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Ogni tanto fa bene esprimere con parole tranquille l'indignazione che ci assale. Ma dobbiamo ricordare che occorre incanalare la collera come scriveva Paul Eluard.

La Repubblica, 10 febbraio 2013

Ci sono giudizi che non possono essere blandi, perché mantenerli blandi odora di complicità. Una persona che, per farsi votare, promette il condono edilizio totale, è un criminale. Nella fattispecie, è un criminale che odia il proprio Paese, attenta all’integrità del suo paesaggio (o di ciò che ne rimane), incoraggia il disprezzo delle leggi e l’egoismo sociale, catalizza i peggiori istinti degli italiani e la loro attitudine a non prendere sul serio alcun divieto, alcuna norma, perché non esiste divieto o norma che non siano contrattabili e superabili.

L’abusivismo edilizio è un delitto contro il bene comune, la cementificazione in Italia è largamente superiore alla media europea e molto eccedente le necessità abitative. L’Italia sta soffocando nel cemento, nella malaedilizia, nella bruttezza programmatica. Un uomo politico che sventola il condono per invogliare i furbi o i disperati a votarlo è un traditore dello Stato e un corruttore dei cittadini. Che poi lo faccia con totale disinvoltura, come se stesse dicendo una cosa normale, trattandosi di Berlusconi è cosa che non sorprende. Sorprende e angoscia, piuttosto, la rassegnata docilità con la quale la comunità mediatica, con rare eccezioni, registra le sue gravissime parole.

Qui trovate Liberté, la poesia di Paul Eluard

Fotografia di uno stato d'animo, da una giornalista di costume intelligente: il dilemma fra l'orribile padania secessionista e un voto in cui non ci si identifica appieno.

La Repubblica, 10 febbraio 2013 (f.b.)

Un rifugio che li ha liberati dal fastidio, se non addirittura dalla vergogna, di doversi umiliare nel solo centrodestra prima disponibile, quello horror berlusconiano. Ma, al momento di pensare alla Regione, molti si sono spaventati, trovandosi davanti, come candidato presidente montiano, una delle persone più noiose mai arrivate in politica: un Albertini che fu irragionevolmente sindaco di Milano due volte, iniziando una cementificazione della città tra le più allucinanti.

Chiarita la sua impossibilità a vincere queste elezioni, ai montiani più saggi si sono rizzati i capelli in testa all’idea di consegnare la Lombardia a Maroni, cioè di riconsegnarla alla Lega e al Pdl, e a tutto il malaffare, gli scandali, l’ignoranza finanziaria, politica e culturale che l’hanno devastata negli ultimi anni. La prima a rendersene conto è stata la montiana Ilaria Borletti Buitoni, capolista alla Camera per la Lombardia, che ha annunciato il voto disgiunto, cioè la libertà di votare ovviamente per la sua lista alle politiche, abbandonando però, alle Regionali, l’insignificante Albertini, per votare il Centro popolare lombardo di Umberto Ambrosoli: quel tipo di persona perbene, colta, preparata e appassionata che dovrebbe piacere moltissimo a Monti che, purtroppo, ha commesso l’errore tecnico di impantanarsi, non si sa perché, con Albertini.

Meglio, insomma, una sinistra rosa che una destra nera, meglio la novità che contiene speranza, e che tanto auspica Monti, che il vecchiume di cui già si conosce l’imprudenza e l’incapacità, tanto deprecato dal Professore. Nelle case dei lombardi importanti, in quelle non più berlusconiane e non del tutto pidielline, incerte montiane, silenziosamente grilline, Umberto Ambrosoli è il più invitato, quello che fa miglior figura nei brevi discorsi semplici e pacati, tanto da risultare convincente. Nelle strade dei centri cittadini girano signore in età che distribuiscono “solo a chi ha la faccia di uno che lo merita” le povere borse di tela col nome del candidato del Centro popolare lombardo. È tutta qui la propaganda elettorale di Ambrosoli che non ha nessun sostegno finanziario.

In giro c’è stanchezza e paura, le teste rintronate dai bombardamenti senz’anima della telepolitica elettorale. Ma ci sono momenti video essenziali anche per le elezioni regionali; come è accaduto sere fa dalla Gruber, quando la signorile distanza, la sapienza del linguaggio e la preparazione politica della montiana signora Borletti Buitoni, rispetto all’iroso e impacciato Salvini, ha chiarito l’inconciliabilità tra i due mondi. Lo stesso Salvini poi, in un incontro con i medici per parlare di sanità lombarda assieme ai rappresentanti delle altre liste, ha dichiarato che, certo del futuro maroniano della Regione, la salute lombarda sarà sempre più gestita dalla politica, altro che sistema Formigoni. Intanto altri montiani hanno seguito la signora Borletti Buitoni, dichiarandosi per il voto disgiunto a favore di Ambrosoli, confermando così che, anche per chi sostiene un centrodestra, antisinistra ma civile, per il governo, è inaccettabile l’idea di una Lombardia di nuovo prigioniera di un mondo alieno alla sua storia, alla sua cultura e persino alla sua economia, oltre che al suo futuro, come quello rappresentato da Maroni.

Aliena soprattutto al varesotto professor Mario Monti. L’incubo di milioni di lombardi, tra cui i famosi moderati più sensati, è che la Lombardia, presa per poi depredarla ancora una volta, formi quella specie di stato del Nord con Veneto e Piemonte, dominato dalla Lega smoderata e secessionista, che renderebbe ingovernabile l’Italia e quindi anche, come ha spiegato ieri Massimo Cacciari, la Lombardia stessa. Il premier Monti oggi sarà a Milano in difesa del suo Albertini e si immagina sgriderà duramente chi tra i suoi ha osato dichiararsi per Ambrosoli ma, dice la signora Buitoni Borletti, che non sarà in città, «una lista civica deve accettare la pluralità delle scelte».

«7 febbraio 2013

I diritti civili della persona, sacrosanti, non sono ancora diritti alle unioni fra le persone.La svolta della Chiesa di Roma sul riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti civili degli omosessuali è indubbiamente un evento importante. Come ricordava Vito Mancuso su questo quotidiano, mai era successo che un prelato ammettesse che i diritti civili sono eguali per tutti in materia di convivenza. Lo ha fatto monsignor Vincenzo Paglia, il nuovo Presidente per il Pontificio Consiglio per la Famiglia. Il pronunciamento è importante perché centrato sull’eguale rispetto delle persone e la condanna della discriminazione che la criminalizzazione dell’omosessualità genera, come verifichiamo quotidianamente anche nel nostro Paese. Una battaglia di civiltà, sulla quale papa Benedetto XVI si è varie volte pronunciato mettendo in luce le sofferenze che ancora troppi governi infliggono a chi sceglie di vivere una relazione non eterosessuale.

Ma il riconoscimento che chi vive una “amicizia” omosessuale debba godere degli stessi diritti civili degli altri individui non significa riconoscimento della coppia omosessuale. Diritti sacrosanti della persona come tale e non dirittidi veder legalizzata la convivenza con una persona dello stesso sesso: un fatto di giustizia rispetto al quale è uno scandalo che anche Stati democratici avanzati, come il nostro, siano ancora tanto inadempienti. Trovare “soluzioni di diritto privato”, all’interno del “codice civile” per questioni legate al “patrimonio” (trasmissione ereditaria e comunità dei beni), è l’abc dello stato di diritto, soprattutto un coerente intervento in materia di diritto di proprietà. Ma diritti civili della persona, sacrosanti, non sono ancora diritti alle unioni fra le persone. Non si può pretendere che la Chiesa dia la benedizione a tutto ciò che vogliamo e desideriamo; ma sarebbe un errore di valutazione pensare che con questo pronunciamento la Chiesa si sia spinta fino al punto di dare la propria benedizione alle coppie non eterosessuali.
Monsignor Paglia spiega che il no della Chiesa al matrimonio gay è coerente alla legge perché “la Costituzione italiana parla molto chiaramente, ma prima ancora era il diritto romano che stabiliva cosa fosse il matrimonio”. Quindi la legge civile è la prima responsabile di questa discriminazione, non la dottrina religiosa. Si dovrebbe aggiungere che non tutti i codici sono quello italiano e che quindi la posizione della Chiesa è in linea non tanto con la legge civile, ma con la legislazione italiana – ci possono essere soluzioni diverse e tuttavia in perfetta sintonia con il diritto civile come si è visto in Francia. Ma è poi vero che la Costituzione italiana sia così esplicita e univoca nel respingere il matrimo-nio eterosessuale o meglio ancora nel definire il matrimonio?
Leggiamo l’art. 29 della nostra Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”. Come si vede, la Costituzione non specifica l’identità sessuale dei coniugi o la composizione della famiglia. Certo, si potrebbe sostenere che questa non specificità linguistica fosse indice della mentalità dei costituenti, nella quale non rientrava molto probabilmente n’è l’opzione di coppia omosessuale né la fecondazione artificiale o l’adozione da parte di coppie non eterosessuali. Che senso aveva specificare ciò che era ritenuto naturale, normale, ovvio? Una costituzione è viva perché consente alle generazioni che verranno la libertà di farla propria, di interpretarla secondo le esigenze del loro tempo, con i diritti civili come bussola. Il silenzio della nostra Costituzione sulla definizione di matrimonio e di famiglia è un segno della sua saggezza più che una dichiarazione dogmatica su che cosa sia il matrimonio, ed è una garanzia della nostra libertà politica di decisione. La Costituzione ci orienta a interpretare che cosa sia “negoziabile” e assegna alla comunità politica (il governo democratico) l’autorità di dichiarare, nella legge civile, che cosa sia nonnegoziabile. Il tema della laicità (dell’autonomia della legge civile dalle credenze religiose) non sta
tanto nella separazione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, ma nel decidere chi stabilisce questa separazione e come la si negozia. In questa negoziazione consiste la vita democratica. Della quale la Chiesa è parte con la sua opinione e la sua libertà di partecipare alla costruzione degli orientamenti politici come tutte le altre associazioni della società civile.L’interpretazione della Costituzione riflette la lotta politica e le differenze di opinione che operano liberamente nella società. Le istituzioni non sono sigillate o rese impermeabili alla società civile (cosa che è non solo impossibile, ma sarebbe inoltre indesiderabile in una democrazia rappresentativa). L’esito di questo scambio, di questa tensione interpretativa, è la formulazione di leggi o decisioni che siano in sintonia con lo spirito della Costituzione, il quale è molto più elastico di quanto non appaia e, soprattutto, non sepolto nella mente dei costitutenti ma vivo nella nostra. E la definizione del matrimonio è una questione non chiusa come ci suggerisce monsignor Paglia, ma aperta a interpretazioni che non sono per nulla scontate o “non negoziabili”.

Lucida denuncia del carattere violentemente regressivo degli austeri fautori della ”modernizzazione”

La Repubblica, 6 febbraio 2013

I prìncipi che ci governano, il Fondo Monetario, i capi europei che domani si riuniranno per discutere le future spese comuni dell’Unione, dovrebbero fermarsi qualche minuto davanti alla scritta apparsa giorni fa sui muri di Atene: «Non salvateci più!», e meditare sul terribile monito, che suggella un rigetto diffuso e al tempo stesso uno scacco dell’Europa intera. Si fa presto a bollare come populista la rabbia di parte della sinistra, oltre che di certe destre, e a non vedere in essa che arcaismo anti-moderno.

A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la questione sociale, sorta nell’800 dall’industrializzazione, rinasce in tempi di disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento.

Sul Messaggero del 30 gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l’astrattezza di chi immagina «che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa». Non diversa l’accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del neoliberismo, hanno dimenticato che «l’economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone». Questo dice il graffito greco: se è per impoverirci, per usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni presenti, ed è stato accecato dall’esito della guerra fredda.

Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa, la sfida dell’avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di sindacati e socialdemocrazie potenti, l’Unione infine tra Europei negli anni ’50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s’allentò, fino a svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata, bastava ritoccarla appena un po’.

È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni ’70) e riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse alla fine degli anni ’80: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico”. Quando nel 2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l’Europa, economisti e governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente dal comunismo reale travolto dai movimenti nell’89.

È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell’Italia dell’ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica anticomunista che favorì l’irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la fine dell’Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s’inverasse. Se la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: «Ma stiamo scherzando?», quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l’hanno persa anch’essi, nelle accademie e dappertutto? In realtà non è affatto vero che l’hanno persa, e che lo spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa riaffiora la questione sociale – la povertà, la disoccupazione di massa – non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello decerebrato e svuotato dalla finedella guerra fredda). Non è rovinato come il comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre.

È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra. Forse abbiamo un’idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un’idea d’avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia, che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste – con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando le democrazie del continente si unirono. Non a caso viene dal più forte sindacato d’Europa, il Dgb tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per l’Europa, gestito dall’Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni ’30. Dicono che i vecchi rimedi keynesiani –welfare, cura del bene pubblico – accrescono l’irresponsabilità individuale e degli Stati, assuefacendoli all’assistenza.

Paventato è l’azzardo morale: bestia nera per chi oggi esige duro rigore. L’economista Albert Hirschman ha spiegato come le retoriche reazionarie abbiano tentato, dal ’700-800, di bloccare ogni progresso civile o sociale (Retoriche dell’intransigenza, Il Mulino). Fra gli argomenti prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la tesi della perversità, e della messa a repentaglio. Ogni passo avanti (suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. «Questo ucciderà quello», così Victor Hugo narra l’avvento del libro stampato che uccisele cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano irresponsabilità. Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell’unione uomo-donna a soccombere, chissà perché. Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di «capitale umano» e parliamo di persone, forse l’azzardo morale diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli passati.

Addirittura troppo ottimistico ci appare oggi il pessimismo che ieri sembrava troppo cupo per essere espresso. Diceva Norberto Bobbio: La Seconda repubblica minaccia di finire peggio della Prima. Una Cassandra? Ma la figlia di Priamo ci azzeccava sempre.

La Repubblica, 4 febbraio 2013

Ma nei partiti e nel Paese c’è davvero consapevolezza della rposta realmente in gioco? Stiamo avvicinandoci solo a importanti elezioni politiche o dobbiamo anche comprendere perché pesanti macerie si siano aggiunte a quelle, ingloriose e nefaste, della “prima Repubblica”? In realtà non può essere rimosso il nodo di una “seconda Repubblica” giunta sin sull’orlo del baratro, eppure la crisi drammatica di trent’anni di storia sembra affacciarsi nel dibattito politico solo come riferimento generico e quasi rituale. Non sembra aver innescato quei profondissimi ripensamenti che sarebbero necessari per avanzare ai cittadini proposte realmente credibili. In questo sostanziale vuoto sembrano muoversi molte dinamiche e molte “normali anomalie” di una campagna elettorale che ha talora risvolti surreali: una campagna in cui le battute di Maurizio Crozza inquietano qualche leader più degli attacchi degli avversari.

Registriamo così ogni giorno l’orgogliosa sicumera con cui Berlusconi rispolvera “patti con gli italiani” sprofondati da tempo nell’oblio e nel grottesco, o prendiamo atto di quella “concordia discors” fra contrapposte figure della politica-spettacolo che ci è riconsegnata dai talk show di Michele Santoro, ma non riusciamo a capire perché tutto questo possa essere riproposto con un qualche successo. Perché non sia crollato nei sondaggi un leader che ha portato il Paese alla rovina. Perché possano riaffacciarsi le figure più ridicole o più prive di pudore e credito, da Scilipoti a Storace. E perché sia stato così difficile per il centrodestra escludere dalle liste, e in extremis, almeno due o tre dei candidati più impresentabili. Anche sullo sfondo di questo vi sono sia mali cresciuti nel tempo sia un’assuefazione ad essi che non ha trovato anticorpi adeguati. L’indecente immagine di Berlusconi assopito durante la commemorazione della Shoah rischia così di proporci non solo e non tanto il ritratto eloquente di un leader senza principi e senza valori ma anche l’inquietante metafora di una parte del Paese. Dove iniziare allora l’opera di risanamento? Quali forze mettere realmente in gioco per dare avvio ad un lavoro di lunghissimo periodo, ad una Ricostruzione economica, civile, politica ed etica? E quando, se non ora?

Nel modo con cui il centrosinistra si presenta agli italiani questa piena consapevolezza sembra spesso mancare. Sembra lontano quel colpo d’ala che sarebbe necessario per avanzare una proposta radicalmente nuova rispetto al passato: ad esempio rispetto alle sue precedenti prove di governo, terminate entrambe — al di là delle differenze — con pesanti sconfitte elettorali. Sconfitte che lasciarono segni profondissimi, e le cui ragioni non sono certo scomparse dalla memoria dei cittadini: difficile stupirsi, allora, se il Pd fatica ancor oggi a “sfondare” oltre la sua area tradizionale. Quali sono i cardini che differenziano più nettamente e chiaramente il centrosinistra attuale da quello di allora? E quali sono i nuovi, brucianti nodi sul tappeto? Si pensi almeno a quelli su cui possono far leva, strumentalmente, i peggiori populismi e la più nefasta antipolitica: ad es. la “questione Europa”, non affrontabile realmente senza un salto di qualità complessivo, non solo italiano. O le lacerazioni nel rapporto fra politica e cittadini, che avrebbero imposto da tempo risposte di moralizzazione drastiche ed esemplari. Davvero contro le sirene populiste è adeguato anche su questo terreno l’“usato sicuro”? È sufficiente cioè la riproposizione degli aspetti più presentabili della vecchia politica? Non sembra proprio che sia così.

Molte vicende ci ricordano, ad esempio, che nella nostra Repubblica l’occupazione partitica di ogni spazio possibile è male antico e consolidato, largamente precedente alle più recenti degenerazioni e alle indagini giudiziarie, e tale da estendersi anche a chi era stato a lungo escluso dal Palazzo. Lo racconta bene perfino la remota storia del vecchio Pci, coinvolto almeno in parte nella lottizzazione già al suo primo avvicinarsi all’area del potere: all’indomani delle elezioni del 1976 lo testimoniarono bene le nomine alla Rai, al Monte dei Paschi di Siena e in altre banche (questo giornale fu il più deciso nel segnalarlo criticamente). E dopo il 1989, nello sciogliersi e rifondarsi di quel partito, svanì rapidamente nel nulla la proposta di uscire anche unilateralmente dalle realtà più abnormi (ad esempio nella sanità), avanzata addirittura a Congresso dal suo segretario, Achille Occhetto. Alla lunga distanza è facile comprendere quanto sarebbe stato salutare invece accentuare ulteriormente una drastica distanza dalle pratiche e dalle derive di un sistema in sfacelo: pochissime voci, allora, continuarono a chiederlo.

Ancora alla vigilia di Tangentopoli, del resto, Norberto Bobbio scriveva: “Se questa prima repubblica (…) è alla fine, finisce male, malissimo. Per chi come me appartiene alla generazione che ha assistito piena di speranza alla sua nascita, questa considerazione è molto amara. La gestazione della seconda repubblica, se dovrà nascere, sarà lunga. Forse non avrò neppur il tempo di vederne la fine. Ma poiché, se nascerà, nascerà con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima”. Era il 1991, ma Bobbio decise allora di non pubblicare quell’articolo: gli sembrava troppo pessimistico. Più di vent’anni dopo esso ci appare profetico, e attuale.

«. La Repubblica, 3 febbraio 2013

Come aiutarci nel fronteggiare l’indigenza? La fantasia non ha limiti. Un anonimo filantropo milanese che agisce tramite la Fondazione Condividere, ha elargito nei giorni scorsi una donazione in soccorso ai dipendenti della famosa scuola di Adro: dieci di loro, non certo benestanti, avevano stabilito di autotassarsi per 30 euro al mese pur di non escludere dalla refezione scolastica quindici bambini di famiglie che non ce la fanno a pagare la mensa. Il tutto per via del solito sindaco Lancini, spendaccione quando si trattava di ornare la scuola con simboli padani, ma ostinato nel rifiutare un contributo pubblico a famiglie di immigrati (poco gli importa che fra i morosi ci siano anche degli italiani): a lui piace insinuare il dubbio che si tratti di finti poveri. Ora i pasti saranno garantiti per tutti.

Ecco un’applicazione concreta del principio (biblico? laico? poco importa) di fraternità. Prevale la fratellanza là dove una guerra tra poveri avrebbe potuto dar luogo a un fratricidio. Cooperazione spontanea, mutuo soccorso, spirito di comunità.

Sono faccende di cui la politica tende a disinteressarsi, impegnata com’è nella contesa per la leadership. A sinistra ci sarà chi critica il meccanismo di una filantropia che funge da tappabuchi al doveroso intervento dello Stato. A destra si accontenterebbero di defiscalizzare la beneficenza privata. Ma in mezzo c’è la società civile, c’è il bisogno quotidiano di rispondere alla minaccia concreta della povertà sempre più difficile da ignorare. Siamo sicuri che questa società civile, immersa in una crisi che si prolunga negli anni, non sia in grado di generare un sistema economico capace di garantire fratellanza, e non solo concorrenza?

Trovo suggestiva ma anche lungimirante, in proposito, la ricerca in cui s’è impegnato l’economista Luigino Bruni, editorialista di “Avvenire”, studioso della cooperazione nonché animatore del Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich. Non occorre essere cattolici per seguire il filo del ragionamento storico esposto da Bruni nel suo originalissimo libro “Le prime radici. La via italiana alla cooperazione e al mercato” (Il Margine). Là dove egli ci mostra come dal Medioevo dei liberi comuni e del monachesimo, quando la nozione di cittadinanza si estese ai mestieri, alle arti e al commercio, per riproporsi dopo la controriforma nell’illuminismo e nel Risorgimento, la società civile in Italia ha trovato le sue basi nell’impresa cooperativa, e poi nel credito cooperativo e nelle cooperative di consumo. Una tradizione che ancor oggi è alla base della stragrande maggioranza dell’economia del paese, se è vero che il 97% delle imprese ha meno di quindici dipendenti, e se aggiungiamo l’8% dei lavoratori nelle cooperative e il 15% nella pubblica amministrazione. Bruni esalta questo modello in cui l’impresa per vocazione si fa carico anche di problemi sociali e familiari che non trovano posto nel mero “business is business”. Dove, cioè, la convenienza economica s’intreccia naturalmente con aspirazioni umanistiche, poco importa se di natura culturale e/o religiosa.

Perché “il confine tra società, famiglia, comunità e impresa da noi è sempre stato poroso e sfumato”.

Di fronte alla crisi del capitalismo individualistico-finanziario che oggi tende a retrocedere in una difesa tipicamente feudale delle sue rendite, pur di contrastare la condivisione della ricchezza, bisogna riprendere sul serio i capisaldi dell’economia sociale. Per scoprire magari il filo che congiunge i Monti di Pietà di origine francescana alle Casse rurali ideate a fine Ottocento da Leo Wollenborg, fino alle cooperative di mestiere del socialismo nascente. Per ritrovarsi oggi nel nuovo mutualismo dei Gruppi di acquisto solidale, delle Banche del tempo, del co-housing e del co-working.

Siamo proprio sicuri che si tratti delle ingenuità di un sognatore, devoto a Mazzini e al suo ideale di riunione nelle stesse mani di capitale e lavoro? Ci andrei piano, prima di liquidarle come tali. L’alternativa tra fratellanza e fratricidio si ripropone ogni giorno con la perdita di posti di lavoro e di quote di reddito, spingendo fasce crescenti di popolazione ai margini del mercato. Per loro l’associazione è la risposta, ben più che la concorrenza. E così torna d’attualità la critica dell’economia ridotta a matematica in cui si distinse il teorico italiano della cooperazione, Achille Loria.

Riuscirà la politica a nobilitarsi raccogliendo l’impulso spontaneo al mutuo soccorso e all’impresa solidale che va diffondendosi nei luoghi della sofferenza sociale? Le resistenze culturali sono ardue da superare nelle burocrazie dei partiti e dei sindacati. Perfino le strutture ufficiali del movimento cooperativo negli ultimi anni hanno mutuato la mentalità e i metodi del management finanziario. Eppure non ci vorrebbe molto per aprire tante sedi ridotte oggi a funzioni impiegatizie, trasformandole in punti di riferimento per i bisognosi.

Nonostante il permanere di diffidenze e pregiudizi, qualcosa si muove. Mi è successo di recente alla Camera del Lavoro di Milano di suscitare le critiche di un’assemblea di esodati cui suggerivo di far tesoro del loro tempo forzatamente libero, dopo che la protesta li ha riuniti. Per poi scoprire che già lo “sportello esodati” della Cgil fornisce supporto psicologico e consulenze pratiche a un numero crescente di miei coetanei. Basterebbe un passo in più per organizzare il mutualismo, nell’assistenza così come nell’impresa sociale su base cooperativa. Succede fra i giovani in cerca di lavoro, nelle proprietà confiscate alla mafia, fra gli sfrattati, fra le partite Iva del precariato. Ma succede senza che una visione politica organizzi in speranza collettiva questa via d’uscita dalla crisi. Quasi che il rancore sociale e l’isolamento personale fossero un destino ineluttabile.

In altre epoche di penuria la società civile ha saputo condizionare virtuosamente il mercato, la cui logica non deve essere per forza spietata. Per riuscirvi di nuovo avrebbe bisogno della sensibilità di una politica che non riduca i diritti di cittadinanza al solo diritto di voto. Le persone, le famiglie, le comunità si industriano nella ricerca dell’aiuto reciproco, qui e ora. La politica invece è salitatroppo in alto.

«La banca senese ha messo in pratica un modello di affari identico a quello delle maggiori banche europee. È un modello dissennato, che è all’origine della crisi economica in corso dal 2007 e ha portato al dissesto decine di banche in quasi tutti i paesi.

La Repubblica, 2 febbraio 2013

LA VICENDA del Monte dei Paschi si può così riassumere: labanca senese ha messo in pratica un modello di affari identico a quello dellemaggiori banche europee. È un modello dissennato, che è all’origine della crisieconomica in corso dal 2007 e ha portato al dissesto decine di banche in quasitutti i paesi. Mps ha potuto applicarlo fino a ieri perché una seria riformadella finanza Ue non ha compiuto finora alcun passo avanti.

Ma parlare dei guai di Mps non dovrebbe condurre a ignorare,come sta accadendo, che all’origine di essi vi sono le storture dell’interosistema finanziario europeo.
Un posto di riguardoin esso occupa il sistema bancario ombra. È formato da enti finanziari che nonsono banche ma operano come banche: prestano denaro, emettono titoli e linegoziano, accolgono depositi. Si tratta di fondi monetari, fondi speculativi,veicoli di investimento speciale o strutturato (Siv). Nel 2007 gli attivi delsistema ombra europeo valevano circa 20 trilioni di euro, più o meno quanto gliattivi in bilancio. Stando a un recente rapporto del Financial Stability Board,nel 2011 essi erano saliti a 25 trilioni. Come si legge in un rapportopresentato al Congresso Usa fin dal giugno 2008, il carattere che giustifical’espressione “sistema ombra” è l’assenza di regolazione e di sorveglianza. QuandoMps acquistò anni fa da un Siv della Dresdner Bank un derivato per 400 milioninon fece altro che avvalersi del sistema bancario ombra per finanziarsi. Sidirà: ma li ha pur presi da una banca. Errore: un Siv è creato da una bancacome una società di scopo giuridicamente autonoma. In quasi tutti i casi non hauna sede fisica né personale; però ha facoltà di trasformare i crediti dellabanca sponsor in titoli negoziabili, pagandoli con il ricavato di titoli abreve termine che esso emette. È il processo chiamato da noi cartolarizzazione.Tra il 2000 e il 2008, tramite i loro veicoli – che possono essere decine perciascuna banca - le banche europee hanno effettuato un volume dicartolarizzazioni pari a 3,7 trilioni di euro. Italia e Germania effettuanociascuna circa il 10 per cento delle transazioni, corrispondenti a 347 miliardidi euro per la prima, 326 per la seconda. Il tutto all’ombra, cioè al di fuoridella portata dei regolatori e dei sorveglianti.
Una riformafinanziaria della Ue dovrebbe quindi mettere in primo piano una drasticariduzione del sistema bancario ombra e un severo controllo di quel che resta,mentre governi ed esperti dovrebbero battersi per avviare la riforma stessa,piuttosto che cercare ogni volta in vicende locali la chiave del dissesto diquesta o quella banca. Se qualcuno, per dire, si mettesse a studiare le originilocali del dissesto di gran parte delle banche regionali tedesche, alcunegrandi come Mps, dovrebbe lavorare decenni. Mentre la causa è nuda e cruda,come nel caso Mps: hanno fatto ciò che le leggi permettevano di fare, grazie atrent’anni di deregolazione della finanza.
Il caso Mps offre altre due utili indicazioni per unariforma efficace del sistema finanziario. In primo luogo va notato che iltitolo che ha comprato e utilizzato per operazioni di rifinanziamento è ilpeggio che l’ingegneria finanziaria abbia inventato. Si è trattato infatti, aquanto si legge, di una obbligazione avente per collaterale un debito (acronimoCdo), ma al quadrato. Una Cdo, anche semplice, è di per sé un oggettopericoloso. Infatti può contenere fino a un centinaio di altri titoliobbligazionari sostenuti da un’ipoteca, ciascuno dei quali può contenere, a suavolta, gran numero di titoli di debito. Ciò spiega sia il costo di una Cdo, ingenere superiore al miliardo (per cui viene venduta quasi soltanto a fette),sia l’impossibilità di stabilire il rischio che contiene se non mediantecomplicatissimi modelli matematici, che quasi nessuno è in grado di capire:inclusi, parrebbe, i dirigenti di Mps. Ora, si noti bene, una Cdo al quadrato èformata da fette o trance di altre Cdo. Il che significa, al confronto, chetenere un barile di nitroglicerina in tinello non è più pericoloso di unabottiglia di minerale.
Ci sono poi i guai in cui si è cacciata Mps conl’acquisizione di Antonveneta nel 2007. Sembra siano stati, i suoi dirigenti,piuttosto sprovveduti. Ma fin dagli anni ’90 la corsa all’ingigantimento dellebanche è stata favorita ed esaltata come un segno di modernizzazione dalleorganizzazioni internazionali, dagli esperti, dai governi di tutta la Ue. Comerisultato il numero delle banche europee è assai diminuito, mentre è aumentatoil peso economico delle più grandi, senza che ciò abbia minimamente giovatoall’econo-mia reale. Se nel 2007 erano troppo grandi per lasciarle fallire,oggi sono troppo grandi per evitare che la Bce presti loro 1.100 miliardi all’1per cento di interesse – di cui oltre un quarto sono andati a banche italiane –come ha fatto tra il novembre 2011 e il febbraio 2012. Un monte di denaro chein misura minima è affluito all’economia reale sotto forma di crediti dellepiccole e medie imprese: per la massima parte è stato utilizzato dalle bancheper rifinanziarsi e ricapitalizzarsi. Un segno, ve ne fosse mai bisogno, cheuna riforma del sistema finanziario europeo dovrebbe pure imporre un limitealla grandezza delle banche.
In sostanza, la vicenda Mps, nata dall’applicazioneletterale di un modello d’affari comune a tutte le banche europee, che ne hagià condotte decine di altre al dissesto, sembra un’ottima occasione perevitare non solo di prendere posizione, ma perfino di parlare di riformadell’eurofinanza. Eppure c’è un testo da cui si potrebbe partire per discuteredi quella che anche sul piano politico, non solo su quello economico, è la piùimportante riforma di cui l’Italia e la Ue avrebbero bisogno. Magari percriticarlo. Mi rifersico al Liikanen Report - dal nome del presidente delgruppo che l’ha redatto – relativo alla riforma della struttura del sistemabancario Ue trasmesso alla Commissione a ottobre 2012, è nato male. Infattiundici su dodici membri del gruppo erano dirigenti di istituzioni finanziarie.Sarebbe come nominare un gruppo di architetti per giudicare i progetti diciascuno di loro. Tuttavia qualcosa di solido su cui discutere nel rapportoc’è. Tra i problemi del sistema bancario europeo esso indica infattil’eccessiva assunzione di rischio; l’aumento di complessità, volume e portatache rende difficile il controllo da parte dei dirigenti; l’aumento eccessivodell’effetto di leva finanziaria e la limitata capacità di assorbire leperdite; l’eccessiva fiducia riposta sui modelli interni di gestione delrischio e sulla “disciplina dei mercati”. È da un confronto risoluto eravvicinato con simili questioni che dipende l’avvio a soluzione della crisieuropea, dinanzi ai costi sociali e umani che essa infligge a milioni dipersone. Ed è questo che l’Italia dovrebbe pretendere da Bruxelles. Inalternativa, possiamo continuare a discutere se il portone della Mps debbaessere restaurato o no.

Ragionare sulle parole non significa praticare speculazioni astratte. Ecco alcuni esempi dal linguaggio politico corrente, a cominciare dall'agenda Monti. Torniamo invece alle parole della Costituzione.

La Repubblica, 28 gennaio 2013

Bisogna essere capaci di guardare oltre le nebbie delle varie “agende” politiche in circolazione; oltre il continuo degradarsi dei partiti in raggruppamenti personali; oltre quello che giustamente Massimo Giannini ha chiamato il “dissennato referendum sull’Imu”; oltre i vorticosi tour televisivi dei candidati. Bisogna farlo, perché all’indomani delle elezioni ci troveremo di fronte a una folla di problemi oggi ignorati, e che sarà vano pensar di cancellare tirando fuori di tasca un fazzoletto da strofinare su qualche poltrona. E soprattutto perché siamo immersi in mutamenti strutturali che esigono quella forte cultura politica e istituzionale finora mancata.

Le parole, per cominciare. Negli ultimi mesi sono stati in gran voga i riferimenti all’“equità”, presentata come la via regia per riequilibrare le durezze imposte da una attenzione rivolta unicamente all’economia, anzi a un mercato “naturalizzato”, portatore di regole presentate come inviolabili. Ma equità è termine ambiguo, che occulta o vuol rendere impronunciabili proprio le parole che indicano quali siano i principi oggi davvero ineludibili – eguaglianza e dignità. I nostri, infatti, sono i tempi delle diseguaglianze drammatiche e crescenti, che tra l’altro, come è stato più volte sottolineato, sono pure fonte di inefficienza economica. E la dignità ci parla di una persona che esige integrale rispetto, che non può essere abbandonata al turbinio delle merci.Confrontata con queste altre parole, l’equità finisce con l’apparire meno esigente, accomodante, richiama quel “versare una goccia d’olio sociale” che nell’Ottocento veniva indicato come lo stratagemma per rendere accettabili scelte unilaterali e impopolari. In un contesto così costruito, l’eguaglianza deve farsi “ragionevole”, diviene negoziabile, e la dignità può essere sospesa, evocata solo in casi estremi.
Queste non sono speculazioni astratte. Se si dà un’occhiata alla più blasonata tra le agende, quella che porta il nome del presidente del Consiglio, ci si imbatte nel riferimento a “un reddito di sostentamento minimo”, formula anch’essa portatrice di grande ambiguità. Essa, infatti, può riferirsi ad una sorta di reddito di “sopravvivenza”, a un grado zero dell’esistere che considera la persona solo nella dimensione del biologico, tant’è che viene agganciata all’esperienza non proprio felice della social card,dunque alla condizione di povertà. Nessuno, di certo, può trascurare l’importanza di misure contro la povertà in tempi in cui questa aggredisce fasce sempre piùlarghe della popolazione. Ma, considerata in sé, questa è una strategia che non corrisponde alle indicazioni costituzionali e che elude il tema dell’integrale rispetto della persona in un mondo segnato da mutamenti strutturali profondi.
L’articolo 36 della Costituzione, infatti, parla di “un’esistenza libera e dignitosa” da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia. E l’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non si riferisce soltanto alla povertà, ma pure all’esclusione sociale, e afferma anch’esso il dovere di “garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. Se la politica vuole ritrovare la sua nobiltà, e farsi pienamente politica “costituzionale”, deve seguire il cammino così nitidamente indicato, che ha come obiettivo il reddito di cittadinanza. Ripartire dal lavoro, come giustamente si torna a dire, significa proprio questo, sì che appare sorprendente il modo in cui è stata liquidata da quasi tutti i partiti e i sindacati la suggestione appena venuta da Jean-Claude Juncker che, pur parlando di salario minimo garantito, sostanzialmente si riferiva proprio alla prospettiva appena indicata. Possibile che non ci si renda conto del fatto che lo storico sistema degli ammortizzatori sociali, comunque bisognoso di revisione, nasce in un tempo in cui ad essi veniva affidato il compito di governare situazioni ritenute transitorie, mentre ora il rapporto reddito-lavoro-vita deve fronteggiare una situazione strutturalmente mutata? Possibile che non si avverta come il potere contrattuale del sindacato non sia intaccato dalla previsione ad ampio raggio di un reddito che rende la persona più libera, sottratta ai ricatti legati al bisogno?
La prospettiva non è quella del tutto e subito, ma bisogna avere chiara la direzione verso la quale si va. Proprio partendo dalla condizione materiale delle persone, oggi dovremmo avere consapevolezza piena che l’esclusione rende fragile la coesione sociale e mette sempre più a rischio la democrazia, mostrando una volta di più la lungimiranza dei costituenti che, nell’articolo 1, vollero la Repubblica democratica fondata sul lavoro. Siamo dunque di fronte ad una situazione che chiama in causa la cittadinanza e il modo in cui questa si costituisce. Sono proprio i diritti di cittadinanza l’asse intorno al quale, nei luoghi più diversi, si discute, non solo per affrontare il tema dei migranti nel mondo globale. La cittadinanza oggi significa un fascio di diritti che accompagnano la persona quale che sia il luogo del mondo in cui si trova, in primo luogo la salute e l’istruzione, il lavoro e l’abitazione. Diritti ai quali bisogna guardare in una logica egualitaria, per evitare il ritorno della cittadinanza censitaria, respingendo le tentazioni di privatizzazioni dirette o indirette. Diritti che rinviano ai beni necessari per la loro attuazione, dall’acqua alla conoscenza, e che per questo sono detti “comuni”.
Di beni comuni si parla con tratti fortemente retorici nella campagna elettorale, mentre nella realtà d’ogni giorno si opera nella direzione opposta. L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha approvato un nuovo metodo tariffario per l’acqua che viola l’esito del secondo referendum sull’acqua, reintroducendo sotto mentite spoglie quella remunerazione del 7% del capitale che il referendum aveva cancellato. Solo i Comuni di Napoli e Reggio Emilia hanno adottato l’indicazione referendaria riguardante la gestione pubblica del servizio idrico, mentre il sindaco grillino di Parma ha annunciato di voler vendere le quote di proprietà pubblica dei servizi locali. Nella nuova legislatura, dunque, il vero tema sarà quello di una riforma del regime della proprietà pubblica, non la ridicola giaculatoria delle “dismissioni” di beni pubblici come bacchetta magica per risolvere i problemi del debito.
Questa è una vera riforma istituzionale. E sempre la vicenda dei referendum sull’acqua, che hanno visto la più larga partecipazione dei cittadini con i 27 milioni di sì, indica la via di una riforma costituzionale che non ripercorra le vie ambigue della “governabilità”, ignorando il tema degli equilibri democratici. Se si vuole recuperare concretamente la fiducia dei cittadini, si devono quasi reinventare le istituzioni della partecipazione, a cominciare dal referendum e dall’iniziativa legislativa popolare, nella prospettiva di un ripensamento della rappresentanza. Se non si vogliono ancor più ridurre i diritti sociali, è indispensabile introdurre correttivi alla brutale subordinazione alle compatibilità economiche perseguita con le ultime modifiche alla Costituzione.
Negli anni passati, il sistema politico istituzionale è stato sconvolto in mille modi, a cominciare dalle manipolazioni della legge elettorale, e ha portato a una drammatica riduzione della tutela dei diritti. Questo è il mutamento strutturale che dovrà essere affrontato, e si dovrà cominciare proprio dalla ricostruzione dell’insieme degli equilibri e delle garanzie democratiche.

Ci aveva già provato Giuseppe Di Vittorio nel 1947. I problemi sono: quali lavori, per quali prodotti e quali consumi, e investendo quali altre risorse. Dietro a questi, il problema più grande: che cos'è il lavoro? Il manifesto, 27 gennaio 2013

Susanna Camusso tira le fila della Conferenza di Programma della Cgil, e rilancia l'idea di un «Piano del Lavoro» per il Paese. «Non è un piano irrealistico, o sovietico, come ci accusa, non capisco poi se sia un insulto o meno, Raffaele Bonanni - si infervora dal palco - Ma è un piano che si può realizzare. Faticoso, certo, non siamo qui a dispensare illusioni. Però le risorse si possono trovare». Basta la volontà politica, e soprattutto, bisognerebbe introdurre una patrimoniale vera. Scelta netta, che per ora neanche il Pd, partito di riferimento di gran parte della Cgil, si sente di proporre. «La parola tasse sembra far paura - incalza la segretaria della Cgil - Ma noi non proponiamo nuove tasse, piuttosto una progressività vera, aleggerendo finalmente lavoratori e pensionati».

«Pensiamo che la patrimoniale serva a questo Paese, serve discuterne e serve farne una vera. Anche se capiamo la difficoltà di parlarne in campagna elettorale». Una patrimoniale sulle grandi ricchezze, idea che da anni la Cgil porta avanti, per rimodulare - attraverso le aliquote o le detrazioni - l'imposizione che grava sui redditi medio-bassi. «Noi riteniamo che si debbano abbassare le tasse per il lavoro, per le pensioni, e anche per le imprese - spiega Camusso - Però raccontiamo le cose come stanno: per due volte si è ridotto il cuneo fiscale, e per due volte ci hanno guadagnato solo le imprese. È arrivato il momento, adesso, di stabilire chi debba avere la priorità».

Ma il piano del Lavoro non è solo un riequilibrio fiscale, molte risorse verranno reinvestite nella creazione di lavoro, di occupazione, soprattutto per i giovani. Ancora, Camusso ha ribadito altre due priorità che il prossimo governo dovrà affrontare: «La cancellazione dell'articolo 8, che ancora Sacconi propaganda come libertà di contrattazione: e invece non è altro che la negazione del diritto di essere tutelati dai contratti e perfino dalle leggi, grazie a un meccanismo perverso di deroghe». E, ugualmente, la cancellazione dell'articolo 9 (come l'8, appartiene all'ultima finanziaria targata Berlusconi): «Perché è incivile, in quanto crea dei ghetti per disabili nei posti di lavoro».

La Cgil vuole riportare al centro la contrattazione, e non solo nel pubblico impiego. Resta aperto il nodo sul primo/secondo livello, che si dovrebbe dirimere «tornando all'accordo del 28 giugno 2011». Ma anche con riferimento ai precari, e qui parla a tutti quelli che propongono un salario minimo definito dalla legge, tra gli altri lo stesso Pd e il segretario Fiom Maurizio Landini (quest'ultimo dallo stesso palco del Palalottomatica, due giorni fa). «Io credo che il contratto debba restare centrale, e tanto è più forte se include tutti - dice Camusso - Se tanti precari non lo vedono come punto di riferimento, sta a noi batterci perché possano finalmente vederlo come qualcosa che riguarda anche loro. Come il diritto allo sciopero, come la possibilità di elaborare una piattaforma».

Insomma, il contratto come «magnete» attira-precari, che potrebbe evitare l'applicazione tout-court di un salario minimo deciso dalla politica (che invece hanno quasi tutti i paesi europei): salvaguardando così la centralità, su questo tema, del sindacato.

Ancora, la Cgil chiede «una legge sulla rappresentanza sindacale»: «Perché poter votare nei posti di lavoro è diritto di cittadinanza e di democrazia». Quanto alla questione del Monte dei Paschi di Siena, che ha visto il Pd sotto il fuoco di fila di quasi tutti gli altri partiti, Camusso afferma che la Cgil ha una sua idea, «sulla trasparenza e il sistema di governance delle banche, che sono purtroppo ancora piene di derivati e titoli tossici». E ritiene che «il privato e la gestione manageriale debbano essere del tutto distinti, in quanto a decisioni e responsabilità, dalla gestione pubblica del territorio».

Un ringraziamento ai politici che hanno partecipato alla Conferenza: «Ci hanno rispettato, non venendo qui a fare un comizio nè a dire che le nostre proposte vanno tutte bene, ma a porci anche domande e dubbi». Infine - ma in realtà la segretaria lo aveva posto all'inizio del suo discorso - il riferimento alla giornata della memoria dell'Olocausto. Con un appello importante al governo: «Chiediamoci se non sia il caso di applicare quella legge che impedisce la ricostruzione di forze fasciste nel nostro Paese. Mi riferisco a quella organizzazione che stava pianificando in Campania lo stupro di una ragazza ebrea. Sarebbe un bel segno se il 24 e il 25 febbraio non ci fosse alcuna lista fascista a cui dare il voto». Chiaro il riferimento a Casa Pound.

Nota bene

A proposito di lavoro, su eddyburg quardate anche i link elencati qui, nell'archivio di eddyburg.

«l’Italia resta un paese in cui non sono bastati ancora i ripetuti appelli del Presidente della Repubblica per approvare una legge che naturalizzi i figli di stranieri nati sul suo territorio. Sono ancora forti le barriere culturali da abbattere, pur nell’epoca delle grandi migrazioni e del superamento degli Stati-nazione, se si vuole impedire che i dodici milioni di apolidi senza diritti si moltiplichino a dismisura».

La Repubblica, 25 gennaio 2013
CI FU un tempo in cui, tra ragazzi, faceva colpo: «Davvero sei apolide? Cittadino del mondo, piacerebbe anche a me!». In Italia c’ero arrivato che non avevo ancora tre anni, grazie a un passaporto panamense che mio padre si era procurato in Libano chissà come. Naturalmente quel documento diventò presto carta straccia, e dovetti pazientare la bellezza di trent’anni prima di conquistare l’agognata cittadinanza italiana per via matrimoniale. Nel frattempo avevo studiato e trovato lavoro, pagavo le tasse e mi ero sottoposto alla visita di leva militare (riformato), ma sempre relegato nel limbo che i francesi definiscono con efficace brutalità: apatride. Per la verità anche oggi che mi sento fino in fondo italiano, e guai a chi ne dubita, rivendico il diritto di custodire altre patrie nel mio cuore: Israele e il Libano, la Galizia ebraica cancellata e ripartita fraPolonia e Ucraina.Naturalmente quel documento diventò presto carta straccia, e dovetti pazientare la bellezza di trent’anni prima di conquistare l’agognata cittadinanza italiana per via matrimoniale. Nel frattempo avevo studiato e trovato lavoro, pagavo le tasse e mi ero sottoposto alla visita di leva militare (riformato), ma sempre relegato nel limbo che i francesi definiscono con efficace brutalità:apatride,cioè senza patria. Per la verità anche oggi che mi sento fino in fondo italiano, e guai a chi ne dubita, rivendico il diritto di custodire altre patrie nel mio cuore: Israele e il Libano, la Galizia ebraica cancellata e ripartita fra Polonia e Ucraina… Se sulla copertina del mio prezioso passaporto italiano non comparisse anche la scritta Unione Europea, la vivrei come una mutilazione di legittime identità plurali.

È la storia da nulla di un apolide fortunato, quella che ho vissuto. Niente al confronto dell’odissea recata in sorte dai capricci della storia a dodici milioni di persone nel mondo contemporaneo. Basta davvero poco per ritrovarsi sospesi nel nulla, privi dei diritti di cittadinanza, su questa terra. Basterebbe considerare le vaste regioni europee e del Sud Mediterraneo che nel corso dell’ultimo secolo hanno cambiato cinque o sei volte sovranità statale. I miei nonni nacquero sudditi dell’impero austro-ungarico in una terra divenuta successivamente polacca, sovietica, annessa al Terzo Reich germanico, di nuovo sovietica, ora ucraina. Fate un po’ i conti, ci sono vecchi che le hanno passate tutte.

Ma senza andare troppo lontano pensate ai figli dei profughi delle guerre balcaniche fuggiti in Italia. Nati nella nostra penisola, migliaia di loro hanno scoperto che il passaporto jugoslavo dei loro genitori era diventato inservibile: né le nuove entità statali bosniache, serbe, slovene, croate erano disposte a riconoscerli come titolari di un’origine certa. Così l’Italia s’è riempita di nuovi apolidi e li ha lasciati marcire a bagnomaria, spesso privi anche solo di residenza, non parliamo di certificato di nascita, magari perché alloggiati nei centri di raccolta dove nel frattempo ciabituavamo a chiamarli nomadi. Come se il nomadismo fosse una loro scelta. Sono cresciuti senza documenti e pieni di rabbia, letteralmente spaesati. In Slovenia è toccato così a 25mila cittadini di essere depennati così dall’anagrafe. Li chiamano, semplicemente, i “cancellati”. Una parola che non lascia margine a equivoci. Un sopruso che per fortuna la Corte europea per i diritti umani ha dichiarato illegale.
Se poi allarghiamo lo sguardo ai territori più lontani divenuti teatro di guerre etniche e tribali, dal Bangladesh alla Birmania, dal Kuwait all’intero continente africano, la spoliazione per decreto della cittadinanza si rivela essere prassi odiosa ma sistematica. Riguarda milioni e milioni di persone: gli “scarti umani” rinchiusi nei campi profughi, ma anche popolazioni residenti considerate intruse dai dominatori. Si tratta magari di luoghi in cui il concetto moderno di nazionalità e cittadinanza è sempre rimasto sfumato, sicché l’apolidia s’impone come una nuova gabbia incomprensibile. Lungi dal definire la possibilità affascinante di essere transazionali, cittadini del mondo, titolari di origini e identità molteplici, condanna i malcapitati all’antica condizione di paria. Privi di diritti elementari come l’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari, alla proprietà. Vietato contrarre matrimonio, registrare la nascita di un figlio, viaggiare e, tanto meno, votare.

Tutto questo io non l’ho vissuto: l’inclusione nel Belpaese che m’è toccato in sorte, sia pure con estremo ritardo, alla fine ha prevalso. Ma l’Italia resta un paese in cui non sono bastati ancora i ripetuti appelli del Presidente della Repubblica per approvare una legge che naturalizzi i figli di stranieri nati sul suo territorio. Perfino l’attuale ministro degli Interni s’è opposta, sostenendo in tv che altrimenti diventeremmo la meta facile di troppe donne incinte! A dimostrazione che sono ancora forti le barriere culturali da abbattere, pur nell’epoca delle grandi migrazioni e del superamento degli Stati-nazione, se si vuole impedire che i dodici milioni di apolidi senza diritti si moltiplichino a dismisura. Mentre i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini del mondo e — ignari — provano tuttora una certa invidia per chi può fregiarsi del titolo di apolide

«La Repubblica, 23 gennaio 2013
Impressionante il mutismo che regna, alla vigilia delle elezioni in Italia e Germania, su un tema decisivo come la guerra. Non se ne parla, perché i conflitti avvengono altrove. Eppure la guerra da tempo ci è entrata nelle ossa. Non è condotta dall’Europa, priva di un comune governo politico, ma è ormai parte del suo essere nel mondo. Se alla sterminata guerra anti-terrorismo aggiungiamo i conflitti balcanici di fine ’900, sono quasi 14 anni che gli Europei partecipano stabilmente a operazioni belliche. All’inizio se ne discuteva con vigore: sono guerre necessarie oppure no? E se no, perché le combattiamo? Sono davvero umanitarie, o distruttive? E qual è il bilancio dell’offensiva globale anti-terrore: lo sta diminuendo o aumentando? I politici tacciono, e nessuno Stato europeo si chiede cosa sia quest’Unione che non ha nulla da dire in materia, concentrata com’è sulla moneta. L’Europa è entrata in una nuova era di guerre neo-coloniali con gli occhi bendati, camminando nella nebbia.

Le guerre – spesso sanguinose, di rado proficue – non sono mai chiamate per nome. Avanzano mascherate, invariabilmente imbellite: stabilizzeranno Stati fatiscenti, li democratizzeranno, e soprattutto saranno brevi, non costose. Tutte cose non vere, nascoste dalla strategia del mutismo. A volte le operazioni sono decise a Washington; altre volte, come in Libia, son combattute da più Stati europei. Quella iniziata il 12 gennaio in Mali è condotta dalla Francia di Hollande, con un appoggio debole di soldati africani e con il consenso – ex post – degli alleati europei. Nessun coordinamento l’ha preceduta, in violazione del Trattato di Lisbona che ci unisce (art. 32, 347). Quasi automaticamente siamo gettati nelle guerre, come si aprono e chiudono le palpebre. La mente segue, arrancando. C’è perfino chi pomposamente si chiama Alto rappresentante per la politica estera europea (parliamo di Katherine Ashton: quando sarà sostituita da una personalità meno inutile?) e ringrazia la Francia ma subito precisa che Parigi dovrà fare da sé, «mancando una forza militare europea». Fotografa l’esistente, è vero, ma occupando una carica importante potrebbe pensare un po’ oltre.

Molte cose che leggiamo sulle guerre sono fuorvianti: simili a bollettini militari, non sono discutibili nella loro perentoria frammentarietà. Invitano non a meditare l’evento ma a constatarlo supinamente, e a considerare i singoli interventi come schegge, senza rapporti fra loro. Anche in guerra prevalgono esperti improvvisati e tecnici. L’interventismo sta divenendo un habitus europeo, copiato dall’americano, ma di questa trasformazione non vien detta lastoria lunga, che connetta le schegge e rischiari l’insieme. Manca un pensare lungo e anche ampio, che definisca chi siamo in Africa, Afghanistan, Golfo Persico. Che paragoni il nostro pensare a quello di altri paesi. Che studi la politica cinese in Africa, così attiva e diversa: incentrata sugli investimenti, quando la nostra è fissa sul militare. Scarseggia una veduta cosmopolita sul nostro agire nel mondo e su come esso ci cambia.

Una vista ampia e lunga dovrebbe consentire di fare un bilancio freddo, infine, di conflitti privi di obiettivi chiari, di limiti spaziali, di tempo: che hanno dilatato l’Islam armato anziché contenerlo, che dall’Afghanistan s’estendono ora al Sahara-Sahel. Che nulla apprendono da errori passati, sistematicamente taciuti. I nobili aggettivi con cui agghindiamo l’albero delle guerre (umanitarie, democratiche) non bastano a celare gli esiti calamitosi: gli interventi creano non ordine ma caos, non Stati forti ma ancora più fallimentari. Compiuta l’opera i paesi vengono abbandonati a se stessi, non senza aver suscitato disillusione profonda nei popoli assistiti.

Poi si passa a nuovi fronti, come se la storia delle guerre fosse un safari turistico a caccia di esotici bottini. Il Mali è un caso esemplare di guerra necessaria e umanitaria. In questo decennio l’aggettivo umanitario s’è imbruttito, ha perso l’innocenza, e annebbia la storia lunga: le politiche non fatte, le occasioni mancate, le catene di incoerenze. Era necessario intervenire per fermare il genocidio in Ruanda, nel ’94, e non si agì perché l’Onu ritirò i soldati proprio mentre lo sterminio cominciava. Fu necessario evitare l’esodo – verso l’Europa – dei kossovari cacciati dall’esercito serbo. Ma le guerre successive non sono necessarie, visto che manifestamente non fermano i terroristi. Non sono neppure democratiche perché come si spiegano, allora, l’alleanza con l’Arabia Saudita e l’enormità degli aiuti a Riad, più copiosi di quelli destinati a Israele? Il regno saudita non solo non è democratico: è tra i più grandi finanziatori dei terrorismi.

La degenerazione del Mali poteva essere evitata, se gli Europei avessero studiato il paese: considerato per anni faro della democrazia, fu sempre più impoverito, portandosi dietro i disastri delle sue artificiali frontiere coloniali. Aveva radici antiche la lotta indipendentista dei Tuareg, culminata il 6 aprile 2012 nell’indipendenza dell’Azawad a Nord. Per decenni furono ignorati, spregiati. Per combattere un indipendentismo inizialmente laico si accettò che nascessero milizie islamiche, ripetendo l’idiotismo esibito in Afghanistan. Sicché i Tuareg s’appoggiarono a Gheddafi, e poi agli islamisti: unico punto di riferimento, furono questi ultimi a invadere il Nord, all’inizio 2012, egemonizzando e stravolgendo – era prevedibile – la lotta tuareg. È uno dei primi errori dell’Occidente, questa cecità, e quando Prodi approva l’intervento francese dicendo che «non esistevano alternative all’azione militare», che «si stava consolidando una zona franca terroristica nel cuore dell’Africa», che gli indipendentisti «sono diventati jihadisti», dice solo una parte del vero. Non racconta quel che esisteva primche la guerra fosse l’unica alternativa. I Tuareg non sono diventati terroristi; blanditi dagli islamisti, sono stati poi cacciati dai villaggi che avevano conquistato. La sharia,nella versione più cruenta, è invisa ai locali e anche ai Tuareg (sono tanti) non arruolati nell’Islam radicale. Vero è che all’inizio essi abbracciarono i jihadisti, e un giorno questa svista andrà meditata: forse l’Islam estremista, col suo falso messianismo, ha una visione perversa ma più moderna, della crisi dello Stato-nazione. Una visione assente negli Europei, nonostante l’Unione che hanno edificato.

Ma l’errore più grave è non considerare le guerre dell’ultimo decennio come un tutt’unico. L’azione in un punto della terra ha ripercussioni altrove, i fallimenti in Afghanistan creano il caso Libia, il semifallimento in Libia secerne il Mali. Il guaio è che ogni conflitto comincia senza memoria critica dei precedenti: come scheggia appunto. In Libia il trionfalismo è finito tardi, l’11 settembre 2012 a Bengasi, quando fu ucciso l’ambasciatore Usa Christopher Stevens. Solo allora s’è visto che molti miliziani di Gheddafi, tuareg o islamisti, s’erano trasferiti nell’Azawad. Che la guerra non era finita ma sarebbe rinata in Mali, come in quei film dell’orrore dove i morti non sono affatto morti.

È venuta l’ora di riesaminare quel che vien chiamato interventismo umanitario, democratico, antiterrorista. Un solo dato basterebbe. Negli ultimi sette anni, il numero delle democrazie elettorali in Africa è passato da 24 a 19. Uno scacco, per Europa e Occidente. Intanto la Cina sta a guardare, compiaciuta. La sua presenza cresce, nel continente nero. Il suo interventismo per ora costruisce strade, non fa guerre. È colonialismo e lotta per risorse altrui anch’esso, ma di natura differente. Resilienza e pazienza sono la sua forza. Forse Europa e Stati Uniti si agitano con tanta bellicosità per contendere a Pechino il dominio di Africa e Asia. È un’ipotesi, ma se l’Europa cominciasse a discutere parlerebbe anche di questo, e non sarebbe inutile.

«La Repubblica, 18 gennaio 2013

Nella società del pubblico chi gode di fama può svolgere un ruolo rappresentativo di milioni di persone. Senza essere stati scelti o votati, è proprio l’essere sotto i riflettori del mondo che rende quel che le celebrità sono e dicono rappresentativo. Questa funzione di rappresentanza simbolica è stata perfettamente svolta da Jodie Foster che ha usato il palcoscenico più globale e popolare – la cerimonia di assegnazione del Golden Globe – per fare un’opera di testimonianza che ha un valore immenso per la vita ordinaria di molti uomini e donne, in tutti i paesi del mondo. Premiata per il film Modern Family,di cui è attrice, regista e produttrice, Jodie Foster ha pronunciato un discorso di ringraziamento personale che ha lasciato senza parole (e commossi) tutti i presenti. Per la prima volta ha parlato esplicitamente della sua vita privata, dei figli e della compagna di vent’anni (“gli amori della mia vita”), e infine della sua decisione di vivere come single. Ringraziandola ha definito la compagna «la mia eroica co-genitrice, la mia ex partner in amore e sorella dell'anima per la vita». Jodie Foster ha fatto questa sua testimonianza poche ore dopo che le agenzie hanno fatto circolare le immagini della manifestazione parigina contro il riconoscimento delle coppie omosessuali e lesbiche, proposta dal governo Hollande.

Di qua dell’Oceano, e a dispetto della diagnosi dei sociologi che parlano di quella europea come di una società secolarizzata, la vita per chi non è “regolare” è e resta durissima. Non soltanto perché chi non è eterosessuale non gode degli stessi diritti di chi lo è (come poter ereditare, poter far visita al proprio partner in ospedale, poter avere figli riconosciuti), ma anche perché deve in aggiunta subire la gogna della discriminazione nella vita sociale ordinaria da parte di quei tanti concittadini che sono convinti di essere dalla parte giusta (e quindi maggioranza), spessissimo offensivi e violenti nel linguaggio e troppo spesso anche nei comportamenti con coloro che hanno solo una colpa: quella di fare scelte secondo la propria autonomia di giudizio. Un diritto che le consuetudini e soprattutto le religioni, dalla musulmana alla cattolica, non riconoscono e anzi stigmatizzano come causa di disgregazione della famiglia.
Che cosa è la discriminazione? È la condizione per la quale i “diversi” in qualche cosa sono discriminati dagli eguali che, in relazione a quella cosa, sono maggioranza. L'essere discriminati è una condizione di ingiustizia e di sofferenza. Perpetrata sia dal potere che dall’opinione. Da chi gestisce i poteri dello Stato, soprattutto dal potere politico quando si oppone a leggi che possono rendere giustizia a tutti egualmente; e dai cittadini ordinari con il loro comportamento sociale discriminatorio per ragioni di mentalità. La denuncia della discriminazione presume sempre una rivendicazione di eguaglianza di dignità e di considerazione (la premessa morale di eguale valore di tutte le persone) ed è una denuncia degli effetti perversi che può avere un rapporto non equilibrato di potere, per cui chi è fatto oggetto di discriminazione è generalmente la parte debole o perché meno numerosa e con basso potere di contrattazione. Se la discriminazione è perpetrata dagli organi di uno Stato democratico costituzionale, la vittima ha per legge il diritto di appellarsi contro decisioni giudicate discriminanti e di usare gli strumenti giuridici per poter difendere le proprie ragioni e nel caso di vittoria di essere risarciti per l'offesa subita – ma si tratta di un diritto che si scontra spesso con l’opinione della maggioranza che alligna anche nella mente dei giudici. A questa condizione formale fa spesso seguito una situazione concreta densa di cultura che rende il diritto all'eguale trattamento da parte della legge, cioè il non essere discriminati, meno certo di quanto sia desiderabile. Questo è il caso della legislazione sul riconoscimento delle coppie omosessuali e lesbiche.

Inoltre, la discriminazione può anche manifestarsi in forma di ingiustizia morale attraverso comportamenti offensivi verso ciò che una persona è, il modo in cui vive (se omosessuale, membro di una comunità nazionale, razziale, linguistica, o di una classe sociale). Essere discriminati nelle relazioni quotidiane e di vita sociale può voler dire avere difficoltà a trovare un lavoro, ad affittare una casa, a svolgere bene le proprie funzioni lavorative o professionali, avere accesso alla formazione educativa, e infine avere poca voce nella rappresentanza politica.

Per chi la subisce, la discriminazione è una ragione di sofferenza poiché seguita dalla solitudine di chi non ha sufficiente potere. Per questo la rappresentanza simbolica è molto importante. Perché tra le altre cose dà a chi è rappresentato il senso di non essere solo, di non essere un’esigua minoranza, di avere testimonial che possono spendersi per loro.

Lo sbocco di questa crisi sarà quello catastrofico che ebbe quella del 29? c'è da temerlo, se la politica delle istituzioni politiche e sociali continuerà ad essere sorda e cieca. Continuando così, Cassandra avrà ragione ancora una volta. Interviste di Anna Maria Merlo e Roberto Ciccarelli.

Il manifesto, 12 gennaio 2013

JEAN FITOUSSI

La crisi dell'Europa non è economica. È politica
di Anna Maria Merlo

Jean-Paul Fitoussi, economista keynesiano, professore all'Institut d'études politiques di Parigi, dall'89 al 2010 presidente dell'Ofce (Osservatorio francese delle congiunture economiche), è pessimista per l'Europa nel 2013. «Sono pessimista perché cerchiamo di risolvere un problema economico, mentre siamo di fronte a un problema politico - spiega - è come se volessimo cambiare la gomma di una macchina che non è sgonfia mentre ne sgonfiamo un'altra senza poi volerla cambiare. E' la ruota politica che non funziona e il motore non parte perché questa gomma è sgonfia».

Il 2013 si annuncia difficile come il 2012 per l'Europa?
Le politiche condotte in Europa in tutti i paesi e quelle già approvate con le finanziarie per il 2013 sono cattive politiche per rimediare ai problemi che contano di più per la gente, cioè la disoccupazione e il livello di vita. In Europa vengono condotte politiche pro-cicliche che non danno nessuna possibilità alla crescita economica. Quindi non danno nessuna possibilità alla soluzione del problema dell'occupazione. Ci sbagliamo di obiettivo: l'obiettivo finale delle società è il benessere, il lavoro, l'integrazione sociale, non il livello del deficit di bilancio. Ma tutte le politiche condotte in Europa hanno lo sguardo fisso sui deficit di bilancio. Non ci può essere un miracolo, come ha detto recentemente anche l'Fmi in questo modo non si risolve il problema dell'occupazione, ma lo si aggrava. Siamo in una situazione vicina alle reazioni che hanno fatto seguito alla crisi del '29.
I vari governi, specie nel sud d'Europa in difficoltà, raccontano che non possono fare nulla perché sono penalizzati dallo spread, dal differenziale del tasso di interesse con la Germania.
Lo spread è una questione artificiale creata dall'assenza di volontà politica in Europa di mutualizzare i debiti. Se fosse stata decisa la mutualizzazione del debito, ci sarebbe un titolo unico, e quindi non ci sarebbe spread».
Bisognerebbe dire questo ai tedeschi, già in campagna elettorale, che non vogliono pagare per i «fannulloni»?
Ai tedeschi bisognerebbe dire che sono i fannulloni a pagare per loro. In realtà i trasferimenti non vanno dalla Germania verso il sud, ma dal sud verso la Germania, perché il fatto che lo spread cresca al sud ha come contropartita un calo del tasso di interesse pagato dalla Germania, che permette ai tedeschi di ridurre il loro servizio del debito. E' come se il sud sovvenzionasse la Germania. Ma dal momento in cui non abbiamo obiettivi politici chiari da perseguire in Europa - un'unione o solo una confederazione - allora è il paese creditore che guida il gioco. E' la Germania soprattutto, con alcuni paesi del nord. George Soros aveva detto alla Germania: leave or lead, o uscite o fate un piano Marshall per la zona euro.
La disoccupazione sta diventando insostenibile, ma perché nessuno si muove?
La situazione attuale è profondamente instabile e può avere conseguenze sociali assolutamente drammatiche. La disoccupazione in certi paesi è più forte degli anni '30, è ampiamente al di sopra per quello che riguarda i giovani. Ma la gente non è capace di combattere, non ha più poteri per negoziare.
Hollande è stato una delusione? Perché sembra non riuscire ad attuare una politica europea più incisiva? E' terrorizzato anche lui dalla minaccia dello spread?
Hollande fa come Sarkozy, fa come dicono i tedeschi. La Francia ha paura dello spread. Adesso ha tassi di interessi bassi, ma teme che, se si dissocia dalla Germania, questi aumentino. Alla fine i governi, quando arrivano al potere, finiscono sempre per obbedire alle regole della Ue. Bisognerebbe che una maggioranza di governi europei avesse il coraggio sufficiente per opporsi alla Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda ecc. dovrebbero dire «basta».
A febbraio ci sono le elezioni in Italia. La questione del rispetto delle regole europee è al centro del dibattito. Ci sarà un margine di manovra, secondo lei, dopo la stretta di Monti?
L'Italia è il paese che per ora ha completamente soddisfatto il Fiscal Compact. Se prendiamo il deficit strutturale, è allo 0,7%, cioè molto vicino ai dettami del Fiscal Compact, che sono dello 0,5%. Sarebbe quindi il solo paese europeo ad avere la possibilità di mettere in atto un piano di rilancio. Eppure il problema dello spread non è risolto. In altri termini, l'Italia in teoria soddisfa i vincoli europei ma l'assenza di unione in Europa fa sì che nessun paese possa rilanciare l'economia, salvo la Germania. O si va avanti nel federalismo o non risolveremo il problema.
L'Europa se non va avanti può indietreggiare?
Stiamo già andando indietro. Il pil per abitante in Italia è di 9 punti più basso di quello del 2007. Stiamo andando indietro come mai era successo dagli anni '30.
La crisi degli anni '30 è sfociata nella guerra, non sarà pessimista fino a questo punto?
La grande differenza con gli anni '30 è che adesso il resto del mondo non segue la politica europea, mentre allora, fino al '33, fino al piano Roosevelt, tutti i paesi avevano adottato la stessa politica. Oggi è l'Europa ad affondare nel marasma, mentre gli Usa vogliono rilanciare la macchina.
Eppure Usa e Giappone hanno un debito pubblico ben più ampio dell'Europa...

l problema del debito pubblico non è difatti nato in Europa, dove è più basso degli Usa o del Giappone. Ma i paesi europei prendono a prestito con una moneta, l'euro, su cui non hanno nessun controllo. Gli Usa, che controllano la loro moneta, possono sempre rimborsare. Mario Draghi può cercare di risolvere il debito, ma è in una situazione delicata perché il Consiglio europeo non vuole che vada fino in fondo. Il Consiglio può accettare che la Bce agisca, ma impone al tempo stesso condizioni drastiche che affondano i paesi ancora di più nella recessione.

STEFANO RODOTA'
Il reddito di cittadinanza è un diritto universale
di Roberto Ciccarelli

«In Europa - sostiene Stefano Rodotà, uno dei giuristi italiani che hanno partecipato alla scrittura della Carta di Nizza e autore del recentissimo Il diritto di avere diritti - siamo di fronte ad un mutamento strutturale che spinge qualcuno ad adoperarsi per azzerare completamente i diritti sociali, espellere progressivamente i cittadini dalla cittadinanza e far ritornare il lavoro addirittura a prima di Locke. Per accedere ai beni fondamentali della vita come l'istruzione o la salute, dobbiamo passare per il mercato e acquistare servizi o prestazioni. Il reddito universale di cittadinanza è il tentativo di reagire al ritorno a questa idea di cittadinanza censitaria».

Il reddito di cittadinanza, dunque, non il «salario minimo sociale e legale» chiesto dal presidente uscente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker. Come spiega questa dichiarazione?
Juncker ha mostrato più volte un'attenzione rispetto ad una fase nella quale debbono essere ripensati una serie di strumenti anche partendo da una riflessione più profonda sulla dimensione dei diritti. A parte la sua citazione di Marx, credo che la sua dichiarazione dovrebbe essere valutata alla luce dell'articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali. In una delle sue carte fondative l'Ue si impegna a riconoscere il diritto all'assistenza sociale e abitativa e a garantire un'esistenza dignitosa ai cittadini. C'è un'assonanza molto forte con uno dei più belli articoli della nostra Costituzione, il 36. Considerati insieme, questi articoli offrono una chiave per considerare il reddito fuori dalla prospettiva riduzionistica con la quale di solito viene considerata. Diversamente dall'approccio del salario minimo, o di quello del «reddito di sopravvivenza» di cui parla Monti nella sua agenda, il reddito non può essere considerato solo come uno strumento di lotta contro la marginalità. In Europa non c'è solo la povertà crescente. Io credo che oggi la lotta all'esclusione sociale passi attraverso l'adozione del reddito di cittadinanza.
Riesce ancora a mantenere una fiducia ammirevole nelle istituzioni europee e a non considerarle solo come l'emanazione diretta della Bce o della volontà tedesca di imporre politiche anti-inflattive e di rigore nei bilanci pubblici. Come mai?
Ma perché l'Europa non può essere ridotta solo alle politiche dell'economia che assorbe tutte le altre dimensioni. Non è possibile ricordarsi degli aspetti virtuosi dell'Europa solo quando interviene per sanzionare i licenziamenti di Pomigliano oppure la legge italiana sul testamento biologico e dimenticarli quando impone di considerare l'economia come il Vangelo, con questa idea di mercato naturalizzato. L'Europa è un campo di battaglia. Io stesso ricordo la fatica di introdurre nella Carta di Nizza i principi di solidarietà e uguaglianza che prima mancavano.
Susanna Camusso (Cgil) sembra avere tutt'altra idea sulla proposta di Juncker e ha escluso il «salario minimo» perché danneggerebbe la contrattazione nazionale. Come lo spiega?
Capisco la sua volontà di salvaguardare la dimensione contrattuale, ma la trasformazione strutturale che viviamo ci obbliga ad andare oltre questo orizzonte. Il tema capitale e ineludibile è il reddito universale di cittadinanza. Martedì 15 a Roma presentiamo il libro Reddito minimo garantito del Basic Income Network dove discuteremo anche le proposte di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, persone tutt'altro che ascrivibili ad un'orizzonte estremista. Il reddito è uno strumento fondamentale per razionalizzare un sistema altamente disfunzionale e sgangherato come quello italiano sulle protezioni sociali. Nei primi giorni di governo l'aveva citato anche Elsa Fornero, poi ha abbandonato questa prospettiva.
Di solito la sinistra e i sindacati considerano il reddito come un ammortizzatore sociale. Lei ritiene che sia un approccio corretto?
Assolutamente no. Oggi non è più possibile considerarlo come uno tra i tanti ammortizzatori sociali perchè dobbiamo cominciare a lavorare sulla distribuzione delle risorse. L'idea degli ammortizzatori sociali riflette un modo di guardare al precariato come un problema sostanzialmente transitorio che l'intervento dei governanti farà rientrare in una situazione di normalità. Oggi non è più così e il reddito è una precondizione della cittadinanza, uno strumento per affermare la pienezza della vita di una persona. Riguarda anche i lavoratori che si trovano in difficoltà, ma è un diritto di tutti i cittadini.
Quali sono le prime tappe del processo di una radicale riforma del Welfare?
Ripristinare l'agibilità democratica nelle fabbriche; difendere il diritto del lavoro dalla privatizzazione strisciante che non è una fissazione della Fiom o di Maurizio Landini; una nuova legge sulla rappresentanza sindacale ma soprattutto ripristinare il diritto all'esistenza che passa attraverso il reddito di cittadinanza. È una questione di cui non possiamo liberarci né con un'alzata di spalle come ha fatto Carlo Dell'Aringa, ma anche dicendo che il contratto funziona bene, il sindacato fa la sua parte, mentre invece nella società c'è più di qualcosa che non funziona. Dobbiamo pensare a una trasformazione radicale, proprio come accadde con lo Statuto dei lavoratori.
Perché non dovrebbe accadere oggi?
Perchè forse allora c'era l'autunno caldo, la migliore cultura giuslavoristica con Giugni, Romagnoli, Mancini sostenne l'avanzata del movimento operaio. Oggi non è così...C'è una certa sordità del sindacato perché ritiene che gli strumenti acquisiti siano sufficienti per fronteggiare qualsiasi situazione. Ricordo che Romagnoli gli ha rivolto critiche molto severe quando abbiamo elaborato e firmato il referendum contro le modifiche all'articolo 18 e contro l'articolo 8. In generale trovo spaventoso constatare i guasti della progressiva emarginazione del dialogo con la cultura politica. E questo non accade solo nel mondo del lavoro.

Questo articolo ci era sfuggito, sorry! ma la questione è rilevante. Mi viene in mente una battuta della retorica di molto tempo fa: " L'anno scorso eravamo sull'orlo dell'abisso; quest'anno, finalmente, abbiamo fatto un passo avanti". Diremo così alla fine del 2013?

La Repubblica, 8 gennaio 2013

Non ci sono solo gli Stati Uniti. Anche l’Italia ha il suo baratro fiscale, come quello Usa di natura politica prima che economica. L’agenda Monti vi dedica ampio spazio, sebbene usi altri termini. In realtà il baratro l’ha aperto il Parlamento quando ha ratificato mesi fa – su proposta del governo Monti – il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento ecc. imposto da Consiglio europeo, Commissione e Bce. L’art. 4 prescrive: “Quando il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo di una parte contraente supera il valore.. del 60%... tale parte contraente opera una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”. Il Trattato è già in vigore, ma in base a un precedente regolamento del Consiglio, l’inizio della riduzione del debito verso la meta del 60 per cento dovrebbe aver luogo solo dal 2015.
L’agenda Monti riprende quasi alla lettera tale prescrizione (punto 2, comma c). Si tratta a ben guardare del tema più importante sia della campagna elettorale che dell’azione del prossimo governo, quale esso sia. Il motivo dovrebbe esser chiaro. Ridurre davvero il nostro debito pubblico nella misura e nei tempi richiesti dal Trattato in questione è un’operazione che così come si presenta oggi ha soltanto due sbocchi: una generazione o due di miseria per l’intero Paese; aspri conflitti sociali; discesa definitiva della nostra economia in serie D. Oppure la constatazione che il debito ha raggiunto un livello tale da essere semplicemente impagabile, per la ragione che esso deriva sin dagli anni ‘60 non da un eccesso di spesa, bensì dalla accumulazione di interessi troppo alti. Quindi si dovrebbero trovare altre strade rispetto alle politiche attuate da Monti e riproposte dalla sua agenda.
Al fine di ripagare un debito a lunga scadenza in rate annuali è infatti essenziale una condizione: che il debitore, al netto di quanto spende per il proprio sostentamento, abbia ogni anno delle entrate, per tutta la durata prevista, che siano almeno pari in media a quella di ciascuna rata del debito. Nel caso del debito pubblico italiano tale condizione base non esiste. Il Pil supera i 1650 miliardi, per cui il 60 per cento di esso ne vale circa 1000. Mentre il debito accumulato ha superato i 2000. Al fine di farlo scendere al 60 per cento del Pil come prescrive il Trattato, si dovrebbe quindi ridurre il debito di 50 miliardi l’anno per un ventennio. La cifra è di per sé paurosa, tale da immiserire tre quarti della popolazione. Ma il problema non è solo questo. È che l’interesse sul debito, al tasso medio del 4 per cento, comporta una spesa di 80 miliardi l’anno, la quale si somma ogni anno al debito pregresso. Ne segue che quest’ultimo non smette di crescere. Ora, se riduco il debito di 50 miliardi, avrò sì risparmiato 2 miliardi di interessi; però sui restanti 1950 miliardi dovrò pur sempre pagarne 78. Risultato: il debito è salito a 2028 miliardi (2000-50+78). L’anno dopo taglio il debito di altri 50 miliardi e gli interessi di 2. Però devo pagarne 76, per cui il debito risulterà salito a 2054. Chi vuole può continuare. Magari inserendo nel calcoletto un dettaglio: l’art. 4 del Trattato prescinde del fatto che il debito di un paese potrebbe col tempo aumentare di molto, per cui l’entità del ventesimo di rientro andrebbe alle stelle. L’Italia, per dire, potrebbe ritrovarsi a fine 2015 con un Pil di pocosuperiore all’attuale, ma con un debito che a causa dell’accumulo degli interessi ha raggiunto i 2200 miliardi. Così i miliardi annui da tagliare passerebbero da 50 a 60.
Le obiezioni da opporre a quanto rilevato sopra le sappiamo. Il raggiungimento di un discreto avanzo primario ha già permesso di ridurre la spesa degli interessi di 5 miliardi: lo ricorda anche l’agenda Monti. La riduzione del differenziale di rendimento a confronto dei titoli tedeschi permetterà altri risparmi. Dalla dismissione di grosse quote del patrimonio pubblico arriveranno fior di miliardi. Le spese dello Stato possono venire ridotte di parecchi altri punti; qualcuno parla addirittura di 5 punti per più anni, alla luce di una profonda teoria politica che si compendia col dire “bisogna affamare la bestia” (cioè lo Stato, cioè quasi tutti noi). Per finire con l’immancabile “a fine 2013 arriverà la crescita e il Pil riprenderà a salire”.
Ciascuna delle suddette obiezioni o è fondata sull’acqua, come la previsione di ricavare alla svelta decine di miliardi dalla dismissione di beni pubblici – vedi la sorte delle cartolarizzazioni di Tremonti – oppure sull’accettazione per i prossimi venti o trent’anni di politiche lacrime e sangue, ancora peggiori di quelle che hanno afflitto gli ultimi anni all’insegna dell’austerità.
Naturalmente il problema non riguarda soltanto l’eventuale ritorno al governo di Monti con la sua agenda. Riguarda più ancora i partiti come Pd e Sel, che le elezioni potrebbero pure vincerle, ma che hanno dichiarato di voler rispettare nell’insieme l’agenda in parola. Sono essi per primi a dover scegliere la strada per uscire dalle strettoie attuali. Da un lato si profila una grave regressione sociale e politica, oltre che economica, indotta dalla ricerca coattiva del mezzo per ripagare un debito ormai impagabile. Dall’altro bisogna riconoscere questa sgradevole realtà, e aprire con decisione una trattativa su scala europea per trovare modi meno iniqui socialmente per uscire dall’impasse del debito pubblico, il che non riguarda ovviamente solo l’Italia. Un riconoscimento al quale potrebbe seguire la ricerca dei modi per superare una contraddizione in verità non più tollerabile: una Bce che presta migliaia di miliardi alle banche (lo ha fatto, per citare un solo caso, tra novembre 2011 e febbraio 2012) all’1 per cento, ma non può fare altrettanto con gli stati. Per cui questi vendono obbligazioni alle banche, sulle quali esse percepiscono interessi tripli o quadrupli. È vero, l’art. 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di prestare denaro direttamente agli Stati. Ma a parte il fatto che prima o poi tale articolo dovrà essere modificato, posto che esso fa della Bce l’unica banca centrale al mondo che non può svolgere le funzioni proprie di una banca centrale, si dovrebbe d’urgenza porre rimedio a tale inaudita contraddizione. Con il baratro fiscale di mezzo, la riduzione del debito pubblico a meno della metà è inconcepibile. Ma se l’Italia, per dire, potesse prendere in prestito dalla Bce, in forma obbligazionaria o altra, 1000 miliardi al tasso dell’1 per cento, come han fatto le banche europee nel caso precitato, allora potrebbe diventarlo. Pensiamoci. E magari proviamo a spiegare ai cittadini come si pone realmente per il prossimo futuro la questione del debito pubblico.
Corriere della Sera, 10 gennaio 2013

In attesa del dimezzamento dei parlamentari e della sparizione degli inquisiti, c'è già una categoria esclusa o quasi dal Parlamento: gli ambientalisti. Il Pd rinuncia a nomi storici come Roberto Della Seta, che condusse la battaglia dell'Ilva. Altri partiti non si sono neppure posti il problema. Quel che resta dei Verdi si dilegua nello schieramento guidato da Ingroia, senza essersi mai lontanamente avvicinato ai consensi e ai risultati raggiunti dai colleghi europei. Ma il problema non è solo di rappresentanza; è soprattutto di iniziativa politica. Nelle varie agende l'ambiente latita. La tutela del territorio, l'inquinamento delle città, persino le energie alternative passano in secondo piano. Certo, la crisi ingurgita tutto, mette le ragioni della produzione e dello sviluppo davanti al resto. Ma alla vigilia di elezioni decisive, la difesa dell'ambiente e della bellezza di un Paese prezioso e delicato come l'Italia dovrebbe essere al centro della discussione pubblica. Invece è diventato lo sfondo di profezie di malaugurio, seguite da allegrie di naufraghi scampati.

Negli altri Paesi non è così. In Germania i Grünen sono da venticinque anni il terzo partito, hanno governato per due legislature accanto all'Spd, guidano con Winfried Kretschmann un Land importante come il Baden-Württemberg, che oltre a essere stato uno storico feudo conservatore ospita il più grande polo automobilistico d'Europa. In Francia i Verdi hanno stabilmente risultati elettorali a due cifre, alle ultime Europee affiancarono i socialisti a quota 16%, e ora condividono vittorie e difficoltà con Hollande. In America, a parte le campagne di Al Gore, Obama ha voluto al governo Steven Chu, Nobel per la fisica grazie alle sue ricerche sulle energie verdi, e ha affidato l'agenzia per la protezione della natura e l'agenzia per il monitoraggio geologico a due leader storiche dell'ambientalismo come Lisa Jackson e Marcia McNutt. È vero che il presidente è accusato di non aver mantenuto le promesse sulla lotta all'effetto serra; ma le critiche vengono anche da destra, ad esempio dal sindaco miliardario di New York Bloomberg. Insomma, nel mondo i Verdi esistono e non sono confinati in una riserva, dialogano con i vari schieramenti, assumono responsabilità.
Sarebbe crudele paragonare tutto questo ai disastri di Pecoraro Scanio. La questione non è tanto che gli ambientalisti abbiano fallito nel formare il loro partitino, in aggiunta alle varie sigle postcomuniste e postfasciste che ci concederemo alle prossime elezioni. La questione è che non sono riusciti a ibridare i partiti veri. A diffondere le loro culture. A imporre un tema che attraversa tutti i campi della nostra vita quotidiana e della nostra attività, dalle politiche industriali alla sicurezza sul lavoro, dalla salute al turismo (possibile motore della ripresa italiana di cui anche si parla poco). Mentre ai cittadini il tema interessa moltissimo; infatti quando possono occuparsene lo fanno in massa e con determinazione, sia pure nella forma tranchante dei referendum, che riconduce temi complessi come la ricerca sul nucleare e le risorse naturali alla semplificazione talora eccessiva di un sì e di un no. Una volta ogni dieci anni gli elettori battono un colpo; poi la classe politica lascia ricadere lentamente le polveri. Anche così si amplia il distacco tra il Palazzo e il Paese.

«Secondo la teoria liberale compito fondamentale dello Stato è offrire piena parità nelle condizioni di partenza della competizione sociale. Da molti anni si sta consolidando una situazione di disuguaglianza crescente e la crisi non fa altro che aggravarla ulteriormente».

La Repubblica, 10 gennaio 2013
«Il miracolo che l’imposta patrimoniale è chiamata a compiere in Italia è davvero grande: niente meno che mutare a fondo la psicologia del contribuente». Queste parole scritte dal campione liberale Luigi Einaudi nel 1946 restano tuttora una prima e indispensabile chiave di lettura per cercare di spiegarsi il furore politico e la strumentalità demagogica che agitano oggi la campagna elettorale attorno al tema di un prelievo sulla ricchezza accumulata. Da economista acuto lo studioso, che sarebbe diventato governatore di Bankitalia e poi capo dello Stato, soggiungeva che con questa riforma fiscale si doveva porre fine della lunga era di incrementi continui delle imposte ordinarie sul reddito.

C’era, insomma, nel disegno einaudiano una duplice razionalità. La più evidente di stampo economico: prelevando più dai patrimoni che dai redditi, lo Stato avrebbe creato le condizioni migliori per un aumento della domanda ovvero di quei consumi che restano la fonte principale di stimolo alla crescita di investimenti e occupazione. Non meno importante, però, era anche la matrice etica della sua proposta che sottintendeva la necessità di riaggiustare nel senso di una maggiore equità sociale il carico fiscale sui contribuenti.

Va ricordato che, da autentico politico liberale, Luigi Einaudi era ossessionato dal principio della “eguaglianza dei punti di partenza” ritenendo che compito fondamentale dello Stato dovesse essere quello di offrire piena parità di condizioni nella competizione sociale. Illuminanti al riguardo le sue pagine a favore di un’imposta sulle successioni tale da assicurare il riassorbimento dei privilegi ereditari nel volgere di poche generazioni.

A quasi settant’anni di distanza le condizioni dello Stato fiscale tendono ad avvicinarsi – soprattutto per il peso abnorme del debito pubblico – a quelle dell’immediato dopoguerra in cui maturò la provocazione einaudiana. Ma non può certo dirsi che il dibattito politico sull’imposta patrimoniale abbia fatto grandi progressi. Nel frattempo c’è stato anche qualche esperimento di prelievo sulla ricchezza accumulata e però in forma straordinaria di imposizione limitata e abborracciata sotto la pressione dell’emergenza occasionale. Lo ha fatto il governo di Giuliano Amato quando nel settembre nero del 1992 ha dovuto fare cassa in tutta fretta mettendo le mani sui conti correnti degli italiani per scongiurare il “default” dello Stato. Ci ha riprovato ora, in condizioni d’urgenza analoghe, il governo di Mario Monti con la nuova Imu, che si prospetta come un embrione di imposta patrimoniale ma limitata alla ricchezza immobiliare e per giunta viziata dalla base d’appoggio su un impianto catastale che per le sue scandalose scorrettezze fa rimpiangere i solerti e occhiuti funzionari di Maria Teresa.

Oggi tanto il programma del centro sinistra quanto la cosiddetta Agenda Monti prevedono, sia pur genericamente, una forma di imposizione sul patrimonio. Ma la campagna elettorale in corso, anche attraverso le esagerazioni strumentali della demagogia, offre elementi importanti per capire le vere difficoltà che si oppongono nel nostro paese a una svolta in senso patrimoniale del regime fiscale. Quando il fronte berlusconiano fa una vera e propria chiamata alle armi dei ceti più abbienti contro ogni prelievo sui risparmi delle famiglie – come con qualche eccesso di disinvoltura viene classificata dalla destra la ricchezza accumulata al riparo dal fisco – non si limita arendere chiaro quanto si sia ancora lontani dal miracolo di una mutazione della psicologia del contribuente vagheggiato da Einaudi. Questa posizione riflette qualcosa di più profondo e tangibile di un’ostilità soltanto psicologica all’introduzione di un’imposta patrimoniale. Essa è lo specchio di un conflitto d’interessi economici concretissimi che mette le sue radici nella sempre più distorta distribuzione delle ricchezze che si sta consolidando da anni nella società italiana. C’è, insomma, un’altra chiave di lettura dello scontro politico in materia che ingloba, aggiorna e sporca di materialità storica l’astratta purezza ideologica della visione liberale einaudiana. Le statistiche più recenti indicano che in Italia il dieci per cento della popolazione possiede oltre il 45 per cento delle fortune censibili, mentre il 50 per cento degli italiani – ovviamente le famiglie meno abbienti – si deve accontentare di controllare non più del 10 per cento delle ricchezze complessive. Cosicché il rimanente 40 per cento della popolazione – che per comodità può definirsi ceto medio – dispone del restante 45 per cento di valori patrimoniali.

Questa mappa statistica, che la crisi economica sta facendo peggiorare di giorno in giorno in termini di crescente disuguaglianza, induce a reintrodurre nel dibattito politico-economico nozioni e concetti troppo sbrigativamente accantonati. In particolare, guardando a quella metà di italiani che possiede il dieci per cento delle fortune nazionali, torna di sicura attualità per molti di costoro il termine “proletario” che definisce la misera condizione di chi dispone come ricchezza soltanto dei propri figli. E di pari passo con il ritorno del proletariato e lo scivolamento di parte del ceto medio verso questa posizione marginale si riaffaccia un altro motore della storia invano esorcizzato negli ultimi decenni. Che è, come si direbbe in America, la lotta di classe, bellezza!

Tante sono le forme che può assumere un’imposta patrimoniale. Essa può essere reale, personale, immobiliare e/o mobiliare, permanente o straordinaria. Ma aldilà della sua migliore veste operativa, oggi in Italia deve avere come obiettivo principale una redistribuzione del carico fiscale che ponga rimedio a una distribuzione della ricchezza così socialmente iniqua da risultare nefasta – vedi il crollo dei consumi – per la crescita economica.

Secondo la teoria liberale compito fondamentale dello Stato è offrire piena parità nelle condizioni di partenza della competizione sociale. Da molti anni si sta consolidando una situazione di disuguaglianza crescente e la crisi non fa altro che aggravarla ulteriormente

Uno sguardo nelle pieghe ideologiche degli accordi tra i grandi poteri che governano l'Italia.

La Repubblica, 10 gennaio 2013

Esserecattolici e chiudere due occhi sull’immoralità del premier è stato possibile negli anni di egemonia berlusconiana. Oggi si assiste ad un altro connubio, forse meno impervio del precedente, quello tra cattolicesimo e liberismo. Così sembra di capire da queste prime battute della campagna elettorale. Da un lato un candidato premier, Mario Monti, che fa del liberismo la sua bandiera morale oltre che l’anima del suo programma politico, dall’altro la Chiesa di Roma che ne benedice la candidatura anche se intanto getta l’allarme sui poveri che aumentano di numero e auspica un governo più equo con i tagli e con le tasse. Questa tensione amichevole è un interessante esempio di quanto possa essere ricca di risvolti la relazione fra liberalismo e cattolicesimo

Ci sono certamente diversi tipi di liberalismo (come ci sono diverse declinazioni del cristianesimo cattolico), almeno tre: come filosofia liberale dei diritti civili, il liberalismo è affermazione della sovranità dell’individuo nelle decisioni morali e politiche, anche quando si tratta di valori ultimi, come la vita e la morte; come ordinamento costituzionale, stato di diritto e sistema di divisione e bilanciamento dei poteri o liberalismo politico; infine come dottrina economica centrata sull’interesse individuale e la libera competizione. In quest’ultimo caso, la visione liberale può diventare una vera e propria filosofia dell’autoregolamentazione del mercato e una dottrina compiuta secondo la quale la giustizia o è via mercato o non è, in quanto l’intervento statale di redistribuzione della ricchezza tende a disturbare il movimento economico invece di correggerlo per il meglio. Delle tre coniugazioni la prima e la terza sono le più interessanti per la questione che ci interessa.

La prima è certamente quella che più preoccupa la Chiesa perché riduce vistosamente l’autorità del magistero pastorale. Ad una prima impressione potrebbe sembrare che anche la terza incontri resistenze, poiché la giustizia sociale è un’importante acquisizione della dottrina cattolica moderna. Eppure, le cose sono più complesse, perché tra le declinazioni del liberalismo che meno si adattano alle esigenze della Chiesa vi è proprio quella che ha partorito lo stato sociale. Prima di tutto perché ha accresciuto il potere dello Stato rispetto a tutte le fonti di solidarietà e di carità non statali: le tasse hanno per anni preso il posto della beneficenza privata, i servizi pubblici quello dei servizi erogati dalla rete delle associazioni solidaristiche, e principalmente religiose. Quindi meno stato e più società civile – il cuore del liberismo – incontra prevedibilmente l’interesse della Chiesa.

Benché quindi ci possano essere diverse declinazioni di cristianesimo cattolico, una di queste può essere quella liberista. Il catto-liberismo (un termine non bello, ma efficace) tiene insieme il progetto di un dimagrimento dello stato sociale (a cui corrisponde una crescita delle funzioni dell’associazionismo cattolico, magari con l’incentivo pubblico) e la morale della misericordia per i poveri, i quali, dove la mano dello Stato non arriva, devono sapere di poter contare sulla carità cristiana. L’orgogliosa politica dei diritti sociali che si proponeva di emancipare i poveri facendone cittadini sembra non soddisfare né liberisti né cattolici, che così si trovano quasi naturalmente alleati, uniti dalla politica della sussidiarietà che rilancia (magari con l’aiuto del pubblico) la società civile.

Il problema è il solito: utilizzare l'intervento pubblico nell'economia per orientarla a fini coerenti con l'interesse generale oppure per aiutarla a mietere rendite di posizione? Dalla "sinistra" degli Amato e dei Bassanini ai centrodestri di Monti la risposta è univoca, e retrograda.

Il manifesto, 5 gennaio 2013

L'accaieria Ilva, la multiutility Hera, la Cassa Depositi e Prestiti hanno in comune una deriva pericolosa nei rapporti tra grandi imprese e territori in cui operano, tra potere economico e potere politico.
Il 2012 è stato un anno che ha visto rilevanti mutamenti nella situazione e nelle strategie di molti gruppi industriali italiani di dimensione grande e medio-grande, mutamenti che non sono stati positivi per le sorti del paese. Vediamo tre casi, che, pur nella diversità - di dimensioni aziendali, di controllo azionario, di settori di attività, di risultati economici - hanno qualcosa in comune: sono rappresentativi di una tendenza verso la deriva del nostro sistema industriale e finanziario e, in particolare, verso rapporti ancora più malsani con la società e la politica.

Il caso Ilva
L'Ilva, l'acciaieria di Taranto, non ha solo il problema del rispetto delle norme antinquinamento. Dietro di esso c'è un'altra questione altrettanto importante: la capacità dell'azienda di stare su un mercato sempre più difficile senza essere travolta. I due temi si intersecano tra di loro. Un'impresa con impianti aggiornati sul piano ambientale e tecnologico potrebbe giocare molto meglio la partita sul mercato internazionale dell'acciaio.
Sul primo punto, i fatti che sono emersi mostrano un gruppo che nel corso degli anni ha trascurato di osservare le più elementari norme sul fronte ambientale e su quello del lavoro, come testimoniato anche dai molti procedimenti giudiziari che esso ha dovuto subire. Poteva far questo anche per la complicità del governo e delle strutture tecniche preposte al controllo; solo l'intervento della magistratura ha permesso di portare alla ribalta il problema. Sul secondo problema, il gruppo di controllo ha gestito sino a ieri l'azienda con una strategia molto "casalinga", con favori da parte del governo e con rapporti con i dipendenti e la comunità circostante da vecchio "padrone delle ferriere". L'Ilva è stata più attenta a speculare sul prezzo delle materie prime che a dotarsi di una lungimirante strategia industriale. Ora non sembra avere le capacità di far fronte a una concorrenza sempre più agguerrita e che tende a erodere le quote di mercato in Italia, dove il gruppo colloca i due terzi della sua produzione. Oltre ad essere poco presente sui mercati internazionali e ad avere dimensioni ridotte rispetto ai concorrenti principali, la proprietà dell'Ilva non è in grado di mobilitare le grandi risorse finanziarie che servirebbero per reggere la scena e neanche soltanto quelle necessarie per portare avanti il programma in tema ambientale richiesto ora dal governo. Ci sembra che solo un intervento in prima persona dei poteri pubblici sul fronte della proprietà e della gestione aziendale, nonché su quello finanziario, potrebbe permettere all'azienda di negoziare con qualche gruppo straniero un intervento di salvataggio che ne preservi un'italianità almeno parziale.
La gestione di Hera
Il settore dei servizi pubblici locali è assai diverso dall'acciaio, ma offre lezioni importanti, a partire dal caso di Hera, la multiservizi a controllo pubblico che opera in Emilia Romagna e Marche, costruita aggregando molte aziende municipalizzate locali. All'origine di strutture come Hera c'è l'idea liberista - che ha imperversato anche a sinistra - sulla trasformazione dei molti servizi pubblici locali in grandi aziende con comportamenti di mercato. Sono state così incoraggiate le operazioni di crescita di strutture politico-burocratiche sostanzialmente poco efficienti, fonte di inquinamento nei rapporti tra pubblico e privato, portatrici di inflazione.
Secondo quanto documenta la Cgia di Mestre, negli ultimi 10 anni si sono registrati nel nostro paese aumenti record nelle tariffe per l'acqua (+71,8%), per il gas (+59,2%) e per i rifiuti (+56,3%), proprio alcuni dei settori principali in cui operano queste società, mentre l'inflazione è cresciuta nello stesso periodo in generale del 24,5%. A causare l'impennata dei prezzi c'è l'aumento delle tasse, ma sono rilevanti anche gli aumenti delle tariffe dei servizi pubblici. Alla forte crescita delle bollette non è peraltro corrisposto un corrispondente aumento della qualità dei servizi offerti ai cittadini, anzi in molti casi essa è peggiorata.
Che non ci siano ragioni importanti di economia di scala né altri vantaggi significativi in diverse delle attività gestite dalle multiutility è testimoniato, oltre che dai risultati economici poco brillanti, dal caso tedesco, paese nel quale, almeno nel settore dell'energia, si sta tornando con decisione alle vecchie municipalizzate su base locale.
Il modello di funzionamento di Hera e di altre società del genere appare semplice e perverso: data la scarsa efficienza della sua gestione, la società aumenta in misura rilevante le tariffe e così ottiene un modesto utile annuale, che versa interamente nelle casse dei soci, che sono poi in maggioranza i comuni. Questi ultimi, affamati come sono di soldi, sono obbligati a vedere di buon occhio la sviluppo di tali strutture. Per finanziare la distribuzione dei dividendi Hera è costretta ogni anno ad aumentare il livello dei suoi debiti, livello che nel giro di qualche tempo diventerà preoccupante. Intanto negli ultimi anni è stato significativamente ridotto il livello degli investimenti. Si tratta di una strategia senza sbocchi.
Nel caso della Hera, come di strutture consimili, la ricetta più adeguata non può che consistere in un loro smantellamento progressivo, con un ritorno a servizi pubblici a dimensione più vicina al territorio.
La Cassa Depositi e Prestiti
Veniamo alla finanza "pubblica". Sino al 2003 la Cassa Depositi e Prestiti (CDP), organismo controllato dal Tesoro, svolgeva in maniera dignitosa il suo compito istituzionale, che era quello di raccogliere i depositi postali e di impiegarli per finanziare gli enti locali. Nel 2003 il governo decideva di privatizzare la struttura, trasformandola in società per azioni, inserendo nel capitale le fondazioni bancarie, mentre allargava i suoi obiettivi di lavoro, che comprendevano ormai anche il sostegno ai progetti privati, nonché il finanziamento e la partecipazione al capitale delle imprese. Si aggiungeva inoltre la promozione di programmi di edilizia pubblica, la protezione dell'ambiente, la valorizzazione del patrimonio immobiliare; ma questi ultimi obiettivi non hanno peraltro trovato alcuna applicazione rilevante.
La partecipazione al capitale da parte delle fondazioni è stata fatta pagare poco, mentre, dall'altra, esse hanno ottenuto un potere di co-decisione molto rilevante e, tra l'altro, hanno cercato di frenare l'attività della CDP nel settore dei finanziamenti agli enti locali. Da allora, la Cassa interviene in maniera sempre più estesa nel sistema industriale del paese, cosa che in sè non sarebbe necessariamente negativa. Ma in concreto essa, nella sua azione, privilegia il sostegno al vecchio establishment, mentre fornisce un'equivoca copertura finanziaria allo stesso Tesoro per ridurre, ma solo formalmente, il debito pubblico.
Così essa acquisisce dal governo delle partecipazioni di controllo in alcune grandi strutture imprenditoriali, senza peraltro ottenere alcun potere decisionale, che viene lasciato alle vecchie consorterie burocratico-politico-affaristiche. Per altro verso, essa spinge in direzioni certamente poco accettabili.
Valga ricordare soltanto tre casi recenti, quello dell'intervento nel settore delle multiutility e in specifico proprio nel caso Hera; il tentativo di sostenere finanziariamente e senza contropartite Telecom Italia; infine l'ingresso nel capitale di Generali. Vediamo con qualche dettaglio quest'ultima operazione, ancora fresca d'inchiostro. Nella sostanza, il 4,5% del capitale di Generali viene trasferito dalla Banca d'Italia, che si trovava ormai in conflitto di interessi, al Fondo Strategico Italiano, controllato dalla CDP. La presenza del Fondo sarà totalmente passiva; essa ha accettato di impiegare le sue risorse per mantenere gli equilibri di potere economico preesistenti. Così Unicredit, che controlla in sostanza la compagnia, potrà stare tranquilla.
La CDP si può fregiare a questo punto del titolo di "banca di sistema", un sistema peraltro decrepito, che andrebbe demolito. Un intervento sulla Cassa da parte del governo, oltre che un ritorno alla sua pubblicizzazione, dovrebbe prevedere una concentrazione dei suoi sforzi nel sostegno alla parte migliore delle nostre imprese, privilegiando, in particolare, gli investimenti orientati verso la creazione di occupazione e l'innovazione tecnologica, nell'ambito di un complessivo progetto di sviluppo ecocompatibile.
Nel caso di tutte e tre i gruppi sopra ricordati sarebbero necessari radicali mutamenti di strategia. Chissà se il governo che si formerà dopo le elezioni, nel quadro di un necessario ripensamento della politica industriale del paese, avrà la lucidità e il coraggio di intervenire nei tre casi citati per raddrizzare la rotta.

«Siamo oltre Berlusconi. Quest'ultimo si accontentava di mettere nell'angolo gli avversari. Monti li incenerisce: siete già all'inferno e non lo sapete. La politica è morta. Ora ci sono io al suo posto».

ilmanifesto, 4 gennaio 2013

Se sul banco degli accusati arriva la cattiva politica e tutti ne chiedono lo smascheramento, il bando, la gogna, la cattiva politica che fa? Essendo una volpe capace delle più inaudite scaltrezze si unisce subito al coro e, alzando la voce ancora più degli altri, cerca di scaricare la responsabilità per intero sulla politica in quanto tale - la politica come prassi democratica - fino a cancellare ogni distinzione tra quella buona e quella cattiva, fino ad affermare che la politica è marciume di per sé e perciò va severamente condannata e possibilmente sostituita.

Con che cosa? A questa domanda si risponde in maniera duplice ma convergente. C'è chi dice: conferendo tutto il potere al popolo, purché questo popolo sia poi strettamente controllato da un capo incontrastato o, al più, da una ristretta oligarchia (vedi il caso Grillo). C'è chi dice: conferendo tutto il potere a un uomo super-partes, a un «tecnico» non schierato ma dotato di grande carisma, da collocare, assieme ad altri «tecnici» suoi collaboratori (ma evidentemente di una pasta inferiore) dentro a un limbo ideologico né di destra né di sinistra, insomma in una nuvola bianca e asettica come la corsia di un ospedale, anzi una sala chirurgica.

Come se tutto questo non fosse bastato a mettere da tempo in uno stato di indicibile sofferenza la nostra democrazia, e a configurare non impossibili futuri scenari di regime, è arrivato non molti giorni orsono il magistrato Ingroia che, proponendosi a sua volta come deus ex machina dello sciagurato caso Italia, ha subito intimato ai partiti che avevano mostrato qualche interesse per la sua persona di fare «un passo indietro», insomma di non interloquire: giovanotti, lasciatemi lavorare...

Decisamente, corrono brutti tempi per la democrazia, vittima di un diffuso disamore che sa di naufragio della ragione del quale, temo, siamo tutti un po' responsabili. Lo siamo, quanto meno, per quell'assuefazione al peggio che ci impedisce di reagire allorché vengono pronunciate parole lesive, oltre che delle nostre istituzioni, della nostra stessa intelligenza intesa come patrimonio comune di verità non suscettibili di scavalcamenti. Lungo sarebbe l'elenco delle furbesche bugie quotidianamente pronunciate in nome del ripudio della politica. Mi limito a citarne una sola, quell'autentica idiozia secondo la quale il signor Monti, proclamandosi fautore di cambiamento contro i presunti fautori dell'immobilismo, si collocherebbe al di là dell'antinomia destra/sinistra, ormai obsoleta.

Povera politica, ci mancava soltanto una sentenza di morte ufficiale. E' arrivata, pronunciata con accademica autorevolezza dallo stesso premier dimissionario e impavidamente reiterata da tutto il suo rampante seguito di fieri moderati. La politica è finita, parola di Monti. Destra e sinistra sono lemmi da cancellare dal vocabolario, e quanti continuano a battersi per una giustizia sociale non di facciata, ma sinceramente a favore dei deboli e degli indifesi, non sono altro che poveri sopravvissuti, naufraghi provenienti da un continente ormai sommerso. Il dogma insomma oggi si chiama Monti, detto anche l'Unico, più essenza ontologica che uomo. Quanto alla sua Agenda, si direbbe che essa ha la stessa inviolabilità della Legge mosaica, sia per quanto riguarda i contenuti sia per quanto riguarda i criteri di applicazione.

Come si vede, siamo oltre Berlusconi. Quest'ultimo si accontentava di mettere nell'angolo gli avversari. Monti li incenerisce: siete già all'inferno e non lo sapete. La politica è morta. Ora ci sono io al suo posto.

Crisi,la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire “scelta” o “puntodi svolta”, ora sta a significare: “Guidatore, dacci dentro”!

. La Repubblica,2 gennaio 2012

SE GUARDIAMO alla nostra storia postbellica, e ricordiamo come a ritmi regolari sia degenerata instoria criminale -non solo negli anni ’92-93, ma fin da quando Pasolini cominciò, nel ’72, a esplorare nel romanzo Petrolio l’assassinio di Enrico Mattei – è difficile non dare ragione alle parole di Ingroia, il magistrato che ha indagato i ricorrenti, clandestini patti tra Stato e mafie
Evocando il proprio ingresso in magistratura, e l’odierno passaggio alla vita politica, ha detto, sabato scorso: «Quando giurai la mia fedeltà alla Costituzione pensavo di doverla servire solo nelle aule di giustizia. Ma non siamo in un Paese normale e in una situazione normale. Siamo in una emergenza democratica dovuta allo strapotere della criminalità organizzata e all’inadeguatezza della politica. E allora (...) è venuto il momento della responsabilità istituzionale e politica».

Chiunque abbia a cuore le sorti italiane sa che davvero siamo in emergenza democratica, immersi in analfabetismi storici incessanti, votati a esser tenuti all’oscuro: da molto, troppo tempo la politica classica è uscita dai cardini, come nei regni dove c’è qualcosa di marcio e ci si nutre di oscuro. Ne risentono anche i vocaboli, storcendosi. Dici riforma, e intendi tagli allo Stato sociale, discesa nella povertà. Dici crisi,e non è momento di trasformazione e opportunità di vivere in modo diverso ma, come disse Ivan Illich già nel ’78: «il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici.

Crisi, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire «scelta» o «punto di svolta», ora sta a significare: ‘Guidatore, dacci dentro! ’».
Ma la parola che più stenta a sopravvivere è democrazia. Anzi scompare.
Nell’Agenda Monti è menzionata solo a proposito delle primavere arabe. Se il linguaggio si è tanto rarefatto, vuol dire che a guastarsi, qui da noi, sono abitudini e regole più stremate che in altre democrazie. Scardinato non è il contrapporsi fra destra e sinistra, come pretende l’Agenda, ma l’idea stessa del conflitto, dell’alternativa che i cambi di governo possono ingenerare. Il dominio dei tecnici, aggiunge Illich, ci riduce a minorenni. Si proclama centrista, e intanto accentra. L’unità nazionale diventa non espediente ma regime ideale: quante torbide e dubbie persone, nel centro montiano!

È perché siamo a questo punto che i politici vagano nelle loro trincee come soldati mutilati, e si fanno avanti Guidatori: banchieri, tecnici, e poteri terzi come i magistrati, e ecclesiastici che da tempo non dovrebbero neanche sfiorare il potere. Al posto della politica, dunque del dividersi costitutivo della democrazia, s’installa la clinica: la tecnica che ci sdraia tutti quanti sul klìne,a letto. La Agende non sono programmi tramutati in proclami, ma bollettini medici.
Certo c’è una notevole differenza fra il giudice che entra in politica e l’economista o il banchiere deciso a guidare la pòlis. Pietro Grasso o Antonio Ingroia sanno le storie criminali italiane, su cui altri candidati sorvolano: e siccome la malavita ha messo sì profonde radici in Parlamento, pensano sia giunta l’ora di mettervi radici anche loro, per far da sentinelle. Inoltre i magistrati sono stati corpi dello Stato: per mestiere agiscono in nome della legge eguale per tutti. Non così tecnici o imprenditori, che entrando in politica tendono a confondere l’interesse privato con quello generale. Infine c’è una differenza di efficacia: Gerardo D’Ambrosio, magistrato divenuto parlamentare nel 2008, constata che «il processo penale lento, quindi facile preda della prescrizione, fa comodo a molti. Soprattutto ai colletti bianchi» di destra e sinistra. Ben nove suoi disegni di legge sono restati nel limbo, non calendarizzati né discussi. Impervia sarà la vita dei politici-magistrati.

In ambedue i casi tuttavia siamo di fronte a progetti che di per sé minano la democrazia. La convinzione di partenza è che il ceto politico soffra di vizi congeniti, che il conflitto di idee non sia che rissa letale, e che il grande unico rimedio sia la Repubblica dei Sapienti: competenti economici, o custodi della legalità come i magistrati, o cultori dell’ordine morale e dei propri privilegi come chi serve la Chiesa. Anche la parola laicità scompare dai bollettini medici. Grazie alla loro speciale esperienza, o divina illuminazione, i Sapienti sono i soli ad afferrare, come in Platone, la vera essenza dello Stato. E l’Essenza è per definizione Una: il Sapiente moderno non ama contare fino a due né tantomeno fino a tre, che consente la tripartizione fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Ut Unum Sint, perché siano una cosa sola. Fa impressione, perché la teologia politica rifà capolino: i messianesimi totalitari del ’900 si proponevano proprio l’apocalittico unanimistico approdo cui oggi mirano tanti inviati della società civile, stufi di intralci politici o giudiziari. Tra costoro gli inviati della Chiesa, attivi in Comunione e Liberazione o nella Compagnia delle opere.

Per uomini come Ingroia, le divisioni destra-sinistra sono fallite perché nonostante Falcone e Borsellino, nonostante Mani pulite, i politici mai hanno combattuto la cultura dell’illegalità, ponendo al centro la questione morale. Per molti sostenitori di Monti, sono fallite perché indifferenti alle discipline dell’economia. Non a caso i Guidatori annunciano Rivoluzioni, guardandosi l’un l’altro di sbieco. Gli economisti per primi diffidano: che significa l’improvvisa transumanza di magistrati verso la politica, quando la sfiducia dei mercati è tutto? Non saranno dei parvenu? dei depistatori? Anche a causa di simili sospetti c’è del marcio, nel regno. Lo straripare della parola rivoluzione vuol dire che c’è, diffusa, ansia di piazza pulita. Di una sorta di immacolata rigenerazione, che azzeri la storia dimenticandola. C’è voglia di mandare in cantina partiti e politici inadempienti: che reimparino, nell’aiuola dell’antipurgatorio riservata da Dante ai Re Negligenti, il governare disappreso. Da anni si evita perfino il nome Italia. Provate ad ascoltare i politici o i nuovi Guidatori.

In genere dicono «questo paese», o «questi paesi qui»: quasi dissociandosi, altezzosi, da uno Stato italiano cui sono estranei e che sta lì per terra. I giornalisti sono parte del degrado: è cominciata nei primi ’90 (quando annunciatrici e conduttori Tv cominciarono a augurare «buona serata», invece dell’asciutto, non ammiccante «buona sera») l’usanza, anch’essa anomala, di dare del tu ai politici. Ai Guidatori, più rispettati, si dà ancora del lei. Non è senza pericoli, la promessa Repubblica dei sapienti e competenti. L’alternarsi di maggioranze non dà frutti, l’alternativa che ne dovrebbe scaturire è dichiarata impraticabile, dunque ambedue finiscono nel cestino. Quel che deve nascere è una democrazia truccata a nuovo. Ai comandi, in assenza dell’Europa politica: un potere che rende conto ai mercati più che ai cittadini (la regale immunizzazione della Presidenza della repubblica – il segreto sempre più ampio che essa può invocare – è stato il segno precursore della Rivoluzione, nel 2012). La democrazia è in mutazione, e in fondo siamo grati a chi, cancellandola dai dizionari, ce lo rivela.

Quanto ai Re Negligenti, ai politici di vecchio tipo, una sola frase di Bersani (19 dicembre) dice tutto, o quasi: «Tra prendere alle elezioni il 51% o il 49%, io preferisco il 49%. Non voglio avere la «tentazione» di fare tutto da solo». Un suicidio in piena regola, una fervida preghiera rivolta a noi elettori: di grazia non dateci troppi voti, perché vasta sarebbe la Tentazione di governare con proprie forze, proprie idee. Governeremo divinizzando il Centro: dove secondo Nietzsche «vince l’istinto del gregge, e ogni paura cessa». Ut unum sint, nella speranza che la cupola del potere non sia infranta da qualche Lutero di passaggio.

La costituzionalizzazione del bilancio statale. Un "ottavo pilastro" che rafforza il meccanismo sistemico del dominio. Discutendo con Alberto Asor Rosa

Il lungo articolo ("I sette pilastri della saggezza" il manifesto 19/1), di Alberto Asor Rosa ha, tra i molti pregi, anche e soprattutto quello di riportare il discorso sulla fase politica in corso ai suoi fondamenti ed ai suoi lineamenti di lungo periodo. Un approccio certamente non estraneo alla tradizione di questo giornale, ma del tutto in controtendenza rispetto alla spuma di superficie che agita la pubblicistica quotidiana (e non solo), ben compresa quella che solitamente viene definita come "autorevole". Pensare la contingenza politica è, quindi, di per sé, già un atto di resistenza.

Per quel niente che può contare, mi trovo ad essere d'accordo, nella sostanza, con l'analisi della contingenza fatta da Asor Rosa. Vorrei, però, ragionare su alcuni aspetti che derivano da quei lineamenti e che, a mio parere, rendono i dati di realtà già oggetto di analisi, ancora più preoccupanti e pericolosi di quanto, e non è certo poco, è pur messo in evidenza da quell'articolo.

1) Ovviamente Asor Rosa non si fa alcuna illusione sul carattere "tecnico" del governo Monti. Egli ha ragione quando dice che è stucchevole discettare se tale governo sia "tecnico" o "politico". Forse però è meno stucchevole interrogarsi sulla funzione, del tutto ideologica, assunta dalla continua ed insistita autoproposizione della specificità "tecnica" come legittimazione, in ultima istanza, del ruolo di un governo particolare. Una autoproposizione sempre presente nelle parole del presidente del consiglio e dei suoi ministri.

Asor Rosa ritiene che tale «sua propria "tecnicità"» vada «intesa, più che come superiore sapienza ed esperienza, come estraneità alle procedure e allo spirito del tradizionale gioco politico italiano».

Non c'è dubbio che questo aspetto sia ben presente nell'esperienza del governo Monti, ma non ritengo che sia la dimensione essenziale della proposizione (auto e insieme di tutta la stampa "autorevole") della proclamata funzione "tecnica" essenziale del governo stesso. Anzi credo che sia proprio il ricorso alle risorse della «superiore sapienza» a rendere così ampia la pervasività dell'ideologia che si integra perfettamente nelle ragioni forti dell'esperienza governativa. Un ottavo pilastro della saggezza?

L'ideologia, in tutti i suoi molteplici aspetti e forme, diventa l'elemento essenziale esplicativo dell'egemonia. Quali sono le possibilità di emancipazione dei subalterni in una società in cui il potere dominante è sottilmente, capillarmente diffuso attraverso le abituali pratiche quotidiane, strettamente intrecciato alla "cultura" stessa? Com'è possibile combattere un potere divenuto «senso comune»?

2) Le molteplici forme dell'ideologia comprendono tanto le narrazioni in grado di dare elementi di conoscenza reale, quanto le narrazioni che invece ne sono del tutto prive. Nel nostro caso il «senso comune » è continuamente alimentato da una narrazione che legittima un governo in nome di uno stato di necessità. Stato di necessità che può essere superato solo tramite competenze in sé «superiori» perché fondate sull'unico sistema di teoria economica che possa considerarsi vero.

Questo tipo di narrazione non ha nessun rapporto con i procedimenti ed i risultati della ricerca economico-sociale anche solo degli ultimi vent'anni. Se rimanessimo sul piano della capacità della teoria critica di spiegare i meccanismi della crisi attuale, la sua prevedibilità, ebbene il confronto con gli apologeti del mercato autoregolantesi, od anche con i teorici dei «mercati imperfetti», sarebbe già vinto. Non è però questo il piano del confronto.

Per spiegare alcuni fenomeni politici difficilmente comprensibili alla luce della «ragione positiva» si è fatto ricorso alla categoria delle «religioni politiche». Penso che dovremmo introdurre anche la categoria delle «religioni economiche». In tale ambito gli economisti mainstream, e Mario Monti ne è paradigma, assumono la funzione dei sacerdoti piuttosto che quella degli scienziati. Una funzione braminica: sacerdotale e di casta. Una funzione essenziale in una fase della lotta di classe che si configura piuttosto come vera e propria «guerra di classe». Mi rendo conto che sto usando espressioni ormai desuete, in qualche modo considerate «estreme». Ma l'estremismo è nei dati di fatto, nei modi in cui le classi dominanti stanno conducendo quella che considerano la fase finale e risolutiva di un lungo percorso bellico.

L'operazione di nuova legittimazione del potere dominante attraverso la promozione di idee e valori congeniali a tale potere e presentati come universali e naturali, ha avuto ed ha caratteri che è veramente difficile non definire estremisti.

Dalla Mont Pelerin Society, al Gruppo Bilderberg, alla Trilateral Commission, nate in tempi diversi ma con il medesimo orizzonte teorico e politico, è sempre uscito il medesimo messaggio estremo. La sostanza del messaggio concerne la non compatibilità di quasi tutti i diritti sociali (ed anche di qualcuno politico) con le logiche del «libero mercato». Se la democrazia, di per sé inesaustiva, finisce per ampliare troppo la sfera dei diritti, allora si verificano «eccessi di democrazia».

Il carico di istanze democratiche tendenzialmente crescente secondo una razionalità emancipatrice, finisce per confliggere con la razionalità dei processi di accumulazione. Di qui l'urgenza di escludere la sfera economica dai processi decisionali politici, in particolare dalle assemblee rappresentative, in particolare da quelle a rappresentanza proporzionale. La discussione politica deve rimanere estranea ai temi di quell'economia politica che presuppone i principi costitutivi dell'organizzazione sociale. L'elettorato si occupi di sicurezza, identità, etica ecc., ma non sia chiamato a decidere l'ordine politico e sociale esistente. La competizione politica deve quindi non includere quelli che vogliono cambiare questo ordine.

Non è un caso che la costituzione cilena dopo il colpo di stato si sia chiamata «Costituzione della libertà». Del resto tra i 76 consiglieri economici di Reagan, 22 erano membri della Mont Pelerin Society. Non è facile pensare come moderata la sostanza di questo messaggio. E Mario Monti è stato presidente europeo della Trilaterale fino a tempi molto recenti. Ed anche la Costituzione italiana, pur senza le convulsioni cilene, si prepara a diventare una «Costituzione della libertà».

3) La Costituzione italiana si iscrive completamente nella visione della democrazia in continua costruzione, nel progetto inesaustivo dell'uguaglianza da declinarsi nella sperimentazione di nuovi rapporti economico sociali.

In questo senso la Costituzione italiana fa una scelta dirimente, sebbene limitata ai principi generali: la scelta è quella di non considerare lo svolgimento delle forze economiche sul mercato come risolventesi spontaneamente in utilità generale. Su tale base la Costituzione si pone come garante di un indirizzo finalizzato al coordinamento verso finalità sociali dell'attività economica.

Naturalmente tali principi generali non hanno certo potuto sottrarsi alle dinamiche dei rapporti di forza. Sono diventati maggiormente operanti nei periodi in cui tali rapporti favorivano le classi subalterne.

Oggi, invece, ci stiamo preparando a costituzionalizzare un particolare modo di gestione del bilancio statale. In sostanza la chiave di ogni politica economica e sociale. Ecco che la teoria economica mainstream, una teoria economica, diventa la teoria economica della legge fondamentale che regola rapporti politici e sociali. Si tratta di un fenomeno di rilevanza eccezionale, ancora troppo poco percepito anche da parte di chi esercita attenzione critica alle vicende del momento attuale. Un ottavo pilastro che rafforza, e non di poco, il meccanismo sistemico del dominio.

Anche per questo le recenti affermazioni del presidente del consiglio sulla «monotonia del posto fisso» e sul «buonismo sociale» che avrebbe contraddistinto un lunghissimo periodo della storia italiana, non sono interpretabili come ingenue sprovvedutezze di comunicazione. Sono invece l'indice della consapevolezza che in una fase in cui la vittoria definitiva appare a portata di mano, è anche necessario bastonare il cane che affoga.

4) Nelle conclusioni del suo articolo Asor Rosa ragiona intorno all'«assenza di una risposta critica alternativa al livello dei problemi» posti dalla combinazione dei sette pilastri ai quali possiamo aggiungere l'ottavo. Certo il processo di costruzione/ricostruzione dell'antitesi sarà certamente vicenda di lungo periodo. Nello stesso tempo però esiste un qui e ora dal quale nessuno di coloro che all'antitesi sono interessati può prescindere. Serpeggia sempre, invece, la tentazione del «ripartire da zero», del «big bang», in sostanza della tabula rasa. Metafore affascinanti. Suggeriscono campi infiniti di libertà, praterie da percorrere senza limiti. Tutto sembra diventare possibile. Gli orizzonti sono infiniti e i pesi della storia ce li siamo scaricati dalle spalle.

Si tratta, però, solo di effetto retorico, di costruzione narrativa. Nei processi storici reali, neppure in quelli di più radicale cesura, i meccanismi di mutamento funzionano così. I rapporti cesura/continuità hanno ben altra complessità e di lì bisogna necessariamente passare. Il punto più problematico del nostro qui e ora non è tanto nella costruzione di un pensiero critico nell'ambito dei diversi contesti analitici. Senz'altro ci troviamo di fronte ad un insieme ancora molto povero, ma c'è ed è in sviluppo. Quello che manca totalmente è il rapporto positivo con le forme organizzate della politica. E su questo piano nessuno dei gruppi dirigenti di tali organizzazioni, per quanto piccole, può sfuggire alle proprie responsabilità, tanto per il passato recente, che per il futuro, a cominciare da quello molto prossimo.

Intanto il manifesto solleciti chi ha responsabilità politiche dirette ad esprimersi sui temi di questa discussione. Possibilmente con pensieri lunghi anche nel considerare le forme in cui affrontare i tempi brevissimi degli appuntamenti ai quali tutte le forze che si riconoscono nell'antitesi non possono sottrarsi. Appuntamenti elettorali non esclusi.

* Professore di storia contemporanea e teoria della conoscenza storica - Università di Genova

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