«Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia».
La Repubblica, 23 ottobre 2013
Si fa presto a dire basta, non se ne può più di frugare nelle pieghe di Berlusconi e del suo harem. Oppure ad annunciare, volendo forse crederci: «il ventennio è chiuso, in modo politico. Alfano ha vinto. Non si ricomincia con la tarantella» (Enrico Letta, 6 ottobre). Si fa presto a dire che altro oggi incombe: c’è la crisi, e non abbiamo più tempo né voglia di camminare con la testa voltata indietro, l’occhio fisso su Sodoma e Gomorra in fiamme alle nostre spalle. Non raccontateci quel che già sappiamo. Il corpo di Berlusconi che mi mostrate: non voglio vederlo!
Non sappiamo nulla invece, né del passato né di Gomorra. E serve la trasparenza sul corpo di Berlusconi, perché il corpo sta lì, dispositivo che ancora muove le cose. Perché ancor più crudamente rivela quel che resta opaco, impreciso: la politica che deperisce, il giudizio sulle menzogne di ieri che ingiudicate proseguono. Dietro le grida dell’harem, ecco i sussurri di chi senza dirlo lo sa: Berlusconi magari finisce ma non il suo sistema di potere, non le televisioni che controlla e usa, non il suo progetto di scardinare Costituzione e giustizia. La tarantella delle menzogne ricomincia, e sempre è condotta da oligarchie impenetrabili.
La menzogna della politica innanzitutto. Non è vero che il ventennio è stato chiuso «in modo politico »: al momento, sono i giudici ad aver deciso l’interdizione per frode fiscale, non il Parlamento. La politica italiana è tuttora priva di anticorpi. Vive nel torbido, se è vero che in Parlamento si trama per salvare il frodatore: ecco perché ogni paragone fra Larghe Intese e Grande Coalizione tedesca è frode aggiuntiva. Alfano «ha vinto»? Non si sa che vittoria sia. Se non continuasse la tarantella, Monti non avrebbe denunciato l’assoggettamento del governo ai capricci d’un leader dato per vinto.
Alfano e Quagliariello recitano un finto Termidoro post-rivoluzionario, ma Robespierre è sempre lì. E tra i Grandi Intenditori proseguono le trattative per cambiare la Costituzione, come il capo ha sempre voluto. Non riusciranno magari, ma l’obiettivo non muta anche se oggi lo chiamano governance. A parole il progetto pare ridursi a 2-3 cose semplici: minor numero di parlamentari; fine del bicameralismo perfetto (le due Camere che fanno la stessa cosa). Ben diverso il proposito, opaco ma palese. In realtà si tratta di riscrivere la Carta, troppo parlamentare per i governi forti di cui c’è bisogno. Se così non fosse non sarebbe nata una solenne Commissione di saggi, voluta dal Quirinale, e i tempi della riforma sarebbero più brevi dei 12-16 mesi previsti. Inoltre avremmo già una nuova legge elettorale, e cesseremmo di considerarla parte della Costituzione da rifare.
Qualcuno si sarà imbattuto forse, tra l’8 luglio e l’8 ottobre, nel questionario online di Palazzo Chigi attorno alla riforma istituzionale. Un questionario che non nascondeva i propri convincimenti: la Carta così com’è blocca l’esecutivo, dà troppi poteri a deputati e senatori. La democrazia parlamentare non garantisce efficienza, né il prezioso bene che è la stabilità. Il costituzionalista Mauro Volpi ha definito «truffaldino» il formulario: «Tutto è giocato sui poteri del Capo del Governo (o di un Presidente potenziato, ndr), necessari a evitare “l’instabilità politica derivante” da un assetto parlamentare. Le parole pesano come pietre». Chi aveva idee contrarie non poteva esprimerle, tanto orientato era il quiz.
Se i saggi guardassero oltre le frontiere, vedrebbero la vera favola del ventennio: non il superamento degli Stati-nazione, ma la panacea di governi che fingono sovranità inesistenti, e l’esaltazione di sacre unioni che fanno blocco contro populisti o dissenzienti (le maggioranze parlamentari del 70-80% auspicate da Letta nell’intervista al New York Times del 15 ottobre). Vedrebbero il fondale furioso della crisi europea: l’impossibilità dei cittadini di influenzare i piani di austerità, l’assenza di una comune discussione pubblica, che rafforzi le Costituzioni nazionali estendendo il perimetro di regole e diritti. È il pericolo che ha spinto la Corte costituzionale tedesca a mettere paletti all’Europa federale: nella prima sentenza sul trattato di Maastricht nel ‘93, in quella sul Trattato di Lisbona nel 2009, in quella del 2011 sul Fondo salva-Stati. Lo ha fatto in un’ottica nazionalista, ma sapendo che il rischio oggi è la diminutio dei Parlamenti, non degli esecutivi. Il cosiddetto fiscal compact (Trattato di stabilità fiscale) ha messo in luce questi pericoli.
Lo spiega bene uno dei principali costituzionalisti europei, Ingolf Pernice, che assieme ad altri giuristi ha elaborato un piano di democratizzazione delle istituzioni comunitarie ( A Democratic Solution to the Crisis, Nomos 2012; del gruppo fa parte Giuliano Amato). Il Trattato di stabilità, nella fase di elaborazione, s’è fatto senza i Parlamenti. Solo a cose fatte si chiede la partecipazione cittadina. Il Patto introduce inoltre una serie di sanzioni «automatiche », al posto di procedure concertate tra i responsabili davanti ai loro elettori. Nella nota introduttiva al testo di Pernice, Amato lo riconosce: ovunque, nell’Unione, i cittadini temono una «perdita, un furto della sovranità ». In effetti nelle costituzioni democratiche è scritto che il cittadino è sovrano, non lo Stato-nazione né l’esecutivo. Al primo va restituita la sovranità perduta, ampliandola in casa e nell’Unione. Defraudati di poteri, i cittadini rigetteranno altrimenti l’Europa e le sue unions sacrées.
La tendenza dei governi italiani (da Berlusconi in poi) è stata di camminare in senso inverso. La scelta di riarmare l’esecutivo più che i cittadini e i Parlamenti è miope oltre che autoritaria. Ignora che la fedele osservanza delle Costituzioni è condizione d’efficienza e non intralcio. Non è vero che i difensori della Costituzione aspirano allo status quo. Ben venga la loro battaglia, soprattutto se guarderà oltre le democrazie nazionali. Se farà nascere uno spazio pubblico europeo. Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo in Italia, ricorda che non è sufficiente reclamare, alle prossime elezioni europee, il diritto a scegliere il presidente della Commissione. L’elettore dovrà poter scegliere anche «un vero programma di governo per un’altra Europa: per uno spazio politico dove abbiano diritto di cittadinanza visioni radicalmente alternative di politiche economiche e sociali, e posizioni conflittuali sul significato della democrazia europea».
Probabilmente in Italia non avremo la Costituzione rifatta dai saggi. Manca lo spirito costituente. Già all’alba del berlusconismo, Bobbio ammoniva contro i ritocchi della Carta: nel dopoguerra fu possibile, «tra partiti radicalmente diversi, un patto di non aggressione reciproca di fronte al nemico comune. Oggi vedo una grande rissosità, che rende estremamente difficile mettere insieme una nuova assemblea costituente». Oggi sarebbe il cittadino a rimetterci. Non gli resterebbe che l’inerte, mesta protesta di Amarcord: «Se il governo va avanti così ... io non lo so ...».
Bloccato per ora un passo ulteriore nello smantellamento del Welfare state, ma non è finita. Obama vuole innovare, avevamo già conquistato il diritto alla salute smantellano un pezzo per volta.
La Repubblica, 22 ottobre 2013
Mentre negli Stati Uniti si è consumato uno scontro feroce tra i democratici e l’ala più estrema della destra repubblicana sulla storica riforma sanitaria del Presidente Barack Obama, in Italia il governo ha deciso saggiamente di non procedere lungo la strada di ulteriori tagli alla spesa per la sanità, sebbene fossero in atto pressioni pesantissime in tal senso.
L’attacco alla sanità pubblica nasce dalla crisi dei bilanci statali della maggior parte dei paesi avanzati, una crisi che sta spingendo inesorabilmente verso l’adozione di politiche di drastico contenimento della spesa. E poiché è diffusa la convinzione che la sanità sia essenzialmente una voce di costo da ridurre, il diritto alla tutela della salute è messo sempre più a rischio. In Italia ciò potrebbe aprire la strada ad un nuovo sistema, peggiore e profondamente iniquo. Dobbiamo tener presente che in questa fase di crisi, con 8 milioni di cittadini in povertà e circa 15 milioni a rischio di esclusione sociale, la sanità pubblica sta svolgendo un ruolo fondamentale di ammortizzatore sociale. Oggi la componente sanitaria copre circa il 25% della spesa complessiva per prestazioni di protezione sociale erogate dalle amministrazioni pubbliche, dopo la previdenza che ne rappresenta la componente più rilevante con il 65%. Inoltre, l’articolo 32 della Costituzione Italiana, nel sancire la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, obbliga, di fatto, lo Stato a promuovere ogni opportuna iniziativa utile alla migliore tutela della salute. Ma da diversi anni in Italia sono in atto tendenze preoccupanti: nel 2011 la spesa sanitaria pubblica pro capite è stata del 22% inferiore alla media dei principali paesi europei, mentre la spesa farmaceutica pro-capite è stata del 14,5% al di sotto della media con un andamento in controtendenza rispetto agli altri paesi dell’Unione. L'unico aspetto positivo riguarda la gestione dei conti della sanità italiana: dal 2005 al 2011 il disavanzo di esercizio è passato da 5,7 miliardi a 1,3 miliardi di euro. La fetta più grossa del disavanzo è riconducibile a cinque regioni (Liguria, Lazio, Campania, Calabria e Sardegna): è qui che si concentra oltre l'87% del deficit nazionale.
Ora, nessuno mette in dubbio che la sanità pubblica debba essere modernizzata e debba diventare più efficiente, ma è molto discutibile che ciò possa essere ottenuto attraverso una pesante restrizione della spesa, che metterebbe a rischio il funzionamento degli ospedali e la capacità di offrire un’assistenza adeguata alle fasce sociali più deboli.
Diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove l’estrema destra repubblicana ha cercato di sabotare con tutti i mezzi la nascita di un forte sistema sanitario pubblico. L’occasione per sferrare l’attacco frontale è stata fornita dalla necessità di alzare il tetto dell’indebitamento federale, pari a 16.700 miliardi di dollari, per continuare a finanziare le spese governative e per rispettare gli impegni con i creditori. In cambio dell’innalzamento del tetto del debito, i repubblicani avrebbero voluto delle modifiche della riforma sanitaria che, nell'immediato, ne avrebbero bloccato l'attuazione e, nel medio-lungo periodo, ne avrebbero svuotato la portata. Ricordiamo che la riforma sanitaria di Obama permetterà a trentatré milioni di americani che ne sono privi di avere un’assicurazione sulla salute. Di questi, 17 milioni saranno associati a Medicaid, l’assistenza pubblica per i poveri; mentre altri 16 milioni fruiranno di una sovvenzione pubblica tramite un credito d’imposta correlato al livello di reddito. Per concludere, siamo convinti che in questa fase di crisi la priorità non sia quella di ridurre ulteriormente il finanziamento pubblico alla sanità, ma quella di potenziare gli investimenti pubblici per la modernizzazione delle infrastrutture ospedaliere, per l’innovazione delle tecnologie sanitarie, per la formazione professionale e per gli interventi di diagnostica e prevenzione. Si tratta di una strategia che non solo permetterà di aumentare l’efficienza della sanità pubblica, ma consentirà anche di offrire maggiore protezione sociale alle fasce più deboli, condizione fondamentale per rilanciare i consumi e quindi la produzione e l’occupazione nel nostro paese.
«manifesto, 20 ottobre 2013
È stato un risultato inaspettato e incontestabile. I movimenti per il diritto all'abitare, i No Tav e i No Muos, quello dei migranti e dei rifugiati che chiedono l'abolizione della legge Bossi-Fini, i sindacati di base (Usb e Cobas), le reti antagoniste dei movimenti sociali, e anche quelle degli altri centri sociali, entrambe presenti in forze ieri a Roma al corteo della «sollevazione generale», hanno superato una prova complicata, gestendo in maniera dura ma in fondo limitato un «assedio» alla Cassa Depositi e Prestiti e ai ministeri dell'Economia e delle Infrastrutture che poteva trasformarsi in un'ecatombe politica e in una mattanza di giovani, famiglie occupanti e migranti. Questo può essere un primo passo verso una politica contro l'austerità, che ha chiare basi sociali e mette al centro la richiesta del blocco degli sfratti per morosità, la riforma del Welfare e la richiesta di un reddito minimo. Potrebbe essere questo un primo, serio, tentativo per superare lo choc provocato dalla sconfitta politica del 15 ottobre 2011 che hanno fatto implodere il movimento, mentre negli Stati Uniti nasceva Occupy Wall Street, in Spagna si affermavano gli indignados e in Italia ci si è rinfacciati il risentimento e le responsabilità.
Settantamila persone, forse anche di più, hanno partecipato al corteo della «sollevazione generale», parola che ha acquisito un nuovo significato. Erano in molti fino a ieri mattina, alla partenza di un corteo possente, allegro, cosmopolita a temere scontri all'ultimo sangue con le forze dell'ordine. In serata, all'arrivo a Porta Pia, la «sollevazione» è stata intesa come «sollievo», ma anche come una presa di parola estranea al desiderio mimetico che tiene in ostaggio i movimenti italiani rispetto a quanto si muove all'estero. Da oggi, forse, si potrà cambiare registro, e non dire che bisogna fare come negli Stati Uniti o come in Spagna «perché in Italia non può succedere niente».
I segnali di un nuovo, tremendo fallimento, c'erano tutti, a cominciare da una campagna mediatica criminalizzante, ricavata da veline di questura o da «rapporti dell'intelligence» che sin dal mattino, dal sito dell'Huffington Post ad esempio, preannunciava l'incredibile, surreale, uso da parte dei manifestanti inevitabilmente «violenti» di «macchine idropulitrici» contro gli agenti in servizio. La scena che invece si è presentata a piazza San Giovanni è stata quella di una marea umana di almeno 15 mila persone in testa al corteo, quelle che vivono nelle sessanta occupazioni di palazzi pubblici abbandonati, residence e hotel al centro come nelle periferie della Capitale. Uno spettacolo di umanità commovente, orgogliosa, che accusa l'ipocrisia delle larghe intese con il cartello di alcuni migranti ripreso sui social network: «Scusate se non siamo affogati» a Lampedusa. Rivendica con gli eritrei, i somali, i maghrebini, i peruviani, gli africani, i rom la riscrittura di tutti i trattati europei sull'immigrazione, il cosiddetto «Dublino 2», dell'efferata Bossi-Fini e della sua genealogia securitaria che risale alla precedente legge Turco-Napolitano. Chiede il blocco degli sfratti, un piano casa per affrontare in maniera sistematica una tragedia della crisi: gli sfratti e i pignoramenti. E, infine, di cancellare le «grandi opere», a partire dall'odiata Tav Torino-Lione, di rinunciare ai «grandi eventi» sui quali viene costruita l'economia nazionale (dalla più visibile Expo 2015 a Milano alle mega-manifestazioni sportive o culturali), redistribuendo risorse in base a criteri di giustizia sociale.
Strappato il velo della disinformazione, il corteo della «sollevazione» ha assunto il profilo più netto di una società, tendenzialmente maggioritaria nel sentire comune, che inizia a riconoscersi a partire dalla vita negata, da un mutuo che non può essere pagato a causa della perdita di un lavoro o di una precarietà che non lascia tregua con poche centinaia di euro al mese, quando va bene. Una «sollevazione» che non ha alcuna rappresentanza in parlamento, sia essa «grillina», «legalitaria», «anti-berlusconiana» e nemmeno di «sinistra». Questa è la nuova questione sociale che, a cinque anni dall'inizio della crisi, sta provando a darsi una rappresentanza autonoma.
Ci sono state due «sanzioni». La prima, la più dura, all'ingresso del Tesoro in via Quintino Sella dove a più riprese il cordone composto da quattro camionette della Finanza è stato bersagliato da petardi, bottiglie, sassi a cui è stato risposto con una carica di allegerimento da parte dei Carabinieri. La seconda è stata contro il consolato tedesco in via San Martino della Battaglia. I manifestanti le hanno intese come azioni contro le politiche dell'austerità che producono, in Italia come in Germania, la schiavitù dei contratti a termine o dei «mini-job».
La questione della sepoltura si è posta subito dopo il ritrovamento dei corpi degli uccisi alle Fosse Ardeatine. Mi raccontava la signora Vera Simoni, figlia del generale Simone Simoni (torturato a via Tasso e ucciso alle Fosse Ardeatine) che il generale John Pollock, comandante delle truppe alleate dopo la liberazione di Roma, aveva pensato che, visto che i corpi erano già sotterrati, si potevano lasciare lì e costruirci sopra un monumento. Ma sua madre, e altre vedove delle Ardeatine, si opposero: noi vogliamo il riconoscimento di tutti, uno per uno, dissero. Da lì cominciò il tremendo lavoro del professor Attilio Ascarelli, dei suoi collaboratori, e dei familiari in lutto, per tirar fuori i corpi dalla terra, riconoscerli, e finalmente seppellirli. Sotterrare non è lo stesso che seppellire: di mezzo, scrive Ernesto de Martino, c'è il pianto e c'è il rito, che servono a far passare la perdita in valore.
Per questo le spoglie di Erich Priebke sono un problema così grande. Da un lato, c'è la questione di disporre di un corpo - magari, per certi cristiani, anche di pregare per la sua anima, cosa a cui anche i peggiori assassini hanno diritto (anche se sospetto che nel caso di questo peccatore non pentito non servirà a molto). Dall'altro, c'è il problema del rito: quale valore pensano di estrarre da questo passaggio i preti lefebvriani e i neonazisti, se non la pubblica proclamazione ed elogio dei perversi e protervi «valori» per i quali Priebke ha ucciso? (sarà una coincidenza, ma per parecchio tempo Albano, la cittadina dei Castelli Romani dove si vuole celebrare il funerale, è stato terreno di caccia dei neonazisti e fondamentalisti di Militia. Il loro leader Paolo Boccacci viveva lì, e già altre volte i cittadini democratici sono dovuti intervenire materialmente per impedire sfilate neonaziste in paese).
E infine: c'è il pianto. C'è qualcuno che davvero piange per Erich Priebke? Non noi, non le famiglie delle sue vittime (qualcuno dice di avere perdonato, altri non perdoneranno mai: sono scelte profonde che spettano a ciascun individuo); nemmeno suo figlio, stando a quello che dice a i giornali. E certamente non i suoi manipolatori e le squadracce neonaziste, per i quali Erich Priebke già da vivo - ma sempre incapace di capire e di sentire - era meno e più di una persona, un docile fantoccio da esibire a comando, e adesso da morto è solo un'occasione. Viene da averne pena. Sotterriamolo e, senza dimenticare niente, lasciamolo lì.
Ai vecchi tempi si sarebbe parlato di una manifestazione pacifica e di massa. E quella di ieri in difesa della Costituzione è stata davvero una grande manifestazione di popolo. Non solo perché decine e decine di migliaia di persone hanno riempito la bella piazza romana occupando la larga cornice delle porte laterali fino alla sommità del Pincio (e pure la quantità conta moltissimo). Ma perché sul grande palco che riuniva gli organizzatori c'era la più evidente fotografia della novità politica rappresentata: i costituzionalisti di Rodotà insieme alla Fiom di Landini coinvolti, in forma pubblica e organizzata, in un percorso che lì in quella piazza stracolma riceveva il suo battesimo. Come hanno detto in molti, è solo l'inizio. Un buon inizio.
A proposito dei resti, morali e materiali, dell’autore della strage delle Fosse ardeatine.
La Repubblica, 12 ottobre 2013
LA CHIESA si rifiuta di celebrare i suoi funerali, l’Argentina respinge la salma, Roma gli nega la sepoltura. Priebke è morto e nessuno lo vuole. Il suo corpo, quel corpo di vecchio che lui nelle uscite con la badante si studiava di mantenere eretto come si conveniva a un ufficiale delle SS, ora è composto nella bara.
Ma in quella morte non c’è nessuna pace. La sorte di quel cadavere rischia di diventare un incubo. Dove sarà sepolto? Questa era stata la prima domanda che ci si era posti. E la risposta era stata: in Argentina, dove aveva vissuto per mezzo secolo indisturbato. Era un desiderio più che una risposta, dettato dal senso della speciale sacralità del suolo italiano e romano dove riposano le vittime delle Fosse Ardeatine. E invece no, l’Argentina non lo vuole. Così è cominciata una storia che promette di essere una strana ma importante cartina di tornasole di abitudini antiche e di problemi nuovi. Qui sono presenti e in conflitto l’opinione pubblica, le regole civili e le norme ecclesiastiche. L’esecrazione per l’uomo che ha ucciso i martiri delle Ardeatine ma poi ha negato di averlo fatto, ha mentito sulla Shoah sapendo di mentire e ha continuato lui vivo a infangare la memoria delle sue vittime, è un sentimento talmente forte che solo la vecchiezza estrema dell’antico uccisore di inermi ha potuto stemperarla: con la sua morte è rimasto a tutti solo il desiderio di dimenticarlo al più presto.
In Italia si seppellisce quasi sempre con rituale religioso. Pochi lo rifiutano. E la Chiesa non nega praticamente mai le esequie ecclesiastiche: non sono più i tempi in cui le ceneri degli eretici mandati al rogo erano disperse nell’acqua del Tevere o i protestanti e gli ebrei venivano sepolti furtivamente a notte lungo il Muro Torto. Per gli italiani i funerali in chiesa fanno parte di un loro speciale cristianesimo diventato abitudine e normalità anche per molti non credenti. Tanto è vero che non esistono da noi luoghi deputati per un rito laico dell’ultimo saluto. Anzi, come ha detto l’avvocato di Priebke Paolo Giachini, quelli religiosi sono un diritto di tutti.
Ma il Vicariato ha detto no e la decisione nella diocesi che ha per vescovo l’argentino Bergoglio diventato Papa Francesco deve essere stata attentamente meditata e non presa a caso. Cerchiamo di affidarci al codice di diritto canonico per capire meglio. Qui si elencano molte categorie a cui deve essere negata la sepoltura ecclesiastica: eretici, apostati, scomunicati e altro ancora, persone che fino all’ultimo, consapevolmente, senza pentirsi, abbiano negato e combattuto la dottrina della Chiesa e si siano esplicitamente a lei dichiarati avversi. Ma c’è un caso recente che tutti hanno in mente e che forse ci può aiutare a capire come funzionino queste regole: quello di Giorgio Welby. La sua ferma e consapevole rinuncia alle cure e l’espressa volontà di far staccare la macchina che lo aiutava a respirare lo rese agli occhi del Vicariato di Roma ribelle lucido e consapevole alla dottrina della Chiesa contro il suicidio e l’eutanasia e dunque indegno di funerali religiosi. Fu per molti un dramma, una lacerazione delle coscienze: ma come, la Chiesa non perdona? Toccò al cardinal Ruini allora vicario della città di Roma spiegare che la Chiesa poteva concedere il rito religioso anche ai ribelli alla dottrina ortodossa (in quel caso ai suicidi) purché si potesse accampare il dubbio che fossero mancati in loro « piena avvertenza e deliberato consenso». Ecco il punto: Welby fino all’ultimo e con piena lucidità rifiutò di riconoscersi in quella religione che gli imponeva di vivere a forza, attaccato a una macchina. La sua scelta espresse le convinzioni di molti e fu comunque oggetto di grande e diffuso rispetto; quella del vicariato invece apparve gelidamente crudele.
Ma Priebke? Su di lui a differenza che nel caso di Welby, la condanna del vicariato va d’accordo col giudizio unanime dell’opinione pubblica. Priebke fino all’ultimo ha rifiutato di pentirsi di ciò che aveva fatto e ha mantenuto ferme con «piena avvertenza e deliberato consenso» le convinzioni che lo avevano portato alla strage delle Fosse Ardeatine. Ecco il punto fondamentale: oggi una diocesi di Roma non più governata dal vicario cardinal Ruini ma dal vescovo Bergoglio – papa Francesco, ha voluto dare il segno che ci sono peccati così gravi da imporre il rifiuto dello spazio sacro per il rito funebre. Si dovrà dunque riscrivere a partire da questo segno il patto italiano di convivenza e sovrapposizione tra abitudini sociali e riti religiosi cristiani. E comunque il senso del peccato imperdonabile che è per l’opinione pubblica la rivendicazione impenitente della strage delle Fosse Ardeatine coincide, a quanto pare, con la sentenza del vicariato cattolico di Roma.
Resta la necessità di una sepoltura di quel corpo: la più rapida e discreta possibile, ma pur sempre una sepoltura. Su questo si deve essere chiari. Non è degno di una società civile infierire sui corpi dei morti: e se l’Italia è stata così civile da offrire al criminale Priebke un processo secondo le regole e una pena attenuata e quasi cancellata in ragione della sua età, non sarà certo il caso di fare passi indietro su questo percorso. Del morto Priebke vorremmo non dover parlare più se non in sede di analisi storica, per conoscere meglio i meccanismi che hanno fatto di uomini comuni come lui la banda di assassini di cui è stato membro e per ragionare sulla storia che abbiamo alle spalle – per far sì che non si ripeta più. Ma non c’è dubbio che un corpo umano debba essere sepolto. Non solo perché questo è ciò che dalla preistoria in poi ha distinto la nostra specie dalle altre specie animali. Anche perché sarà la sepoltura, che ci auguriamo nella notte e nell’ombra, a chiudere alle nostre spalle la storia di una vita di vile ed efferata ferocia e ad allontanare da noi per sempre quella vivente provocazione che era la passeggiata dell’uomo nella città da lui insanguinata.
Riflessiamo sulla perdità di libertà e futuro che pagheremmo se ci facessimo davvero convincere che alternative non sono possibili. L
a Repubblica, 12 ottobre 2013
ESISTE un gioco che a molti esperti pare astruso, o perché superfluo o perché poco serio e fuorviante. È il gioco della storia che si fa con i se: che ha dunque come oggetto non solo il mondo com’è stato fatto – come ci sta davanti – ma come avrebbe potuto essere, se invece di imboccare una strada ne avesse presa un’altra. Declinato al presente è più di un gioco: è un esercizio intellettuale che mette il pensiero in movimento, un metodo per guardare all’oggi come a una storia che possiamo scrivere in un modo o nell’altro, non dipendendo il suo svolgimento da forze impersonali ma dalla persona che ciascuno di noi è.
Così per l’Europa. L’Europa può andare in una direzione oppure un’altra, affatto diversa. È tutta piena di questa congiunzione ipotetica – il se – e nuove e impreviste possono essere le risposte alle domande che ci facciamo: di quale Europa stiamo parlando? Come definire la sua necessità, il suo dover essere? Qual è il patrimonio che si vuol difendere? E soprattutto, da qualche anno: come trasformare la rabbia che sta suscitando prima in bisogno («qualcosa mi manca» – «per ottenere quel che voglio occorre passare di lì»), poi in progetto?
Sia detto per inciso: l’Europa non sarebbe stata pensata in un certo momento – nel mezzo d’una guerra, mentre la Germania piegava il continente – se qualcuno non avesse cominciato a immaginare un «se» ritenuto improponibile e fuorviante dai più. Il metodo, oggi, consiste nel chiedersi come sarebbe il mondo che viviamo, se la crisi che ha lambito l’Europa, cinque anni fa, fosse stata affrontata in modo differente. In genere, gli storici guardano con un certo disprezzo a questi esercizi mentali: la storia, dicono, non essendoci contemporanea non si fa con i se. Non esiste la storia virtuale. Studiare i se della storia è utile, per capire qualcosa di fondamentale. È esistito sempre (esiste sempre) un attimo, un punto di svolta e d’incertezza, in cui l’alternativa era possibile, in cui gli eventi avrebbero potuto prendere un’altra piega: perché la storia è fatta di pieghe, e le pieghe ci interessano quasi più della cronologia, che ci presenta un tessuto già stirato a puntino dai posteri o dai vincitori. Nella Germania prehitleriana si poteva fare una politica antirecessiva, al posto dell’austerità applicata dal governo Brüning, e forse Hitler non avrebbe ottenuto nel ’33 consensi così spettacolari. Oppure: gli americani avrebbero potuto rifiutare accordi con la mafia siciliana, quando liberarono il nostro paese dal fascismo, e la storia italiana del dopoguerra sarebbe stata diversa, forse non staremmo ancora a parlare di patti fra Stato e mafia. E via ipotizzando e usando i se, i forse, i congiuntivi, i condizionali.
L’Europa com’è andata sviluppandosi dal 2008 in poi si presta assai bene a quest’esercizio mentale. I modi in cui la crisi viene ormai da anni gestita – dai governi in primis, e dalle autorità di Bruxelles che tendono a esprimere le volontà non dell’intera area che rappresentano ma dei paesi più forti – sono molto singolari: è come se non stessimo facendo la storia, ma vivessimo conficcati dentro una storia predeterminata.
È questo che rende così insopportabile il mantra che sentiamo ripetere: «Non c’è alternativa ». È una locuzione adeguata agli eventi quando sono trascorsi, e scritti in un certo modo. Quando si condensano in una narrazione teleologica, finalistica, e tutti i «se» vengono scartati come futili o idealisti. Nulla si può cambiare, neanche lontanamente sono ipotizzabili alternative. E non a caso è così in voga questa parola: Narrazione. La Narrazione è predefinita, l’autore può magari tenerci con il fiato sospeso – per esempio quando scrive un giallo – ma lui sa come andranno a finire le cose, chi è il colpevole e chi il vincitore o l’innocente o l’eroe. Mentre noi no, queste cose non le sappiamo: per nostra fortuna possiamo prenderci la libertà di sbizzarrirci e questa virtualità è una nostra fortuna. Così la Narrazione della nostra crisi: gli autori del giallo europeo hanno iscritto nella scaletta le cure di austerità, la divisione fra centro (Germania essenzialmente) e periferie sud, anche il disfarsi della democrazia e delle costituzioni nazionali, visto come ineluttabile danno collaterale di una stabilità politica eretta a nuovo valore etico incondizionato (questo significa la locuzione «valore assoluto », recentemente impiegata dal Presidente del Consiglio). La frode è questa scaletta, che non solamente è inconfutabile ma ha la pretesa di raggiungere una vetta (l’Europa politica padrona di sé) con mezzi rigorosamente inadatti a scalarla.
La frode è quest’hegeliana certezza che il presunto razionale sia reale, e il presunto reale razionale. La storia non la stiamo fabbricando con le nostre mani, perché già è messa nero su bianco. Questo vero e proprio assassinio del possibile è la principale caratteristica dell’Europa quale oggi esiste, e si può capire l’indignazione che suscita, e anche la rabbia e il rigetto. Chi si arrabbia, chi perde la pazienza e «non ci crede più» – gli euroscettici è il nome che hanno avuto per un certo tempo, oggi si parla di populisti – sono i soggetti della storia in cui forse c’è da sperare. Se non esistessero – se non esistesse una crisi che si acuisce – non staremmo a interrogarci sul bisogno o non bisogno d’Europa. La rabbia dei cittadini è un’opportunità che ci viene data, come è un’opportunità lo spread. La rabbia stessa è spread, non finanziario ma umano: è scarto fra i cittadini e l’idea di Europa, fra popoli e istituzioni democratiche, sia nazionali che europee. È reazione a un patto sociale violato, a un patrimonio negato. Quando penso a questo tipo di spread, mi torna in mente l’Uomo senza Qualitàdescritto da Musil alla luce crepuscolare di un’altra grande idea che stava degenerando: quella dell’impero austro-ungarico. Ulrich, l’Uomo senza Qualità, definisce se stesso un Möglichkeitsmensch, un uomo della possibilità – un possibilitario – che non smette d’innervosirsi davanti al cosiddetto senso della realtà, della «cose come sono».
Vorrei citare il passaggio in questione, perché nell’ordine dei verbi toglie il monopolio all’indicativo, restituendo dignità ai condizionali, ai congiuntivi, al controfattuale: «Chi è dotato del senso della possibilità non dice ad esempio: “Qui è accaduto, accadrà o deve accadere questo oppure quello”, bensì: “Qui potrebbe o dovrebbe accadere un certo evento”. E se, di una cosa qualsiasi, gli si spiega che è come è, allora penserà: “Certo, ma potrebbe benissimo essere diversa”. Quindi, il senso della possibilità è addirittura definibile come la capacità di pensare a tutto ciò che potrebbe essere, e di non ritenere ciò che è più importante di ciò che non è (...). La vita di questi uomini della possibilità è tessuta, si potrebbe dire, con un filato più sottile, un filato fatto di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi; quando un bambino manifesta una simile tendenza, gliela si fa passare con metodi energici e, davanti a lui, quegli individui vengono definiti visionari, sognatori, codardi e saccenti o criticoni. Chi vuol lodare quei matti, li definisce anche idealisti».
Dicono Grillo e Casaleggio, Capi dei grillini, rinnovatori della politica e predicatori della "nuova democrazia":«se avessimo sostenuto l'abolizione del reato di clandestinità - in campagna elettorale avremmo avuto percentuali da prefisso telefonico».
il manifesto, 11 ottobre 2013
Eppure nelle parole di Grillo e Casaleggio c'è qualcosa di peggio, la dimostrazione di quanto sia strumentale la loro politica: se avessimo sostenuto l'abolizione del reato di clandestinità - sostiene il tandem Grillo-Casaleggio - in campagna elettorale «avremmo avuto percentuali da prefisso telefonico». Il cuore della questione è tutto qui: il calcolo elettorale per inseguire le peggiori pulsioni popolari, incubatrice del razzismo, dell'indifferenza verso gli ultimi della terra.
Grillo ha sicuramente buoni maestri su questo terreno. Non solo in Italia, ma anche Oltralpe. Come Le Pen padre, e ora la figlia Marine accreditata dai sondaggi francesi come la possibile carta vincente in una futura elezione presidenziale. Se il Movimento 5Stelle assumesse una posizione protezionista e anti-immigrazione si allineerebbe al lepenismo e al leghismo. Senza se e senza ma. Saremmo quindi in presenza, in Italia, di una nuova destra che mette insieme l'antipolitica, il disprezzo verso i partiti (tutti ladri, tutti uguali), la paura verso l'immigrazione, il qualunquismo sociale (occupazione, sanità pubblica, welfare non interessano), l'assenza di democrazia interna sostituita da una taumaturgica Rete, il Movimento guidato dal padre-padrone e da un presunto ideologo.
È interessante l'accusa che rivolgono ai loro parlamentari accusandoli di essere dei piccoli Stranamore. Proprio loro, Grillo e Casaleggio, così simili al personaggio del film di Kubrick, con quel miscuglio di buffoneria e fanatismo nelle virtù salvifiche della tecnologia. Una specie di trasferimento freudiano sul corpo parlamentare dei tic che li hanno resi leader famosi.
Che Grillo avesse una scarsa considerazione dei suoi deputati e senatori ormai lo avevamo capito. Ora sappiamo anche in quale conto tiene gli elettori del Movimento. E in ogni caso dovrebbero dire la loro i tanti parlamentari che vengono da movimenti, associazioni, partiti di sinistra dove la cultura della solidarietà ha sempre avuto un ruolo primario. E potrebbero rispondere ai tanti elettori che hanno votato 5Stelle in nome del cambiamento. È cambiamento respingere donne incinte, bambini, ragazzi, uomini che lasciano tutto con la speranza di tornare a vivere? Ma Grillo lo sa che milioni di italiani, ben prima dei tunisini, degli eritrei, dei somali sono andati in giro per il mondo per cercare fortuna, lavoro, pace?
L'ecatombe di Lampedusa, il sacrificio disumano che in quel mare si è compiuto, sta facendo venire a galla, insieme ai poveri resti, anche il fondo violento e pericoloso del qualunquismo populista. Che va compreso e combattuto prima che si trasformi in un'alba dorata italiana.
«Non è difficile vedere negli anni Ottanta la corposa incubazione della stagione successiva, con il radicale modificarsi dei rapporti di lavoro e il dominio di un sistema dei media sempre più invasivo e distorsivo».
La Repubblica, 10 ottobre 2013
Un primo ventennio vi è certo stato, nel Novecento italiano, ed ha coinciso con un regime: ha devastato e sepolto l’Italia liberale, e sulle sue ceneri è nata la Repubblica.
Qui però le questioni si complicano: ove si guardi alla storia politica il 1945 è una cesura indubbia ma lo è anche per la storia economica o per quella sociale e del costume? Con il procedere dei decenni, poi, le periodizzazioni ci appaiono via via più discutibili e meno rigide, più ricche di contaminazioni e ambiguità. È sicuramente facile identificare la fase della Ricostruzione, segnata anche dalla guerra fredda (e dal centrismo in politica), o quella del miracolo economico (e del primo, più fecondo centrosinistra). Una grandissima trasformazione, il nostro “miracolo”: ha riguardato economia e consumi, culture e immaginari, geografia sociale e produttiva, modalità dell’abitare e del vivere, sino al rapporto fra religione e laicità o all’attuazione di una Costituzione troppo a lungo “congelata”: non c’è parte del nostro vivere collettivo che non sia stato segnata in profondità dal breve e tumultuoso scorrere di quegli anni. Una «mutazione antropologica», per dirla con Pier Paolo Pasolini.
Da lì in poi le periodizzazioni proposte di volta in volta lasciano invece molti dubbi, a partire da quella “stagione dei movimenti” che il ’68 avrebbe innescato e che rischia di coprire col suo manto anche pulsioni corporative o localistiche. E che confluisce in anni settanta variamente messi agli atti come stagione delle riforme o – per altri e opposti versi – della strategia della tensione e poi degli anni di piombo. Definizioni che alla lunga distanza appaiono molto parziali mentre sembra ingigantirsi invece la cesura di cui sono simbolo alla fine del decennio i funerali di Aldo Moro: quasi “funerali della Repubblica”, come è stato scritto. Spartiacque fra un “prima” e un “dopo” nel modo di essere della società e della politica. Di lì a poco, nello sconfitto rifluire del terrorismo, diventeranno sempre più visibili i guasti che stanno corrodendo istituzioni e partiti«muore ignominiosamente la Repubblica», scriveva il poeta Mario Luzi.
Non è difficile cogliere infine negli anni Ottanta anche la corposa incubazione della stagione successiva: con il radicale modificarsi dei luoghi di lavoro e dei ceti sociali, l’irrompere di nuove culture (o inculture), il dominio di un sistema dei media sempre più invasivo e distorsivo, e sempre più intrecciato alla politica. Con la crisi, non solo italiana, dei partiti basati sull’appartenenza e la militanza. Ma anche con il degradare delle istituzioni, con un salto di qualità nella corruzione politica, con lo sprezzo crescente dei valori collettivi. Solo un anticipo di quel che avverrà poi, scandito e accentuato dal tracollo del panorama politico precedente, dall’affermarsi prepotente del partito mediatico e personale, dall’erosione quotidiana della legalità e del diritto. Da questo punto di vista è certo lecito parlare di ventennio berlusconiano ma c’è da chiedersi se abbiamo avuto davvero una “seconda repubblica”.
Per avere qualche dubbio è sufficiente uno sguardo alla Francia: lì la “numerazione” delle repubbliche è scandita da grandissimi traumi (la Rivoluzione, il 1848, la Comune di Parigi, l’occupazione nazista, la crisi algerina), seguiti da profonde modifiche istituzionali. Davvero un’altra cosa, e per molti versi è utile cogliere invece le radici dell’ultimo ventennio: ci aiuta a capire meglio con quali e quante macerie dobbiamo ora fare i conti. Quanto sia lunga e difficile la nuova Ricostruzione che ci aspetta.
«È tempo di liberare la politica e la vita stessa delle persone dalle pesanti ipoteche, dell'ossessivo riferimento alle sole ragioni dell'economia con consapevolezza piena del fatto che la lotta per i diritti è parte integrante e irrinunciabile della costruzione di una democrazia costituzionale».
Il manifesto, 9 ottobre 2013
In Italia il riferimento ai beni comuni ha assunto tratti particolarmente forti quando, nel giugno del 2011, ventisette milioni di cittadini hanno votato contro la privatizzazione dell'acqua e la considerazione dei servizi idrici come fonte di profitto. Ma questa imponente manifestazione della volontà popolare non ha incontrato soltanto la resistenza degli interessi dei soggetti direttamente coinvolti, cioè i gestori dei servizi. Si è dovuta scontrare anche con tenaci resistenze pubbliche, tutt'altro che scomparse, che hanno finito con l'assumere persino tratti di illegalità, tanto che la Corte costituzionale è dovuta intervenire per imporre il rispetto del risultato referendario. L'antica profezia di Tocqueville, che già prima del Manifesto dei comunisti aveva indicato nella proprietà «il gran campo di battaglia» dei tempi a venire, trova così continue conferme.
Qui è oggi la radice del conflitto, divenuto nell'ultima fase particolarmente acuto. La proclamata fine delle ideologie, delle grandi narrazioni, nella realtà è stata intesa e praticata come nascita di uno spazio nel quale ha potuto insediarsi l'unica narrazione ritenuta legittima, quella del mercato, che in tal modo si è via via «naturalizzato» e ha assunto le forme dell'unica regola accettabile. Su questo dovrebbero riflettere i critici di quella che definiscono l'irrealistica ideologia dei diritti. Il riferimento ai diritti fondamentali, infatti, non solo incorpora princìpi fondativi e irrinunciabili come quelli di eguaglianza e dignità, ma concretamente si presenta sulla scena globale non come ideologia, ma come concreta narrazione che unisca persone e luoghi, che percorre il mondo in forme inedite, incontra sempre più nuovi soggetti, costruisce un diverso modo d'intendere l'universalismo, fa parlare lo stesso linguaggio a persone lontane, e così fa scoprire un mondo nuovo e appare come la vera, grande, drammatica narrazione comune del nostro presente.
Una conferma possiamo trovarla ancora sul terreno del lavoro, dove il conflitto determinato dalla pretesa di affidare tutto alla logica di mercato è più evidente, dove l'asimmetria tra i poteri è stata amplificata dalla crisi economica, dove si sono così ridotti gli spazi della stessa azione sindacale. È significativo allora che, di fronte ai ripetuti interventi con i quali la Fiat ha preteso di cancellare diritti dei lavoratori, la Fiom abbia scelto la via della tutela della legalità attraverso il ricorso ai giudici, con risultati che né la sola azione sindacale, né la flebile politica erano riusciti a ottenere. È una lezione di realismo, e un motivo di meditazione, per chi ritiene che ci si debba affidare sempre e solo alla politica, mentre è del tutto evidente che proprio una intransigente difesa dei diritti, e una consapevole alleanza con essi, possono restituire alla politica le sue ragioni. I diritti non sono altro rispetto alla politica, ne sono parte costitutiva.
I fantasmi della sicurezza
L'orizzonte globale non è dominato soltanto dall'imperativo economico, con il mercato che si sostituisce alla società. Un altro imperativo, quello della sicurezza, guida la trasformazione verso una società planetaria della sorveglianza e del controllo. Lo spazio costruito dalla tecnologia, con Internet che si presenta come il più grande spazio pubblico conosciuto dall'umanità, viene continuamente eroso dal combinarsi delle spinte degli interessi di soggetti imprenditoriali privati e di soggetti pubblici che vogliono impadronirsi delle persone e della loro vita attraverso le informazioni.
Così, le ricorrenti affermazioni sulla morte della privacy, sulla sua scomparsa come regola sociale, pur rispecchiando dinamiche effettive, nella realtà assumono un tono perentorio proprio per offrire una legittimazione materiale alle raccolte di dati personali senza confini e regole. Bisogna essere consapevoli, allora, del fatto che, quando si certifica la scomparsa della privacy, in realtà stiamo accettando la scomparsa di una delle dimensioni, la più importante a dire di molti, della libertà dei contemporanei, espropriati non solo della riservatezza, ma di diritti fondamentali, della costruzione autonoma dell'identità. Non a caso l'indignazione ha percorso il mondo dopo le rivelazioni legate alla diffusione di documenti americani riservati da parte di Wikileaks e alla conferma, più che alla scoperta, della rete planetaria di controllo con la quale gli Stati Uniti hanno avvolto il mondo.
Per molte vie, dunque, la negazione dei diritti mostra come sia sotto attacco la vita stessa, con effetti che possono riguardare l'antropologia delle persone, trattate come puri oggetti. Proprio intorno alla vita si coglie con nettezza il congiungersi dei diversi diritti, e la ragione della loro indivisibilità, non affidata soltanto a un riconoscimento normativo.
Si consideri, esempio tra i tanti, la condizione dei bambini. Di recente in Germania si è riconosciuta l'azionabilità del loro diritto alla scuola materna e a Napoli è stata ritenuta legittima l'assunzione di insegnanti per assicurare proprio questo diritto anche in deroga ai vincoli di bilancio. Trova così riconoscimento, fin dall'inizio, quel diritto al libero sviluppo della personalità che si specifica ulteriormente come diritto all'autodeterminazione, all'autonomia nel governo della propria vita, che deve essere sottratto alla tirannia economica. E qui s'incontrano le questioni complesse della bioetica e del biodiritto, che impongono di considerare possibilità e limiti del ricorso alle opportunità di intervento sul proprio corpo messe a disposizione dalla tecnoscienza.
Liberare la vita delle persone
Ma questa più intensa riflessione intorno alla persona e ai suoi diritti deve essere condotta in forme che tengano sempre ferma l'essenziale importanza del legame sociale, la cui rilevanza è espressa non soltanto dai riferimenti alla solidarietà. Tema capitale è quello dell'accettazione della diversità, meglio di un pieno riconoscimento dell'altro che vada al di là dello schema classico della tolleranza e si manifesti come accettazione e inclusione. Mentre questa si presenta in un numero crescente di Paesi come una linea maestra in materia di diritti, in Italia assistiamo da qualche anno a un ritorno pubblico di omofobia, razzismo, discriminazione. Sembriamo incapaci di vincere le «politiche del disgusto» per lasciare il posto alle politiche dell'umanità.
Pur con diversi caratteri, il riduzionismo in materia di diritti incarna da qualche anno le politiche europee, con il loro ossessivo riferimento solo alle ragioni dell'economia. Così non viene soltanto tradita la promessa fatta nel 2000 con la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Viene amputata la stessa dimensione istituzionale dell'Unione, poiché l'articolo 6 del Trattato di Lisbona ha stabilito che, dal 2009, la Carta «ha lo stesso valore giuridico dei trattati».
È tempo di liberare, insieme, la politica e la vita stessa delle persone da queste pesanti ipoteche, con consapevolezza piena del fatto che la lotta per i diritti è parte integrante e irrinunciabile della costruzione di una democrazia costituzionale.
Quattro considerazioni, acute e amare, sulle reazioni del Potere alla strage dei “clandestini” in cerca d’asilo.
La Repubblica, 9 ottobre 2013
INUTILE parlare di Europa madrepatria della democrazia, e proclamare nella sua Carta dei diritti che siamo «consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale», dei suoi «valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà », quando tutto in noi pare spento: tutti i miti che fanno la nostra civiltà, assieme ai tabù che la sorreggono.
E tra i primi forse il mito di Antigone, senza il quale non saremmo chi siamo. Oppure la solenne legge del mare, che obbliga a salvare il naufrago, quasi non esistesse peggiore sciagura delle acque che si chiudono mute sull’uomo. Il mare è senza generosità, scrive Conrad: inalterabile, impersona l’«irresponsabile coscienza del potere». Sono uniti, i due miti, dalla convinzione che fu già di Sofocle: la norma superiore cui Antigone ubbidisce – fissata da dèi arcaici, precedenti gli abitanti dell’Olimpo – il re di Tebe non può violarla, accampando la convenienza politica e le proprie transeunti idee di stabilità. È norma insopprimibile, e Creonte che antepone il diritto del sovrano, il nomos despòtes, paga un alto prezzo.
Così la legge del mare. Quando sfoggia vergogna, l’Europa suol cantilenare, come dopo Auschwitz, una sua frase inane ma contrita: «Mai più!» Inane perché contempla il passato, non il presente. Ma almeno è contrita. Oggi nemmeno questo: il «mai più» neanche è pronunciato, la violazione è attribuita a cieca fatalità e si esibisce impudica. Un ministro – si chiama Angelino Alfano, già ignorò il diritto d’asilo nell’affare kazako – sta sul bordo del mare e dice che i 232 morti sottratti alle acque di Lampedusa non saranno gli ultimi: «Non c’è ragione per pensare e per sperare che sarà l’ultima volta».
Colpisce il divieto di pensare, più ancora di quello di sperare. Neanche pensare possiamo, che l’Europa sia qualcosa di diverso da un fortilizio militarizzato. Che stiamo lì per difendere non solo un muro di cinta, ma gli esseri umani che disarmati provano a valicarlo. Per il ministro, ben altra è la questione amletica: dobbiamo sapere «se l’Europa intenda difendere la frontiera tracciata dal trattato di Schengen. Uno Stato che non protegge la sua frontiera semplicemente non è. L’Europa deve scegliere se essere o non essere».
Quattro considerazioni, a questo punto.
Seconda considerazione: l’Europa ha sue responsabilità, ma l’Italia non ne ha di minori. Il reato di clandestinità, introdotto nel 2009 dal governo Berlusconi, definisce un crimine in sé l’esodo senza permessi anticipati. Di qui la parentela con la guerra: come se il clandestino fosse un combattente irregolare e specialmente insidioso, perché non combatte a viso scoperto, indossando l’uniforme, ma conduce una sorta di guerriglia che si confonde e confonde. Ecco la legge di Tebe che si sovrappone alla norma di Antigone. La sicurezza e la stabilità – quest’ultima è addirittura eretta da Enrico Letta a «valore assoluto » , nuovo non negoziabile articolo di fede – esigono sacrifici e morte. Il migrante, bollato, è un pericolo sociale. La Corte Costituzionale s’oppose (sentenza n. 78/2007), escludendo che lo stato d’irregolarità sia sintomo presuntivo di pericolosità sociale; ma il reato appena ritoccato (scompare la pena detentiva) resta. Fin dal 2002 la legge Bossi-Fini preparò il terreno: ingiungendo il respingimento immediato del migrante (poco importa se restituito o no alle dittature cui scampava) e rendendo impraticabili le procedure di concessione di asilo. Di qui il pervertirsi della norma instaurata prima ancora che Cristo nascesse – Soccorrere è un dovere, non soccorrere è un reato — iscritta nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati come nella Carta europea dei diritti fondamentali dell’Unione (art. 18). Non soccorrere è peccato di omissione, e più precisamente crimine di indifferenza. Che senso ha dire «mai più», se non vediamo che il delitto di clandestinità per forza incentiva l’omissione di soccorso. Chi aiuta il naufrago incorrerà in processi e pene per favoreggiamento del reato, e preferirà voltare lo sguardo altrove. È già successo. Nei paesi occupati dai nazisti, in Polonia ad esempio, chi tendeva la mano all’ebreo rischiava la morte.
Terza considerazione: parole come vergogna andrebbero abolite, nel lessico della politica. Nascono dall’emozione, dalla scossa introspettiva, non necessariamente osano l’aperto, l’agorà dove si disfano e si correggono le leggi positive. Dette dal Santo Padre hanno un senso, ma in politica conta l’azione, non l’emozionarsi e il compatire. Lo Stato sociale e la politica di asilo sono nati per sostituirsi alla carità, che è grandiosa e non si vanta e non si gonfia, ma è affidata al singolo o alla Chiesa.
Infine la quarta considerazione: le guerre da cui evadono i “migranti” il più delle volte ci vedono protagonisti. Le abbiamo attizzate noi, pretendendo di portare ordine e creando invece caos e Stati disfatti: in Africa orientale, Afghanistan, Iraq, Somalia e Eritrea, Siria. I confini siriani che scatenano conflitti, fu l’Europa coloniale a disegnarli. Gli esodi hanno a che vedere con noi. Qualche tempo fa, in una trasmissione della radio tedesca ( Südwestrundfunk, 26 giugno 2008, il titolo era: Guerra nel Mediterraneo), venne intervistato un alto dirigente della Guardia di Finanza italiana, Saverio Manozzi, arruolato nell’agenzia Frontex. Difficile dimenticare quello che ammise. Più che salvare, i guardiani delle mura erano chiamati alla caccia, alle retate: «Ho avuto a che fare con ordini secondo cui il respingimento consisteva nel salire a bordo dei barconi o delle navi, e nel portar via i viveri e il carburante affinché i transfughi non potessero continuare il viaggio, e facessero marcia indietro». Salvataggi e aiuti sono considerati un azzardo morale, perché fomentano sempre nuovi immigrati. Meglio dissuaderli con l’arma ultima: quasi 20.0000 affogati nel Mediterraneo, dal 1988. Si muore anche appesi ai fili spinati di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole sulle coste del Marocco. O nelle acque del fiume Evros, ai confini fra Turchia e Grecia. In Francia, respinti sono i Rom.
Di azzardo morale si parla molto in questi anni di crisi. È l’assillo dei moderni Creonte. Gli Stati indebitati dell’Unione non vanno troppo aiutati: la solidarietà (welfare compreso) incita i viziosi a rammollirsi, a peccare ancora e ancora. Se assicuri la casa dal fuoco, non baderai più ai fiammiferi che accendi: ti rilasserai. La logica della polizza assicurativa si fonda sul sospetto, non sulla promessa e il dover-essere di Antigone. Se cadi disteso per terra o nel fondo marino qualche colpa ce l’avrai. Come dice Kafka: stramazzando susciterai ribrezzo, paura, perché dal tuo corpo emanerà il «puzzo della verità ».
«Il manifesto, 5 ottobre 2013
Lei ha firmato i referendum per l'aboilizione del reato di immigrazione clandestina. Ma non sono state raccolte le firme necessarie, ed oggi i radicali accusano anche voi di ipocrisia e disimpegno.
«Noi disponiamo di forze modeste. Ed è successo che su quei referendum si è stagliata l'ombra di Berlusconi, che non ha consentito più di capire il merito dei quesiti. Quel tipo di adesione è stato un deterrente alla mobilitazione. So che è piaciuta molto a una parte del vertice radicale, ma non ha fatto bene».
Lei parlava di 'continuità' del governo. Letta invece parla di 'nuova maggioranza'. Dalla Bossi-Fini all'Imu, i 'diversamente berlusconiani' hanno posizioni più illuminate di Berlusconi?
»Il politichese solleva solo cortine fumogene. Si è tentato di separare Berlusconi dal berlusconismo costruendo una mitizzazione negativa tutta legata alla persona, piuttosto che un'analisi critica dell'intero ciclo culturale. Con un esito paradossale: che il viale del tramonto del Cavaliere si compie con Berlusconi che lascia in dote al centrosinistra il berlusconismo. Tant'è che su tutto si naviga nell'ambiguità, a cominciare dalla tragedia di Lampedusa. Tutti si appendono alla bandiera del Papa, credendo che si tratti di una gara di omelie. Il Papa stesso cerca di sottrarsi alla mafia delle retoriche e ci richiama con franchezza evangelica alla realtà. Mi rivolgo agli scienziati della politica del Pd: davvero è consentito solo al papa criticare il liberismo? Davvero non c'è relazione fra liberismo e miseria, aggressione all'ambiente, finanziarizzazione dell'economia, perdita di diritti e di reddito?
Crede che nel Pd le risponderebbero di di no?
«Lo chiedo a quelli che oggi hanno applaudito Alfano. Hanno capito che ha promesso di irrobustire la frontiera repressiva in mare?
Non pensa che Letta sia riuscito a rompere il Pdl, che può tornare utile quando si tornerà al voto?
«È uno scenario inedito? Da quanti anni facciamo il tifo per il migliore del centrodestra, da Fini in poi, e cerchiamo di migliorare il centrodestra? Lo sguardo non mai è sul perché il centrosinistra perde le partite fondamentali in tutta Europa. Oggi un ragazzino che si affaccia alla politica può pensare che guerra è parola imparentata alla sinistra, visto che la volevano fare Obama e Hollande, due che hanno raccolto una speranza gigantesca e che tradendola precipitano nel consenso. Questo riformismo gira a vuoto perché gli manca la capacità di coniugare la speranza con scelte concrete.
Nonostante questo in Europa vi siederete nel gruppo del Pse?
«Non è un approdo ideologico. Vogliamo consolidare i rapporti con i verdi e con la sinistra europea. Ma vogliamo stare nel luogo che deve affrontare la crisi della sinistra. È il luogo in cui mettere insieme la rifondazione dell'Europa e costruzione di un campo largo della sinistra».
Due giorni fa lei ha incontrato Renzi. Cosa vi siete detti?
«Gli ho chiesto di non rendere la discussione una compilazione di proposte shock. Abbiamo bisogno di confrontarci su una visione».
Vi siete scontrati sul tema dell'eguaglianza. Avete fatto pace?
«Gli ho detto che c'è una relazione fra il Pd che discute per il congresso e il Pd che vota i provvedimenti di questo governo. Discutere di eguaglianza mentre si sottraggono alla parte più povera dell'Italia tre miliardi di euro per restituirli alla porzione più ricca dell'Italia, sotto forma di rimborso Imu, è una scelta che va nella direzione delle diseguaglianze. Nessuno che voti provvedimenti del genere ci intrattenga sull'attualità della nozione di eguaglianza. Così come l'abolizione della Bossi-Fini non ha come scena di realizzazione il congresso del Pd ma le aule parlamentari, qui e ora. Per me è dirimente: il Pd non è il destino di Sel. Può essere un alleato qualora ce ne siano le condizioni. E le condizioni non sono quelle vergognose di un'alleanza in continuità con le politiche del governo Monti. Facendo anche la scenetta ipocrita di contestarle nei dibattiti pubblici: oggi non se ne trova uno, nel Pd, che difenda la legge Fornero».
È un messaggio al Pd?
«Per noi la rottura della coalizione Italia bene comune è stata dura. Ed è stato duro mantenere un'ispirazione unitaria di fronte al crimine organizzato del non voto su Prodi. Ed è o duro subire a ogni snodo della storia politica italiana quel tentativo di demolizione che consiste nel denunciarci quali o traditori della patria o traditori del proletariato. Anche le pressioni nel giorno della fiducia a Letta sono il segno di una mentalità predona».
Quali pressioni?
«Si è aperta la caccia alle emozioni. Che fa Sel, hanno detto a ogni nostro singolo parlamentare, voterà come Berlusconi? È stato un assedio, sembrava fossimo nel '45, o nel '98. A fine serata tutti questi savonarola hanno votato come Berlusconi. Faremo un'opposizione ancora più determinata a questo governo. Non scimmiottiamo le pratiche teatrali e populiste sul modello dei 5 stelle. Ma questo non può significare deragliare dal binario dell'opposizione. Essere sinistra di governo è una grande sfida. Perché finora ha significato essere la sinistra delle compatibilità, qualche volta della resa. Partiamo dall'agenda della realtà, non dall'ideologia, ma la governabilità è un valore solo per un governo che che abbia l'obiettivo della stabilità delle famiglie e delle giovani generazioni. Se facciamo errori su questo siamo destinati a fallire».
Sarete in piazza il 12 ottobre con Landini, Rodotà e Don Ciotti?
«È molto di più di una manifestazione. È l'indicazione del cuore programmatico dell'alternativa che parte da quella Carta strattonata e oggetto di attenzioni moleste».
Letta le direbbe: conservatore.
«Nel degrado del lessico politico, conservatorismo e riformismo sono diventate parole pazze. Il conservatorismo era l'insieme dei dispositivi sociali e culturali che cercano di tutelare l'universo dei privilegi. Il riformismo era l'apertura di varchi in quel blocco conservatore. Se è così, la Costituzione è il più vibrante documento di critica radicale al conservatorismo».
Tre articoli di Alessandro Dal Lago, Marco Rovelli e Monica Frassoni , dal
manifesto del 5 ottobre 2013, svelano l'ipocrisia e la disinformazione delle proposte e dei commenti di chi malauguratamente ci governa a proposito dell'ennesima strage di migranti "clandestini"
Per quello che è successo a Lampedusa non ci sono aggettivi. Ma le cose che si sentono in queste ore fanno venire la nausea. Non parlo della Lega, che come sempre merita solo silenzio. Parlo di quell'onda di untuosità, ipocrisia e smemoratezza che ci sta sommergendo. Come se l'Italia, l'Europa e l'Occidente volessero passare una mano di calce su una realtà di cui sono responsabili, ma che non ammetterebbero mai, perché in tal caso non potrebbero che auto-accusarsi.
Che significa proporre Lampedusa per il Premio Nobel per la pace, come Alfano sulla scia di Berlusconi? Con tutta l'ammirazione che possiamo provare per i singoli cittadini che si tuffano in mare per salvare i migranti, come è avvenuto tante volte in questi anni, in Sicilia o in Puglia, è evidente che la proposta di Alfano mira a una bella auto-assoluzione dell'Italia e, indirettamente, dei suoi brillanti governi.
Si dice che alcuni pescherecci abbiano ignorato l'incendio che ha preceduto l'affondamento del battello. E perché? Perché una norma del Testo unico sull'immigrazione prevede il sequestro delle barche che soccorrono i migranti, in quanto si renderebbero responsabili del «favoreggiamento» dell'immigrazione clandestina. Una norma ignobile, disumana, che espone i pescatori al rischio di perdere imbarcazione e lavoro (e che va a eterna vergogna di chi l'ha concepita).
Ora, chi sono i responsabili? I pescatori o chi ha inventato le norme sui respingimenti, cioè Bossi, Fini e i loro consiglieri? Per fortuna, Fini è scomparso nel nulla e Bossi giù di lì. Ma con che faccia quelli del Pdl blaterano di premi Nobel e vergogna, dopo che hanno varato loro, anni fa, la Bossi-Fini?
Ma non sono i soli a dar priva di amnesia. Quello di Lampedusa è il terzo caso di naufragio con strage di massa nel Mediterraneo. Il primo avvenne a fine dicembre 1996, quando una carretta maltese si scontrò con la nave Yohan, da cui stava trasbordando dei migranti, e colò a picco portando con sé quasi trecento esseri umani. Ci vollero anni perché la verità, raccontata all'inizio solo da questo giornale, emergesse. L'anno dopo, la Kater i Rades affondò con un'ottantina di persone, perché entrata in collisione con la corvetta italiana Sibilla, che stava procedendo a una manovra di dissuasione, cioè stava impedendo alla nave albanese di proseguire verso l'Italia con il suo carico di profughi. I due capitani, quello albanese e il comandante italiano, furono condannati a pochi anni di prigione. Ma nessuno si è mai sognato di chiamare in causa chi aveva organizzato l'operazione «Bandiere bianche», che aveva lo scopo di tener lontano gli albanesi dai nostri "sacri confini", per usare una nota espressione di Beppe Grillo. E chi c'era al governo allora, se non Romano Prodi e un buon numero di esponenti dell'attuale Pd?
Ed eccoci all'ecatombe dell'altro ieri. Qualcuno ci spiegherà prima o poi come è possibile che un barcone con centinaia di persone a bordo traversi il Canale di Sicilia, e arrivi fino a poche centinaia di metri da Lampedusa, in una zona di mare sorvegliata da radar, satelliti e battelli militari di ogni tipo, senza che nessuno, tranne uno o due barche da diporto, se ne accorga. Con tutta la paranoia pubblica e ufficiale che circonda la sorveglianza dei nostri confini, il fatto è inspiegabile. E temiamo che resterà tale.
Ma la questione essenziale è che, finché migranti e profughi saranno costretti alle ventura in mare, questi naufragi si ripeteranno. Ma non perché non funziona Frontex, ma esattamente perché c'è Frontex. Questa bella trovata della burocrazia europea non ha il compito di proteggere i migranti, ma, esattamente, di tenerli lontani - e cioè di rafforzare la clandestinità a cui i migranti sono costretti e che ne ha portato 20.000 ad annegare nel Canale di Sicilia e nel resto del Mediterraneo. È un circuito infernale. Leggi come la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini hanno sempre avuto lo scopo di impedire l'accesso legale dei migranti in Europa, con i respingimenti, le norme draconiane sul favoreggiamento e i Cpt o Cie. Chi ha di fronte a sé la prospettiva della morte in guerra o per fame non può che tentare la via del mare. È vero che scafisti e canaglie d'ogni genere li traghettano a pagamento verso l'Europa. Ma smettiamo di considerare responsabili solo loro. Il gangsterismo americano degli anni Venti fu un effetto del proibizionismo e non viceversa.
Se vogliamo che queste stragi finiscano permettiamo ai profughi e migrati di trovare una possibilità da noi. Facciamoli entrare legalmente. Non sono milioni, come blaterano i paranoici e i leghisti. Sono centinaia di migliaia di esseri che ci chiamano. E noi, i civili europei, siamo cinquecento milioni di
IL NEGAZIONISMO DEI NOSTRI TEMPI
di Marco Rovelli
Una barca a fuoco in mezzo al mare, un mare pavimentato di morti che vengono a galla. Il tremendo è qui, ora. Un'immagine che si fatica persino a dire apocalittica, ché di fronte ad essa si può solo fare silenzio. Tutto il resto è schiuma, parole balbettate per articolare lo sgomento. Ma il silenzio è una virtù non praticata, in questo tempo, che è il tempo del troppo pieno.
Siamo incapaci di fermarci di fronte a quei corpi dilaniati dal fuoco e dall'acqua, incapaci di ascoltarli. Non è il tempo del rispetto, questo, né della vergogna (e su questo mi trovo per una volta concorde con le parole di un prete di alto rango). Se fossimo capaci di silenzio, rispetto e vergogna, sapremmo che quel massacro che ci affiora oggi davanti agli occhi è un massacro costante, continuo, cadenzato, che fa del Mediterraneo il cimitero più popolato del nostro mondo. Ma preferiamo non vedere, negare. Sì, siamo negazionisti: sui nostri mari c'è una "tempesta devastante" (una shoah, appunto) e noi fingiamo - con gli occhi, con il cuore - che nulla accada. Quei pescatori che non si fermano mentre ci sono uomini che affogano non sono mostri. Lo fanno perché rischiano di vedersi sequestrata la barca per colpa di una legge assassina. Si limitano a obbedire alla legge. Non sono mostri, sono come noi: sanno, e fingono di non sapere, perché la legge li ha ridotti a pensare solo alla propria salvezza.
Poi ci sono quelli di noi (e uso "noi" per designare i cittadini italiani, per quanto non senta con molti di loro alcuna comunanza) che rivendicano con orgoglio la propria ferocia. In rete, ad esempio, all'apparire della notizia, sono subito cominciati a fioccare parole come neve che cade dal cielo già marcita. Gente che non riesce a far spazio all'umano, mai - che non sa, con ogni evidenza, conoscersi in quanto umana. Gente che si scaglia, ad esempio, contro il buonismo dell'Italia: ma quale buonismo? Fingono di non vedere che abbiamo la legge più repressiva ed escludente, quella legge firmata da quei due trapassati della politica che sono Bossi e Fini? Entrare regolarmente in Italia è un'impresa improba, più che altrove in Europa. I tribunali sono affollati di processi per il reato di clandestinità. Il sistema repressivo fondato sui Cie non funziona, è solo una spesa enorme senza risultati. L'accoglienza nei confronti dei rifugiati è inesistente. Del resto per i migranti eritrei, che erano una parte cospicua del barcone dei cinquecento, l'Italia è solo un paese di transito: è a nord che vogliono andare, l'Italia a chi fugge dall'oppressione e dalla guerra non offre niente. Quello che lascia basiti, a leggere il profluvio di parole gonfie di odio talvolta insaputo, è il grado di ignoranza così diffuso rispetto alla realtà, e l'arroganza con cui questa ignoranza viene proferita.
C'è una vera e propria sindrome allucinatoria e persecutoria di molti italiani, che fantastica carte di identità subito per tutti, la possibilità per gli immigrati di non lavorare, la libertà di girare indisturbati per loro, di avere case e lavoro immediatamente. Deliri costruiti su fantasie patologiche, che però formano il materiale del giudizio di molti elettori. (del resto a legittimarle c'è la barbara demenza di un Langone, per dire, che sul Foglio scrive contro gli "invasori").
Ma un appunto va fatto pure al presidente: stroncare il traffico, dice. Quello è il rimedio, signor presidente? Davvero la responsabilità è solo degli scafisti? Davvero non la sfiora l'idea che se rendi illegale la possibilità di muoversi da un paese all'altro, per ciò stesso sei tu a produrre gli scafisti? Davvero non le viene in mente che si tratta ripensare dalle fondamenta le politiche migratorie? Davvero un governo appena decente può pensare di non rimettere mano alla Bossi-Fini (cosa che non ha fatto del resto il governo Prodi) e farsi promotore in Europa di un'altra modalità di gestione dei flussi migratori? Rivedere le leggi, ecco che cosa dovremmo fare se sapessimo fare silenzio. Ma non succederà. Domani, sarà semplicemente un altro giorno.
QUANTI E COME SONO STATI SPESI I FONDI
di Monica Frassoni
Lo sgomento, il dolore, la solidarietà di fronte alla tragedia nel Mediterraneo, tomba di più di 20.000 persone negli ultimi 20 anni, non possono farci dimenticare che quanto accaduto non è né un caso né una fatalità. La strada percorsa fino ad ora è stata prioritariamente quella perdente e crudele della repressione, del rafforzamento della Fortezza Europa. E' quanto emerge dal modo in cui sono state spese le risorse in materia di asilo e migrazione. Questo non significa auspicare frontiere aperte sempre e per tutti. Significa semplicemente prendere atto del fatto che pensare di bloccare completamente le migrazioni e di chiudersi totalmente al richiamo dei popoli in fuga dalla guerra è un'illusione tragica e costosa. Tre esempi molto chiari: come ben spiega il rapporto del Consiglio d'Europa di due giorni fa, l'Italia non ha una politica d'immigrazione e di asilo efficace. La concentrazione esclusiva su misure di repressione e di controllo e, in particolare, l'introduzione del reato di immigrazione clandestina, insieme all'incapacità di assicurare ai rifugiati assistenza ha peggiorato la situazione. Le norme italiane producono illegalità e insicurezza invece di ridurle. Per questo è davvero urgente cambiarle. Invece il ministro Alfano ha riunito a Lampedusa il comitato per "l'ordine e la sicurezza" come primo atto. Non un buon auspicio.
Per fare queste tre cose, assumere consapevolezza piena di una realtà: la miseria delle popolazioni dell’Africa e il carattere repressivo di gran parte degli stati che le governano sono il risultato delle strategie messe in atto dal capitalismo nella fase dello sfruttamento colonialistico e in quella della globalizzazione neoliberista.
La Repubblica, 5 ottobre 2013
TRAGHETTI. La prima cosa che ci vuole sono traghetti sicuri verso porti accoglienti, quand’anche i politici non possano dirlo apertamente.È questa la prima ovvia necessità se si vuole evitare che il Canale di Sicilia si trasformi in una nuova Fossa delle Marianne. Quel tratto di mare non è di per sé insidioso per la navigazione; diventa tale quando lo solcano barche malconce e stipate all’inverosimile. Peggio dei vagoni merci diretti a Auschwitz esattamente settant’anni fa, se proprio vogliamo fare il calcolo del numero di persone ammucchiate in una superficie più o meno analoga.
La differenza è che ad Auschwitz ci si andava deportati a morire, contro la propria volontà. Mentre sulle carrette del mare le persone si imbarcano volontariamente, pagando cifre con cui sugli aerei si viaggia in business class, nella speranza di vivere.
Per questo la prima urgenza sono i traghetti che garantiscano un trasporto civile e sicuro dalle coste africane verso porti europei attrezzati. Non solo perché lo impone il codice fondamentale dell’umanità. Ma anche perché il metodo inverso dei respingimenti in mare, dopo quattro anni di applicazione e dopo migliaia di morti, non è risultato dissuasivo. Sono disperati ma non certo stupidi i fuggiaschi dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia. Se continuano a partire assumendosi una così elevata percentuale di rischio, significa che lo considerano il male minore. Probabilmente hanno ragione. Hanno conosciuto ben altra ferocia che non la voce grossa di qualche politicante italiano. Hanno già visto morire troppa gente per tornare indietro dopo un naufragio.
Organizzando un adeguato servizio di navigazione per i migranti in fuga dalla guerra e dalla miseria — che resteranno peraltro una quota esigua rispetto al totale dei milioni di profughi accampati in attesa di fare ritorno alle loro case — le Nazioni Unite e l’Unione Europea infliggerebbero un duro colpo alle organizzazioni criminali degli scafisti. Esse lucrano enormi profitti, grazie ai quali diventano sempre più forti e pericolose. Fino ad impadronirsi di intere regioni e fino a sottomettere le istituzioni locali, com’è già avvenuto con i trafficanti d’armi e di droga. Illudersi di risolvere questo problema per via mi-litare, rafforzando — come pure è necessario — il monitoraggio del canale di Sicilia con altre motovedette italiane o europee, è pura demagogia.
La seconda cosa da fare è restituire ai profughi il fondamentale diritto perduto: uno status giuridico certificato. Documenti d’identità validi. La convenzione di Ginevra del 1954 è superata. Oggi il diritto internazionale può avvalersi di una rete di codificazione informatica ben più efficiente, in grado di tutelare e sorvegliare le moltitudini di persone costrette alla mobilità. Se siamo stati capaci di organizzare il monitoraggio sistematico delle merci, cui viene garantita la libera circolazione, non si vede perché lo stesso non possa avvenire per gli esseri umani. È questione sovranazionale di volontà politica, ma anche di civiltà giuridica: la condizione di profugo ridotto all’apolidia, cioè deprivato di un passaporto valido e quindi impedito sia nel diritto a un lavoro regolare sia nel diritto alla mobilità regolare, ormai riguarda decine di milioni di persone. Va regolamentata prima che dia luogo a guerre di nuovo tipo. Non bastano le sanatorie, come quella promulgata dal governo Berlusconi nell’aprile 2011 in seguito alle primavere arabe. Anche se vale la pena ricordare che quella sanatoria riguardò in tutto 22 mila fuggiaschi, e che in quell’anno fatidico sbarcarono sulle nostre coste meno di 50 mila profughi. Fate voi la proporzione: 50 mila profughi in un paese di 60 milioni di abitanti. Restiamo sempre ben al di sotto delle cifre allarmistiche sparate dagli imprenditori politici della paura. Occorrerà certo attrezzarsi per accogliere e smistare un flusso in crescita dalla sponda sud del Mediterraneo, ma per favore non ci si venga a parlare di invasione.
La terza cosa da fare è una modifica della legge Bossi Fini del 2002 che ha di fatto irrigidito la normativa per il riconoscimento degli aventi diritto all’asilo politico. Sembra incredibile, ma ne ospitiamo una quota infima rispetto ai nostri partner europei, il che oggi ci rende poco credibili quando chiediamo aiuto a Bruxelles. Tanto più dopo l’introduzione del reato di clandestinità nel 2009, rivelatosi utile solo a “legittimare” la pratica illegale dei respingimenti in mare.
È giusto pretendere che l’Europa non si volti dall’altra parte e che, potenziando le strutture comunitarie di Frontex, partecipi all’opera di accoglienza e monitoraggio dei profughi. Purché tale richiesta sia preceduta da un doveroso ripasso della storia e della geografia. La forma allungata della nostra penisola che si protende grazie a migliaia di chilometri di coste verso la sponda sud del Mediterraneo, ne determina una vocazione naturale; che i nostri antenati hanno saputo trasformare più volte in supremazia culturale, commerciale, finanziaria. Ciò che è valso per il passato, vale anche per il futuro: non c’è crescita, non c’è progresso italiano che non si avvalga di una relazione armoniosa con l’insieme del bacino Mediterraneo. Oggi la sponda sud è in fiamme, ma nel mare non si possono costruire dighe. E la penisola non può rattrappirsi.
Il lutto nazionale proclamato ieri dal nostro governo deve quindi essere valorizzato nel suo significato più profondo, che va oltre l’umana pietà: gli uomini, le donne e i bambini che muoiono nel tentativo di approdare sulle nostre coste appartengono alla nostra comunità, abbiamo un destino condiviso.
Intervistata da Rachele Gonnelli la ministra di colore esprime sentimenti umani e li traduce in parole sagge. Peccato che il governo a cui partecipa sia quello che è.
L'Unità, 4 ottobre 2013
Cecile Kyenge convoca i giornalisti nella sala monumentale di largo Chigi in tarda mattinata. Lo sguardo è serio come sempre solo gli occhi sono un po’ più grandi, lo sguardo fisso come schiacciato dal peso degli eventi mentre confessa di provare «un dolore molto forte per questi morti», «una tragedia immane che ci impone la necessità di affrontare in maniera radicale il tema dei migranti in fuga da situazioni di conflitto». Si associa alle parole del Capo dello Stato nel chiedere «maggiore intensità per dare impulso a nuove politiche che interrompano questa serie di tragedie». La sua richiesta appare però un po’ debole rispetto agli enunciati di partenza: chiede «fin da subito» un coordinamento interministeriale sotto l’egida della Presidenza del Consiglio per mettere in essere un piano comune di aiuto ai profughi e di sostegno alle comunità locali su cui al momento pesa l’onere più grosso dell’accoglienza e della solidarietà. Tutti intorno allo stesso tavolo, lei con i colleghi Alfano agli Interni, Mauro alla Difesa, Cancellieri alla Giustizia, Bonino agli Esteri. È cosciente di una responsabilità molto grande che l’Italia si trova ad avere e vuole condividerla, ma soprattutto insiste sul metodo del dialogo, «la condivisione dice è la prima cosa».
Per approntare un piano serviranno mesi. Dopo quanto è successo non sarebbe meglio dare un segnale forte di svolta come l’abolizione della Bossi-Fini?
«Chiedo un coordinamento proprio per affrontare anche la questione delle modifiche delle norme sull’immigrazione, che devono essere riviste all’interno di questo quadro di condivisione e dialogo. Il dialogo è il punto principale e perciò dobbiamo distanziarci nettamente da chi dà messaggi opposti, di paura e di minaccia. Io sono per una legge che parta dalla visione del fenomeno migratorio come fenomeno naturale. Ma le risposte devono adattarsi a tutte le categorie di persone».
La Bossi-Fini crea problemi anche alla Libia, da cui gli immigrati partono ma dove non possono tornare, pena l’arresto. Come risolvere questo problema?
«Ci sono stati degli accordi, stipulati anni fa, con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo che vanno presi in esame. Domenica prossima mi recherò a Lampedusa e in questa visita farò accertamenti e cercherò ulteriori risposte. Ciò che è certo è che i migranti fuggono da Paesi in cui ci sono guerre e conflitti e che a tutto ciò deve dare risposta anche una politica internazionale che deve tendere a rafforzare la pace e la democrazia».
L’Europa ci critica per la nostra normativa inadeguata sull’immigrazione ma non dovrebbe fare di più? Si è assunta la sua parte di responsabilità?
«Il Consiglio d’Europa giudica sbagliata la nostra normativa e ci chiede di dare risposte positive che vadano nel senso dell’inclusione, della legalità, della cittadinanza. Durante il nostro turno semestrale di presidenza, che inizierà nel luglio prossimo, l’immigrazione sarà in agenda e già abbiamo iniziato a lavorare sul tema per una nostra iniziativa. Italia e Grecia oggi sono i Paesi più in prima linea rispetto ai flussi migratori. Lo scorso 23 settembre a Roma 18 Paesi della comunità europea hanno avuto un primo summit ed è possibile che l’immigrazione assuma presto un senso di priorità negli interventi. È chiaro che tutti devono rimboccarsi le maniche, non soltanto noi. L’Europa deve fare la sua parte e ad esempio alleggerire le norme comunitarie sulla libera circolazione e la convenzione di Dublino, garantendo nei Paesi d’arrivo la possibilità di un visto di transito per gli asilanti che vogliono andare in altri Paesi, coinvolgendo dunque tutta la Comunità europea per l’ospitalità dei profughi».
Cosa pensa della proposta di creare un corridoio umanitario con base nel porto di Lampedusa? «Modificare le norme per l’immigrazione regolare e creare dei corridoi umanitari sono appunto due risposte all’esigenza di sottarre i migranti al ricatto delle organizzazioni criminali che si occupano di traffico di esseri umani. Se si vuole operare una reale strategia di contrasto dei trafficanti si devono affrontare questi due nodi».
Cosa risponde a Gianluca Pini, vice capogruppo della Lega a Montecitorio, che attacca oggi lei e la presidente Boldrini per gli sbarchi?
«Attribuire a me e alla presidente Boldrini la responsabilità morale di ciò che è successo è profondamente offensivo. E credo che sia un insulto anche a tutti i cittadini italiani si stanno adoperando per aiutare i superstiti. Questo attacco in queste ore è per me un punto di non ritorno nel rapporto con questi signori. Io cerco soluzioni, loro fomentano odio e paura, la distanza è ormai incolmabile».
Cosa c'è dietro le stragi di migranti, su cui è facile piangere, difficile ragionare e comprenderne le cause, magari proporsi di rimuoverle. Il genocidio ha radici profonde nel benessere del Primo mondo, e soprattutto dell'uno per cento che lo governa.
Il manifesto, 4 ottobre 2013
L'Africa come campo di battaglia. Ci si sarebbe aspettato che i paesi europei distaccassero almeno alcune navi al largo della Libia per raccogliere i profughi. Con l'aumento delle bombe, delle distruzioni e delle vendette dei ribelli contro i neri, ritenuti, tutti, indistintamente, «legionari» di Gheddafi, ci si sarebbe infatti aspettato che i paesi europei distaccassero alcune navi al largo della Libia per raccogliere i profughi. Quando di fronte a una tragedia nel Terzo mondo la stampa e la politica da noi incominciano a chiedersi con finta compunzione «cosa fare?», nessuno ammette che più di altri atti di guerra potrebbero venire utili dei soccorsi per le vittime della guerra o, andando veramente alle cause, un cambio di politica al centro.
Invece, al culmine dei combattimenti e della confusione, nell'Europa meridionale l'allarme per l'invasione dalla Libia e dal Nord Africa raggiunse l'apice. L'Africa come fonte inesauribile di emigranti clandestini. Con tante difficoltà e l'ombra dei «respingimenti», l'esodo si ridusse a uno stillicidio senza conseguenze visibili per italiani ed europei , anche se i francesi in campagna elettorale furono lì lì per rimettere le sbarre alla frontiera fra Ventimiglia e Mentone. Paradossalmente, invece, la valvola di sfogo dei perseguitati in Libia si è aperta a sud con effetti destabilizzanti per la regione sahelo-sahariana. Donde la necessità a breve di un'altra guerra di cui si incaricò in proprio la Francia perché il Mali le appartiene di diritto. L'Africa come retroterra coloniale.
I vecchi clichés sull'Africa sofferente hanno perso un po' del loro impatto. I bambini e la fame sono usciti dalla scena se non fosse per certi documentari che passano in tv nelle ore notturne. L'Africa è un partner a cui la stessa Italia guarda in funzione della propria crescita. Invece dei leones delle vecchie carte geografiche oggi sono di moda i lions, i paesi del continente nero che contendono alle tigri asiatiche i primi posti nell'aumento mondiale del Pil. Quasi senza eccezioni, anche gli stati in boom riproducono però il modello d'origine coloniale di economie che esportano beni primari verso il Nord e dipendono dal Nord per capitali, tecnologia e sbocchi commerciali.
Se gli istituti di ricerca finanziari fanno circolare rapporti che sottolineano i progressi dell'Africa, i think tank che interagiscono con l'intelligence militare delle grandi potenze forniscono le mappe dell'Africa con le «minacce» e le basi ritagliate al servizio della war on terror. È questa l'altra faccia della «dipendenza» dell'Africa: uno stato di belligeranza diffusa che erode la capacità degli stati nei compiti primari per la politica e l'economia.
È il caso, fra gli altri, del Corno, teatro di tante guerre incrociate. Il Corno sembra essere l'area di partenza - non necessariamente recente, perché molti impiegano anni per arrivare a destinazione - di molti dei rifugiati che si dirigono verso l'Italia (quasi tutti con l'intenzione di raggiungere il Nord Europa o il Canada). Per fortuna, vien voglia di dire, il Congo è abbastanza lontano dal Mediterraneo perché i suoi travagli, fomentati da paesi che godono di una specie di impunità a livello mondiale, riguardano milioni di disgraziati. Per come viene gestita a livello internazionale la politica africana, gli interventi volti formalmente a risolvere le crisi di stati fragili si preoccupano soprattutto della «sicurezza» dell'Occidente.
Il confine fra l'Africa come soggetto e l'Africa come oggetto è labile e uno dei risultati è appunto il movimento ininterrotto di uomini, donne e bambini alla ricerca di un rifugio. Come è apparso nel caso recente del Sud Sudan, i «poteri forti» non si pongono seriamente il problema di quale sia il tasso di «sovranibilità» e quasi di «esistibilità» dei governi che appoggiano o dei quasi-stati che vengono alla luce. Il sistema globale non vuole in periferia stati stabili ma stati succubi. Evidentemente si confida nell'azione di strutture che rispondono a logiche extra-istituzionali. La democrazia è ridotta alla convocazione di elezioni solo se e quando l'esito dello scrutinio è scontato. La governance scade a una docile subalternità rispetto alle condizionalità del mercato e degli organismi finanziari internazionali. Nel caso peggiore le mafie, come quelle che operano nel Sinai, nel Sahara o nelle reti della pirateria nell'Oceano Indiano o nel Golfo di Guinea, hanno una libertà di manovra e persino una protezione maggiore degli stati.
Lavoro, Europa, Beni comuni, Diritti civili, Iniziativa legislativa popolare, Eguaglianza: ecco i titoli di una nuova agenda del fare, se davvero si volesse cambiare, in meglio.
La Repubblica, 3 ottobre 2013
Stiamo vivendo il grado zero della politica. E in questo vuoto di politica rischia di precipitare l’intera società italiana, sì che diventa sempre più evidente che solo una riflessione severa può consentirci di non rimanere impigliati in aggiustamenti mediocri che finirebbero inevitabilmente con il peggiorare la situazione.
Dobbiamo prendere atto che si è corso un azzardo politico, e ora ne stiamo pagando il prezzo, prevedibile e elevatissimo. Era nato un governo fin dall’inizio prigioniero delle smanie di un autocrate, come ormai riconoscono i suoi stessi seguaci. E le costrizioni imposte all’azione del Governo sono state rese ben evidenti da due semplici fatti. Lo stallo infinito intorno alla questione dell’Imu, imposto dalla volontà di soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svanivano quelle del Pd. L’impossibilità di affrontare il nodo della riforma della legge elettorale, malgrado le ripetute sollecitazioni del Presidente della Repubblica, che era giunto fino a farne una delle ragioni costitutive del nuovo Governo e della maggioranza delle larghe intese.
Tutto questo è avvenuto in un contesto ben più insidioso, fatto di fibrillazioni continue che hanno privato la politica di ogni orizzonte temporale e di senso. Fin dal primo momento, il Governo Letta è stato oggetto di continue, insistenti sollecitazioni da parte dell’infedele alleato di governo, che rattrappiva le “larghe” intese in una quasi quotidiana negoziazione, che imponeva le questioni prioritarie, fissava paletti, con una pressione che assumeva spesso le sembianze del ricatto. Mentre l’orizzonte apparente era quello di diciotto mesi, del cosiddetto “cronoprogramma”, quello reale si rivelava sempre più angusto. Settimane prima, giornate poi, fino a giungere alle indegne vicende dell’ultima fase, quando ci si è ridotti ad interrogarsi di ora in ora sulla possibile sopravvivenza del governo. Di fronte ad una situazione così drammatica il Pd ha mostrato una gran debolezza, considerando come unico e supremo bene il solo fatto che il Governo riuscisse a durare.
In questo modo la politica è stata privata di ogni significato, ridotta a pura schermaglia, ha rivelato una trama sempre più misera, intessuta di illegittimi interessi personali, con aggressioni a chiunque, persino nella maggioranza o nello stesso Governo, cercava di introdurre qualche barlume di ragione, di aprire qualche spiraglio verso una più larga comprensione delle questioni reali. Già pesantemente insidiata da una sostanziale sottomissione all’economia e ai suoi diktat, la politica è stata così immersa in un presente senza prospettive, nell’affanno di emergenze di cui non si coglieva più il significato.
Questo dissolversi della politica ha finito con l’incarnare un estremo paradosso. Una politica governativa fragile fino all’inesistenza si è aggrappata ad una immaginaria grande politica costituzionale. Poiché questa ha bisogno di tempi più lunghi di quelli scanditi dagli affanni del giorno per giorno, si è pensato che in tal modo il Governo avesse contratto una sorta di assicurazione sulla vita. E invece si è di fronte ad una stanca coazione a ripetere, al tentativo di un intero ceto politico ormai in confusione di scaricare tutte le responsabilità della situazione presente sulla Costituzione. Un diversivo divenuto pericoloso, poiché una seria politica costituzionale può nascere solo da una adeguata riflessione della politica su se stessa. Mancando questa riflessione, divenuta la politica ufficiale sempre più regolamento di conti all’interno di oligarchie, era inevitabile che la riforma costituzionale assumesse un marcato carattere strumentale, rivelasse la sua natura congiunturale. Da qui la manipolazione delle regole di garanzia indicate dalla Costituzione, da qui la tentazione d’ogni regime debole di cercare una via d’uscita in un accentramento del potere.
A questo punto una conclusione sembrerebbe obbligata. Un minimo di moralità politica, direi quasi un comune senso del pudore, imporrebbe di non nominare più, in un momento così delicato, i cambiamenti costituzionali, per i quali mancano le condizioni essenziali: un comune sentire dei soggetti politici che a ciò s’impegnano e una loro piena legittimazione. È del tutto palese, invece, che le forze politiche sono divise su tutto, sono prive di vera cultura costituzionale, sono oggetto di una ripulsa da parte dei cittadini, impietosamente confermata da tutte le rilevazioni demoscopiche, che collocano al di sotto del cinque per cento la fiducia nei confronti di partiti e Parlamento.
Se davvero si volesse cominciare la ricostruzione di un circuito di fiducia tra istituzioni e cittadini, restituendo a questi ultimi una vera “agibilità politica”, la riforma elettorale dovrebbe uscire dalle ipocrisie e dalle convenienze, e divenire la vera emergenza da affrontare subito. Per fare questo passo, indispensabile per riportare il nostro sistema politico alla legalità costituzionale, servono senza dubbio coraggio e fantasia politica. Virtù perdute, in un paese che coltiva con delizia lo “stato di necessità”, come alibi permanente per non fronteggiare in modo adeguato i veri problemi e per sottrarsi all’obbligo di restituire alla politica visione e orizzonti larghi.
La politica non è morta, ma rischia di essere coltivata fuori dai luoghi istituzionali. Da molte parti vengono proposte precise per costruire un’agenda politica che colga i dati di realtà e guardi al futuro. Ricordo solo alcune parole. Lavoro, considerato fondamento della democrazia come vuole l’articolo 1 della Costituzione, al quale guardare anche nella prospettiva di una riforma complessiva del sistema delle tutele, considerando le proposte tutt’altro che eversive sull’introduzione di forme di reddito garantito. Europa, come spazio della politica e non della sola economia, dunque non amputato della sua Carta dei diritti fondamentali. Beni comuni, che evocano le questioni concretissime del regime giuridico della rete telefonica, di servizi idrici rispettosi dei risultati dei referendum del 2011, della conoscenza in rete di cui non può impadronirsi l’Agicom. Diritti civili, che tanto hanno giovato ad Angela Merkel, con aperture sulle quali dovrebbero meditare tanti politici che si dicono cattolici. Iniziativa legislativa popolare, come canale effettivo di comunicazione tra cittadini e istituzioni. Eguaglianza soprattutto, di fronte a 14 milioni di poveri, quasi il 22% della popolazione. Utopie concrete, da coltivare, se si vogliono evitare i rischi di un passaggio dalla disaffezione per la politicaalla rottura della coesione sociale.
Non una svolta storica, certo un drastico mutamento di scenario: in Italia ha vinto un'altra destra. Il 12 ottobre vedremo se c'è qualche altro attore di rilievo sulla scena.
Il manifesto, 3 ottobre 2013
Moriremo democristiani? Sarà questa la via d'uscita dal berlusconismo? E' la traiettoria che la conclusione del nuovo voto di fiducia al governo delle larghe intese sembra indicare. Nessun passaggio epocale, nessuna giornata storica da segnare sul calendario, come con grande enfasi il presidente del consiglio annunciava nel suo intervento all'assemblea del senato, ancora immaginando una clamorosa spaccatura del centrodestra berlusconiano. Ma un cambiamento dello scenario politico sì. A rivelarlo, in diretta televisiva, la mesta espressione da cane bastonato di Silvio Berlusconi quando, alzandosi dal seggio, dal quale presto dovrà decadere, ingoiava pubblicamente la crisi di governo rinnovando la sua fiducia al ministero di Enrico Letta. Proprio il condannato che urla al golpe, proprio lui che avrebbe voluto giocare l'ultimo asso delle elezioni anticipate.
E tutto grazie a quel mezzo parricidio compiuto da Angelino Alfano verso il suo padre-padrone, grazie al nano che si erge sulle spalle del gigante per una pubblica, inedita manifestazione di dissenso verso il cupio dissolvi di un leader sbandato. Un gesto di resistenza e un istinto di sopravvivenza capace di spostare il baricentro del centrodestra dal radicalismo berlusconiano al centrismo democristiano.
Un esito in gran parte farina delle pressioni di Confindustria, della Conferenza episcopale, delle cancellerie europee, dello smarrimento di quell'elettorato che ancora segue, dopo l'abbandono dei sei milioni e mezzo di voti delle ultime elezioni. E ovviamente possibile solo oggi, nella fase più acuta della crisi economica e istituzionale, quando gli incubi hanno sostituito i sogni, nel momento terminale di una stagione politica iniziata con la rivoluzione del '94.
Se e quanto questa lotta interna per la leadership del Pdl determinerà una meno perigliosa navigazione del governo lo vedremo già nei prossimi giorni, quando il parlamento sarà chiamato a votare per la decadenza di Berlusconi da senatore, quando i ministri dovranno scrivere e spedire a Bruxelles la legge finanziaria, quando rivedremo all'opera un governo costretto tanto più ad annacquare le sue politiche quanto più larghi sono gli interessi che è chiamato a tutelare. Come le scelte su Imu e Iva, come il sì al rifinanziamento degli F35 e il no al salario minimo hanno ampiamente, simbolicamente dimostrato.
Dal presidente Letta nessun accenno di autocritica, piuttosto un continuo autoelogio, l'insistente sottolineatura del buon, anzi ottimo, lavoro svolto fin qui dai suoi ministri. Restano dunque tutte, semmai rafforzate dal rinnovo del patto politico, le ragioni di un'opposizione a intese sciagurate, che non intendono segnare alcuna discontinuità con i governi precedenti, ma anzi ne rivendicano l'eredità. Con il Pd di Letta e Renzi, registi di una traghettamento del partito nell'antica casa dorotea del grande centro democratico e cristiano.
Si rassegnino dunque gli italiani che hanno votato per un'alternativa al montismo e che invece assistono a una sua replica. A loro si chiede di restare a guardare, di affidarsi alle larghe intese. Esattamente il contrario di quel che si dovrebbe fare: trovare il modo di costruire un'alternativa di largo consenso capace di corrispondere al bisogno di giustizia sociale che non verrà da questo governo.
Per uscire da un'Italia berlusconiana senza Berlusconi unire legalità e diritti sociali. Difendere la Costituzione e completarla la posta in gioco il 12 ottobre
. Il manifesto, 2 ottobre 2013
In effetti è successo e in queste ore ne vedremo le possibili evoluzioni. L'orizzonte del dibattito politico nelle stanze ufficiali non sembra però andare oltre il giorno fissato per le dichiarazioni di Letta al parlamento. Lì si vedrà se il Pdl saprà mantenersi insieme, malgrado la vistosa crepa apertasi dopo l'atto autoritario della imposizione delle dimissioni a ministri e deputati da parte del suo capo - uomo impaurito e confuso, dice oggi un suo antico cantore, come Vittorio Feltri - o se invece, come quelli del Pd e non solo sperano, si determineranno nuove condizioni per un Letta-bis, magari persino con l'appoggio di parte della attuale opposizione di sinistra, come accadde ai tempi di Dini.
Dietro a tutto ciò si avverte il disegno dei centri pensanti, pochi per la verità, delle nostre classi dominanti che vorrebbero dare vita a quella che fino a poco fa si sarebbe chiamata una formazione di centro di stampo europeo, ma che oggi, visto lo slittamento in quella direzione del Pd, che si accentuerebbe con la vittoria di Renzi, sarebbe obiettivamente collocata a destra. Ovvero quello che l'Italia non ha mai avuto, se si eccettua il piccolo partito liberale, una forza politica di destra non manifestamente eversiva.
In quest'ultimo caso e solo in questo, la legislatura potrebbe avere ancora durata, anche se pessima. Diversamente tutta la questione è se andare alle elezioni con il Porcellum, come vorrebbero sia Berlusconi che Grillo, o fare l'unica cosa ragionevole: modificare la legge elettorale cancellando almeno l'ignobile premio di maggioranza e reintroducendo una preferenza per evitare un parlamento assolutamente non rappresentativo delle volontà politiche dei cittadini e per di più rifatto con dei rinominati. Ma le ragioni della ragione e quelle della politique politicienne difficilmente si incontrano. Per il resto ha ragione persino Saccomanni. La legge di stabilità è già fatta dalla troika, visto che il suo parere è preventivo rispetto a quello del parlamento, quindi se ne potrebbe occupare persino un governo dimissionario senza la necessità di uno nuovo.
Quello che serve, e che ancora non c'è, dobbiamo dircelo, è la ripresa di un movimento popolare e sociale, un forte sommovimento democratico che scardini i cancelli della politica di palazzo.
La prima occasione è l'appuntamento già fissato del 12 ottobre. Per non sprecarla occorre però evitare un rischio fin troppo evidente. Bisogna essere espliciti su questo punto, altrimenti si corre il pericolo di un grave insuccesso.
Il rischio è quello di una separazione delle tematiche democratiche e costituzionali da quelle sociali. La proclamazione nello stesso mese di ottobre di altri appuntamenti dedicati ai temi della lavoro e della casa, separati e, per usare un eufemismo, scarsamente comunicanti con quello del 12, sottolinea il pericolo che stiamo correndo. E' già accaduto nel passato. Si potrebbe dire, ora che possiamo fare un bilancio quasi ventennale, che tutta la lotta contro il berlusconismo ha sofferto di questa separazione o quantomeno di un incontro difficoltoso e pieno di equivoci e reciproci sospetti, fra chi si batteva per la legalità e la giustizia repubblicane e chi, per scelta e/o per necessità, privilegiava i temi della condizione dei lavoratori e dei disoccupati, dei giovani precari e della mancanza di abitazioni e servizi sociali. Questo iato ha facilitato la possibilità per i berluscones di giocare la carta del populismo. Cosa che tuttora stanno facendo.
La scesa in campo in particolare della Fiom in prima persona, quale soggetto e organizzazione sociale portante dello schieramento antiberlusconiano, ha solo in parte ovviato a queste divisioni e incomprensioni, visibili anche fisicamente nella separazione di cortei e manifestazioni. Quando non si è trattato addirittura di polemiche contrapposizioni nei contenuti, nelle parole d'ordine, nelle modalità delle proteste.
La manifestazione del 12 ha quindi un problema di qualità, prima ancora che di quantità, poiché quest'ultima dipende dalla prima. Se il messaggio che passa è solo quello della legalità e dell'osservanza costituzionale è troppo poco per mobilitare ampi settori popolari. Particolarmente ora, dentro una crisi politica dai contorni e esiti del tutto oscuri. Nella prima conferenza stampa tenuta dai cinque promotori, Landini ha fatto bene a dire con forza che non ci si mobilita per difendere la Costituzione - non solo - ma per applicarla integralmente. Intendendo quindi che parti di essa sono rimaste lettera morta e altre sono sotto tiro sul piano della organizzazione materiale della società prima ancora che su quello dei testi scritti.
Queste parti riguardano tutte, o in modo assolutamente prevalente, i temi sociali. In primo luogo quelli del lavoro; della rimozione degli ostacoli a trovarne uno dignitoso - che ci porta dritto al tema del reddito di base -; della salvaguardia degli istituti del welfare state; della loro gratuità e universalità; dell'equa retribuzione; della democrazia nei luoghi di lavoro; del diritto ad una vita dignitosa sotto ogni aspetto che incrocia il diritto all'abitare; della difesa dell'ambiente e del paesaggio che contrasta con le megaopere distruttive come la Tav. Punti fondanti della nostra Carta Costituzionale che sono minati dalle politiche economiche dell'austerity decise contro ogni buon senso in Europa, ma pedissequamente applicate, anche con eccessi - come nel caso della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, ai tempi di Monti - , dalla maggioranza delle larghe intese e dal governo.
Non si tratta di affogare la manifestazione del 12 ottobre in un universalismo rivendicativo indistinto, né di caricarla di toppe attese e responsabilità, ma avere la consapevolezza che l'attaccamento alla Costituzione che gli italiani hanno già dimostrato nel 2006 sconfiggendo il disegno del premierato (che i cosiddetti saggi vorrebbero riproporci), è fatto di molti, differenti ma potenzialmente convergenti sensibilità e bisogni. Tutte queste sensibilità e tutti questi bisogni devono e possono concorrere a un appuntamento così ambizioso, la cui riuscita sarà frutto solamente dell'autorganizzazione, e devono rendersi visibili nella fisionomia della manifestazione e nei contenuti dei discorsi che animeranno la sua fase conclusiva in piazza del Popolo.
FORSE è venuta l’ora di dire in termini chiari che l’imperatore è nudo: in Italia, e in tutti i Paesi dell’Unione europea immersi nella crisi. Non ha più scettro né manto. E non è vero quello che i nostri capi di governo vanno dicendo: che saremmo in mano alla trojka di Bruxelles, se svanisse il bene molto equivoco di una stabilità politica che dipende dal condannato Berlusconi. Quel condizionale - saremmo - va sostituito con l’indicativo.
L’Italia non rischia commissariamenti se cade il governo Letta, così come non li rischiava quando caddero Berlusconi o Monti, perché da tempo siamo sotto tutela. I nostri imperatori sono oltre che nudi, finti. La stabilità tanto vantata, da salvare ad alti costi, è in realtà stasi sanguigna, imperio di un’oligarchia che fa capo non a un re ma a un reggente. Nel vocabolario Treccani, reggente è colui che «esercita le funzioni della Corona in sostituzione del re, in via straordinaria e in determinati casi (incertezza su chi ha diritto al regno, incapacità giuridica o impedimento fisico del monarca)». Tanto più perniciosa una stabilità che dovesse scaturire dalla spaccatura, clamorosa ma forse provvisoria, del Pdl. Anche abbandonato dai suoi, Berlusconi non cesserà di influenzarli. Surrettiziamente, continuerà a esser lui la garanzia della nostra solvenza finanziaria e della nostra onestà: soprattutto se in extremis voterà la fiducia.
Monti d’altronde lo annunciò, il 16 ottobre 2011 sul Corriere, un mese prima di divenire Premier: «Siamo già oggetto di “protettorato”: tedesco-francese e della Banca centrale europea». Il protettorato ha assunto fattezze più civili, ma protettorato resta. Inutile continuare a dire che siamo sull’orlo del commissariamento. Ci siamo dentro, come Atene, Lisbona, Dublino, Madrid. A forza di fissare l’abisso, l’abisso guarda dentro di noi e ci inghiotte. Se le cose non stessero così, non ci allarmeremmo: «Chi sarà capace di parlare con Draghi, dopo Monti e Letta?» In altre parole: chi amministrerà, conscio di non essere che un reggente?
Questo non vuol dire che i giochi siano fatti per sempre. Che subordinazione e reggenza siano fatali leggi della natura. Vuol dire però che tutto va mutato, a Roma e in Europa: i vocabolari mistificatori che usiamo, le politiche che ne discendono, il nostro sguardo sulle istituzioni, le Costituzioni.
Dice lo scrittore austriaco Robert Menasse, dei monarchi europei: «Uno Stato nazionale non può più risolvere problemi da solo, la sovranità è già ceduta ». Tanto più in Italia, le cui anomalie hanno dilatato la subalternità oltre misura. Non solo l’anomalia di Berlusconi. È anomalia anche governare con un partito estraneo alla cultura giuridica. È anomalia anche un Parlamento che con bradipica lentezza espelle (se espelle) un senatore condannato per frode fiscale, quando la legge ordina di farlo «immediatamente».
Senza fare chiarezza impossibile affrontare l’instabilità vera: il disfarsi delle democrazie, e in primis della nostra. Lo dice chi proprio per questo s’aggrappa alla Costituzione, e il 12 ottobre a Roma scenderà in piazza per difenderla. Se trema la democrazia, per forza tremerà la sua Carta fondativa. Cosa significa oggi avere governi di reggenza, ipocritamente sovrani? Significa che «il monarca tradizionale è in una condizione di incapacità giuridica, di impedimento fisico». Lo scettro è in mano a potenze esterne, e il reggente lo sa ma non lo dice.
Gli effetti già li vediamo, li viviamo.
La nostra Repubblica si è fatta presidenziale, sotto Napolitano, e la metamorfosi non è stata decisa dal popolo sovrano: è avvenuta come se l’avesse dettata, motu proprio, la natura. L’antagonismo politico piano piano è stato bandito, bollato come populista secondo la già collaudata, emergenziale logica degli opposti estremismi. È populista Berlusconi, che entrò in politica per restaurare un’oligarchia corrotta dopo Mani Pulite. Sono definiti specularmente populisti Syriza in Grecia o i movimenti cittadini vicini a Grillo, che dell’era Mani Pulite sono figli. Ne consegue l’impotenza crescente delle costituzioni nazionali, quasi ovunque in Europa. Il popolo di cittadini non può far valere bisogni e paure, quando è amministrato (non governato) da oligarchie che pretendono regalità che non hanno più. Quando un rapporto della JP Morgan (28 maggio ’13) definisce infide le costituzioni nate dalla Resistenza, caratterizzate come sono «da esecutivi deboli verso i parlamenti; dai diritti dei lavoratori; dall’eccessiva licenza di protestare contro modifiche sgradite dello status quo».
Nella storia francese, il periodo in cui Filippo d’Orleans amministrò al posto di Luigi XV si chiama reggenza ed è sinonimo di governi brevi, dediti a sanare bilanci. Orleanismo è predominio delle coterie: cioè delle consorterie, o cricche. Perché, visto che siamo sotto tutela, battersi perché la Costituzione incompiuta si compia? Perché è il suo spirito che conta: i suoi articoli sono la confutazione vivente degli imperatori apparenti come dei commissariamenti fatali. Nelle costituzioni democratiche non è scritto che lo Stato-nazione è sovrano. Pienamente sovrani sono i cittadini, e ciascuno di essi deve contare ai vari livelli del potere: comunale, nazionale, ed europeo. La democrazia è oggi postnazionale: le elezioni europee del 22-25 maggio prossimo sono importanti come quelle nazionali, ma governi e partiti fanno lo gnorri. Non è nemmeno scritto, nelle costituzioni, che una sola politica sia buona, e le vie diverse illegittime o populiste.
La Carta sta lì a dirci le forme della democrazia che vogliamo, ma anche i suoi contenuti: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; il lavoro, l’istruzione e la stampa libera come fondamenti; la tutela del patrimonio naturale e artistico; la separazione dei poteri; la protezione dei deboli, degli svantaggiati, di chi dissente. Nelle crisi le Carte sono preziose perché aprono possibilità, non congelano i rapporti di potere esistenti. Consentono politiche alternative, non organizzano solo alternanze: né da noi né in Europa. Muoiono, se niente si muove. Oggi sono i nazionalisti a reclamare il nuovo (in Germania o in Austria, dove le destre estreme, antieuropee, hanno raccolto domenica il 30,8 % dei voti) ma perché la sinistra classica ha smesso da tempo di incarnare l’alternativa. Prima del voto tedesco, su Spiegel online, il giornalista Wolfgang Munchau ha messo in relazione il declino socialdemocratico con il rifiuto di un’alternativa, nazionale e europea, all’austerità della Merkel.
Risale agli anni ’90 la rottura con Keynes, quando Schröder concepì la terza via: che non era affatto terza ma – come per Blair, per il Pd – adesione al mercato senza freni naufragato nel 2007-2008. Erano ancora keynesiani Brandt e il suo ministro del Tesoro Karl Schiller, nel ’69. Lo fu anche Schmidt, negli anni ’70. Solo l’estrema sinistra tedesca (la Linke) resta keynesiana.
Un’alternativa è possibile, se non se ne ha paura. Alexis Tsipras, capo di Syriza in Grecia, ha chiesto il 20 settembre al Forum Kreisky di Vienna un’Europa non frantumata dall’austerità, e una lotta «contro l’alleanza fra cleptocrazia ellenica e élite europee». Simile la lotta in Italia: il fronte costituzionalista di Rodotà e Landini, Zagrebelsky e Settis, dice questo. Quanto a Berlino, una maggioranza parlamentare alternativa alla Merkel esiste già (socialdemocratici, verdi, Linke), ma solo sulla carta. Da otto anni i socialdemocratici rinunciano a gettar ponti verso la Linke, a liberarla dal passato comunista.
Da noi l’alternativa potrebbe nascere se il Pd non proponesse solo reggenti, e scoprisse che per vent’anni la Carta è stata l’arcinemico della destra berlusconiana. Se dicendo il vero sul commissariamento, separasse la sovranità dei cittadini da quella degli Stati, e si battesse per una Costituzione che sarà compiuta quando i suoi princìpi s’estenderanno all’Europa.
SIl manifesto, 1 ottobre 2013
Poco dopo la messa in onda dell'intervista la Procura di Roma ha chiesto il sequestro e l'acquisizione del file. Il pm Luca Palamara, titolare dell'ultimo procedimento aperto sul sequestro e l'omicidio di Moro, sarebbe intenzionato a sentire Pieczenik per chiarire con lui la pista delle «interferenze esterne», ricorrendo se necessario anche a una rogatoria internazionale.
«Sono io che ho suggerito a Cossiga di screditare Moro». «Sono stato io a bocciare l'iniziativa del Vaticano che aveva raccolto i soldi per pagare il riscatto». Pieczenik non è nuovo a uscite clamorose - aveva già reso le stesse dichiarazioni in un'intervista a Panorama nel '94 - e il suo protagonismo desta qualche sospetto tra gli storici che hanno studiato il caso Moro. Il suo profilo però è di indubbio rilievo.
«Pieczenik fu effettivamente inviato dal Dipartimento di Stato Usa durante il sequestro Moro come esperto di terrorismo, sequestro di ostaggi e guerra psicologica - spiega a il manifesto lo storico e senatore del Pd Miguel Gotor -. Era un giovane consulente dell'amministrazione americana (all'epoca aveva 34 anni, ndr) che ha avuto, anche in seguito, incarichi molto importanti. Ma l'ipotesi che sia stato lui a determinare la storia italiana mi pare una caricatura. Di sicuro andrebbe ascoltato, se ci fosse la volontà di riaprire una Commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro».
Nato a Cuba nel '43 da genitori russi e polacchi, Pieczenik è stato assistente del Segretario di Stato Henry Kissinger e ha ricoperto ruoli rilevanti sotto diversi presidenti americani, da Ford a Bush Senior. Incarichi delicatissimi, come la consulenza strategica sulla guerra psicologica per gli agenti della Cia. Inviato al Viminale - ufficialmente come "consulente" - due settimane dopo la strage di via Fani per seguire la delicata gestione del sequestro di Moro, lavorò a stretto contatto con i funzionari del ministero dell'Interno guidato da Francesco Cossiga fino al ritrovamento, il 9 maggio '78, del cadavere di Moro in via Caetani.
«Non ci sono elementi per dire se Pieczenik fosse legato ai vertici di Gladio e alla struttura Stay Behind - prosegue il senatore Gotor -: ma durante i 55 giorni del rapimento alloggiò all'Excelsior, l'hotel romano in cui il "maestro venerabile" della P2 Licio Gelli aveva una suite». Sarebbe lui, dunque, ad aver ideato dalle stanze dell'Interno la linea della fermezza, con un intento preciso: tramutare la minaccia del sequestro di Aldo Moro in una nuova spinta per consolidare la posizione dell'Italia nella sfera d'influenza atlantica.
Lo aveva già spiegato nel libro di Emmanuel Amara pubblicato in Francia nel 2006, e passato sotto silenzio: «La posta in gioco non era la vita di una persona: erano le Br - racconta Pieczenik in Abbiamo ucciso Aldo Moro - e la destabilizzazione dell'Italia. Mi aspettavo che le Br si rendessero conto dell'errore che stavano commettendo e liberassero Moro. Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero: una mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Avrebbero vinto loro». Sempre sotto la sua «consulenza» il 18 aprile '78 sarebbe stato concepito il falso comunicato del Lago della Duchessa, subito attribuito alle Br, in cui si annunciava l'avvenuta esecuzione di Moro: un comunicato, come emergerà in seguito, «redatto da un oscuro personaggio, Tony Chichiarelli, per conto di apparati dello Stato vicini alla Presidenza del Consiglio» precisa Gotor, che rilancia la necessità di una nuova Commissione d'inchiesta bicamerale sul caso Moro. Le domande rimaste senza risposta sono innumerevoli.
Riferimenti
Vedi su eddyburg gli articoli di Miguel Gator e di Andrea Colombo dal manifesto. Vedi anche i numerosi scritti nella cartella dedicata a Enrico Berlinguer; dai suoi testi e da quelli su di lui si comprende facilmente il significato dirompente della sua politica.
«I cittadini assistono al teatrino di una retorica dello sviluppo che produce recessione, un’austerità senza traguardi o successi, una “stabilità” sempre più chiaramente sinonimo di paralisi» Ma si potrebbe uscirne.
La Repubblica, 1 ottobre 2013
Destinazione Italia:più o meno questo sarà stato lo slogan in voga nelle capitali europee alla fine del Quattrocento. E infatti la Penisola divenne presto terreno di scontro fra eserciti spagnoli, francesi, “imperiali”: fu così che il regno di Napoli passò per secoli sotto la Spagna e il ducato di Milano fu dominato prima dalla Spagna poi dall’Austria, per non dire del sacco di Roma perpetrato dai lanzichenecchi, con il Papa asserragliato in Castel Sant’Angelo (1527).
Destinazione Italia si chiama il recente decreto del governo, mirato ad attrarre investimenti stranieri, ma varato in sinistra coincidenza con la svendita di Telecom (o Telco) a un’impresa spagnola, mentre già suonano le campane a morto per Ansaldo Energia (destinata ai coreani) e per Alitalia, che dopo un farsesco “salvataggio” costato al contribuente cinque miliardi sta per passare in mano francese. L’Italia è dunque in vendita? I cittadini assistono impotenti al teatrino di una retorica dello sviluppo che produce recessione, di un’austerità senza traguardi e senza successi, di una “stabilità” sempre più chiaramente sinonimo di paralisi. Il rimedio viene additato in nuove svendite di patrimonio pubblico (anche di beni culturali), e la quotidiana erosione dei diritti (al lavoro, all’educazione, alla salute, alla cultura) viene giustificata in nome dell’Europa, come se fosse un invasore straniero.
Per frenare l’emorragia ci sarebbero due strade (o una combinazione fra le due): una politica di investimenti pubblici, come suggerito da Guido Roberto Vitale, e l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione, che «riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende», come ha ricordato Susanna Camusso.
Di dare esecuzione alla “democrazia economica” prevista dalla Costituzione, poi, non se ne parla: come potrebbe «promuovere l’elevazione economica e sociale del lavoro» (art. 46) un governo che in nome dell’austerità ignora il diritto al lavoro (Costituzione, art. 4)? Come potrebbe affidare «a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese [...] di preminente interesse generale» (art. 43), se lo stesso presidente del Consiglio (coi ministri Quagliariello e Franceschini) firma la proposta di modifica radicale della Costituzione in quanto scritta «nella temperie della guerra fredda » e non più adatta al «mutato scenario politico, economico e sociale»?
Ma l’Europa non è un impero esterno che, dopo aver conquistato gli Stati membri, possa imporre manu militari un proprio sistema di regole difformi dall’ordinamento di ciascun Paese. Dev’essere un concerto di voci, anche dissimili, in cui ogni Paese possa portare la propria tradizione culturale, civile, giuridica. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea «lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri» (art. 345), dunque lo statuto della proprietà pubblica e privata in Italia è e resta quello della sua Costituzione (sovraordinata ai Trattati Ue): la proprietà privata dev’essere finalizzata all’«utilità sociale» (art 42), i beni pubblici e comuni sono garanzia indispensabile all’esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini (come riaffermato dalla Commissione Rodotà).
« Il manifesto, 28 settembre 2013
A meno che non abbiano messo in scena uno stracciarsi di vesti rituale, una salmodia a favore di telecamera in attesa di continuare ad occuparsi di regole congressuali e decadenze senatoriali, c'è da aspettarsi che i nostri gruppi dirigenti - non solo politici ed economici, ma anche intellettuali - reagiscano allo shock dell'acquisizione di Telecom da parte di un oligopolio straniero avviando una seria riflessione sulla stagione delle privatizzazioni e sul ruolo dello Sato in economia. E c'è da augurarsi che lo facciano in maniera la meno ideologica e la più empirica possibile.
Quella stagione delle privatizzazioni cui si faceva cenno, infatti, fu accompagnata da una grancassa mediatica, finalizzata a puntellare l'egemonia liberista nel senso comune, per cui l'obbligo era quello di liberarsi dall'ideologia statalista, dove l'accento ricadeva non tanto sull'aggettivo - statalista - quanto sul sostantivo - ideologia: chi si ostinava (ed erano comunque in pochi) ad insistere sulla necessità per lo Stato e per la collettività di mantenere il controllo su alcuni settori strategici, non lo avrebbe fatto avendo a cuore le sorti del paese, ma in odio, per ragioni appunto ideologiche, al libero mercato.
Non si può continuare nel tentativo di uscire dalla crisi applicando i dispositivi che l'hanno provocata e continuano ad aggravarla. Cambiare strada (cominciando coll'attribuire al Parlamento europeo poteri reali) è difficile ma è indispensabile.
La Repubblica, 27 settembre 2013
Poco prima delle elezioni, una nota rivista tedesca di studi politici ha pubblicato un articolo intitolato “Quattro anni di Merkel, quattro anni di crisi europea”. L’autore, Andreas Fisahn, non si riferiva affatto al rinnovo ch’era ormai certo del mandato alla Cancelliera, bensì al precedente periodo 2010-2013, in cui l’austerità imposta da Berlino tramite Angela Merkel ha rovinato i paesi Ue. Ma la sua diagnosi ci porta a dire che la riconferma di quest’ultima assicura che senza mutamenti di rilievo nelle politiche dell’Unione il prossimo quadriennio potrebbe essere anche peggio.
Sui guasti pan-europei delle politiche di austerità come ricetta per risolvere la crisi, in nome della stabilità dei bilanci pubblici, non ci possono essere dubbi. I disoccupati nella Ue hanno superato i 25 milioni, di cui oltre 19 nella sola zona euro, e 4 in Italia. La compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori ha creato decine di milioni di lavoratori poveri, a cominciare dalla Germania dove i salari reali, caso unico in Europa, sono oggi inferiori a quelli del 2000. Quasi ovunque sono stati brutalmente tagliati i trattamenti pensionistici – da noi ne sanno qualcosa gli esodati, ma non soltanto loro – insieme con i fondi per l’istruzione, la sanità, i trasporti pubblici. Paesi quali la Grecia e il Portogallo sono stati letteralmente strangolati dalle prescrizioni della troika venuta dal Nord, senza che esse abbiano minimamente giovato ai loro bilanci. In tutta la Ue i comuni devono fronteggiare difficoltà di bilancio mai viste per continuare ad assicurare i servizi locali ai residenti.
Codesti risultati delle politiche di austerità, imposte alla fine dalla Germania, dovrebbero bastare per concludere che è necessario cambiare strada. Per contro i governi europei insistono sul sentiero battuto, a riprova del fatto che gli dèi fanno prima uscire di senno coloro che vogliono abbattere. La loro persistenza nell’errore ha preso sempre più forma di misure autoritarie, ideate e avallate da Berlino, Francoforte e Bruxelles. Hanno stanziato quattromila miliardi per salvare le banche, di cui oltre duemila impiegati soltanto nel 2008-2010, ma se i cittadini provano a dire che con 500 euro di pensione o 800 di cassa integrazione non si vive li mettono a tacere con cipiglio affermando che i tagli è l’Europa a chiederli. Come si legge in un altro articolo della stessa rivista citata sopra (firmato da H.-J. Urban), l’autoritarismo dei governi Ue trova un solido alimento nella retorica in tema di sorveglianza e disciplina finanziaria della Bce. La quale parla, nei suoi documenti ufficiali, di “processi di comando permanente”; “regole rigorose e vincolanti di disciplina politico-fiscale”; “credibilità ottenuta tramite sanzioni”; “sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici”, nonché di “robusti meccanismi di correzione” (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero scattare in modo automatico. Giusto quelli che nei giorni scorsi han messo in fibrillazione il nostro governo, perché forse il bilancio dello Stato ha superato il fatidico limite del 3 per cento sul Pil di un decimo di punto percentuale.
Allo scopo di contrastare sia le politiche dissennate che pretendono di curare la crisi ricorrendo alle stesse dottrine che l’hanno causata, sia il crescente autoritarismo con cui i governi Ue le impongono sotto la sferza costruita da Berlino ma brandita ogni giorno dalla troika di Bruxelles (che in realtà è un quartetto, poiché molte delle sue più aspre prescrizioni sono elaborate dal Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato e di governo dei paesi Ue), esiste una sola strada: la riforma dei trattati Ue, ovvero dei trattati di Maastricht, Lisbona ecc. oggi ricompresi nella versione consolidata che comprende le norme di funzionamento dell’Unione. I trattati particolari che ne sono discesi, fino all’ultimo dissennato “Patto fiscale”, che se fosse mai rispettato assicurerebbe all’Italia una o due generazioni di miseria, hanno come base il Trattato Ue, per cui da questo bisognerebbe partire.
Tra le revisioni principali da apportare al Trattato (alcune delle quali sono prospettate anche da Fisahn, l’autore citato all’inizio: ma articoli e libri che avanzano proposte a tale scopo, in quel tanto di pensiero critico che sopravvive in Europa, sono dozzine) la prima sarebbe di attribuire al Parlamento Europeo dei poteri reali, laddove oggi chi elabora i veri atti di governo è un organo del tutto irresponsabile, non eletto da nessuno, quale è la Commissione europea. Lo statuto della Bce dovrebbe includere la facoltà, sia pure a certe condizioni, di prestare denaro direttamente ai governi, rimuovendo l’assurdità per cui è l’unica banca centrale del mondo cui è vietato di farlo. Inoltre, esso dovrebbe porre accanto alla stabilità dei prezzi, quale finalità primaria delle sue azioni, un vincolo miope imposto a suo tempo dalla Germania che non ha ancora elaborato il lutto per l’inflazione del 1923, lo scopo di promuovere la piena occupazione. Dovrebbe altresì prevedere, la revisione del Trattato Ue, una graduale riforma radicale del sistema finanziario europeo volta a ridurre i suoi difetti strutturali, cioè l’eccesso di dimensioni, complessità, opacità (il sistema bancario ombra pesa nella Ue quanto il totale degli attivi delle banche), di facoltà di creare denaro dal nulla mediante il debito;
laddove nella versione attuale il Trattato si preoccupa soprattutto di liberalizzare ogni aspetto del sistema stesso, con i risultati disastrosi che si sono visti dal 2008 in avanti: in special modo in Germania. A fronte di tale indispensabile riforma, gli interventi in atto o in gestazione, tipo il Servizio europeo di vigilanza bancaria o l’unione bancaria, sono palliativi da commedia di Molière. Infine l’intero trattato dovrebbe essere riveduto in modo da prevedere modalità concrete di partecipazione democratica dei cittadini a diversi livelli di decisione, dai comuni ai massimi organi di governo dell’Unione. Come diceva Hannah Arendt, senza tale partecipazione la democrazia non è niente.
So bene che a questo punto chi legge sta pensando che tutto ciò è impossibile. Stante la situazione politica attuale, nel nostro paese come in altri e specialmente in Germania, non ho dubbi al riguardo. Ma forse si potrebbe cominciare a discuterne. Ci sarebbe un politico italiano volonteroso e capace di avviare simile discussione? Anche perché l’alternativa è quella di continuare a discutere per altri venti o trent’anni, intanto che il paese crolla, di come fare a ridurre il deficit di un decimo dell’un per cento.