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I nodi sono giunti al pettine. I due partiti fondativi della "seconda Repubblica" sono attraversati da una crisi probabilmente irreversibile, e i punti di somiglianza sembrano prendere il sopravvento sulle diversità. Non solo e non tanto per gli aspetti più superficiali ed evidenti: la crisi di entrambi è stata progressivamente scandita dal pur differente tracollo dei due padri-padroni che li hanno forgiati e dominati, assolutamente incapaci di porsi il problema del ricambio. Portati a far crollare con sé le colonne del tempio, in un cupio dissolvi che si è arrestato solo sulla soglia della dissoluzione. Erosi da quella stessa antipolitica che ne aveva costituito il discutibile punto di forza e che rivela ora per intero i suoi esiti: l´assenza di democrazia interna, le cricche elevate a sistema, lo strapotere di tesorieri-avventurieri, il familismo da Basso Impero delineano in realtà percorsi paralleli e analoghi. Danno il segnale più visibile di un´involuzione della politica e del Paese, ci costringono a fare i conti con il ventennio di questa sciagurata "seconda Repubblica" e con le sue radici. Ci obbligano, soprattutto, a misurarci con il grande vuoto che si avverte sullo sfondo. Con le sue incognite e con gli enormi problemi che pone: in modo non molto dissimile, a ben vedere, da quel che era avvenuto vent´anni fa.

Sono entrati drasticamente in crisi, infatti, due partiti cui si era rivolta una parte significativa del Paese: in essi aveva fatto confluire alcune delle sue pulsioni peggiori - dall´egoismo proprietario all´intolleranza - ma anche illusioni e paure reali, ricerca di protezione e angoscia per l´urgere dei problemi, bisogno di speranza e rimozione delle inquietudini. L´antipolitica aveva fatto da cemento potente, alimentata da antiche e diffuse inculture e da sostanziali estraneità alla democrazia. Una deriva profonda, che talora sembrò inarrestabile: e che fu poco contrastata da forme di buona politica e da proposte capaci di rispondere in modo credibile alla crisi profonda del Paese. Di costruire un´idea di futuro. È stata questa assenza a permettere il consolidarsi del centro-destra e il suo lungo interagire con le deformazioni culturali più corpose della nostra storia recente.

Ove si ripercorra la storia degli ultimi decenni non è difficile comprendere l´iniziale irrompere della Lega e il successivo trionfo di Berlusconi. Non è difficile neppure cogliere il segreto di un´alleanza che era parsa (ed era) improbabile ma si è rivelata più duratura delle rotture e delle tensioni di superficie. Convivevano in essa, a dirla in breve, sia i peggiori guasti degli anni Ottanta sia l´esasperazione per le loro conseguenze. Vi confluivano cioè egoismi individuali e di ceto, protagonismi privi di regole e valori, disprezzo per lo Stato, indifferenza ai valori collettivi: in sintesi, il prevalere del privato sul pubblico nell´economia e nella politica, nei comportamenti quotidiani e nelle relazioni sociali. E vi era al tempo stesso l´esasperata reazione di fronte agli inevitabili frutti di tutto ciò (il debito pubblico ne era e ne è un concretissimo simbolo). Questo fu il connubio che vinse nel 1994, e uno sguardo agli anni precedenti rende più agevole capire perché quella vittoria sia stata possibile. Rende più chiari, anche, i problemi che stavano sullo sfondo e che rinviano a questioni centrali. Non era certo un´invenzione, ad esempio, la "questione settentrionale", pur nel suo scomposto deflagrare: che risposte ha avuto, e come si presenta ora? Per capire poi meglio, su di un differente versante, altri e connessi nodi che abbiamo di fronte si pensi anche ad un´esperienza molto positiva dell´ultimo ventennio: il grande pregio del primo governo Prodi nel portare il Paese in Europa ma al tempo stesso la sua debolezza nel far comprendere appieno le ragioni ideali e le prospettive di una costruzione europea che imponeva nell´immediato sacrifici pesanti.

Queste questioni sono ancora tutte sul terreno e non è possibile riproporre senza molta convinzione le ricette precedenti: è necessaria un´inversione di marcia radicale e riconoscibile. Capace di ridare fiducia. A questo è chiamato in primo luogo il centrosinistra ma forse è possibile che scendano in campo su questo terreno, pur con diversità di prospettive e di accenti, energie e forze più ampie. Nella speranza, naturalmente, che l´esperienza stessa del governo Monti possa contribuire anche alla nascita di quella "destra normale" che il Paese non ha mai conosciuto e che sarebbe invece preziosa.

Vi è però una questione assolutamente preliminare e drammaticamente urgente, e la prolungata insensibilità e sordità di quel che resta del ceto politico ha effetti ogni giorno più devastanti. Lo squallore della vicenda della Lega, ad esempio, non è riducibile a tesorieri felloni o a miserabili cerchi, a parenti o affini: è l´espressione esasperata di una bancarotta della politica che trae origine dal suo complessivo degradare e dalle scelte che ha compiuto. È difficile descrivere con parole adeguate la truffa compiuta ai danni di un Paese che aveva abolito per via referendaria il finanziamento pubblico. E che ha visto invece crescere a dismisura rimborsi ai partiti concessi senza alcuna documentazione, talmente esorbitanti da autorizzare investimenti in Tanzania e truffaldine dilapidazioni private. Lo ha scritto benissimo Stefano Rodotà su questo giornale prima ancora che l´ultima vicenda deflagrasse: la politica, prima vittima di questo viluppo di corruzione e privilegi, ne è stata complice. E ora non ha più alibi.

Revisione immediata e radicale della legge sui rimborsi elettorali, norme severissime contro la corruzione, riduzione drastica dei costi della politica: come è possibile presentarsi al Paese senza aver compiuto questi passi? Come è possibile lasciar incancrenire la situazione nel momento stesso in cui alla collettività nazionale si impongono invece sacrifici pesantissimi? Il tempo è scaduto, la casa brucia da tempo: ogni ulteriore ritardo è in realtà una corsa verso il baratro.

Mettiamoci nei panni di un imprenditore straniero, o anche indigeno: ha a disposizione la globalità del mondo per decidere dove investire con maggior profitto i suoi soldi. Perché dovrebbe scegliere l'Italia, in cui l'unica economia che tira e investe è quella criminale? In cui la corruzione pubblica e privata raggiunge vertici da capogiro? In cui le infrastrutture fanno schifo? In cui i tempi della burocrazia e della giustizia sono preistorici? Adesso però gli imprenditori non hanno più alibi, dice gioiosamente la coppia Monti-Fornero, e sapete perché? Perché è stata introdotta la libertà di licenziamento individuale, quelli collettivi c'erano già. E dunque, benvenuti padroni finalmente liberi di fare carne di porco della forza lavoro. Non li liberiamo dalla camorra, dalla corruzione, dai disservizi ma possono sempre liberarsi degli operai. Ce lo chiedono i mercati e l'Europa, ai quali due governi hanno chiesto di chiedercelo.

In Italia non c'è lavoro, la disoccupazione pura e quella (finora, prima della controriforma degli ammortizzatori sociali) camuffata, esplodono mentre crolla il potere d'acquisto di salari e pensioni. Soprattutto piangono i giovani grazie alla riforma pensionistica. Il governo non ha uno straccio di progetto per rilanciare lo sviluppo, persino il peggiore che è quello senza vincoli sociali e ambientali. E cosa fa Monti per sopperire a questo disastro? Cancella un pezzo di democrazia italiana: l'art. 18 dello Statuto. E per fortuna che c'è stata la mediazione di Bersani, sennò che sarebbe successo? La stessa cosa che succede ora, dopo la mediazione. Monti e Fornero sono contenti, la boccia è in buca e se ne vantano a livello globale.

I licenziamenti discriminatori saranno puniti con il reintegro, come prima. Peccato che nessun imprenditore scriva nella lettera di licenziamento che il poveraccio è gay o iscritto alla Fiom, o la poveraccia è incinta. Sì, però adesso varrà per tutti, anche per chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti. Peccato che già prima esistesse una legge di tutela contro le discriminazioni, a prescindere dal numero di dipendenti. Poi ci sono i licenziamenti disciplinari, in cui il reintegro si trasforma in optional nelle mani del giudice che solo in casi eccezionali potrà ordinare al padrone di rimettere al lavoro la persona ingiustamente licenziata, altrimenti si limiterà a imporre un indennizzo di 12-24 mensilità (con lo sconto rispetto al testo iniziale per non disturbare troppo i manovratori). Infine, i licenziamenti per motivi economici: il giudice, che espressamente non potrà indagare sulle ragioni economiche dell'impresa, solo in caso in cui la motivazione sia «manifestamente insussistente» potrà ordinare il reintegro. Ma come farà a dimostrare l'insussistenza senza mettere il naso nell'economia dell'azienda?

Così si passa dalla norma alla eccezionalità. Monti e Fornero rivendicano la loro rivoluzione precisando che il diritto al reintegro non c'è perché sancirebbe una «concezione proprietaria del posto di lavoro». Che invece è di proprietà esclusiva del padrone, e così si torna al proletario di Marx, proprietario solo della sua prole.

Mentre Monti conferma la nostra analisi spiegando come il reintegro diventi altamente improbabile, la segreteria della Cgil plaude al nuovo sistema di regole. Una testimonianza illuminante dell'autonomia del sindacato dalle forze politiche. O almeno della Cgil. La Fiom è di tutt'altro avviso, ma come è noto Landini è quello che tira i gatti morti sul finestrino di Marchionne, e anche di Monti.

Il nuovo Consiglio comunale di Milano eletto nel mese di maggio 2011 ha revocato la deliberazione con cui il precedente Consiglio comunale aveva approvato il Piano di Governo del Territorio, deliberazione che però non era stata pubblicata cosicché il PGT non era entrato in vigore; il procedimento è quindi regredito alla decisione sulle osservazioni presentate al piano adottato e alla conseguente approvazione del PGT. Nell’imminenza della ripresa dei lavori del Consiglio comunale sul nuovo strumento urbanistico si intensifica anche il dibattito su un aspetto fondamentale del PGT adottato, quello della perequazione urbanistica, che presenta aspetti problematici ben illustrati da Roberto Camagni, PGT: un uso improprio della perequazione.

In vista del nuovo PGT, Osmi Borsa immobiliare, Azienda speciale della Camera di Commercio di Milano, ha promosso una ricerca (M. De Carli, a cura di, La libera circolazione dei diritti edificatori nel comune di Milano e altrove. Urbanistica, diritto civile, diritto amministrativo, fiscalità, catasto, servizi al mercato, Franco Angeli, 2012) che è stata presentata il 22 marzo 2012, per iniziativa congiunta della stessa Osmi e del Consiglio notarile di Milano, in un convegno dedicato alla “Borsa dei diritti edificatori. Verso un mercato immobiliare trasparente per la circolazione dei diritti”. Il convegno ha mostrato vari problemi connessi alla realizzazione di un vero mercato dei diritti edificatori e la necessità che il dibattito prosegua con molti approfondimenti, previa attenta riflessione sui risultati della ricerca.

In effetti la perequazione prevista dal PGT adottato è profondamente innovativa rispetto ad altre forme di perequazione urbanistica sperimentate già da tempo. Si tratta infatti di una perequazione estesa (quasi all’intero territorio del Comune, più esattamente agli ambiti del Tessuto Urbano Consolidato) o sconfinata, e non limitata a specifici ambiti soggetti a pianificazione attuativa (perequazione di comparto). Si tratta peraltro di una perequazione che poggia su basi normative molto esili: due disposizioni della legge regionale sul governo del territorio e la recente modifica del codice civile che ha assoggettato a trascrizione i contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori, comunque denominati, previsti da normative statali o regionali, ovvero da strumenti di pianificazione territoriale (l.r. 12/2005, art. 11, commi 2 e 4; d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106, art. 5, comma 3, che ha modificato l’art. 2643 del codice civile). Per il resto la perequazione si fonda esclusivamente sullo stesso PGT.

Si esaminano qui, sulla sola base della presentazione della ricerca, tre aspetti problematici di un possibile futuro mercato dei diritti edificatori.

Nel convegno è stato rilevato che la mancanza di una specifica disciplina tributaria dei contratti di trasferimento dei diritti edificatori costituisce un serio ostacolo allo sviluppo di un vero mercato. Un’ipotesi è la tassazione di questi contratti con lo stesso regime ordinario dei contratti di compravendita immobiliare, quindi con un’aliquota complessiva dell’undici per cento (otto per cento per l’imposta di registro; due per cento per l’imposta ipotecaria; un per cento per l’imposta catastale). In ogni caso, dopo il richiamo a questa ipotesi che non ha fondamento normativo espresso, è stata avanzata la richiesta di una tassazione con aliquote non espropriative, sia pure senza precisare quando un’aliquota debba essere considerata espropriativa. Al riguardo si osserva che l’aliquota ordinaria dell’Iva è il ventuno per cento, di prossima elevazione al ventitré per cento, e che l’aliquota del primo scaglione dell’Irpef, per i redditi fino a 15.000 euro, è ugualmente il ventitré per cento. Dunque per i due più importanti tributi, rispettivamente sui consumi e sul reddito, con amplissima platea di contribuenti, è stabilita un’aliquota più che doppia rispetto all’attuale tassazione dei contratti immobiliari. Si può osservare inoltre che la base imponibile ha natura assai diversa da quelle dell’Iva e dell’Irpef, trattandosi di operazioni su diritti, ma più esattamente su rendite derivanti dalla pianificazione, senza impiego di capitali e senza alcun concorso del lavoro umano. E poiché il governo attualmente in carica ha inserito tra i suoi obiettivi il contrasto delle rendite (cominciando da tassisti, farmacisti e notai), sembra di doversi attendere che esso, per coerenza, prosegua anche con un’equa tassazione dei contratti di trasferimento dei diritti edificatori.

Un secondo problema chiaramente emerso nel convegno è quella della peculiarità dei diritti edificatori, difficilmente assimilabili ai beni mobili e ai valori mobiliari oggetto di scambio nelle borse. Le aree sono per definizione infungibili, giacché ciascuna di esse ha caratteristiche sue proprie che la contraddistinguono. Il valore dei diritti edificatori dipende molto largamente dalle caratteristiche specifiche delle aree in cui essi vengano sfruttati, cioè dalle caratteristiche delle aree di atterraggio, secondo il lessico ormai diffuso (che induce a parlare simmetricamente di aree di decollo e di volo per il trasferimento dei diritti). Perché si realizzi un mercato dei diritti edificatori veramente trasparente non è sufficiente che il Comune stabilisca la quantità complessiva di diritti edificatori (che dipende dall’indice di utilizzazione territoriale prescelto e dall’estensione complessiva delle aree cui esso viene assegnato), ma occorre valutare anche lo specifico vantaggio per le singole aree di atterraggio. Si dovrebbe quindi escludere l’acquisto di diritti edificatori senza contestuale precisa individuazione delle aree di atterraggio.

Il terzo problema emerso nel convegno è quello della stabilità dei diritti edificatori, premessa indispensabile per lo sviluppo di un vero mercato. Il tema è stato accennato in modo problematico, nella consapevolezza che le decisioni amministrative, comprese quelle relative di pianificazione urbanistica, sono sempre suscettibili di revoca o modificazione per sopraggiunti motivi di pubblico interesse. È stata però anche prospettata in modo deciso, e senza alternative, una soluzione: i diritti edificatori dovrebbero intendersi attribuiti dal PGT a titolo definitivo e quindi, in caso di modifica del sistema perequativo previsto dal PGT, dovrebbero costituire oggetto di espropriazione con corresponsione di indennizzo.

Questa soluzione è molto discutibile. L’indice di utilizzazione territoriale è attribuito dal PGT adottato a titolo gratuito, senza alcun corrispettivo a carico dei proprietari dei terreni. Questi ultimi saranno chiamati a un sacrificio economico solo nel caso in cui decidano di utilizzare effettivamente il diritto edificatorio (proprio o acquistato), in attuazione del normale e civilissimo criterio, stabilito in forma generale trentacinque anni fa dalla legge Bucalossi, per cui ogni attività comportante trasformazione urbanistica e edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri relativi. Nel convegno non è stato chiarito perché mai il Comune dovrebbe garantire, in caso di variazione del PGT, di riacquisire mediante espropriazione, quindi a titolo oneroso e a spese della collettività, diritti edificatori attribuiti a singoli proprietari a titolo gratuito: l’unica giustificazione data è che questa garanzia è indispensabile per far veramente decollare (sempre secondo il lessico aviatorio del tema) il mercato del trasferimento dei diritti edificatori.

Sul punto va ricordato un caposaldo del nostro ordinamento, risalente anch’esso alla legge Bucalossi. Il diritto di proprietà dei suoli legalmente non comprende il diritto di edificarli o lo comprende in misura minima. In assenza di piano urbanistico comunale all’interno dei centri edificati non sono consentite nuove costruzioni, ma solo interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria e di risanamento conservativo di singole unità immobiliari esistenti; fuori del perimetro dei centri abitati l’indice di densità ammesso per le nuove costruzioni è quello, molto basso, di 0,03 metri cubi per metro quadro. Questa disciplina, oggi contenuta nel testo unico in materia edilizia, è derogabile dalle leggi regionali solo in senso più restrittivo e ha carattere non esclusivamente urbanistico: si tratta di limiti che attengono alla definizione del contenuto del diritto di proprietà e che quindi rientrano nella competenza esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile. Solo la pianificazione urbanistica comunale può creare edificabilità maggiore di quella legale: ma la pianificazione comporta esercizio di poteri pubblici, senza oneri a carico dei proprietari e senza accordi o convenzioni che implichino negoziazione, scambio di consenso tra le parti e quindi stabilità dell’assetto dei conseguenti rapporti.

La pretesa che, in caso di variazione del PGT, i diritti edificatori già attribuiti ma non effettivamente utilizzati costituiscano oggetto di espropriazione con conseguente corresponsione di indennizzo, implica il riconoscimento al Comune del potere di variare in via semplicemente amministrativa il regime del diritto di proprietà che invece è soggetto, per Costituzione, a riserva di legge statale.

D’altra parte la perequazione sconfinata prevista dalla legge regionale sul governo del territorio non è obbligatoria, ma costituisce una semplice facoltà. Il Comune che non abbia fatto ricorso alla perequazione potrà sempre mutare, nel rispetto della disciplina del governo del territorio, le previsioni di edificabilità che non si siano ancora realizzate senza alcun indennizzo; bisognerebbe spiegare perché mai ciò dovrebbe invece essere precluso al Comune che abbia fatto ricorso alla perequazione sconfinata, benché nulla al riguardo sia espressamente stabilito dalla legge.

Il dibattito sulla perequazione certamente proseguirà e probabilmente avrà sviluppi nella legislazione statale non soltanto per gli aspetti fiscali, ma anche per quelli relativi al catasto e all’incidenza dei diritti edificatori sui beni del demanio. Ma si prospetta l’esigenza che in questo dibattito sia recuperato un valore fondamentale e irrinunciabile. La perequazione è soltanto uno strumento volto a creare indifferenza dei proprietari rispetto alle scelte di pianificazione e quindi a evitare indebite pressioni sugli amministratori pubblici. La perequazione peraltro, secondo i modi in cui concretamente regolata dal PGT, non dovrebbe comportare una indebita riduzione del ruolo del Comune nel governo del territorio, non dovrebbe produrre nuove sperequazioni e in ogni caso non deve mutarsi in un fine dell’amministrazione.

Il fine del PGT non è la perequazione, che non può essere compiutamente realizzata in via amministrativa ma richiede invece sicuramente nuova disciplina normativa statale. Il fine del PGT è invece il miglior assetto del territorio comunale per la creazione di un ambiente urbano equilibrato, gradevole, con soddisfacenti rapporti tra spazi edificati privati e spazi pubblici, con un sistema di mobilità adeguato ed efficiente, con una distribuzione delle funzioni che favorisca l’integrazione sociale, con un’adeguata disponibilità di opere di urbanizzazione, e infine, per quanto possibile, con un’architettura di qualità per una città bella.

Gianni Rinaldini, Coordinatore nazionale dell’area “la Cgil che vogliamo”, esprime una valutazione molto netta e critica rispetto alla riforma del mercato del lavoro che il governo si appresta a varare.
«Di fatto siamo di fronte ad uno svuotamento totale dell’articolo 18. Per una banale ragione: si tratta di un articolo fondato sul diritto alla reintegra sul posto di lavoro di fronte ad un licenziamento senza giusta causa.

Oggi, nella proposta del governo, fatto salvo i licenziamenti discriminatori, peraltro incostituzionali, il reintegro diventa un eccezione e non più la norma perché per i licenziamenti dovuti a ragioni economiche, si è modificata la legge del 1966, precedente allo Statuto e si risolve con una indennità monetaria. Per i licenziamenti dovuti a motivi disciplinari, dopo un lungo percorso che incentiva il lavoratore a concordare l’indennità, il giudice può decidere fra il reintegro o l’indennità. Quindi il reintegro è previsto soltanto in una tipologia nuova che è quella di un licenziamento discriminatorio camuffato da licenziamento economico su cui per altro si afferma che le ragioni economiche sono insindacabili da parte del giudice perché proprie dell’azienda.

Il significato dell’articolo 18 , “il lavoro non è una merce”, viene azzerato. L’attuale impianto - lo ha affermato con chiarezza ieri la Fornero - attiene ad una concezione proprietaria del posto di lavoro. Bisogna darle atto che ha esplicitamente dichiarato il senso profondo della riforma».
E sull’intero impianto della proposta cosa pensi?
 «Una valutazione totalmente negativa nell’intero impianto delle risposte. L’ articolo 18 non è un sovrappiù, attraversa tutti gli altri aspetti della proposta, a partire da fatto che il primo contratto a termine o di somministrazione viene fatto con l’abolizione delle causali. Si badi bene non il primo per il lavoratore, ma per lo stesso padrone. Nelle forme di entrata c’è un allargamento fino al 100% dei dipendenti che possono ritrovarsi con contratti di apprendistato, una situazione non credibile e che serve solo a ridurre i costi per l’impresa. Tutte le altre forme di lavoro precario sono confermate. Sugli ammortizzatori non hanno pensato a nessun processo di universalizzazione, nonostante la crisi, oltre al fatto che anche lì si riducono i tempi per accelerare i licenziamenti.

Il tutto si incrocia in maniera pesantissima con la riforma delle pensioni e con il dramma degli “esodati”.
Ti aspetti risposte dalla politica?
«Il governo Monti sta applicando la lettera della Bce di agosto. Se uno se la va a rileggere c’è scritto già tutto. Siamo in una situazione farsesca. Tanto valeva che venisse nominato un commissario della Bce al governo. Sarebbe stata una scelta più corretta e senza infingimenti. La politica rappresentata in Parlamento è ingabbiata nel sostegno al governo. Alla fin fine nessuno ha intenzione di aprire un conflitto vero rispetto al governo Monti». 


Sul significato del lavoro vedi su eddyburg l’ eddytoriale n. 144

Che cosa alimenta ogni giorno l´antipolitica, la fa crescere, la fa divenire un elemento che struttura la società e il sistema politico, che allontana i cittadini dall´idea stessa di partecipare alle elezioni, come dimostrano rilevazioni e sondaggi? Lo sappiamo, i fatti sono ormai da troppo tempo sotto gli occhi di tutti. E´ un viluppo di corruzione e privilegi, di uso privato di risorse pubbliche e di spudorata impunità, che è divenuto sempre più stringente, che soffoca una democrazia in affanno e ne aggrava una crisi già drammatica. Ed è proprio la politica, vittima di questa deriva, a farsene complice, comportandosi come se non fossimo di fronte ad una emergenza devastante, perché essa stessa ha finito con il radicarsi sul terreno concimato da un finanziamento pubblico ai partiti che ha tradito le sue ragioni ed è divenuto veicolo di nuove opportunità corruttive, di diffusione dell´illegalità.

A questi argomenti, o piuttosto constatazioni, si oppongono risposte indignate e virtuose. Basta con i moralismi, non si può fare d´ogni erba un fascio, non tutti i partiti sono allo stesso modo coinvolti negli scandali, i politici corrotti sono una minoranza. Ma queste sono parole ormai consumate, che suonano false. I politici onesti, i partiti che fanno certificare i loro bilanci non possono limitarsi ad essere i custodi della loro virtù. Essi, più d´ogni altro, hanno il dovere di agire, di pretendere un radicale mutamento, poiché non si può certo chiedere ai corrotti d´essere i protagonisti di una simile stagione.

Questi sono tempi di scoperte quotidiane dei modi fantasiosi in cui viene usato il denaro pubblico destinato ai partiti. Abbiamo conosciuto una nuova figura sociale, quella del tesoriere/faccendiere, sciolto da ogni vincolo, legittimato ad ogni impudicizia, milite ignoto per i leader dei partiti. Da lui si ritraggono, o meglio fingono di ritrarsi, i sodali di ieri. Ladri, pecore nere – questo sarebbero. E la responsabilità penale, come vuole la Costituzione, è e deve rimanere personale, non può contaminare gli altri dirigenti, gli onesti militanti. E così, per l´ennesima volta, viene eluso il nodo della responsabilità politica, che è assai diversa da quella penale, e ci si sottrae all´obbligo di mosse politiche impegnative, che avviino da subito quel tanto di rigenerazione di politica e partiti ancora possibile.

È di ieri la notizia che la commissione sulle retribuzioni di parlamentari e amministratori pubblici, affidata al presidente dell´Istat Enrico Giovannini, si è arresa, ha rimesso il suo mandato e ha invitato la politica a prendersi le sue responsabilità. Dal Governo è venuta la prevedibile risposta burocratica: «Proseguirà la propria azione nell´obiettivo di giungere ad una razionalizzazione dei trattamenti retributivi in carico alle amministrazioni pubbliche». E il Parlamento, e i partiti? Si rendono conto che l´uscita di scena di quella commissione non fa nascere un problema, ma è la caduta di un alibi? Il tempo è scaduto. Una agenda politica responsabile deve avere in cima la questione del finanziamento pubblico. In Parlamento sono state presentate molte proposte di legge, che qui non è possibile discutere nei dettagli. Ma è urgente una risposta immediata, anche nella forma di una disciplina transitoria, che blocchi definitivamente assurdità come il denaro a partiti inesistenti, ridimensioni radicalmente l´ammontare del finanziamento, imponga severissime regole di gestione e sanzioni penali adeguate. Un ceto politico con un minimo rispetto per se stesso, che aspiri ad una sopravvivenza rispettabile, o fa subito questo o è destinato ad essere giustamente sommerso dal discredito.

E tuttavia anche questa mossa non basterebbe in assenza della nuova normativa sulla corruzione, oggi impantanata e per la quale il Governo non ha impiegato un grammo di quella energia spesa nella battaglia ideologica sull´articolo 18, pur sapendo che la corruzione è un vero freno agli investimenti e allo sviluppo. L´invito alla trasparenza del Presidente della Repubblica cade al momento giusto. E dovrebbe indurre ad uscire dagli opposti estremismi che hanno contribuito a far degenerare la questione del finanziamento pubblico. A chi difendeva un finanziamento pubblico senza se e senza ma, infatti, si è opposta la pericolosa suggestione di un finanziamento tutto privato. Certo, un referendum abrogativo del finanziamento pubblico è stato colpevolmente aggirato e sono stati ignorati proprio gli inviti ad abbandonare un sistema che impediva nella sostanza ogni controllo sui bilanci dei partiti (ricordo le accuse di moralismo rivolte negli anni ‘80 a Gustavo Minervini e ai deputati della Sinistra Indipendente che insistevano testardamente su questo tema). Ma una politica tutta affidata solo al contributo dei privati è fatalmente destinata alla dipendenza del potere economico, alla creazione di diseguaglianze.

Questo tema è stato affrontato mille volte, ed è all´origine delle discipline sul finanziamento pubblico esistenti quasi ovunque, accompagnate però anche da limiti severi alle spese elettorali (in Francia Jack Lang perdette il suo seggio all´Assemblea nazionale per aver superato di poco la soglia fissata, mentre in Italia sono state cancellate tutte le pur modeste sanzioni previste dalle leggi). Proprio il costo delle elezioni divora la democrazia, come dimostra il loro vertiginoso accrescersi negli Stati Uniti, dove le nuove opportunità di raccolta di fondi direttamente dai cittadini, rese possibili da Internet, non hanno affatto ridimensionato il potere delle grandi imprese private, favorite da una "liberalizzazione" del finanziamento privato imposta dalla Corte Suprema. Non dimentichiamo che, all´inizio di questo millennio, alcuni senatori americani decisero di non riproporre la loro candidatura, dichiarando che il tempo da dedicare alla ricerca di fondi superava ormai quello dedicato allo svolgimento dei compiti pubblici.

Un filosofo liberale, John Rawls, ha proposto che le campagne elettorali dovrebbero essere finanziate solo da fondi pubblici eguali per tutti i candidati, proprio per neutralizzare il potere del denaro. Pur senza accogliere questo suggerimento ragionevole e radicale, è ovvio che sono necessarie forme di incentivazione fiscale del finanziamento privato, accompagnate però da una totale pubblicità del nome d´ogni finanziatore. E non dimentichiamo, tornando a casa nostra, che il Pdl si fonda su una gigantesca fideiussione concessa da Silvio Berlusconi. Chi altri potrebbe fare lo stesso? E come non concludere che chi paga dall´interno diventa padrone del partito e della sua politica? E non dimentichiamo che l´unica opera di difesa della legalità possibile in questa materia viene, ancora una volta, dalla magistratura. Non a caso la sua affidabilità è grandemente cresciuta presso l´opinione pubblica, mentre precipita quella di Parlamento e partiti.

Oltre un decennio è passato, e ancora in Italia si inveisce contro un articolo dello Statuto dei lavoratori che incendia gli animi come se possedesse vizi ferali, da cui deriverebbero tutti i mali. Possibile che in piena recessione, con la disoccupazione giovanile salita al 32 per cento, l'infelicità e il malessere dipendano in modo così totale dalla tutela giuridica del lavoratore allontanato per falsi motivi economici, contemplata nell´articolo 18? Possibile che i pochi casi di reintegrazione dei licenziati (un migliaio in 10 anni) siano a tal punto distruttivi della ripresa, della stabilità economica, della reputazione esterna, dell'interesse di investitori stranieri? Neppure la Confindustria pare crederci, tanto che il nuovo presidente, Squinzi, considera la burocrazia ben più devastante dell´articolo 18 («Non è l´articolo a fermare lo sviluppo»). Né si può abusare dell´Europa: la lettera della Bce non parla nei dettagli dell´articolo, ma di una «revisione delle norme che regolano assunzione e licenziamento (...), stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro». Le autorità europee sono «indifferenti alle classi» (class-indifferent), ha detto un economista greco, Yanis Varoufakis: fissano obiettivi, non come raggiungerli.

Se i detrattori dell´articolo 18 sono così rigidi vuol dire che dietro la loro battaglia c´è un´ideologia forte, restia alle confutazioni. C´era in Berlusconi, ma c´è anche in quello che Ezio Mauro chiama «integralismo accademico». Una norma dello Statuto diventa sineddoche, cioè la parte che spiega il tutto: come quando si dice vela e s´intende nave. Si dice articolo 18 ma s´intende la filosofia, la genealogia, la storia dell´incandescente articolo. Con questa filosofia e questa storia si regolano i conti, e più precisamente con alcuni principi base della socialdemocrazia: lo Statuto dei lavoratori del ´70, e la concertazione praticata nei primi ´90 tra governi, imprenditori, sindacati.

Ambedue sono la riposta che la nostra classe dirigente seppe dare al ribellismo sociale, nonché al terrorismo. Ambedue generarono un Patto sociale permanente che in Italia era inconsueto, che consentì ai sindacati di preferire le riforme alla rivoluzione o ai particolarismi rivendicativi. Che li spinse a unirsi, a rendersi autonomi dai partiti. Che diede loro un´inedita padronanza di sé, del destino nazionale (Amartya Sen parla di empowerment, di potere su di sé dato agli emarginati, perché diventino cittadini responsabili).

Tutto questo è socialdemocrazia, non comunismo o consociativismo: anche se da noi il nome era altro. Chi se la prende con tale patrimonio trucca un po´ le carte. La crisi del 2007-2008 non sembra passata da queste parti, intaccando vecchi dogmi e anatemi: per molti resta una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che prodigiosamente colpevolizza non i mercati poco imbrigliati, ma le riforme socialdemocratiche e la carta d´identità dell´Europa postbellica che è stata la creazione (non a caso concepita durante la guerra) del Welfare. È così che alcune parole decadono, annerite: la concertazione, il consenso o dialogo sociale. Perfino dialettica è parola invisa a chi, certo d´avere scienza infusa, non vede che il conflitto di idee e progetti è sale della democrazia.

Vale dunque la pena ripensare gli anni ´70-´90, che produssero la variante socialdemocratica italiana che è il patto sociale permanente. Lo Statuto dei lavoratori, divenuto legge nel ‘70, viene approvato dal Senato il giorno dopo Piazza Fontana. La concertazione e la politica dei redditi furono perfezionate da Amato e Ciampi nel ´92 e ´93, quando un sistema politico infettato dalla corruzione e tanto più vulnerabile al terrorismo venne messo in riga da Mani Pulite. Salvaguardare la coesione sociale d´un Paese così provato era prioritario, e per ottenerla fu inventata non una democrazia più autoritaria ma più plurale, che del conflitto sapesse far tesoro «coinvolgendo (sono parole di Gino Giugni, ministro del lavoro di Ciampi) una platea di soggetti assai più ampia di quella uscita dal voto».

Sin dal ‘94 Berlusconi mise in questione tale eredità. La concertazione divenne il nemico, come testimonia il Libro Bianco sul lavoro presentato nel 2001 dal ministro del Welfare Maroni: la codecisione doveva finire, soppiantata da mere consultazioni. Che il bersaglio non fosse il comunismo ma la socialdemocrazia è attestato dalla biografia di Giugni: è nel partito socialdemocratico di Saragat che il padre della concertazione si fece le ossa. In un libro-intervista del 2003, Giugni disse che con lo Statuto dei lavoratori «la Costituzione entrò in fabbrica», e che la concertazione rese la democrazia più plurale, efficace: «Perché ci sia intesa bisogna partire dalla diversità», scrisse, aggiungendo che la critica della concertazione in nome delle prerogative sovrane del Parlamento era infondata, anche quando veniva da economisti illustri come Mario Monti (Giugni, La lunga marcia della concertazione, Mulino).

Gino Giugni fu gambizzato nell´83 dalle Br. Altri economisti a lui vicini, riformatori del diritto del lavoro, furono assassinati (Tarantelli, D´Antona, Biagi). Tutti erano fautori della concertazione. Ricordiamo quel che disse D´Antona, sull´articolo 18 e la reintegrazione dell´operaio licenziato per fittizi motivi economici: «Il superamento delle forme più rigide di garantismo può portare a rivedere in cosa consiste un licenziamento legittimo, ma non a sottoporre a revisione i rimedi che si offrono nei confronti dei licenziamenti non rispondenti a tale requisito». Il regolamento dei conti non è finito, con un´epoca che vide congiungersi concertazione, lotta alla corruzione, antimafia. Noi commemoriamo Falcone e Borsellino, e Tarantelli, D´Antona, Biagi. Ma volentieri ne dimentichiamo i metodi e le fedi.

Dicono che l´articolo 18 non ha da essere tabù, e certo i difetti non mancano: i processi sterminati sono fonte d´incertezza. Ma i tabù sono materia combustibile, non si spengono senza pericolo. Ci deve essere una ragione per cui all´articolo s´aggrappa anche chi - precario, disoccupato - non ne usufruisce. Anche chi, col tristo nome di esodato, non ha più lavoro e non ancora pensione. Esistono tabù civilizzatori, eretti contro future derive. I tabù non sono idoli, feticci. È colma di tabù, l´Europa uscita da guerre e dittature che fecero strame di antichi divieti (non ucciderai, non negherai giustizia alla vedova e all´orfano, ai deboli e diversi). Per Hitler era tabù intollerabile anche il Decalogo.

Gli economisti neo-liberali che denunciano mercati troppo regolati hanno forse in mente una società perfetta, che funziona senza lentezze né dubbi. Si dicono ispirati da Adam Smith. Ma Smith teorizzò la mano invisibile che in un libero mercato trasforma l´interesse egoista in pubblica virtù, restando il filosofo morale che era. In quanto tale se la prese con gli ideologi, chiamati «uomini animati da spirito di sistema». L´uomo di sistema, scrive nella Teoria dei sentimenti morali, «tende a essere molto saggio nel suo giudizio e spesso è talmente innamorato della presunta bellezza del suo progetto ideale di governo, che non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera.(...) Nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli».

Forse vale la pena rileggere Smith il moralizzatore, oltre che l´economista: l´avversario di tutti coloro che «inebriati dalla bellezza immaginaria di sistemi ideali» si lasciano ingannare dai loro stessi sofismi, e alla società chiedono troppo, non ottenendo nulla.

Il disincanto con cui Monti il tecnico si rivolge dall´estero al Paese malato che gli tocca governare – considerandolo impreparato a comprendere del tutto la terapia da lui somministrata, e però ben allertato contro la malapolitica dei partiti – ormai sta assumendo i tratti di una vera e propria ideologia. Poco importa se il premier la lasci trasparire per passione, per stanchezza o per calcolo: anche i tecnici hanno un cuore e, dunque, un credo. Resta da vedere se tale ideologia tecnica, niente affatto neutrale, risulti adeguata a corrispondere e guidare lo spirito dei tempi, in una società traumatizzata dalla crisi del suo modello di sviluppo. O se invece si riveli anch´essa retaggio di un´epoca travolta da una sequenza di avvenimenti nefasti che non aveva previsto e che ha contribuito a provocare.

Per prima cosa Monti insiste a comunicarci la sua provvisorietà, e non c´è motivo di dubitare che sia sincero. Che sia per modestia o al contrario per supponenza, poco importa, egli si compiace di descriversi quale commissario straordinario a termine: «Sarà fantastico, per me il dopo Monti», scherza. Né difatti ha alcuna intenzione di dimettersi da presidente dell´Università Bocconi, la vera casa cui intende fare ritorno. La forte motivazione implicita in questo annuncio ripetuto è il disinteresse.

Immune da ambizioni personali di carriera che non siano il prestigio "di scuola", egli rivendica di stare al di sopra e al di fuori degli interessi di parte delle rappresentanze sociali e politiche. Sa bene che alla lunga non può esistere governo neutrale rispetto agli interessi in campo, e anche per questo allude continuamente alla sua provvisorietà. Ma non gli basta per essere creduto: anche lui ha una biografia, non viene dal nulla. Ha partecipato da indipendente ai consigli d´amministrazione di grandi aziende; manifesta una convinta lealtà alle istituzioni dell´Unione Europea in cui ha operato per un decennio; ha frequentato da protagonista i think thank del capitalismo finanziario sovranazionale. Un pedigree autorevolissimo che, unitamente al suo percorso accademico, lo connota quale figura cosmopolita organica a un establishment liberale conservatore, che in Italia è sempre rimasto minoritario. La cui pubblicistica da un ventennio raffigura (a torto o a ragione) le rappresentanze sociali e politiche del nostro Paese come cicale, se non addirittura come cavallette.

Qui s´impone il passaggio successivo dell´ideologia montiana o, se volete, l´idea di giustizia sociale di cui è portatore il tecnico di governo. Dovendo "scontentare tutti", almeno in parte, con le sue ricette amare, non basterebbe certo a legittimare cotanta severità il fatto che ci venga richiesta dalla troika (Fmi, Bce, Commissione europea) e dai mercati finanziari. L´italiano Monti, per quanto provvisorio, non può presentarsi a noi come il "podestà forestiero" di cui nell´agosto scorso aveva paventato l´avvento.

Ecco allora l´autorappresentazione di sé come portatore di un interesse mai rappresentato al tavolo delle trattative con le parti sociali: i giovani, i nostri figli, i nostri nipoti, addirittura le generazioni future. Prima d´ora solo la cultura ambientalista si era concepita come portavoce lungimirante dei non ancora nati, dentro le controversie del presente. Declinata in prosa tecnica, tale ambiziosa pretesa di redistribuzione intergenerazionale cambia decisamente di segno; com´è apparso chiaro nelle motivazioni pubbliche che hanno accompagnato il varo della riforma delle pensioni, prima, e del mercato del lavoro, poi.

Retrocessa in subordine, o addirittura liquidata come obsoleta la contraddizione fra capitale e lavoro, negata ogni funzione progressiva alla lotta di classe, il tecnico di governo assume come impegno prioritario il superamento di una presunta contrapposizione fra adulti "iper-garantiti" (parole testuali di Monti) e giovani precari. Riecheggia uno slogan di vent´anni fa, "Meno ai padri, più ai figli". Come se nel frattempo non avessimo verificato che, già ben prima della recessione, i padri hanno cominciato a perdere cospicue quote di reddito e posti di lavoro; mentre la flessibilità ha generalizzato la precarietà dei figli. Qui davvero l´ideologia offusca e mistifica il riconoscimento della vita reale, fino all´accusa rivolta ai sindacati di praticare niente meno che l´"apartheid" dei non garantiti. In una lettera aperta a sostegno della modifica dell´articolo 18, promossa da studenti della Bocconi e pubblicata con risalto dal Corriere della Sera il 21 febbraio scorso, leggiamo addirittura: "I nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie a un dispetto generazionale". Bambagia? Davvero è questa la rappresentazione del lavoro dipendente in Italia che si studia nelle aule dell´ateneo del presidente del Consiglio? Corredata magari dal rimprovero ai giovani che aspirano alla monotonia del posto fisso?

Ben si comprende, in una tale visione culturale, che la negazione del reintegro per i licenziamenti economici (anche se immotivati) venga considerata un "principio-base" irrinunciabile dal capo del governo. Così come si capisce la sintonia con le scelte di Sergio Marchionne in materia di libertà d´investimenti e rifiuto della concertazione. La stessa "politica dei redditi" concordata fra le parti sociali, auspicata mezzo secolo fa da La Malfa e in seguito messa in atto da Ciampi, viene liquidata come un ferrovecchio.

Mario Monti non è paragonabile a Margaret Thatcher, come ci ha ben spiegato ieri John Lloyd. Ma l´afflato pedagogico con cui si propone di cambiare la mentalità degli italiani per sottrarli a un destino di declino e sottosviluppo, sconfina ben oltre la tecnica: che lo si voglia o no, è biopolitica. Ha certo la forza sufficiente per tenere a bada gli attuali partiti gravemente screditati; ma al cospetto del malessere sociale rischia di manifestarsi come ideologia a sua volta anacronistica. Non a caso il presidente Napolitano si prodiga nel tentativo di attutirne gli effetti di provocazione. Padri e figli potrebbero indispettirsi all´unisono.

C'è qualcosa che zoppica molto, nel giudizio che il Premier dà dell'Italia, della sua preparazione ad accettare le volontà del governo. Sostiene Mario Monti che "se il Paese non è pronto" lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici. Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l'Europa, come promette, o percepisce solo l'austerità sollecitata in agosto dall'Unione?

In realtà l'Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l'Europa diversa che si vuol costruire, la democrazia da rifondare a casa ma anche fuori: lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro.

È qui che manca prontezza: nei governi, non nei Paesi. Che manca il riformismo autentico: quello che non cambia le cose con rivoluzioni, ma le cambia pur sempre. La modifica dell'articolo 18 e altre misure d'austerità hanno senso se inserite in una mutazione al tempo stesso economica, democratica, geopolitica. Se non son parte di un New Deal nazionale ed europeo, secernono solo recessione, regressione, e quei chicchi di furore che secondo Steinbeck marchiarono la Depressione negli anni '30.

Al Premier vorrei domandare: è per un New Deal che sta a Palazzo Chigi, o per certificare che la crisi economico-democratica è gestibile da platoniche, oligarchiche Repubbliche di esperti-filosofi che la sanno più lunga? Una risposta a simili interrogativi

ci preparerebbe un po'. Non basta dire: noi abbiamo filosofie sui giovani e il futuro che nessuno possiede.

Urge quel che chiedono da tempo i federalisti; quel che il 10 marzo hanno invocato tanti cittadini e movimenti europei, in un appello (firmato anche da Jacques Delors) uscito in Italia e Germania: un'Europa politica, un'assemblea costituente che ne faciliti la metamorfosi. Incuriosisce che l'assemblea costituente attragga anche oppositori di sinistra (ne ha parlato Sabina Guzzanti, in Uno Due Tre Stella).

È segno che ovunque c'è oggi sete di un'agorà europea: di uno spazio di discussione-deliberazione su quel che deve divenire l'Unione, se non vuol degenerare in matrigna sorvegliante dei conti. È una sete ignota ai partiti, al governo, ai sindacati. La Cgil ad esempio non ha firmato l'appello federalista, ritenendolo troppo favorevole al Patto fiscale. Non vede che anche il fiscal compact è doppio: ha senso se è il gradino di una scala, è stasi in assenza di scala.

Nella stessa trappola può cadere Bersani, se condivide queste cecità. Senza un'Europa politica e democratica, che non si limiti a coordinare recessioni nazionali ma fabbrichi essa stessa crescita, il Pd è in un imbuto micidiale: come sabbia scivolosa, le sue forze si esauriranno. Per un partito vicino ai deboli e ai poveri, questi sono tempi bui. Gli mancano le parole, per dire quel che tocca comunque vivere, con o senza articolo 18: il taglio dei redditi, l'insicurezza del lavoro.

Per decenni i progressisti hanno parlato di riformismo senza approfondirlo, e ora la parola tocca ripensarla, non farla coincidere solo con austerità, ineguaglianza. "Nessun nemico a sinistra", era l'antico motto. Oggi a sinistra s'affollano partiti, movimenti, e puoi denunciare l'antipolitica ma gli elettori non se ne curano, delusi come sono. Tuttavia, proprio la trasmissione di Sabina Guzzanti conferma che c'è, tra i delusi, un residuo di speranza, una sete che si può dissetare, se si vuole. Una domanda che implora più Europa. Che nella corruzione di tutti i partiti fiuta la temibile morte della politica.

Il vero problema è che manca terribilmente l'aria, nelle stanze dove si riscrive il Welfare europeo (non sempre male d'altronde: nel piano Fornero ci sono molti progressi per i precari). Le stanze sono piccole, strette, e l'essenziale resta dietro la porta. L'essenziale è l'Europa: l'ossigeno che può venire da essa, se la trasformiamo in unione politica che governi quel che gli Stati non governano più. La dottrina tedesca che ingiunge "l'ordine in casa" prima di tentare forme politiche transnazionali è conficcata nelle menti: anche in quella di Monti. La crisi mostra l'inconsistenza degli Stati nazione, e nel nuovo mondo - già sovranazionale economicamente, ma non politicamente e democraticamente - le sinistre storiche sono in un vicolo cieco.

Dicono alcuni che la democrazia svanisce, nel presente squasso. Secondo Ernesto Galli della Loggia, solo lo Stato nazione può essere democratico: fuori di esso non esisterebbe un demos ma "individui sparpagliati, che semplicemente 'si conoscono'" (Corriere 12-3). Rotto il contenitore nazionale, la democrazia apocalitticamente muore. Dimentica, l'autore, che lo Stato nazione (a differenza degli imperi) ha creato democrazia ma anche nazionalismi, guerre, annientamenti di tutto ciò che il demos (popolo) riteneva impuro.

Il Partito democratico, ma anche lo strano governo dei Saggi, sembra dar ragione a questa tesi, per nulla controcorrente. È la tesi dominante invece - ha la forza dello status quo - ed è anche la più facile, perché inventare un diverso ordinamento europeo implica ingegno, fantasia, forti trasferimenti di sovranità, trasgressione di conformismi, e una mente cosmopolitica che le sinistre storiche professano sempre, osservano di rado.

Le torsioni del Pd, e dei socialisti in Francia, confermano l'infermità di partiti chiusi nelle case nazionali, che l'Unione la sognano soltanto. Quando esigono "più Europa" (al vertice parigino tra sinistre francesi, tedesche, italiane) non osano neppure parlare di governo federale: pudibondi, prediligono la vacua parola governance.

Solo attraverso un governo europeo eletto e controllato dai deputati europei, ritroveremo la sovranità che gli Stati hanno delegato non perché rinunciatari, ma perché non la possiedono più.

Solo in Europa possiamo fare quello che nazionalmente è infattibile: salvare il Welfare, dotare il potere sovranazionale di risorse per un'altra crescita, più competitiva e anche parsimoniosa perché fatta in comune. Concentrata su energie alternative, ricerca, istruzione, trasporti comuni che superino l'automobile individuale.

Il Pd ha più patemi delle destre, abituate a custodire i fittizi troni nazionali delegando le sovranità perdute a incontrollate lobby finanziarie (un'abitudine contratta nei rapporti con la Chiesa). Le sinistre hanno una visione più laica e ambiziosa della politica, e il loro disinteresse per l'Europa federale è inane: non ci sarà vero progresso, senza vera democrazia europea. Nei vertici di maggioranza con Monti di Europa politica non si parla: come se non fosse la prima emergenza, l'ossigeno che ci evita l'asfissia. Monti ritiene che "non c'è bisogno" di Stati Uniti d'Europa. I suoi ministri raccomandano, svogliati, "piccoli passi".

Come ricordano alcuni deputati, in un'interrogazione alla Camera presentata dal prodiano Sandro Gozzi, non è questa la linea fissata dal Parlamento. La mozione del 25 gennaio esige che il governo acceleri, in parallelo con Patto fiscale, un "processo costituente verso un'unione politica dei popoli europei", metta "al centro della riflessione politica europea le politiche dello sviluppo e della crescita", proponga il ricorso a eurobond e project bond come "strumenti innovativi di finanziamento allo sviluppo". Non s'intravvede prontezza governativa, in materia.

Ulrich Beck ha dato un nome all'indolenza dei politici nazionali. La chiama l'"errore del bruco". L'umanità-bruco vive la condizione della crisalide, "ma lamenta la propria scomparsa perché non presagisce la farfalla che sta per diventare". Non è la prima volta che accade, secondo lo scrittore Burkhard Müller che per primo ha usato la metafora del bruco (Süddeutsche Zeitung, 1-8-08). Nell'800 stava per finire la legna: nessuno presagiva il carbone fossile. Oggi accade lo stesso col petrolio, e anche con gli Stati nazione. Si aspetta che l'alternativa si materializzi da sola, mentre bisogna tirarla fuori dal pigro ventre del presente. Decenni di lavoro di movimenti cittadini hanno consentito ai tedeschi di uscire dal nucleare, ricorda Habermas. Anni di negoziati hanno prodotto un diritto del lavoro che non ha spaccato e umiliato i sindacati come da noi.

La sinistra può farcela. Purché lavori alla nascita della farfalla europea, e smetta le comode certezze di chi, apocalitticamente vivendo da bruco, ritiene morta le democrazia, una volta perduto il contenitore che fu lo Stato nazione.

Ferruccio de Bortoli in un suo editoriale sul Corriere della Sera di sabato ritiene che il rischio che le imprese usino la riforma dell'art. 18 per liberarsi anche dei lavoratori scomodi (come ho sostenuto sul manifesto) oltre che di quelli anziani o logorati dal lavoro (come ipotizzato lo stesso giorno dal prof. Mariucci su l'Unità) rispecchi «una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro». Poi si chiede se le minacce dei capi a cui facevo riferimento nel mio articolo del giorno prima - «Appena passa l'abolizione dell'art. 18 siete fuori!» - rappresentino effettivamente «il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio». Rispondo: forse non in tutte; ma in molte aziende certamente sì. Altrimenti non si capirebbe come mai decine di migliaia di lavoratori abbiano risposto immediatamente, superando spesso anche le divisioni sindacali, alla dichiarazione di sciopero di Fiom e Cgil.

Questo è sicuramente il clima che si respira negli stabilimenti Fiat, dove una sentenza di appello ha sancito che il licenziamento di tre operai, iscritti o delegati della Fiom, è stata una rappresaglia antisindacale. Da mesi poi si ripetono, su giornali e talk show, denunce del fatto che dalle riassunzioni nello stabilimento Fiat di Pomigliano sono stati esclusi completamente gli iscritti alla Fiom. È noto che le rappresentanze della Fiom sono state "espulse" da tutti gli stabilimenti Fiat. Ma c'è di più: il manifesto ha riportato, senza essere smentito né denunciato, che le celle di vetro dei capireparto che sorvegliano gli operai nello stabilimento di Pomigliano - e che tanto sono piaciute al prof. Pietro Ichino, in visita guidata alla fabbrica (una visita di tipo "sovietico") - sono state usate a fine turno per «processare» e umiliare di fronte ai loro compagni gli operai che non reggevano i nuovi ritmi di lavoro, facendogli gridare «sono un uomo di merda».

Risultano anche numerose le pressioni su mogli di operai Fiom in cassa integrazione perché inducano i mariti ad abbandonare l'organizzazione se vogliono tornare in fabbrica. Di fronte a notizie del genere il direttore di un giornale avrebbe forse dovuto affidare a un suo inviato un'inchiesta sul posto. Non se ne ha notizia. Ferruccio de Bortoli si è dimostrato spesso attento alle discriminazioni razziali del passato. Colpisce la sua disattenzione per le discriminazioni del presente verso i lavoratori. Sono episodi isolati? No. Nella competizione per la nomina del nuovo Presidente di Confindustria, il candidato perdente Bombassei è stato apertamente appoggiato dall'amministratore delegato della Fiat e lo ha ricambiato dicendo che condivideva le scelte nelle relazioni sindacali. Ha perso solo per pochi voti: non dice niente questo sul clima che aleggia in molte aziende? E se così non fosse, perché mai verrebbe data tanta importanza all'art. 18?

L'accusa di estremismo che De Bortoli mi rivolge ha una spiegazione chiara nell'elzeviro di un altro ex autorevole direttore del Corriere dedicato al segretario della Fiom (Repubblica, 22.3). Che «non accetta - per Piero Ottone - il mondo come è: un mondo dominato dalle leggi economiche della domanda e dell'offerta, e manipolato come sempre da personaggi poco raccomandabili: ieri i padroni delle ferriere; oggi i banchieri (con qualche Marchionne sparso qua e la)... Al centro del suo universo, quello in cui crede, campeggia il lavoratori, col pieno diritto, sacro e inviolabile, a un posto equamente retribuito, a una paga che gli consenta di mantenere se stesso e la sua famiglia, a una pensione quando non dovrà più lavorare». E ancora: «A me sembra - aggiunge Ottone - che l'impostazione sindacale di Landini, che parte dai principi (repubblica imperniata sul lavoro, diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda, offerta, libero scambio) appartenga alla cultura di sinistra di quegli anni ormai lontani: che sia una scheggia di quel sindacalismo... figlio dell'estremismo di sinistra». E allora? La verità è che la lotta di classe «novecentesca», esecrata da entrambi i giornalisti, è più viva che mai. È quella del capitale contro il lavoro raccontata da Luciano Gallino nel suo ultimo libro, che non è mai venuta meno. Ogni tanto, e si spera in crescendo, c'è anche quella dei lavoratori contro il capitale.

Il governo Monti è indubbiamente conservatore e di destra. Ma lo è in modo netto, ben leggibile e – per riprendere un termine caro allo stesso Monti – “rigoroso”. Dal trovarsi di fronte a un personaggio e a un governo siffatti, chi vuole contribuire alla costruzione di una sinistra in Italia può trarre il non piccolo vantaggio di sapere senza equivoci con chi e con che cosa ha a che fare.

Di Mario Monti si legge fra l’altro in “Wikipedia”: «E’ stato, tra il 2005 e il 2008, il primo presidente del “Bruege”, un comitato di analisi delle politiche economiche (think-tank), nato a Bruxelles nel 2005. Nel 2010 è inoltre divenuto presidente europeo della Commissione Trilaterale, un gruppo di interesse di orientamento neo-liberista fondato 1973 da David Rockefeller e membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg […]. Tra il 2005 e il 2011 è stato International advisor per Goldman Sachs e precisamente membro del Research Advisory Council del Goldman Sachs Global Market Institute, presieduto dalla economista statunitense Abby Joseph Coen. E’ stato advisor anche della Coca Cola Company. Nel 2010, su incarico del Presidente della Commissione Europea Barroso, ha redatto un libro bianco (Rapporto sul futuro del mercato) contenente misure considerate necessarie per il completamento del mercato unico europeo».


Dal sito ufficiale della Presidenza del Consiglio, si può trarre il testo integrale del documento: “Governo Monti – Attività dei primi 100 giorni”.
Man mano che ci si addentra nella lettura di questo pur relativamente sintetico documento, risulta chiara – al di là di ogni apparente dipendenza da necessità oggettive – l’ispirazione conservatrice delle varie iniziative, decisioni o previsioni del governo Monti. In un buon dizionario della lingua italiana [Francesco Sabatini e Vittorio Coletti, ed. Rizzoli Larousse, 2003], trovo infatti definito come conservatore «chi favorisce il perdurare dello stato di cose esistente, specialmente in campo sociale, economico, politico, etico, del costume», nonché, in politica, «chi sostiene l’ordine costituito, opponendosi alle tendenze progressiste e riformiste». Ma il “perdurare dallo stato di cose esistente” è un obiettivo che ci può proporre in vari modi e a partire da situazioni diverse. Ci si può limitare a difenderlo dalle critiche teoriche e a preservarlo dai mutamenti pratici da parte di chi non lo accetta, oppure sobbarcarsi al compito, più impegnativo, di ristabilirne il “rigore” (è questa infatti una parola ricorrente nel linguaggio montiano), messo in forse da politiche precedenti non perché progressiste o riformiste, ma semplicemente perché pasticcione, equivoche, elettoralistiche, illusioniste, sfacciatamente personalistiche, come era con tutta evidenza il caso dei governi italiani presieduti, nel corso di un ventennio e con qualche intervallo, dal ben noto venditore di fumo.


Non lontano da “conservatore” è, nello stesso dizionario, uno dei significati – quello più legato ad eventi della storia moderna – della locuzione “di destra”. Fondamentalmente conservatore, chiaramente collocato a destra è senza dubbio il governo Monti. Perché allora questa rivista on-line, in cui la parola “sinistra” è ben leggibile anche nel nome, dà spazio al documento in questione (astenendosi però, non essendo questa l’occasione, dall’entrare nel merito dei molteplici provvedimenti ivi sintetizzati)? E perché, più generalmente parlando, ritiene che nella formazione e nell’opera svolta dal governo Monti – insediato dal presidente della Repubblica attraverso un’operazione tatticamente splendida - siano da vedere dei fatti molto utili appunto alla costituzione di una sinistra in Italia? Principalmente perché, in un’Europa in cui le destre prevalgono in larga misura, avere alla fine anche in Italia un governo seriamente e nettamente conservatore, offre un chiaro termine di confronto a chiunque voglia dare il contributo che può affinché sussista, anche in Italia, una sinistra che sia tale e con cui, in quanto tale, si sia obbligati a fare i conti. Abbiamo di fronte, oramai, una destra non più melmosa massa informe e maleodorante, ma inequivocabile e tagliente, e queste sono le cose che è decisa a fare, in buon misura riuscendovi. “Hic Rhodus, hic salta”: quali indirizzi politici, quali orientamenti economici e sociali vogliamo metterci in grado di proporre come realistica e reale alternativa? 


L'articolo è scritto dallo staff della rivista online Il picchio a sinistra

Appartamenti vista lava

Paolo Biondani - L'Espresso, 30 marzo 2012

Più cemento per tutti. Perfino nella “zona rossa” a massimo rischio di catastrofiche eruzioni del Vesuvio. E meno limiti alle speculazioni edilizie in tutta la Campania. Compresi i paesi-gioiello della Costiera Amalfitana, i pochi finora risparmiati dal saccheggio sistematico del territorio. La giunta regionale della Campania ha varato il primo marzo scorso una grande riforma della pianificazione urbanistica che, secondo autorevoli esperti, rappresenta «il più grave stravolgimento mai tentato» delle norme destinate a difendere ciò che resta di uno dei paesaggi più belli del mondo. Il disegno di legge-cornice, approvato dall’esecutivo di centrodestra presieduto dall’ex socialista Stefano Caldoro e sostenuto anche dai fedelissimi dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino, ha un titolo rassicurante: “Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”.

Nei primi 14 articoli, la giunta proclama di voler finalmente applicare anche in Campania la “Convenzione europea del Paesaggio”, firmata a Firenze nel 2000 e ratificata dall’Italia nel 2006, tre anni dopo l’ultimo condono edilizio berlusconiano. Il problema è che l’articolo 15, che chiude la riforma con una raffica di «abrogazioni», rade al suolo sei leggi urbanistiche e ne stravolge altre due. Il diavolo si nasconde in dettagli come questo: nella «legge numero 21 del 2003», recita la riforma, bisogna «sostituire le parole “incrementi di edificazione” con “nuova edificazione” ». Cosa significa? «Vuol dire che cadono i vincoli perfino nei 18 Comuni ad “alto rischio vulcanico”, quelli più vicini al Vesuvio», spiega uno dei primi giuristi che si sono accorti del trucco, Carlo Iannello, professore di diritto pubblico all’università di Napoli e neo- consigliere comunale con la lista De Magistris. «La legge del 2003 vieta qualsiasi aumento di cubatura, anzi incentiva l’esodo della popolazione verso zone meno pericolose. Con la legge Caldoro, invece, resterebbero bandite solo le “nuove” costruzioni, ma non gli “incrementi” delle migliaia di abitazioni già esistenti: in pratica è un nuovo, gigantesco piano-casa sotto il Vesuvio».

Nei 18 comuni da Ercolano a Pompei vivono oltre 550 mila abitanti. Qui, in caso di eruzione, dovrebbe scattare un “piano nazionale di emergenza”, che ha come riferimento “l’esplosione” vesuviana del 1631. Nella zona rossa, che è la più pericolosa, è prevista l’evacuazione totale. Per evitare un’ecatombe, insomma, è necessario che più di mezzo milione di persone vengano sgomberate da una superficie di 226 chilometri quadrati in tempi rapidi, subito dopo il primo allarme degli scienziati. Con lo stop al cemento (e gli incentivi all’esodo) la legge del 2003 puntava proprio a ridurre il numero di residenti per evitare il caos. Ma ora la giunta Caldoro fa dietrofront. E non è finita.

Il piano casa sul Vesuvio è solo la più vulcanica tra le tante novità previste dalla deregulation urbanistica. Sempre nell’ultimo articolo, i berlusconiani campani hanno inserito una liberalizzazione del cemento che riguarda tutta la Costiera Amalfitana, la Penisola Sorrentina e i Monti Lattari. Terre ancora incantevoli, finora protette da un’apposita legge del 1987. Che, se passerà la riforma Caldoro-Cosentino, verrà cancellata. Insieme ai vincoli previsti da altre leggi, ad esempio, per salvare dal cemento l’antica città greco-romana di Elea (oggi Velia). A quel punto le speculazioni edilizie avranno come unico limite un futuro Piano Paesaggistico, che ancora non esiste: lo potrà scrivere direttamente la giunta campana, senza bisogno di farlo approvare (e neppure discutere) dal consiglio regionale. E se dovesse sopravvivere qualche residuo vincolo, ogni municipio sarà libero di azzerarlo: il solito articolo 15 prevede infatti che in tutte le zone agricole da Amalfi a Sorrento qualsiasi tutela potrà essere «disapplicata» con «uno strumento urbanistico comunale». In pratica gli speculatori potranno limitarsi a convincere e magari a pagare (e i camorristi a intimidire) solo i politici del Comune, senza più rischi di trovare ostacoli in provincia, regione o ministero.

E con la caduta delle regole superiori, le soprintendenze non avranno più armi neppure per contrastare le richieste di condoni. Tutto questo in una regione devastata dal tasso di abusivismo più alto d’Europa: 20 fabbricati illegali ogni 100 abitanti. L’assessore regionale all’Urbanistica, Marcello Taglialatela, ha illustrato l’obiettivo del nuovo piano con parole a suo modo oneste: «Non ci saranno più divieti in assoluto, si valuterà cosa costruire area per area». Ormai promossa dalla giunta, la riforma ora attende solo il voto del consiglio regionale, dove il centrodestra ha una maggioranza di stampo bielorusso insidiabile solo da eventuali faide interne.

Contro un disegno così “pericoloso” si stanno mobilitando intellettuali, associazioni antimafia e politici come l’ex sindaco di Ercolano Nino Daniele. E i presidenti nazionali di Italia Nostra, Legambiente e Fai, Alessandra Mottola Molfino, Vittorio Dezza Cogliati e Ilaria Borletti Buitoni, insieme a Vittorio Emiliani e a urbanisti come Edoardo Salzano, sono i primi firmatari di un appello al ministro della Cultura, Lorenzo Ornaghi, per «fermare, in nome della Costituzione, il più grave assalto sinora tentato al paesaggio della Campania».

"Difendiamo la legge per Velia"

Ottavio Lucarelli intervista a Giuseppina Bisogno– la Repubblica, ed. Napoli, 24 marzo 2012

«Una legge utile, non solo per proteggere tutta l’area che circonda il sito archeologico di Velia, ma anche per eliminare una serie di abusi realizzati negli anni in quella stessa zona limitrofa agli scavi». Giuseppina Bisogno, direttore responsabile del Parco archeologico di Velia, patrimonio dell´Unesco, valuta così la legge del febbraio 2005 che sarà cancellata se il consiglio regionale approverà il disegno di legge sui piani paesistici presentato dalla giunta e in discussione in questi giorni in commissione urbanistica.

«Una legge utile, non solo per proteggere tutta l’area che circonda il sito archeologico di Velia, ma anche per eliminare una serie di abusi realizzati negli anni in quella stessa zona limitrofa agli scavi». Giuseppina Bisogno, direttore archeologo responsabile del Parco di Velia, patrimonio dell´Unesco, valuta così la legge del febbraio 2005 che sarà cancellata se il consiglio regionale approverà il disegno di legge sui piani paesistici presentato dalla giunta. L’assessore all’Urbanistica Marcello Taglialatela ha sottolineato che le norme del 2005 sono in realtà già recepite nella legge che due anni fa ha istituito il Parco del Cilento, ma l’allarme tra gli ambientalisti rimane.

Direttore, cosa rischia il Parco di Velia se quella legge sarà abrogata?

«Ci sarà una minore tutela nell´area che circonda il sito. La legge del 2005, che ha creato una fascia di rispetto, è infatti importante perché prevede l’eliminazione di baracche e di altri abusi al di fuori dell´area archeologica. Una legge che non nacque per caso, ma partì sulla base di una raccolta di firme particolarmente prestigiose. Velia è infatti oasi di pace, un parco all´interno del parco del Cilento».

Un sito che è anche un presidio di legalità?

«Non c’è dubbio. I turisti che lo visitano sono attratti dall’archeologia ma anche dalla particolare bellezza del sito che non a caso ha attratto prima i greci e poi i romani».

Turisti che sono in aumento negli ultimi anni?

«Sì, nel 2011 abbiamo avuto trentaquattromila visitatori rispetto ai ventinovemila dell´anno precedente. Un Parco, è bene ricordarlo, aperto 365 giorni l´anno».

Un Parco che fonde archeologia e cultura?

«Con molti appuntamenti importanti. Due riguardano la filosofia. In estate, inoltre, ospitiamo Velia tetro, una rassegna sempre più prestigiosa, a cui ha partecipato anche Massimo Cacciari».

Recentemente avete riaperto la Porta Rosa?

«Sì, è stata riaperta ad agosto dello scorso anno dopo un intervento di consolidamento del costone che sovrasta la strada greca di Porta Rosa. Un risultato importante».

Velia, assessore torni indietro

Fausto Martino* – la Repubblica, ed. Napoli, 24 marzo 2012

L’area archeologica non correrebbe alcun rischio dall’abrogazione di quella legge che - varata nel 2005 - era nata per arginare il magma edilizio che la stava soffocando. «Non è mai stata attuata e finanziata», incalza l’assessore, quindi va abrogata. Deduzione ineccepibile. Un colpo alla nuca e via. Sembra di vederlo - infastidito dalle critiche - armeggiare con cartine e fotocopie per dimostrare che, dopotutto, la legge sarebbe soltanto un inutile doppione di quanto previsto dalla normativa del Parco del Cilento. Dunque, da eliminare. Ma ci crede davvero?

Eppure Taglialatela non può ignorare che il piano del Parco, rivolto ad altre tutele, ha solo genericamente registrato l’esistenza della legge per Velia. Non ne ha mutuato - né avrebbe potuto - i meccanismi di pianificazione, né le potenzialità conformative, né i vincoli temporanei, né tantomeno le previsioni finanziarie. E, di sicuro, non gli sarà sfuggita la vicenda, tipicamente nostrana, di piccoli ostruzionismi, ambiguità e colpevoli inadempienze, queste ultime ascrivibili anche ai suoi uffici, che ha sinora ostacolato la piena operatività della legge e, con essa, l´avvio dell´auspicato processo di riqualificazione.

Va eliminata per questo? Trionfo della logica. Fosse davvero un inutile duplicato, nessuno ci avrebbe neanche pensato, e sarebbe rimasta lì a dormire, insieme a Parmenide e Zenone, come accade per numerose norme regionali. La legge deve essere abrogata, non per la sua incompleta attuazione ma, paradossalmente, proprio a causa dei benefici effetti che ha prodotto, arrestando la bulimia cementifera dilagante anche nella piana di Velia. E va cancellata anche perché oggi impedisce la produzione, a ridosso dell’antica Elea, di metastasi da Piano casa, altra logica protezione del territorio targata Tagliatatela, fonte inesauribile di grimaldelli normativi utili a scardinare tutele e programmazione. Ed è per gli stessi motivi che il ddl sopprime - ovunque appena possibile - il Put della Costa Amalfitana e rimuove il divieto di incrementare il carico urbanistico dalle zone a rischio vulcanico, peraltro con formulazioni normative di esemplare cripticità.

Non ce ne voglia l’assessore, ma abbiamo capito che il suo ddl ripulisce - nelle more dell’approvazione del piano paesistico regionale - quei pochi dispositivi di tutela che hanno contrastato, fino ad oggi, la devastazione di immense ricchezze culturali e storiche in Campania.

*L’autore è dirigente della soprintendenza di Salerno

Piani paesistici, bagarre sul disegno di legge

Ottavio Lucarelli - la Repubblica, ed. Napoli, 23 marzo 2012

Le associazioni ambientaliste rilanciano la denuncia di incostituzionalità. Nella commissione urbanistica del Consiglio regionale, intanto, parte tra i veleni la maratona sul disegno di legge per i Piani paesistici firmato dall´assessore Marcello Taglialatela. Una battaglia su più fronti. Gli ambientalisti, guidati dal presidente di Italia Nostra Alessandra Mottola Molfino, puntano il dito sulla cancellazione di alcune leggi, prima tra tutte quella a tutela dell’area che circonda il sito archeologico di Velia. Gli ambientalisti insistono nonostante Taglialatela abbia spiegato nei giorni scorsi che la stessa tutela è contenuta all’interno della legge che ha istituito tre anni fa il Parco nazionale del Cilento. Italia dei Valori e Partito democratico, in aggiunta, contestano la richiesta da parte del centrodestra di consegnare alla giunta una delega per potere, successivamente all’approvazione del disegno di legge, decidere autonomamente sulle modifiche ai piani urbanistici territoriali. In questo caso il ruolo della commissione urbanistica sarebbe limitato a un semplice parere. Scelta contestata da Pd e Idv e anche dagli ambientalisti che la censurano definendo "giuridicamente antidemocratica" la sottrazione della materia urbanistica al confronto pubblico in aula tra le forze politiche.

Un no alla delega è arrivato ieri in commissione urbanistica, durante le prime audizioni sul disegno di legge Taglialatela, da parte di Nicola Marazzo dell’Italia dei valori: «Il nostro no è netto e in aula ci batteremo perché non passi la delega alla giunta sulla delicata materia urbanistica, un terreno in cui non si possono espropriare le prerogative dell’assemblea». D’accordo Mario Casillo del Partito democratico: «Una legge sui piani paesistici era certamente necessaria, tanto è vero che il lavoro lo aveva avviato la precedente amministrazione di centrosinistra. Detto questo, non è però possibile che la giunta firmi le varianti urbanistiche senza passare per il Consiglio. È vero che oggi c’è un’eccessiva rigidità e che occorrono anche tre anni per varare piccoli interventi, ma non possiamo passare all’eccesso opposto. Bisogna avere, inoltre, grande attenzione al ridisegno delle zone oggi vincolate. C’è il rischio che intere aree della penisola sorrentina, della costiera amalfitana o dell'isola di Ischia, con le norme proposte dalla giunta, non abbiano più tutela».

NEL momento in cui inizia un'altra fase decisiva per l'articolo 18, è evidente che il suo esito avrà conseguenze sia sul mercato del lavoro che sul profilo del governo guidato da Mario Monti. In primo luogo, a cosa possono aprire realmente la via le modifiche di cui si discute? Superati gli sbarramenti di bandiera, da tempo il confronto è in buona sostanza sulla portata di esse e, quindi, è essenziale un'analisi equilibrata dei possibili scenari. Certo, non siamo negli anni Cinquanta e non sono immaginabili licenziamenti di massa per rappresaglia ma non andrebbero sottovalutati i rischi impliciti nelle parole. I confini fra discriminazioni antisindacali, ragioni disciplinari e motivi economici si sono mostrati talora molto labili, e Sergio Marchionne ci ha ricordato spesso quel personaggio di Lewis Carroll che in Alice nel Paese delle Meraviglie dice: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda... è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. La limitata applicazione attuale dell'articolo 18, infine, appare una buona ragione per mantenerlo, non per abbandonarlo: la sua stessa esistenza contribuisce infatti a disincentivare licenziamenti arbitrari.

Diamo comunque per certo che gli anni Cinquanta non si possano ripresentare: sono altrettanto lontani però gli anni Settanta, quando un forte potere sindacale poteva sin abusare in qualche caso delle norme introdotte dallo Statuto dei lavoratori. Si compirono anche errori gravi in nome della "classe operaia" (basti pensare all'accordo del 1975 sulla contingenza) ma da allora essa è quasi scomparsa dall'orizzonte culturale del Paese: ed è merito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aver richiamato l'attenzione sin dall'inizio del suo mandato sui drammi delle morti sul lavoro e su quel che esse significano per una nazione civile.

La realtà ci parla da tempo, insomma, di un lavoro di fabbrica quantitativamente ridotto e insidiato su più versanti, e periodicamente riscopriamo che il potere d'acquisto dei salari è fortemente diminuito. Nel 1992 e nel 1993 fu preziosa la responsabilità con cui i dirigenti sindacali siglarono accordi impegnativi e talora dolorosi, sfidando anche le contestazioni aspre della propria base: il coraggio politico di Bruno Trentin, ad esempio, non andrebbe mai dimenticato. Proprio per questo, c'è da chiedersi se a quella generosa disponibilità dei sindacati operai abbiano corrisposto comportamenti analoghi di altri settori e strati sociali, e la riposta non è confortante.

Il confliggere ha certo anche carattere simbolico (comeè inevitabile, sul terreno dei diritti) ma riguarda al tempo stesso aspetti di rilievo: per il mondo del lavoro e per il profilo stesso di questo governo, indubbiamente il migliore che il Paese abbia avuto da anni. E un Paese oppresso, e quasi travolto, dalle macerie di una pessima politica, ha un bisogno estremo di una "pedagogia per il futuro" e di indicazioni limpide sul terreno della equità sociale. Su quest'ultimo aspetto, su cui il presidente del Consiglio Mario Monti si è impegnato sin dall'avvio,i segnali che sono venuti non sono univoci e hanno sollevato più di un dubbio.

Hanno lasciato un sapore amaro, inutile nasconderlo, alcune "non scelte" sul terreno delle liberalizzazioni. E in una difficile emergenza nazionale, che ha portato a interventi molto incisivi sulle pensioni, è difficile comprendere i passi indietro in materia di commissioni bancarie, taxi o farmacie. Per questo le preoccupazioni sono oggi legittime ed è fondata l'esigenza che le modifiche all'articolo 18 siano molto più attente. Sembra comprenderlo anche il nuovo presidente della Confindustria ed è un segnale confortante, così come sarebbero importanti ulteriori avvicinamenti fra le organizzazioni sindacali.

Il confronto in corso non riguarda dunque, da tempo, un "potere di veto" corporativo, che si è manifestato semmai in altri e ben diversi settori, ma la capacità del governo di costruire prospettive riconoscibili: prospettive capaci di non sacrificare i settori più deboli e di ribadire che proprio le crisi economichee politiche rendono preziosi i diritti. Senza questa forte ed esplicita direzione di marcia perderebbe molto valore quella estensione delle norme a tutti i lavoratori che è stata invece importante e che non sarebbe giusto ignorare. Le scelte del governo Monti, infine, sono destinate a influire anche sul "dopo Monti", ed è importante il modo con cui il centrosinistra e lo stesso Terzo polo lo aiutano: anche opponendosi con decisione, quando è necessario, a scelte non sufficientemente equilibrate. Non sufficientemente coerenti con quel progetto di ricostruzione generale, non solo economica, cui il governo e il Paese sono chiamati.

Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata, ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo le "Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali" o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo. Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona e com´è fatto dentro.

Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti di breve durata - in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre - perché costano meno. Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro, soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva, organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico, un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna è diventato "assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò che ti riesce."

Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario. Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine di chiudere.

A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore, come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni, e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio: utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi prendere il fastidio di licenziare qualcuno.

A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori, e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano, anno dopo anno, di arrivare ad averlo.

Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4 per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto, una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.

Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione? In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però v´è da temere non possa andare al di là di qualche ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.

L'azzeramento dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una misura per rendere flessibile il mercato del lavoro, ma per rendere rigidi (fino al parossismo) il regime di fabbrica e la stretta sui ritmi di lavoro. Certamente nei prossimi mesi e anni ci saranno, uno a uno, o, meglio, quattro a quattro ogni quattro mesi, decine di migliaia di licenziamenti individuali per "motivi economici". Sappiamo già chi verrà colpito, perché da qualche mese i capi girano nei reparti e minacciano i delegati non allineati e gli operai che resistono all'intensificazione del lavoro, annunciando loro che, «appena passa l'abolizione dell'art. 18, sei fuori!».

Così, se alla manifestazione della Fiom del 24 febbraio, su 50 mila partecipanti, almeno 40 mila erano lavoratori e lavoratrici della Fiom, possiamo essere sicuri, con uno scarso margine di errore, che, al ritmo di 12 all'anno per azienda, quei lavoratori verranno espulsi dal loro posto di lavoro ottenendo con il tempo quello che Marchionne ha realizzato in un colpo solo, cambiando nome allo stabilimento di Pomigliano e tenendovi fuori tutti i tesserati Fiom. E lo stesso avverrà con altre migliaia di lavoratori, già ben identificati, nella maggior parte delle aziende di altri settori. Se Barozzino, Pignatelli e La Morte, i tre operai della Sata di Melfi licenziati dalla Fiat per rappresaglia contro uno sciopero, ci hanno messo più di un anno per dimostrare le loro ragioni di fronte ai giudici e, nonostante l'ordine di reintegro, non viene loro concesso di rientrare in fabbrica, possiamo immaginare che cosa succederà con le decine di migliaia di lavoratori già in lista per essere licenziati individualmente "per motivi economici". I quali, per dimostrare di essere stati oggetto di una discriminazione, e non di una esigenza "economica", dovranno andare a cercare tra i loro compagni di lavoro qualcuno disposto a testimoniare in loro favore, sotto la minaccia di entrare così anche lui, nel giro dei successivi quattro mesi, nella lista degli esuberi per motivi "economici".

Così diverse decine di migliaia di lavoratori andranno ad aggiungersi, grazie all'azzeramento dell'articolo 18, all'esercito dei disoccupati senza reddito che i tagli di bilancio, la riforma degli ammortizzatori sociali a costo zero e le crisi aziendali stanno moltiplicando nel nostro paese. Con in più il fatto che, se è quasi impossibile per un giovane trovare oggi un posto di lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici di una certa età sarà ancora più difficile, e per quelli usciti dal loro impiego con un licenziamento individuale - cioè con le stimmate di una espulsione discriminatoria - il licenziamento equivarrà all'iscrizione in una lista di proscrizione. È una cosa che le persone di una certa età ricordano bene quando alla Fiat, prima dell'autunno caldo di quarant'anni fa, imperversava il regime imposto da Vittorio Valletta.

Siamo ritornati là; anzi peggio, perché allora l'economia tirava mentre adesso non c'è alcuna speranza di tornare in tempi accettabili a una qualsiasi forma di ripresa della crescita. E soprattutto dell'occupazione. Ma l'uscita dalle aziende di alcune decine di lavoratori con posto fisso non apre certo le porte a nuove assunzioni, come è ovvio a qualsiasi persona che non sia in malafede. Semplicemente chiude per sempre davanti ai lavoratori licenziati le porte di un altro impiego. Perché la domanda di lavoro non c'è e non saranno certo le politiche economiche di Monti e della Bce a crearla (basta vedere quello che la Bce ha combinato in Grecia e in Portogallo, paesi solo di un anno davanti a noi nella corsa verso il disastro). Ma quei lavoratori licenziati non avranno più né cassa integrazione (né ordinaria, né straordinaria, né in deroga), né mobilità, né "scivolo" verso il prepensionamento; solo una modesta somma di denaro e un anno di disoccupazione. Poi si ritroveranno per strada senza reddito e con nessuna possibilità di un nuovo lavoro: nemmeno d un lavoro precario: perché se mai ci sarà da assumere qualcuno in un call-center o in una cooperativa di facchinaggio, non andranno certo ad assumere un 40-50enne licenziato, quando è e sarà pieno di giovani più adatti a lavori del genere. Così, nel giro di qualche anno, assisteremo a questo rovesciamento dei rapporti intergenerazionali: se fino ad oggi molti dei giovani assunti in qualche forma di lavoro precario e intermittente hanno potuto contare sulla casa, la pensione, lo stipendio fisso o qualche altra forma di aiuto da parte dei loro genitori, nei prossimi anni saranno i lavoratori anziani (cioè ultracinquantenni) senza pensione né salario a dover contare sui redditi saltuario dei loro figli precari per sopravvivere.

Ma se questo è il panorama che ci aspetta fuori delle fabbriche e delle aziende, quello che si prospetta al loro interno è anche peggio. Perché là si vivrà sotto il ricatto permanente del licenziamento individuale "per motivi economici"; e se questo potrà colpire solo pochi lavoratori per volta - non più di dodici all'anno per azienda - funzionerà perfettamente da deterrente per tutti gli altri. Perché, con poche eccezioni, le imprese e l'imprenditoria italiana ormai impegnate a difendere i loro sempre più risicati margini di competitività contando esclusivamente sull'intensificazione dei ritmi di lavoro e la compressione dei salari, non hanno certo la cultura aziendale e la lungimiranza per farsi sfuggire un'occasione del genere: non avrebbero insistito tanto per l'abrogazione dell'art. 18. Posto fisso vuol dire accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale - a patto di saperlo e volerlo valorizzare - che tante imprese italiane hanno sacrificato ai vantaggi offerti dall'ingaggio del lavoro precario e malpagato.

L'azzeramento dell'articolo 18 è un invito a continuare su questa strada, perché rinunciare all'esperienza dei lavoratori anziani vuol dire ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai livelli tecnologici più bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare Berlusconi, Maroni e Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in pochi mesi. Il piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro - in realtà, sulla disciplina di fabbrica e l'ampliamento dell' "esercito industriale di riserva" - ma anche dopo, se sarà approvato, è continuare ad opporsi senza se e senza ma. La posta in gioco e troppo alta e anche coloro che in azienda non ci sono ancora, non ci sono più, o non ci saranno mai, dovrebbero capirlo e agire di conseguenza. Quale che ne sia l'esito, questa mossa di Monti e Fornero deve diventare per tutti il simbolo dell'ipocrisia, della malafede e della pochezza di questa campagna di governo.

Retroscena. Il segretario accusa il premier di aver disatteso i patti. Ed è furibondo con chi (Letta e Fioroni) dà per scontato il sì alla riforma. D’Alema sferza gli iper-montiani. E nella sala Berlinguer della Camera si arriva allo scontro.

«Il Pd? È un partito finito. Monti ha fregato Bersani. E noi siamo stati dei fessi», dice il deputato Stefano Esposito attraversando nervosamente il Transatlantico.
Lo sfogo del parlamentare torinese, che è un bersaniano doc, offre la rappresentazione plastica di un partito diviso di due tronconi. Che, dopo la svolta del governo sull’articolo 18, hanno le pratiche di divorzio in mano. E che, alla fine dell’iter parlamentare della riforma del welfare, potrebbero davvero prendere due strade diverse. «I patti non erano quelli», prosegue la riflessione di Esposito. «E anche noi, ripeto, siamo stati dei fessi. Ci siamo concentrati sull’attacco a Corrado Passera. Ma non avevamo capito che il vero pericolo sarebbe stata la Fornero».
Tra martedì e ieri, i fedelissimi di Bersani l’hanno ripetuta all’infinito, la storia dei «patti» non rispettati da Monti. E prima di andare a Porta a Porta (troppo tardi per darne conto sul Riformista), il segretario dei Democratici l’ha spiegato privatamente fino allo sfinimento: «Ci era stato garantito che nella riforma dell’articolo 18 sarebbe stata prevista la possibilità del reintegro anche nei casi di licenziamento per motivi economici. Come previsto dal modello tedesco. E io l’avevo assicurato alla Cgil, che avrebbe firmato. Invece...».
Invece, martedì al tramonto, questo comma esce dai radar di Palazzo Chigi. E Monti si precipita in conferenza stampa a dichiarare «chiusa» la questione dell’articolo 18. Aprendo quella resa dei conti che Bersani pensava di poter rinviare a dopo le amministrative.
È furibondo, il leader del Pd. Col governo, certo. Ma anche con chi, come il vicesegretario Enrico Letta e l’ex ministro Beppe Fioroni, aveva già anticipato a caldo il «sì scontato» al provvedimento del governo. «Ai dirigenti del mio partito, specie in passaggi delicati come questo, consiglierei maggiore cautela nel rilasciare dichiarazioni», scandisce Massimo D’Alema inviando - dalle telecamere del Tg3 - un messaggio all’ala iper-montiana del Pd. Non foss’altro perché, nell’analisi del presidente del Copasir, il testo della riforma Fornero «è confuso e pericoloso».
Anche le aree di Dario Franceschini e Rosy Bindi annunciano battaglia. Il capogruppo, che invita il governo a fermarsi, esce a prendere una boccata d’aria del cortile di Montecitorio dopo il voto di fiducia sulle liberalizzazioni. «Il governo sta sottovalutando l’impatto che questa riforma avrà nell’opinione pubblica», dice. «Non vorrei che Monti trascurasse il fatto che gli italiani sono un popolo abituato ad avere una rete di garanzie che non può essere smembrata integralmente», aggiunge.
È l’esatto opposto di quello che pensano lettiani e veltroniani. «Lasciamo perdere l’articolo 18 e insistiamo sulla necessità di estendere le tutele ai precari», sottolinea il deputato-economista Francesco Boccia. «In Parlamento dobbiamo impegnarci a migliorare il testo, puntando ad esempio a estendere il reddito d’inserimento a molte più persone», aggiunge.
Giorgio Napolitano prova a gettare acqua sul fuoco dello scontro tra le forze politiche e sindacali. «Attendiamo di vedere come va giovedì», dice il capo dello Stato dalle Cinque Terre. Ma la guerra tra i «due Pd», nel frattempo, s’è già trasformato in uno psicodramma.
Nella sala di Montecitorio che porta il nome di Enrico Berlinguer, dove di solito si riunisce l’assemblea dei parlamentari del Pd, nel pomeriggio va in scena un seminario a porte chiuse sul lavoro. Era in programma da tempo. Il destino ha voluto che si celebrasse proprio ventiquattr’ore dopo la riunione decisiva di Palazzo Chigi sulla riforma del welfare. «Non è detto che voteremo a favore. Questo provvedimento è un errore», dice il parlamentare Paolo Nerozzi, già uomo-macchina della Cgil. «Anche se dovessero mettere la fiducia, il mio voto non sarebbe scontato», gli fa eco l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. A favore del tandem Monti-Fornero intervengono invece Tiziano Treu e Pietro Ichino. «Non avete capito. Fatemi spiegare meglio», insiste quest’ultimo nel tentativo di mettere a fuoco i vantaggi che la riforma porterà ai lavoratori italiani. È il momento in cui arrivano le urla. La deputata Teresa Bellanova, arrivata in Parlamento nel 206 dopo trent’anni nel sindacato di Corso d’Italia, perde la pazienza: «Allora, caro Ichino, non è che noi non abbiamo capito. È che non siamo d’accordo né con quello che dici né con la riforma del governo. Te lo vuoi mettere in testa oppure no?». E il fantasma della scissione sembra avvicinarsi. Sempre di più.

Le dichiarazioni del Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi, sull’intenzione del suo Dicastero di promuovere al più presto una nuova legge quadro sul governo del territorio, trovano pienamente d’accordo l’Istituto Nazionale di Urbanistica. Lo ha detto Federico Oliva, Presidente dell’Inu, commentando quanto detto dal Ministro Ornaghi la settimana scorsa in Senato.

“Negli ultimi anni - spiega Oliva in una nota - l’Inu si è impegnato per l’indispensabile riforma urbanistica, da attuarsi con l’approvazione di una legge sui principi fondamentali del governo del territorio, come vuole la riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001”.

Il Presidente dell’Inu ricorda, oltre a quelli elencati dal Ministro, altri temi che dovranno necessariamente trovare spazio nella nuova legge:

- la riforma del piano, già affrontata da molte Regioni;

- la scelta generalizzata della riqualificazione urbana insieme a quella del contenimento radicale del consumo di suolo;

- la definizione con una normativa dello Stato di strumenti da tempo presenti nelle leggi regionali ma mai consolidati giuridicamente come la perequazione e la compensazione urbanistica;

- una nuova normativa relativa ai diritti edificatori, alla loro trasferibilità e la loro commercializzazione;

- un riordino della fiscalità locale che riporti al loro uso corretto gli oneri di costruzione.

La legge in vigore risale al 1942 ed “è stata giustamente definita obsoleta dal Ministro - aggiunge Oliva. Auspico, a nome di tutto l’Inu, che il Governo presenti rapidamente la proposta di legge annunciata dal Ministro, superando la situazione di empasse che da almeno due legislature ha impedito al Parlamento di approvare i diversi progetti di legge presentati. A tale proposta l’Inu non farà mancare il massimo sostegno possibile, dichiarando la propria disponibilità a collaborare per la migliore definizione della stessa” - conclude Oliva.

Postilla

Nell’informare sull’intenzione del ministro Ornaghi di proporre al Parlamento una nuova legge urbanistica presentavamo la sua iniziativa con le seguenti parole: «Meglio che dorma, se deve proporre una legge che generalizzi i bonus volumetrici, lo spostamento delle volumetrie, le modifiche a go-go delle destinazioni d'uso». Com’era prevedibile l’INU invece incoraggia Ornaghi ad andar avanti veloce sua strada: non sulle poche iniziative utili che il suo dicastero potrebbe/dovrebbe assumere (rafforzare la pianificazione paesaggistica e aumentare l’attrezzatura del sui ministero per renderlo capace di rappresentare realmente lo Stato nei suoi compiti di tutela), ma su quelle che hanno prodotto e producono la devastazione del territorio nazionale e della sua vivibilità: i diritti edificatori, la loro trasferibilità e la loro commercializzazione.

Era prevedibile; ma a volte quando si formula una previsione resta la speranza che essa non si realizzi. Non è successo, peccato.

Non è andata liscia come al solito. Per la prima volta la "sala professori" si è animata di una discussione tutt´altro che accademica. E nemmeno la chiusura delle porte, imposta da Monti, è servita a evitare che qualche urlo arrivasse all´esterno del Consiglio dei ministri. La riforma del lavoro accende anche gli algidi professori di Monti specie se, come nel caso di Fabrizio Barca, hanno alle spalle una storia familiare di sinistra che parte dalla Resistenza

E proprio Barca è il primo a sollevare obiezioni a Fornero, per non aver ancora preparato «un vero articolato» da sottoporre all´esame del Consiglio limitandosi a consegnare quella «bozza generica» già letta alle parti sociali. Un rilievo condiviso anche da Piero Giarda. Ma il problema è anche di merito, in particolare sull´articolo 18. Del resto era stato proprio Barca l´unico ministro a esternare in pubblico, qualche giorno fa, il suo dissenso: «Cosa fa un lavoratore per il quale è stato chiesto il licenziamento per motivi economici se invece ritiene di essere stato discriminato? Come tutelerà il proprio diritto? Penso anche ai lavoratori iscritti alla Fiom. Questa è la domanda cruciale». Barca apre un varco e ci si infilano anche altri. Andrea Riccardi, poi Renato Balduzzi. Il ministro della Salute è l´unico costituzionalista della compagnia e sono due giorni che si arrovella sulla riforma Fornero. Tra le altre cose fa notare che la riscrittura così radicale dell´articolo 18 potrebbe anche confliggere con l´articolo uno della Costituzione, quello che proclama la Repubblica «fondata sul lavoro». «Andiamoci piano», suggerisce Balduzzi.

Il botta e risposta con Fornero si accende, deve intervenire Monti a difendere l´opera «equilibrata» del ministro del lavoro. Il Consiglio si divide tra falchi e colombe, qualcuno reclama ancora il decreto legge. Ma il premier spiega che no, «il decreto sarebbe politicamente una forzatura, anche il capo dello Stato ritiene migliore la strada del disegno di legge». A questo punto, vista la spaccatura, sarebbe stato Corrado Passera a suggerire un rinvio dell´approvazione della riforma a un´altra seduta, «per dare a tutti il tempo di approfondire e arrivare all´unanimità». Una versione smentita dall´interessato. E tuttavia la notizia filtra così. Tanto che Monti avrebbe dovuto agire d´imperio per superare l´impasse. «Se non riusciamo a chiudere oggi la discussione allora è meglio procedere con un voto. Ma io non posso accettare alcuna dilazione: immaginate come titolerebbero domani i giornali internazionali». Dunque la bozza Fornero viene approvata, «salvo intese». E il ministro si può sfogare rivendicando il lavoro svolto, la trattativa estenuante con le parti sociali, le nottate insonni. «Non vi immaginate quello che ho dovuto sopportare», confessa Fornero, che da due settimane è costretta a girare con dieci uomini di scorta. I colleghi applaudono, è l´unico momento in cui la tensione si scioglie. Il ministro dell´Interno, Anna Maria Cancellieri, la proclama «la nostra Giovanna d´Arco». Entrano i commessi con bevande e caffè.

Ma è solo un momento, perché la battaglia si riaccende subito dopo con la delega fiscale. Quando Giarda se la prende con Vittorio Grilli perché il testo ancora non è pronto sembra di rivedere il film degli scontri tra Tremonti e i suoi colleghi, tenuti regolarmente all´oscuro dei provvedimenti fino a un minuto prima della riunione. Il ministro dei rapporti con il Parlamento ce l´ha con Grilli anche per un´altra vicenda. La Ragioneria generale, che dipende dal Tesoro, aveva infatti segnalato la mancanza di coperture per il decreto liberalizzazioni. Ma nessuno dell´Economia, tanto meno Grilli, era andato a spiegare la cosa a Montecitorio, lasciando Giarda a prendersi da solo gli insulti e i pesanti sarcasmi di mezzo Parlamento. Giarda è furibondo e arriva persino a minacciare le dimissioni. Quando Monti lascia prima del tempo la riunione, per andare a cena con Schifani a Milano, dovrebbe essere Giarda a presiedere al suo posto. Ma il ministro se ne va sbattendo la porta e tocca a Piero Gnudi impugnare la campanella del premier. L´elettricità è tanta. Scorre anche sulla linea Catricalà-Patroni Griffi. I due, solitamente tra i più compassati, litigano alzando la voce.

Alla fine, con un rinvio sulla delega fiscale e un´approvazione «salvo intese», il Consiglio più lungo termina. Monti vola a Milano con Fornero per cenare, nella sua abitazione privata, con Renato Schifani e Ferruccio de Bortoli. E al presidente del Senato chiede «una corsia preferenziale» per avere la certezza che la riforma del lavoro sia legge «entro l´estate». Il decreto, reclamato dal Pdl, è stato infatti scartato su pressione di Napolitano. Ma anche Gianfranco Fini, a pranzo giovedì con il premier, aveva sconsigliato a Monti di servirsene per evitare l´accusa di un uso eccessivo della decretazione d´urgenza. «A questo punto - ragiona con i suoi il presidente della Camera - chi ancora oggi chiede il decreto lo fa solo per mettere in difficoltà il governo».

Senatore, componente del Csm oggi presidente dell'Anpi, Smuraglia è autore di numerose opere sul diritto del lavoro. Memoria storica fondamentale per il paese, avverte: "Stiamo tornando indietro"

Partigiano combattente, professore all'Università di Milano, presidente della regione Lombardia, senatore, componente del Csm e oggi presidente nazionale dell'Anpi, Carlo Smuraglia, classe 1923, è soprattutto un maestro del diritto del lavoro. Fondamentale il suo commento allo Statuto dei lavoratori del 1970.

Professore, gli entusiasti di questa annunciata riforma del mercato del lavoro parlano di «fine di un'epoca», l'epoca cioè del «consociativismo». Siamo davvero a un passaggio storico?

Si può parlare di fine di un'epoca ma solo nel senso che si torna indietro. Cancellando a cuor leggero un principio per il quale si è combattuto per anni, e con ragione. L'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è il frutto di una stagione di lotte, ma anche del fallimento della legge sul licenziamenti del luglio 1966. In quella legge si prevedeva, appunto, che anche nel caso di licenziamento ingiustificato riconosciuto come tale dal giudice, il lavoratore aveva diritto esclusivamente al risarcimento economico. La grande novità dell'articolo 18 fu il diritto al reintegro. Oggi torniamo al '66.

Quanto fu difficile l'introduzione del principio dell'articolo 18 nello Statuto dei lavoratori?

Ci fu una discussione accesa in parlamento e ci furono forti pressioni contrarie degli industriali, ma fu soprattutto alla luce dell'esperienza precedente che alla fine il ministro Brodolini accettò il principio.

Ma lo Statuto fu votato da socialisti e democristiani, il Pci e il Psiup si astennero.

Le loro obiezioni erano sulla seconda parte dello Statuto, quella che riguardava la rappresentanza sindacale. Non sul reintegro per il quale si può dire che non ci fossero più dubbi addirittura dagli anni Cinquanta, dal dibattito seguito al famoso licenziamento per motivi politici del dirigente Fiat Battista Santhià. Ci fu un importante convegno nel 1955 in cui molti giuslavoristi introdussero il tema del reintegro e poi la legge del '66 e infine lo Statuto. Ci vollero degli anni e molti scioperi, tornare indietro rispetto a tutto questo significa non capire cosa vuol dire riconsegnare al datore di lavoro la possibilità di licenziare a propria discrezione.

Ma la riforma Fornero prevede ancora il reintegro per il licenziamento discriminatorio.

Mancherebbe, su quello non ci può essere alcun dubbio. Il licenziamento discriminatorio è un atto nullo per un principio giuridico che non dipende neanche dallo Statuto dei lavoratori, ed è evidente che di fronte a un atto nullo resta in vigore la situazione precedente. Naturalmente la riforma di cui parliamo non dice che il datore di lavoro potrà licenziare a suo piacimento, ma temo che gli effetti saranno questi.

Anche nel caso di licenziamento per motivi economici?

Siamo franchi, quando ci sono delle ragioni economiche reali, una crisi aziendale, si tratta sempre di circostanze oggettive. Ma se il datore di lavoro non riesce a provarle e il giudice stabilisce che il licenziamento è infondato, perché mai non si dovrebbe ripristinare il rapporto di lavoro? Torniamo appunto a prima del '66: sarà possibile liberarsi di un lavoratore pagando. L'imprenditore deciderà solo sulla base dei suoi costi e dei suoi benefici. E dovremmo aggiungere un altro problema.

Quale?

In molti casi persino il diritto al reintegro nel posto di lavoro si è dimostrato insufficiente, per cui più che smantellarlo si sarebbe dovuto renderlo effettivo. Pensi alla vicenda dei lavoratori Fiat a Melfi che l'azienda si è rifiutata di far tornare al loro posto e capirà come ancora oggi il principio trovi difficoltà di applicazione.

Chi parla della fine di un'epoca lo fa anche con riferimento alla mancata concertazione, anche questo è un passaggio epocale?

Mi sorprende che tutti quelli che in questi anni hanno riconosciuto la convenienza della concertazione adesso si rallegrino che sia stata stracciata. Secondo me si tratta di un errore di valutazione, soprattutto da parte del governo che non ricaverà nulla di positivo da questa scelta di rottura. Per venire incontro alle indicazioni di una parte molto liberista dell'Europa, rinuncia alla pace sociale.

La Cgil pagherà l'isolamento?

Dieci anni fa hanno riempito la piazza sull'articolo 18, è impossibile che i lavoratori abbiano cambiato idea. È vero che siamo in crisi ma i principi valgono anche in tempo di crisi. Cominciare a smantellarli è pericoloso perché non si sa mai dove si finisce. È un discorso analogo a quello che si fa sulla Costituzione. Si può cambiare, ma non si può nemmeno immaginare di toccare i principi fondamentali. E l'articolo 18 nel sistema del diritto del lavoro equivale al principio di uguaglianza nella Costituzione.

Mai sopito in questi mesi, il malumore di quei sostenitori del Partito democratico che non hanno digerito il sostegno al governo Monti oggi è esploso di fronte all'annunciata riforma del mercato del lavoro. Sulle pagine del segretario Pier Luigi Bersani e, con accenti meno forti, su quella del responsabile economico del partito Stefano Fassina sono comparse oggi decine di messaggi durissimi verso il pacchetto Monti-Fornero ma soprattutto verso il Pd.

«Grazie compagno bersy per quello che fai per noi... ti ripagheremo con gli interessi alle urne», scrive Gianni. «Vergognatevi, siete gli artefici di questa macelleria sociale. Non dite più che lo fate per i nostri figli, non siete degni di dire questa parola avete massacrato anche i padri», dice Pierluigi. «Vergogna», scandisce Diego. «Traditori», rincara Luca. «Non vi voterò mai più», assicura Giovanni. E la pensa così anche Gianni: «Io ho sempre votato Pd ma questa volta se l'articolo 18 verrà modificato no». Duro anche Fabrizio: «Il mio voto lo hai perso...parole soltanto parole la casta unita contro noi lavoratori...vergogna...».

C'è chi se la prende anche con il vicesegretario. «Il fascista Enrico Letta ha già dato il consenso preventivo alla nuova porcata di Monti sponsorizzata da Napolitano», commenta Walter. Non tutti i messaggi si limitano al livore. C'è chi chiede correzioni in parlamento. «Con questa riforma che ha anche aspetti positivi, non vedo nulla che possa incentivare le aziende ad assumere con contratto a tempo indeterminato», spiega Mirco. «Questo governo è più serio del precedente, ma sembra accanirsi contro i lavoratori e i pensionati. Conto sull'azione del PD in parlamento per non svuotare l'art. 18», sottolinea Elvio. Ma da chi ancora crede nel Pd arriva un appello: Bersani tolga la fiducia a Monti. «Perchè non mandate a casa questo governo non eletto di vecchi arroganti? Andiamo a votare, vediamo cosa vogliono davvero i cittadini, o è questo che fa paura?, chiede Isabella. »La misura è colma, ma che ci stiamo a fare ancora in questa coalizione? Basta fuori dobbiamo tornare a navigare in mare aperto«, esorta Lorenzo. »Bersani ...se ci sei batti un colpo! E «stacca la spina».!«, scrive Bruno.

Tra gli elettori del Pd ci sono pochi dubbi: il governo Monti è la continuazione di quello Berlusconi. Una sorta di «Montusconi» autore di una riforma del lavoro che «nemmeno Sacconi e Brunetta...».

L'articolo 18 apre un solco tra gli umori del popolo democratico e il gabinetto Monti. Sui social network, l'appello al segretario Bersani è unanime: «Mandatelo a casa». «Basta far pagare sempre gli stessi», è il refrain a qui dà voce tra gli altri Fabio Viti.

I più allarmati, ovviamente, sono i lavoratori. In decine e decine di commenti, sul profilo Facebook di Bersani e del partito, vengono citati casi di crisi aziendali con il rischio di licenziamenti a breve. La riforma del governo sarebbe la stampella ideale. E i lavoratori, nonostante la posizione critica di Bersani, intestano le nuove norme al Pd stesso. Fabrizio Spinetti accusa i Democratici «di farsi mettere sotto da Alfano e Sacconi. Tirate fuori le p...», è il suo invito. E Andrea Del Bagno avverte che se passa la modifica dell'art.18 «con il vostro appoggio, non voteremo più Pd».

Tanti, tantissimi chiedono di togliere il sostegno a Monti. Luca Alfieri invita Bersani «se veramente vuole riconquistare la fiducia dei suoi elettori a staccare la spina al governo Monti!». «Via da questo governo», taglia netto Walter Giordana. I lavoratori si vedono alla mercè degli imprenditori. Stefano Zovasio contesta le politiche sul lavoro di impronta liberista.

«Per oltre un ventennio ci avete fatto credere che per rilanciare l'economia bisognava essere sottopagati. Risultato: siamo i meno pagati d'Europa e nonostante tutto siamo quelli che crescono di meno... Adesso cosa ci volete far credere? Che per crescere dobbiamo accettare i facili licenziamenti? Dopo cosa ci chiederete? Il C...? Ma fatemi il piacere!».

Molti gli inviti diretti a Pier Luigi Bersani. Come quello di Giorgia Faetti che lo accusa di aver «tergiversato per tutta la durata di questo teatrino sulla modifica dell'articolo 18». L'unica cosa che abbiamo capito, osserva, «è che noi lavoratori e le nostre famiglie siamo caduti in un baratro profondo e siamo diventati precari. La base è contro questo appoggio incondizionato al governo e siamo pronti a darvi battaglia nei luoghi di lavoro. O fate fare delle modifiche. O votate contro. Non ci sono alternative».

TUTTI ci stiamo trasformando, senza quasi accorgercene, in tecnici della crisi che traversiamo: strani bipedi in mutazione, sensibili a ogni curva economica tranne che alle curve dell´animo e del crimine. L´occhio è fisso sullo spread, scruta maniacalmente titoli di Stato e Bund, guata parametri trasgrediti e discipline finanziarie da restaurare al più presto. Fino a quando, un nefasto mattino, qualcosa di enorme ci fa sobbalzare sotto le coperte del letto e ci apre gli occhi: un male oscuro, che è secrezione della crisi non meno delle cifre di bilancio ma che incide sulla carne viva, spargendo sangue umano. La carneficina alla scuola ebraica di Tolosa è questo sparo nel deserto, che ci sveglia d´un colpo e ci immette in una nuova realtà, più vasta e più notturna. Come in una gigantesca metamorfosi, siamo tramutati in animali umani costretti a vedere quello che da mesi, da anni, coltiviamo nel nostro seno senza curarcene. Il naufragio del sogno europeo, emblema di riconciliazione dopo secoli di guerre, e di vittoria sulle violenze di cui Europa è stata capace, partorisce mostri. Non stupisce che il mostro colpisca ancora una volta l´ebreo, capro espiatorio per eccellenza, modello di tutti i capri e di tutti i diversi che assillano le menti quando son catturate da allucinazioni di terrene apocalissi.

In tedesco usano la parola Amok (in indonesiano significa «uccisione-linciaggio in un impulso d´ira incontrollata»), e tale è stato l´attacco di lunedì alla scuola di Tolosa. Uno squilibrato, ma abbastanza freddo da uccidere serialmente, ammazza in 15 minuti il maestro Jonathan Sandler, due suoi figli di 4 e 5 anni (Gabriel e Arieh), una bambina di 7, Myriam. Chi cade preda dell´amok è imprevedibile e socialmente reietto, ma se ha potuto concepire il crimine (e spesso parlarne sul web) vuol dire che per lungo tempo non si è badato al pericolo, che l´ambiente da cui viene era privo di difese immunitarie. I massacri nelle scuole sono considerati episodi tipici del comportamento amok. Nella cultura malese l´assalto amok evoca lo stato di guerra, ma l´omicida seriale interiorizza la guerra. La spedizione militare è condotta da individui che vivono nel nascosto, ed escono allo scoperto in una sorta di raptus. Non dimentichiamo che il nazismo quando prese il sopravvento aveva caratteristiche affini, e assecondava la furia amok: «Marcia senza approdo, barcollamento senza ebbrezza, fede senza Dio», così lo scrittore socialdemocratico Konrad Heiden descriveva, nel 1936, la caduta di milioni di tedeschi nel nazismo e nell´«era dell´irresponsabilità». È nelle furie di quei tempi che hanno radice i contemporanei massacri palingenetici, e anche lo spavento stupefatto che scatenano. Non era stato detto, a proposito delle fobie annientatrici: «Mai più?». Invece tornano, perché un tabù infranto lo è per secoli ancora. Il piccolo racconto di Zweig (Amok è il titolo) racconta proprio questo: l´esplosione in mezzo a bonacce apparenti di una "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica". Un torbido passato ha fatto del medico protagonista un mutante: nella solitudine si sente «come un ragno nella sua tela, immobile da mesi». Amok è scritto nei primi anni Venti: un´epoca non meno vacillante della nostra. Già prima del ´14-18, Thomas Mann vedeva l´Europa sommersa da «nervosità estrema».

«L´amok è così – spiega Zweig nel racconto– all´improvviso balza in piedi, afferra il pugnale e corre in strada… Chi gli si para davanti, essere umano o animale, viene trafitto dal suo kris (pugnale, in malese, ndr), e l´orgia di sangue non fa che eccitarlo maggiormente… Mentre corre, ha la schiuma alle labbra e urla come un forsennato… ma continua a correre e correre, senza guardare né a destra né a sinistra, corre e basta. L´ossesso corre senza sentire… finché non lo ammazzano a fucilate come un cane rabbioso, oppure crolla da solo, sbavando». Ci furono opere profetiche, negli anni ´20-´30: i film Metropolis e Dottor Mabuse di Fritz Lang, o il racconto di Zweig. Dove sono oggi opere che abbiano quell´orrida e precisa visione del presente?

Se fosse un caso isolato non ne parleremmo come di un fatto di cultura, colmo di presagi. Ma non è un evento isolato, solo criminale. Quest´odio del diverso (dell´ebreo o del musulmano o del Rom: tre figure di capro espiatorio) pervade da tempo l´Europa, mescolando storia criminale e storia politica. E ogni volta è una fucilata subitanea, che interrompe finte normalità. Fu così anche quando nella composta Norvegia scoppiò la demenza assassina del trentaduenne Behring Breivik, il 22 luglio 2011. L´attentato che compì a Oslo fece 8 morti. Il secondo, nell´isola Utoya, uccise 69 ragazzi.

Fenomeni simili, non immediatamente mortiferi, esistono anche in politica e mimeticamente vengono imitati. Nell´America degli odii razziali, in prima linea: l´odio suscitato da Obama meteco tendiamo a sottovalutarlo, a scordarcene. Ma l´Europa è terreno non meno fertile per queste idrofobie umane, peggiori d´ogni intossicazione alcolica. Colpisce la loro banalizzazione, più ancora del delitto quando erompe. In Italia abbiamo la Lega, e banalizzati sono i suoi mai sconfessati incitamenti ai linciaggi. Nel dicembre 2007, il consigliere leghista Giorgio Bettio invita a «usare con gli immigrati lo stesso metodo delle SS: punirne dieci per ogni torto fatto a un nostro cittadino». Lo anticipa nel novembre 2003 il senatore leghista Piergiorgio Stiffoni, che menzionando un gruppo di clandestini sfrattati prorompe: «Peccato. Il forno crematorio di Santa Bona è chiuso». Il gioco di Renzo Bossi (vince chi spara su più barche d´immigrati) è stato tolto dal web ma senza autocritiche.

Com´è potuto succedere che gli italiani divenissero indifferenti a esternazioni di questa natura? Com´è possibile che l´Europa stessa guardi a quel che accade in Ungheria alzando appena le sopracciglia? Eppure il premier Viktor Orbán, trionfalmente eletto nell´aprile 2010, non potrebbe esser più chiaro di così. Il suo sogno è di creare un´isola prospera separata dal turbinio del mondo: una specie di autarchia nordcoreana. A questo scopo ha pervertito la costituzione, le leggi elettorali, l´alternanza democratica, scagliandosi al contempo contro l´etnicamente diverso. A questo scopo persegue una politica irredentista verso la diaspora ungherese in Europa. Il sacrificio di due terzi del territorio nazionale, imposto al Paese vinto dal trattato di Trianon del 1920, è definito «la più grande tragedia dell´Ungheria moderna». Ben più tragica dello sterminio di 400.000 ebrei e zigani nel 1944. Il vero scandalo dei tempi presenti è la punizione inflitta alla democrazia greca, e la non-punizione dell´Ungheria di Orbán. I parametri economici violati e gli spread troppo alti pesano infinitamente più dell´odio razzista, della banalizzazione del male che s´estende in Europa, della democrazia distrutta.

In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come «unico contenitore della democrazia», poiché senza di lui non c´è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odii razziali, che negli imperi europei (l´austro-ungarico, l´ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi. Vale la pena ricordarlo, nell´ora in cui un fatto criminoso isolato, ma emblematico, forse ci risveglia un po´.

Può avere qualche significato politico il fatto che il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, abbia ritenuto di dedicare ai beni comuni - e al movimento da essi ispirato - l'incipit del suo editoriale della domenica. A dire il vero, il «benecomunismo» non è l'unico oggetto della infastidita attenzione di Scalfari. Figurano in un elenco di avversari della «ragione» (o, quantomeno, del «ragionevole»), incarnata nella diade Monti-Fornero: Beppe Grillo, Sabina Guzzanti, gli indecisi, i non votanti, gli indifferenti, e anche «la falange dei corrotti e dei corruttori» e le relative lobby.

Secondo Scalfari, questa compagnia di giro sarebbe tenuta insieme dall'ostilità nei confronti della democrazia rappresentativa, del mercato, della Tav, delle banche, dello spread, sognando, viceversa, di sostituire a tutto questo uno sgangheratissimo e chiaramente irrealizzabile sistema di democrazia diretta sorretto da una deriva antipolitica. La strada da percorrere, viceversa, è quella che stanno percorrendo Monti e Fornero, sia pure con qualche piccola, innocente sbavatura (ad es. non aver tirato le orecchie a Marchionne per aver sbattuto fuori la Fiom dalla Fiat): La strada delle riforme, in primis quella del mercato del lavoro, e del rigore finanziario, l'unica in grado di restituire dignità e prospettiva al Paese, dopo la lunga e infausta parentesi imposta dal Cavaliere.

Non abbiamo titolo per rispondere a nome di Grillo, Guzzanti, degli indecisi e neppure dei corruttori e delle loro lobby. Possiamo dire qualche cosa sui beni comuni, come studiosi, giuristi, militanti nel movimento referendario, qualcuno di noi come amministratore. È un tema che viene da lontano, dalle lotte per l'acqua sviluppatesi in alcuni Paesi dell'America Latina. In Italia esso incrocia un'importante iniziativa di riforma, promossa dal governo Prodi e culminata nel disegno di legge delega messo a punto dalla Commissione Rodotà che riscrive per intero la disciplina codicistica dei beni pubblici e introduce la categoria dei beni comuni, dando ad essi dignità, se non ancora normativa, quanto meno scientifica: e non è certo un caso che, da allora (la Commissione conclude i suoi lavori nel 2008, pochi giorni prima dello scioglimento delle Camere), la riflessione sui beni comuni abbia prodotto qualche innovativa sentenza e preso stabile dimora, sotto forma di monografie, saggi, tesi di dottorato e di laurea, convegni, all'interno della cultura giuridica italiana, da decenni appiattita su una obsoleta contrapposizione fra pubblico e privato.

L'altro grande fatto costituente per il movimento per i beni comuni nostrano è stato il referendum contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. In questa nuova stagione si inserisce l'avvio del nuovo ciclo di governo progressista di molte città, a cominciare da Napoli, dove i beni comuni danno il nome a un assessorato che si sta impegnando in politiche innovative sia per quel che concerne la gestione dei servizi pubblici, sia per quel che concerne la sperimentazione di forme originali di democrazia diretta e partecipativa che si affiancano, e non si sostituiscono, a quelle della democrazia rappresentativa.

Sull'onda di tutto questo si è sviluppata una spinta alla rivendicazione dei beni comuni (particolarmente significative le diverse occupazioni che a partire dal Teatro Valle sono condotte sotto la bandiera della cultura bene comune) il cui filo unitario è costituito, per un verso, da un netto rifiuto della prospettiva di una integrale mercificazione del mondo e, per altro verso, da una intensa domanda di partecipazione democratica, sin qui mortificata dal micidiale combinato disposto di deriva oligarchica dei partiti e di deriva tecnocratica delle istituzioni. Questa spinta, generosa e talora confusa, ma certo vitale, si è saldata, in alcuni casi, con esperienze di lotta già consolidate, come quella No Tav dove il paradigma dei beni comuni trova espressione esemplare proprio in ragione del forte legame tra una comunità che si autorganizza in forme inedite di partecipazione democratica e un territorio da preservare contro l'ingiustificata violenza di una speculazione finanziaria.

Più democrazia, meno mercato; più partecipazione e più valore d'uso, meno delega e meno valore di scambio: questo, in sintesi, il mondo dei beni comuni che, per dirla con Rodotà, propone un'altra politica capace di sconfiggere l'antipolitica. Si può dissentire: ma quando il dissenso assume le forme della caricatura e dell'aperto dileggio, vuol dire che quelle parole d'ordine cominciano a suscitare inquietudine in quel grande partito trasversale, a cui Repubblica dà voce, per il quale viceversa la parola d'ordine è: non disturbate il manovratore.

Un'ultima notazione. Proprio all'inizio del suo articolo Scalfari, inopinatamente imbossito, si avvale dell'elegante metafora del «dito medio» per descrivere quell'atteggiamento di ostilità a tutte le divinità in cui egli crede. Non possiamo non ricordare al nostro autorevolissimo interlocutore che, nella storia recente dei beni comuni, l'unico «dito medio» (sempre metaforicamente parlando) è quello che governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica continuano ad alzare nei confronti del popolo sovrano dopo aver reintrodotto la disciplina dei servizi pubblici locali abrogata dai referendum. Chissà se Scalfari si sarà mai chiesto quanto questo abbia a che fare con l'agonia di quelle istituzioni repubblicane a cui appare tanto affezionato. Magari ce lo dirà in un prossimo editoriale.

Scavano un tunnel a valle e mettono a rischio una strada a monte. La nuova storia della frana della galleria val di Sambro si potrebbe sintetizzare così. La frana che sta interessando il paesino di Ripoli-Santa Maria Maddalena nel Bolognese, risvegliata dagli scavi per la Variante di valico, ha fatto muovere i piloni della attuale Autostrada del sole, che da Firenze porta al capoluogo emiliano. Lo spostamento di almeno uno dei giganteschi pilastri che reggono il viadotto Piazza, registrato dalla fine di ottobre, è di un centimetro e mezzo. A segnalare il movimento sono stati gli strumenti di monitoraggio piazzati dalla stessa Autostrade per l’Italia, che dopo le proteste dei cittadini ha dovuto monitorare palmo a palmo l’area del paese. Ora a muoversi è anche il gigantesco viadotto.

A confermare la voce che già da alcuni giorni circolava, c’è una lettera di due tecnici della Regione Emilia Romagna, i geologi Marco Pizziolo e Annarita Bernardi, che da tempo si stanno occupando del caso Ripoli. La lettera, indirizzata all’assessore regionale alla difesa del suolo, Paola Gazzolo e resa pubblica oggi dal consigliere regionale del Movimento 5 Stelle, Andrea Defranceschi, non lascia spazio a dubbi: “La superficie interessata dai movimenti è in aumento – scrivono i due tecnici – i limiti a monte continuano a essere oggetto di particolare attenzione, in quanto presentano segnali di un possibile coinvolgimento di almeno un pilastro dell’autostrada esistente. Analogamente è da tenere sotto particolare attenzione la strada provinciale a monte della stazione ferroviaria”.

Il breve passaggio della relazione è un ennesimo allarme che a questo punto non riguarda più solo i cittadini della frazione di San Benedetto val di Sambro, ma l’incolumità di tutti. Gennarino Tozzi condirettore generale Sviluppo Rete di Autostrade, ancora in una intervista apparsa sabato su Repubblica, negava il movimento del viadotto. “Non mi risulta”. Ora la conferma giunge dai palazzi di viale Aldo Moro. Che emette anche altre “sentenze”: la frana, anche dove gli scavi sono già passati, non si è fermata. Anzi, accelera. Forse è stata favorita anche dalle nevicate degli ultimi mesi che, sciogliendosi, hanno reso più scivoloso il terreno.

Proprio nelle scorse settimane il consiglio regionale emiliano romagnolo aveva votato all’unanimità un documento che chiedeva ad Anas e Autostrade lo stop ai lavori almeno fino alla fine delle indagini, portate avanti dai magistrati di Bologna. Ma per ora gli scavi proseguono e né il prefetto di Bologna, Angelo Tranfaglia, né il sindaco di San Benedetto val di Sambro, Gianluca Stefanini, hanno mosso un dito per bloccarli. Nel frattempo, un’altra famiglia (con una bambina piccola) è stata “de-localizzata”, cioè allontanata dalla propria casa. Papà, mamma e figlia sgomberati nei giorni scorsi vanno così ad aggiungersi all’altra dozzina di persone (sulle 500 totali di Ripoli) già evacuate dalle proprie case.

Intanto, la frana non solo interessa zone sempre più ampie, ha anche ripreso a correre. Come segnalano i tecnici della Regione: “Per quanto riguarda l’area di Santa Maria Maddalena allo stato attuale le velocità del movimento appaiono maggiori rispetto al periodo precedentemente oggetto di rapporto, raggiungendo in alcune aree più prossime agli scavi 1,5 centimetri al mese”. L’area di cui si parla nel rapporto è quella di casa Pellicciari, finora la più colpita dagli scavi che le stanno passando accanto.

I geologi Pizziolo e Bernardi evidenziano come le speranze che i movimenti franosi si fermassero erano risultate troppo ottimistiche: “La tendenza alla stabilizzazione menzionata nel rapporto precedente – si legge nella lettera – non sembra confermata dalle ultime rilevazioni. Sono osservabili infatti nell’ultimo periodo segnali indicanti una possibile accelerazione del movimento”.

Infine, in conclusione, la lettera dei geologi lancia un monito inquietante. “È probabile nel breve termine una prosecuzione delle attuali velocità, per l’effetto combinato delle due canne in avanzamento sia pure nell’incertezza del comportamento che tali fenomeni possono avere e nell’ipotesi che non si verifichino eventi non prevedibili attualmente, come svuotamenti improvvisi di sacche acquifere, precipitazioni intense e prolungate o collassi delle gallerie per motivi costruttivi. Tale deformazione non potrà che produrre un incremento delle deformazioni sui manufatti e sulle infrastrutture con estensione delle lesioni precedenti”. Insomma, per i prossimi mesi allerta massima.

Il primo commento, naturalmente, è proprio di Andrea Defranceschi. “Il documento di cui siamo in possesso è la pietra tombale sulle reiterate bugie che Autostrade ha tentato di propinarci negli ultimi mesi, e che la Regione ha avallato col suo silenzio. I dati e le conclusioni sono chiari: gli spostamenti delle case nelle frazioni Ripoli e Scaramuzza di Santa Maria Maddalena sono dovuti agli scavi. Basta con questa favoletta che fossero danni precedenti”.

Nel numero di gennaio-febbraio della rivista Foreign Affairs un articolo di Matthew Kroenig intitolato «È il momento di attaccare l'Iran» spiega perché un attacco è l'opzione meno peggiore. Sui media si fa un gran parlare di un possibile attacco israeliano contro l'Iran, mentre gli Stati uniti traccheggiano tenendo aperta l'opzione dell'aggressione, ciò che configura la sistematica violazione della carta delle Nazioni unite, fondamento del diritto internazionale.

Mano a mano che aumentano le tensioni, nell'aria aleggiano i fremiti delle guerre in Afghanistan e Iraq. La febbrile retorica della campagna per le primarie negli Stati uniti rinforza il suono dei tamburi di guerra. Si suole attribuire alla «comunità internazionale» - nome in codice per definire gli alleati degli Stati uniti - le preoccupazioni per l'imminente minaccia iraniana. I popoli del mondo, però, tendono a vedere le cose in modo diverso.

I paesi non-allineati, un movimento che raggruppa 120 nazioni, hanno vigorosamente appoggiato il diritto dell'Iran di arricchire l'uranio, opinione condivisa dalla maggioranza della popolazione degli Stati uniti (sondaggio WorldPublicOpinion.org) prima dell'asfissiante offensiva propagandistica lanciata da due anni. Cina e Russia si oppongono alla politica Usa rispetto all'Iran, come pure l'India, che ha annunciato che non rispetterà le sanzioni statunitensi e aumentà il volume dei suoi commerci con l'Iran. Idem la Turchia. Le popolazioni europee vedono Israele come la maggior minaccia alla pace mondiale. Nel mondo arabo, a nessuno piace troppo l'Iran però solo una minoranza molto ridotta lo considera una minaccia. Al contrario, si pensa che siano Israele e Stati uniti le minacce principali. La maggioranza si dice convinta che la regione sarebbe più sicura se l'Iran si dotasse di armi nucleari. In Egitto, alla vigilia della primavera araba, il 90% compartiva questa opinione, secondo i sondaggi della Brookings Institution e di Zogby International.

I commentatori occidentali parlano molto del fatto che i dittatori arabi appoggiano la posizione Usa sull'Iran, mentre tacciono il fatto che la gran maggioranza della popolazione araba è contraria. Negli Stati uniti alcuni osservatori hanno espresso anche, da un bel po' di tempo, le loro preoccupazioni per l'arsenale nucleare israeliano. Il generale Lee Butler, ex-capo del comando strategico Usa, ha affermato che l'armamento nucleare israeliano è straordinariamente pericoloso. In una pubblicazione dell'esercito Usa, il tenente colonnello Warner Farr ha ricordato che «un obiettivo delle armi nucleari israeliane, che non si usa precisare ma che è ovvio, è "impiegarle" negli Stati uniti», presumibilmente per garantire un appoggio continuo di Washington alle politiche di Israele. Una preoccupazione immediata, in questo momento, è che Israele cerchi di provocare qualche reazione iraniana, che a sua volta provochi un attacco Usa. Uno dei principali analisti strategici israeliani, Zeev Maoz, in «Difesa della Terra santa», un'analisi esaustiva della politica di sicurezza ed estera israeliana, arriva alla conclusione che il saldo della politica nucleare di Israele è decisamente negativo e dannoso per la sicurezza dello Stato ebraico. E incita Israele a cercare di arrivare a un trattato regionale di proscrizione delle armi di distruzione di massa e a creare una zona libera da tali armi, come chiedeva già nel 1974 una risoluzione dell'Assemblea generale dell'Onu.

Intanto le sanzioni occidentali contro l'Iran fanno già sentire i loro effetti soliti, causando penuria di alimenti basici non per il clero governante ma per la popolazione. Non può meravigliare che anche la valorosa opposizione iraniana condanni le sanzioni. Le sanzioni contro l'Iran potrebbero avere gli stessi effetti di quella precedenti contro l'Iraq, condannate come genocide dai rispettabili diplomatici dell'Onu che pure le amministravano, e che alla fine si dimisero come segno di protesta. In Iraq le sanzioni hanno devastato la popolazione e rafforzato Saddam Hussein, a cui probabilmente hanno evitato, almeno all'inizio, la sorte toccata alla sfilza degli altri tiranni appoggiati da Usa e Gb, dittatori che hanno prosperato praticamente fino al giorno in cui varie rivolte interne li hanno rovesciati. Esiste un dibattito poco credibile su ciò che costituisca esattamente la minaccia iraniana, per quanto abbiamo una risposta autorizzata, fornita dalle forze armate e dai servizi segreti Usa. I loro rapporti e audizioni davanti al Congresso hanno lasciato ben chiaro che l'Iran non costituisce nessuna minaccia militare: ha una capacità molto limitata di dispiegare le sue forze e la sua dottrina strategica è difensiva, destinata a dissuadere un'invasione per il tempo necessario alla diplomazia per entrare in campo. Se l'Iran sta sviluppando armi nucleari (ciò che ancora non è provato), questo sarebbe parte della sua strategia di dissuasione.

Il concetto dei più seri fra gli analisti israeliani e statunitensi è stato espresso con chiarezza da Bruce Riedel, un veterano con 30 anni di Cia sulle spalle, che nel gennaio scorso ha dichiarato che se lui fosse un consigliere per la sicurezza nazionale iraniano auspicherebbe certamente di avere armi nucleari come fattore di dissuasione. Un'altra accusa dell'Occidente contro l'Iran è che la Repubblica islamica sta cercando di ampliare la sua influenza nei paesi vicini, attaccati e occupati da Stati uniti e Gran Bretagna, e che appoggia la resistenza all'aggressione israeliana in Libano e all'occupazione illegale dei territori palestinesi, sostenute dagli Usa. Al pari della sua strategia di dissuasione contro possibili atti di violenza da parte di paesi occidentali, si dice che le azioni dell'Iran costituiscono minacce intollerabili per l'ordine globale.

L'opinione pubblica concorda con Maoz. L'appoggio all'idea di stabilire una zona libera dalle armi di distruzione di massa in Medio Oriente è schiacciante. Questa zona dovrebbe comprendere Iran, Israele e, preferibilmente, le altre due potenze nucleari che si sono rifiutate di entrare nel Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) - Pakistan e India - paesi che, come Israele, hanno sviluppato i loro programmi atomici con l'aiuto Usa. L'appoggio a questa politica nella conferenza sulla revisione del Tnp, nel maggio 2010, fu tanto forte che Washington si vide obbligata ad accettarla formalmente, però imponendo condizioni: la zona non potrà divenire effettiva prima di un accordo di pace fra Israele e i suoi vicini arabi; il programma di armamenti nucleari di Israele sarebbe esentato dalle ispezioni internazionali; nessun paese (si legga: Usa) potrebbe essere obbligato a fornire informazioni sulle installazioni e le attività nucleari israeliane, né informazioni relative a trasferimenti anteriori di tecnologia nucleare a Israele. Nella conferenza del 2010 si fissò una nuova sessione per il maggio 2012 con l'obiettivo di avanzare nella creazione di una zona libera da armi di distruzione di massa. Tuttavia con tutto il bailamme sollevato intorno all'Iran, è molto poca l'attenzione che si dà a questa opzione che pure sarebbe il modo più costruttivo per gestire le minacce nucleari nella regione: per la «comunità internazionale» la minaccia che l'Iran arrivi alla capacità nucleare; per la maggior parte del mondo, la minaccia rappresentata dall'unico Stato della regione che possieda le armi nucleari e una lunga storia di aggressioni, e dalla superpotenza che gli fa da padrino.

©La Jornada/il manifesto

Il Ministro Ornaghi: limitare il consumo di suolo, riqualificare le città, tutelare il paesaggio

Lo ha annunciato il Ministro per i Beni e le Attività Culturali, Lorenzo Ornaghi, intervenuto in Commissione Territorio, Ambiente, Beni Ambientali del Senato per illustrare gli indirizzi del Governo in tema di tutela del paesaggio.

Ornaghi ha spiegato che la legge urbanistia 1150/1942 è ormai obsoleta e dovrà essere rinnovata affrontando realtà complesse e diversificate, al fine di contenere al massimo il consumo di suolo e di canalizzare le attività edificatorie verso il rinnovamento e la riqualificazione delle città. La nuova legge - ha assicurato il Ministro - sarà messa a punto con l’intesa del Ministro delle infrastrutture e trasporti e con il concerto degli attori istituzionali e degli altri soggetti, anche portatori di interessi diffusi.

Un importante passo verso questa direzione - ha aggiunto il Ministro -, il Governo lo ha già fatto con il Decreto Sviluppo DL 70/2011 che, all’articolo 5, commi da 9 a 14, impone alle Regioni di approvare leggi per la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente e la riqualificazione di aree urbane degradate. Le leggi regionali possono assegnare bonus volumetrici, consentire la delocalizzazione di volumetrie in aree diverse, modifiche delle destinazioni d'uso o della sagoma necessarie all’armonizzazione architettonica con gli edifici esistenti.

Tornando al paesaggio, tema centrale dell’intervento in Senato, Ornaghi è partito da un importante dato: le superfici artificiali sono aumentate, in Italia, tra il 1956 ed il 2001, del 500%. In molte zone, a fronte di un decremento demografico, si è paradossalmente verificato un incremento delle superfici urbanizzate. Le cause del fenomeno, per il Ministro, sono molteplici: oltre agli ‘investimenti nel mattone’, vi sono ragioni legate alle esigenze finanziarie degli Enti locali, che sempre più spesso utilizzano l’edificabilità dei suoli come strumento di politica di bilancio.

Il Ministero si impegnerà a promuovere l’emanazione dei nuovi piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e ad estendere la pianificazione paesaggistica all’intero territorio regionale, non limitandola ai soli beni direttamente soggetti a vincolo, rendendo quindi il piano paesaggistico uno strumento di pianificazione di area vasta in grado di dettare quantomeno le invarianti dei processi di trasformazione e di canalizzarle verso aree già urbanizzate o comunque artificiali da recuperare e riqualificare, preservando i suoli agricoli e i paesaggi di maggior pregio.

Con i nuovi piani entrerà in vigore la semplificazione introdotta dal DL 70/2011, secondo cui, a determinate condizioni, il parere della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici sarà obbligatorio ma non vincolante e si considererà comunque favorevole decorsi 90 giorni.

Altro spunto di riflessione sono le distorsioni causate dal regime degli indennizzi delle espropriazioni per opere di pubblica utilità: il sistema vigente - ha detto Ornaghi - riconosce il prezzo di mercato per i suoli edificabili o edificati e concede uno sconto, anche più del 40%, nel caso di suoli agricoli, favorendo così il consumo di territorio agricolo. Questa situazione, unita alla maggiore sensibilità dell’opinione pubblica in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio, rende urgente limitare il consumo del suolo che, insieme al fenomeno della dispersione urbana, mette a rischio il paesaggio italiano. Il primo passo, per Ornaghi è un deciso rifiuto del metodo dei condoni edilizi.

Tale approccio - ha chiarito il Ministro - non va inteso come ostacolo per le imprese edili le quali, si sono dimostrate attente, anche attraverso le associazioni di categoria, al recupero delle periferie degradate e delle aree industriali dismesse e al miglioramento dell’efficienza energetica del patrimonio edilizio.

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