: una robusta struttura pubblica, che era anche una scuola di management di livello internazionale, quali che ne fossero le pecche politiche, che certo non mancavano. Adesso invece c'è solo più Bondi: un arzillo ottuagenario pronto a tutto, che si è lasciato dietro le spalle una intera carriera di aziende scomparse o distrutte: Montedison, Lucchini, Telecom, Ligresti e Parmalat (riempita, quest'ultima, di miliardi con le penali pagate dalle banche che avevano tenuto bordone a Tanzi, per finire subito tra le fauci di un pirata che li ha usati per farsi i fatti propri); più una breve permanenza al governo della spending review e alla formazione della lista Monti, dove, com'è ovvio, non ha combinato niente.
Così, se Landini ha promesso che la Fiom non permetterà più la chiusura di altre fabbriche, anche a costo di promuoverne l'occupazione da parte delle maestranze - e ha fatto bene - resta da definire che cosa fare poi di quelle aziende, che sono ogni giorno di più, una volta che i lavoratori le abbiano occupate: restituirle al padrone che le vuole chiudere? Cercare un nuovo padrone perché a chiuderle sia lui, dopo aver portato via macchinari, brevetti e marchio, come hanno già fatto in tanti? Affidare anche quelle a Bondi? Nazionalizzarle, anche se il management per gestirle non c'è?
In realtà quello che c'è da fare, e subito, è raccogliere e costruire, con un appello al paese, un nuovo management: un tessuto esteso di persone disposte a sostituire i vecchi proprietari - o, eventualmente, a integrare la precedente dirigenza - per mettersi a disposizione di tutte quelle situazioni che invece di accettare la chiusura sono disposte ad affrontare la sfida di una nuova gestione, socializzata e condivisa: non una mera "autogestione" da parte delle maestranze, anche se l'utilizzo della legge Marcora, o di un suo sostituto, potrebbe fornire uno strumento per imboccare una strada del genere. Ma una gestione che, accanto alle maestranze, coinvolga anche le comunità locali, le loro associazioni, le amministrazioni dei comuni e degli altri enti locali del territorio, le università (cioè i docenti e le organizzazioni degli studenti disponibili) la schiera crescente di ex manager messi sul lastrico, l'esercito di coloro che hanno fatto apprendistato di responsabilità gestionali nel terzo settore. E' l'unico modo per mettere insieme, e mettere alla prova in un confronto serrato con situazioni concrete, una nuova classe dirigente: un passo indispensabile se si vuole esautorare quella attuale. Intanto bisogna mettere all'ordine del giorno espropri e requisizioni. O ci sono altre strade persalvarci dal disastro?
A molti, non solo ad AAR «l'idea che a qualcuno venga in mente di candidare Matteo Renzi alla segreteria del partito o addirittura alla premiership ha un sapore comico e paradossale» Ma tant'è. A questo siamo arrivati. E scendere ancora più in basso, sembrerebbe incredibile, ma è ancora possibile.
Il manifesto, 18 settembre 2013
Il Pd sta messo davvero male. Se sono attendibili le stime fornite da Ilvo Diamanti su la Repubblica del 16 settembre (ma in genere lo sono), il Pd arranca in cima alla classifica di un voto eventuale, ma tallonato da presso dal Pdl in sorprendente rimonta. Uno può fare a questo punto tutti i commenti che vuole sulla desolante iniquità dell'elettorato italiano, ma forse sarebbe meglio pensare ai casi propri: se uno cresce e l'altro no, in genere la colpa può essere divisa a metà, e in questo caso certamente lo è.
Quando l'esperimento post-elettorale di Bersani fu mandato, prima del tempo limite, a carte quarantotto, scrissi su questo giornale che per ottenere quel risultato, e passare d'autorità al governo delle larghe intese, bisognava sacrificare sull'altare della politica di unità nazionale anzitutto e soprattutto il Pd. Mi dispiace dirlo, avrei preferito non averci azzeccato, ma invece è andata puntualmente così. Pare che il Pd abbia diminuito della metà i suoi iscritti: motivi dichiarati dai sondaggisti, il governo delle larghe intese (ma su questo tornerò) e i tentennamenti, le paure, le incertezze in merito alla decenza del cittadino Berlusconi.
Se le cose stanno così, - e mi pare ragionevolmente che stiano così, - la settimana che si è aperta risulta decisiva. Il Pd ha di fronte a sè l'ultima chance: non ce ne saranno altre fino alle prossime elezioni, destinate a essere anche più catastrofiche del previsto se non verrà giocata come si deve. L'ultima chance si compone di due segmenti, strettamente collegati fra loro.
La domanda che mi si potrebbe porre è appunto questa, se si dovesse tener conto anche in questo caso delle sullodate stime diamantine: cosa c'è da lamentarsi se Renzi svetta in cima alle classifiche dei potenziali premier democratici? Egli interpreta oggi lo spirito del mondo.
Alla domanda rispondo con un'altra domanda: possibile che al degrado, se non universale, certo oggi molto diffuso, si debba rispondere in questo modo? Possibile che non esista un modo serio, collettivo, ragionato, sociale, di rifare anzitutto il partito, che, consegnato nelle mani di questo improvvisato leader, sarebbe destinato, e consapevolmente portato, allo sfacelo totale?
Auspico che a questa perniciosa prospettiva uomini e donne che vengono da organizzazioni e da esperienze di movimento in cui si sa di cosa parlo, pongano un argine. E se è necessario prolungare i tempi per ottenere questo risultato, si tenga in piedi il governo Letta con la maggioranza parlamentare che si potrà raccogliere una volta conseguita la decadenza di Berlusconi. Se ne approfitti per fare una legge elettorale nuova, rispettosa dei diritti di cittadinanza. E nel frattempo si torni a tessere la tela di un centro-sinistra sempre più allargato, - allargato a Sel ma anche ai movimenti sempre più presenti nel nostro paese, cresciuti negli interstizi di una politica spesso rinunciataria e deficitaria. Si tratta di ricostruire un partito, non d'imboccare l'ennesima avventura personalistica e autoritaria.
«Gli Hewitt hanno passato un mese in uno
slum ma il loro esperimento sociale ha spaccato il paese»: qualche coraggioso vuole verificare se davvero l’umanità è una, come sosteneva Einstein, e sperimentare le conseguenze delle differenze sociali. La Repubblica, 17 settembre 2013
Un giorno gli Hewitt, proprietari di una bella casa nel verde di East Pretoria, hanno detto addio al loro mondo di certezze e sicurezza, di comodi sofà e ronde di vigilantes, e si sono trasferiti dieci chilometri e un altro pianeta più in là: alla porta accanto della loro donna delle pulizie, nello slum dei neri di Mamelodi , un villaggio di baracche affogato dalla malavita e dai pidocchi, dall’Aids e dalla droga. Lo hanno fatto per un esperimento di «empatia sociale » durato un mese, nato in sordina e finito sotto i riflettori di mezzo mondo, in un mare di polemiche.
Insieme a Julia e Jessica, i loro angioletti biondi di due e quattro anni, Julian e Ena volevano provare sulla loro pelle di sudafricani bianchi della middle class come fanno milioni di concittadini neri a sopravvivere in una stamberga di lamiera di 9 metri quadrati senza energia elettrica né acqua corrente, con una latrina maleodorante in comune con venti famiglie e un fornelletto a paraffina per cucinare qualche zuppa. «Sai che c’è? Spero che il fornelletto si rovesci e che ci bruciate vivi, nella baracca. Addio», li ha demoliti su twitter una blogger nera,@keratilwe.
Ma il loro esperimento senza apparenti doppi fini — niente libri in arrivo né programmi tv — ha diviso il Paese, tra lodi per il «coraggio» e accuse di «pornografia della miseria»; tra gli abbracci dei vicini di bicocca e le critiche feroci piovute sui social network e negli editoriali: «Hanno cercato e accettato simpatia e lodi per i disagi che altri subiscono quotidianamente senza nulla in cambio», li accusa lo scrittore Osiame Molefe dalle pagine del New York Times, uno dei quotidiani internazionali ad aver ripreso una storia così insolita. Loro si difendono con passione, attraverso il blog mamelodiforamonth. co.za che hanno aperto per raccontare la loro avventura.
«Ci hanno accusato di aver preso in giro la povertà, ma non è così. Come tanta gente nel nostro Paese vivevamo in una bolla. E abbiamo deciso di uscirne ». Dalla loro villetta si sono portati dietro solo dieci dollari al giorno — la stessa somma con cui campano ogni giorno milioni di neri nelle township — e un catino di vestiti, qualche materasso da stendere per terra e poche coperte, troppo poche per le rigide notti agostane dell’inverno di Pretoria, a 1350 metri di altitudine sull’altopiano del Transvaal. Si sono presi la febbre, hanno perso 5 chili a testa e hanno scoperto quanto sia difficile e costoso — il 47% del budget — andare al lavoro con autobus e treni. E «quanto mi è mancata la doccia... una pentola d’acqua calda e un secchio per lavarsi la testa è troppo, per me. Il secchio poi lo devi riusare per i piatti e i vestiti, ci vorrebbe un’ora e mezza per scaldare altra acqua al fornelletto», racconta Ena. Hanno vissuto senza sconti, ma per un mese soltanto: poi loro sono tornati a casa, gli altri no.
Mancava soltanto quella dichiarazione del presidente del Consiglio, quelle parole di puro e semplice disprezzo per la seconda parte della Costituzione, a mettere il sigillo sul sentimento e sul rispetto col quale il governo delle larghe intese si appresta a cancellare la Carta approvata dall'assemblea Costituente il 22 dicembre del 1947. Per capire lo spirito di allora, ricordo i titoli di un paio di quotidiani. l'Unità: «La Costituzione antifascista e repubblicana approvata in una storica seduta alla Costituente». il Popolo: «Approvata la carta Costituzionale del nuovo Risorgimento italiano». Un altro secolo, un'altra politica.
La Repubblica, 11 settembre 2013
«SIl manifesto, 8 settembre 2013
La sinistra di opposizione Berlusconi e a Renzi «oggi a Roma è chiamata ad un confronto di idee e di prospettive. I nomi in campo raccolgono consensi larghi: Rodotà, Landini, don Ciotti, Zagrebelsky, Carlassare. Le idee, i contenuti per battaglie politiche e sociali non mancano. Oggi sarà interessante vedere se e in quali forme politiche si tradurranno. ».
Il manifesto, 8 settembre 2013
Come la fine di Berlusconi - a prescindere dal voto per la decadenza, dalla grazia, dai ricorsi alla Consulta, lui è al capolinea - terremota il partito proprietario del capo carismatico, così la prossima quasi certa incoronazione congressuale di Renzi, un'inedita figura di sindaco-segretario, chiude la parabola del Pd, completandone la mutazione con una maggioranza neo democristiana e una minoranza socialdemocratica. È perfino svanita l'illusione di una spaccatura tra le due componenti. Non bastasse, stiamo assistendo ad uno spettacolo poco decoroso di ex leader che si accalcano e si spintonano (anche se con qualche distinguo) per salire sul carro del vincitore. Solo alcune autorevoli voci, Bersani, D'Alema, Cofferati e Cuperlo, l'unico antagonista sceso in campo, si mettono fuori dal coro.
In questa situazione, inedita, non è difficile immaginare che la distanza tra un Partito democratico renziano, e la sinistra politica, culturale, sociale, si allargherà. Pensare Renzi come interlocutore dei movimenti per i beni comuni, dei No-Tav, dell'acqua pubblica, della difesa della Costituzione, del reddito minimo, di una linea di confronto che ascolti le ragioni della Fiom piuttosto che quelle di Marchionne, è assai improbabile.
Se l'analisi non è così lontana da quello che succederà nei prossimi mesi, siamo di fronte ad un'occasione importante per la larga e diffusa rete di associazioni della sinistra di opposizione. Che proprio oggi a Roma è chiamata ad un confronto di idee e di prospettive. I nomi in campo raccolgono consensi larghi: Rodotà, Landini, don Ciotti, Zagrebelsky, Carlassare. Un appuntamento atteso, preceduto da incontri partecipati, come quello del 2 giugno a Bologna in difesa della Costituzione.
Seguendo da anni questa vasta area, abbiamo capito che le idee, i contenuti per battaglie politiche e sociali non mancano. Oggi però sarà interessante vedere se e in quali forme politiche si tradurranno. Ovviamente per noi del manifesto si tratta di un appuntamento al quale guardiamo con interesse perché le persone che lo promuovono sono state tra le voci critiche più importanti e intellettualmente attrezzate dell'opposizione ad un modo di vivere, di produrre e di consumare, e quindi naturalmente antiberlusconiane, senza sentirsi ossessionati dalle pagliacciate dell'uomo di Arcore.
I protagonisti dell'assemblea, insieme agli esponenti di movimenti sociali, hanno dato voce alle lotte contro le politiche che hanno sprofondato il Paese nella recessione più nera e profittato scandalosamente di una crisi tanto generosa con i ricchi, quanto avara con l'esercito di precari e disoccupati. Ma finora hanno camminato in ordine sparso, mentre adesso sarebbe importante costruire una larga intesa che sia punto di riferimento per chi è impegnato nel cambiamento. A sinistra.
Come intervenire dunque sui nuovi assetti di potere che si preparano? Come rispondere alla domanda di nuova rappresentanza? Non sarà solo questa assemblea a dover esaurire le risposte alla crisi della sinistra. Tuttavia sarà importante verificare quale percorso verrà tracciato. Tenendo presente che le scorciatoie partitiche andrebbero evitate e di derive identitarie non è più il tempo, resta la necessità della rappresentanza di un'area che non si ritrova né nel Pd di Renzi, né nel movimento di Grillo.
Resta l'incognita di Sel e di Vendola e di cosa faranno "da grandi". Nella nuova partita che si gioca a sinistra del Pd avrebbero ancora qualche carta da giocare. A meno che non vogliano custodire gelosamente l'orticello del tre per cento conquistato alle ultime elezioni.
La Repubblica, 7 settembre 2013
A Lampedusa, nel suo pellegrinaggio contro la “globalizzazione del-l’indifferenza”, Francesco ottenne di non essere accompagnato da autorità politiche.Vederlo affiancato, nell’omaggio ai migranti annegati, da ministri che in precedenza si erano vantati di avere organizzato la pratica incivile dei respingimenti in mare aperto, sarebbe stato per lo meno imbarazzante.
Si proclamano impegnati contro una guerra in Siria, come se la guerra in Siria non fosse in corso già da due anni, con più di centomila morti e milioni di profughi, mentre noi tutti giravamo la testa dall’altra parte. E intanto qualcuno, sottovoce, replica l’argomento dimostratosi così miope nei Balcani: «I contendenti sono uno peggio dell’altro, lasciamo che si ammazzino fra di loro. Certo, è doloroso che ci vadano di mezzo i bambini e la popolazione innocente, ma noi non possiamo farci nulla. Meglio che i tagliagole si indeboliscano sfogandosi fra di loro».
Noto un certo compiacimento nel sottolineare la plastica contrapposizione in atto fra due icone del progressismo contemporaneo, papa Francesco e il presidente Obama: il nuovo profeta della nonviolenza che s’immedesima nei poveri delle periferie del mondo; e il capo di un’America ridimensionata nel suo ruolo di superpotenza, intento nella difficilissima ricerca di un diverso equilibrio planetario. È facile dire no alla pretesa degli Stati Uniti di perpetuare la loro funzione di gendarme nel disordine internazionale. Ma come ha rilevato il verde tedesco Joshka Fischer, in mancanza di alternative rischiamo di dover rimpiangere quella vocazione. Non a caso il suo compagno Daniel Cohn- Bendit insiste nel proporre un’azione concertata in Siria con la partecipazione diretta dell’Unione Europea. Invano da noi, quando si consumò la tragedia dei Balcani, fu un pacifista come Alexander Langer a invocare la dolorosanecessità dell’“ingerenza umanitaria”. Le controindicazioni sono fortissime, non c’è chi non le veda. Ma è troppo comodo trincerarsi dietro all’argomento che oggi è tardi, si sarebbe dovuto intervenire per tempo, da parte di chi al momento giusto si era ben guardato dall’assumersi la responsabilità.
Responsabilità. È questa la parola che dovrebbe inchiodare i ministri oggi accorsi a digiunare con Francesco. Quasi che un gesto nobile e profetico potesse riempire il vuoto della diplomazia internazionale che al vertice di San Pietroburgosi è di nuovo manifestato platealmente.
Il digiuno è un intimo atto di contrizione le cui radici affondano nella tradizione biblica e nella religiosità orientale. Fra sette giorni, nella ricorrenza millenaria del Kippur, gli ebrei si asterranno dal cibo e dall’acqua, dal tramonto alla sera successiva. I musulmani per tutto il mese di Ramadan sopportano la calura del giorno in totale astinenza. La stessa che anticamente veniva praticata anche dai cristiani. Inoltre il digiuno, ben lo sappiamo, può essere un’arma di lotta politica formidabile, come ci insegna la nonv iolenza gandhiana. Ma quale credibilità dovremmo riconoscere – nel pieno di una crisi internazionale – ai titolari di delicatissime azioni diplomatiche e strategiche che cercano rifugio in una profezia la quale non rientra di certo nelle loro prerogative? Con quale legittimità ministri titolari di un uso calibrato della forza, possono derogare, sia pure per un giorno solo, e in ossequio al messaggio evangelico di un Pontefice, alla loro funzione istituzionale?
Riconoscere preziosa la forza spirituale impressa da Francesco al suo nuovo, sorprendente, affascinante magistero, e attribuire la dovuta importanza alla sua forza trascinatrice di cui oggi si sentono partecipi milioni di uomini di buona volontà, non ci esime dall’avanzare di fronte ai nostri rappresentanti politici questa obiezione.
Sarebbe volgare insinuare che la veglia di San Pietro possa trasformarsi in un atto ostile nei confronti di Obama e Hollande solo perché così, strumentalmente, la rivendicheranno Assad e Putin. Questa è la dimensione propagandistica di una guerra feroce già in corso. Papa Francesco ne prescinde, com’è giusto che sia. Non a caso il Vaticano ha smentito seccamente che Bergoglio abbia telefonato al dittatore siriano. E a Putin si è rivolto con una lettera nella sua veste di presidente del vertice fra i capi delle maggiori potenze.
Ma i leader politici italiani che oggi testimoniano con un (lieve) sacrificio nutrizionale la propria indisponibilità all’azione militare, sono davvero sicuri che da domani, a pancia piena, potremo fare a meno di opporci alla barbarie delle armi chimiche ricorrendo ad operazioni di polizia internazionale? È fin troppo facile esprimere il timore che essi debbano presto entrare in contraddizione con se stessi. Dirglielo oggi, non significa certo dichiararsi favorevoli al nostro intervento diretto nella guerra. Solo sarebbe stato meglio che digiunassero riflettendo in silenzio sul loro ruolo passato e presente nella “globalizzazione dell’indifferenza”.
I soliti cortigiani, quelli che hanno avviato lo smantellamento dello Stato sociale, facilitato l’egemonia del “berluscpensiero” e adesso, riuniti a Cernobbio per salvare ancora una volta l'Italia e compiacere il compiacente Re Giorgio, si adoperano perché al Caimano sia garantita l’impunità.
Il manifesto, 7 settembre 2013
Ora che la recessione è «tecnicamente» finita, non vorrete far cadere il governo Letta? Si rischia un «grande impatto negativo» sulla crescita, questo fiore nel deserto. Non s'interrompe un'emozione sul più bello. L'economista Nouriel Roubini, Franco Bernabé (Telecom), Franco Bassanini (Cassa Depositi e Prestiti), e via via molti degli invitati al seminario Ambrosetti a Cernobbio hanno ribadito le «indiscrezioni» filtrate dal Quirinale. Insieme stanno provando a costruire una cintura sanitaria attorno al figlio delle grandi intese, il governo che si avvia ad affrontare il calvario della legge di Stabilità. Un governo che sembra rischiare di cadere, falchi o colombe del Pdl permettendo, il 9, il 10, o l'11 settembre - o quando sarà - dopo la «decadenza» da senatore della Repubblica di Silvio Berlusconi. Il depositario della golden share del «futuro» di un paese, o almeno dei prossimi 18 mesi del suo governo, ieri è stato il convitato di pietra di Cernobbio. Sono stati in molti a rivolgergli almeno una preghiera, suggestionati dall'annuncio di una contrazione della recessione dal -0,6% a -0,2% nei primi sei mesi del 2013 che scambiano per una «crescita». Se al prossimo trimestre verrà registrato un +0,1%, cosa faranno banchieri, commis d'État e largointesisti di tutte le sfumature? Abbozzeranno una danza della pioggia.
L'accorata dolorante invettiva di un letterato che si appella a chi dovrebbe essere l'esempio della corretta tutela della cosa pubblica, e invece sacrifica ogni giorno la preoccupazione di uscire dalla crisi col consenso (e l'impunità) di chi l'ha provocata.
La Repubblica, 7 settembre 2013
Presidente, mio Presidente, Lei sa molto meglio di me come una comunità tessuta di parole che non hanno più peso né senso perché ogni affermazione vale la sua smentita, e in cui l’iniquità si perfeziona nel cavillo, non è un Paese decente, certo non è un Paese per giovani. Una accettabile stabilità di governo in una fase di estrema labilità economica e di grande turbamento sociale entro un quadro internazionale minacciosissimo va accanitamente difesa (chi non se ne rende conto?): ma forse non a qualsiasi prezzo. E se il prezzo è l’ossatura morale del Paese, l’onore della sua lingua, cioè della sua identità profonda, la povera faccia di ciascuno di noi, io penso disperatamente che quel prezzo non vada pagato.
La politica svolga il suo compito; le istituzioni, il loro. Ma è arrivato il momento che ogni singolo cittadino – in democrazia il solo soggetto che dia corpo e legittimità alla maggioranza e, in casi estremi, l’unico contrappeso alla maggioranza – si metta in piazza per dire chiaro che non sopporta più di vivere ostaggio dell’egolatria eversiva di un frodatore del fisco, e tanto meno (è un problema di noi vecchi), di morirci.

La Repubblica, 6 settembre 2013
Il tempo politico italiano tendeva al torpido ma ha dei soprassalti da quando lo infesta l’Olonese. Forte d’eufemismi Imu (saremo torchiati sotto nome diverso), mercoledì 28 agosto Letta jr. parla Urbi et et orbi: alleluja, non hanno più termine le “larghe intese”; l’invadente consorte se ne vanta; e adesso, avverte, resti sospeso l’antipatico affare della sua decadenza dal Senato. Spirava aria d’appeasement. L’indomani la guastano i cinque della Cassazione depositando 208 pagine letali: negli anni lo Statista frodava fisco e azionisti, autore d’una colossale macchina falsaria; ormai restano briciole della res iudicanda,il resto essendo inghiottito da prescrizione, indulto, condoni che gli affatturavano Yes men in livrea parlamentare. E lui sbraita le solite invettive: «sentenza allucinante, fondata sul nulla »; milioni d’italiani impediranno che un voto butti fuori il loro condottiero. Assalto al Palazzo d’Inverno? No, o almeno non ancora: il governo in carica, dichiara venerdì 30, dura finché lui sieda nel Senato, violando norme votate anche dal Pdl (d. lgs. 31 dicembre 2012 n. 235); simul stabunt, simul cadent («cadunt», declamava una volta; abilissimi nelle cacce fraudolente, gli alligatori valgono meno in grammatica latina). Sabato nega d’averlo detto ma lo ripete, in cura d’anima presso Marco Pannella. Staremo a vedere se e come sia decentemente graziabile un gangster da Gotham City: quanto pericoloso, lo dicono fulminee metamorfosi nelle cosiddette colombe e l’ascendente elettorale; una sonda gli dà 3 punti sul Pd.
L’incognita è fin dove arrivi l’abito subalterno nella quasi sinistra, e manca poco al test; lunedì 9 settembre, a Palazzo Madama, Giunta delle immunità, va in scena un dibattito: se B. sia decaduto dall’ufficio. Il “no” presuppone schieramenti così stralunati, che non vi conta nemmeno lui: gli basta perdere tempo (arma forense d’alto rendimento); vuol mandare le carte alla Consulta; nel frattempo aspetta una sbalorditiva grazia; e se piovesse dal Colle, la spaccerebbe per sconfessione della res iudicata.
Formano l’ordigno bellico 6 opinioni d’8 giusloquenti. Le chiamavano “consilia sapientis”, un genere molto screditato, e stavolta pesano meno d’una piuma. Primo quesito se la Giunta possa spedire gli atti alla Corte, lavandosi le mani. No, dicono i precedenti: domanda inammissibile; l’accertamento d’illegittimità avviene in via incidentale, ossia su impulso del giudice chiamato ad applicare la norma dubbia. Siamo fuori del processo. I glossatori lo definivano “actus trium personarum”: due parti contraddicono; un terzo decide, stando in medio. La Giunta appartiene al parlamento: il quale discute e vota leggi; se teme d’avere lavorato male, vi rimetta mano (Corte cost., ord. 22 ottobre 2008 n. 334). S’era mai visto il Senato attore d’un giudizio contra se ipsum (presunta invalidità delle norme che ha votato)? Ipotesi lunatica.
Nel merito, a sciogliere gl’ipocriti dubbi bastano l’idioma italiano e un’elementare sintassi del diritto. La legge individua i non candidabili (art. 65, comma 1, Cost.): spetta alla Camera competente dire se ricorra uno dei casi previsti (art. 66); ed è discorso burlesco che, essendo sovrana, possa mantenere nei banchi i legalmente esclusi dall’ufficio. Tra le norme vigenti (d. lgs. n. 235/2012) eccone due: l’art. 1 marchia “non candidabile” l’irrevocabilmente condannato; l’art. 3 contempla la “incandidabilità sopravvenuta”; identico l’esito; non sta nel pensabile un rifiuto d’applicare la norma. Sia detto
en passant: in tali contesti “ineleggibile” e “non candidabile” sono sinonimi; è trucco vaniloquo distinguerli, come tenta uno dei sei “consilia”. Veniamo al clou della dottrina d’Arcore, formulabile così: la “incandidabilità” somiglia all’interdizione dai pubblici uffici, pena accessoria; ed esiste dal 31 dicembre 2012;dunque colpisce solo l’autore dei fatti posteriori al 5 gennaio 2013, data dell’entrata in vigore (art. 25 Cost.: le norme penali non valgono in praeteritum). Salta agli occhi la falsa premessa, che lo stato personale de quosia pena nel senso tecnico. No, è profilassi parlamentare. Ogni pena presuppone una condanna che la infligga, e qui nessuno gliel’ha inflitta: gli artt. 1 e 3 l. c. escludono dall’elettorato passivo chiunque versi in date situazioni; l’esclusione avviene ex lege. Vale l’art. 66 Cost.: causa ostativa sopravvenuta, a fortiori varrebbe se la “incandidabilità” equivalesse a pena accessoria, perché le pene accessorie erano comminate prima che divus Berlusco se le meritasse frodando mezzo mondo. Le Camere devono potersi ripulire delle presenze infestanti.
I berluscones agitano questioni manifestamente infondate. Sarebbe indecoroso simulare dubbi, dispute, incubazioni (dormire in luoghi consacrati sperando che qualche dio mandi lumi), ma pendono disonorevoli precedenti: Re Lanterna era ineleggibile ab ovo, quale concessionario dell’etere (art. 10, comma 1, d. P. R. 30 marzo 1956 n. 361), e sei volte, omertosamente, gli avversari l’hanno tenuto in arcione con risibili cavilli. Decoro e moralità a parte, è perdita secca assecondarlo. Gli concedano quanti mesi vuole; invitato a concludere, urlerebbe: «siete un plotone d’esecuzione». In mani tartufesche il diritto alla difesa diventa perditempo. Speriamo che esca dal quadro politico: cosa dubbia; se mai accade, loderemo Dike. Gli oppositori sinora l’hanno trattato con i guanti, cappello in mano, inchini; e l’establishment gli presta sponde: Anna Maria Cancellieri, prefetto a riposo, ex ministro degl’Interni nel gabinetto Monti, candidata al Quirinale, ora guardasigilli, raccomanda laboriose riflessioni sui dubbi sollevati dagli otto oracoli. Erano un sudario le “larghe intese”.
SIl manifesto, 6 settembre 2013
C'è qualcosa di malato nell'atmosfera malsana di questa estate prolungata, da Morte a Venezia, con il morbo che serpeggia nei vicoli non conclamato, intuibile solo per reticenti indizi nell'attesa che l'epidemia esploda. E non solo per il tanfo di guerra che viene dal Mediterraneo.
E', in fondo, indizio di malattia il pur tanto celebrato "accordo storico" tra Confindustria e Sindacati: questo patto tra produttori che non producono più, annunciato nello stesso giorno in cui le impietose statistiche europee ci inchiodavano agli ultimi posti con una caduta del Pil vicina al 2% e una competitività crollata al 49° livello. E lo è - altro che se lo è - la manovra sull'Imu, sintomo delle patologiche contraddizioni della maggioranza più che ragionevole intervento anti-crisi, annunciato senza copertura, senza che nessuno sappia da dove proverranno le risorse se non che una parte di esse sarà sottratta al lavoro e all'occupazione, con un'esibizione da medici sadici in presenza di un paziente comatoso.
Per non parlare della grottesca vicenda di Silvio Berlusconi e della sua decadenza da senatore, che riduce l'orizzonte temporale della politica ai minimi termini, alle settimane, ai giorni, forse alle ore con questa corsa dissennata a dilazionare l'inevitabile imponendo una navigazione a vista che per permettere al grande pregiudicato di guadagnare tempo per se stesso finisce per abrogare il tempo della politica. In questo contesto la cura omeopatica con cui la imponente regia del Quirinale e la logica stessa delle larghe intese trattano ormai da mesi la crisi dilazionandone sistematicamente i tempi, congelandone (senza risolverle) le contraddizioni, mettendo in campo narrazioni tanto rassicuranti quanto improbabili, più che una terapia tende a costituire un ulteriore fattore patogeno.
Perché in questo tempo sospeso, sotto la superficie piatta che ha il volto liscio di Enrico Letta, si consumano in realtà processi di trasformazione (e di dissoluzione) massicci, spostamenti di equilibri dirompenti e tuttavia sottratti alla riflessione collettiva. Lo è la mutazione genetica in atto nel Partito democratico con l'irresistibile ascesa di Matteo Renzi e la conversione ecumenica al renzismo di buona parte del personale politico di centro-sinistra (esempio di "trasformismo in un solo partito" degno di un saggio storico). Ne uscirà probabilmente mutato il quadro delle culture politiche italiane, con l'estinzione o comunque la riduzione al lumicino di ogni residua traccia di social-democrazia, il ritorno in grande stile del centrismo ex democristiano rivisitato alla luce di un populismo post-berlusconiano, la fine della sinistra istituzionale, a voler rimanere ai piani nobili dell'argomentazione. Senza considerare lo spettacolo meno nobile che andrà in scena ai piani bassi (i "polli di Renzi"?), con la corsa a ricollocarsi, spartirsi le potenziali cariche, riconquistare posizioni perdute, consumare vendette antiche e recenti, mutare amicizie... Può non piacere - e non piace - ma questo sta diventando il Pd reale, non quello immaginario dei falsi realisti che aspettano ogni volta un "segno" della rinata identità di sinistra.
Simmetricamente la crisi latente e tuttavia inevitabile del Pdl (e dell'intero centro-destra) continuerà a lavorare e a produrre i propri veleni, a cominciare dalla devastazione dei più elementari principii giuridici e costituzionali prodotta dalla battaglia contro la decadenza, in cui si fa quotidianamente strame di ogni elementare logica argomentativa, in un'esibizione di non sense, di cervellotici espedienti (Violante ne è maestro) diretti ad affermare l'autonomia della politica dal diritto, con la possibilità - il rischio - che alla fine un intervento dall'alto verrà (forse solo un "contentino") per "stemperare le tensioni" e salvare la capra Berlusconi e i cavoli costituzionali, le larghe intese e la legalità repubblicana.
Per questo l'Assemblea convocata per domenica 8 settembre a Roma è importante. Tanto più se da essa venissero alcune - poche - parole chiare. Sulla inevitabile decadenza e incandidabilità del pregiudicato Berlusconi, senza se e senza ma. Sulla difesa intransigente della Costituzione, a cominciare da quell'articolo 3 (l'Eguaglianza!) mai come oggi insidiato non solo dalle pretese di un pregiudicato di rango ma anche dalle imposizioni tecnocratiche europee e globali. Sull'insostenibilità della logica delle grandi intese (nel cui Dna stesso è inscritta la manomissione costituzionale), sempre più ostacolo a ogni vero intervento di bonifica economica, sociale e morale del paese. E infine (ed è questo che in molti attendono) sulla improcrastinabile necessità di lavorare alla costruzione di una alternativa reale - credibile, stabile e organizzata, non minoritaria - allo stato di cose esistente.
Fra pochi giorni il settantesimo anniversario di un giorno fatidico: fu sconfitta, oppure fu «un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista»
Si parva licet componere magna, ancora una volta la storia può svelare le ambiguità del presente e illuminare il futuro. Articoli di Villari, Revelli e BartezzaghiLa Repubblica, 5 settembre 2013
L’“Otto settembre” cominciò verso l’imbrunire ed era mercoledì. «Alle 18,30 tornavo a casa da una piccola passeggiata quando Adelina mi ha detto di aver udito che è stato concluso l’armistizio con gli anglo-americani». Questa sono le semplici parole, senza altro commento, del diario di Benedetto Croce con una indicazione dell’ora che non corrisponde esattamente a quanto stava avvenendo.
Croce non poteva sapere che l’armistizio era stato firmato cinque giorni prima e che l’annuncio ufficiale era stato dato poco prima delle 18 da Radio Algeri cogliendo di sorpresa Badoglio che era con il re al Quirinale insieme ai massimi responsabili militari e al ministro degli Esteri Guariglia. Alla notizia era seguito un minaccioso radiogramma di Eisenhower che imponeva al governo italiano di annunciare subito l’armistizio sia per evitare ulteriori ambiguità verso i tedeschi sia perché non era stato possibile coordinare l’annuncio con lo sbarco di una divisione di paracadutisti americani a nord di Roma. Era fallita infatti la missione di due ufficiali americani, il generale Taylor e il colonnello Gardiner, giunti segretamente nella capitale la sera del 7 settembre per prendere visione degli aeroporti e dare il via all’operazione per la mattina dell’8. I capi militari italiani li avevano dissuasi dicendo loro che non c’erano «forze sufficienti per garantire gli aeroporti». Taylor e Gardiner delusi lasciarono Roma informando Eisenhower.
L’unico a reagire allo stupore di quanti erano al Quirinale fu il ministro Guariglia: si doveva dare la notizia. Il colonnello Luigi Marchesi, addetto allo Stato maggiore, suggerì al maresciallo Badoglio di recarsi subito all’Eiar. «Il maresciallo mi chiese di accompagnarlo. Uscii subito sul piazzale del Quirinale e chiesi ai due autisti del maresciallo se sapevano dove era la sede dell’Eiar. Non lo sapevano. Poi si fece avanti un sergente che salì accanto all’autista. Il maresciallo ed io eravamo soli. Rimase in silenzio finché giungemmo alla sede dell’Eiar in via Asiago verso le 18,50. Fummo introdotti in una saletta di trasmissione.
Intanto l’usciere era andato a chiamare il direttore che giunse quasi subito. Lo informai che il maresciallo intendeva dare al più presto un messaggio alla nazione. Il direttore spiegò che diramandolo subito non sarebbe stato sentito da nessuno e consigliava di attendere l’inizio del programma delle 19,45. E alle 19,45 il maresciallo, con evidente sforzo lesse con voce chiara e ferma il proclama dell’armistizio».
Tre minuti dopo gli italiani seppero tutto. «La gente – ricorda Paolo Monelli – fece capannelli nelle strade che già s’abbuiavano, i passanti si interrogavano l’un l’altro. “Cosa ha detto? È vero che ha detto che siamo in guerra con i tedeschi?” ». Non era ancora vero, ma quella domanda coglieva nel segno. L’Italia usciva da una guerra e entrava in un’altra. Su questa linea di confine maturò in Badoglio, nel re e in alcuni capi militari il progetto di lasciare la capitale e trasferire nel Sud liberato le persone e i simboli dello Stato italiano per salvarli dalla reazione tedesca.
Da settanta anni si discute se questa scelta, avvenuta senza che il governo e i capi militari organizzassero la difesa della capitale e lasciassero ordini precisi ai nostri soldati sparsi sui vari fronti di guerra, abbia una spiegazione razionale. La vicenda della colonna di auto che portò lungo la via Tiburtina la famiglia reale e centinaia di ufficiali al seguito a Pescara e a Ortona, le scene penose dell’imbarco sulle corvette della marina militare in attesa, insomma “la fuga di Pescara” sono state ampiamente raccontate e documentate. In quelle stesse ore Roma era difesa a Porta San Paolo, sulla via Ostiense da centinaia di soldati e di civili di ogni ceto sociale. Nasceva in questi luoghi di Roma la Resistenza e germina qui la nuova, vera Patria. Ma intanto lo Stato giungeva a Brindisi e “continuava” a funzionare con il riconoscimento ufficiale della sua legittimità da parte degli ex nemici.
Come giudicare allora questo scenario assolutamente inedito che si stava configurando in Italia? Cosa c’era in quella fuga di diverso da quanto era avvenuto nell’Europa del 1940? Il re del Belgio Leopoldo III, mentre il suo paese capitolava, era stato arrestato e internato e il suo governo era fuggito a Londra. In Danimarca, il re e il suo governo erano agli ordini di Hitler. In Olanda la regina e il suo governo erano fuggiti a Londra e qui si erano pure rifugiati il re di Norvegia Haakon VII e i suoi ministri. E potrebbe continuare l’elenco di sovrani, governi e capi politici (basti ricordare il ruolo di De Gaulle a Londra) costretti alla fuga e all’esilio, ma determinati a combattere i nazisti. All’Italia andò certamente meglio e non è quindi più accettabile, sul piano storico e storiografico, sminuire il significato del Regno del Sud e negare il ruolo che quello Stato ha svolto, anche sul piano del diritto internazionale, confermandosi nel territorio italiano come Stato sovrano, “cobelligerante” con quegli Stati che avrebbero avuto tutto il diritto di fare del nostro paese una terra bruciata e divisa. Come in Germania. Fu anche questo che ha determinato, settanta anni or sono, il risorgimento della Patria, non certo la sua fine.
Il momento delle scelte
di Marco Revelli
Sembravano traversie ed eran in fatti opportunità ». Con questa citazione vichiana, scritta come dedica sulla propria copia de La scienza nova, Vittorio Foa aveva salutato il proprio compagno di cella il 23 agosto del ’43, uscendo dal carcere fascista dopo 8 anni di reclusione. Ed è forse la miglior sintesi, profetica, di quello che sarebbe stato, un paio di settimane più tardi, l’8 settembre.
Esso fu, senza dubbio, una catastrofe istituzionale di enormi proporzioni in cui tutto “andò giù” e fece naufragio un’intera classe dirigente, con la “fuga ingloriosa” del Re e la sua Corte, e il dissolvimento di ogni autorità statale. Ma fu anche un “punto di rimbalzo”: una grande opportunità storica di riscatto morale per una nazione che era affondata nella vergogna del regime fascista. E lo fu perché proprio quel “vuoto istituzionale”, quell’assenza di ogni autorità formale, rappresentano le condizioni essenziali di quello che costituisce il nucleo fondativo di ogni genuino atto morale: la scelta. La possibilità – e insieme la necessità – di scegliere, senza ordini né routine (non per nulla Claudio Pavone apre il suo splendido saggio sulla “moralità della Resistenza” con un capitolo intitolato La scelta). E di spezzare, con quell’atto, una deriva storica degradata e degradante.
È ancora Foa a esprimere il concetto quando scrive, a liberazione non ancora avvenuta, che l’8 settembre fu in fondo un gran bene per l’Italia, perché segnò «l’inizio di un processo rivoluzionario che ha coinvolto gli italiani in un ingranaggio vorticoso dal quale potranno uscire solo con le loro forze», combattendo, oltre all’occupante tedesco, anche la parte peggiore di se stessi, quella che aveva creduto nei miti imperiali e nell’“arido egoismo” del Regime. Ed è lo stesso messaggio di un altro intellettuale d’eccezione, Giaime Pintor, che poco prima di morire, fatta la propria scelta, scrisse che «questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione».
Non sono voci isolate. Lo stesso spirito, di possibile riscrittura della propria biografia individuale e collettiva, lo si ritrova in quasi tutti i protagonisti di allora. In Massimo Mila, ad esempio, che in uno dei suoi Scritti civili attribuirà all’8 settembre il carattere catartico di un’improvvisa «rivelazione a se stessi di una nuova possibilità di vita» come accade, appunto, quando «tutto crolla rovinosamente all’improvviso intorno a te e ti lascia solo, a cielo scoperto, deciso a passare i ponti col tuo passato civile ed a gettarti allo sbaraglio in un’avventura in cui tutto il tuo destino è impegnato ». O in Franco Venturi, il grande storico dell’Illuminismo, quando evoca il «senso di necessità che stava in fondo a questa creazione di libertà, un senso di serena accettazione del fatto di essere finalmente dei fuorilegge di un mondo impossibile». O ancora in Giorgio Bocca, che nelle prime pagine del suo Partigiani della montagna descrive il dirompente senso di liberazione e di rinascita, per un giovane normalmente destinato a una vita banale e già decisa, quando «invece, d’improvviso, in un giorno del settembre del ’43, si ritrova totalmente libero, senza re, senza duce, libero e ribelle, con tutta la grande montagna come rifugio».
Può apparire un paradosso, ma fu allora, nel punto per molti aspetti più basso della nostra storia, che si formò e selezionò una delle classi dirigenti migliori della nostra nazione.
Come una data si fa simbolo
di Stefano Bartezzaghi
I bambini che seguivano Carosello, e magari era proprio il Sessantotto, si rallegravano con «È arrivato Lancillotto / or succede un quarantotto». La consideravano come una filastrocca, dove “un quarantotto” era come le tre civette sul comò o la palla di pelle di pollo, o come certi altri numeri misteriosi (Quarantasette, morto che parla; cento, la toilette; fino a «Centocinquanta, la gallina canta», di cui fece giustizia Achille Campanile). Non si aveva insomma alcuna idea su cosa si dovesse intendere per quel numero, e perché. Giunti verso la fine del liceo alle rivolte parigine, a molti tornò in mente Lancillotto: ecco a cosa si riferiva “un quarantotto”! Rivolta e caos, un anno di totale bagarre.
Con “otto settembre” va al contrario: si capisce subito che è una data, ma è più difficile cogliere il senso generale dell’allusione. Anche lì si parla di battaglie, confusione e “smarrimento” (è la parola più usata dagli storici a proposito del periodo che si aprì con l’8 settembre 1943). Ma se quella data ha costituito uno dei
Luoghi della memoria italiani recensiti da Mario Isnenghi (Laterza, 1997) è per un motivo ulteriore: oltre al caos e al collasso sistemico c’è infatti l’intrico illogico, il paradosso. Lo ha ben formulato una volta Emilio Lussu: «la guerra ufficialmente era finita, mentre continuava».
Il processo linguistico che sgancia una data dalla storia e ne fa un’espressione comune è a sua volta complesso. Ogni giorno è unico e irripetibile, e così è stato anche l’8 settembre del 1943. Ma per certi giorni speciali una prima operazione retorica porta a usare la data per nominare i fatti che l’hanno resa memorabile. Facile esempio, l’11 settembre. Soltanto un imbecille, o un giovanissimo, sentendo nominare l’11 settembre potrebbe infatti chiedere: «Di che anno?» Ogni anno c’è un undici settembre, ma l’Undici settembre, maiuscolo e inteso come atto di guerra terroristica inatteso e di mostruosa entità, è solo e per eccellenza (o per “antonomasia”) quello del 2001. Non è facile immaginare la catastrofe che potrebbe farci dire: «è stato un undici settembre». Lo sbandamento, l’incomprensibilità, l’abbandono delle autorità regnanti e governanti, la minaccia dell’invasore hanno colorato con le tinte più fosche la data dell’8 settembre 1943 e l’hanno resa emblema e sigillo storicamente memorabile di una specialissima evenienza italiana. L’8 settembre è diventato un’ “antonomasia”: come quando di un cauteloso si dice che è “un don Abbondio” o di un distruttore che è “un Attila” o di una débâcle che è “una Caporetto” (per restare tra le onte italiane).
L’8 settembre ha di diverso una certa ambiguità. I luoghi comuni che riguardano rispettivamente don Abbondio, Attila e Caporetto sono univoci e chiari a tutti. Ma cosa intendiamo, quando diciamo “Otto settembre”, intendendo per eccellenza quello del 1943? E cosa intendiamo quando ritorniamo alla minuscola e diciamo che una vicenda politica (nel genere di scioglimenti di partiti e di governi, ritirate paurose, vuoti di governance) ha costituito “un otto settembre”? Non si tratta però di un’ambiguità irresistibile. La stessa natura caotica dei fatti dell’estate del 1943 e il durevole sforzo storiografico di travisarli hanno provato a rendere opaca l’etichetta: “8 settembre”; essa nondimeno risulta chiarissima e inequivocabile per chi la sappia leggere: è il giorno che in Italia rappresenta l’eterna, perché sempre possibile e sempre imminente, irresponsabilità del Potere.
A proposito del "macchiavellismo" della Merkel e della rassegnazione degli altri «Nel perfezionismo della sua democrazia s’annida la minaccia. Nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo è iperdemocratico».
La Repubblica, 4 settembre 2013
Sono i tentativi di psicologizzare un potere evidente, invadente, che Berlino dissimula con cura e che nelle capitali dell’Unione non si sa come contrastare. L’Europa intera si nutre di questi stereotipi, da quando la crisi l’ha assalita, e aspetta ammaliata, inerte, l’esito del voto. Spera che tutto cambierà dopo il 22 settembre, ma il tutto che promette lo affida a Berlino. Il rinnovo del Parlamento tedesco precede di pochi mesi le elezioni europee. Nell’Unione è vissuto come il primo atto di un dramma che concerne il continente, e che ha per protagonista la malata democrazia d’Europa.
Grazie ai luoghi comuni il dramma si tramuta in fiaba, che i tedeschi stessi coltivano in parte per capire dove vanno, in parte per giustificarsi. La fiaba narra una Germania – pallida madre ancora e sempre, come nella poesia di Brecht – ansiosa di non esser più, «in mezzo ai popoli, derisione o spavento». Devota all’Europa con lucido raziocinio, ma ostacolata dal nazionalismo dei paesi vicini, Francia in testa. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble fa parte della generazione europeista del dopoguerra, e in un lungo articolo del 19 luglio sul Guardian ha avvalorato l’immaginario racconto: «L’idea che i tedeschi ambiscano a un ruolo speciale in Europa è un malinteso. Noi non vogliamo un’Europa tedesca. Noi non chiediamo agli altri di essere come noi». Invece i tedeschi hanno volontà forti, molto più di quanto dicano. E chiedono, con l’impeto di chi difende non solo dottrine economiche, ma solenni visioni morali (il debito come colpa). Schäuble invita i partner a non usare stereotipi nazionali, ma anche il suo ragionare, minimizzare, sta divenendo uno stereotipo, un sintagma cristallizzato che la realtà smentisce ogni giorno. L’attesa inerte del voto tedesco – attesa addirittura miracolista in Italia – suggella un potere egemonico dato per immutabile, senza alternative: come immutabili, indiscutibili, sono le politiche di austerità che Berlino impone parlando, da sola, in nome di tutti i popoli dell’Unione.
I più lucidi sono gli intellettuali di lingua tedesca – i filosofi Jürgen Habermas e Ulrich Beck, lo scrittore Robert Menasse, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer. Dagli esordi della crisi, denunciano con severa insofferenza l’involuzione nazionalista del proprio paese. Fra i partiti, solo i Verdi fanno proprie le loro diagnosi. Fischer, che è un loro dirigente, accusa il governo di aver riacceso dopo più di sessant’anni l’antico assillo della questione tedesca.
Stessi toni in Jürgen Trittin, ex ministro dell’ecologia: «C’è una divisione netta fra quel che i Verdi vogliono e quel che Berlino sta facendo. Il Cancelliere ha sempre desiderato un’Europa intergovernativa, mentre noi vogliamo rafforzare le istituzioni europee, dunque i poteri della Commissione e del Parlamento europeo ». La Merkel è sospettata di voler tornare a un’Europa degli Stati sovrani: quella stessa Europa fondata sull’equilibrio-competizione fra potenze (la balance of power), che si squassò nelle guerre dei secoli scorsi e contro cui fu alzato, negli anni ’50, il baluardo della Comunità europea.
Non sono sospetti infondati. Piano piano, il capo del governo ha abbandonato l’europeismo che aveva professato nel febbraio 2012, e le porte che aveva socchiuso le ha per ora chiuse. Ha sentito crescere attorno a sé i neo-nazionalisti (l’appena nato partito Alternativa per la Germania recluta a destra e sinistra) e rapida s’è adeguata. Nei suoi discorsi come nei suoi atti «manca qualsiasi nocciolo normativo», dice Habermas. Per questo s’è alleata all’Inghilterra, quando Cameron ha messo un veto a qualsiasi aumento del bilancio comunitario: assieme, hanno detto no a politiche europee che controbilancino le austerità nazionali. E ha benignamente taciuto, quando il Premier olandese Mark Rutte ha decretato, lo scorso febbraio: «L’era dell’Unione sempre più stretta è finita». Il 13 agosto, alla Tv tedesca, s’è come liberata d’un fardello: «L’Europa deve coordinarsi meglio, ma credo che non tutto debba esser fatto a Bruxelles. Va considerata l’ipotesi di restituire qualcosa agli Stati. Dopo il voto ne discuteremo».
Secondo lo scrittore austriaco Menasse, la malattia dell’euro ha proprio qui le sue radici, politiche e democratiche assai più che economiche: nel potere che gli Stati vanno riprendendosi, non da oggi ma da quando nacque, al posto di una Costituzione federale, il Trattato di Lisbona del 2007 (Der europäische Landbote - Il messaggero europeo, Zsolnay 2012). È da allora che gli Stati – Consigli dei ministri, vertici dei leader nazionali – hanno ricominciato a prevalere, accampando sovranità illusorie ma non meno tronfie, erodendo sempre più le istituzioni sovranazionali. I difetti di costruzione dell’euro sono noti: mancanza di unione politica e economica. Ai difetti si sta rispondendo dilatandoli anziché riducendoli.
In un’Europa dove regnano di nuovo gli Stati – è fiaba anche questa, ma ci son fiabe più reali del reale – è ineluttabile che comandi il più potente economicamente. E comanda non senza astuzie, al punto che Beck parla di modello Merchiavelli, quando descrive l’impero accidentale messo su da Berlino: «Proprio come Machiavelli, Angela Merkel ha sfruttato l’occasione che le si è presentata (la crisi) e ha trasformato i rapporti di potere in Europa». Lo avrà fatto controvoglia ma lo ha pur sempre fatto, e con effetti visibili: l’Unione non è più comunità, quando i paesi debitori-peccatori vengono umiliati col soprannome di Periferia-Sud. Non si spiegano altrimenti l’evaporare d’ogni «nocciolo normativo», la volatilità delle posizioni tedesche: sui poteri da rimpatriare nelle capitali, sull’Europa-federazione, o sull’unione bancaria prima voluta, poi respinta per meglio tutelare gli interessi delle banche tedesche. Ascoltiamo ancora Beck: «Il principe, dice Machiavelli, deve attenersi alla parola politica data ieri solo se oggi gli porta vantaggio» (Europa tedesca, Laterza 2012).
Fischer sostiene che per la terza volta, la Germania rischia di distruggere l’Europa. Il pericolo è reale, ma stavolta è nel perfezionismo della sua democrazia che perversamente s’annida la minaccia. È nelle sue istituzioni indipendenti: Corte costituzionale, Parlamento nazionale, Banca centrale. Il nuovo nazionalismo in Europa è iperdemocratico. O meglio: siamo alle prese con prassi istituzionali che Menasse giudica antiquate perché «non ancora sorrette da una democrazia postnazionale ». La voglia isolazionista di Alternativa per la Germania accelera la regressione. Se Alternativa entra in Parlamento il paese muterà volto, ma non mettendosi ai margini come l’Inghilterra: la sua Costituzione le prescrive l’Europa (art. 23, riscritto nel ’92), ma l’Europa voluta non è federale.
L’ultimo luogo comune riguarda la memoria. L’Italia ha poco da criticare, essendo abituata all’oblio di sé. Ma la politica della memoria ha in Germania singolari lacune. Si ricorda l’inflazione di Weimar, ma non la deflazione e l’austerità adottata nel ’30-32 dal Cancelliere Brüning, che assicurò trionfi elettorali a Hitler. Si ricorda il nazionalsocialismo, ma non quel che accadde dopo: il taglio del debito tedesco generosamente accordato nel ‘53 da 65 Stati (tra cui la Grecia). Anche il mito della Germania che impara dalla storia va in parte sfatato, se non si vuol dividere l’Europa tra centro e favelas: tra santi e peccatori che al massimo «si coordinano», dimenticando strada facendo il nome solidale - Comunità - che un tempo si erano dati e che troppo spensieratamente hanno abbandonato.
Le parole di Papa Francesco «non sono un fervorino devoto, ma un appello forte, concreto e chiaro; queste sono parole politiche, parole da statista oltre che da capo religioso» Ma gli interessi in gioco sono altrettanto forti, e diversamente concreti. Il manifesto, 3 settembre 2013
Le ragioni per le quali l'Assemblea di Palazzo Madama, anche se lo volesse, non può rifiutarsi di dichiarare decaduto il dott. Berlusconi dalla carica di membro del Senato della Repubblica, né ritardare l'applicazione della legge. Ove, s'intende, non voglia uscire dalla legalità.
Il manifesto, 3 settembre 2013
Vediamo nel merito gli argomenti a sostegno. Le ragioni di incostituzionalità sarebbero essenzialmente tre. Primo: si sostiene la violazione dell'art. 65 della Costituzione che prevede sia la legge a stabilire le cause di ineleggibilità e incompatibilità dei parlamentari. In secondo luogo, si denuncia il non rispetto dell'art. 66 che riserva alla camera il giudizio sulle cause sopraggiunte. Infine, si afferma la violazione dell'articolo 25 (e della normativa CEDU) che vieta la retroattività delle «pene».
Nel primo caso si sostiene che la «incandibabilità» (che è stata introdotta per le Regioni e gli enti locali sin dalla legge n. 16 del 1992) non sarebbe riconducibile alle cause di «ineleggibilità», le uniche per le quali la costituzione (all'articolo 65) ammette per il Parlamento una limitazione del diritto di elettorato passivo. Peccato però che la Corte costituzionale ha, in più occasioni, già affermato che l'istituto della «incandibabilità» va considerata una causa particolare di ineleggibilità (vedi in tal senso le sentenze 407 del 1992, 141 del 1996 e 132 del 2001). Dunque, l'organo al quale ci si vuole rivolgere per risolvere la questione proposta s'è già pronunciato. Perché mai l'incandidabilità, se riferita ai parlamentari, dovrebbe d'improvviso mutare di natura? Solo per rendere non applicabile l'articolo 65?
Ma v'è di più. In questa prospettiva non si considera che il fondamento costituzionale della legge Severino non è solo l'articolo 65 ma è anche una legge che dà attuazione all'articolo 48, quarto comma, che stabilisce limitazioni al diritto di voto (e dunque, secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale, anche di elettorato passivo); all'articolo 51, primo comma, che rinvia alla legge ordinaria la definizione dei requisiti per poter accedere alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza; all'articolo 68, secondo comma, che esclude la necessità di un'autorizzazione della Camera di appartenenza per dare esecuzione ad una sentenza irrevocabile di condanna.
Più delicato il discorso sulla presunta violazione dell'articolo 66. La legge Severino è esplicita sul punto, ed espressamente assegna alla Camera di appartenenza il giudizio sulle cause di incandidabilità «sopraggiunte» proprio «ai sensi dell'art. 66 della Costituzione». Perché dunque ci si lamenta? Qui il dibattito politico in corso ha confuso un poco le acque. Almeno dal punto di vista del diritto costituzionale dovrebbe essere chiaro che non esiste un obbligo giuridico nel dichiarare la decadenza del parlamentare. Il Parlamento non è dunque chiamato a un «atto dovuto» che finirebbe per vanificare la garanzia di autotutela contenuta in Costituzione. Che l'ultima parola spetti alla Camera è indubbio, tant'è che siamo in attesa delle decisioni della Giunta e poi dell'Aula. La vera questione è però un'altra. In quali casi il Senato potrebbe decidere di non far decadere Silvio Berlusconi?
Nel rispetto dell'autonomia degli organi costituzionali e della divisione dei poteri in una sola ipotesi: qualora si convenisse che la decisione della Cassazione sia stata un fatto eversivo, non si sia mantenuta entro la propria sfera di competenza, abbia attentato alla libertà politica del parlamentare. Il Parlamento non può, infatti, discutere nel merito la decisione dei magistrati, non può valutare la correttezza o meno della decisine (la divisione dei poteri lo impedisce), può solo salvaguardare la propria autonomia e quella dei suoi membri ove ritenesse siano state lese. Potrebbe solo far propria la tesi sostenuta dai «falchi» del Pdl, ammettere che siamo nelle mani di giudici eversori, salvare Berlusconi e apprestare misure idonee a ripristinare la democrazia proditoriamente violata. È questa la posta in gioco. Andando, se possibile, oltre la propaganda degli estremisti alla Santanchè, penso che nessuna forza politica responsabile in Italia possa immaginare uno scenario di questo tipo. Il Presidente Napolitano ha chiaramente sostenuto la tesi opposta: è necessario anzitutto che tutte le parti in causa - il Pdl e Silvio Berlusconi in primo luogo - riconoscano la legittimità dei comportamenti e rispettino le decisioni dei giudici. Non vedo come le altre forze - il Pd anzitutto - possano immaginare di discostarsi e cedere alle ubbie dei più estremisti. È questo che rende la decisione sulla decadenza di Berlusconi una strada parlamentare obbligata, almeno dal punto di vista politico-costituzionale.
Sulla diversa questione della presunta irretroattività della legge Severino ci sarebbe molto da dire. Qui, in sintesi, può ricordarsi l'essenziale. Si tratta in questo caso di accertare se l'incandidabilità e la conseguente decadenza da parlamentare rappresenti o meno una norma penale, poiché solo per queste la costituzione impone il divieto di retroattività. È vero che oggi sono più sfumati rispetto al passato i confini tra sanzioni penali e amministrative o, più in generale, leggi civili. E a leggere la giurisprudenza nazionale e, soprattutto, quella della Corte di Strasburgo, non appare più sufficiente richiamarsi ad un criterio formale per delimitare il campo della norma ritenuta propriamente «penale». Ciò non toglie però che nel nostro caso l'interpretazione sul «tipo» di norma e sulla retroattività è già stata chiaramente formulata dai giudici e non si vede per quale ragione ci si dovrebbe ora discostare dai precedenti. Il Consiglio di Stato nel febbraio di quest'anno (sez. V, n. 695 del 2013) si è espresso sul punto ritenendo applicabile la norma dell'incandidabilità anche con riferimento ai reati commessi prima dell'entrata in vigore della legge Severino. La Corte costituzionale, in tempi non sospetti, ha esplicitamente escluso possa configurarsi l'incandidabilità come una sanzione penale, ma essa determina il venir meno di un «requisito soggettivo» per l'accesso alle cariche elettive (sent. 132 del 2001).
Rimane da dire della richiesta di far sollevare la questione di costituzionalità dalla Giunta per le elezioni del Senato, nonostante la legge che regola i giudizi della Corte costituzionale (la n. 87 del 1953) sembra escluderlo, riservando tale possibilità solo al «giudice nel corso di un giudizio» . Una richiesta assai innovativa che si fonda - dal punto di vista del diritto costituzionale - su due argomenti. La prima è l'affermazione - condivisa dalla Corte costituzionale (sent. 259 del 2009) - della «natura giurisdizionale» del controllo compiuto dalla Giunta in sede di giudizio sui titoli di ammissione (e dunque sulla causa di sopraggiunta decadenza). La seconda sulle aperture della Consulta che in alcuni definiti casi ha riconosciuto un'attività di carattere oggettivamente giurisdizionale a soggetti non facenti parte integrante dell'ordine della magistratura (dalla commissione disciplinare del Csm ai collegi arbitrali). Il punto decisivo appare però il seguente: anche ammessa la «natura giurisdizionale» dall'attività della Giunta, il requisito necessario in base al quale la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale appena richiamata s'è potuta fondare è l'accertamento della terzietà e imparzialità dell'organo che esprime il giudizio. Ora chi può pensare che il giudizio espresso da un organo politico (la Giunta per le elezioni) possa rappresentarsi come terzo e imparziale? Non vi è nessuna demonizzazione della politica in questa osservazione, ma anzi un porre la questione nel suo giusto rilievo: la decisone sulla decadenza è demandata alle Camere proprio per salvaguardare l'autonomia politica dell'organo della rappresentanza popolare. Nel controllo operato dalla Giunta, la politicità non è separabile dal giudizio. In fondo basta guardare al dibattito in corso: tutto ruota attorno alla questione propriamente politica della possibilità che il leader carismatico del centrodestra sia impedito nella propria «agibilità politica».
V'è infine un ultimo, ma decisivo, ostacolo alla proponibilità della questione di legittimità costituzionale da parte della Giunta. È giurisprudenza costituzionale costante (tra le tante decisioni in tal senso le sentenze 40 del 1963 e 226 del 1976) che per poter rivolgersi alla Corte costituzionale è necessario che all'organo spetti effettivamente decidere nel giudizio in corso. Così, ad esempio, non il pubblico ministero, che non ha poteri decisori «ultimativi», bensì il giudice.Ora si dà il caso che la Giunta non deciderà alcunché, avendo solo un potere di proposta per l'Assemblea che si dovrà pronunciare in via definitiva solo in un secondo momento, in base all'esito del lavoro istruttori compiuto dalla Giunta. Dunque, a tutto concedere, dovrebbe essere l'Aula l'organo competente a sollevare la questione di fronte alla Consulta. Ma chi può credere che il Senato in quanto tale (l'Assemblea) possa essere considerato un giudice imparziale e terzo?
Le profonde diseguaglianze comportate dalla scelta del governo Letta-Berlusconi di abolire l'IMU.
Il manifesto, 30 agosto 2013
Con la riforma dell'Imu i proprietari di un solo alloggio di 80 metri quadrati di categoria catastale usuale, risparmieranno 4-500 euro all'anno. Quelli di 4 o 500 metri quadrati di maggior pregio ne risparmieranno 10-15 mila. Ma non basta! I grandi costruttori non pagheranno l'Imu 2013 e 2014 per il gigantesco numero di alloggi invenduti che popolano le desolate periferie urbane. Un regalo misurabile in decine di milioni di euro. Soldi con cui si possono acquistare o potenziare giornali (Caltagirone e Bonifaci - Messaggero e Tempo - ne sono il più noto esempio) utili a cantare le lodi al governo di turno. O ad aiutare nelle strepitose rimonte berlusconiane in campagna elettorale. Sociologi ed economisti di ogni corrente di pensiero concordano nell'affermare che il ventennio che abbiamo alle spalle è quello in cui si sono prodotte le più impressionanti differenze sociali a tutto vantaggio dei ceti benestanti. Il governo Letta ha aumentato la forbice.
Ma oltre ai numeri contano ancora di più i fatti simbolici e strutturali. L'Italia, come paventava La voce.info, è diventata l'unico paese sviluppato a non tassare la proprietà edilizia. Sono soggette a Imu soltanto le abitazioni di lusso: in tutto 73 mila immobili su 20 milioni di alloggi. Tutti gli altri sono stati equiparati e azzerati alla faccia della Costituzione. Tanto è vero che nascerà la «service tax», un'imposta legata all'erogazione dei servizi urbani che verrà pagata in gran parte dagli inquilini invece dei proprietari com'era con l'Imu.
In buona sostanza con la novità introdotta i proprietari di una sola abitazione perderanno immediatamente i benefici della cancellazione dell'Imu, mentre gli inquilini vedranno crescere notevolmente il prelievo fiscale. Un altro regalo alla rendita immobiliare. Un altro colpo micidiale all'equità.
Non stupisce dunque la felicità del centro destra. Ha cancellato il principio fondante della progressività della tassazione, chiudendo con un suggello impensabile il ventennio della restaurazione proprietaria. Stupisce invece la serafica indifferenza del primo ministro Letta che sembra non aver colto la rilevanza di questo micidiale colpo. Eppure dovrebbe essere culturalmente erede di quel Fiorentino Sullo che aveva compreso cinquant'anni fa - pagando un prezzo personale pesantissimo - che il nodo scorsoio che strangola l'Italia è il dominio della rendita speculativa. Evidentemente i cattolici «democratici» alla Letta non appartengono a questo importante filone di pensiero. Ma stupisce di più la sconcertante sudditanza dell'intero Pd che ha messo sullo stesso piatto della bilancia 500 milioni per la cassa integrazione, che dovevano essere comunque trovati se non si volevano acuire le tensioni sociali del prossimo autunno caratterizzato dalla crescente disoccupazione, con la cancellazione di uno dei pilastri che reggeva lo stato.
Il trionfo di Berlusconi sta qui, nell'aver lasciato senza rappresentanza i due terzi della popolazione italiana. Una ristretta élite sociale governa per interposta persona e continua a colpire ciecamente le classi più sfavorite. Può contare su una maggioranza dei due terzi del parlamento cui impone ogni tipo di provvedimento legislativo: articoli come quelli approvati ieri l'altro sono scritti da chi conosce alla perfezione i meccanismi, come ad esempio l'ufficio studi dei costruttori.
Ridare voce e rappresentanza a questa Italia senza più fiducia è il compito sempre più urgente che ha la sinistra in cui crediamo. La proposta di Micro Mega ripresa da Pierfranco Pellizzetti mercoledì su queste pagine di lavorare per un governo di «legalità repubblicana» formato da personalità impermeabili alle pressioni delle lobby, è l'unica strada per ridare speranza al paese.
Siamo la nazione che cresce di meno perché siamo in perenne ostaggio di una rendita parassitaria che non ci permette di diventare un paese realmente libero e moderno. Non ci si può meravigliare se mancano investimenti stranieri. O se molti imprenditori non investano nei comparti produttivi: meglio giocare all'eterna tombola della speculazione immobiliare improduttiva e intascare plusvalenze gigantesche. Il trucco funziona sempre, anche grazie al governo Letta.