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«Nel funzionamento della nostra democrazia è aperta una grande “questione parlamentare”».

LaRepubblica, 9 aprile 2013.
QUANDO Lenin commenterà l’esperienza della Comune di Parigi (1871) dove il Consiglio si era organizzato in commissioni, lo farà con parole celebri: “Un’assemblea parlamentare che si trasforma da mulino di chiacchiere in luogo di lavoro”. Rivoluzione e rivoluzionari a parte, ogni parlamento moderno ha seguito quella via. Perché oggi da noi vi sono incertezze su questa organizzazione parlamentare? Perché la geografia politica definitiva delle commissioni riproduce quella del governo: quella del governo: come strumenti essenziali per l’attuazione del suo programma, come snodi delle filiere di maggioranza e opposizione. Fino a che un nuovo governo si forma, non si possono perciò avere commissioni “permanenti”. Pragmaticamente però, “coperti” da Costituzione e regolamenti, i presidenti della Camera e del Senato hanno costituito due commissioni “speciali” transitorie come il periodo che attraversiamo. Il tempo però si prolunga e anche crescono le materie su cui le competenze delle due commissioni risultano affastellate. Di qui la richiesta di ampliarne le competenze, di articolarle in sottocomitati o di crearne altre, per tre o quattro macro-aree, fermo restando la precarietà temporale.

Spetterà alle assemblee decidere sul punto. E speriamo che lo facciano presto e non diano forza alla cattiva immagine - che già circola - di un Parlamento “disoccupato”, in “cassa integrazione” pagata dai contribuenti. Si è già visto che il Parlamento, anche se appena eletto, non è certo considerato “innocente” da chi grida disperazione sociale. È bene infatti che quale che sia la complicata vicenda nella formazione del governo, i nuovi parlamentari “trovino subito lavoro”. Non solo per esaminare e controllare i provvedimenti del governo dimissionario ma anche per stimolare, nel confronto e sul terreno, le loro prime riflessioni: sul Parlamento che hanno trovato e sul Parlamento che devono cambiare. Per diventare insomma anche loro, “saggi”.

Capiranno così che non basta la necessaria lotta agli sprechi della casa per dare slancio ed anima ad istituzioni rappresentative accartocciate su se stesse. Ci sono altri problemi e altre verità da scoprire sullo stato del Parlamento. Visto da un lato come istituzione “in sé”, autonoma nei suoi poteri. Dall’altro, come istituzione che condivide con il governo il peso delle decisioni pubbliche, delle “politiche generali”.

Sul piano istituzionale, se si fa il confronto con gli altri Parlamenti dell’Unione, il nostro sistema parlamentare è il più debole d’Europa. Non vi sono rappresentate le Regioni come in Germania, in Spagna, in Francia. Non ha le garanzie contro lo scioglimento anticipato che hanno il Bundestag e la Camera dei Comuni britannica. Non ha, unico in tutta l’Europa continentale, la possibilità di ricorso diretto di minoranza al tribunale costituzionale. Non ha, soprattutto, la forza rappresentativa che ovunque le leggi elettorali, con i collegi uninominali e le piccole circoscrizioni, danno, con il legame al territorio, agli altri parlamenti.

A questa specifica povertà istituzionale italiana si aggiungono, drammaticamente, le difficoltà dei Parlamenti a tenere dietro ai governi - nazionali e sovranazionali - nelle decisioni pubbliche. L’ordinamento delle decisioni pubbliche - dominate dall’urgenza - si è verticalizzato e “semplificato”. La questione non è più quella dell’equilibrio democratico nelle decisioni tra governo e Parlamento. La questione è se le decisioni pubbliche, comunque adottate, siano adeguate nella tempistica e nel merito alle necessità da fronteggiare nella crisi. E su quale sia il luogo abilitato per valutarne gli effetti. Nel magma della grande crisi, sembra ormai anacronistico richiamare rigidi schemi di competenze parlamentari (come le risalenti grida contro l’abuso della decretazione d’urgenza: vi è persino il dubbio che, alla luce della situazione attuale, la Corte costituzionale non avrebbe sentenziato contro la reiterazione dei decretilegge ...).
Le domande sono ora più radicali: lo strumento legislativo ordinario è adeguato a reggere il peso di questa nuova situazione? Dobbiamo “rinunciarvi” perché il governo ha i mezzi più idonei ad intervenire in questo contesto? Come si rimodula il Parlamento dinanzi ad una tale “dispersione” della sovranità? Come possiamo salvaguardarne le prerogative essenziali? La situazione di emergenza continua e strutturale impone, infatti, di spostare l’accento dai temi consueti della crisi della legislazione a quelli – per molti aspetti inediti - della legislazione della crisi. Non è un giuoco di parole. Non si può infatti affrontare la crisi – con le sue cause e componenti irriducibili ai confini statali e perfino ad una unione sovranazionale (come l’Ue) – costringendola nel “letto di Procuste” delle vecchie procedure normative. Sono queste procedure, invece, a dovere essere investite da uno sforzo culturale di adattamento, di meticciato, talora di de-formazione (con l’utilizzazione di moduli tradizionali per ottenere risultati nuovi; con l’immissione di procedure partecipative).

Una cosa rimane ben ferma: la necessità di una funzione di controllo parlamentare spostata sul versante dei risultati, della valutazione delle politiche pubbliche, della verifica delle procedure deliberative. La necessità del Parlamento come pubblico ministero della Nazione.

Insomma, nel funzionamento della nostra democrazia è aperta una grande “questione parlamentare”. Che ha due versanti. Quello della costruzione di una energia istituzionale del Parlamento, almeno pari a quella degli altri europei (con cui oltretutto la “cooperazione” prevista dai Trattati è zoppa, se non ad armi uguali). Quello della invenzione di procedure nuove nella vasta area che la Costituzione lascia libera per la deliberazione legislativa e in quella ancora più larga del controllo sulle politiche pubbliche. Ignorare tutto questo, non è più possibile: al di là dell’attuale, e passeggera, polemica su commissioni “permanenti” e commissioni “speciali”.

«Io credo che un cittadino che voglia provare a fare dei discorsi che incidano sulla realtà debba informarsi su quali siano le norme e provare a cambiarle. Non da giurista, ma da cittadino, credo che è necessario agire sul continuum tra beni pubblici e beni comuni».

Il manifesto, 7 aprile 2013

«I dati dell’Eurostat sul finanziamento alla cultura e all’istruzione sono l'esito preoccupante di un'intera legislatura in cui le cose sono andate sempre peggiorando afferma Salvatore Settis, storico dell’arte che insegna alla Normale di Pisa e autore di Azione popolare (Einaudi) Seguono un trend condiviso di fatto dalla destra, dalla sinistra e dai tecnici, con un peggioramento netto con i governi di centro-destra. Ma non è che quelli di centrosinistra abbiano brillato molto. Gli ultimi tagli che sono stati apportati a tutto ciò che è cultura, ricerca, università e scuola sono il risultato della crisi. Come reazione alla crisi in Italia è prevalsa l'idea che la prima cosa da fare sia tagliare la cultura. Credo che sia importante sapere che questa è un'idea italiana, ma non di tutti gli altri paesi. Ci sono paesi come gli Stati uniti dove Obama ha detto che nei momenti di crisi bisogna accrescere la spesa per l'istruzione e la ricerca».

Mentre l’Inghilterra dei conservatori eccome se ha tagliato... L'Inghilterra è il caso che ci somiglia di più. Ma in Inghilterra il punto da cui partivamo è rimasto molto alto. Al British Museum si continua ad entrare gratis ed è molto più finanziato dei nostri musei. L'ex ministro francese Valerie Pecresse, una giovane signora della stessa età della nostra Gelmini, ma molto meglio di lei – non ci vuole molto, lei mi dirà – lanciò nel 2009 un piano straordinario della ricerca di 21 miliardi in 5 anni. Di fronte a questo vorrei notare anche la contraddizione drammatica, anzi quasi ridicola, fra il continuo uso dello slogan sviluppo e crescita, crescita e sviluppo, e poi non si fanno le cose che servono ad entrambi. Nel frattempo sono stati trovati i 40 miliardi per le imprese e gli enti locali. Perché all'emergenza dei tagli alla cultura, che certo non è dell'altro ieri, non è stata data una risposta altrettanto celere?
Le priorità stabilite dai governi italiani rispondono ad un'economia miope e non lungimirante che non contiene innovazione. Per carità il problema delle imprese e dei comuni è assai grave, ma il fatto che abbiano trovato 40 miliardi e nemmeno 1 milione per la cultura fa parte di questo ordine di priorità. La seconda ragione è che le imprese hanno maturato una capacità di pressione sulla politica per ottenere quello che vogliono, mentre la cultura non ha maturato la stessa capacità».

Il prossimo governo sembra che avrà un solo compito: la legge elettorale e, forse, un paio di finanziare, di cui una straordinaria. Poi il voto. L'emergenza cultura sarà rinviata alla prossima legislatura? «Io ostinatamente credo, e spero, che nonostante tutto da questo parlamento nasca un governo che non duri tre o quattro mesi, ma l’intera legislatura. E che possa godere di una spinta che viene obiettivamente da tutto il paese. Finché questa mia speranza non sarà uccisa dai fatti continuerò a coltivarla».

La convince l'idea che l'investimento in cultura sia il «petrolio d'Italia», com'è stato ripetuto anche di recente?
«Non confondiamo il petrolio con il sangue. Il petrolio è petrolio e gli esseri umani sono esseri umani. Il valore metaforico di questo petrolio, che peraltro è una risorsa in esaurimento, non fa parte dell'armamentario delle metafore che uso. Credo che in Italia, come nel resto del mondo, l'economia e la società possano essere gestite con uno sguardo lungo nell'interesse delle generazioni future. L'innovazione è alla radice di qualsiasi forma di crescita e di sviluppo, ma essa non può esistere senza la ricerca e la ricerca non può esistere senza una buona scuola e una buona università. Bisogna però capire che la competitività si basa sulla conoscenza e non sulla commercializzazione della conoscenza. Se non prendiamo questa strada il paese è condannato.

Da tempo lei, insieme a giuristi come Stefano Rodotà o Ugo Mattei e altri studiosi, sostiene il teatro Valle occupato a Roma e l'ex colorificio occupato di Pisa, oggi sotto sgombero. Uno stile inconsueto per un intellettuale italiano. Crede che la cultura si affermi anche attraverso queste esperienze di auto-gestione?
«Io credo che un cittadino che voglia provare a fare dei discorsi che incidano sulla realtà, senza mettersi a fare il parlamentare dilettante, cosa che non mi attira per nulla, debba informarsi su quali siano le norme e provare a cambiarle. Non da giurista, ma da cittadino, credo che è necessario agire sul continuum tra beni pubblici e beni comuni. Così si può cercare di ricostruire un senso di cittadinanza, e quella sovranità del popolo prescritta dalla Costituzione che non è messa in pratica ma è il vero contenitore dei nostri grandi diritti, a cominciare dal diritto al lavoro, il più trascurato di tutti, come dimostrano le vittime della recessione. È quello che si sta cercando di fare attraverso gli esperimenti che lei ha citato. Ognuno ha preso una strada diversa. Nella sola Pisa, dove vivo, c'è anche il teatro Rossi occupato. Sono esperienze diverse, ma eticamente e politicamente le loro strade sono molto interessanti per riappropriarsi della cittadinanza».

Un primato italiano: il paese nel quale la diseguaglianza tra ricchi e poveri è maggiore. Ma guai a rendere la fiscalità davvero progressiva, come comanda la Costituzione. .

L'Unità, 6 aprile 2013

Quando una crisi durissima martella per anni una popolazione ad alta diseguaglianza sociale sarebbe davvero ingiusto, anzi ipocrita, sorprendersi per episodi gravissimi come quello accaduto ieri a Civitanova.
Viviamo in un Paese dove metà della popolazione possiede meno del 10 % della ricchezza privata, immobiliare e finanziaria. In nessun altro Paese dell’Unione europea esiste tanta diseguaglianza. A Bruxelles spesso i nostri governanti, da Berlusconi a Monti per restare agli ultimi, nel tentativo di ammorbidire le ricette di rigore europeo hanno elogiato la ricchezza privata: «Il debito pubblico è alto, ma grazie alla ricchezza delle famiglie il debito totale, pubblico e privato è in media europea, perciò siate meno rigorosi nell’imporci misure di risanamento finanziario». Giusta osservazione, che però non è mai stata integrata da provvedimenti consequenti.

Questa grande ricchezza privata, 8.600 miliardi di euro, quasi sei volte il Pil, è concentrata nelle mani di pochi: il 10 % delle famiglie ne possiede quasi la metà. Questo significa che 2,4 milioni di famiglie sono ricche di quasi 2 milioni di euro, mentre 12,3 milioni di famiglie sono «povere» con appena 70 mila euro.

Altra osservazione che spesso ci hanno fatto a Bruxelles, soprattutto tedeschi e olandesi: «Se voi italiani avete tanta ricchezza privata, perché non la chiamate a ridurre il debito pubblico?». In effetti, tutte le proposte avanzate da sindacati e partiti di centrosinistra per introdurre qualche misura di solidarietà a carico dei ricchi e super ricchi patrimoniale, contributi di solidarietà per pensioni e redditi alti, reddito minimo di cittadinanza si sono sempre scontrate con le opposizioni delle destra, sia quella politica che quella tecnica. Con il risultato che oggi, drammaticamente, dobbiamo registrare che almeno metà del Paese è colpita da una crisi economica di durezza senza precedenti, con redditi calati del 10 % in pochi anni, da sterilizzazioni di salari e pensioni e soprattutto da una disoccupazione crescente.

La drammaticità della situazione è in tre numeri: 31, 8 e 3,5. Trentuno sono i milioni di cittadini che posseggono solo il 10 % della ricchezza privata (70 mila euro in media a famiglia, come abbiamo detto) e fanno fatica ad arrivare a fine mese senza qualche dura rinuncia (interruzione del pagamento del mutuo, ritiro dei figli dall’università, niente ferie, etc.). Otto milioni di questi, inoltre, sono poveri «relativi», secondo l’Istat, quelli cioè che in base ad un «indice sintetico di deprivazione» non sono in grado di far fronte a una spesa imprevista, sanitaria o d’altro genere, e ben 3,5 milioni sono poveri «assoluti», pari ad una famiglia di due persone che vive con meno 800 euro al mese.

Di fronte a questa situazione, con un Indice Gini che misurando la diseguaglianza sociale ci piazza al picco più alto di questa imbarazzante classifica e a distanza siderale dai Paesi europei a più alta eguaglianza come Austria, Germania, Olanda, Francia, Svezia, Finlandia, Danimarca e Svezia, con tutto questo abbiamo meno contribuenti ricchi d’Europa (solo 215mila contribuenti superano i 150mila euro di entrate annue) e abbiamo attuato solo provvedimenti di risanamento finanziario ad alta iniquità: sono stati toccati redditi e pensioni da mille euro senza togliere niente ai grandi proprietari di ricchezza, ai percettori di pensioni d’oro e ai tanti casi di redditi cumulati di migliaia di super burocrati. Sono stati aumentati Iva, accise e tributi pesando in modo elevato sui redditi medi e bassi senza alcuna considerazione alle condizioni minime di sopportabilità di almeno metà della popolazione. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti, non può bastare piangere per casi di disperazione mortale che un Paese civile dovrebbe poter evitare e non è accettabile subire prediche da chi vorrebbe governissimi senza alcun obiettivo di eguaglianza.

«Eguaglianza» è una bella parola che troppi politici usano e pochi praticano. Questi sono gli effetti dell’avidità, ma anche dell’ignoranza. Anche in Germania e Svezia non mancano cittadini che puntano al massimo arricchimento, ma con una differenza, culturale, rispetto alla nostra classe dirigente: lassù hanno capito da tempo che nella società globale della conoscenza, le diseguaglianze sociali portano alla povertà collettiva. Guardate al Pil procapite e scoprirete che i Paesi a più alta eguaglianza sono diventati anche i più ricchi del mondo.

La difficile alternativa che si pone a M5S e la pesante incidenza che la scelta avrà sul futuro dell'Italia.

Il manifesto, 6 aprile 2013

Il Movimento 5 Stelle si trova prima del previsto a confrontarsi con il problema del governo nazionale e con le inevitabili divergenze di opinioni e di atteggiamenti fra i suoi 163 eletti alla prima esperienza parlamentare. Divergenze raccolte, amplificate e spesso manipolate da giornalisti e di mezzi di comunicazione. Il M5S affronta, a un livello molto più impegnativo, gli stessi problemi incontrati a Parma un anno fa.

-Una forte accelerazione del passaggio da movimento di cittadini attivi sul territorio a responsabilità per amministrare un importante capoluogo di provincia. A livello nazionale, il passaggio è più difficile: l'approdo in parlamento crea problemi a altre forze politiche ma anche allo stesso movimento. L'esperienza del M5S ricorda per molti aspetti lo tsunami al Bundestag tedesco provocato dai Verdi trenta anni fa. I Grünen non erano solo portatori di contenuti ecologisti e pacifisti. Il rifiuto della tradizionale forma partito e il tentativo di sperimentare nuove pratiche politiche e organizzative aveva creato notevoli difficoltà al nuovo soggetto politico, lacerato a lungo dal conflitto fra le posizioni pragmatiche e quelle più radicali (i realo e i fundi ). Solo gradualmente è stata superata la diffidenza ad allearsi con le altre forze politiche, arrivando nel 1998 alla partecipazione al governo con i socialdemocratici. Anche la Lega Nord, che era stata costruita come movimento alternativo, aveva impiegato cinque anni prima di allearsi, con Berlusconi nel 1994. Il M5S deve affrontare gli stessi problemi in tempi molto più ridotti: per il peso assunto nella rappresentanza nazionale non può più limitarsi ad essere un semplice "strumento" di protesta e partecipazione.

La democrazia diretta può essere sufficiente in aree territoriali limitate o nella comunità on-line. Ma è difficile da praticare nella fase in cui l'impegno si sposta a livello nazionale e diventano necessarie definire strutture e responsabilità organizzative del movimento, al di là delle rete dei collegamenti fra i Meetup. I problemi del M5S sono diventati più complessi per i rapporti di forza fra le principali coalizioni politiche dopo le elezioni. Appare definitivamente in crisi lo schema bipolare fra centrodestra e centrosinistra. Berlusconi ha avuto per la prima volta un forte ridimensionamento dei consensi elettorali e parlamentari. Bersani non è riuscito a cogliere una vittoria che appariva scontata perché si è preoccupato più di rassicurare i mercati e le istituzione europee che di raccogliere e di interpretare la domanda di cambiamento. Il Partito democratico si trova diviso fra l'alleanza con l'avversario di sempre e il tentativo di creare un "governo del cambiamento" che potrebbe ottenere l'approvazione di importanti riforme con il sostegno a 5 stelle. Una possibile riedizione dell'esperienza realizzata in Sicilia che terrorizza però, non a caso il presidente di Mediaset.
Le divergenze di strategia interne al Pd riflettono due possibili evoluzioni dell'intera politica italiana che fanno emergere differenze anche fra gli eletti, gli attivisti e gli elettori del M5S. I sondaggi hanno segnalato l'esistenza di un segmento non trascurabile (20%) di elettori del movimento di Grillo che sarebbero favorevoli ad appoggiare un governo guidato dal Pd. Una prospettiva che, in questa fase metterebbe in discussione la necessità di costruire percorsi e strumenti alternativi ai partiti per garantire una effettiva influenza dei cittadini sulle istituzioni politiche. Le discussioni fra i parlamentari del M5S evidenziano l'esigenza di ripensare e cambiare pratiche e strutture organizzative. Se questo non avviene, le decisioni politiche sono di fatto assunte solo da Grillo e dallo staff centrale. Il comico genovese, d'altra parte, rappresenta la risorsa fondamentale per mantenere l'unità degli attivisti e garantire una influenza significativa nell'arena politica.

Se il parlamento deve essere davvero "lo Specchio del paese" e la democrazia non deve essere sacrificata alla governabilità, non c'è dubbio che il sistema proporzionale sia quello migliore. Ma occorre che la

civitas sappia ridiventare polis, che dalla società rinasca la politica. Che cosa sostituirà i partiti, al di là e megliodelle aggregazioni precarie e temporanee delle liste elettorali? Il manifesto, 5 aprile 2013

Una tradizione nefasta: dalla legge Acerbo alla legge truffa fino alla "porcata" di oggi Germania, Svizzera, Spagna, Svezia, Norvegia, Finlandia, Islanda, Danimarca e Olanda hanno democrazie mature e governi stabili senza presidenzialismi o meccanismi maggioritari. In Italia dovremmo aver imparato che il Porcellum o il Mattarellum hanno favorito una deriva berlusconiana

Giorgio Napolitano ha ragione: il parlamento italiano dovrebbe abolire l'attuale legge elettorale che è una porcata. La riforma dovrebbe riportare a un sistema proporzionale non maggioritario, l'unico che può garantire la rappresentatività reale degli elettori e quindi un governo condiviso dai cittadini. Il centrosinistra e il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo hanno attualmente la maggioranza alle Camere e potrebbero eliminare subito il Porcellum, che nel 2005 fu votato dalla maggioranza berlusconiana e leghista con un colpo di mano. Ma la sinistra dovrebbe respingere tempestivamente e con forza anche il presidenzialismo proposto recentemente da Berlusconi, soprattutto in una Italia dove - caso unico al mondo (neppure in sudamerica e in Russia) - al padrone della televisione e dei giornali è stato concesso di partecipare alle elezioni falsando la corretta competizione elettorale. E le eventuali modifiche costituzionali non dovrebbero essere discusse nel chiuso delle "bicamerali" formate dai partiti; si dovrebbe fare come in Islanda, dove i cittadini hanno dibattuto la nuova Costituzione su Internet, l'hanno condivisa e infine votata con oltre i due terzi dei voti.

La sinistra dovrebbe riprendere l'iniziativa sui due temi centrali per la democrazia: oltre la riforma del sistema elettorale, anche (con grande cautela) della Costituzione italiana. Per chi è democratico e, a maggior ragione, per chi è di sinistra non ci dovrebbe essere alcun dubbio: il sistema proporzionale - basato sul semplice principio ugualitario un uomo un voto - è certamente da preferire a qualsiasi altro astruso e complicato meccanismo. Con il proporzionale tutte le diverse opinioni politiche presenti nel corpo elettorale possono trovare un'adeguata rappresentanza parlamentare. Senza il perverso trucco del premio maggioritario previsto sia dal Porcellum attuale (falsamente proporzionale) che dal Mattarellum precedente (sostanzialmente uninominale), con il sistema proporzionale il numero dei voti espressi dagli elettori genera un numero proporzionale di eletti. Qualsiasi libro di testo di scienze politiche spiega nel capitolo iniziale che il proporzionale garantisce le minoranze e i partiti di minoranza; così come i sistemi maggioritari distorcono la rappresentatività del voto per promuovere artificialmente la governabilità. Il voto dei cittadini non è più uguale, la democrazia è palesemente distorta.

Il sistema proporzionale ha poi un vantaggio molto semplice: nella storia non ha mai potuto essere utilizzato per restringere gli spazi d'agibilità democratica. Spesso le tecniche elettorali sono state manipolate per favorire regimi autoritari: così hanno fatto i fascisti, i comunisti, i gollisti e, prima ancora, i termidoriani, i bonapartisti, ecc. Ma nessuna di queste manipolazioni ha potuto fare uso del meccanismo proporzionale. Tutte invece hanno fatto ricorso ai modelli maggioritari, come la famigerata legge Acerbo del 1923 voluta da Benito Mussolini, e poi la legge truffa del 1953 che dava un premio di maggioranza a chi raggiungeva il 51%, e la legge Calderoli, unica in Europa, peggiore di quella Acerbo, che regala la maggioranza dei seggi a chi arriva primo anche solo con il 20% dei voti.

Il sistema proporzionale, nato con il liberalismo di John Stuart Mill, si è diffuso in Europa dopo la prima guerra mondiale insieme al suffragio universale e ai partiti di massa cattolici, socialisti e comunisti. Non a caso il proporzionale è di gran lunga il sistema più utilizzato in Europa (anche se nessuno lo dice). Solo il Regno Unito, la Francia, la Grecia e l'Italia perseguono una logica maggioritaria. Germania, Svizzera, Spagna, nord Europa (Svezia, Norvegia, Finlandia, Islanda, Danimarca, Olanda, ecc) hanno un regime proporzionale, puro o misto, mentre il sistema uninominale - che è intrinsecamente maggioritario perché, come dice il nome, uno solo viene nominato e tutti gli altri perdono anche se sono la maggioranza - è stato adottato soprattutto dalle democrazie anglosassoni (Usa, UK, Canada) e dalla Francia.

L'uninomale maggioritario, come il Mattarellum, tende a tagliare le ali eccentriche e a favorire la convergenza dei partiti verso il centro. Secondo gli scienziati politici conservatori è utile perché assicura la governabilità. Svizzera, Germania e i paesi nordici hanno però governi molto stabili con il sistema proporzionale. I sistemi uninominali maggioritari hanno un altro fondamentale difetto: sono spesso accompagnati dal presidenzialismo (come negli Usa e in Francia), un retaggio della monarchia, il sogno di tutti i conservatori, dalla Trilaterale in avanti, passando per la P2, ovvero il sogno di concentrare il potere in un uomo solo per "affrontare l'emergenza".

Preoccupa che il partito democratico voglia ritornare al Mattarellum; tuttavia non stupisce troppo dal momento che anche l'ex Pds con D'Alema era pronto a (contro)riformare la Costituzione in senso presidenzialista insieme a Berlusconi e Fini; e dal momento che Veltroni vorrebbe copiare il sistema americano dove i partiti sono comitati elettorali. Il Pd ritiene evidentemente che il sistema uninominale maggioritario potrebbe eliminare le formazioni alla sua sinistra e favorire la formazione di un suo governo, ma si sbaglia: il maggioritario favorisce la destra e Berlusconi.

Stupisce invece che una formazione di sinistra come Sel di Nichi Vendola proponga di tornare al Mattarellum, e non sia schierato a favore del proporzionale. Paradossalmente è più a sinistra Grillo dichiarandosi a favore del proporzionale, contro i tentativi presidenzialistici berlusconiani.

La destra punta a snaturare la Costituzione, instaurare il presidenzialismo ed eliminare l'equilibrio tra i tre poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario. La sinistra e i democratici devono difendere la nostra Costituzione, ma non possiamo essere solo conservatori: occorre anche affrontare i pericoli sopravvenuti dopo la nascita della Costituzione del 1948. Da allora la situazione è molto cambiata, esiste ormai la necessità di prevedere che le carte costituzionali erigano barriere alte e robuste all'influenza esorbitante della finanza, delle corporation e delle lobby sulla politica e sul gioco democratico. Occorrerebbe cominciare a introdurre elementi di democrazia economica nella Costituzione, per l'autogoverno dei beni comuni, per il diritto e il dovere dello stato di promuovere il welfare, l'occupazione e lo sviluppo sostenibile, per la democrazia industriale nelle aziende. Ma le questioni costituzionali sono ovviamente molto complesse.

Dopo la crisi finanziaria che minacciava di rovinare il paese, in Islanda nel 2010 è stato eletto un Consiglio Costituzionale formato da 25 persone che hanno messo a punto i principi fondamentali della nuova Carta costituzionale. Sulla bozza presentata al Parlamento è stata poi aperta una consultazione durata più di un anno attraverso i social media on line per raccogliere le opinioni e le proposte degli islandesi. Nell'ottobre del 2012 un referendum ha finalmente votato la nuova Costituzione con una maggioranza di oltre due terzi dei cittadini. Un esempio prezioso per gli altri paesi

La lunga parabola e i numerosi autori della decadenza del massimo istituto della nostra democrazia. Chi darà l'ultimo colpo?

La Repubblica, 4 aprile 2013, con postilla

Il nostro Parlamento ha subito in questi ultimi decenni gravissime umiliazioni. Prima di tutto a causa della crisi dei partiti tradizionali che ha partorito il regime del partito padronale. Il Parlamento è stato usato da Berlusconi come la tappa finale, o premio, di un processo di selezione che con la rappresentanza politica aveva poco o nulla a che fare (non va dimenticato il criterio del favore sessuale usato dal Pdl e denunciato già nel 2008 da Sofia Ventura). Per anni le Camere hanno funzionato come megafono dell’esecutivo berlusconiano, un’eco di Palazzo Chigi. I partiti di opposizione, da parte loro, non sono riusciti a correggere questa immagine vile del Parlamento anche perché non hanno mai seriamente lottato per cambiare il sistema elettorale, la madre di tutte le viltà. Movimenti di opinione hanno per anni denunciato questa piaga che avvelena la più importante istituzione dello Stato democratico.

Ma il declino di legittimità morale del Parlamento ha anche avuto altri risvolti. Prima di tutto, la crescita inconcepibile della distanza tra rappresentanti e rappresentati: distanza negli stili di vita, nei privilegi, nel potere effettivo di muovere risorse e creare alleanze o fazioni. La “casta”, questo termine orrendo che è entrato in uso corrente nel nostro linguaggio ordinario, ha per anni reso l’idea di un Parlamento oligarchico che rappresentava non più i cittadini ma alcuni interessi particolari e alcuni cittadini in modo speciale. Il secondo risvolto è stato forse ancora più grave: il declino di credibilità del Parlamento come istituzione dalla quale dovrebbe scaturire una maggioranza legittima e la ricerca di altre strade che confidavano invece sulla capacità di singole persone più che sulle procedure.

Il primo segno di questo risvolto lo si è avuto con la soluzione della crisi del governo Berlusconi nel novembre 2011, quando al ritorno alle urne è stata preferita la nomina di un governo totalmente tecnico. Sembrò che gli elettori fossero incapaci di esprimere un’alternativa all’altezza dei bisogni del Paese. La crisi di legittimità del Parlamento porta fatalmente con sé la crisi della democrazia elettorale, poiché sembra che i cittadini stessi non siano capaci di esprimere ciò di cui il paese ha bisogno.

Il declino del Parlamento va dunque ben al di là dell’istituzione parlamentare e coinvolge i fondamenti, la cittadinanza elettorale. Il governo tecnico è stato istituito come strategia sostitutiva dei partiti e del processo politico attraverso il quale si formano ordinariamente le maggioranze. Nel corso del governo Monti, il Parlamento ha aggravato la sua posizione poiché non è stato emancipato dal suo ruolo di passività anche se per altre ragioni: perché occorrevano decisioni spedite e soprattutto “quelle decisioni”, non altre. Il Parlamento divenne una camera di ratifica con una maggioranza che si avvicinava all’unanimismo, un segno ulteriore di crisi del Parlamento che vive di divisione tra maggioranza e opposizione. La crisi di legittimità del Parlamento si è riflettuta infine nell’esito delle recenti elezioni. Queste hanno registrato il riconoscimento del M5S che si è affacciato sulla scena dell’opinione politica proprio attaccando la “casta” e, sull’onda di questa campagna martellante, ha cambiato faccia al Parlamento.

E neppure le nuove Camere sembrano essere capaci di acquistare autorità, se è vero che il primo round di consultazioni per formare il governo non ha avuto buon esito e che, in conseguenza di ciò, il presidente della Repubblica ha deciso di uscire dalla prassi consueta e di rivolgersi a dieci “saggi” di alcuni partiti per avere da loro lumi sul “che fare”. Il declino di fiducia nel Parlamento non poteva raggiungere un punto più basso. Se non che, come scriveva su questo giornale Barbara Spinelli, precedenti tentativi fatti in tal senso da altri paesi sono stati mediocri nei risultati e fallimentari. Questi fallimenti e lo scetticismo con il quale è stata accolta la scelta del presidente Napolitano sono un dato ulteriore che conferma la centralità del Parlamento, il quale deve e può essere messo nella condizione di cercare da sé quelle soluzioni che alcuni suoi rappresentanti non hanno “per ora” trovato – ma possono trovare. Mettere alla prova il Parlamento è la saggezza di cui c’è bisogno ora. C’è più che mai necessità di recuperare fiducia nella saggezza della democrazia, e questo recupero può passare solo attraverso il recupero di autorità delle Camere. Senza il recupero di autorità della rappresentanza eletta nessuna istituzione può reggere all’urto della crisi di fiducia nella politica democratica.

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Postilla

Mentre scriveva questo ineccepibile articolo Urbinati non poteva sapere che la presidente della Camera dei deputati ha avanzato una proposta decisamente controcorrente rispetto al catastrofico trend di dissoluzione del Parlamento ricostruito nell’articolo: decidano i parlamentari di costituire una commissione per proporre una nuova legge elettorale, svolgendo nell’assemblea degli eletti il compito che Napolitano ha affidato ai “saggi”. Chi si tirerà indietro rivelerà il colore delle sue vere intenzioni.

Se la politica chiama al proprio capezzale il saggio – anzi “i saggi” – avverte di aver esaurito ormai le proprie residue risorse, di proposta e di tecnica» Ricordiamo i precedenti. La Repubblica, 4 aprile 2013

Ultimo viene il saggio, si potrebbe dire. Nel senso che se la politica, contigua solitamente più alla follia che alla saggezza, chiama al proprio capezzale il saggio – anzi, “i saggi” – significa che avverte di aver esaurito ormai le proprie residue risorse, di proposta e di tecnica. Un po’ come quando il medico curante richiede, con urgenza, un consulto tra “luminari”. O quando una coppia in crisi decide di rivolgersi al consulente matrimoniale… Si tratta comunque di occasioni infauste, di cui si farebbe volentieri a meno.In effetti, nei settant’anni di vita della nostra Repubblica, si contano rarissimi casi di questo genere, con un Capo dello Stato che richiede il consulto di una commissione ad hoc.

Uno solo, a mia conoscenza. Forse due, a voler largheggiare, entrambi risalenti alla presidenza di Francesco Cossiga (un Presidente, come si ricorderà,sui generis). Entrambi riguardanti potenziali conflitti istituzionali gravi, in momenti storici e politici delicati, in qualche misura “di svolta”.La prima volta fu nel 1986, ed i “saggi” furono chiamati a pronunciarsi sul quesito inquietante su “chi comanda in caso di guerra”. Si era a ridosso dei fatti di Sigonella, quando Bettino Craxi aveva gestito a modo suo il confronto con le truppe americane all’interno della base siciliana sfiorando lo scontro armato, e Cossiga pretese un chiarimento sui rispettivi poteri di comando. Fu costituita una commissione di giuristi e di esperti militari “di destra, di centro e di sinistra” – come annoterà lo stesso Cossiga – che in due anni di lavoro giunse a un verdetto per sfortuna del Presidente a lui ostile, escludendo che questi avesse “la competenza di interferire”.

La seconda volta risale al 1990, nella fase finale del mandato presidenziale di Cossiga, quando aveva già abbandonato il primitivo profilo di “custode della Costituzione” per inaugurare il ruolo di “picconatore”. E riguarda le competenze del Consiglio superiore della magistratura, prodromo del futuro conflitto istituzionale tra “politica e giudici”. Si era nel pieno delle indagini sull’organizzazione segreta Gladio. Si profilava all’orizzonte la crisi sistemica di Tangentopoli. Emergeva il volto di una magistratura determinata, almeno in alcune sue parti, ad affermare e difendere la propria indipendenza dal potere politico. E il Capo dello Stato (pare irritato per una presa di posizione delCsm sull’appartenenza dei giudici alla massoneria) procedette, questa volta con decreto presidenziale, alla formazione della cosiddetta “Commissione Paladin” (dal nome del presidente emerito della Corte costituzionale Livio Paladin, chiamato a dirigerla) che avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, ridimensionare le prerogative dell’organo di autogoverno dei giudici limitandone i poteri alla semplice gestione amministrativa. Ma anche questa volta gli andò male. I nove “saggi” che ne facevano parte, tutti giuristi di alto livello confermarono il “profilo costituzionale” del Csm e l’ampiezza delle sue funzioni, invitando il legislatore ad adeguare la normativa al dettato costituzionale.

Si tratta comunque di precedenti assai diversi dall’esperienza attuale, nella quale l’intervento dei “saggi” non è invocato tanto per rispondere a quesiti specifici, quanto per tentare di soccorrere in un vuoto lasciato aperto dalla politica e soprattutto dai partiti politici, incapaci di uscire dall’impasse in cui si sono cacciati e, per questo, potenziali portatori insani di una crisi sistemica dall’esito imprevedibile. Da questo punto di vista, se un precedente storico è dato riconoscere d’intervento di un collettivo di “sapienti” in un processo politico di svolta (pur in condizioni specularmente opposte a quelle attuali) questo potrebbe essere offerto dall’esperienza della Consulta Nazionale, agli albori della nostra Repubblica, quando in assenza di un parlamento eletto e in mancanza delle regole fondamentali, nel settembre del 1945 fu nominata con Decreto Luogotenenziale un’Assemblea di 304 membri (in parte indicati dai partiti, ma anche dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali, dalle libere professioni o scelti tra i reduci e tra gli ex parlamentari antifascisti), con il compito di fare le veci del Parlamento fino all’elezione della Costituente, e di istruirne i lavori preliminari.A scorrerne oggi l’elenco dei membri, non può non colpire l’alto livello delle competenze lì rappresentate. La quantità di saperi, e l’elevato numero di “saggi”, nel senso proprio del termine, che vi lavorarono. Ne facevano parte filosofi come Benedetto Croce e Guido Calogero, storici come Adolfo Omodeo e Luigi Salvatorelli, giuristi come Piero Calamandrei e Vincenzo Arangio-Ruiz, uomini come Luigi Einaudi, Guido Carli, Enrico Mattei… oltre a tutti i grandi leader politici del tempo. Nessun’altra assemblea elettiva riuscirà più a concentrare tanta qualità, in tutti i settant’anni successivi.

Ma si trattava, appunto, di un inizio. E i “saggi” erano chiamati allora a inaugurare un tempo nuovo per una politica nascente, non per permettere di guadagnar tempo a una politica in affanno. Il che non esclude che quell’esperienza aurorale possa ancora parlarci in questa fase crepuscolare.Essa ci dice, infatti, quale supporto possa offrire la “saggezza” alla politica in quella particolare condizione che va sotto il nome di “stato d’eccezione”, quando un Paese si trova a dover affrontare un passaggio di regime (è il caso del ’45). O quando è costretto a gestire una crisi sistemica come l’attuale, nella quale lo stato d’eccezione rischia di diventare permanente. Allora davvero i saggi potrebbero aiutare a individuare la via per uscire dal labirinto (per usare un’immagine cara a Norberto Bobbio), se solo riuscissero a restar tali. E a condizione che il monopolio della vita pubblica da parte degli apparati di partito (degli antichi sovrani in crisi, trasformatisi da mezzo in fine), si allenti. Perché il Pensiero è incompatibile con le macchine disciplinari, come ha magistralmente mostrato Simone Weil in un breve, fulminante testo ripubblicato di recente. E se è discutibile che il saggio possa fare compromessi con la ragion di stato, di certo esso non può nascere né convivere con lo spirito di partito.

Una voce che argomentatamente condanna la strumentalità della scelta del Presidente della Repubblica,

il manifesto, 3 aprile 2013, con postilla

Il compito affidato dal capo dello Stato alle due commissioni di saggi è chiaro. Potremmo sintetizzare così: «facite ammuina». Quell'ordine che - secondo una leggenda metropolitana - veniva impartito sui bastimenti del Regno borbonico allo scopo di dimostrare l'operosità dell'equipaggio e l'efficienza degli ufficiali di bordo, ma che si risolveva solo nell'obbligo di fare il massimo di confusione per impressionare le autorità in visita.

Sarebbe grave, d'altronde, se le commissioni si prendessero troppo sul serio e ritenessero di dover veramente predisporre un programma per il prossimo governo. Non hanno, infatti, nessuna legittimazione costituzionale in proposito. Né si può realmente credere ci sia bisogno di "saggi" per individuare le misure necessarie in materia istituzionale ed economico-sociale. Basta scorrere un qualsiasi giornale per conoscere le cose da fare, anche quelle «che possono divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche» (secondo gli auspici del Quirinale). Un elenco di proposte facile a farsi: la legge elettorale, la diminuzione del numero dei parlamentari, l'abolizione delle provincie, la riduzione dei costi della politica, la riforma del bicameralismo, per la commissione che si occupa delle istituzioni; i crediti alle imprese, la questione degli esodati, la revisione del sistema degli ammortizzatori sociali, l'allentamento del vincolo di stabilità, per la commissione economico-sociale. Sono queste tutte questioni per affrontare le quali non c'è bisogno di un gruppo di studio. Le difficoltà nella formazione del nuovo governo sono evidentemente di tutt'altro tipo, propriamente politiche.

Così, esemplificando, è evidente a tutti l'urgenza della riforma del sistema elettorale, né può dirsi ci sia bisogno di formulare nuove proposte in materia. La discussione è stata sin troppo approfondita, spesso persino pedante. La paralisi che ha impedito di cambiare la legge vigente - da tutti formalmente ripudiata - ha ragioni legate esclusivamente alle diverse convenienze politiche delle parti. Si tratta ora semplicemente di scegliere, in Parlamento, tra le diverse opzioni. Lo stallo del sistema politico lo ha sin qui impedito e l'unica via per sbloccare la situazione è quella che passa per la costituzione di una solida maggioranza parlamentare. Impresa evidentemente assai ardua - ai limiti dell'impossibile - dati i rapporti di forza e le rispettive debolezze tra le forze politiche che oggi "sgovernano" l'Italia. Ma non si può pensare che a sbrogliare la matassa possono essere dei saggi, svincolati da ogni logica di rappresentanza, scelti in base a imponderabili criteri da un organo - la presidenza della Repubblica - che non ha titolarità in merito alla definizione dell'indirizzo politico di maggioranza (bensì delicatissime funzioni di garanzia e di stimolo di queste maggioranze).

In termini assolutamente analoghi può dirsi per tutte le altre misure che dovranno essere trattate da queste due inutili commissioni. Nessuna di esse richiede ulteriori approfondimenti da parte di esperti, bensì del ritorno della politica. Pretendono tutte di essere affrontate finalmente nel merito. Per questo quel che più urge stabilire è se ci sono le condizioni per formare un governo, verificare se si può trovare una maggioranza in Parlamento che possa tradurre in leggi i programmi sin qui solo sventolati nei comizi o nelle infruttuose trattative politiche. In caso contrario, nell'impossibilità di far approvare qualsiasi proposta programmatica, si prenda rapidamente atto della profondissima crisi istituzionale e si sciolgano, appena possibile, le Camere. La tecnica del rinvio, in queste condizioni, non può che far peggiorare ancor più la già drammatica situazione di impotenza politica.

La scelta di Napolitano ha, invece, esplicitamente lo scopo di prender tempo, in attesa che le Camere - nei tempi consueti, non brevissimi - eleggano il prossimo presidente, al quale spetterà dare soluzione alla crisi «nella pienezza dei suoi poteri». Nel frattempo proseguirà il lavoro di un governo dimissionario, e dunque non più legittimato se non per l'ordinaria amministrazione, il quale adotterà raffiche di provvedimenti con una procedura che di ordinario non ha nulla, né nella forma (proseguirà l'abuso della decretazione d'urgenza), né nella sostanza (governando non grazie alla fiducia del Parlamento, bensì in base all'intesa con le istituzioni europee).

La gravità e l'urgenza del momento richiederebbero un'altra, opposta, strategia, che imponga una soluzione alla crisi senza indugio alcuno. Una volta accertata nelle consultazioni la divisione insanabile delle forze politiche, che tende ormai solo ad accentuarsi, due potevano ritenersi le decisioni più opportune. La prima, la nomina di un governo che, anche in assenza di una precostituita maggioranza in Parlamento, provasse a ottenere la fiducia al Senato e comunque riuscisse, nella sede propria, a far valere le responsabilità dei nostri rappresentanti eletti senza vincolo di mandato (la soluzione proposta da Bersani). La seconda, le dimissioni del Capo dello Stato, al fine di permettere nel più breve tempo possibile di sciogliere le Camere (le ragioni di questa scelta sono state illustrate il giorno di Pasqua sulle pagine di questo giornale).

La via dell'attesa, del prender tempo, del rinvio a dopo e ad altri, che non ha precedenti nella nostra storia repubblicana, non convince.

Postilla.

Tutto vero, tutto giusto. Però. Possibile che anche osservatori così acuti della cosa pubblica cadano nell’errore di inserire, tra i cardini di un nuovo programma di governo, l’abolizione delle province senza domandarsi: 1) come si adempirà ai i compiti attualmente svolti dalle province e chi ne pagherà il prezzo; 2) a chi verranno affidate, e con che cisti, le funzioni d’area vasta che condusse il legislatore, nel 1990, a rafforzare il ruolo delle province.
Visto che ci siamo diamo il testo (uno dei testi) he le voci msligne che circolavano negli ammuffiti salotti o nelle anticamere dei regi uffici del Regno sabaudo attribuivano al pugno del re Franceschiello dei Borboni. Forse gelosi dell'alto livello della marina borbonica, di cui largamente si avvalsero dopo l'Unità per costruire la marina italiana:
«All'ordine "Facite Ammuina": tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa / e chilli che stann' a poppa vann' a prora: / chilli che stann' a dritta vann' a sinistra / e chilli che stanno a sinistra vann' a dritta: / tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa / e chilli che stanno ncoppa vann' bascio / passann' tutti p'o stesso pertuso: / chi nun tene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a 'll à". »

Precise frustate e argomentate denunce della stupidità reazionaria al fondo della trovata regale dei “saggi”. Possibile che le analisi politiche più acute vengano dal genere che la Corte reale esclude dalla saggezza ?

La Repubblica, 3 aprile 2013

CONVIENE stare attenti, quando si fanno paragoni con paesi europei che hanno governi introvabili per mesi. Il Belgio, spesso citato da Grillo, ha traversato nel 2010-2011 una lunga ingovernabilità (541 giorni) che diede frutti negativi e positivi. Negativa fu la non-dimissione del governo bocciato alle urne: per nulla diminuito, l’esecutivo prese decisioni cruciali (bilancio di austerità, guerra libica), ignorando il Parlamento. Positivo fu l’insorgere di movimenti cittadini che diedero vita a nuove forme di democrazia deliberativa, correggendo dal basso l’atrofizzata, oligarchica democrazia rappresentativa.

Non meno fuorviante il modello olandese, caro agli uomini di Monti e sfociato nei due comitati di Saggi incaricati da Napolitano di negoziare punti d’accordo istituzionali ed economici fra destra, centro e sinistra. Due volte, nel 2010 e nel 2012, i Paesi Bassi ricorsero ai Facilitatori
(Napolitano ricusa la parola Saggio), dopo voti dall’esito dubbio. Nel 2010, la regina nominò suoi «esploratori» sette volte. Il metodo funzionò male, ed ebbe come conseguenza un Parlamento esautorato, l’espandersi della partitocrazia (più precisamente: del male che andava combattuto), e una monarchia screditata. Il 13 settembre 2012, la Costituzione olandese fu riformata, abolendo i poteri d’influenza del monarca — e delle sue camarille partitiche — nella formazione dei governi. Il futuro Presidente italiano farebbe bene a trarne insegnamento: incoraggiare inciuci rigettati da gran parte dell’Italia estenua la forza della carica. Il Parlamento olandese fece sapere alla regina che i Sapienti erano in Parlamento, non nelle regali stanze. Napolitano si dice abbandonato dai partiti che pure ha assecondato. Ma anche il secondo tentativo olandese, che nel 2012 facilitò una grande coalizione all’insegna di «Costruire Ponti», è un esempio bislacco.

Se l’ingovernabilità ha dominato i Paesi Bassi così a lungo, è perché nel 2010 aveva fatto irruzione, rompendo gli appassiti equilibrismi fra destre e laburisti, un inedito soggetto politico: Geert Wilders, islamofobo e nazionalista. Le sue idee sono già ben radicate nella destra italiana (nella Lega, in parte del Pdl). Con Grillo hanno poco a che vedere. Una sinistra rinnovata può allearsi con 5 Stelle e approvare leggi democratiche essenziali; con personalità che somigliassero a Wilders no. Obiettivo del modello olandese era estirpare Wilders, tramite un arco costituzionale comprendente il mondo di ieri. In Italia l’esigenza è tutt’altra: formare un governo che incorpori alcune richieste molto sensate di Grillo.
Un’occasione purtroppo persa dal M5S, che per settimane si è rifiutato di proporre il nome di un Premier, finendo col propiziare l’odierna ricaduta nell’inciucio. Ma l’occasione potrebbe ripresentarsi. Bersani, formalmente ancora incaricato, potrebbe fermare la deriva del Pd. Così come si spera che sinistre e Cinque Stelle facciano un nome, per il Quirinale, che voli alto. Che ignori la logica escludente dei 10 Saggi e l’intesa sinistra-Berlusconi su cui lavorano. I 10 Facilitatori scimmiottano l’Olanda, e l’obiettivo è escludere l’avulso, l’alieno Grillo/Wilders. A guidarli: l’istinto di sopravvivenza di un ordine politico ammaliato sin dagli anni ‘70 dalle larghe intese. Non dimentichiamo che di ingovernabilità si cominciò a discettare in quell’epoca. Oberato da un «sovraccarico» di domande, sociali e civili (da una cittadinanza indisciplinata e sprecona, scrisse Gianfranco Pasquino), il potere diede risposte neoconservatrici: la democrazia, per tranquillizzarsi, doveva ridurre tali domande. La politica si sarebbe difesa emancipandosi dalla società civile. Fu allora che la parola riforma degenerò: non significò più miglioramento, ma sacrifici e peggioramento.

È con la forza dell’inerzia che quest’ordine fa oggi quadrato contro Grillo, per neutralizzarlo e spegnerlo. Sbigottito dalla democrazia partecipata e dalle azioni popolari, il vecchio sistema si cura coi veleni che ha prodotto, indifferente alla vera nostra anomalia che è Berlusconi: anomalia che spiega Grillo e le sue rigidità. I veleni sono le cerchie di potenti, legati ai partiti e non all’elettore, e si sa che la democrazia, quando si moltiplicano le domande cittadine, secerne le sue ferree leggi delle oligarchie. «I grandi numeri producono il potere di piccoli numeri», disse tempo fa Gustavo Zagrebelsky: «L’oligarchia è l’élite che si fa corpo separato ed espropria i grandi numeri a proprio vantaggio. Trasforma la res publica in res privata» (Repubblica, 5-3-11).

I nomi dei Saggi designati da Napolitano sono quasi tutti figli delle oligarchie (Onida e Rossi sono un’eccezione). L’esempio più ominoso è quello di Luciano Violante: passato ormai alla storia per aver ammesso, nel 2003 alla Camera, che il Pd non era sospettabile dal governo di destra visto che sin dall’inizio aveva favorito Berlusconi, al punto da infrangere una legge del 1957 sull’ineleggibilità dei titolari di concessioni pubbliche. Riportiamo le parole che disse, perché non tutti avranno visto il film di Sabina Guzzanti (Viva Zapatero!):«L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, quando ci fu il cambio di governo. Lo sa lui, e lo sa l’on. Letta! (...) Voi ci avete accusato di regime, nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, (avessimo permesso) che il fatturato di Mediaset, durante il centrosinistra, aumentasse di 25 volte!». In altre parole: abbiamo patteggiato col diavolo dell’illegalità, ed ecco come ci ripagate!
Se così stanno le cose, è inane la protesta contro l’assenza di donne o giovani nei comitati. Forse che questi verrebbero nobilitati, se fosse cooptata una donna o un rottamatore? Difficile crederlo: il problema delle commissioni paracadutate dall’alto è la loro natura oligarchica, la loro dipendenza dall’ordine lottizzatore dei partiti, l’esclusione della cittadinanza che ha portato Grillo in Parlamento. Il male è quello che Adriano Olivetti (fondatore del Movimento Comunità, europeista) denunciò già nel 1959: «I sistemi congegnati e intrapresi dagli uomini della politica vorrebbero risanare la situazione e trovare la soluzione dall’alto, attraverso la macchina della burocrazia centrale, la penombra delle commissioni, e la potenza occulta degli apparati di partito».

L’ultimo atto di Napolitano è disperato, solitario e conservatore (ben più ardito e coraggioso il suo europeismo). Al Corriere, ieri, ha detto che altre strade non c’erano: le Commissioni dureranno poco, non indicheranno governi. Tuttavia, anche se i Saggi saranno rapidi, i nomi prescelti proteggono la vecchia partitocrazia e già prefigurano una coalizione. Non costruiscono ponti verso il nuovo. Premiata è quella che Zagrebelsky chiama l’accidia della democrazia:«sulla libertà morale, prevale il richiamo del gregge e la tendenza gregaria».

ùOligarchie e greggi non sono tuttavia il ferreo destino della democrazia: sono solo una possibilità. Il Parlamento può aprirne altre, diverse: esigendo che subito siano istituite le commissioni parlamentari, senza attendere il nuovo governo, per deliberare su conflitto di interessi, legge elettorale, finanziamento dei partiti, reddito di cittadinanza, politica estera, austerità europea da rivedere. Subito può riunirsi la Giunta delle elezioni, per valutare se la legge sia stata rispettata quando Berlusconi fu ripetutamente eletto. Subito può chiedere che Monti agisca come deve: non come prospettato dal Quirinale («d’intesacon le istituzioni europee e con l’essenziale contributo del nuovo Parlamento»), ma previa intesa col nuovo Parlamento e con ilcontributo di un’Europa da rifondare. Altre vie non s’intravvedono, sempre che si voglia smettere di trattare i cittadini come scolari spreconi e uscire dalla penombra delle commissioni.

«In qualche punto si è smarrita la via. Una lettura ci dice che il pensiero unico della governabilità a ogni costo ha prevalso, come da vent'anni, e pur essendone venuti disastri indiscutibili». Quattro domande spinose per Giorgio I e i suoi cattivi consiglieri.

Il manifesto, 2 aprile 2013

Napolitano ha surgelato la crisi. Il capo dello Stato, il governo pre-voto, il parlamento neo-eletto restano ciascuno al proprio posto. Nuovi sono solo i saggi, che dovrebbero dare a tutti lumi sul che fare. È opinabile che sia la via utile e costituzionalmente corretta. Su una cosa Napolitano ha ragione. Un governo esiste, comunque e sempre. Allo stato, è il governo Monti. Dimissionario e senza fiducia, ma con i poteri formali necessari anche per i provvedimenti d'urgenza di cui si manifestasse la necessità. E il governo è parte necessaria anche nei lavori parlamentari, quale che sia l'opinione del M5S. Basta leggere i regolamenti di Camera e Senato per saperlo.

Ma un dubbio viene: se governo senza fiducia doveva essere, perché Monti? Se il popolo sovrano avesse voluto Monti ancora in carica, l'avrebbe votato in massa. È accaduto il contrario. Per di più, Monti ha rotto il rapporto fiduciario già prima del voto, con le dimissioni. Realizzando così la stessa situazione che sarebbe seguita al diniego della fiducia per un governo di nuova formazione, oggi. Perché allora opporre a Bersani l'ostacolo - di fatto insuperabile - di un sostegno parlamentare certo, per poi giungere a un governo per cui era ed è certa la mancanza di sostegno? Perché non puntare a un governo magari senza fiducia, ma comunque legittimato dal consenso prevalente degli italiani, come Bersani, per giungere invece a un governo parimenti senza fiducia, e in più colpito dal dissenso prevalente degli stessi italiani, come Monti?Ci si richiama al gradimento europeo e dei mercati. Ma non può essere l'unico elemento a sostegno del permanere in carica di un governo. E in specie per il costituzionalista si pongono quattro domande.

La prima: può il capo dello Stato omettere ogni iniziativa, e lasciare in carica il governo Monti, senza ulteriori formalità? A mio avviso, no. Per l'art. 94, primo comma, Cost., il governo «deve» avere la fiducia delle Camere. Ciò significa quanto meno che non si può ignorare se il governo la fiducia l'abbia o non l'abbia, né si può lasciare in carica a tempo indeterminato un governo senza fiducia. Tale è invece inevitabilmente il caso per l'attuale governo, che non ha alcun rapporto con il Parlamento espresso dal voto. Per questo, è necessaria una nuova nomina di premier e ministri, sia pure con le stesse persone. A seguire, la presentazione alle Camere e il voto di fiducia ai sensi dell'art. 94, commi 2 e 3.

La seconda domanda: laddove manchi una nuova nomina, può il governo così congelato in carica evitare un passaggio in Parlamento con voto sulla fiducia? Non può. Per gli stessi motivi di cui al punto precedente, il venire in essere di nuove Camere rende inevitabile la verifica del rapporto con il governo. Nella nostra forma di governo l'esistenza o inesistenza del rapporto fiduciario non si presume. Si certifica per il sì o per il no, con il voto sulla fiducia. L'ipotesi di un governo che rimanga in carica senza sapere se mai si giungerà a quel voto non è compatibile con l'art. 94.

La terza domanda: qual è la posizione dei saggi nei lavori parlamentari? Nei regolamenti delle Camere, gli unici soggetti legittimati alla presenza e alla iniziativa sono i parlamentari e il governo. Salvo casi specifici come la petizione, o alcune limitate ipotesi di iniziativa legislativa, gli apporti di soggetti terzi sono eventuali e a richiesta, ed entrano nel procedimento solo se fatti propri da un soggetto legittimato. Chi si renderà portatore del prodotto dei saggi? I presidenti di commissione? I parlamentari? Il governo? Chi difenderà quel prodotto nella gestione degli emendamenti, e come? Un governo che non può mettere la questione di fiducia, perché per definizione la fiducia non l'ha, e dovrà - per il parere obbligatorio - rimettersi costantemente all'Aula? Alla fine, decideranno gruppi parlamentari e partiti. Ma allora bastava partire dalle proposte che sono state avanzate nel corso degli anni. Cosa potranno inventare di nuovo i saggi?

La quarta domanda: che fine fa la responsabilità politica? Un governo già dimissionario, imbalsamato dopo la cesura elettorale, condotto dal leader meno legittimato politicamente nel voto, senza fiducia parlamentare, a chi risponde di che? E i saggi chiamati a risollevare la repubblica, a chi rispondono a loro volta? A un presidente che nel frattempo avrà terminato il suo mandato? E se il nuovo capo dello Stato volesse dei saggi più saggi, potrebbe più o meno motivatamente licenziare i primi? Se il disastro del paese dovesse confermarsi o addirittura aggravarsi chi ne assumerebbe la responsabilità, e sulle spalle di chi cadrebbe la censura per i costi sociali, politici, economici? Quali elementi utili per il nuovo turno elettorale, comunque vicino, darà l'esperienza che ora si avvia?

In qualche punto si è smarrita la via giusta. Una lettura ci dice che il pensiero unico della governabilità a ogni costo ha prevalso, come da venti anni a questa parte, e pur essendone venuti disastri indiscutibili. Non si sfugge alla sensazione che l'Italia dei governicchi fosse alla fine più governata dell'Italia di oggi. Si parla di soluzione olandese. Il richiamo all'esperienza straniera è sempre elegante. Ma attenzione: può accadere che partendo dai tulipani si giunga ai crisantemi.

Arriva il chirugo. Chi salverà: chi soffre e continua a soffrire, o chi è stato ed è causa del male? A Taranto La risposta non sembra dubbia, sebbene a Bisanzio si parli d'altro.

La Repubblica, 31 marzo 2013

SE A Roma si procede come alla corte di Bisanzio, che cosa succede della colonia tarantina? I giorni più veri qui sono quelli della Passione. Le estenuanti processioni ondeggianti dei perdoni scalzi e incappucciati, i pellegrinaggi ai sepolcri, uomini che venerano una madre addolorata. Poi, festa e resurrezione arrivano quasi come un complemento minore alla commemorazione. Guai a perdere la speranza, dice il vescovo, in un’omelia-arringa da pubblico accusatore: la salute viene prima di tutto, Dio maledice quelli che possono fare e non fanno. Gli accusatori pubblici laici sono provvisoriamente in silenzio, il loro tribunale ostruito dal processo di cronaca nerissima, intanto i capi dell’Ilva hanno provveduto a denunciare al competente tribunale di Potenza la giudice Todisco e i suoi custodi giudiziali. L’Ilva sciorina iniziative che danno nell’occhio. Enrico Bondi, ottuagenario campione di risanamenti (sinonimo, spesso, di liquidazioni), con una competenza siderurgica (fu lui a vendere la Lucchini al russo Mordashov, che l’ha lasciata in gramaglie) è il nuovo amministratore delegato. La famiglia Riva sottolinea come per la prima volta l’azienda passi in mani esterne. Gli analisti obiettivi sottolineano come nel frattempo la famiglia abbia prosciugato la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie. Nomina di Bondi e casse svaligiate fanno pensare all’intenzione di mettere il patrimonio societario e famigliare al riparo dalle spese di risarcimenti e bonifiche. Per intenderci, le bonifiche nel territorio coinvolto dalla semisecolare vicenda di Italsider e Ilva costerebbero, a un occhio onesto, un paio di centinaia di miliardi, che non è una cifra, è una amara barzelletta. I lavori indispensabili a mettere in ordine lo stabilimento costerebbero poco meno dei 10 miliardi del cosiddetto salvataggio di Cipro, che invece è una cifra, benché la si voglia far passare per una barzelletta. Ci si chiede se operazioni finanziarie e notarili possano bastare a preservare la proprietà dall’obbligo a risarcire il danno all’ambiente e alla salute, come prevede la legge. Dicono gli operai più anziani che una volta che l’Ilva fosse disertata e smantellata come avvenne a Bagnoli – qualche impianto traslocato a Djerba, in Tunisia, qualche altro trasportato gratis o a prezzo di rottame in Cina o in India … – si scoprirebbe quale irredimibile discarica tossica abbia via via sedimentato il suolo su cui poggia lo stabilimento, e i canali dai quali avvelena i mari. Altro affare, questo, rispetto all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) e la sua costituzionalità.

L’aria che si respira a Taranto (niente di metaforico, significa proprio l’aria che si respira) pretende di confortare. Si vantano risultati brillanti nell’addomesticamento di inquinamento e perfino di malattie (!), l’azienda e il governo, che all’azienda è fisicamente incorporato, ne assegnano il merito all’Aia e alla sua attuazione. Il merito dei dati migliori (nell’ultimo quadrimestre 2012) sta in un’ovvietà come la diminuita produzione e la chiusura di lavorazioni fra le più nocive, e nella meno ovvia azione dei custodi nella riduzione dei parchi minerali. Le cui giacenze, scrivevano nel novembre scorso, “non /erano/ legate alle progressive necessità produttive, ma a una speculazione sulle tariffe, a scapito della salute e con ingorghi rischiosi nelle operazioni di scarico”.

Quanto all’attuazione dell’Aia, è in un ritardo plateale nei casi in cui prevede precise scadenze, e in un’allegra dilazione nei casi in cui non le prevede, e spazza la monnezza al termine del triennio cui la legge si applica. Ma lo stesso garante dell’Aia, l’ex magistrato Esposito, certifica al governo gravi violazioni e inadempienze emerse in una ispezione dell’Ispra effettuata tra il

5 e il 7 marzo. Le relazioni dei custodi giudiziali, rese note negli scorsi mesi, documentavano rigorosamente violazioni e inosservanze, e una mancata collaborazione dell’azienda che si è via via mutata in ostacolo al compito loro affidato. Denunce corroborate dall’Unione europea in un dettagliato testo del 4 marzo, che lamenta il ritardo e la parzialità delle risposte fornite dal governo Monti e minaccia una procedura di infrazione.

Tutto ora sembra sospeso al calendario di aprile, il mese più crudele: la decisione della Corte Suprema sulla costituzionalità della legge, un referendum cittadino consultivo e striminzito su tre quesiti (tenersi l’Ilva, chiuderla tutta, o chiuderne l’area a caldo – purché si sappia che cos’è), una manifestazione ambientalista il 7 aprile con la parola d’ordine del sostegno “ai pubblici ministeri e alla Gip”, e l’arrivo effettivo di Bondi, di cui tutti sottolineano, con tremore o con ammirazione, la tempra di chirurgo d’emergenza “durissimo”.

Si tratta di capire chi è il paziente. Alla Parmalat era piuttosto chiaro. All’Ilva non ci si sarebbe stupiti dell’arrivo di un amministratore straordinario, in una condizione di fatto fallimentare: ma Bondi ci arriva da amministratore delegato. A meno che non sia un passo verso la cura fallimentare, la famosa “durezza” rischia di piovere sul bagnato. Chi ha seguito i capitoli precedenti sa dei reparti confino, dell’impiego dei “fiduciari”, rete parallela e occultata di comando tecnico e disciplinare; delle assunzioni selettive, della disciplina da caserma, delle discriminazioni nelle destinazioni dei posti di lavoro, della cassa integrazione, fino ai dettagli “minimi” ma influenti sulla vita quotidiana come i turni. Dopo la tragica sequenza di tre morti in cinque mesi, “incidenti” si sono succeduti senza guadagnarsi le cronache. Da pochi giorni a questa parte c’è stato un incendio (23 marzo: “sono intervenuti tecnici dell’Arpa per verificare l’eventuale dispersione di sostanze tossiche”), un versamento di ghisa (26 marzo: “per un inconveniente tecnico, una piccola [sic!] parte del getto di ghisa è caduta sul terreno sottostante, generando emissione di fumo visibile anche dall’esterno dello Stabilimento”), e (29 marzo) un grave infortunio a un operaio al laminatoio a freddo. Nella prosa aziendale: “Durante le fasi di regolazione della macchina bordatrice n.1 si rendeva necessario l’intervento sulla linea per sistemare una sezione di guida delle lamiere… L’operatore inavvertitamente attivava un ‘sensore presenza lamiera’ che provocava l’avanzamento di alcuni centimetri di una lamiera determinando il contrasto del piede destro tra la stessa e il piano della via rulli”. Non è stato facile ai soccorritori liberare la caviglia spappolata di Mario G. dal “contrasto” cui il comunicato allude come a un tackle calcistico. “Non bisogna mai abbassare i livelli di guardia sulla sicurezza” ha detto il direttore. Va preso in parola, e avvertito di una circostanza di cui magari non è a conoscenza. L’Ilva stabilisce un premio di 100 euro a testa per i reparti in cui gli infortuni restano al disotto del traguardo fissato rispetto all’anno precedente: 40, per esempio, quest’anno. Per la classifica dei primi 10, la cifra si raddoppia. Lodevole iniziativa, no? Può succedere però che l’incentivo spinga i capi (per i quali arriva a 1.000 euro, e in busta paga) a indurre i lavoratori, con i molteplici mezzi di suasione di cui dispongono, a non dichiarare gli infortuni, a mettersi in ferie invece che in malattia, a lavorare in condizioni menomate. Un’azienda ha tutte le possibilità di condurre un’indagine su questa tentazione, e tanto più se dispone di temperamenti “durissimi”. Come ricorda il vescovo del Dio che maledice chi può fare e non fa.

«Una unanimità assordante ha unito le voci» dei vecchi e dei nuovi(!) politici, «rivelatrice della cattiva coscienza di una classe dirigente incapace assumersi la vera responsabilità della delega espressa dalle urne».

il manifesto, 31 marzo 2013
Se con il governo Monti la democrazia era commissariata, con il mostriciattolo del governissimo è pietrificata. Le larghe intese cacciate dalla finestra con il tentativo di Bersani, rientrano dalla finestra, surrettiziamente introdotte con l'invenzione delle due commissioni di "saggi". E con loro vola via la richiesta di cambiamento espressa dalla maggioranza dell'elettorato e dal nuovo parlamento che la rappresenta. Sostituiti, l'una e l'altro, dalle scelte di un presidente-sovrano eppure dimezzato nei suoi poteri dall'esaurimento del settennato. Le dimissioni anticipate di Napolitano, per dare al paese un capo dello stato nei pieni poteri (compreso quello di poter sciogliere le Camere), non avrebbero forse accelerato i tempi del passaggio delle consegne ma avrebbero evitato l'avvitamento nell'ultimo bizantinismo. L'estremo tentativo messo in campo dal Presidente della Repubblica per venire a capo del rebus politico è il figlio naturale del peccato originale: il governo Monti invece del voto. Così come questo garbuglio post elettorale è il frutto della resistenza del Presidente di percorrere decisamente la via maestra di un incarico pieno al partito maggioritario per verificarne il consenso delle Camere.

La soluzione escogitata nella notte, seppure animata dalle migliori intenzioni, rischia ora di essere una pezza peggiore del buco. Come dice il filosofo, la saggezza che un saggio tenta di trasmettere suona sempre simile alla follia, per dire quanto è sottile il filo che a volte le distingue. E la medicina scodellata ieri dal Quirinale, in sostanza per replicare il format montiano fuori tempo massimo, è una camicia di forza che non curerà la malattia.

I nomi dei saggi che dovrebbero darci nientedimeno che una riforma istituzionale e un programma economico per rispondere alla fortissima richiesta di trasformazione espressa dal paese ne sono la riprova. Tutti uomini, tutti veterani frequentatori di partiti e palazzi, e, a parte la figura di Valerio Onida, affidabile custode del miglior costituzionalismo (non a caso il più scettico), gli altri certo non rappresentano il bisogno di radicale rinnovamento venuto dal voto. Sono invece i guardiani di un potere esausto, una sorta di camera di compensazione propedeutica a quel governissimno destinato semmai ad aggravare il distacco tra l'opinione pubblica e la politica. Tutto bene per Berlusconi e per Grillo, gli unici a guadagnare una rendita elettorale dal successo, come dal fallimento, di questo pasticcio pasquale.

Stordisce ma non stupisce il coro di osanna tributato dai politici alla sorpresa presidenziale. Siamo il paese abituato da sempre a non risolvere i problemi con la formazione di fantastiche commissioni che di speciale hanno solo la maschera. La destra berlusconiana apprezza e ringrazia per la promessa delle larghe intese, i montiani si identificano pienamente, Bersani si adegua da Piacenza, Maroni applaude sulla scia berlusconiana, i portavoce di Grillo sono contenti di questa "prorogatio" del governo in carica che li esenta da difficili responsabilità. Una unanimità assordante ha unito le loro voci, rivelatrice della cattiva coscienza di una classe dirigente incapace assumersi la vera responsabilità della delega espressa dalle urne.

Tutto ragionevole se non fosse che i leader di quella formazione hanno predicato e praticato la guerra non solo all’ideologia della crescita, a

questi partiti, alle grandi opere e alla distruzione dei beni comuni, ma anche alla Costituzione repubblicana. Il manifesto, 30 marzo 2013

Il blocco politico neoliberale che ha sostenuto il governo Monti ha subito una sconfitta cocente. Gli elettori hanno ribadito in modo chiarissimo quanto già una maggioranza assoluta del popolo italiano aveva detto con i referendum del giugno 2011: valorizzare i beni comuni e ristrutturare in modo democratico e partecipato il settore pubblico; emanciparsi dalla dipendenza anche psicologica dalle grandi opere e dalle energie non rinnovabili; lottare contro i privilegi del ceto politico. Questa stessa maggioranza, forse ancora cresciuta se si sommano i voti del M5S con quelli sparsi in altri gruppi antiliberisti e con milioni di astenuti consapevoli, chiede di invertire la rotta voltando le spalle ai dogmi del neoliberismo, in particolare a quel fenomeno di cattura cognitiva secondo cui "di più è meglio".

La Costituzione prevede che sia il Presidente della Repubblica a dar seguito istituzionale alla piena realizzazione di questo anelito di cambiamento profondo. Solo il pieno rispetto della democrazia consentirà di costruire un governo legittimo. Interpretando al meglio la volontà di cambiamento, Napolitano potrebbe passare alla storia come il Presidente che ha portato il popolo italiano ad affermarsi come faro mondiale di una necessaria riconversione di civiltà. Il popolo italiano ha voluto liberarsi di un blocco di potere costituito da tutti i partiti politici, che hanno la loro matrice culturale nell'ideologia della crescita di derivazione ottocentesca e novecentesca. Una maggioranza larga da destra a sinistra, vuole liberarsi dalle industrie multinazionali e dalla grande finanza, che sempre più disprezzano le regole democratiche cui pure dicono di ispirarsi.

Nei partiti politici infatti si è verificata in Europa una sostanziale convergenza sulla scelta di scaricare sulle classi popolari e sul ceto medio i costi del rientro dal debito pubblico e di rilanciare la crescita attraverso nuova mercificazione dei beni comuni e programmi di grandi opere. Nei paesi industriali avanzati gli usi finali dell'energia sono costituiti al 70 per cento da sprechi. Se la politica industriale venisse finalizzata a ridurli, si aprirebbero ampi spazi per un'occupazione utile, (dalla ricerca all'istallazione) i cui costi sarebbero pagati dai risparmi economici conseguenti ai risparmi energetici senza aggravare i debiti pubblici e privati. Lo sviluppo di queste tecnologie consentirebbe inoltre di attenuare le crisi internazionali per il controllo delle fonti fossili e la crisi climatica causata dalle emissioni di CO2. La classe dirigente dei paesi industrializzati è composta dall'alleanza di tre soggetti sociali cementati dalla medesima ideologia: i partiti politici di destra e di sinistra che hanno le loro radici nella cultura industrialista e produttivista maturata nel corso dell'ottocento e del novecento; le grandi aziende multinazionali emerse dalla competizione con le loro concorrenti locali; il comparto specifico dell'alleanza tra questi due soggetti costituito dal complesso politico-militare. Il fulcro su cui questa classe dirigente fa leva per far ripartire la crescita sono le grandi opere pubbliche, che possono essere commissionate solo dallo Stato centrale, o dalle sue articolazioni periferiche, e possono essere realizzate solo da aziende a grande concentrazione di capitale multinazionale. La crescita economica richiede consumi -crescenti di energia e materie prime che si possono ottenere solo attraverso il controllo militare delle aree del mondo in cui si trovano. I sistemi d'arma necessari per esercitare questo controllo possono essere commissionati solo dai partiti politici che li ritengono necessari per garantire l'incremento dei consumi energetici, e possono essere prodotti solo da aziende multinazionali. Non a caso le politiche restrittive adottate per ridurre i debiti pubblici non hanno scalfito i privilegi del ceto politico, non hanno tagliato i finanziamenti per le grandi opere pubbliche, né le commesse all'industria militare. Gli italiani vogliono vedere un futuro, possibile solo con un governo non condizionato dai vincoli dell'ideologia della crescita. Questa politica può essere messa in pratica solo da piccole aziende, professionisti e artigiani radicati nei territori in cui operano, in grado di effettuare da subito se adeguatamente sostenuti ed indirizzati una serie di interventi puntuali. Un grande investimento in ricerca sosterrebbe soluzioni tecnologiche e sociali di assoluta avanguardia a livello globale, attraverso le quali l'Italia potrebbe diventare esempio di buon vivere ammirato da tutto il mondo. La garanzia del reddito consentirebbe l'emancipazione dalla condizione di asservimento e di sfruttamento in cui versano tante delle migliori energie, soprattutto giovani e precarie, del nostro paese.

Ci sono oggi in campo nel paese, anche raccolte nei movimenti formali e informali in cui chi le scrive a diverso titolo opera, competenze sofisticatissime e persone intelligenti, libere, oneste, disinteressate e di buon senso che sono in grado di sostenere con autorevolezza internazionale un tale ambizioso progetto di rigenerazione del nostro paese. Su una piattaforma coerente con quanto abbiamo descritto il M5S ha vinto le elezioni ed è per questo, in questa fase, il legittimo interprete politico di questo anelito di cambiamento. E' giusto che sia il leader di tale Movimento a indicare per primo quella la migliore personalità di alto profilo e competenza professionale o politica che potrebbe guidare un governo capace di iniziare il grande ed entusiasmante cammino della riconversione dell'economia del paese. Qualora Grillo non lo facesse, sia Napolitano a scegliere una tale personalità che per storia e cultura offra garanzia di essere autorevole interprete di una visione incentrata nella piena valorizzazione dei beni comuni. La costruzione di un tale governo di alto profilo e profondo buon senso, interprete genuino della volontà della maggioranza che vuole invertire la rotta, saprà ricostruire creativamente sulle macerie della devastazione neoliberista è dimostrerà nei fatti come sia possibile superare, se si prende sul serio la democrazia, l'attuale impasse politica. Ovviamente, secondo quella Costituzione di cui il Presidente deve essere supremo garante, e che partitocrazie e potentati hanno troppo spesso sfregiato, il nuovo governo cercherebbe la sua fiducia il Parlamento, senza accordi o scambi. O sarà Napolitano l'alto interprete di questo desiderio popolare o lo dovrà essere il Suo successore nei tempi e nei modi previsti. Se però così dovesse essere l'Italia, che già due volte ha parlato e avrebbe parlato anche una terza se avesse potuto votare sul pareggio di bilancio in Costituzione, perderebbe solo altro tempo.

I

LE BATTAGLIE sperimentali, simulate al tavolo, erano importanti nella guerra scientificamente intesa (stile Karl von Clausewitz). Combiniamone una nella congiuntura postelettorale italiana 2013. Il grosso dei voti se lo spartiscono Pd (10.047.808: parliamo della Camera), Pdl (9.922.850), M5S (8.689.456). La formazione d’un governo richiede passi trasversali. Stando a vaghe affinità, parrebbe fisiologico l’accordo Pd-M5S, e pende un’offerta al secondo ma le Cinque Stelle designano un movimento fluido, a struttura atipica, nato dalla protesta, ancora convulsionario, e veti decretati dal vertice carismatico sprangano le porte, nella pretesa d’essere soli al governo, sebbene nessuno sappia ancora cosa vogliono. Siamo al punto morto, salvo che cospicue componenti vadano per conto loro. Chi invece non sta nella pelle, tanto gli preme una partnership, è il terzo concorrente, al quale P. B., investito d’un avaro incarico esplorativo, risponde picche, avendo tante buone ragioni.

L’impresentabile grava sulla scena da 19 anni: tre volte presidente del Consiglio aveva portato l’Italia a due dita dalla bancarotta; 16 mesi fa persino il Corriere della Sera, organicamente governativo, gli sferrava tardive condanne. Era ed è assurdo che un uomo simile metta becco nella cosa pubblica: ognuno sa chi sia, pirata senza scrupoli, mago della frode, corruttore d’istinto, falsario, sopraffattore; e come abbia fondato l’impero delle lanterne magiche con le quali da trent’anni droga e istupidisce l’audience; lì s’era allevati gli elettori spacciandosi impresario d’opere virtuose. Va detto: P. B. sconta delle gaffe, né gli giovava il passato post Pci, tanto meno avendo come sponsor l’onnipresente alchimista M. D’Alema; ma rendiamogli il dovuto: stavolta cammina sul filo, bene, tale essendo l’acrobatica, unica via aperta, se vogliamo salvare qualcosa. Siccome la natura non mente, l’egotista ex bolscevico, presidente del Consiglio 1998-2000, gli lancia siluri: aveva macchinato i fasti bicamerali in odio al leader della coalizione; prima o poi doveva convolare nelle «larghe intese» auspicate dal Quirinale, sul cui soglio Re Lanterna lo vedrebbe volentieri, tanto spirito amichevole corre tra i due, e Dio sa quanto cospiri l’ambiente: la parola d’ordine è «eiréne» (in greco, pace). Siamo al disgelo: Raffaele Bonanni, patron Cisl, venuto a consulto, chiede un governo subito, a qualunque costo, mandando al diavolo ogni distinguo; domenica 24 tre commentatori scampanellanti cantano Irene dal “Corriere” concedendo un sogghigno all’»antiberlusconismo militante», nemmeno fosse roba maniacale. Lo ierofante d’una «Italia futura», invisibile nel consuntivo elettorale, esige dal Centro intese «trasparenti» con divus Berlusco. Il quale sorride a piene ganasce: basta mandare la persona giusta al Quirinale (con quanto décor pontificherebbe Gianni Letta): e come vicepresidente del Consiglio indica lo spirituale Angelino Alfano. «Siamo seri», commenta laconicamente P. B., risposta perfetta e ci vuole coraggio nel ribadire l’insuperabile no alle «empie intese», perché il Bicamerista ha sèguito nel Pd.

Il Kriegsspiel (gioco guerresco) è calcolo ipotetico. Datix, y, z, cos’avverrebbe? L’ipotesi è governo d’union sacrée dove siedano famigli del ventriloquo d’Arcore. L’evento sarebbe un trionfo berlusconiano, così percepito dal pubblico. Nell’autunno 2011 era ludibrio d’Europa, ridicolmente famoso nelle cinque parti del mondo. Lo prendevano sotto gamba persino i suoi masnadieri. Ora, lui resta qual era, ricchissimo ma cadente, ridotto alle astuzie d’alligatore torpido: lo salvano avversari vacui, molli, misoneisti, vanitosi, rampanti, equivocamente manovrieri, convinti d’avere vinto senza battaglia. Le urne non lasciano dubbi: sono perdita secca i 2.045.190 voti negati al Pd da chi lo votava cinque anni fa; e l’Olonese ne perde 3.706.015, ma ripartendo dalle macerie, ne riacquisiva 9.922.850 con una campagna da vecchio comico in disarmo, sfiorando la vittoria (sarebbe bastata qualche gag scurrile in più): gigantesca performance, prendiamone malinconicamente atto; tanti italiani lo vogliono così; e siccome il successo ha effetto propulsivo, guadagnerebbe senza fatica il resto divorando gl’incauti o stupidi partner. Sono equazioni d’una fisica sociale. I sondatori d’opinione calcolano che, coinvolto nelle «larghe intese», il Pd perda almeno un voto su due. Bel suicidio e il conto lo paghiamo tutti. I cantori del disgelo non dicono cosa significhi Re Lanterna al potere: è il patrono della corruzione che succhia sessanta o più miliardi l’anno; dissesta lo Stato; storpia la giustizia (gela le midolla il modo in cui schiva processi e condanne mirando al salvacondotto); sceglie le schiume; tutela un malaffarismo anarcoide; abbassa i livelli intellettuali. Insomma, il demiurgo fabbrica un’Italia gaglioffa. Sia detto in due parole, regimi simili portano diritto alla catastrofe. Al massimo, i partner meglio ispirati la ritardano, sperando che una Parca gli tagli presto il filo, e sarebbe eredità fallimentare.

Che lo scioglimento delle Camere sia da evitare a ogni costo, è formula eufemistica d’un governo sotto insegna berlusconiana, con tutto quanto ciò implica, e sbarra l’unica seria via d’uscita, se a P. B. manca il sostegno nella Camera alta: la prospettiva elettorale sarebbe alquanto diversa, rispetto al 25 febbraio 2013, essendo presumibile un’implosione nelle Cinque Stelle; chi vuole riforme autentiche non ammette scelte obiettivamente utili al Caimano. Domenica 24 marzo uno degli eligibili al Quirinale, ben visto hinc inde, denunciava l’alto rischio d’un contesto simile all’agonia della repubblica tedesca 1933: d’accordo, in quadri diversi; e chi è l’Adolf Hitler in chiave d’affarismo planetario, sotto maschera ilare? In versione da farsa vale l’adunata delle squadre d’assalto (S. A. ossia Sturmabteilungen) quel sabba biancoceleste in Piazza del Popolo con visi, gesti, paramenti, scritte da film espressionista anacronisticamente sonoro.

«Se i grillini imparassero che«non è necessario esibire i muscoli per vincere le battaglie politiche e che, per riuscirci, non bastano neppure le sole buone idee».

Il manifesto, 28 marzo 2013
Le parole del papa indicano il passaggio difficile,per cambiare la mente degli uomini. È un messaggio che dovrebbe suggerire ai laici un'altra modalità del confronto politico. Adeguare i mezzi ai fini Cambiare abitudini non è facile; cambiare modello di vita (cosa che ci ripetiamo magari ogni giorno mentre si va a lavoro o a qualche inutile riunione della quale potremmo farne a meno) è ancora più difficile. Ma cambiare mentalità sembra quasi impossibile seppure di fronte ai continui fallimenti del nostro pensiero.

Erano queste le riflessioni che Raniero La Valle faceva qualche giorno fa su questo giornale ("Il mondo precede la chiesa", il manifesto, 20 marzo) a proposito della rivoluzione messa in atto da papa Francesco e dalle sue parole. Tommaso Di Francesco ("La sfida della tenerezza", il manifesto 22 marzo) affermava che la parola tenerezza, da tempo bandita dal lessico politico e quotidiano, «ci riguarda» più di quanto non sospettiamo, e ricordava, in proposito, Che Guevara (anche lui guarda caso argentino).

Il Papa ha detto che dobbiamo custodire il creato, dunque la terra con tutte le sue forme viventi. Ma ha detto qualcosa di più, molto di più: ha parlato di un sentimento di cui normalmente (soprattutto tra gli uomini) non si parla, ritenuto una sorta di debolezza, di cedimento, roba da "femminucce": la tenerezza. La modernità e la secolarizzazione avevano messo in cantina questo sentimento, poco adatto all'uomo prometeico e al suo "progressivo e magnifico" ruolo di dominatore del mondo (e purtroppo quasi sempre anche dei suoi stessi simili). Già ai bambini (in particolare quelli di sesso maschile) si insegna che gli uomini non debbono mai piangere e tanto meno mostrarsi deboli o fragili in pubblico; da adulti è consentito loro manifestare la tenerezza al più nei riguardi degli infanti, ma mai nei riguardi di altri adulti.

Eppure questo sentimento è capace di terremotare i rapporti quotidiani tra le persone: guardare all'altro con sentimento di pietà e simpatia insieme, avere compassione e cura del mondo animato. Francesco (il santo) arrivava ad affermare che bisogna ubbidire agli animali. Questo sentimento - la tenerezza - può innescare un vero cambiamento a partire dalla politica dove vige la legge contraria, quella per la quale chiunque non appartenga al proprio partito, alla propria fazione, è un nemico da abbattere.

Se il Movimento 5 stelle si prefigge di cambiare il paese dovrebbe partire da qui, esercitare l'egemonia con la forza dell'argomentazione, della persuasione, della parresia (l'arte del parlare franco), della gentilezza e della tenerezza. E ieri, invece, abbiamo assistito a un deja vu che, seppure ormai disincantati del lessico politico, non può non imbarazzarci, non provocarci dolore e perfino rabbia: partiti puttanieri e padri (i loro leader) "che chiagnono e fottono" ha urlato Grillo a seguito dell'incontro tra Bersani e il Movimento 5 stelle. Non bastano i contenuti, le pur legittime aspirazioni di moralità, i richiami a ridurre gli stipendi, le spese, le invocazioni contro la corruzione. Se un fine è giusto, allora anche i mezzi (e il linguaggio) usati per raggiungere questo fine devono essere altrettanto giusti e adeguati al messaggio che vogliamo dare.

Purtroppo sembra non essere così: fa male vedere questi giovani grillini certamente animati da buoni propositi, spesso talmente ingenui da risultare pericolosi nelle loro dichiarazioni, usare vecchi linguaggi, ostentare un atteggiamento ostile nei confronti di tutti: politici, giornalisti, istituzioni, come se, al di fuori di loro, il mondo fosse solo abitato da corruttori e corrotti. La loro ostentata e sospetta difesa da contaminazioni, strumentalizzazioni e quant'altro conosciamo di poco buono che anima il mondo della politica, non giustifica questa loro pregiudiziale diffidenza; semmai mostra la loro debolezza, la difficoltà ad affrontare il confronto e ad argomentare i loro pensieri. Così facendo arruoleranno pure altri arrabbiati, altri scontenti, i delusi dalla politica, gli incattiviti dalle barbarie del liberismo, dalle ingiustizie, dal dolore e dalla sofferenza sociale e individuale, ma per formare un partito o un movimento caratterizzato dal "no" e dal rifiuto che, prima o poi, produrrà un rigetto da parte di quelli che, pur criticando l'ordine esistente, non si ritroveranno in quel loro comportamento militare come quello di una setta che guarda il mondo dall'alto della propria presunta innocenza.

Tra i punti del loro programma dovrebbero introdurre questo sentimento così ben evocato dal Papa: la tenerezza; così da dimostrare agli altri che non è necessario esibire i muscoli per vincere le battaglie politiche (c'è già chi lo fa da tempo e prima di loro) e che, per riuscirci, non bastano neppure le sole buone idee: sarebbe un segnale nuovo per la buona politica e per quel cambiamento così invocato per il quale dovremmo aspettare il Messia. Il Paese è incattivito, il liberismo ha prodotto la grande narrazione dell'uomo fai-da-te, dell'affermazione individuale anche a costo di demolire l'avversario, e il creato-mondo intero a nostra disposizione. Questa narrazione, che è l'alleato ideologico più potente della riscossa neoliberista, può essere sconfitta solo a partire da un senso di ritrovata fratellanza e solidarietà.

Da sempre le comunità sono state i luoghi dove l'incontro tra diversi avveniva all'insegna della tenerezza, l'ascolto disinteressato, la cura, l'amore verso l'altro da sé. La comunità non è una dolce utopia di altri tempi, è il modo di stare insieme in serenità e in libertà, così come, un tempo, la città era il luogo della socializzazione e la sua aria rendeva liberi gli schiavi che in essa si rifugiavano e che ad essa chiedevano asilo. Come dicono in molti, il Movimento 5 stelle ha portato un vento nuovo che già ha iniziato a spazzare il mondo della politica chiuso in se stesso e arroccato sui propri privilegi. Ma non basta a produrre una egemonia salvifica che riunisca le persone intorno al nuovo, se non si modificano anche i gesti e il linguaggio, l'atteggiamento verso l'altro accolto, appunto, con tenerezza.

Al di là della Costituzione della decenza e della legittimità ordinaria.

Il manifesto, 27 marzo 2013

Trovo inverosimile che non si consenta al presidente del Consiglio incaricato, Pierluigi Bersani, di presentarsi alle Camere per avere da loro una valutazione, in termini di discussione e di apprezzamento, critico o positivo, sulle proposte da lui elaborate. E non solo per i motivi eminentemente costituzionali elencati con eleganza da Massimo Villone su il manifesto del 26 marzo (in sintesi: siamo ancora una repubblica parlamentare o siamo già divenuti una repubblica presidenziale?). Ma per motivi squisitamente politici. Ne elencherò tre, secondo me i più importanti.

Primo. La coalizione di centrosinistra ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, una buona maggioranza relativa al Senato. Che una coalizione parlamentare di questa forza non abbia il diritto di farsi giudicare dalle Camere significherebbe negare platealmente che il voto abbia ancora un senso in questo paese. E', d'altra parte, di questi tempi, quel che da molte parti si sostiene e s'invoca: come rimedio alle stranezze e all'inaffidabilità del cosiddetto corpo elettorale. Se si vuole accelerare questo processo e renderlo irreversibile, non c'è che da accomodarsi: basta autorevolmente confermare che i critici (spesso camuffati, e perciò ancora più insidiosi) del gioco elettorale e, s'intende, delle sue conseguenze politiche e istituzionali, hanno ragione.

Secondo. Nel tentativo Bersani questo né da altri punti di vista.Vendola è stato investito molto: in modo particolare, lo ha fatto per ovvi motivi questo Pd. Io sono pieno, storicamente, di fermenti critici nei confronti di questa formazione; se non ne avessi, ne sarei un militante. Non si può non riconoscere, però, che il Pd, e su scala ridotta ma non disomogenea, Sel, sono le uniche formazioni che in Italia reggono in piedi strutture di partito democraticamente fondate e ambizioni di organizzazione politica ramificata nel sociale (quanto imperfettamente lo sappiamo, ma non fino al punto di diventare un'altra cosa). Non lo sono, ovviamente, né il Pdl, né, clamorosamente, almeno per ora, il Movimento 5 Stelle (il quale polarizza la protesta, proprio rinunciando a quegli strumenti di verifica e di organizzazione). Né lo è, di sicuro, il centro di Monti, qualcosa che non sarebbe semplice definire né daquesto né da altri punti di vista.

La mia impressione è che da molte, moltissime parti, non si faccia che aspettare con benevola ansia la dissoluzione di quest'ultimo nucleo di tradizione democratica nel paese. Liquidare il tentativo Bersani invece di appoggiarlo (come saprebbe fare chi ha dimostrato di saperlo fare), significa dare una mano a questa liquidazione. Va da sé che la stessa cosa significherebbe mettere il Pd nelle mani di Matteo Renzi, un archetipo antropologico della dissoluzione democratica.

Terzo. Non esiste, né può esistere, "coesione sociale" o "coesione istituzionale" o "coesione ideale" o "coesione politica" in questo paese, finché una delle parti in gioco è nelle mani di qualcuno con cui nessuna persona per bene vorrebbe avere a che fare. Quindi, non esiste, né ragionevolmente né istituzionalmente, nessun Piano B. Se questo piano avesse luogo, il Movimento 5 Stelle si rimpinzerebbe oltre misura: anche noi saremmo costretti a votarlo e a farlo votare. Le conseguenze sarebbero catastrofiche.

Si dice: non esiste nessuna certezza che il governo e il programma di Bersani, alle Camere siano destinati a passare. Ma consentirlo significherebbe esibire (per usare le parole giuste) una prova di fiducia nel gioco democratico del mec-canismo istituzionale, e lavorare perché una soluzione, qualsiasi soluzione, nasca da lì, dall'interno di quel dibattito, non fuori: il che in certe circostanze eccezionali è il minimo, ma anche il massimo, che si possa fare. Vedremo.

«Sbagliamo bersaglio accusando i mercati-padroni: sono i politici a non essere padroni di sé, a non vedere che loro sono la quaestio, il problema e l’onere».

La Repubblica, 27 marzo 2013
NUNC dimittis servum tuum: comincia così il cantico di Simeone, l’ebreo giusto, appena vede Gesù presentato al Tempio. La prima parola che dice, rivolgendosi a Dio, è dimissione. Antiche consuetudini si sfanno, l’attesa messianica finisce perché il messia è lì, lo sta tenendo fra le braccia. Si entra in un’altra orbita, un cammino affatto diverso inizia all’insegna di quella che Roland Barthes ha chiamato: disoccupazione di spazi, peregrinatio in stabilitate. Oltre il Tevere, proprio questo sta accadendo nella Chiesa. Scossa dalla corruzione, orfana di luce, ridotta a lobby, la Chiesa tasta come cieca le vie e scopre che non ce ne sono due ma solo una, perché l’altra s’inabissa: la via è il trono vuoto, perché lo occupi chi sappia far proprio il nunc dimittis, spogliandosi di potere e di mitre maestose. Un unico filo lega le dimissioni di Benedetto XVI il 10 febbraio e la nomina, il 13 marzo, di Papa Francesco: un mese, tutto all’insegna della «disoccupazione di spazi». È significativo che il nuovo Pontefice disdegni gli ori di cattedrali e paramenti. Il papato girava a vuoto, e il ricominciamento è possibile a condizione di mettere in questione se stessi, radicalmente. «Quaestio mihi factus sum», diceva Agostino: io stesso son divenuto per me problema, peso. Memore della semplicità oltre che della povertà di San Francesco, il Papa parla ai cristiani con parole inattese, non di padre pontificante ma di servo: «Pregate voi per me». Non si sa quali effetti sortirà questo mese di ostentato trono vuoto; si può solo intuire che per sopravvivere, la Chiesa doveva passare di qui.

È strano come certe parole in certi momenti colorino ogni pensiero, ogni dire. In queste ore sono come un metro, che permette di misurare la cecità della politica, delle sue istituzioni: in Italia e anche in Europa. La stasi di ambedue cos’altro è, se non incapacità di distinguere il bivio che hanno di fronte, e attaccamento alle inerti abitudini descritte da Beckett: «L’abitudine è un patto sottoscritto dall’individuo col suo ambiente. È la garanzia di una tacita inviolabilità, il parafulmine della sua esistenza. L’abitudine è il ceppo che incatena il cane al suo vomito». Si chiama anche
routine:letteralmente vuol dire piccola via, ripetutamente percorsa quando non si osa la grande. Imboccare viuzze significa non rinunciare al potere, starsene immobili, non tollerare l’incursione di sfide o giudizi: tenerselo stretto, il potere, come il Presidente del Senato che ritiene inammissibili le critiche d’un solo giornalista. In Germania Est si racconta che tale fu l’ordine che le autorità sovietiche diedero ai governanti comunisti, quando cadde il muro di Berlino: «Rientrate in voi stessi, fatevi di ghiaccio».

L’Italia fa questo, da anni: ha congelato Mani Pulite, e ogni chiarimento, correzione, pur d’evitare la trasformazione di sé. Anche il movimento Cinque Stelle, che pure ha vinto chiedendo una mutazione della società e dei partiti, è preda di una sorta di paralisi. Ilvo Diamanti ha spiegato, lunedì su Repubblica, l’impasse di una convivenza tra anime contrarie, innovative e conservatrici. L’uscita dal sistema prevale su ogni miglioramento concreto, ottenibile subito, svigorendo la forza stessa che fece nascere, attorno al bene pubblico, il movimento. È il rischio del M5S: occupare un trono postazione, in attesa dei tempi in cui il Messia verrà col suo Regno. Non lo sfiora il sospetto che il Regno sia già qui, che l’attesa sia un escamotage. Che le vie non siano due ma una: rinunciare all’isolamento splendido del trono, aprire un varco, proporre a chiare lettere il nome di un suo papa Francesco. Altrimenti ti chiamerai movimento ma vecchio partito rimarrai: con le sue abitudini da recinto, con la sua sconnessione dalla cittadinanza attiva che ti ha fatto re. Quel che urge non è la
prorogatio dell’esistente – una delle tentazioni di Cinque Stelle – ma la declaratio con cui Benedetto XVI ha innovato, spogliandosi del proprio scanno: le forze che ho «non sono adatte a esercitare in modo adeguato il ministero ». Alcuni hanno detto: «è la fine». Era un inizio invece, era rinuncia a parte di sé per far spazio al nuovo. Così per i politici: sono a un bivio, e chi serve i propri ideali diminuisce un po’ se stesso, coglie il momento se si presenta. Apprende la destrezza astuta che prolunga il carisma: fin da subito mostra che entrare in un’altra orbita politica è possibile. E se non a Dio, chiede alla coscienza: «Dimettimi, esiliami dall’istinto abitudinario che mi abita».

Secondo l’economista Albert Hirschmann, è così che le istituzioni si riformano: mescolando l’energia ultimativa dell’uscita, dell’exit, al lievito della parola (voice),che sbalestra la politica da dentro. Proprio di quest'amalgama hanno bisogno gli italiani per superare la stasi, e l’Europa per vincere una crisi che rivela la propria cecità, compresa la cecità alla democrazia. Anche nell’Unione si tratta di indicare il trono vuoto, i sovrani finalmente politici e i parlamentari forti che devono riempirlo. Da quando l’Euro trema, l’Unione s’aggrappa alla viuzza di cure che la squilibrano, l’avvelenano. Sbagliamo bersaglio accusando i mercati-padroni: sono i politici a non essere padroni di sé. A non vedere che loro sono la quaestio, il problema e l’onere. Non è l’Euro traballante che viviamo ma un più vasto sisma. I politici l’occultano, passano il tempo disputando su dilemmi esistenziali: esiste l’Unione? siamo contro? per? In tempi prosperi la domanda serviva, ma oggi lo spettro che s’aggira e impaura è la crisi, non l’antieuropeismo che la crisi secerne. Oggi la disputa che conta, e però è elusa, deve concernere il da fare, le alternative da tentare, perché l’Unione funzioni e ritrovi l’idea originaria di una comunità di cittadini padrona di sé. Come l’Italia del dopo-voto, l’Europa è prigioniera di quella che gli inglesi chiamano politics (il gioco fra partiti, poteri) ed è impreparata alla policy, alla scelta fra molte opzioni di una linea: in economia, nella ridefinizione della statualità, anche in politica estera.

Il caso dei marò è stato rivelatore. Un governo d’Europa ha mostrato di non sapere cosa sia l’India, oggi: con i suoi tribunali, con una democrazia più che sessantenne. Ha reagito come la vecchia Europa colonialista, giocando a birilli con Nuova Delhi come Chamberlain quando disse dei cecoslovacchi invasi da Hitler: «È una nazione lontana di cui non sappiamo nulla». Così enorme è la svista, che l’esercito si ribella al timone politico. È bene che il ministro Terzi si sia dimesso. Lo stesso dovrebbe fare il capo di stato maggiore della Difesa, Luigi Binelli Mantelli: con inaudita prevaricazione, forte probabilmente dell’appoggio di Terzi, ha preteso sabato che «la farsa si concluda quanto prima, e i nostri fucilieri, funzionari in servizio di Stato, siano al più presto riconsegnati alla giurisdizione italiana». Nessun accenno al fatto che i marò sono pur sempre accusati d’aver ucciso due marinai indiani scambiati per pirati, e che all’India fu promesso di non tenerli in Italia. È uno dei tanti casi di insipienza dei sovrani europei.

L’Unione sta nel mondo con una propria moneta, ma solo con questa. Ha ricette economiche distruttive, e fuori casa oscilla tra annosi riflessi coloniali, dipendenza dagli Usa, fedeltà a una Nato che fa e prolunga guerre che gli Europei non decidono né discutono. Nel Mediterraneo, il nostro mare, non siamo udibili. Di altro si dibatte: Sei in Europa, o fuori? Mai vi fu, se non alla fine dell’impero romano, routine mentale più sterile. Da questa paralisi si esce riconoscendo che il posto di comando è vacante, tutto sta a pronunciare il dimittis che prepara il nuovo. Non sarà facile, ma chi ha detto che debba esser facile edificare nuovi ordini politici, o spirituali. Chi ha detto che la soluzione sia quella impartita dai sovietici: chiudersi e farsi ghiaccio, per poi ricominciare come se nulla fosse le abitudini di ieri.

«Ridisegnare le cose partendo dalla Costituzione».

La Repubblica, 25 marzo 2013

NON sfugga un confronto, questo: nell’Agenda Monti, programma elettorale di un presidente del Consiglio in carica, la parola “Costituzione” non c’è mai. Viceversa, nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera, Laura Boldrini ha insistito sui «valori della Costituzione repubblicana» e sulla dignità delle istituzioni della Repubblica, ricordando con parole vibranti che «in quest’aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo».

Analogamente, il presidente del Senato Piero Grasso ha esordito richiamando due volte la Costituente e «quella che ancora oggi è considerata una delle Carte costituzionali più belle e più moderne del mondo». Il silenzio di Monti è coerente con l’ordine dei valori prevalso nella scorsa legislatura (compresa la sua fase “tecnica”): il “volere dei mercati” al culmine, la Costituzione sospesa, in attesa di tempi migliori. Basta questa differenza a misurare le straordinarie
potenzialità di una nuova stagione politica, in cui l’impersonale, anti-politico anzi anti-democratico diktatdei mercati deve fare i conti con l’orizzonte dei diritti civili disegnato dalla Costituzione: sovranità popolare, diritto al lavoro, alla salute, a un sano ambiente, alla cultura, alla giustizia sociale. Sarebbe un delitto farsi sfuggire un’occasione che non si ripeterà: questo il senso dei due appelli, quello promosso da Barbara Spinelli e quello lanciato da Michele Serra, che in pochi giorni hanno superato le 200.000 firme (li ho firmati anch’io). Questo, e non la cieca fiducia in questo o in quel partito, non l’ubbidienza a ordini di scuderia. Non l’arroganza di intellettuali che si sentono maestri, ma la voce di cittadini che fuori da ogni coro esprimono una preoccupazione e una speranza. Perciò chi si è rallegrato che all’elezione del presidente del Senato abbiano contribuito voti del Movimento Cinque Stelle dovrà rallegrarsi altrettanto se, in altre circostanze, parlamentari del Pd violeranno la disciplina di partito per votare giusti provvedimenti proposti da quel Movimento. Dopo una campagna elettorale condotta sbandierando nomi, alleanze, schieramenti assai più che progetti e contenuti, è ora di rovesciare il tavolo dei giochi. Identificare contenuti, indicare traguardi, cercare consensi nel Paese e (dunque) nel Parlamento. Passare dalle chiacchiere ai fatti, cambiare subito il Paese sapendo quel che si vuole e quel che si fa.

Perciò l’art. 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza
vincolo di mandato» è oggi più che mai prezioso. Beppe Grillo non vorrà certo copiare Berlusconi attaccando la Costituzione ogni volta che non gli fa comodo. Senatori e deputati sanno bene, giacché lo sanno tutti i cittadini, quale è il paradosso che stiamo vivendo: il loro (anzi il nostro) è un Parlamento di nominati, non di eletti, eppure segna il più profondo rinnovamento che mai si sia visto in Italia, il più massiccio approdo in quelle aule di non-professionisti della politica. Essi possono essere tentati da una rigida disciplina di partito in cui qualcun altro pensi per loro, ma dovrebbero mirare assai più in alto. Pieno rispetto della legalità costituzionale (incluso l’art. 67) e piena libertà di coscienza sono i presupposti necessari per ridisegnare la mappa delle priorità politiche di questo Paese. Nessun prezzo è troppo alto, se il fine è il bene comune.

Gravi problemi incombono: la debolezza dello Stato centrale, in questo momento di ardue scadenze istituzionali, favorirà la marcia verso la formazione de facto di una “macroregione del Nord” capeggiata da Maroni, ridando fiato alla Lega in crisi e al suo mai sopito secessionismo, a spese dell’unità nazionale (art. 5 Cost.). Regioni svantaggiate e “generazioni perdute” verranno sacrificate senza pietà, immolandole non si sa più se alle ragioni “globali” dei mercati o a miopi alleanze (o nonalleanze) politiche. Cadranno nel nulla obiettivi oggi a portata di mano: «più giustizia sociale, più etica» (Grasso), «strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato» (Boldrini). Per non dire di una legge elettorale non iniqua, della riduzione dei costi della politica, di un forte argine, pur così tardivo, al conflitto di interessi, di un vero argine alla corruzione.
Per l’Italia e per l’Europa, questo e non il prossimo Parlamento deve fare il massimo sforzo per diventare «la casa della buona politica » (Boldrini) vincendo le logiche di un partitismo di maniera che gli elettori hanno bocciato, e facendo dell’inesperienza dei neo-eletti un punto di forza, lo strumento di un nuovo sguardo sulle istituzioni e sui problemi del Paese. Dovrebbero esser scritte a caratteri cubitali, all’ingresso della Camera e del Senato (e domani a Palazzo Chigi e al Quirinale) le parole di Teresa Mattei (la più giovane dei membri della Costituente, morta a 92 anni qualche giorno fa) nella sua ultima intervista: «Questa è la cosa bella dell’animo democratico: pensare da bambino per ridisegnare le cose».

Una lettura del caso italiano attuale alla luce della storia. Similitudini con la Comune di Parigi, dove all'ombra delle speranze di rinnovamento si tesseva la restaurazione. Nel 1871 il vecchio vinse Oggi?

La Repubblica, 25 marzo 2013

Le storie di democrazia in azione sono un documento di generosità e di desiderio di giustizia. Possono però essere anche storie di malgestita radicalità che non riesce o non vuole fare ciò che ha promesso. Storie di speranze di rinnovamento che marciscono nel volgere di poco tempo. Per commentare quella che viviamo noi oggi, Barbara Spinelli si è servita su questo giornale dello scritto di José Saramago, il racconto della “catastrofe” di una democrazia sopraffatta dalla sua stessa grandezza di proposte e di ideali. In un’ impasse, tra Scilla e Cariddi: tra la speranza della grande innovazione e la macchinazione di un grande flop. Da un lato il genuino e semplice volere popolare di cambiamento; dall’altro il gioco del potere. La generosità della democrazia lascia in ombra coloro che progettano il momento giusto per calare la carta del bluff. Numerose storie di democrazia in azione si sono dipanate secondo questa trama triste.

A metà marzo del 1871, mentre si svolgevano in tranquillità le elezioni e la città di Parigi era sguarnita di forze dell’ordine, e tutto prometteva che la partita politica venisse giocata alla luce del sole, nell’ombra stavano accadendo le cose che avrebbero determinato il futuro della repubblica comunarda. Il governo di Thiers, che meditava la riconquista del potere, cercava e trovava il consenso di Bismarck, il leader tedesco che aveva interesse a mettere subito fine alla guerra contro la Francia perché temeva il contagio democratico oltre il Reno. Gli scenari erano preoccupanti. Da un lato la democrazia ingenua che moltiplicava i luoghi e i temi di discussione, rifuggiva dal coordinamento, praticava la comunicazione su ogni punto all’ordine del giorno, fino allo spasimo. Dall’altro gli uomini di potere, abituati a usare i mezzi del consenso e a mobilitare fedeli seguaci, di mettere in atto strategie astute, intravedendo spiragli di luce ai loro piani di rivincita. In questa impasse si consumò la riconquista di Parigi che mise fine alla democrazia ingenua: nel maggio del 1871 avvenne la firma del trattato di pace franco-tedesco che diede il via libera all’occupazione della città da parte dell’esercito, antefatto di quello che sarebbe stato un massacro. Quella che doveva essere una repubblica democratica fu in poche ore una caccia all’uomo, una sommaria restaurazione.

Una storia a caso questa della fine tragica della Comune di Parigi – diversissima in tutto eppure così istruttiva per l’Italia di questi giorni, un paese che visto da fuori suscita ammirazione e grande attenzione, per aver saputo esprimere la propria volontà elettorale in maniera così radicalmente libera e che tuttavia si mostra smarrito, vittima della sua stessa spavalda promessa di cambiamenti importanti. Vittima del partecipazionismo senza decisione. Dopo le elezioni, Francesco Merlo ha scritto su questo giornale che nonostante il fragore delle parole e la carriolata di voti che con il M5S hanno portato persone ordinarie e nuovissime in Parlamento, l’impressione è che tutto questo cambiamento non serva che a far tornare tutto come prima, a legittimare il nuovo vecchio.

Il rischio è che la democrazia appaia un agire senza costrutto, una perdita di tempo che alla società costa sempre più caro. Pessimo servizio dei democratici alla democrazia. La responsabilità degli eletti è enorme perché chi rende impossibile la formazione di un governo rende la democrazia una parola vuota e le fa un pessimo servizio. La sacrosanta volontà che le elezioni hanno concretizzato viene disattesa, perfino sbeffeggiata, da questo esercito di eletti che, giunti promettendo la luna, non sanno arrendersi al fatto politico basilare che ogni decisione rompe l’unanimismo e richiede mediazione (a questo serve la regola di maggioranza). Essere eletti non significa fare un atto di testimonianza delle proprie idee. Significa e serve a fare succedere cose, a decidere. Il rischio di questa democrazia degli ingenui è che spalanchi le porte come altre volte in passato alla democrazia dei furbi, che ottenga l’opposto di ciò che vuole e ha promesso.

Probabilmente non è di per sè sufficiente, ma è un segnale da non trascurare.

Il manifesto, 24 marzo 2013

La prima volta da maggioritari. La Valle registra il nuovo status senza fare una piega, con invidiabile aplomb, mettendo in campo la moltitudine variegata e compatta di sempre. Un fiume ininterrotto di gente che riempie tutti gli otto chilometri che separano Susa da Bussoleno, la stessa impressionante folla dello scorso anno, quando se ne contarono cinquantamila. Forse di più. Ma, appunto, stesse espressioni rilassate e determinate di prima. Stessa sensazione piacevole di appartenenza. Stessa composizione multigenerazionale, con madri e figlie, nonni e nipoti, nuclei famigliari magari divisi su altro ma uniti da questo. Non la forma segmentata e gergale della mobilitazione politica, ma quella inclusiva e popolare di un'espressione di territorio. Al comizio finale, il primo intervento non è stato di un leader politico, e neppure di un amministratore (che pure sono numerosi), ma del padre di Nicolas, uno dei bambini feriti dall'esplosione di un residuato bellico. E ha parlato dell'amicizia.

Eppure lo scenario è cambiato. Politicamente. I valsusini non sono più l'isola ribelle di irriducibili, chiusi nella loro valle. Mondo alla rovescia, ridotto dentro il confine della Chiusa di San Michele. Ora la loro causa è uno dei primi punti del programma del partito di maggioranza relativa. La prova vivente della rivoluzione copernicana in corso, quasi che la loro rivoluzione locale si fosse rivelata, di colpo, stato d'animo generale. Per avere però la misura di questa svolta, è al mattino che bisogna guardare. La discontinuità radicale prodotta dal voto di febbraio sta tutta nell'immagine di Luca Abbà, che entra nel cantiere fortificato di Chiomonte scortato dalla stessa polizia che due anni or sono l'aveva inseguito su quel maledetto traliccio. E con lui entrano Lele di Askatasuna, Alberto Perino e gli altri, fino a ieri indicati come «pericoli pubblici», oggi «consulenti delle istituzioni», chiamati ufficialmente «assistenti» dei 68 deputati e senatori venuti a ispezionare il «sito strategico». Mentre Stefano Esposito, l'esponente pd pasdaran del Tav, che fino a ieri aveva monopolizzato la rappresentanza istituzionale, appare improvvisamente periferico, quasi il residuo di un cantiere avviato su un binario morto.

Ci si sarebbe potuti aspettare che, in queste circostanze, la politica divorasse il proprio popolo. Che il corteo traboccasse di bandiere cinque stelle (del partito che in valle ha stravinto le elezioni). Che fosse aperto dalla schiera di nuovi eletti. E invece niente. Il serpentone era preceduto da un delizioso trenino carico di bambini. E non trovavi una sola bandiera a cinque stelle nemmeno a cercarla col lanternino, a dimostrazione di una notevole intelligenza politica dei cosiddetti «grillini». I quali hanno evidentemente capito che un popolo, anzi una «popolazione» (al femminile), non lo si rappresenta mettendoci sopra il cappello, né marchiandolo con i propri simboli, ma lo si ascolta in silenzio. E che è molto meglio confondersi tra di esso anziché distinguersene con l'ostentazione di un'identità estranea, al contrario degli estremi residui delle formazioni vetero-comuniste, fastidiosamente chiusi nelle loro bandiere come in una corazza medievale, testimonianza di una testarda volontà di non capire.

Certo è che visto di qui, da questo «margine», lo tsunami che ha terremotato la politica italiana lo si capisce molto meglio, scaturito non da un palco da comizio, o dalla testa di un leader, e nemmeno dalla «rete», ma da una pressione tellurica di gente che non ne può più di espropriatori, monopolizzatori (interessati) della scelta e dei beni collettivi, decisori dall'alto.

Un solo slogan attraversava trasversalmente il corteo, vero comun denominatore tra generazioni, professioni, sensibilità, religioni...: «Giù le mani dalla val Susa» e, scritto sugli striscioni: «Difendiamo il nostro futuro». Sono evidentemente milioni gli elettori che vogliono che si tengano giù le mani dai «beni comuni» (a cominciare dall'habitat) e dal loro futuro. E tanto basta per spiegare un successo.

Le proposte di Bersani per uscire dalla crisi che attanaglia l'ruropa nono inefficaci, e anzi controproducenti, se non si specifica che cosa si intente per "investimenti produttivi".

Il manifesto, 20 marzo 2013

«Il governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità»: questo è l'incipit degli otto punti su cui Bersani intende fondare la sua proposta di governo, sempre che Napolitano gli conferisca l'incarico. Sul piano formale questa formulazione segna una certa distanza dalla Carta di intenti originaria. E smentisce chi diceva che certe cose non si possono dire pena la vendetta dei mercati. Leggendo però le aride righe successive se ne scopre anche il limite.
Si scopre che questa correzione si limiterebbe ad un allentamento dei vincoli di bilancio per liberare risorse per investimenti produttivi. Se capisco bene, una golden rule in miniatura.

Molto poco di fronte alla gravità della crisi che non attende le schermaglie della politica italiana. Se la pressione sullo spread si è un poco allentata - ma questo non è dovuto all'azione del governo Monti, quanto all'iniziativa assunta dalla Bce nell'acquisto dei titoli del debito italiano -, il fronte dell'economia reale si presenta come un vero disastro. L'Italia è in recessione da sei trimestri, ma quello che è peggio è il l'immediato futuro. Nell'Eurozona l'ultimo trimestre del 2012 si è chiuso con un andamento del Pil in discesa rispetto ai mesi precedenti. Il record negativo appartiene alla martoriata Grecia, ma l'Italia si piazza al terzo posto della decrescita, che chiamiamo infelice per non turbare i seguaci di Latouche. Infatti nel quarto trimestre del 2012 l'Italia ha segnato un -2,7% del Pil, dopo avere chiuso i precedenti trimestri con un -1,3%, un -2,3%, un -2,4%. La Germania che fin qui aveva continuato a crescere, seppure a ritmi sempre più rallentati, registra nel quarto trimestre un calo pari a -0,6% rispetto al terzo. Poca cosa, ma significativa per indicare che anche il potente motore tedesco comincia a tossicchiare.
Le cifre della disoccupazione, sia quella europea, sia quella italiana, aggravata dalla sempiterna questione meridionale, sono drammatiche (da noi in particolare per le donne), e quelle della disoccupazione giovanile ci danno la misura di una generazione perduta, sul piano sociale nient'affatto morale. Infatti il tasso di disoccupazione ufficiale fra le persone comprese nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha toccato in Italia, nel gennaio 2013, la percentuale del 38,7% («agghiacciante», ha detto il presidente di Confindustria), mentre i precari sono in tutto 2 milioni 800mila, di cui 2 milioni 375mila con contratti a termine e il restante con contratti di collaborazione. Non c'è da stupirsi, sia detto per inciso, se a fronte della indifferenza del quadro politico dominante, moltissimi di questi giovani sono stati tra i protagonisti dello tsunami grillino.
Servirebbe quindi una svolta radicale nelle politiche economiche europee e italiane. Invece assistiamo all'esatto contrario. Dire: escludiamo gli investimenti produttivi dai limiti di bilancio, non garantisce nulla. Quali sono gli investimenti "produttivi"? Nel caso italiano, si fa la Tav ma non gli ospedali? Si insiste sull'automobile e non sul riordino dell'assetto idrogeologico del territorio? La recente decisione del parlamento europeo di bocciare il progetto di diminuzione del bilancio europeo presentato da Van Rumpuy ha un unico precedente nel lontano 1984, con la differenza che oggi Strasburgo ha potere codecisionale in materia, quindi di veto. Si apre perciò un inedito conflitto fra le istituzioni elettive e quelle nominate come la Commissione e il Consiglio europeo su una materia decisiva quale quella della politica economica. Mario Draghi ha minimizzato le conseguenze del voto italiano, affermando che in ogni caso è stato innestato un "pilota automatico" che guida l'economia senza bisogno di governi nella pienezza dei poteri. Infatti è stato deciso che la formulazione dei bilanci dei singoli paesi venga preventivamente supervisionata per evitare sforamenti. Ma questo potrebbe essere messo in discussione se si affermasse una volontà politica dotata di sostegno popolare pronta a farlo.
Di questo non vi è traccia nei punti del Pd che sembrano riporre le speranze di successo nell'allentamento dei vincoli grazie ai nuovi presunti spazi che sarebbero stati aperti dalla lunga lettera inviata qualche settimana fa dal commissario Olli Rehn ai ministri dell'Ecofin, nonché ai presidenti della Bce e del Fmi. Ma se si legge con attenzione quel documento ci si accorge che quelle speranze sono del tutto infondate.
Il testo di Rehn fa un vago accenno al fatto che gli effetti depressivi delle misure restrittive adottate dalla Ue hanno superato le previsioni, ma si guarda bene dal denunciare come profondamente sbagliati i moltiplicatori fiscali adottati in Europa, come invece ha dimostrato chiaramente lo stesso Fmi, e quindi di suggerire modifiche effettive. Attribuisce il calo della pressione sugli spread alle restrizioni di bilancio, occultando che invece essi vanno interamente attribuiti alle decisioni della Bce sulle Outright Monetary Transactions (OMTs), ovvero gli acquisti dei titoli di stato a breve sul mercato secondario. Infine si dichiara disposto ad allungare i tempi per raggiungere gli obiettivi di bilancio, a condizione che vengano mantenute le famose riforme strutturali che in realtà consistono in cospicui tagli alla spesa pubblica e quindi ulteriore smantellamento del welfare, svendita dei beni pubblici, blocco dell'intervento pubblico in economia, riduzione del personale e delle retribuzioni reali nella pubblica amministrazione. Ovvero l'implementazione di tutti i punti della famosa lettera Bce inviata al morente governo Berlusconi ai primi di agosto del 2011.
Tutto ciò malgrado che la certezza granitica sulle virtù delle politiche di rigore comincia a incrinarsi anche nella potente Germania, che da queste ha tratto i maggiori vantaggi. La Camera dei Länder che compongono lo Stato federale tedesco, dove ha la maggioranza l'opposizione rosso-verde, ha bloccato l'intesa sul bilancio richiesto dalla Merkel ai partner europei, proponendo in cambio il varo di un salario minimo nazionale, progetto respinto dall'esecutivo centrale.
Naturalmente la Cancelliera non intende demordere. Anzi rilancia. Ed ecco che, cosa mai avvenuta prima, si reca a Varsavia per partecipare al vertice del gruppo di Visegrad (composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per lanciare un nuovo patto per la competitività, che a Est si coniuga perfettamente con una preesistente situazione di basse retribuzioni, welfare quasi nullo e tanti vantaggi fiscali per attirare capitali stranieri. Nel frattempo nasce «Alternativa per la Germania» un partito antieuro, favorevole al ritorno al marco o quantomeno a un'unione monetaria più concentrata sul grande paese tedesco e i suoi satelliti. Non contenti degli insuccessi dell'austerity gli organi europei e il Fmi impongono a Cipro, in cambio di "aiuti", il prelievo forzoso sui depositi bancari privati fino al 9,9% (quando Amato lo fece nel 1992 si fermò allo 0'6%). Aveva proprio ragione chi ha scritto sui muri di Atene «Per favore, non aiutateci»!
In questo quadro, fatto di crisi, ma anche di nuove potenzialità, ciò che resta della sinistra radicale si divide tra chi vorrebbe un piano per l'uscita dall'euro e chi sostiene la ridiscussione dei trattati senza passare dalla fuga dalla moneta unica. La scelta chiama in campo questioni complesse, ma si potrebbe intanto osservare che chi chiede l'uscita dell'Italia dall'euro pone tutta una serie di condizioni per contenerne gli effetti immediatamente negativi e indesiderati di una simile mossa ( quali l'indicizzazione dei salari, il controllo dei movimenti di capitale ecc.), condizioni che richiedono necessariamente un'azione di governo per compierla, ovvero una forza reale capace di fare fronte alle immediate manovre speculative del capitale internazionale. Allo stesso modo un'azione comune tra i paesi mediterranei e più in difficoltà nell'Eurozona per la modifica dei trattati richiederebbe una forza decisionale e un sostegno popolare altrettanto grandi, e non in un paese solo. Si può quindi concludere che in realtà i due piani, almeno per un considerevole percorso, potrebbero nella pratica se non coincidere, almeno tenersi per mano senza divisioni così aspre tra l'uno e l'altro. In altre parole lo spazio oggettivo per un europeismo di sinistra si è allargato e non ristretto, basti guardare al programma di Syriza. Da noi invece è ancora senza interpreti che siano dotati di forza e di consensi e non solo di buoni argomenti.

«I custodi del vecchio ordine non vedono il nesso, tra le varie crisi: dell’economia, dell’Europa, del clima, delle democrazie. Gli sdegni cittadini non dicono loro nulla, anche se il segnale è chiaro: la democrazia rappresentativa è un Titanic che sta schiantandosi».

La Repubblica, 20 marzo 2013

«NIENTE esperimenti! –Keine Experimente!»: così Konrad Adenauer, Cancelliere dopo la disfatta di Hitler, si rivolse nel ’57 ai cittadini tedeschi. Voleva tranquillarli, toglier loro ogni ghiribizzo – o grillo che dir si voglia. Nacque una democrazia solida, e tuttavia c’era un che di ottuso e impolitico nel monito: era rivolto a un popolo vinto, sedotto per anni dalla più orrenda delle sperimentazioni. Nel fondo dell’animo tedesco, questa paura dell’esperimento non svanisce.

Oggi non è così, né in Italia né in Europa: la crisi ha smascherato Stati nazione impotenti, la democrazia è ovunque in frantumi. Politici e cittadini sono scollegati, con i primi chiusi nelle loro tane e i secondi che per farsi udire vogliono contare di più. A meno di non considerarci sconfitti di guerra, oggi è più che mai tempo di esperimenti, proprio nella sfera della democrazia. È tempo di disabituarci a schemi cui politici e giornalisti restano, per pigra convenienza, aggrappati. Manuel Castells, uno dei massimi studiosi dell’informazione, scrive suLa Vanguardia del 2 marzo: «O innovare o perire».

I custodi del vecchio ordine non vedono il nesso, tra le varie crisi: dell’economia, dell’Europa, del clima, delle democrazie. Gli sdegni cittadini non dicono loro nulla, anche se il segnale è chiaro: la democrazia rappresentativa è un Titanic che sta schiantandosi. Tra governanti e governati c’è un deserto, e in mezzo campeggia un miraggio di rappresentanza: sono deboli i sindacati, spenti i partiti, e la stampa più che i lettori serve i potenti. Nel vuoto, però: una cittadinanza che vuole svegliarsi, sondare altre strade, ricominciare la democrazia.

Oggi l’Italia è a un bivio, scossa ma non vinta: il nuovo inizio invocato da Castells non genera un governo, i primi cambiamenti si fanno attendere. Intanto gli abitudinari gridano all’ingovernabilità. È dagli anni ’70 che si esercitano ad averne paura, a non vedere le crepe che fendono la stabilità cui dicono di anelare. In Europa abbiamo conosciuto un caso di ingovernabilità, spettacolare. È il caso dei belgi, che Grillo cita tra l’altro nel libro scritto con Dario Fo e Roberto Casaleggio (Il grillo canta sempre al tramonto, Chiarelettere 2013). Accadde in piena crisi del debito sovrano, dunque vale la pena farsi qualche idea su un evento che sorprese loro e noi.

Per 541 giorni il paese restò senza governo, fra il giugno 2010 e il novembre 2011. Ben presto si vide che non era semplice squasso tra Fiandre e Vallonia: a traballare era l’impianto stesso della democrazia rappresentativa. L’esperienza belga è istruttiva, per gli effetti negativi che ebbe ma anche per l’impeto di quelli trasformatori. Molti luoghi comuni si sfaldarono. Molte parole toccò ripescarle in soffitta: tra esse la parola riforma, che un tempo significava miglioramento (ma immediato: se no meglio la rivoluzione). Oggi vuol dire peggioramento. Il paese resse. L’ingovernabilità – lo stesso potrebbe valere per l’economia – fu letteralmente crisi: non stasi, ma occasione e svolta. Il lato negativo è palese: in assenza di governo, il re decise che per gli affari correnti sarebbe rimasto il governo battuto alle urne di Yves Leterme, democristiano. L’ordinaria amministrazione presto si rivelò poco ordinaria. I poteri del governo s’estesero, e si parlò delle insidie degliaffari correnti. L’amministrazione ordinaria servì a sventare quel che gli immobilisti considerano da sempre la mostruosa causa dell’ingovernabilità: il «sovraccarico » delle domande cittadine. Nei 18 mesi di stasi, il governo facente funzione regnò impassibile, forte di maggioranze obsolete. Approvò l’austero bilancio del 2011, gestì il semestre di presidenza europea nel 2010. Partecipò perfino alla guerra libica. In Italia, sarebbe come prolungare Monti: un risultato non ottimo, per chi ha vinto alle urne promettendo di «innovare o perire».

Gli Stati-nazione periclitano, l’Europa ancora non è una Federazione di solidarietà, e lo status quo è salvo. Il non-governo crea un potere inedito, più libero dal popolo sovrano: assai simile al pilota automatico che, secondo Draghi, protegge la stabilità dal «sovraccarico » di domande cittadine.

Ma l’esperienza belga produsse al contempo novità enormi. Cosciente che in gioco era la democrazia, la cittadinanza si mosse. Prese a sperimentare soluzioni antiche come l’agorà greca che delibera, o l’Azione Popolare auspicata da Salvatore Settis, che risale alle «actiones populares » del diritto romano: i cittadini possono far valere non un interesse proprio ma della comunità, ed essendo titolari della sovranità in democrazia, saranno loro a inventare agende centrate sul bene comune. Non c’è altra via, per battere l’antipolitica vera: il predominio dei mercati, e un’austerità che senza ridurre i debiti impoverisce e divide l’Europa.

Lo Stato siamo noi, dice M5S: è l’idea del movimento scaturito dal non-governo belga. G1000 è il nome che si diede, e nacque durante l’ingovernabilità su iniziativa di quattro persone (un esperto di economia sostenibile, un archeologo, un politologo, un’attrice). Il primo vertice dei 1000 fu convocato l’11 novembre 2011, nell’ex sito industriale Tour et Taxisa Bruxelles.

Il Manifesto fondativo denuncia le faglie della democrazia rappresentativa e suggerisce rimedi. Non si tratta di distruggere rappresentanza o deleghe (i Mille estratti a sorte delegarono le proposte a 32 cittadini – il G32 – come già aveva fatto l’Islanda per la riscrittura della Costituzione, prima discussa in rete poi affidata a un comitato di 25 rappresentanti). Non si tratta neppure di «togliere lavoro ai partiti», scrive il Manifesto. Quel che deve finire è lo status quo: la partitocrazia e – in era Internet – il giornalismo tradizionale: «In tutti i campi l’innovazione è stimolata, salvo che in democrazia. Le imprese, gli scienziati, gli sportivi, gli artisti devono innovare, ma quando si tratta di organizzare la società facciamo ancora appello, nel 2011, all’800».

È uno dei primi esempi europei di democrazia deliberativa (il Brasile iniziò nei primi anni ’90): Azione Popolare ha già una storia. Deliberare è discutere e poi decidere, e per il Manifesto del G1000 è più efficace dei referendum: «In un referendum ci si limita a votare, mentre in democrazia deliberativa bisogna anche parlare, ascoltare». Prende forma l’idea postmoderna dell’agire comunicativo, da Habermas nel 1981. Il fenomeno è continentale, non solo italiano. Avrà il suo peso, si spera, alle elezioni del Parlamento europeo nel maggio 2014. Sarà scelto dai cittadini, si spera, il futuro capo della Commissione che siederà nella trojka dell’austerità.

È difficile sperimentare, ricominciare. Lo si vede in queste ore: Grillo ha biasimato i parlamentari 5Stelle favorevoli a Grasso, ma la successiva scelta di far decidere i suoi a maggioranza (e l’apertura a governi non partitici) innova profondamente, rispetto alla prassi di tutti i partiti di trasmettere a deputati e senatori l’indicazione su come si deve votare. È quello che Machiavelli consiglia a chi innova: «Vedere le cose più da presso», considerare «come i tempi e non gli uomini causano il disordine » (Discorsi, I-47). Anche la democrazia rappresentativa fu difficile, anche proporre nell’800 il suffragio universale. L’unica cosa impraticabile è dire no agli esperimenti, comportandosi come Adenauer da sconfitti. I veri esperimenti, quelli che usano le persone come mezzi e le Costituzioni come stracci, avvengono in Grecia, immiserita dall’austerità. O a Cipro, dove stabilità vuol dire defraudare i conti bancari dei cittadini, ricchi e no. Che altro fare, se non sperimentare quel che la cittadinanza attiva chiede si provi. Continuare a considerare un «sovraccarico» le sue domande: questa è ingovernabilità. Se il nuovo Papa torna alle origini, chiamandosi Francesco, forse anche per la politica è ora di non confondere gli ultimi coi vinti. Di tornare all’agorà di Atene, all’Azione Popolare di Roma antica.

«La similitudine di M5S e montiani è sorprendente: si sono entrambi candidati appellandosi all’antipolitica contro i partiti ed entrambi si sono comportanti come i peggiori dei partiti».

LaRepubblica, 19 marzo 2013

MOLTI cittadini hanno espresso il loro disappunto per l’anatema lanciato da Beppe Grillo contro i “traditori” che in Senato non se la sono sentita di considerare Schifani e Grasso equivalenti. Quei cittadini hanno messo il dito nella piaga di un movimento che crede che la democrazia implichi unanimità (salvo poi praticare la regola di maggioranza quando deve espellere i traditori!).

E hanno messo in luce una verità fondamentale: non ci può essere Parlamento senza libertà. Non solo libertà di parola e di associazione dei cittadini che devono poter fare campagna elettorale e tenere libere elezioni, ma anche libertà di decisione di chi siede in Parlamento. Come sanno bene i partiti, nemmeno la loro più ferrea disciplina può togliere al singolo rappresentante la libertà di decidere e votare secondo il proprio giudizio. E le espulsioni dal partito non si traducono in decadenza del mandato parlamentare. La nostra libertà come cittadini dipende da questa intraducibilità, e cioè dalla libertà dei nostri rappresentanti. Nel libero mandato sta la forza della democrazia elettorale. Senza il quale i deputati sarebbero dipendenti al servizio di un padrone che sta al di sopra dell’interesse generale.
Ha colto nel segno quel blogger che ha scritto, rivolgendosi a Grillo e alla sua minaccia di espellere chi ha votato Grasso, queste parole: “E voi sareste contro la partitocrazia? Ma è proprio questo! Limitare la libertà di scelta perché fa comodo al partito. Siete peggio dei peggiori partiti della prima repubblica. Viva la libertà di pensiero. Viva i cittadini che hanno scelto di dire no al padrone del partito. Così hanno reso un servizio allagente”.
La libertà dei rappresentanti si incontra con quella dei cittadini e,
se la prima viene meno, anche la seconda è violata. Il mandato libero, ripetiamolo a chi ne ha dato una definizione distorta e sbagliatissima, non serve a dare all’eletto la libertà di saltare i fossi e passare da uno schieramento a un altro — se questo avviene, non si deve concludere che la norma è sbagliata. Ad essere “sbagliato” – nel senso di eticamente riprovevole – è il comportamento del deputato. Ma meglio rischiare queste violazioni (e, se necessario, lasciare che la legge le punisca se il salto è stato pagato con moneta sonante) che volere una violazione fatale: quella che ci sarebbe se non ci fosse mandato libero.

La libertà di essere responsabili di fronte ai cittadini significa anche rendersi conto chi siede in Parlamento è come un pezzettino del popolo sovrano e che, quando si trova a dover decidere su questioni istituzionali, dovrebbe ragionare mettendosi dal punto di vista dell’interesse generale, ovvero del “come se” al suo posso ci fosse il popolo tutto. Un processo che potrebbe sembrare astratto, ma non lo è perché tutti noi siamo capaci di ragionare mettendoci dal punto di vista degli altri, anzi di tutti. Questa visione larga del giudizio politico che ci consente di pensare a noi come parte di un tutto grande è alla base della nostra capacità di cittadinanza. Il parlamentare si identifica certamente con una bandiera ma sa che perfino mettendosi dal suo punto di vista può riuscire a vedere il tutto, il generale. Un po’ come avviene con la prospettiva pittorica: certo, diversi punti di vista ci danno diverse visioni dello stesso luogo. Diverse idee politiche, anche opposte, ci portano a vedere una stessa cosa da diverse angolature e però sappiamo che si tratta della stessa cosa. Il disonesto non diventa onesto se visto da una diversa prospettiva. E quando si impongono scelte istituzionali (come quelle che portano all’elezione dei presidenti di Camera e Senato), scelte che dovrebbero interrogare proprio quel giudizio largo sull’interesse generale, questo lo si vede con facilità... a meno che l’identità di partito non faccia ombra al giudizio. È questo che Grillo si ostina a chiedere ai suoi che siedono in Parlamento. Ed è questo che ha fatto il gruppo dei montiani, del quale desta particolare stupore la decisione di votare scheda bianca. Poiché la filosofia nel nome della quale è nata la lista montiana è la competenza e l’oggettività, la dirittura morale e l’onestà, contro le ideologie di destra e di sinistra. E quindi ci si sarebbe aspettati che non decidessero per ideologia, come hanno invece fatto votando scheda bianca. La similitudine di M5S e montiani è sorprendente: si sono entrambi candidati appellandosi all’antipolitica contro i partiti (nel nome della totale trasparenza, sia essa della moralità o della verità) ed entrambi si sono comportanti come i partiti, anzi i peggiori dei partiti: con ideologia e per disciplina di partito.

M5S non un Un partito come gli altri. È una Rete. Perché è cresciuto nel tessuto dei gruppi e dei comitati locali impegnati sui temi dei beni comuni, dell’ambiente, dell’etica pubblica». Un’analisi che è anche una speranza.

La Repubblica, 18 marzo 2013

CE L’HA fatta, il Pd, a far eleggere i propri candidati alle Camere. Era tutt’altro che scontato, soprattutto al Senato. C’è riuscito perché non li ha “imposti”, ma “proposti”. Ha scelto due figure credibili e di alto profilo. Esterne al partito. Laura Boldrini, già portavoce dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati. Eletta nelle liste di Epoi Pietro Grasso. Una biografia esemplare e coerente, di lotta alle mafie. Al Senato, soprattutto, era difficile prevedere che l’elezione sarebbe avvenuta in tempi tanto rapidi. Senza negoziati né compromessi. È giunta grazie al voto di alcuni senatori del M5S, una decina almeno. Al ballottaggio fra Grasso e Schifani, non si sono sentiti di astenersi o di annullare il voto. E ciò ha suscitato sorpresa oltre a reazioni e commenti – a mio avviso – un po’ azzardati. In particolare, dopo il voto dei senatori, in contrasto con le indicazioni di Beppe Grillo, c’è chi ha pronosticato l’implosione del M5S. Incapace di assumere posizioni coerenti e unitarie. Perché vulnerabile alle logiche di corridoio e alle pressioni degli altri gruppi. Oppure, più semplicemente, perché impossibile da “governare”, per un Capo esigente ma assente, in Parlamento. Beppe Grillo, in effetti, non l’ha presa bene. A coloro che, nel segreto dell’urna, avevano votato per Grasso, ha chiesto di «trarre le dovute conseguenze ». Cioè, dimettersi. D’altronde, la concezione della rappresentanza e dei rappresentati proposta da Grillo prevede il «mandato imperativo». Cioè, la “dipendenza” diretta degli eletti dagli elettori. Interpretati dal Capo e Garante del Movimento (e dal suo intellettuale di riferimento, Roberto Casaleggio). In rapporto con i seguaci e i militanti attraverso la Rete.

Tuttavia, io credo che entrambe le “pretese” siano difficilmente realizzabili.

La prima – che prevede la rapida dis-integrazione del Movimento, in Parlamento e, dunque, in ambito politico e sociale – considera il M5S un partito come gli altri. Una “organizzazione” di politici più o meno professionalizzati, tenuti insieme da un’identità e da interessi comuni, sempre più deboli. Vulnerabili di fronte alle tentazioni e ai privilegi del potere. Un po’ come i leghisti, giunti in Parlamento “padani” e divenuti rapidamente “romani”.

Ma il M5S non è come gli altri partiti. Un partito come gli altri. È una Rete. Non solo perché si è sviluppato attraverso il web e i meetup. Perché, piuttosto, è cresciuto nel tessuto dei gruppi e dei comitati locali impegnati sui temi dei beni comuni, dell’ambiente, dell’etica pubblica. In altri termini, è una “rete” di esperienze e di attori “volontari”. Perlopiù giovani, che operano su base locale. Da tempo. Certo, Roma e le aule del Parlamento sono grandi. Ma il legame con i mondi e le reti sociali di appartenenza lo è altrettanto. Per ora, molto di più. Chi pensa di “reclutarli” – con la promessa di ruoli e incarichi – sbaglia di grosso. Non avverrà.

Tuttavia, per la stessa ragione, mi pare difficile che possano rispondere al richiamo del Capo, in ogni occasione. Prima ancora: che possano accettare il modello della democrazia diretta e del mandato imperativo imposto da Beppe Grillo. Perché, anzitutto, presentandosi alle elezioni, hanno accettato le regole e i principi della democrazia rappresentativa. Perché, inoltre, non è facile individuare le domande degli elettori che li hanno eletti. Come abbiamo già rilevato, sul piano elettorale, il M5S è un “partito pigliatutti”. Votato da componenti molto diverse, dal punto di vista socioeconomico e politico. Un terzo dei suoi elettori, infatti proviene da centrodestra. Altrettanti da centrosinistra. (Le analisi di Bordignon e Ceccarini, sull’ultimo numero della rivista “South European Society and Politics”, sono molto chiare.) Inoltre, è la forza politica più votata dagli operai ma anche dagli imprenditori, dai lavoratori, dai disoccupati, dai lavoratori autonomi, dai liberi professionisti e dagli studenti. Difficile rivolgersi e riferirsi, direttamente, a un elettorato tanto eterogeneo. Anche la “fedeltà” al Capo appare una pretesa difficile da esigere. Perché, come abbiamo detto, il M5S non è un partito coeso, strutturato. Che possa venire controllato dall’alto e dal centro. E non è un partito “personale”, come Forza Italia, il Pdl, ma anche l’Idv. Gli eletti, gli attivisti, non rispondono solo o direttamente al Capo. Perché non sono stati scelti da lui. Ma dagli altri attivisti e seguaci, con cui avevano un rapporto stretto e diretto, anche prima.

Con loro – e non con Grillo – si instaura il legame di fiducia alla base del loro impegno e della loro azione (come emerge dalle interviste ai militanti analizzate nel volume “Il partito di Grillo”, curato da Piergiorgio Corbetta ed Elisabetta Gualmini e pubblicata dal Mulino). Insomma, il M5S non è un partito “tradizionale” ma nemmeno un partito “personale”. Senza Grillo non esisterebbe. Grillo, però, è il proprietario del marchio, ma non il “padrone” di un’azienda-partito, di cui gli eletti sono i dipendenti.

In effetti, come ho già avuto modo di sostenere, il M5S, mi rammenta un autobus. Sul quale sono saliti passeggeri diversi, con destinazioni diverse. Uniti, in questa fase del percorso, da una comune destinazione intermedia. Destrutturare il sistema dei partiti della Seconda Repubblica. Incapaci di cambiare le logiche della Prima. Grillo li ha raccolti e accolti. Insieme agli altri, saliti in precedenza. Interessati ad arrivare altrove e più lontano. Nella Terra dei Beni Comuni. Grillo, per questo, è un Altoparlante. Un Autista. In grado di scagliare il suo “Mezzo” contro il muro del Vecchio che Resta. Ma, appunto, un Mezzo. Usato, in parte, da elettori e militanti, per i loro “fini” specifici. Non per il Fine generale.

Per questo i suoi elettori, ma anche i suoi eletti, gli attivisti e i militanti, non si sentono vincolati al mandato imposto dal Capo. E scelgono liberamente, “secondo coscienza”. Votano insieme ai parlamentari del Pd, quando si tratta di sostenere un candidato come Grasso. Avverrà lo stesso in altre occasioni analoghe. Né la minaccia del conducente di abbandonare la guida dell’autobus farà loro cambiare opinione. Senza che ciò significhi, in alcun modo, confluire nel Pd o in un altro gruppo e partito.

La seconda Repubblica è finita. I passeggeri dell’autobus di Grillo lo hanno dimostrato in modo inequivocabile. Ma dove andranno, dove scenderanno. E dove arriverà e si fermerà l’Autobus: non è possibile stabilirlo. Non lo sa nessuno. Di certo, neppure Grillo.

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