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Innanzitutto la buona notizia: si ammette finalmente che le misure di austerità non funzionano. Ma ecco quella cattiva: almeno a breve termine, le prospettive di cambiamento appaiono quanto mai scarse. È in quest'ultimo mese che la favola della fiducia è morta. Negli anni scorsi, gran parte dei politici europei, al pari di molti dei loro omologhi ed esperti americani, sono stati prigionieri di una dottrina economica distruttiva: una teoria secondo la quale i governi avrebbero dovuto fronteggiare la depressione economica non già aumentando la spesa per compensare il calo della domanda privata, come indicano i trattati di riferimento, ma attraverso il rigore fiscale e l'abbattimento della spesa pubblica, in nome dell'equilibrio di bilancio.

I critici hanno detto fin dall'inizio che in una fase depressiva l'austerità non avrebbe fatto che aggravare la situazione; ma i rigoristi sostenevano il contrario, puntando sul fattore fiducia. «Le politiche atte a ispirare fiducia non saranno certo di ostacolo alla ripresa economica, anzi la promuoveranno», dichiarava allora Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea; una tesi riecheggiata al Congresso di Washington dagli esponenti repubblicani. In altri termini, come dissi allora, si pensava alla fiducia come a una fata che sarebbe tornata a premiare i politici per le loro virtù fiscali.

Fortunatamente, oggi molte voci autorevoli hanno finito per ammettere che si è trattato di un mito. Ciò malgrado, però, non si intravedono cambiamenti di rotta a breve termine in Europa, e neppure negli Usa, che peraltro non hanno mai pienamente adottato la dottrina rigorista. Ma anche qui l'austerità è stata imposta di fatto, sotto forma di un drastico abbattimento della spesa e di pesanti tagli occupazionali, siaa livello degli Stati che a quello locale.

La dottrina fondata sul richiamo ai miracoli della fiducia suonerebbe familiare a Herbert Hoover (presidente Usa nel 1929 - ndt ). Di fatto, nell'Europa di oggi la fede in quel mito non si è rivelata più fondata che nell'America di quegli anni. Negli Stati periferici europei, dalla Spagna alla Lettonia, le politiche di austerità hanno prodotto una serie di tracolli, con livelli di disoccupazione paragonabili a quelli della Grande Depressione; la Fata Fiducia non si è vista da nessuna parte - neppure in Gran Bretagna, dove due anni fa la svolta liberista era stata osannata sulle due sponde dell'Atlantico. In tutto questo non vi è nulla di nuovo: si sa da tempo che le politiche di austerità non mantengono le loro promesse. Ma questa verità ovvia, i politici europei l'hanno negata per anni, ostinandosi ad annunciare che a breve le misure adottate avrebbero dato i loro frutti, e celebrando come un trionfo ogni più lieve segno positivo. In particolare, un Paese a lungo attanagliato dalla crisi come l'Irlanda è stato citato a esempio del buon esito delle politiche di rigore per ben due volte: all'inizio del 2010, e più recentemente nell'autunno 2011. Ma ogni volta, il preteso successo si è rivelato un miraggio. A tre anni dall'avvio del suo programma di austerità, l'Irlanda non mostra ancora alcun segno reale di ripresa, dopo un crollo che ha portato il tasso di disoccupazione vicino al 15 per cento. Eppure, in queste ultime due settimane qualcosa si sta muovendo. Sembra che alcuni avvenimenti - tra cui la crisi del governo olandese dopo la sua proposta di misure di austerità, i consensi riscossi al primo turno delle elezioni presidenziali francesi da un François Hollande vagamente anti-rigorista, o le notizie sulla Gran Bretagna, dove secondo un rapporto la situazione è oggi peggiore che nel 1930 - abbiano finalmente aperto una breccia nel muro della negazione. All'improvviso, tutti riconoscono che l'austerità non funziona.

Ora però la domanda è: cosa si farà a questo punto? Temo di dover rispondere : non molto.

Innanzitutto, se da un lato i rigoristi sembrano aver lascato ogni speranza, dall'altro non depongono l a paura, sostenendo che se non si continua a tagliare la spesa - in barba alla depressione economica - si rischia di finire come la Grecia, con un costo del debito alle stelle.

Ora, la tesi secondo la quale solo l'austerità può placare i mercati finanziari si è sempre rivelata errata, così come il mito della fiducia foriera di prosperità. A quasi tre anni da quando il Wall Street Journal annunciava a gran voce l'attacco dei bond vigilantes al debito Usa, il costo del denaro, lungi dall'aumentare, si è addirittura dimezzato. E il Giappone- Paese che per oltre un decennio ha subito le più fosche previsioni sulle sorti del suo debito - ha ottenuto questa settimana crediti a lungo termine a un tasso d'interesse inferiore all'1%.

Oggi molti seri analisti sostengono che l'austerità fiscale in un'economia depressa ha probabilmente effetti autodistruttivi, in quanto comprime l'economia e penalizza i redditi a lungo termine; e quindi non solo non risolve i problemi legati al debito, ma al contrario li aggrava.

Ma se la favola della fiducia sembra ormai morta e sotterrata, restano in auge i racconti da brivido sul tema del deficit. Di fatto, i sostenitori della politica britannica respingono ogni invito a ripensare le loro scelte, che pure dimostrano di non dare i risultati sperati, sostenendo che ogni cedimento in materia di austerità porterebbe a un'impennata del costo del denaro.

Oggi viviamo in un mondo governato da un'economia politica-zombie. La constatazione dell'erroneità di tutte le sue premesse avrebbe dovuto ucciderla; e invece continua ad arrancare sulla stessa strada. E nessuno può sapere quando questo regno dell'errore avrà fine.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

il manifesto

Un paese al cemento

di Paolo Berdini

Nimby forum è un sito molto istruttivo. Combatte come un sol uomo contro la cultura dell’egoismo di un paese che vuole ostacolare lo sviluppo, la crescita e il progresso. Chissà se troveranno il coraggio per commentare i primi dati provvisori del censimento Istat 2011 da cui emerge che nel decennio 2001-2011 l’Italia è stata invece riempita di cemento e asfalto, altro che nimbi.

Afferma l’Istituto di statistica che a fronte di un incremento della popolazione di circa 2,5 milioni di persone nel decennio 2001-2011 – all’incirca 1 milione di famiglie, visto che l’indice medio è di 2,4 persone per ogni famiglia- le abitazioni costruite sono state un milione e 571 mila. Sono stati dunque realizzati circa 400 milioni di metri cubi di alloggi. L’Istat non ci dice a quanto ammonta il segmento non residenziale, ma girando l’Italia, tutti noi possiamo però misurare a colpo d’occhio l’impressionante numero di outlet, ipermercati e centri commerciali. Ad essere prudenti si tratta in totale di un miliardo di metri cubi di cemento in dieci anni!

Nimby forum disegna un’Italia che esiste soltanto nella loro monocultura malata. Ciò che si evidenzia è invece un paese in preda ad una febbre speculativa senza precedenti. Esistono quasi 29 milioni di abitazioni: 24 milioni quelle occupate e 4 milioni e novecento mila quelle “vuote”. Le famiglie italiane sono complessivamente 24 milioni e 512 mila: un numero pressoché uguale a quello delle abitazioni occupate. Ma se consideriamo che una buona percentuale degli stranieri abita spesso senza contratto per volontà di proprietari senza scrupoli, il numero degli alloggi occupati aumenterebbe ancora, superando di molto il numero della famiglie residenti. E’ evidente che non c’è più nessun motivo per costruire nuove abitazioni e che è sempre più indispensabile avviare politiche di ristrutturazione urbana senza espandere più le nostre ipertrofiche città. Basta con la crescita urbana, congeniale soltanto agli appetiti dei fondi finanziari di investimento.

C’è poi un altro dato su cui è opportuno riflettere. Per commentarlo l’Istat stesso usa l’aggettivo “sconvolgente”. Si tratta dell’aumento delle famiglie che vivono in baracche, roulotte o in alloggi di fortuna: erano poco più di 23 mila nel 2001; oggi sono più che triplicate raggiungendo la cifra di 70 mila. In questo decennio ci hanno raccontato la storiella che bisognava cancellare il governo pubblico delle città e del territorio perché era un arnese inservibile e fallimentare. Sarebbe stato il “mercato” a risolvere tutto.

Ecco i risultati. La precarietà estrema riguarda oltre 200 mila cittadini italiani e se ad essi aggiungiamo le vittime del gigantesco fenomeno di espulsione urbana che ha riguardato milioni di cittadini costretti a trasferirsi verso periferie metropolitane sempre più lontane e invivibili, il quadro è completo. Il trionfo del liberismo selvaggio ha prodotto fenomeni di precarietà senza precedenti. Processi analoghi ai fenomeni che hanno distrutto la tutela del lavoro: le città, gli storici luoghi della convivenza sociale sono state cancellate dal fondamentalismo liberista.

E non è finita. Il peggio deve ancora arrivare. Il Politecnico di Milano ha svolto per conto della Cisl lombarda una ricerca sullo stock di abitazioni nuove invendute esistenti in alcuni capoluoghi e quelle prevedibili sulla base degli sciagurati progetti di cementificazione già decisi. A Brescia (191.000 abitanti) ci sono oggi 56 mila abitazioni invendute. Ce ne saranno 107 mila nel 2018. Un’altra città fantasma costruita intorno a quella esistente! A Bergamo (115 mila abitanti) ci sono oggi 58 mila abitazioni vuote e al 2018 saranno 135 mila: oltre il doppio della città esistente.

Questi dati non li troverete sul sito Nimby forum, troppo impegnato a propugnare la cancellazione di ogni ulteriore regola del vivere civile. Dimenticavamo. Tra i sostenitori del sito c’è –e chi poteva dubitarne- il Consorzio Venezia Nuova, inflessibile realizzatore del Mose di Venezia. In questo caso, purtroppo, nonostante sacrosante e motivate proteste non è scattata la fatwa del nimby e l’opera inizia purtroppo ad apparire in tutto il suo tragico orrore. Stanno distruggendo per sempre la laguna veneziana. E’ ora di fermarli.

La Repubblica

Tra baracche e cemento l'autoritratto della nuova Italia

di Michele Serra

PROVANDO a immaginare il quindicesimo censimento degli italiani come una gigantesca fotografia aerea, forse il primo colpo d'occhio, il più evidente, è che rispetto al 2002 c'è un aumento molto consistente degli edifici censiti: oggi sono 14 milioni e rotti, l'undici per cento in più in soli dieci anni. Nello stesso periodo la popolazione è cresciuta solo del 2,5 per cento: siamo 59 milioni e mezzo. Anche se le statistiche sono una lingua che chiede di essere tradotta con molta circospezione, questi due dati, incrociati, sembrano dare ragione a chi denuncia una cementificazione indiscriminata e immotivata (o motivata solo dalla speculazione) del nostro territorio. Gli edifici sono aumentati di una percentuale quattro volte più grande rispetto all'aumento degli umani. E nel paese dei mille borghi abbandonati, dei centri storici svuotati, della superfetazione delle villette a schiera che vanno a smarginaree confondere il confine tra città e campagna, i dati del nuovo censimento aiutano a capire che la gestione del territorio è una delle questioni più gravi e irrisolte.

Il secondo colpo d'occhio vede triplicati, in dieci anni, i residenti stranieri. Sono 3 milioni e 769 mila, ed è il loro arrivo (e la loro forte natalità) ad avere compensato la pigrizia demografica di noi italiani indigeni. Sono, gli immigrati, il solo vero elemento di percepibile dinamismoe di mutamento socialee culturale di un paese altrimenti "fermo" (a parte il fiume di cemento...).

LA FAMIGLIA

Rosaria Di Guglielmo e i suoi tre bambini sono stati accolti nel campo rom di via Bonfadini, nella periferia Sud di Milano vicino all'Ortomercato Gli edifici sono aumentati in modo impressionante e così le case Sono state create aree di nuova urbanizzazione con quartieri fantasma senza servizi STA alla lettura e all'ideologia di ognuno, naturalmente, decidere se questa "contaminazione" dall'esterno sia minacciosa o promettente. Certo è un fenomeno oramai strutturale (gli stranieri erano il 2,4 per cento della popolazione totale nel 2002, oggi sono il 6,34), e così "italiano" che risulta difficile, per chi ha meno di quarant'anni, immaginare o ricordare un'Italia senza stranieri, senza asiatici, africani, slavi, arabi.

Il censimento, per altro, conferma in modo inoppugnabile che l'immigrazione è anche un termometro implacabile del benessere economico di un territorio: due stranieri su tre vivono nel Nord Italia, nelle regioni dal reddito più alto e dal tessuto economico più sviluppato. L'assenza di immigrazione è segno chiarissimo di gracilità economica. Anche questo dovrebbe insegnarci ad accogliere gli stranieri, quando bussano alla nostra porta, come una buona notizia.

Terzo colpo d'occhio: il cambiamento delle famiglie. Il loro numero è aumentato (i nuclei familiari censiti sono circa 2 milioni e mezzo in più rispetto al 2002), ma le dimensioni sono più ridotte: 2,4 il numero medio dei componenti (era 2,6 dieci anni fa). Influisce fortemente sul dato la frammentazione del concetto stesso di famiglia: le famiglie allargate sono illeggibili dalle statistiche, ma si moltiplicano con il forte aumento di separazioni e divorzi. Così che il concetto stesso di "nucleo familiare" perde progressivamente senso, e i 2,4 componenti di ogni nucleo non riflettono la densitàe la varietà dei rapporti, anche coabitativi, tra persone non più facilmente definibili come membri di questo o quel nucleo. Si pensi, per esempio, ai tanti figli di separati che sono censiti in una sola casa, ma vivono abitualmente in due case. Quarto e ultimo colpo d'occhio: sono aumentati in modo esponenziale, rispetto al censimento di dieci anni fa, i residenti in Italia che dichiarano di abitare in baracche, roulotte o tende. Da 23 mila a 71 mila. È uno dei contraccolpi più vistosi, anche se quantitativamente meno rilevanti, dell'immigrazione, dell'aumentato ingresso di nomadi e dunque di poveri, che ci rimettono di fronte a immagini anche estreme di indigenza e di disagio sociale.

Un piccolo grande cortocircuito storico, che rende a noi coeve situazioni da dopoguerra, rifugi di fortuna e villaggi di lamiera che sorgono nel fango e tra le erbacce delle periferie urbane, questua diffusa, grande difficoltà di integrazione e di scolarizzazione. L'Italia è stata, per moltissimi arrivati da lontano, un approdo dignitoso e un progetto di vita. Per pochi è un parcheggio precario, una parentesi di stenti. È importante, ed è anche civile, che il quindicesimo censimento nazionale sia una fotografia così grande, e così minuziosa, da essere riuscita a inquadrare anche le baracche, i camper arrugginiti, i tetti di lamiera, le vie di terra battuta dove i bambini giocano con niente, come è pratica diffusa nelle infinite lande povere del pianeta.

A chi in Cgil dice che grazie alle battaglie sindacali si è raggiunto un buon compromesso sull'art. 18 e dunque tutti dovrebbero essere contenti, in molti in Fiom rispondono: «Gli scioperi li abbiamo fatti noi, ora vorremmo essere liberi di decidere se essere o non essere contenti». Il segretario generale dei metalmeccanici Cgil, per esempio, non è contento, anzi è piuttosto incazzato. Il giudizio di Maurizio Landini è molto negativo, sia sull'art. 18 – «di fatto cancellato» – che sugli ammortizzatori sociali. Per non parlare della precarietà «che con questo disegno di legge rischia addirittura di aggravarsi. Siamo il paese più precario d'Europa». Insomma, un disastro dentro una crisi globale a cui il liberismo perdente ma imperante sta rispondendo con ricette che invece di guarire l'ammalato lo ammazzano. Basti pensare che il Fondo monetario internazionale è preoccupato che nel 2050 la vita degli umani possa allungarsi di tre anni, ipotesi valutata «troppo rischiosa».

Landini, quanta quota di pil e quanti punti di spread vale la sterilizzazione dell'art. 18?


L'unica riduzione garantita da questa non-riforma, qualora venisse varata dal Parlamento senza radicali modifiche, sarebbe la riduzione dei diritti e la totale svalorizzazione del lavoro, ridotto a pura merce. Non aumenterà i posti di lavoro ma li diminuirà, non ridurrà la precarietà ma l'accrescerà e riduce la tutela degli ammortizzatori sociali. Un modo disastroso di rispondere alla crisi, così come disastrosa è stata la riforma delle pensioni. Siamo di fronte a un intervento sul mercato del lavoro in cui i sacrifici di chi lavora vengono presentati come necessari per sostenere i più deboli, i precari. Invece, non una delle 46 forme contrattuali presistenti è stata mandata in soffitta. Aggiungi che i contratti a termine vengono ulteriormente liberalizzati, grazie all'introduzione da parte del governo Monti del trattamento speciale riservato ai lavoratori «svantaggiati» affittati dalle agenzie interinali alle aziende con uno sconto del 20% sulle tabelle contrattuali.

Come valuti le modifiche degli ammortizzatori sociali?


Le giudico male, perché ancora una volta è negata la loro estensione universale. A fronte della cancellazione della mobilità si introduce l'Aspi, un sostegno ridotto nel valore e nella durata da cui sono esclusi i lavoratori intermittenti, tranne chi ha la fortuna di aver lavorato almeno 52 settimane in due anni. E si riduce la tutela oggi garantita dalla cassa integrazione, interamente cancellata nei casi di fallimento e chiusura.

Ma il problema dei problemi si chiama ancora art. 18.


La modifica che si vorrebbe attuare è grave e, per noi della Fiom, inaccettabile. Lo sbandierato recupero del «reintegro» non è che un miraggio, per noi deve restare un diritto: un licenziamento ingiusto non può essere semplicemente risarcito come avverrebbe nel 99% dei casi se il testo venisse varato così com'è dal parlamento. Si peggiorerebbe addirittura la condizione di chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti e la dichiarazione delle motivazioni economiche dei licenziamenti collettivi da parte dell'impresa non sarebbe più obbligatoria. Salterebbe persino l'indennità. Per tutte queste ragioni i metalmeccanici hanno scioperato e la Fiom è convinta che la lotta debba continuare. Serve un grande impegno per riunificare i soggetti colpiti dalla crisi: lavoratori dipendenti, precari, giovani, pensionati. Va in questa direzione l'appello che la Fiom ha lanciato ai delegati e alle delegate, ai giovani, ai precari, ai disoccupati e agli inoccupati per l'assemblea aperta che si è tenuta sabato prossimo a Bologna, a Palazzo Re Enzo in piazza Maggiore.

Peccato che la Cgil si muova su un'altra lunghezza d'onda.


Ne parleremo al direttivo confederale del 19, dove io ripeterò quel che sto dicendo a te. Sul mercato del lavoro e la precarietà i giudizi della Fiom e della Cgil collimano. Diversa è la posizione sull'art. 18. Ci batteremo per strappare modifiche sostanziali, come chiedono tutti i nostri operai che in questi giorni hanno scioperato e continuano a scioperare in difesa dello Statuto dei lavoratori. Aggiungo che il sindacato deve aprirsi al mondo della precarietà e della disoccupazione e il modo più efficace è la conquista, in discussione anche in Europa, di un reddito di cittadinanza per tutelare chi non lavora o si trova in un limbo occupazionale che potrebbe rapidamente trasformarsi in un inferno. Il senso dell'assemblea di sabato è la riunificazione dei diritti contro le fasulle divisioni tra presunti garantiti e non garantiti. Bisogna creare investimenti finalizzati a una ripresa dell'occupazione nella direzione di un diverso modello di sviluppo e di mobilità che siano socialmente ed economicamente compatibili.

In Europa non si discute solo di reddito di cittadinanza ma anche di come imbrigliare il diritto di sciopero. Sulla base della relazione fatta da Monti per Barroso (nota come Monti-2), Strasburgo potrebbe far arretrare di mezzo secolo quel che resta del modello sociale europeo.


Servirebbe una risposta sindacale europea all'altezza dello scontro, che al momento non si vede. Da noi è chiaro a tutti che Monti obbedisce in tutto e per tutto alla lettera della Bce con il taglio alle pensioni, al welfare e ai diritti. Sbaglia chi definisce tecnico questo governo che vuole ridurre il lavoro a merce. Al contrario, si dovrebbero tassare le rendite, introdurre la patrimoniale, investire su uno sviluppo e una mobilità basate sul buon lavoro e il rispetto ambientale.

La Fiat chiude l'unica fabbrica italiana di autobus e vola all'estero. Marchionne investe ovunque, persino in Argentina, tranne che in Italia.


La Fiat è in fuga. Importa in Italia dagli Stati uniti un modello di relazioni sindacali e sociali corporativo ed esporta ricerche, investimenti, stabilimenti e lavoro. E il «tecnico» Monti che fa? applaude al diritto delle imprese a fare quel che vogliono e a produrre dove conviene loro di più. Questo processo va avanti in un vuoto di democrazia, con gli operai che non possono più scegliersi i delegati né votare gli accordi e i contratti che riguardano la loro vita e il loro lavoro, mentre Marchionne chiude le porte di Pomigliano a chi ha la tessera Fiom e quelle di Melfi ai tre lavoratori di cui il giudice ha ordinato il reintegro. Per questo la mobilitazione deve continuare. La Cgil ha indetto un pacchetto di ore di sciopero e una mobilitazione a cui la Fiom parteciperà con i suoi contenuti, quei contenuti che sono stati votati all'unanimità dal Comitato centrale.

All'assemblea di Bologna hai annunciato nuove iniziative nei territori insieme ai precari, agli studenti, ai movimenti. Come pensate di articolare questo confronto?

La strada imboccata dal cosiddetto governo tecnico non solo non avvia un superamento della precarietà ma la istituzionalizza, a costo di rimettere in discussione leggi in vigore dal 1966 e lo stesso Statuto dei lavoratori. A Bologna abbiamo detto con chiarezza che si devono riunificare gli obiettivi e le battaglie finalizzate a garantire, e se mai dovesse passare questa «riforma» del mercato del lavoro a riconquistare, i diritti e le libertà sindacali e dei singoli. Intendiamo avviare un'offensiva in difesa della democrazia per restituire ai lavoratori il diritto di votare sugli accordi e sui contratti e di eleggere liberamente i propri rappresentanti. In ogni territorio porteremo avanti il confronto con tutti i soggetti sociali che vi agiscono, e con singole persone, precari o intellettuali che siano che sentono il bisogno di una vera riforma del mercato del lavoro. Poi abbiamo deciso una una giornata nazionale di mobilitazione per il 20 maggio che è l'anniversario dello Statuto dei lavoratori, nato appunto il 20 maggio del 1970. Sarà una giornata di lotta per i diritti e contro la precarietà.

Quali caratteristiche dovrebbe avere la riforma che ritenete necessaria?

Al primo posto c'è l'estensione dei diritti, delle tutele e degli ammortizzatori sociali a tutti, lavoratori regolari, a prescindere dalla dimensione della loro azienda, e precari. La retribuzione, l'orario di lavoro, la sicurezza devono essere le stesse per tutti quelli che svolgono la medesima mansione, che siano a tempo determinato, a termine, in affitto e via precarizzando. Il governo Monti non ha fatto una riforma ma soltanto dei tagli. L'unica cosa che avrebbero dovuto tagliare – le 46 forme contrattuali ereditate dai governi precedenti – è rimasta identica. Addirittura si vogliono facilitare i licenziamenti e consentire ai padroni di cavarsela con un contributo economico. Io continuo a pensare che se un giudice dichiara illegittimo un licenziamento, quella vittima di un'ingiustizia dev'essere rimessa al suo posto di lavoro e non risarcita con qualche mensilità. Infine la Fiom ritiene che anche in Italia, come in molti paesi europei, vada introdotto un reddito di cittadinanza. Sono obiettivi, questi, che meritano attenzione e un impegno straordinario da parte della Cgil. Io continuo a pensare che sarebbe giusto utilizzare le ore di mobilitazione annunciate dalla mia confederazione per promuovere uno sciopero generale nazionale. In ogni caso la Fiom non accetterà mai la cosiddetta riforma Monti-Fornero se dovesse passare in parlamento così com'è stata proposta dal governo. E siccome anche il governo tecnico avrà una sua fine, qualunque governo arriverà dopo Monti dovrà fare i conti con la determinazione della Fiom.

18 aprile 2012

L'ippica spolpata è pronta a essere raccolta dalle immobiliari italiane, a caccia di nuove terre da cementificare. L'unico progetto ufficiale presentato al governo per salvare uno sport in pre-default è quello che consentirà ai poteri forti di questo mondo, le tre grandi concessionarie di scommesse, di potare i rami secchi mandando a casa una parte consistente dei 67 mila lavoratori impegnati tra ippodromi e scuderie per passare, poi, a spartirsi i proventi dei casinò che entreranno negli ippodromi sopravvissuti. Il terzo passaggio del progetto è quello di liberare terreni metropolitani per la speculazione di domani: nuovi quartieri sugli impianti abbandonati, centri commerciali, aree per tifosi del calcio, luoghi per il fitness. L'operazioneè stata avviata lo scorso autunno dal conte Guido Melzi d'Eril, erede di nobile famiglia milanese. È riuscito a definire il "business plan" e, in parallelo, a orchestrare lo sciopero dell'ippica: 41 giorni di serrata in inverno, un suicidio pilotato.

Ma quanto vale l'ippica italiana? E chi se la sta comprando? Ancora lo scorso dicembre in Italia lo sport dei cavalli garantiva entrate per 240 milioni. Oggi un nuovo soggetto composto dai gestori di scommesse Snai-Sisal-Lottomatica e da Hippogroup, proprietari di cinque ippodromi guidati dal conte Melzi d'Eril, ha in mano l'assegno ridotto per l'acquisto del settore intero: 100 milioni. La nuova Lega ippica italiana, 5800 imprese ludiche alle spalle, ha chiesto un incontro con il viceministro dell'Economia, Vittorio Grilli, e la benedizione del ministro dell'Agricoltura, Mario Catania, in gioventù giudice di corsa a Roma Capannelle. Il piano industriale (e confindustriale) prevede che i 42 ippodromi esistenti diventino 15. Entro dodici mesi. Saranno i tre concessionari storici a gestire le declinanti scommesse ippiche, da rinvigorire grazie alla calamita delle slot machine installate nei circuiti sportivi. Da settembre 2012 lo stesso Moloch del gioco d'azzardo - sul territorio controlla videolotteries e poker online - sarà il promotore-tesoriere delle scommesse sui cavalli virtuali, approvate in tutti i rami politici.

La Lega ippica italiana, si legge nella "Proposta per il rilancio del settore", alla fine della trasformazione sarà proprietaria di dodici-tredici dei quindici ippodromi che continueranno a ospitare gare e rileverà, in un'orgia di concentrazione, i più delicati compiti tecnici da sempre assegnati all'Unire, ente pubblico cancellato. Per stilare i calendari e pagare i premi, organizzare privatamente l'antidoping e scegliere le giurie, i nuovi gestori saranno retribuiti. Per i primi tre anni dallo Stato, poi, assicurano, dal mercato.

L'associazione di imprese ha già chiesto 300 milioni pubblici a stagione, quando alla "vecchia ippica" quest'anno ne sono arrivati 39,7. E sta fissando le tariffe per i servizi offerti. L'Assogaloppo, imprenditori critici, ha scritto una lettera contro il progetto: «L'ippica morente ringrazia il ministro Catania e gli ippodromi d’élite sempre più collusi con i concessionari: hanno ridotto l’ippica e un intrattenimento per i casinò»

LA COLATA SU PISTE E SCUDERIE

Il progetto "taglia e privatizza" avvicina l'ippica alla deregulation della Formula Uno. Sei 42 ippodromi storici dell'horse racing diventeranno un terzo, e già tredici li avevamo persi negli ultimi dieci anni, i restanti 27 saranno liberati da ogni vincolo di concessione e con i loro ettari posizionati nelle aree migliori delle città si offriranno ai cambi di destinazione d'uso. Nel "plan" si parla apertamente di riconversione o rottamazione degli impianti. L'agenzia Snai, che controlla tre strutture più il prezioso San Siro, sta cercando un accordo con Milan e Inter per collegare lo stadio Meazza alle tribune del suo ippodromo dimezzato. I club di calcio sui 131 mila metri confinanti vogliono offrire negozi, ristoranti, poker online ai loro tifosi-clienti, le corse di trotto saranno trasferite a Torino. A Montecatini, impianto stagionale, è previsto un centro commerciale al posto dei parcheggi. L'ippodromo di Padova ha spostato le sue corse a Treviso mentre un gruppo di imprenditori nordestini, Newcom, ha offerto 18 milioni per l'acquisto di Ponte di Brenta e delle attività connesse: ristorante, hotel, piscina.

Vogliono far nascere un centro dell'intrattenimento ludico per l'intero Veneto. Ancora, lo sviluppo dell'ippodromo delle Bettole da parte della Società varesina incremento corse cavalli (la casa madre è ancora Hippogroup) passa per l'abbattimento delle scuderie e un intervento di edilizia residenziale.

Non sempre la fine di un impianto significa nuovo cemento. Firenze Mulina tornerà parco protetto, per l'ippodromo di Follonica c'è un piano di urbanistica sostenibile, l'area di Foggia è al centro di una riconversione ecologica.

A Roma Tor di Valle invece, quinta del celebre film "Febbre da cavallo", la famiglia Papalia e il palazzinaro Parnasi trasformeranno i 420 mila metri quadrati dedicati al trotto in un quartiere residenziale con centro commerciale iper. A Firenze Cascine, Varese e Montecatini gli spazi di sosta e allenamento dei cavalli sono stati cancellati. Sulle aree degli ippodromi italiani, ecco, è in corso una grande operazione di riassetto immobiliare. Sono appetite da molti, a partire dai fondi d'investimento - Clessidra, Axa, Permira, Bonomi - che nelle ultime stagioni hanno preso il controllo dei concessionari dei giochi. È cambiata la natura dei "gestori". Prima si dedicavano solo alle scommesse, ora sono pronti a investire i grandi flussi di contante che le scommesse garantiscono su nuovi canali: terreni e mattone.

Perché una disciplina storica è sull'orlo del crac? E per colpa di chi? L'ippica di Ribot e Varenne, da gran premio e da esportazione, ci ha messo vent'anni, gli ultimi, per autodistruggersi.

Il penultimo ministro, il Responsabile Francesco Saverio Romano, che a Palermo deve difendersi dall'accusa di aver protetto la latitanza di Bernardo Provenzano (è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione aggravata), nel tardo 2011 ha pilotato contro la vecchia ippica un taglio lineare tremontiano: 150 milioni, ossigeno puro. In contemporanea ha chiuso l'Unire (Incremento razze) e l'ha sostituito con l'Assi, Agenzia per lo sviluppo del settore ippico. Nove mesi dopo, non avendole dato statuto né regolamenti, l'agenzia è un'istituzione inerme.

GLI UOMINI DELL'EX MINISTRO

Con la sua opera demolitoria, Romano ha sottratto all'ippica anche il controllo delle giocate. «La devoluzione dei compiti connessi all'organizzazione delle scommesse», si legge nel decreto firmato, «va all'Aams». Tutto in mano ai Monopoli di Stato e alle sue concessionarie (Snai, Sisal, Lottomatica), che hanno contribuito alla crisi dello sport facendogli crescere intorno giochi più remunerativi. L'ex ministro, che possiede un'immobiliare di famiglia e ha quote in altre due, ha nominato un plotone di uomini fidati in punti cardine. Tre medici, un avvocato e un commercialista a UnireLab srl, il laboratorio antidoping. Quaranta legali, molti siciliani, tra la procura e le due commissioni disciplinari. Per chiudere, Romano ha messo alla guida dell'Assi Francesco Ruffo della Scaletta, altro sangue blu dell'ippica italiana. Il nuovo segretario generale ha organizzato la carriera di Varenne ed è stato manager di lungo corso della Snai, "il concessionario". Infatti, non ha lottato un minuto per mantenere le scommesse negli uffici pubblici. Per 39 giorni Ruffo è stato dirigente Snai attività ippiche e sub commissario Unire tenendo sullo stesso palmo la gestione privata delle puntate e il controllo pubblico del carrozzone.

Dal 2003 al maggio 2011 è stato nel Consiglio d'amministrazione della Hippogroup Roma Capannelle spa e presidente-amministratore-consulente della Trenno spa. Ecco, la Trenno è la società che gestisce per conto Snai l'ippodromo di San Siro, di cui abbiamo vistoi progetti calcistici. Hippogroup, invece, controlla cinque impianti pubblici e privati e sta spingendo l'ippica agonistica nell'era degli ippodromi allestiti come astronavi del gioco. Il nuovo segretario, sì, sembra realizzare il mandato dell'ex ministro Romano: smagrire l'ippica italiana e consegnarla ai privati più forti, gli amici Snai-Sisal.

Il lavoro grosso, d'altronde, l'aveva fatto l'amico Guido Melzi d'Eril, già commissario-presidente-segretario dell'Unire. Smessi gli abiti pubblici, oggi amministra il ramo torinese di Hippogroup. Controlla Capannelle, dove Ruffo è stato consigliere e dove in quota c'è Snai. Le carriere imprenditoriali di Ruffo e Melzi D'Eril si erano incrociate nella Lexorfin, cassaforte degli ippodromi Hippogroup. Insieme, ora, stanno sfilando l'ippica dalle mani di allevatori e driver per consegnarla deprezzata ai giganti del gioco. E campare di rendita con il suo simulacro.

Merito a parte, la proposta di revisione costituzionale che i maggiori partiti presentano assieme è l´emblema di una "nuova" centralità del Parlamento (a volte ritorna). E´ anche il più eloquente simbolo di una comune volontà di disincagliare la nave: il linguaggio dei segni conta moltissimo in politica. Conta però anche la realtà: questa volta fatta dei tempi tecnici che sono troppo stretti per concludere entro la fine della legislatura. Se però si è riusciti a tanto - a concepire insieme una riforma di norme costituzionali importanti - forse (forse) si può riuscire a fare alcune cose indispensabili per attuare e democratizzare la Costituzione, senza cambiarla e, quindi, in tempi possibili.

Nella nostra Costituzione la democrazia non è una cosa semplice e astratta. E´ cosa complessa e concreta. Una cosa che ha più forme. La democrazia rappresentativa ("ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione": art. 67). La democrazia dei partiti ("per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale": art. 49). La democrazia civica partecipativa (la "effettiva partecipazione" all´"organizzazione politica, economica e sociale del Paese: art. 3). La democrazia dell´azione giudiziaria ("tutti possono agire in giudizio": art. 24). La democrazia elettorale ("sono elettori tutti i cittadini": art. 48).

Non sono forme alternative o sussidiarie o opzionali. Sono forme tutte necessarie e connesse l´una all´altra. L´una spiega e giustifica l´altra. Se una manca, una sola, la Costituzione non è una costituzione democratica.

Ognuno vede che nella situazione attuale gli appelli al costume, all´etica, alla moralità, al cambiamento di vita rivolti ad un mondo politico in gravi difficoltà nel capire e nell´agire sono nobili parole al vento, prediche inutili. L´unica pressione sensata deve essere quella di indicare le vie praticabili per democratizzare la Costituzione, per attuarla. Con norme che ne recuperino il suo senso originario di legge fondativa fatta per i cittadini e ne impediscano il tradimento, contro i cittadini.

Questo stesso Parlamento che sta obbedendo a vincoli esterni, talora venati di fideismo e simbolismo, per salvare l´economia, può essere capace di trovare in questi ultimi suoi mesi di vita, lo scatto per obbedire a vincoli interni che già sono in Costituzione e che i fatti, e non solo le opinioni, dicono non più aggirabili. I tradimenti della Costituzione sono infatti sotto gli occhi di tutti, nella loro micidiale concatenazione antidemocratica. Così come sono ormai noti i rimedi che sono possibili subito. Per attuare la Costituzione, prima ancora di cambiarla in qualcosa.

Tradisce la Costituzione un funzionamento del Parlamento che non dà al governo procedure"pulite" per realizzare il suo programma, in tempi "europei". Ma che non dà neppure all´opposizione la possibilità di porre questioni di libertà davanti alla Corte Costituzionale (basterebbe cambiare i regolamenti parlamentari e una legge ordinaria del 1953, per fare queste cose).

Tradisce la Costituzione, l´andazzo di partiti operanti fuori dalla legge, senza rispetto per il comune metodo democratico interno e senza riscontro esterno sui soldi pubblici che ricevono (basterebbero poche norme ordinarie, anche più semplici di quelle già proposte, per il controllo dei giudici sulle regole di base e quello della Corte dei Conti sulla destinazione d´uso del danaro dei contribuenti).

Tradisce la Costituzione la mancanza di norme che vincolino il Parlamento a prendere sul serio le iniziative dei cittadini: non per un assurdo abbandono della democrazia rappresentativa ma per assicurarne l´ancoraggio continuo ai bisogni oggettivi della società (e basterebbe anche qui una modifica vincolante dei regolamenti parlamentari).

È tradimento dalla Costituzione - oltre che dell´economia - la abnorme durata dei processi civili e penali che annulla di fatto il diritto democratico alla giustizia. La responsabilità personale dei giudici dovrebbe essere fatta valere per questo eccesso di tempi e non (com´è perversa ipotesi) per le loro sentenze. E distoglie da questa vitale questione chi vorrebbe che i giudici non potessero colpire il malaffare del Potere mostrando subito le prove che hanno in mano: prima di essere sopraffatti dal volume di fuoco degli indagati potenti.

Tradisce la Costituzione una legge elettorale che consegna la scelta dei parlamentari non alla Nazione che devono rappresentare e che li deve eleggere ma al gruppo dirigente di partiti senza regole. Certo, ogni democrazia ha bisogno di un governo che possa governare e di un Parlamento che possa obbedire agli interessi nazionali, senza mandati personali "vincolanti" (se così non fosse, se vi fosse una frammentazione individualistica del rapporto Parlamento-corpo elettorale, quale mai maggioranza alle Camere potrebbe sostenere, per esempio, un governo come l´attuale?). Ogni democrazia ha bisogno di partiti politici che, nella babele di una società civile in preda alle emozioni e informazioni più contraddittorie, sappiano interpretare, fare emergere, guidare le correnti d´opinione che rispondono ad una visione generale di destino del Paese. E fondare su di esse, e non su vincoli padronali, la "disciplina" di gruppo in Parlamento (art. 54 Cost.). Ma è mai possibile che, per calcoli fondati sul nulla (la forma di governo dopo le elezioni del 2013 non è seriamente prevedibile e neppure coartabile) stenti tanto a nascere una legge che equilibri queste esigenze con quella di rendere visibili agli elettori, con le loro facce, tutti i candidati: da soli o in liste brevi nei collegi?

C´è, come si vede, un incrocio permanente, un bilanciamento fra quattro o cinque cose puntuali che sono necessarie e urgenti, come lo è stato l´aumento delle tasse. Ma che, in un certo preciso senso, lo compenserebbero: con la crescita del peso e dell´autostima dei cittadini, quelli che oggi minacciano di rifugiarsi nel rifiuto elettorale.

C´è tutto il tempo che occorre, se non si inventano falsi ostacoli "giuridici", per queste semplici cose essenziali, che non richiedono revisioni costituzionali. E per tirare un bilancio politico del governo "tecnico".

Postilla

Forse, tra i tradimenti alla Costituzione della “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, ci sono anche quelli che si vogliono operare con leggi eversive, quale quella che rende le fabbriche luoghi dai quali la democrazia è espulsa.

Non considero così irrilevante il risultato del primo turno delle elezioni presidenziali francesi come lo giudicano Marco d'Eramo e Daniela Preziosi. Certo è l'opposto della marmellata parlamentare italiana, dove tutti, salvo la Lega, accettano Monti e Fornero dopo qualche flebile tentativo di divincolarsene. La Francia è invece divisa almeno in due, destra e sinistra, e fortemente radicalizzata da una parte e dall'altra. Ma mentre i socialisti di Hollande e il Front de gauche di Mélenchon vanno uniti al secondo turno, le destre di Sarkozy e di Marine Le Pen sono aspramente divise.

Il Front National, al livello più alto mai ottenuto in una presidenziale - la figlia ha superato il genitore -, mira ad assai più che a portare sangue a Sarkozy, nonostante la corte sfrenata che egli ha fatto al suo elettorato e accentua da due giorni, «a destra tutta». La bionda e virulenta Marine non nasconde che punta a spaccare il partito del presidente e diventare la sola forte destra, e non ha cessato di impallinare Sarkozy, che è l'Europa di Bruxelles e il gemello di Angela Merkel, cioè il nemico principale. Darà la consegna di voto il primo maggio, quando i suoi si riuniscono tradizionalmente sotto il monumento di Giovanna d'Arco ma sembra che lascerà libertà di voto con un accento sull'astensione. Fra due mesi ci sono le legislative e ad esse punta.

Anche per Sarkozy sarà più facile tentare di demolire Hollande sulla spesa pubblica e la sicurezza che giocare la carta del protezionismo, che di Marine Le Pen è l'asso di cuori, quella che le ha permesso di pescare il voto operaio nel diluvio di delocalizzazioni, anche sfondando le sue roccaforti tradizionali a nord e sud. Sarkozy ha già ricevuto un ammonimento da Bruxelles preoccupata dalla crescita delle destre estreme; neanche la Merkel è entusiasta, sono entrate in comprensibile fibrillazione le associazioni ebraiche. I Le Pen, padre e figlia, sono poco digeribili per quella abbondante metà del paese che ha ancora sullo stomaco il petainismo. Insomma la libertà di movimento di Sarkozy ha dei limiti. Intanto si è inventato per il primo maggio una «festa del vero lavoro» che si contrapporrà al corteo dei sindacati.

Hollande non ha certo il temperamento di un rivoluzionario, ma è tenace, si è preparato, ha scelto come Mitterand la force tranquille ed ha ribadito fino all'ultimo il punto che allarma i mercati: non accetta il «fiscal compact» e rimetterà in causa l'adesione del passato governo.

Una cosa gli è chiara, che su quella linea alla Francia, che ha un deficit molto superiore al nostro (più basso in relazione al Pil) non resterebbe un quattrino per la crescita, e crescita e tagliare le unghie alla finanza sono i suoi argomenti più forti.

Sui quali sarà incalzato da Mélenchon, che rappresenta la vera novità: dai minimi cui era arrivato il Pcf è salito in poche settimane di calorose manifestazioni, affollate di giovani e operai, al 16 per cento nei sondaggi. Ne ha realizzato soltanto 11 e rotti, ma è un risultato senza pari per una sinistra radicale, che ha con sé anche il Pcf senza avergli concesso nulla.

Benché i media abbiano fatto di tutto per appaiare in antieuropeismo Mélenchon e la figlia di Le Pen, essi non si somigliano in nulla se non nel rifiuto del rigore. Mélenchon non è protezionista, non è xenofobo, il 1 maggio sfilerà con i sindacati. È insomma riapparso il fantasma di una sinistra radicale non gruppuscolare, che non entrerà al governo ma appoggia la candidatura di Hollande e si conterà nelle elezioni legislative che seguiranno a giugno. La nuova Assemblée Nationale sarà non poco diversa dall'attuale.

In verità il duo franco-tedesco che ha diretto quest'anno l'Europa senza alcuna legittimità sta subendo un fiero colpo. Se passa Hollande, se si considera che anche Angela Merkel è già meno forte, dell'Italia non si occupa nessuno, e che la apparentemente inossidabile Olanda è entrata in questi giorni in apnea, l'ipotesi più verosimile è che si incrina in Europa il fronte dell'austerità.

Farebbero bene a pensarci Bersani e D'Alema, dopo lo scacco dell'incontro con il Ps e la Spd. Le carte europee possono essere ridistribuite, e se non lo fa Bersani lo farà qualcun altro.

Le facoltà fondamentali del giudice del lavoro, di contemperamento dei poteri della parte più debole (il lavoratore) e di quella più forte (il datore di lavoro), fatte salve le ragioni di entrambi, vengono drasticamente limitate dal disegno di legge di riforma del lavoro, a partire da quelle che gli assegnava l´articolo 18. In tal modo i licenziamenti individuali e collettivi saranno resi ancora più facili. Sono questi gli esiti più negativi del ddl che il Parlamento dovrebbe cercare di attutire - sempre che non prevalga nella maggioranza la volontà di peggiorarli.

Prendere in esame le limitazioni delle facoltà del giudice a tutela del più debole apportate dal ddl è un efficace filo conduttore per non perdersi nelle 79 pagine di questo, per di più irte di dozzine di intricati rimandi a leggi preesistenti. A volte sembra che dette facoltà siano accresciute, ma a ben vedere quasi ovunque sono ridotte. Si prenda l´articolo 18, travestito in modo da apparire un parente della versione originale, ma in realtà radicalmente mutato. Il primo comma dei dieci che nel ddl sostituiscono i commi dal primo al sesto dell´articolo in questione attribuisce al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, in caso di licenziamento discriminatorio, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. Sulle prime questa parrebbe una novità meritoria, poiché da ogni parte si è sempre detto che l´articolo 18 si applica solo alle aziende con più di 15 dipendenti. E qualche voce del governo si è pure levata per far notare questa straordinaria innovazione a favore dei lavoratori. In verità si tratta di un dispositivo che ha più di vent´anni. La legge numero 108 del 1990 stabilisce infatti, all´articolo 3, che nel caso di licenziamento determinato da ragioni discriminatorie si applicano le conseguenze dell´articolo 18, cioè il reintegro nel posto di lavoro, quale che sia il numero dei dipendenti.

A una facoltà di vecchia data presentata come nuova si affianca, sempre nell´articolo 18 ristrutturato, la drastica riduzione della facoltà del giudice di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Nella precedente formulazione il giudice, a fronte di licenziamento intimato senza giustificato motivo, ordinava al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore. Il comma 7 del nuovo articolo stabilisce anzitutto che il giudice può, non deve, applicare la predetta disciplina. Stabilire che un giudice non già deve, ma - se crede - può applicare una certa disciplina, in questo caso il reintegro del lavoratore, significa palesemente indebolirlo. Se ha il dovere di prendere una certa decisione è difficile sottoporlo a pressioni perché non lo faccia. Mentre se la sua facoltà è solamente facoltativa - non è un gioco di parole - è possibile che prima venga sollecitato da ogni parte affinché la eserciti nel modo più favorevole all´una o all´altra parte, e poi sia oggetto di valutazioni negative quale che sia la decisione presa.

Tuttavia ciò che ancor più riduce la facoltà del giudice di decidere il reintegro è che esso può effettuarsi soltanto nell´ipotesi in cui egli accerti la "manifesta insussistenza" del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ovvero per ragioni economiche. Che sono quelle inerenti all´attività produttiva, all´organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, come dice la legge 604 sui licenziamenti individuali del lontano 1966. Qui il giudice che volesse procedere in senso favorevole al lavoratore si trova dinanzi a due ostacoli monumentali. Il primo è costituito dalle infinite ragioni di ordine produttivo, organizzativo e funzionale che un datore di lavoro può addurre per sostenere che quel tale licenziamento è giustificato. Il secondo ostacolo è la giurisprudenza. Un flusso ininterrotto di essa, consistente soprattutto in sentenze della Cassazione, ha infatti stabilito che le ragioni economiche addotte per un licenziamento sono insindacabili, in forza dell´articolo 41 della Costituzione per il quale l´iniziativa economica privata è libera. Un giudice ha facoltà di andare contro di esse soltanto nel caso remoto in cui, ad esempio, scopra nella motivazione o nei documenti esibiti come prova dall´impresa un falso clamoroso. Pertanto sapeva bene quanto si diceva il presidente del Consiglio allorché ha assicurato le imprese, subito dopo la presentazione del ddl, che "la permanenza in esso della parola reintegro è riferita a fattispecie estreme e improbabili".

La facoltà del giudice del lavoro di andare a fondo allo scopo di stabilire se le ragioni del licenziamento sono valide è altresì indebolita dall´articolo 15 del ddl, con l´aggravante che in questo caso si tratta di licenziamenti collettivi. Esso aggiunge all´articolo 4 di una legge del 1991 in materia di integrazione salariale, la 223, un periodo apparentemente innocuo: "Gli eventuali vizi della comunicazione [per l´avvio di procedure di mobilità perché l´impresa non è in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi] possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell´ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo." Diversi giuslavoristi hanno già commentato negativamente tale aggiunta. In effetti i vizi di una simile comunicazione possono riguardare innumerevoli e rilevanti aspetti di essa: i tempi, i contenuti, i documenti allegati, i riferimenti a date, luoghi e persone, l´interpretazione di leggi vigenti ecc. Che detti vizi possano venire sanati in anticipo da un mero accordo sindacale, piuttosto che sottoposti all´esame di un giudice che a fronte di essi ha la facoltà di invalidare eventualmente il licenziamento stesso, dovrebbe apparire inaudito anche a un non giurista.

Qualsiasi legge si compendia, alla fine, nelle facoltà che essa assegna al giudice di valutare le ragioni delle parti in causa e di decidere quale di esse debba prevalere. Nel caso della legislazione sul lavoro, questa deve certo badare a che la libertà di iniziativa dell´impresa sia salvaguardata, ma deve pure circoscrivere il rischio che la parte più debole sul piano economico, il lavoratore, non si trovi collocato automaticamente nella posizione più debole anche sul piano giuridico, al caso quando si trova davanti a un giudice. È quello che ha fatto per più di quarant´anni la legge 300 del 1970, lo Statuto dei lavoratori. Il ddl di riforma del mercato del lavoro, salvo modifiche in Parlamento, azzera i dispositivi più progrediti di tale legge, e nel limitare le facoltà giudicanti del giudice appare palesemente squilibrata a favore della parte più forte, l´impresa.

Basta davvero un refolo francese per dire che «il vento è cambiato in Europa», come sostiene Pierluigi Bersani? Che solo di una lievissima brezza si tratti, non v'è dubbio alcuno: aggregando i voti per i vari candidati, una solida maggioranza di francesi (almeno il 54%) ha di nuovo votato a destra, mentre la sinistra arriva al massimo al 44%. Dal primo turno delle presidenziali emerge un solo dato certo: che tre transalpini su quattro (il 73,3%) non ne possono più di Nicolas Sarkozy. Ma la sinistra, e in particolare François Hollande, non hanno saputo capitalizzare il rigetto di Sarkozy. Se perciò il 7 maggio il candidato socialista entrerà all'Eliseo, lo dovrà all'astensionismo degli elettori che al primo turno si sono riversati sul Fronte Nazionale. Da qui a parlare di una rinascita degli ideali socialisti in Europa ce ne corre. Tanto più che Hollande non è un nuovo Mitterrand, non ha presentato nessun Programma comune delle sinistre, come nel 1981, non promette di nazionalizzare nessuna banca o industria, o di prolungare di una settimana le ferie pagate (tutti impegni elettorali che Mitterrand invece mantenne). Sì è sempre tenuto sul vago. E sul tema centrale della campagna, la politica europea, si è distinto barcamenandosi. Per restare agli anemometri, qui non è né un refolo, né una brezza, tutt'al più uno spiffero.

Et pourtant. È bastato questo quasi niente a spingere in giù le borse (al calo ha contribuito non poco il cedimento della fin qui tetragona Olanda). Questo poco deve essere micidiale se, pur dopo un primo turno da cui il presidente è uscito battuto, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha insistito ieri nel suo appoggio a Sarkozy, mossa destinata a creare un incidente diplomatico se Hollande verrà eletto.

Deve essere ormai asfissiante per tutti la cappa del monopolio conservatore sull'Europa (Cameron, Merkel, Monti, Rajoy, Sarkozy) se anche un Giulio Tremonti ha ammesso che avrebbe votato Hollande e se anche fonti vicine al premier conservatore spagnolo Mariano Rajoy lasciano trapelare che non vedrebbero di malocchio un cambio di guardia all'Eliseo. Il fatto è che la destra europea sta strangolando il continente intero e qualunque pur minimo allentamento del cappio è una salvezza anche per molti nella stessa destra. Ben venga quindi l'arietta francese, sapendo però che non fischia nessun vento (anche se la bufera infuria).

È troppo semplicistico dire che i mercati sono crollati a causa della semi-vittoria di Hollande. La settimana scorsa erano pure crollati, per qualche altra ragione. È un bel po´ di tempo, almeno da luglio dello scorso anno, che ci siamo abituati a questa volatilità mozzafiato. E ogni volta si cerca ex post di trovare qualche ragione. Ora è la paura del socialismo: chissà, forse gli operatori sui mercati lo temono veramente, magari perché vedono la giustizia sociale come abbinata a nuove tasse, ma io non l´ho mai creduto neanche un momento. I mercati crollano oggi come ieri, e crolleranno ancora chissà quante volte, perché non è stato risolto il problema di una governance europea innanzitutto che esista, nel senso che si crei una struttura centrale in grado di dettare precise linee di azione, e poi che metta al primo posto i problemi della crescita e non dell´austerità a tutti i costi.

Altrimenti viviamo nella schiavitù dei mercati: quando crollano è come se chiedessero austerità, i governi magari ubbidiscono e poi dopo un po´ di tempo i mercati si accorgono che senza crescita le imprese non possono creare ricchezza, e allora i mercati crollano di nuovo. Tutto questo peraltro va nell´interesse degli speculatori: finché ci sarà questa volatilità esisteranno sempre ampie possibilità di guadagni per chi gioca con freddezza e spregiudicatezza sui mercati.

Il problema insomma non è Hollande. Va anche detto che pure Sarkozy negli ultimi tempi ha preso le distanze dalla rigidità della Merkel, l´asse franco-tedesco dava parecchi segnali di scricchiolio. Al punto che ora non so quanto il rinnovato appoggio della Merkel all´attuale presidente possa dirsi benaugurale: ho l´impressione invece che finirà col sottrarre voti a Sarkozy, una specie di consenso avvelenato, perché la Merkel sarà anche stimata dalle classi dirigenti ma non ha più un vasto consenso popolare, tantomeno in Francia. E quello che conta in un´elezione è il voto del popolo.

In ogni caso, Hollande è stato più chiaro e deciso: ha detto senza equivoci che il fiscal compact così com´è non va, e visto che dev´essere ancora ratificato si può, anzi si deve correggere in modo da orientarlo di più verso la crescita. Altrimenti l´Europa andrà a sbattere contro un muro. È questo il vero problema. Altrimenti si andrà avanti con una debolezza strutturale dell´Europa che inquina lo stesso rapporto fra politica e mercati. Il problema va preso molto sul serio. Nel momento in cui ci renderemo conto che i mercati tutelano la politica, sarà già troppo tardi, perché non ci sarà più spazio per la democrazia. E questo la popolazione non potrà mai tollerare in nessuna parte del mondo. Dunque la normalità è che siano i governi a tutelare i mercati. E i mercati a loro volta sanno che sono sottoposti al rischio di non poter sopravvivere senza l´aiuto dei governi. Questa è stata la grande lezione della crisi finanziaria: dire che bisogna cambiare il voto perché sennò si fa dispiacere ai mercati significa aprire una ferita nella democrazia.

(Testo raccolto da Eugenio Occorsio)

Entusiasmo, curosità e una coda lunghissima a Porta di Roma per l'attesa inaugurazione del secondo negozio della Mela. Tra le coreografie dei commessi in maglietta blu e la curiosità dei clienti 'normali' del centro commerciale a ridosso di Montesacro che guardano dall'alto della scala mobile il rito della tribù del Mac

Ci sono gli estremisti, i moderati e quelli che "stamo qui pè dà n'occhiata". L'apertura del nuovo Apple store di Porta di Roma, il secondo della capitale dopo quello di Roma est, ha richiamato come di consueto i fan più accaniti della Mela, in coda da ieri pomeriggio con tanto di zaino, sacco a pelo e occhiali da nerd. Poi ci sono i semplici appassionati, in fila 'solò dalle 7 di stamattina , regolarmente armati di iPhone, iPad e iPod e i curiosi, attratti dall'evento e dalla t-shirt data in dono per l'evento.

Alle 9.50 i ragazzi dello Store, con la maglietta blu e la mela bianca sul petto, si schierano davanti all'enorme porta a vetri chiusa. Al di là, i clienti-fan guardano incuriositi. Al via di un regista, anche lui in maglietta di ordinanza blu, parte il ballo: sulle note di una play list scatenata tutti si lanciano in una coreografia degna di 'Saranno famosi', mentre all'esterno il pubblico tiene il tempo, applaude e ammira la mela disegnata sui capelli di uno dei commessi-ballerini.

Poi tutti fuori a 'battere il cinquè e stringere mani, tra applausi, urla e cori da stadio ("Porta de Roma, aprimo Porta de Roma"), sotto lo sguardo divertito e un po' perplesso dei clienti 'normalì del centro commerciale a ridosso di Montesacro, che guardano dall'alto della scala mobile il rito della tribù del Mac. Dieci secondi prima delle 10 parte il count-down e quando si aprono le porte i primi due clienti vengono salutati da una ola di magliette blu.

Il grande Store, più ampio rispetto all'altro di Roma Est, in pochi minuti si riempie di persone di tutte le età. I commessi in doppia fila accolgono i nuovi clienti, e il loro "Ooohhh" di benvenuto andrà avanti per tutta la mattina.

Qui non si parla di cifre. I responsabili della Mela non si sbilanciano in previsioni, nè azzardano confronti con i volumi di affari del ''vecchio'' negozio né spiegano il perché della scelta di aprire i due Store nello stesso 'quadrante est' della capitale. Quello che è certo è che il negozio del centro commerciale Roma est aveva raggiunto un livello di affluenza di pubblico che, forse, cominciava a creare problemi di logistica, in particolare per i servizi di assistenza del Genius bar e dell'area start up. Altro dato certo è che la nuova iniziativa ha dato lavoro ad una novantina di ragazzi. E in un prossimo futuro, ma è un 'si dice', l'altro Store sarebbe destinato ad ampliarsi.

Ma sono problemi che, almeno oggi, non toccano i fan Apple, che emergono dal caos dell'inaugurazione con la faccia soddisfatta e una della mille maglietta-ricordo distribuite in un paio d'ore. Per molti di loro, quel logo della mela morsicata stampato sulla t-shirt, più che un brand è uno stile di vita.

Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» lascia volutamente scoperta la questione del programma perché ne affida l'elaborazione al processo di partecipazione democratica che intende innescare tanto all'interno del «soggetto nuovo» quanto nelle sedi di democrazia sia partecipata che rappresentativa che cerca di promuovere o rinnovare. Tuttavia, poiché «non c'è più tempo» per gli indugi, il problema va affrontato parallelamente al processo di costruzione delle nuove istanze, tenendo presente che l'elaborazione di un programma è un importante momento di autoformazione e di educazione alla cittadinanza. E, quindi, di superamento della dicotomia dirigenti/diretti e anche - forse - di quella privato/politico; ma è anche uno strumento di promozione, di generalizzazione e di collegamento delle lotte che sono all'origine, manifesta o latente, della domanda politica a cui il «Manifesto» intende dare risposta. Bene hanno fatto quindi Lucarelli e Mattei a dare inizio al dibattito sul programma (il manifesto del 17.04). Aggiungo questo mio contributo. Non ci troviamo di fronte a una «tabula rasa»: possiamo contare su una molteplicità di esperienze, di conflitti e di buone pratiche che hanno bisogno soprattutto di aver voce in un contesto più generale: cosa che finora è stata loro negata. Ma i nodi da sciogliere, o da non eludere, tra coloro che si riconoscono o si riconosceranno nel processo che il «Manifesto» intende promuovere sono molti.

Innanzitutto partecipazione vuol dire esercizio o rivendicazione di sovranità, in contrapposizione alla soggezione ai meccanismi di mercato e a quella corsa al ribasso delle condizioni di lavoro, del reddito, del welfare, della salute fisica e mentale che accompagna la globalizzazione. La strada per sottrarsi alla competizione senza tregua imposta dalla globalizzazione non è il protezionismo, bensì la riterritorializzazione dei processi economici: il riavvicinamento, sia fisico («km0») che organizzativo (accordi di programma per la condivisione di oneri e rischio) tra produttori e consumatori (o utilizzatori, o beneficiari) di beni e servizi. La sovranità praticata o rivendicata attraverso processi partecipativi non può né deve arrestarsi alle porte dell'impresa; ma anche in questo ambito non riguarda solo le maestranze nel loro conflitto latente o manifesto con la proprietà e il management, bensì l'intera comunità dei lavoratori, dei consumatori, degli utilizzatori dei beni e dei servizi prodotti, dei cittadini esposti agli impatti ambientali e sociali delle sue attività. La cosiddetta «responsabilità sociale dell'impresa» non può essere affare esclusivo dell'imprenditore o del management; deve essere il risultato di un coinvolgimento di tutti coloro che dell'impresa condividono sorti e conseguenze.

Esercizio di sovranità

Per questo la sovranità esercitata o rivendicata attraverso la democrazia partecipativa, innanzitutto a livello territoriale, attribuisce al governo locale due ruoli irrinunciabili. Primo, «aggregare» o sostenere «aggregazioni» di domanda per favorire il passaggio da modalità individuali di rapporto con il mercato a forme condivise di fruizione o di «consumo». Gli acquisti condivisi (l'esempio più semplice ne sono i Gas, Gruppi di acquisto solidale), oltre alla spinta verso una maggiore territorializzazione, sono anche un potente strumento per scardinare la separazione tra pubblico e privato, tra produzione e consumo, tra ruoli maschili e femminili tradizionalmente ricondotti alla differenza di genere. Secondo, «fare impresa» o, meglio, sostenere il «fare impresa» (sociale, cooperativa, individuale; o semplice associazione; o, quando è il caso, ente di diritto pubblico) della cittadinanza attiva: per sviluppare attività produttive e creare occupazione dove l'«iniziativa privata» non è presente o non interviene in maniera adeguata. La sacrosanta rivendicazione di un reddito di cittadinanza per tutti non può essere separata dalla possibilità di proporre, sottoporre a verifiche collettive e realizzare iniziative imprenditoriali finalizzate a integrare la dotazione produttiva e le opportunità occupazionali di un territorio; perché questa è una componente irrinunciabile della democrazia partecipativa.

Le priorità del processo di ri-territorializzazione sono l'esercizio della sovranità - o la lotta per conquistarla - in alcuni ambiti strategici: energetico, agroalimentare, nella gestione del territorio, in campo culturale e in quello finanziario. La sovranità di un territorio in campo energetico è un portato consequenziale della transizione da un'economia fondata sui combustibili fossili a un'economia basata sulle fonti rinnovabili e sull'efficienza energetica: del passaggio, cioè, dai grandi impianti centralizzati e accentrati in grandi corporation a sistemi energetici differenziati, complementari, distribuiti, decentrati e diffusi sul territorio; più tutto quello che produce efficienza nel campo dell'edilizia, della mobilità, dell'impiantistica, della gestione delle risorse e dei rifiuti e che richiede anch'esso forti livelli di decentramento e di differenziazione.

La sovranità alimentare è consustanziale alla transizione da un'agricoltura monocolturale, industrializzata, interamente basata su input di origine fossile e su un'industria agroalimentare accentrata a livello mondiale a un'agricoltura di prossimità, in rapporto diretto con i consumatori e le loro organizzazioni, ecologica, multicolturale e multifunzionale; e a un'industria agroalimentare ad essa integrata. La sovranità nella gestione del territorio è la rivalutazione dell'ambiente come bene comune, la cui salvaguardia, a beneficio delle generazioni attuali e future, deve coinvolgere ed essere affidata a chi su quel territorio vive e lavora: per preservarlo da usi che ne alterano o distruggono caratteristiche idrogeologiche e potenzialità agronomiche, depurative, estetiche, produttive e insediative. La sovranità culturale non significa chiusura del territorio e delle comunità che lo abitano in identità anacronistiche e fittizie, ma possibilità di ogni territorio di essere un centro di recepimento, di adattamento, di rielaborazione e di diffusione di culture e saperi che i mezzi di comunicazione hanno reso «universali» perché universalmente fruibili e che dovrebbero entrare a far parte di un sistema di educazione permanente. Sovranità finanziaria, infine, significa che ogni territorio deve disporre delle risorse finanziarie necessarie a sostenere il perseguimento di questi obiettivi.

Una transizione partecipata

Non so quanto un approccio del genere, che vuole essere solo un criterio di inquadramento dei problemi, sia condiviso; esso rimanda comunque ad alcuni nodi con cui deve confrontarsi qualsiasi altra impostazione programmatica. Innanzitutto, in un processo imperniato sulla partecipazione come fattore decisivo della transizione verso nuovi assetti sociali (equità) e ambientali (sostenibilità), la definizione di un programma non può limitarsi a un'enunciazione, per quanto articolata, di obiettivi. Centrale è il problema del «chi fa che cosa» ed è evidente - ma il problema non è certo solo italiano - che né alla classe imprenditoriale e manageriale, né alla «casta» politica attuali può essere demandato il compito di darvi attuazione (per questo mi lasciano perplesso le proposte di rifondare l'Iri o cose del genere). Il che non esclude, ma anzi richiede, che da quegli ambiti si riesca a recuperare il maggior numero possibile di soggetti disposti a collaborare con la transizione. Decisivi sono quindi la formazione e il consolidamento di una cittadinanza attiva. La democrazia partecipativa può e deve essere una «scuola» per questo; ma sedi di formazione molto più specifiche sono già in parte molte esperienze pratiche di altraeconomia, di imprese sociali, di gruppi di acquisto, di associazioni e comitati territoriali che si stanno moltiplicando in questi anni. D'altronde è evidente che un programma di respiro generale non può affermarsi, per ora, che «spezzettato» in una molteplicità di iniziative locali. Le situazioni di maggiore crisi - ambientale, territoriale, di governance, ma soprattutto occupazionale (e gli esempi sono infiniti) - sono per forza di cose centri di applicazione privilegiati per la messa a punto dell'articolazione locale di un programma generale, per la sua traduzione in piattaforme rivendicative e in proposte progettuali, per l'auto-formazione e la selezione del personale che dovrà farsene carico, per l'individuazione delle risorse locali su cui fare leva.

È ovvio che la prima e fondamentale fonte di risorse finanziarie deve essere l'azzeramento dell'evasione fiscale e delle spese in armamenti, interventi bellici, Grandi opere e Grandi eventi devastanti; e che altre risorse possono essere reperite nelle tasche dei ricchi (anche se inseguirle nei loro ricettacoli non è semplice). Ma il finanziamento del programma e dei progetti in cui il programma generale si articola richiede comunque che venga spezzata la duplice gabbia (locale ed europea) del patto di stabilità e dei suoi annessi: pareggio di bilancio e fiscal compact. La rinegoziazione del debito pubblico, sotto forma di moratoria o di default selettivo, è l'unica alternativa praticabile al cosiddetto «default disordinato»: cioè alla deriva, per niente graduale, verso il disastro a cui la politica europea sta condannando, uno dietro l'altro, tutti i paesi dell'Unione: partendo dalla Grecia; a seguire con Portogallo, Spagna e Italia; per poi passare alla Francia e arrivare al cuore del continente - la Germania; che non trarrà certo vantaggio dalla disfatta dei suoi partner - e produrre così una catastrofe di dimensioni planetarie; che è probabilmente molto più vicina di quanto ci facciano credere.

Rivendicare, insieme agli altri paesi oggi sotto tiro, una rinegoziazione congiunta del debito è l'unico modo per contrastare il dogma del «non c'è alternativa»: che è il nocciolo delle politiche del governo Monti, dei partiti che lo sostengono, degli altri governi europei avviati verso il disastro. Misure di ordine finanziario a cui si fa spesso riferimento, come la separazione tra banca commerciale e banca d'affari (confinando eventualmente la seconda nel ruolo di bad bank da liquidare), la (ri)-nazionalizzazione dei principali istituti di credito (costava meno ricomprarli che cercare salvarli con i miliardi messi a loro disposizione dalla Bce), l'istituzione degli euro-bond (a condizione, però che finanzino progetti locali e non una nuova ondata di Grandi Opere devastanti), l'introduzione di monete a circolazione locale, parallele e non intercambiabili o sostitutive dell'euro (la cui scomparsa è l'ultima cosa da augurarsi) per alimentare scambi circoscritti a singoli territori, e altro ancora, sono tutte misure subordinate a una rinegoziazione del debito pubblico.

Governare la decrescita

«Ma il default, in qualsiasi forma, è un disastro», ripetono economisti di destra e sinistra. Così nessuno si occupa di come attenuarne gli effetti, se ci si va incontro comunque. Ma esiste, a breve o a lungo termine, un'alternativa? E se c'è, qual è? Una crescita del Pil sufficiente a far fronte agli interessi, al fiscal compact, alle continue ondate speculative, e «poi» anche al finanziamento di un nuovo sviluppo? E con quali prodotti, quale ricerca, quali mercati, quali forze imprenditoriali, quale governance? Su questo punto non ci sono risposte: come se il mercato fosse una macchina che ha solo bisogno di una spinta per rimettersi in moto; e poi andare avanti da sola (devastando, va da sé, l'ambiente). La verità è che l'alternativa tra crescita e decrescita è stata spazzata via dai fatti: la crescita non ci sarà più, per lo meno in questa parte del mondo (e sempre meno, e sempre più devastante, anche nelle altre). Non ci sarà alcun ritorno alla «normalità» di un tempo: perché il mondo di domani, come già quello di oggi, sarà in preda a sconvolgimenti continui, non solo economici e finanziari, ma soprattutto ambientali; e a rischi sempre maggiori di svolte autoritarie. Per questo «non c'è più tempo». Quanto alla decrescita, il problema non è come perseguirla, ma come governarla. E per farlo bisogna mettere al centro le cose che si vogliono e possono fare per stare tutti meglio; o meno peggio. Creando gli strumenti per deciderle e realizzarle insieme.

Formigoni non vuole togliersi di mezzo e così trascina l´intera destra del Nord in un´avventura temeraria che, intrecciandosi alla faida padana della Lega, ne sta provocando il disfacimento. Le parole con cui la moglie di Antonio Simone lo addita come "utilizzatore finale" dello strapotere e degli agi cumulati da faccendieri divenuti milionari all´ombra della sua carriera politica, conferma che Formigoni ha mentito ripetutamente e non può più illudersi di scaricare sui "Giuda", che poi sarebbero i suoi migliori amici, la responsabilità di aver creato un sistema di potere protervo, giunto al capolinea.

L´insofferenza per la vanagloria del Celeste non provoca più solo l´allarme degli altri clan in cui è frazionato l´ex regno berlusconiano. Più nel profondo, è la galassia di Comunione e Liberazione a non riconoscersi più nella degenerazione affaristica di un movimento ecclesiale ben altrimenti radicato nella società lombarda. Umiliato dall´indifferenza ai suoi valori fondativi, assoggettati da troppo tempo all´ossessione personale di leadership di Formigoni.

Il governatore non ha fornito la benché minima versione credibile sui lussuosi omaggi ricevuti dagli inquisiti. Se avesse potuto, lo avrebbe già fatto: si trattava solo di mostrare degli estratti conto. Ma è di ben altro che deve rispondere: da Giuseppe Grossi a Pierangelo Daccò a Antonio Simone, e chissà che non ne spuntino altri, la Regione Lombardia da lui amministrata per diciassette anni ha generato vicende d´imprenditorialità opaca, contraddistinte dal favoritismo e dall´appropriazione indebita di risorse pubbliche. Altro che sussidiarietà: una nuova razza predona ha inquinato l´associazionismo della Compagnia delle Opere che pure non è certo riducibile a questo malaffare.

Infrante le sue ambizioni politiche nazionali, non gli resta altra strada che le dimissioni. Ma qui subentra il calcolo temerario per cui Formigoni resta aggrappato al bordo della voragine in cui rischia di trascinare anche gli altri potentati della destra del Nord. Egli confida difatti che almeno fino all´anno prossimo Roberto Maroni non abbia interesse a consentire lo scioglimento dell´Assemblea regionale lombarda (undici inquisiti su ottanta membri), in cui la Lega conta ben venti consiglieri, cioè una rappresentanza che difficilmente conseguirà in futuro. Fra i due Roberto che aspirano a raccogliere l´eredità di Berlusconi e Bossi si era instaurato un patto per la sopravvivenza che le inchieste della magistratura rischiano di mandare in frantumi. Il primo, Formigoni, sperava di approdare in Parlamento l´anno prossimo (con relativa immunità). Il secondo, Maroni, intravedeva nella successione alla presidenza della Regione Lombardia un solido avamposto per la ricostruzione del movimento leghista.

Calcoli mal riposti, non solo per il drammatico accelerarsi della crisi che potrebbe dar luogo a nuove devastanti scoperte giudiziarie, ma perché è la stessa rappresentanza politica del dopo Berlusconi & Bossi a subire contraccolpi imprevedibili. Se è vero infatti che su scala regionale pare difficilmente replicabile il sommovimento popolare con cui Giuliano Pisapia ha rovesciato l´egemonia della destra nella città di Milano; e se anche il commissariamento del Pirellone non può dar luogo che provvisoriamente a un governo tecnico su scala regionale; è un inquietante vuoto democratico quello che si prospetta in seguito alla bancarotta di una classe dirigente.

Così la Lombardia sospesa nel vuoto diviene nel bene e nel male un laboratorio politico nazionale. Qui la notte dei lunghi coltelli in corso nella Lega apre il varco a nuovi movimenti reazionari e localisti, con pericolo di degenerazioni estremistiche. La parola d´ordine dell´uscita dall´euro, lanciata da Beppe Grillo, nella sofferenza sociale provocata dalla recessione potrebbe trovare sponsor ben più potenti. E lo stesso Pdl sta vivendo scissioni centrifughe di marca municipalistica. La destra del Nord va in frantumi ma resta un´energia dalle potenzialità dirompenti in cerca di nuovi leader populisti. C´è da sperare che la Chiesa ambrosiana e il cattolicesimo lombardo esercitino la funzione moderatrice che gli è propria, in seguito alla débacle di Formigoni. E che la sinistra sappia ripercorrere la strada della partecipazione democratica di base in cui ha saputo credere a Milano.

Ma se Formigoni non verrà sollecitato anche dalla sua parte politica a farsi da parte al più presto, restituendo la parola ai cittadini, il pericolo è il caos.

Alla fine dell'Ottocento lo scrittore Vamba, futuro inventore di Giamburrasca, creava l'onorevole Qualunquo Qualunqui del partito dei Purchessisti, propugnatore del programma Qualsivoglia e sostenitore del gabinetto Qualsiasi: sembrerebbe anticipare Guglielmo Giannini e Cetto Laqualunque ma sono radicali le differenze fra i diversi momenti, e ancor più con i dilaganti fermenti attuali contro i partiti. Alla fine dell'Ottocento, ad esempio, vi era sullo sfondo una retorica antiparlamentare conservatrice e una critica al sistema rappresentativo in sé fortemente presenti nel dibattito colto. E nel successo dell'"Uomo Qualunque" alla caduta del fascismo vi erano umori e veleni di lungo periodo assieme a paure e diffidenze per una democrazia ancora sconosciuta, dopo il lungo ventennio. Il movimento di Giannini scomparve rapidamente e l'Italia repubblicana è stata caratterizzataa lungo, invece, da una altissima e viva partecipazione alla politica: le denunce della "partitocrazia" che iniziarono a serpeggiare negli anni Settanta coglievano precocemente la fine di una stagione.

Una fine avvertita anche "dall'interno": nel 1981 la critica di Enrico Berlinguer alla degenerazione dei partiti di governo («federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sottoboss"») fu il tentativo più alto di riportare la politica alla sua dignità ma forse anche il presagio di una sconfitta. E nello stesso anno un racconto di fantapolitica di Giuseppe Tamburano prevedeva e paventava per il 1984 quel che sarebbe avvenuto dieci anni dopo: il crollo per discredito dello "Stato dei partiti" e l'avvento di una Seconda Repubblica con «la sostituzione dei partiti e la restaurazione dei valori e degli interessi di una borghesia imprenditoriale senza più lacci e lacciuoli».E con un programma simile a quello di Licio Gelli. Il crollo del 1992-94 era dunque ben prevedibile, preceduto da un intreccio sempre più melmoso di occupazione partitica dello stato e di corruzione. E aprì la via all'esplodere dell'antipolitica, nelle forme del leghismo bossiano e dell'estraneità berlusconiana alla democrazia. E a nuovi, profondissimi guasti.

Ma perché non se ne è usciti? Perché oggi il panorama appare più devastato e devastante di allora? Perché una "partitocrazia senza partiti" ha lasciato segni così negativi sulla seconda repubblica e si sono al tempo stesso sviluppate forme inedite di "banalità della corruzione", strapotere delle cricche, familismi immorali? Perché, soprattutto, siamo accerchiati più drammaticamente di allora da pulsioni rozze contro la politica e al tempo stesso da un'incapacità dei partiti di rinnovarsi che non lascia moltissimi spiragli alla speranza?

Forse su un nodo occorrerebbe riflettere meglio: nel crollo della "prima Repubblica" rappresentanze consistenti di una parte della "società civile", per dir così, entrarono impetuosamente nelle istituzioni e nella politica sotto le insegne della Lega Nord e di Forza Italia. Vi portarono umori che si erano consolidati negli anni Ottanta: dalla diffidenza, se non ostilità, nei confronti dello Stato sino alle più differenti pulsioni ad una ascesa individuale sprezzante di ogni vincolo, incurante del bene comune. E fecero ampiamente e amaramente rimpiangere il personale politico precedente.

Poco spazio trovarono invece altre parti della società, a partire da quelle che avevano il loro riferimento nelle culture riformatrici, nel rispetto delle regole e dei valori collettivi:e così, mentre le file del centrodestra si gonfiavano di animal spirits limacciosi e di rappresentanze talora impresentabili, il centrosinistra vedeva progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico e le proprie dinamiche interne. Vedeva progressivamente indebolirsi - o meglio, contribuiva colpevolmente a dissipare - quelle forme più ampie di partecipazione che la costruzione stessa dell'Ulivo avrebbe potuto e voluto alimentare.

Sin dal suo inizio in realtà, in un seminario convocato a Gargonza per rilanciare quella ispirazione e quelle aperture, l'allora segretario del Pds Massimo D'Alema vi contrapponeva una superiorità dei partiti che largamente prescindeva dalla loro profonda crisi (Umberto Eco lo ha ricordato di recente in modo graffiante). Alla caduta del primo governo Prodi la chiusura in sé di partiti rissosi e divisi diventò dominante e portò al tracollo. Portò poi a guardare con perenne fastidio la ripresa di iniziativa della società civile: dal movimento dei girotondi sino alla "lezione non raccolta" del pronunciamento referendario e delle elezioni amministrative della primavera scorsa.

Ha origine anche qui l'incapacità di contrastare adeguatamente il degrado complessivo e al tempo stesso di combattere i crescenti e multiformi sussulti distruttivi di oggi, privi sia dei miti identitari leghisti sia dell'illusionismo miracolistico del Cavaliere delle origini. Alimentati più trasversalmente che in passato da una politica che non ha saputo evitare al Paese il disastro attuale e non ha molti titoli per giustificare gli enormi flussi di denaro pubblico percepiti contro la volontà referendaria.

Una politica, soprattutto, che appare drammaticamente incapace di trovare in sé le forze per invertire la tendenza, unica via possibile per evitare il baratro. La speranza è l'ultima a morire ma il baratro sembra spaventosamente vicino.

Postilla

Forse la radice dell’errore è prima del seminario di Gorgonza. Forse è nel mutamento delle teste, nell’abbracciare l’ieologia del neoliberalismo, nell’assumere come propri gli slogan “più mercato e meno stato”, “privato è bello”, via lacci e lacciuoli” e così via. Parliamo degli anni 80, non ricordate?

La corruzione dei partiti, soprattutto quando sembra un fiume in piena che si ingrossa giorno dopo giorno, ha effetti devastanti. Non soltanto, com’è ovvio, sulla stabilità dell´ordine democratico e la credibilità delle sue istituzioni. Ma anche sulla mentalità politica generale. Poiché induce i cittadini a pensare che se lo Stato mettesse i partiti a pane e acqua questi non avrebbero più i mezzi sufficienti per essere disonesti. Togliere il finanziamento pubblico ai partiti può apparire come la ricetta vincente per costringere all´onestà secondo il detto popolare che l´occasione fa l´uomo ladro. Sull´onda degli scandali giudiziari e in un tempo come questo in cui il governo e il Parlamento impongono ai cittadini enormi sacrifici, questa tesi si fa via via più convincente.

Ma c´è da dubitare che sia la via migliore per impedire la corruzione. Basta ripercorrere brevemente la storia del finanziamento pubblico ai partiti per rendersene conto. La legge sul finanziamento pubblico dei partiti, introdotta nel 1974 per sostenere le strutture dei partiti presenti in Parlamento, fu voluta e approvata sull´onda di scandali. Attraverso il sostentamento diretto dello Stato, si disse, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusione con i grandi interessi economici. Ma si trattò di una pia illusione perché gli scandali non si fermarono come mostrano le vicende Lockheed e Sindona. Evidentemente, la ragione della corruzione non sta nella sorgente del finanziamento. Che sia pubblico o privato, la corruzione resta. Quindi, pensare di rendere virtuosi i politici facendoli questuanti di soldi privati è illusorio. Non solo non vale a togliere la piaga della corruzione, ma ne produrrebbe una peggiore. Aggiungerebbe alla corruzione classica, quella cioè dello scambio – favori politici in cambio di denaro – un´altra che è ancora più devastante per la democrazia: la diseguaglianza politica. Infatti, lasciando che siano i privati a finanziare i partiti si darebbe alle differenze economiche la diretta possibilità di tradursi in differenze di potere di influenza politica. Quindi alla corruzione della legalità si aggiungerebbe la corruzione della legittimità democratica. È questa la ragione per la quale il modello statunitense è pessimo.

In questi giorni di malaffare dilagante, che tocca addirittura il partito che si è consolidato gridando agli scandali altrui, si sente proporre il modello americano, magari corretto. Contro quel modello da anni si battono giuristi, opinionisti e teorici politici americani (da John Rawls a Ronald Dworkin tanto per menzionare i nomi più prestigiosi). Gli Stati Uniti sono la prova evidente di quanto sbagliato sia per la democrazia avere partiti privatizzati.

Per un democratico, proteggere le istituzioni politiche dalla corruzione significa proteggere l´eguaglianza politica dall´infiltrazione della diseguaglianza economica. La democrazia accetta le differenze economiche e crede che sia possibile impedire che trasmigrino nella sfera politica. Essa quindi si avvale di istituzioni, procedure e norme che bloccano il travaso di influenza economica in influenza politica. Per i critici di destra e di sinistra questa è una illusione. Perché non sia un´illusione occorrono buone leggi. Ora, le controversie americane sulla questione dei finanziamenti delle campagne elettorali vertono tutte su questo tema. La lotta tra il potere legislativo (il Congresso americano ha proposto e passato leggi che regolano e limitano il finanziamento privato) e il potere giudiziario (la Corte Suprema ha in casi importanti bloccato l´azione del legislatore) verte proprio sull´interpretazione della libertà, se solo un diritto dell´individuo (indifferente all´eguaglianza di condizione) o invece un diritto del cittadino (attento all´eguaglianza di opportunità politica). Il giudici sono schierati con la seconda interpretazione. Il loro punto di riferimento è il Primo emendamento alla costituzione, il quale tutela la libertà di espressione dall´interferenza dello Stato. Come bruciare la bandiera è stato definito, in una sentenza memorabile, un segno di libertà di opinione quindi un diritto intoccabile, così è per le donazioni private ai partiti o ai candidati. Bloccarle significa, dicono i giudici, bloccare la libertà di espressione. Nella sentenza del 2010 (che riprendeva sentenze precedenti molto importanti) conosciuta come Citizens United versus Federal Election Commision, la Corte Suprema a maggioranza liberista-conservatrice ha sì riconosciuto che "l´influenza del denaro delle corporazioni" esiste ed è "corrosiva" perché causa di corruzione in quanto facilita una "influenza impropria" ovvero una ineguale "presenza politica" nel foro politico. Nonostante ciò, la Corte ha concluso che non è comunque provabile che le compagnie private perseguano piani espliciti quando finanziano le campagne elettorali. Non si può provare che il loro denaro si traduce in decisione politica. Quindi non si può impedire la libertà di donazione.

Tuttavia l´uso dell´espressione "influenza impropria" è significativo perché suggerisce che la base della democrazia è l´eguaglianza politica dei cittadini, ovvero la loro eguale opportunità di influire sull´agenda politica dei partiti, non solo attraverso il voto. Allora, quando c´è corruzione? C´è corruzione solo quando un politico è colluso? Non c´è corruzione anche quando si dà ad alcuni cittadini più opportunità di voce che ad altri? Se per la virtù repubblicana la prima solo è corruzione, per i democratici la seconda è anche e forse più grande corruzione. Perché lede il fondamento della libertà politica eguale. Ecco dunque che la questione di come finanziare i partiti rinvia a una concezione della libertà: se solo del privato individuo che vuole dare i soldi a chi desidera, o invece del cittadino che deve godere di una eguale libertà rispetto agli altri cittadini e non avere meno opportunità di altri di far sentire la propria voce. Nella democrazia rappresentantiva ancor più che in quella diretta, l´esclusione politica può facilmente prendere la forma del non essere ascoltati perché la propria voce è debole, non ha mezzi per giungere alle istituzioni. E il denaro è un mezzo potentissimo.

È questa la ragione per la quale è importante avere il finanziamento pubblico dei partiti. Certo, si può intervenire sulla quantità, le forme, le condizioni; si possono inasprire le pene per chi viola la legge. Ma è sbagliato pensare di combattere la corruzione e il malaffare di cui i politici e i partiti si macchiano eliminando il finanziamento pubblico. Privatizzare i partiti (già ora troppo aziendali e familistici) significherebbe indebolire ancora più gravemente l´eguaglianza politica.

Quando il fascismo stava per finire, nel novembre 1944, un giornalista americano che conosceva bene l'Italia, Herbert Matthews, scrisse un articolo molto scomodo, sul mensile Mercurio diretto da Alba De Céspedes. S'intitolava "Non lo avete ucciso", e ci ritraeva, noi italiani e i nostri nuovi politici, incapaci di uccidere la bestia da cui in massa eravamo stati sedotti. Una vera epurazione era impossibile, soprattutto delle menti, dei costumi.

Troppo vasti i consensi dati al tiranno, i trasformismi dell'ultima ora. Matthews racconta un episodio significativo di quegli anni. Quando il governo militare alleato volle epurare l'Università di Roma, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale (Cln) chiese che la riorganizzazione fosse compiuta da due membri di ciascun partito: «In altre parole, una politica di partito doveva essere introdotta nel dominio dell'alta cultura: il che, mi sembra, è fascismo bello e buono». Il giornalista conclude che la lotta al fascismo doveva durare tutta la vita: «È un mostro col capo d'idra, dai molti aspetti, ma con un unico corpo. Non crediate di averlo ucciso».

L'idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell'Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null'altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel che è accaduto in Italia in più di mezzo secolo.

E tuttavia distinguere si può, si deve: altrimenti prepariamoci alle esequie della politica. Ci sono uomini e partiti che si sono opposti e s'oppongono alla degenerazione, e ce ne sono che coscientemente hanno scommesso sul degrado. C'è la Costituzione, che protegge la politica e chi ne ha vocazione: compresi i partiti, che al caos oppongono l'organizzazione. Il molle non è equiparabile al colluso con la mafia, il mediocre non è un criminale. La politica è oggi invisa, ma a lei spetta ricominciare la Storia. I movimenti antipolitici denunciano una malattia che senz'altro corrode dal di dentro la democrazia, ma non hanno la forza e neanche il desiderio di governare.

Chi voglia governare non può che rinobilitarla, la politica. Se questo non avviene, se i partiti si limitano a denunciare l'antipolitica, avranno mancato per indolenza e autoconservazione l'appuntamento con la verità. Non avranno compreso in tempo l'essenziale: sono le loro malattie a suscitare i pifferai-taumaturghi (l'ultimo è stato Berlusconi). Il paese rischia di morire di demagogia, dice Bersani, ma questa morte è un remake: vale la pena rifletterci sopra.

Guardiamola allora, questa politica sempre tentata dai remake. Non è solo questione di corruzione finanziaria, o del denaro pubblico dato perché i partiti non siano prede di lobby e che tuttavia è solo in piccola parte speso per opere indispensabili (il resto andrebbe restituito ai cittadini: questo è depurarsi). La corruzione è più antica, ha radici nelle menti e in memorie striminzite.

Matthews denuncia lottizzazioni partitiche già nel '44. Un'altra cosa che smaschera è il ruolo della mafia nella Liberazione. Anche quest'idra è tra noi.

È lunga, la lista dei mali via via occultati, e spesso scordati. L'AntiStato che presto cominciò a crearsi accanto a quello ufficiale, e divenne il marchio comunea tante eversioni: mafiose, brigatiste, della politica quando si fa sommersa. Un AntiStato raramente ammesso, combattuto debolmente. E le stragi, a Portella della Ginestra nel '47 e a partire dal '69: restate impunite, anonime.

L'ultima infamia risale alla sentenza sull'eccidio di Brescia del '74, sabato scorso: tutti assolti. È un conforto che Monti abbia deciso che spetta allo Statoe non alle vittime pagare 38 anni di inchieste e processi: l'ammissione di responsabilità gli fa onore. Poi la P2: una «trasversale sacca di resistenza alla democrazia», secondo Tina Anselmi. Berlusconi, tessera 1816 della Loggia, entrò in politica per attuare il controllo dell'informazione e della magistratura previsto nel Piano di Rinascita democratica di Gelli. Le mazzette a politici e giornalisti si chiamano, nel Piano, «sollecitazioni».

È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel '91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel '93 chiesero l'abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel '93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi.

Ma soprattutto, sono spesso svilite le battaglie dell'Italia migliore (antimafia, anticorruzione). Bisogna cadere ammazzati come Ambrosoli, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, per non finire nel niente. Le commemorazioni stesse sono subdole forme di oblio. Si celebra Ambrosoli, non la sua lotta contro Sindona, mafia, P2. Disse di lui Andreotti, legato a Sindona: «È una persona che se l'andava cercando ». Fu ascoltato in silenzio, e non possiamo stupirci se l'ex democristiano Scajola, nel 2002, dirà parole quasi identiche su Marco Biagi, reo d'aver chiesto la scorta prima d'essere ucciso: «Era un rompicoglioni che voleva il rinnovo del contratto di consulenza». Ci sono cose che, una volta dette, ti tolgono il diritto di rappresentare l'Italia.

Viene infine la dimenticanza pura, che dissolve come in un acido persone italiane eccelse. Tina Anselmi è un esempio. Gli italiani sanno qualcosa della straordinaria donna che guidò la commissione parlamentare sulla P2? È come fosse già morta, ed è commovente che alcuni amici la ricordino. Tra essi Anna Vinci, autrice di un libro di Chiarelettere sulla P2. Con Giuseppe Amari, la scrittrice ha appena pubblicato Le notti della democrazia, in cui la tenacia di Tinaè paragonataa quella di Aung San Suu Kyi. Altro esempio: Federico Caffè, fautore solitario di un' economia alternativa ai trionfi liberisti, di rado nominato. Un mattino, il 15-4-87, si tolse di mezzo, scomparve come il fisico Majorana nel '38. Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l'esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria.

La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. Nel numero citato di Mercurio è evocato il racconto che Moravia scrisse nel '44: L'Epidemia. Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti cominciano a puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l'odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo.

Quindici anni dopo, Ionesco proporrà lo stesso apologo nei Rinoceronti. La malattia svanisce non perché sanata, ma perché negata: «Possiamo additare una particolarità di quella nazione come un effetto indubbio della pandemia: gli individui di quella nazione, tutti senza distinzione, mancano di olfatto ». Non fanno più «differenza tra le immondizie e il resto».

Ecco cosa urge: ritrovare l'olfatto, anche se «è davvero un vantaggio» vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla «bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità». Il profumo che Borsellino si augurò e ci augurò il 23 giugno '92, a Palermo, pochi giorni prima d'essere assassinato.

Uno dei principali obiettivi del governo Monti è quello delle privatizzazioni e della svendita del patrimonio immobiliare pubblico. Giustificato con la monocultura del fare cassa, si sta consentendo l'alienazione a prezzi stracciati di un compendio immobiliare di elevatissima qualità urbana e ambientale. La grande svendita è in atto da oltre un decennio, dalle cartolarizzazioni di Tremonti a tanti altri provvedimenti, fino ai giorni dell'attuale governo.

Prima di diventare ministro, Corrado Passera esercitava un mestiere che lo obbligava a conoscere benissimo quei provvedimenti. Gli istituti di credito sono stati infatti i protagonisti del vorticoso giro di acquisti e vendite immobiliari che ha caratterizzato l'ultimo ventennio. Doveva dunque conoscere le leggi e gli elenchi delle proprietà che via via i ministeri rendevano pubblici. E sa sicuramente che il suo Presidente del consiglio intende proseguire su quella sciagurata strada.E ppure, pur di uscire dalla difficoltà durante un'intervista televisiva domenicale, il ministro ha dato fondo a tutta la sua abilità dialettica.

Le sembra giusto - questo il senso delle sue parole - che lo Stato paghi miliardi di euro ogni anno in affitti mentre ha un gran numero di proprietà che potrebbero essere utilizzate per gli stessi fini senza spendere nulla? E bravo ministro. Benvenuto nel convinto mondo dei difensori del patrimonio pubblico quale strumento per programmare il territorio e risparmiare risorse preziose. Già che c'era, poteva anche esemplificare ricordando il caso delle torri del ministero delle Finanze dell'Eur che da un decennio erano state destinate alla valorizzazione immobiliare per farne abitazioni di lusso. Stavano per essere demolite, e da molti anni gli uffici sono stati trasferiti a caro prezzo in immobili privati. Milioni di euro all'anno che pesano sul bilancio dello Stato e ingrassano la rendita.

Con quelle parole, il ministro Passera ha sottoscritto un solenne impegno: prima di procedere alla vendita di qualsiasi immobile pubblico deve essere preliminarmente eseguita un'analisi se possano essere utili per risparmiare sugli affitti passivi o per risolvere i più gravi problemi sociali della popolazione.

In questi giorni il Sole 24 Ore parla con evidenza di una «grave crisi abitativa» la cui dimensione è stimata in 580 mila alloggi. Il fiume di cemento che in questi venti anni ha devastato l'Italia non è dunque servito a risolvere i problemi abitativi delle famiglie più povere. Per la nostra cultura era scontato: è la mano pubblica a doversi far carico delle esigenze sociali. Sappiamo purtroppo come è andata la storia: la cultura liberista ha trionfato sostenendo che il mercato avrebbe risolto tutto. Oggi raccogliamo il tragico fallimento.

Coraggio allora, ministro Passera. Salga sulle torri delle Finanze ancora fortunatamente in piedi grazie alle proteste di preziosi comitati e imponga che vengano riutilizzate per gli uffici ministeriali. E, già che c'è, ne destini una parte - anche piccola - ad abitazioni sociali. È solo con una lungimirante mano pubblica che si può uscire dalla crisi.

La democrazia in Italia è già sotto stress: non corre il rischio di esserlo. Questa è la notizia. Non buona. Oltre che da una crisi economica finora indomabile, la democrazia è messa a dura prova da una delegittimazione dei partiti e dell´intera sfera politica. Se il detonatore è stata la vergognosa caduta della Lega nel familismo amorale in salsa padana, ciò che è esploso era già di per sé una polveriera: ovvero, la controversa materia del finanziamento pubblico dei partiti. Di questo in verità si tratta, sotto le mentite spoglie del rimborso delle spese elettorali – un travestimento reso necessario dall´esigenza di bypassare la volontà espressa dal popolo sovrano in un referendum – , che ha portato nelle casse dei partiti, in diciotto anni, 2,3 miliardi di euro. Una somma molto superiore alle effettive spese elettorali, grazie alla quale si sono mantenuti apparati, giornali, raggruppamenti politici fittizi o estinti, oltre che famiglie eccellenti e tesorieri creativi.

Dunque i punti sono due: da un lato, la quantità eccessiva di rimborsi; dall´altro, l´opacità dell´erogazione e della gestione di ingentissime somme di denaro pubblico, affidate – in pratica discrezionalmente – a soggetti (i partiti) dall´incerto status giuridico (entità private non regolate da una legge che ne disciplini la democrazia e la trasparenza della vita interna). Il potenziale inquinante di questa massa di denaro incontrollata è altissimo; Margherita e Lega lo dimostrano.

E l´effetto delegittimante di queste prassi dovrebbe essere percepito da tutti, soprattutto dai politici. Nessuno escluso. Perché se è vero che non tutti i partiti hanno distratto il pubblico denaro per le private finalità di qualche dirigente; se è vero che la trasparenza dei bilanci è diversa (su base volontaria) da partito a partito; se è vero che alcuni partiti cercano fonti di finanziamento anche e soprattutto nelle contribuzioni volontarie di militanti e di simpatizzanti; è anche vero che tutti i partiti hanno percepito quel pubblico denaro in quantità smodata, e che tutti i partiti definiscono "antipolitica" quello che, originariamente, è invece legittimo sdegno dei cittadini davanti all´evidenza che i sacrifici, in questo Paese, si fanno a senso unico. Il sistema politico largheggia verso se stesso, o almeno è più leggero nei tagli, mentre è severo (in certi casi fino alla spietatezza) con i cittadini.

A ciò si aggiunga che piove sul bagnato, che il discredito si aggiunge al discredito. Questo sistema politico, infatti, è non solo costoso e inquinato ma anche inefficiente: ha dato tanto buona prova di sé da dover affidare l´Italia a un gruppo di tecnici perché tentino (con tutti i limiti della loro azione) di non farla precipitare nel burrone sul cui orlo l´ha condotta la cattiva politica dei partiti. Il sistema politico non è un innocente capro espiatorio del malumore e della rabbia dei cittadini. Ha responsabilità gigantesche: se non giudiziarie, politiche.

L´antipolitica, quindi, nasce – ed è pericolosissima – come reazione alla mancata risposta politica (e non ragionieristica, venata di sufficienza, o di spirito didascalico e paternalistico) dei partiti alle domande, tutte politiche e tutte legittime, degli italiani: "Perché vi attribuite tanto denaro?", "perché non vi sottoponete a controlli seri e severi?", "come giustificate la spesa che la collettività sostiene per voi?". La risposta a queste domande non può essere solo che i partiti sono indispensabili alla democrazia e che quindi vanno in qualche modo finanziati per evitare che la politica cada nelle mani dei ricchi (il che, oltre tutto, è avvenuto, nonostante gli abbondanti trasferimenti di pubblico denaro alle forze politiche). Perché certamente è giusto che la democrazia sia un costo; ma deve essere anche un buon investimento - oculato, controllato, ed equilibrato per quanto riguarda il rapporto costi/benefici -. La democrazia deve "rendere", in termini di qualità della vita associata, di efficienza e di trasparenza decisionale, e al tempo stesso di apertura della politica sulla vita reale dei cittadini.

Non le prediche ma la politica è la vera risposta all´antipolitica. Il primo passo è il riconoscimento che l´antipolitica dei cittadini nasce dalla pessima politica dei partiti. E il secondo è un operoso ravvedimento: una riforma rapida, severa e inequivocabile dei rimborsi, che ne limiti molto l´entità e li sottoponga a controlli inesorabili. Il terzo, sarebbe ricominciare a pensare in grande; a conoscere e progettare la società italiana. Non è chiedere troppo. È esigere il giusto.

Nella primavera 1978 le Brigate rosse sottoposero Aldo Moro a un interrogatorio che riguardò anche la strage di piazza Fontana del 1969 e quella di piazza della Loggia del maggio 1974. Come è noto, il memoriale del prigioniero è giunto a noi incompleto, ma su quegli anni egli formulò un giudizio chiaro utilizzando la categoria di "strategia della tensione". Quel tempo fu «un periodo di autentica ed alta pericolosità con il rischio di una deviazione costituzionale che la vigilanza delle masse popolari fortunatamente non permise». Moro espose i meccanismi e le finalità della strategia della tensione, impostata da servizi stranieri occidentali con propaggini operative in due paesi allora fascisti come la Grecia e la Spagna. Essa aveva potuto godere del contributo dei servizi italiani militari con «il ruolo (preminente) del Sid e quello (pure esistente) delle forze di Polizia», ossia dell'Ufficio Affari riservati diretto da Federico Umberto D'Amato.

Secondo il prigioniero lo scopo era stato quello di realizzare una serie di attentati attribuendoli alla sinistra per destabilizzare l'Italia e poi coprire i veri responsabili con appositi depistaggi: «La c. d. strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l'Italia nei binari della "normalità" dopo le vicende del '68 ed il cosiddetto autunno caldo», anche se Moro trascurava il varo nel giugno 1972 del governo centrista Andreotti-Malagodi, dopo l'attentato di Peteano per cui è reo confesso il neofascista Vincenzo Vinciguerra. Secondo l'ostaggio i servizi segreti italiani non diedero vita a deviazioni occasionali, ma a un'opera sistematica di inquinamento per «bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall'autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, ad una gestione moderata del potere». Egli fece riferimento all'azione di "strateghi della tensione", senza però offrirne un ritratto esplicito, e si espresse duramente nei riguardi della Democrazia cristiana: «Bisogna dire che, anche se con chiaroscuri non ben definiti, mancò alla D. C. di allora ed ai suoi uomini più responsabili sia sul piano politico sia sul piano amministrativo un atteggiamento talmente lontano da connivenze e tolleranze da mettere il Partito al di sopra di ogni sospetto». E ancora: «se vi furono settori del Partito immuni da ogni accusa (es. On. Salvi) vi furono però settori, ambienti, organi che non si collocarono di fronte a questo fenomeno con la necessaria limpidezza e fermezza».

L'attenzione di Moro si focalizzava su Giulio Andreotti, il quale aveva «mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il Ministero della Difesa entro il 68». In particolare con la Cia, «tanto che poté essere informato di rapporti confidenziali fatti dagli organi italiani a quelli americani». Moro ripeteva, per ben undici volte, il nome del giornalista neofascista Guido Giannettini, incriminato nel 1973 per la strage di piazza Fontana da cui sarà assolto, sottolineando l'importanza di un'intervista che Andreotti aveva concesso a Il Mondo nel giugno 1974, all'indomani della strage di Brescia, in cui aveva rivelato che Giannettini era in realtà un agente del Sid infiltrato in Ordine nuovo. È come se Moro avesse voluto alludere a una pregressa consapevolezza di Andreotti ("uomo abile e spregiudicato") riguardo alle azioni messe in campo da quegli ambienti, da cui aveva deciso improvvisamente di prendere le distanze («un primo atto liberatorio fatto dall'On. Andreotti di ogni inquinamento del Sid, di una probabile risposta a qualche cosa di precedente, di un elemento di un intreccio certo più complicato»).

Tale ricostruzione sarà confermata nell'agosto 2000 da Gianadelio Maletti, il responsabile dell'ufficio D del Sid dal 1971 al 1975, condannato per avere agevolato la fuga di Giannettini all'estero, il quale, in un'intervista a Daniele Mastrogiacomo per questo giornale, dichiarò «La Cia voleva creare attraverso la rinascita di un nazionalismo esasperato e con il contributo dell'estrema destra, Ordine nuovo in particolare, l'arresto del generale scivolamento verso sinistra. Questo è il presupposto di base della strategia della tensione».

In che modo? «Lasciando fare», e Andreotti «era molto interessato. Soprattutto del terrorismo di destra e dei tentativi di golpe in Italia».

È significativo notare che Pier Paolo Pasolini nel novembre 1974, ossia pochi mesi dopo la strage di Brescia e l'intervista dell'allora ministro della Difesa Andreotti che scaricava l'agente dei servizi militari Giannettini, scrisse sul Corriere della Sera l'articolo Cos'è questo golpe? Io so, in cui individuava l'esistenza di due diverse fasi della strategia della tensione: la prima, con la strage di piazza Fontana, anticomunista, funzionale a chiudere con l'esperienza dei governi di centro-sinistra e ad arginare l'ascesa del Pci; la seconda, con le bombe di Brescia, antifascista, ossia utilizzata per bruciare quanti ancora erano impegnati a creare le condizioni di un golpe nero e di una soluzione militare in Italia, esattamente come fatto da Andreotti con Giannettini: «Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neonazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista)». Forse per sempre senza nome. Così scriveva un anno prima di essere ucciso il poeta che ebbe l'ardire di farsi storico del suo presente: l'ultima profezia, come ribadisce la sentenza dell'altro ieri sulla strage di Brescia.

Sull’argomento vedi la postilla all’articolo di Benedetta Tobagi di ieri.

E’ veramente ineccepibile la posizione assunta dall’assessore De Falco sulla questione dell’Antica Dogana, soprattutto nel ricordare a noi tutti che non di edilizia si tratta, quanto delle forme e dei contenuti della nostra democrazia. Se i nostri vecchi ci avevano sempre detto che la Repubblica è fatta di tre cose (popolo, sovranità e territorio), la proposta di “insula autogestita” avanzata dalla Romeo rappresenta davvero l’ultimo atto del singolare percorso intrapreso dal nostro paese verso lo “stato bidimensionale”, privo cioè di potestà territoriale.

Aveva iniziato il centrodestra con il Piano casa e con l’abolizione dell’ICI, due provvedimenti che hanno mutilato irrimediabilmente i poteri e le competenze delle autorità municipali, compromettendo l’effettiva possibilità di un governo pubblico delle nostre città. Scelte politiche dissennate, prive di riscontro nelle altre democrazie liberali, alimentate da una ideologia proprietaria che scambia la città per un agglomerato di case, l’urbanistica con l’edilizia; che ignora che è nella dotazione di beni e servizi pubblici, finanziati dal patto civile e fiscale, il segreto della qualità e della vitalità urbana.

Con l’istituzione dell’insula si compie il passo finale, quello del riconoscimento di un vero proprio regime di extraterritorialià. Si rompe così il patto fondativo della polis, scritto nella nostra costituzione. La scelta poi di chiamare tutto questo “federalismo urbano”, additandolo come possibile modello futuro di città, è il tributo finale a Umberto Bossi, un’ulteriore conferma della sua vittoria, se non politica culturale (che è peggio), perché è evidente che questa è una secessione, una separazione ultimativa: la disperata presa d’atto dell’impossibilità di un progetto comune, di una sintesi civile tra i pezzi deboli e quelli forti della nostra città.

E poi, c’è anche una questione di opportunità. I patti di lungo periodo si fanno tra uguali, altrimenti sono altre cose. Nell’attuale crisi finanziaria e istituzionale, l’accordo con la Romeo, nei termini in cui si va configurando, avrebbe il valore di un patto leonino, di una liquidazione fallimentare: sarebbe la resa del governo municipale, l’abdicazione alla sua missione costituzionale: quella di assicurare ai cittadini un governo unitario del territorio, che rappresenta il nostro principale bene comune.

Tutte cose, come opportunamente ricordato dall’assessore De Falco, che sono scritte nel Piano regolatore, qui richiamato non come feticcio, come gabbia burocratica di prescrizioni e comandi; ma piuttosto come agenda di cura e miglioramento della città da far vivere ogni giorno: una strategia per integrare finalmente le contrastanti identità territoriali che nel loro insieme compongono quella cosa che continuiamo a chiamare “Napoli”. Lasciando perdere le insule recintate, e assicurando invece alle politiche per la città lo stesso buon vento che muove veloci in questi giorni i catamarani sul golfo.





RASSEGNA STAMPA

Corriere del Mezzogiorno, 28 marzo 2012

La proposta di Romeo per Napoli:

una federazione di condomini

di Marco Demarco



L'area della vecchia dogana trasformata in quartiere modello, stile Barcellona o Berlino - C’è l’OK della giunta De Magistris



NAPOLI - «L'insula della vecchia dogana come il quartiere di Puerto Madero a Buenos Aires. Napoli come Barcellona o Berlino. Dopo tanti buchi nell'acqua, arriva un progetto di valorizzazione urbana che è molto di più di quel che appare. La brochure di accompagnamento, con tanto di rendering, foto e tabelle, parla, in copertina, di una città «evoluzionaria», ma poi a pagina 6 la proposta diventa addirittura «rivoluzionaria». Forse è stato proprio questa aggettivazione, così volutamente progressiva e ruffiana, a far sì che personaggi assai distanti trovassero alla fine il modo di accordarsi. Il sindaco Luigi de Magistris e l'autore della proposta, Alfredo Romeo: ecco l'ultima imprevedibile coppia che il palcoscenico napoletano mette in cartellone. Dietro le quinte c'è l'intesa sui 43 milioni che il Comune di Napoli deve all'azienda Romeo per anni di gestione immobiliare; sullo sfondo c'è un progetto di recupero urbano che riguarda, appunto, l'insula a ridosso del porto e alle spalle del teatro Mercadante; ma in scena c'è molto, molto di più: addirittura un nuovo modello di governo della città, qualcosa che potrebbe mandare in soffitta l'attuale organizzazione comunale, i presupposti per una nuova forma di federalismo.

L'ALBERGO «ROMEO» - Premessa d'obbligo: «Ho scelto quest'area — dice Romeo — perché voglio dare una mano alla città, aiutarla a risollevarsi; ma anche perché qui c'è il mio albergo, e dunque non a caso. Sono pur sempre un imprenditore». Ma poi c'è anche un'altra ragione. Romeo vuole sperimentare un modello di gestione su cui specializzare la sua azienda. Vuole verificare se l'idea può funzionare, il suo è dunque una sorta di investimento. Proprio per questo, regala il progetto al Comune; è pronto a realizzarlo a sue spese, costo previsto dai tre ai quattro milioni; e, così dice, non si propone per la gestione: «Perché se il modello funziona, deve funzionare con me o senza di me». Sulla terrazza con vista sul porto e sul vecchio molo borbonico dell'hotel che porta il suo nome, davanti a una insalata con tonno essiccato e sale di vaniglia, orgoglio dello chef, Romeo spiega dunque il suo progetto. Piantina sul tavolo, ecco com'era l'antica dogana, che si chiama così perché una volta il porto arrivava fin qui, ed ecco come sarà. Garage interrato automatico per 90 auto in vico II San Nicola alla Dogana, di quelli che lasci l'auto su una piattaforma, schiacci un bottone, e te la ritrovi sistemata in un loculo libero; isole pedonali in piazza Francese e piazza della Dogana; rifacimento della pavimentazione e dell'illuminazione; insegne graficamente omogenee; e poi essenze arboree, rimozione degli abusi, decoro urbano.

L'AREA INTERESSATA - La superficie dell'insula è di oltre 37 mila metri quadrati, e ha, attualmente, un valore commerciale totale, a detta dell'agenzia del territorio, di 338 milioni di euro. A lavori conclusi potrebbe arrivare fino a 577 milioni, aumentare cioè del 48 per cento. Tanto margine di incremento si spiega perché, tra le città a vocazione turistica come Roma e Firenze, Napoli è l'unica in cui il valore immobiliare nel centro antico è maggiore, rispetto alla media, solo del 10 per cento. «Quest'area ha grandi potenzialità, se solo se ne avesse cura», commenta Romeo. In sostanza, questo imprenditore assai discusso e poco simpatico; che gestisce patrimoni immobiliari come il Quirinale; che ha un'azienda che nel settore è prima in Europa e seconda al mondo; che è stato ed è coinvolto in inchieste giudiziarie dalle quali è sempre uscito indenne e, dal punto di vista imprenditoriale, più forte di prima; questo insolito imprenditore meridionale, si diceva, ha inventato, almeno così pare, il modo di mettere a reddito la città, di gestirla senza aggravare la contabilità pubblica. Un modello che esporterà presto all'estero, a Londra prima che altrove. «Se funziona qui, funziona ovunque», ribadisce. L'idea, in sostanza, è di dividere Napoli in insule o, se si vuole definirle in altro modo, in grandi condomini urbani. E di amministrare queste realtà omogenee come si amministra un'azienda: qui i costi, qui i ricavi. I costi sono le ristrutturazioni, i parcheggi, le panchine, le aiuole; i ricavi vengono invece dalla rivalutazione del patrimonio. E il capitale con cui mettere in moto la macchina? Ecco l'uovo di Colombo: la quota parte di tributi locali come la Tarsu, l'Imu, i canoni acqua, i proventi delle affissioni, eventuali imposte di scopo. Le città vivono di trasferimenti statali e di gettito tributario. Tuttavia, spiega Romeo, «in tempi in cui i trasferimenti statali sono destinati a ridursi sempre di più, non resta che affidarsi al secondo».

L'«AUTOGOVERNO» DELL'INSULA - E allora. Quanto versa, in tributi, un'insula? Quella è la cifra da cui si comincia a ragionare. Per quella cifra, quali servizi riceve? Romeo è convinto che se la gestione avviene non più in modo centralizzato, ma per aree omogenee, tutti i servizi possono essere resi più efficienti e più convenienti. Non solo: si può produrre anche una utilità marginale, un guadagno, da reinvestire in parte nell'insula stessa, in parte in altre realtà, e in parte per potenziare i servizi «trasversali», come i trasporti o la polizia municipale, che riguardano l'intera città. Certo, si tratta di smontare e rimontare la macchina comunale, ma la novità assoluta consiste nel fatto che ogni insula si autogoverna. Vive, cioè, del suo gettito tributario e si gestisce in proprio la sicurezza, la raccolta dei rifiuti, o la manutenzione stradale. È dunque lecito parlare di un nuovo federalismo, di un «federalismo urbano», per la precisione. Alfredo Romeo: il Gianfranco Miglio del Sud? Già, proprio questo è il punto. L'autogoverno: è qui che il comunitarismo privatistico e pragmatico di Romeo incontra il benecomunismo utopico di de Magistris. Non a caso entrambi parlano di nuove forme di governo e di democrazia partecipata, e Romeo addirittura mobilita lo staff di Renato Mannheimer per consultare e coinvolgere al progetto quanta più gente è possibile. Ma è qui, anche, che l'aziendalismo dell'uno potrebbe fare a pugni con le esigenze politiche dell'altro. In fondo, in una città come Napoli, un quartiere come Chiaia starebbe alla ricca Lombardia leghista come Secondigliano alla più povera Campania. Come può de Magistris fare sua una ipotesi del genere? Può, risponde Romeo, perché le cose non stanno affatto così: «So bene che ci sono ragioni sociali primarie e esigenze di equilibrio territoriale, ma sono pronto a dimostrare che tutte le insule possono avere, nel gioco tra costi e ricavi, la loro marginalità positiva». E perché? «Perché lì dove non c'è la ricchezza di Chiaia o del Vomero può esserci la quantità dei quartieri popolari. Si pensi alla densità abitativa di un rione come Scampia. Ma poi anche nelle aree più deboli ci sono realtà che possono produrre reddito, come gli spazi per le affissioni o i muri ciechi che potrebbero essere utilizzati per la pubblicità. Basta pensarci».

LA SOLUZIONE PER LE BUCHE - Se il problema è «scassare», conclude Romeo citando esplicitamente il sindaco, ecco un modo concreto per farlo: fuori il pletorico apparato burocratico dei Comuni e dentro una nuova e più funzionale organizzazione. «Del resto — profetizza — chi può credere di poter gestire le città, anche negli anni a venire, con gli strumenti del secolo scorso, con rimesse statali sempre più ridotte, con competenze spezzettate tra una dozzina di assessori, con centinaia di funzionari e con ventimila dipendenti? Una simile megastruttura non può reggere a lungo. E presto si arriverà, ne sono certo, a chiedere il pedaggio per attraversare le strade urbane, come si fa per la tangenziale e le autostrade». Che fare, allora? «I Comuni sono ormai grandi produttori di servizi. E importa poco se sono di destra o di sinistra. Importa di più reperire le risorse necessarie e coniugare le ragioni del rigore economico con quelle dell'efficienza e della solidarietà». Inutile dire che Romeo avrebbe una soluzione anche per il problema delle buche stradali, che a Napoli non è un problema da poco. A Roma, prima che arrivasse Alemanno, ha curato il servizio per anni: macchine speciali che passano ai raggi x il manto stradale, sensori che avvertono i primi segni di cedimento, dati trasmessi a una centrale operativa con tanto di telecamere e squadre di pronto intervento per riparare i danni. Funzionava, pare. Anche se dopo è arrivato un altro gestore. Qualche anno fa, citando i classici del riformismo e prima di Romeo, anche Blair diceva che riparare una strada non è né di destra, né di sinistra.

La Repubblica, ed. Napoli, 12 aprile 2012

Antica Dogana, alt ad Alfredo Romeo

rispettare il piano regolatore

di Luigi De Falco

L'assessore comunale all'Urbanistica: in quell'area l'albergo a cinque stelle dell'imprenditore sul quale è in atto un contenzioso per abusi edilizi

Lo statuto del territorio della città è scritto nella disciplina del suo piano regolatore. Il primo articolo della sua normativa definisce e sintetizza con esattezza estrema le finalità che devono ispirare l'azione pubblica di governo del territorio alla quale (azione) possono e - ancor più oggi - devono partecipare anche i privati, ben sapendo che al pubblico e solo al pubblico spetta il governo delle trasformazioni.

Il primo articolo delle norme attuative del piano stabilisce che esso persegue sei esatte finalità:

1) la tutela e il ripristino dell'integrità fisica e dell'identità culturale del territorio, il recupero della città storica e la valorizzazione del territorio d'interesse ambientale e paesistico, promuovendo la costituzione dei parchi regionali delle Colline e del Sebeto, la ripresa dell'agricoltura urbana e periurbana;

2) la riconversione delle aree dismesse, per nuovi insediamenti per la produzione di beni e servizi, integrati con le residenze, anche pubbliche, e per un'ampia dotazione di verde;

3) la riqualificazione degli agglomerati urbani di recente formazione, in particolare periferici, con immissione di funzioni pregiate, il miglioramento della dotazione di attrezzature, spazi a verde, e la valorizzazione dei centri storici minori, promuovendone l'identità, e dei quartieri di edilizia pubblica;

4) l'adeguamento della dotazione dei servizi orientati a favorire rapporti di comunità nei quartieri e formare punti di aggregazione d'elevata qualità;

5) la riforma del sistema di mobilità, riorganizzato intorno a una moderna rete su ferro, con il recupero delle linee esistenti e l'integrazione di nuove, e l'incremento delle stazioni per determinare diffuse condizioni di accessibilità in tutto il territorio, e potenziato dalla realizzazione della "metropolitana del mare";

6) l'integrazione a scala metropolitana del sistema urbano di Napoli.

Non riconoscersi - e totalmente - nel solco nettamente tracciato dallo strumento urbanistico, maturato da una lunga fase di discussioni davvero "partecipate", significherebbe negare una pagina storica e attualissima della democrazia di questa città. Oggi Napoli vive una condizione di forte disagio economico, costretta in un "embargo" quasi cubano, dove le sue scelte corrono sistematicamente il rischio di sconfortarsi con la crisi nazionale o essere sindacate dalle istituzioni superiori, politicamente orientate verso altri scenari politici. Da qui la polemica estiva sulla scelta dei monumenti da finanziare con le risorse (sempre più ridotte) del Grande Progetto per il centro storico Unesco, che a prescindere da presunti accordi tra le amministrazioni regionale e quella comunale (del tempo) rappresentano oggi, in ogni caso, grasso che cola (ma quando?) su una città storica la cui dimensione pretenderebbe risorse almeno dieci volte maggiori. Da qui pure le difficoltà a rimettere in moto Bagnoli, per via della sospensione dei finanziamenti decisa dalla Regione Campania. E così la difficoltà di far procedere i cantieri dell'edilizia residenziale pubblica, tutti arenati dall'improvvisa indisponibilità delle risorse.

Amministrare oggi la città è come condurre una nave in mezzo alla tempesta e priva di carburante. Ma non si naviga a vista: la rotta è ben chiara e il porto sicuro. Ma senza carburante si ricorre alle vele, alla spinta volontaria e coraggiosa delle bracciate dei suoi passeggeri (forti e tantissimi), ai remi fortunosamente reperiti a bordo. Sono queste le risorse che l'amministrazione de Magistris sta reperendo, apparentemente discese dal cielo, dal caso degli eventi effimeri e straordinari, dall'iniziativa dei privati la cui libertà di azione deve ineludibilmente riferirsi, con chiarezza e sempre, ai limiti ben chiaramente individuati nelle finalità del piano regolatore che ispira ogni scelta dell'Amministrazione.

Il caso Antica Dogana va ponderato con opportuna misura. Che ancor più singolare che la proposta riguarda il ripristino delle condizioni alterate dell'edificato al contorno, quand'essa non includa pure il ripristino del moderno immobile alterato da abusi edilizi - contestati all'avvocato Romeo - e per i quali il Comune, sinora inascoltato, ha ordinato pure la demolizione.

Sinceramente la proposta delude quanti speravano (ma ancora confidano) nell'inversione radicale del rapporto, orientandolo verso una sincera collaborazione tra il privato e la pubblica amministrazione. Ancora una volta al privato dev'essere ricordato (e rammarica essere costretti a farlo) il rispetto delle regole del gioco stabilite dalla democrazia.

La Repubblica, ed. Napoli, 12 aprile 2012

Gentile assessore De Falco ci spieghi la sua democrazia

di Alfredo Romeo



L'imprenditore: "Una politica perdente che, mancando di idee e di coraggio, si esprime solo per slogan e chiacchiere da bar

Gentile Direttore,

Nel pieno di un dibattito alto, propositivo, critico e costruttivo sul futuro di Napoli, leggo con incredulità le dichiarazioni virgolettate dell'assessore all'Urbanistica Luigi De Falco sul progetto Insula-Borgo Antica Dogana riportate dal Suo giornale ieri 11 aprile. Le parole usate dimostrano una ignoranza dei fatti e un pregiudizio di fondo che vanno assolutamente chiariti per il bene della città.

L'assessore De Falco, infatti, ha firmato non più tardi di quindici giorni fa una delibera comunale in cui la Giunta esprimeva "interesse" per il "progetto sperimentale Insula-Borgo Antica Dogana". Se l'assessore De Falco aveva obiezioni da fare sulla sperimentazione (e insisto su questa parola) in oggetto, era in quella sede istituzionale che doveva esprimerle e chiarirle anche al suo sindaco. E avrebbe dovuto farlo come cittadino, come architetto, come urbanista con proposte, correttivi, ipotesi alternative, SOLUZIONI. Invece ha firmato (per ben due volte), tacendonella più alta funzione di rappresentante del popolo.

Quella firma (anche quella firma) ha contribuito ad accendere il dibattito altissimo che ha visto intervenire sui giornali personaggi al di sopra di ogni sospetto (dal professore Gravagnuolo al professor Quintano, dal professor Galasso al professor Macry, da Paolo Pomicino al capo dell'opposizione in Comune Gianni Lettieri, al capolista del Pd alle ultime elezioni De Gregorio; da urbanisti come l'ex sindaco Rocco Papa, a uno degli architetti che hanno rivoluzionato Barcellona, Jordi Bellmunt Chiva. E in cui, caro Direttore, è intervenuto anche Lei nel fondo dell'8 aprile, nel quale anche senza mai citare l'Insula, come Galasso, poneva però la questione cruciale dei programmi, dei progetti e delle strategie per rilanciare Napoli.

E invece che fa il nostro De Falco? Al silenzio manifestato in Giunta, oppone pubbliche frasi su un presunto abuso edilizio per il mio albergo che insiste su quella zona e sui rischi per la democrazia. Ma cosa c'entrano con il progetto dell'Insula? E che c'entrano con la lealtà e la trasparenza che si dovrebbero al sindaco che ti ha dato una delega così importante? E che cosa c'entrano con il mestiere di assessore che dovrebbe essere quello di operare sintesi utili e costruttive per la città?

Non si capisce , se non facendo un tuffo nel passato, nel vecchiume intellettuale di quei modi trasversali, sudaticci e piccoli piccoli di una politica perdente che mancando di idee e di coraggio si esprime solo per slogan demolitori alla cieca, tanto per alimentare inconcludenti chiacchiere da bar. Vuoi vedere che si parla impropriamente di Piano Regolatore e di quando non si hanno argomenti fondati e progetti costruttivi per dare senso e contenuto al proprio ruolo istituzionale? O ci si vuole ritagliare - non avendo altri strumenti che la battuta demagogica - uno spazio da interlocutore "interdittivo" con il proprio sindaco?

Mai come in questo caso, invece(e sfido chiunque a dimostrare il contrario), i rapporti tra Pubblico e Privato sono stati chiari, esplicitati fin nell'ultimo dettaglio, non di una transazione, ma di un'ipotesi di progetto per la città che non a caso ha attivato il suddetto, forte dibattito su un progetto di rifondazione amministrativa e di valorizzazione del territorio che ha suscitato in primis l'interesse del sindaco e smosso finalmente un interesse pubblico all'ideazione del futuro. E in cui De Falco si è inserito - ripeto - con la pochezza di chi non ha idee e forse non sa cosa dice.

Sì, è vero: sull'Insula insiste il mio albergo ("privato", lo definisce l'assessore e non capisco la ovvia sottolineatura). E io ho offerto alla città una bonifica e una valorizzazione del territorio a titolo grazioso per la città di Napoli per un valore di 7 milioni. Non solo. Ho avanzato come Romeo Gestioni un'ipotesi di gestione a democrazia partecipata (questa sì) in rapporto strettissimo con l'amministrazione comunale di cui De Falco dovrebbe essere un leale sostenitore e propositore, per cercare di offrire servizi migliori ai cittadini a parità di costo. Anzi, con un forte risparmio per le casse comunali.

Questa è violazione delle "regole del gioco stabilite dalla democrazia", come sostiene il difensore della "cosa pubblica", l'assessore De Falco?

Bene, caro Direttore. Se questo è il rischio io posso sospendere qualunque intervento di bonifica e di progettazione. In fondo tocca al sindaco di Napoli - che all'idea si è appassionato - spiegare ai cittadini (e rassicurare certi suoi assessori) che qui non è in gioco la democrazia, ma un'ipotesi di sviluppo e di progresso per Napoli. Quanto all'Insula, valuteremo le proposte di sperimentazione che ci arrivano da altre parti d'Italia e d'Europa.

Però, in quanto cittadino/contribuente che solo per la TARSU, e cioè per la presunta raccolta dell'immondizia, ha pagato per l'albergo ("privato") fin qui 287.591,25 euro, chiedo all'assessore all'Urbanistica De Falco di raccontare a me e alla città quali siano i suoi programmi per bonificare tutta l'area dell'Insula, oggi degradata, e che dovrebbe invece essere una vetrina della città. Quali sono i suoi programmi per rimettere in ordine quelle strade. Quali i suoi interventi per ripristinare illuminazione, verde, aree pedonali e sicurezza. Quali le sue garanzie a noi contribuenti che la raccolta dei rifiuti sarà fatta con accuratezza. Quale la sua promessa che pure a fronte di servizi così scadenti non aumenterà le tasse tipo Imu e Tarsu. Quali siano i suoi progetti per uscire dalla squallida politica degli attacchi gratuiti per proporre, per esempio, una maggiore efficienza dell'amministrazione comunale. E gli chiedo infine quali siano i suoi principi ispiratori per garantire al cittadino una democratica civiltà dell'abitare.

Alfredo Romeo (Cittadino contribuente)

La Repubblica, ed. Napoli, 12 aprile 2012

Alfredo Romeo contro De Falco "L'assessore parla per slogan"

di Antonio Tricomi

Antica Dogana: l'imprenditore risponde al responsabile dell'Urbanistica

Romeo contro De Falco. In una lettera a Repubblica, l'imprenditore risponde a muso duro all'assessore comunale all'Urbanistica, che ieri proprio su Repubblica aveva espresso forti perplessità sull'ipotesi di accordo tra Alfredo Romeo e Comune di Napoli sul progetto di riqualificazione dell'area dell'Antica Dogana, compresa tra via Cristoforo Colombo e via Depretis. L'area, sostiene l'assessore Luigi De Falco, "ha come baricentro proprio l'albergo a cinque stelle (di proprietà di Romeo) sul quale è in atto un contenzioso per abusi edilizi e violazioni delle norme di tutela del paesaggio".

Dura la risposta di Romeo. "L'assessore De Falco ha firmato non più tardi di quindici giorni fa una delibera in cui la giunta esprimeva interesse per il progetto", scrive l'imprenditore. "Se aveva obiezioni, era in quella sede istituzionale che doveva esprimerle. E invece che fa il nostro De Falco? Al silenzio manifestato in giunta oppone pubbliche frasi su un presunto abuso edilizio per il mio albergo che insiste su quella zona e sui rischi per la democrazia".

Per Romeo la posizione di De Falco "non si capisce, se non facendo un tuffo nel passato, nel vecchiume intellettuale di quei modi trasversali, sudaticci e piccoli piccoli di una politica perdente che mancando di idee e di coraggio si esprime solo per slogan demolitori, tanto per alimentare inconcludenti chiacchiere da bar. Vuoi vedere prosegue l'imprenditore che si parla impropriamente di piano regolatore e di rispetto delle regole nei rapporti tra pubblico e privato quando non si hanno argomenti fondati e progetti costruttivi per dare senso e contenuto al proprio ruolo istituzionale? Mai come in questo caso sottolinea Romeo i rapporti tra pubblico e privato sono stati chiari, esplicitati fin nell'ultimo dettaglio, non di una transazione, ma di un'ipotesi di progetto per la città".

E a questo punto Romeo chiama in causa anche de Magistris, evidenziando come il progetto abbia "suscitato in primis l'interesse del sindaco e smosso finalmente un interesse pubblico all'ideazione del futuro". Su questo tema De Falco si sarebbe inserito "con la pochezza di chi non ha idee e forse non sa cosa dice. Sì, è vero ammette Romeo sull'Insula insiste il mio albergo ("privato", lo definisce l'assessore e non capisco la ovvia sottolineatura). E io ho offerto alla città una bonifica e una valorizzazione del territorio per un valore di 7 milioni. Non solo. Ho avanzato come Romeo Gestioni un'ipotesi di gestione a democrazia partecipata (questa sì) in rapporto strettissimo con l'amministrazione comunale di cui De Falco dovrebbe essere un leale sostenitore, per cercare di offrire servizi migliori ai cittadini a parità di costo. Anzi, con un forte risparmio per le casse comunali"

In conclusione, si chiede Romeo, "questa è violazione delle regole del gioco stabilite dalla democrazia, come sostiene il difensore della "cosa pubblica" De Falco? Se questo è il rischio io posso sospendere qualunque intervento di bonifica e di progettazione. In fondo tocca al sindaco - che all'idea si è appassionato - spiegare ai cittadini (e rassicurare certi suoi assessori) che qui non è in gioco la democrazia, ma un'ipotesi di sviluppo e di progresso per Napoli. Però, in quanto cittadino/contribuente, chiedo a De Falco di raccontare a me e alla città quali siano i suoi programmi per bonificare tutta l'area dell'Insula, oggi degradata, e che dovrebbe invece essere una vetrina della città"

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Postilla

Ciò che colpisce, in questa vicenda per tanti versi esemplare, è l’arroganza dell’immobiliarista e l’incertezza dell’amministrazione. Il primo, nella fattispecie il Romeo, che si esprime come duecento anni fa poteva esprimersi il Padrone delle ferriere, oppure come, a Napoli, si esprimevano quei costruttori che dicevano che del piano regolatore non c’era bisogno perché loro sapevano regolarsi da sé - e poi s’è visto come - oppure quelli del film di Francesco Rosi cui, per la sua attualità , dedichiamo l’icona. La seconda, l’amministrazione comunale, rappresentante del popolo sovrano, che lascia cuocere la questione a bagno maria fino al sacrosanto intervento del’assessore De Falco, senza indignarsi fin dal primo affacciarsi sula scena del Padrone.

In troppe città italiane chi governa la Finanza (chi ha i soldi) esercita il Potere (con la tolleranza degli eletti, e la benevola complicità degli organi dell’opinione pubblica).

FORSE non ve ne siete resi conto, ma ieri mattina, quasi in sordina, si è chiusa un´epoca. Per quanto sopravviva una flebile speranza di nuove inchieste, ieri a Brescia nella sostanza (resta solo il ricorso in Cassazione) si è chiusa, con bilancio fallimentare, la pluridecennale stagione delle inchieste giudiziarie per le bombe della "strategia della tensione". Le condanne mancate parlano dell´inquietante presenza di reti di solidarietà occulte Ma la battaglia democratica degli inquirenti e della società civile lascia un´eredità preziosa

La strage di Brescia gode di un triste primato: nessun condannato. «Me l´aspettavo» è il commento più frequente al dispositivo della sentenza d´appello. Realismo comprensibile, ma non per questo meno tremendo. Quanto è terribile essere preparati a qualcosa di inaccettabile sotto il profilo etico, civile e semplicemente umano? Non aspettarsi più condanne per una strage di matrice politica che ha ucciso 8 persone: 5 insegnanti attivi nel sindacato, 2 operai, un ex partigiano. Un microcosmo specchio dell´Italia che pacificamente lottava, lavorava e sperava, in piazza della Loggia per una manifestazione antifascista e in piazza ucciso dall´ennesima bomba neofascista (con buona pace dei "negazionisti" di casa nostra, questo è accertato). Mentre l´Italia inorridiva davanti alla carneficina, il luogotenente per il triveneto dell´organizzazione terroristica Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi, arringava i suoi "soldati": «Brescia non deve rimanere un fatto isolato». Assolto: ma siano noti a tutti i suoi reiterati proclami stragisti, nell´Italia dove le stragi sono accadute per mano di individui che l´hanno fatta franca.

Terribile perché – e lo vedi negli occhi rossi, nelle facce tirate – dopo una lunghissima inchiesta (per consentire lo svolgimento di un´indagine complessa grazie all´impegno civile dei famigliari delle vittime ci sono stati interventi legislativi ad stragem per prorogare i tempi oltre il limite dei 2 anni) e un lungo processo, la possibilità di condannare esisteva. Parafrasando Pasolini: oggi non solo sappiamo, ma abbiamo faticosamente accumulato prove e indizi, «che in tanti processi comuni bastano e avanzano a condannare» – commenta a caldo un legale di parte civile. Insufficienti a provare il concorso in strage al di là di ogni ragionevole dubbio nel rito lento e cauto del processo accusatorio, in uno stato di diritto. Sia chiaro a quanti storcono il naso pensando che qualcuno andasse a caccia di un colpevole a tutti i costi. Non è un caso che le prove, nei processi per strage, non bastino mai.

Quest´assoluzione è solo l´ultima, umiliante vittoria di un´attività sistematica volta a distruggerle e depistare le indagini. Cominciata la mattina della strage, col frettoloso lavaggio della piazza, con sacchi di materiale raccolto dopo l´esplosione finiti nella spazzatura, anziché repertati: forse anche frammenti del timer della "bomba fantasma" su cui in aula si è guerreggiato. Le testimonianze dei primi periti, concordanti con la descrizione del defunto collaboratore Carlo Digilio (l´armiere di Ordine Nuovo, che preparò l´ordigno di piazza Fontana) non sono bastate a far ritenere credibile la sua testimonianza. Brescia fu il prototipo di una strategia di depistaggio sofisticata (poi smascherata dagli stessi tribunali). Una tecnica più subdola delle "piste rosse" costruite intorno a piazza Fontana: la "falsa pista nera". I responsabili? Si additò un manipolo di fascistelli sbandati, piccoli criminali capeggiati dall´istrionico manipolatore Ermanno Buzzi. Una pista circoscritta, lontana dalle "trame nere" milanesi (oggetto del secondo ciclo di processi, che mandò assolti gli imputati per strage, ma tracciò il quadro della rete terroristica cui doveva appartenere la manovalanza) e da quelle venete, a cui appartenevano gli imputati dell´ultimo processo. Processo istruito anche sulla base di note informative del Sid coeve ai fatti (la fonte era l´imputato Maurizio Tramonte): queste portano dritto alla galassia terroristica di Ordine Nero, che aveva esplosivi, uomini, intenti eversivi, responsabile di uno stillicidio di attentati nell´anno precedente, filiazione del blocco eversivo di Ordine Nuovo, disciolto dopo la condanna del 1973 per ricostituzione del partito fascista. Un manipolo di sbandati prudentemente lontano dalle trame di golpe "bianco" autoritario o presidenzialista - anch´esse più sofisticate del progetto di golpe militare modello greco di Borghese - emerse proprio nel 1974 con le inchieste Mar e "Rosa dei venti". Una pista nera "sbiadita" e innocua, portata avanti con ogni mezzo dal generale Francesco Delfino, passato sul banco degli imputati. Assolto dal concorso in strage, forse leggeremo nelle motivazioni che è stato responsabile di favoreggiamento, ormai prescritto: le arringhe di parte civile l´hanno argomentato in modo stringente. Sarebbero andate diversamente le cose se i centri di controspionaggio del Sid, anziché occultarle fino agli anni Novanta, avessero fornito nel ‘74 quelle note informative (confermate anche dal generale del Sid Maletti, un "depistatore" di piazza Fontana, dal suo buen retiro sudafricano)? Se i carabinieri di Padova, comandati dal piduista Del Gaudio, avessero fornito le copie che avevano? Se il centro di controspionaggio di Padova non avesse distrutto non solo i documenti, ma - contro regolamenti - anche i registri che dovrebbero lasciarne traccia? Una parte di Stato ha lavorato con costanza e sistematicità per coprire i bombaroli che alimentavano la tensione, e poi per proteggere se stessa. Le condanne mancate parlano dell´inquietante sopravvivenza di reti di solidarietà occulte, suggeriscono una continuità di pratiche illegali annidate in seno alle forze di sicurezza, che ci balenano davanti agli occhi nei "depistaggi sofisticati", a base di piste false ma verosimili, messi in atto quando s´indaga sulle stragi mafiose, sulle trattative Stato-mafia.

La zizzania e il grano continuano a crescere insieme. Siamo figli di quei peccati e di quelle omissioni, ne portiamo il peso, ne paghiamo il prezzo. Oggi, nell´Italia impoverita, pessimista, delusa dalla politica, stritolata dalle organizzazioni mafiose, la tenacia e la battaglia democratica degli inquirenti, delle parti civili, di tanta società civile forniscono l´insegnamento più prezioso: vale comunque la pena lavorare, si riesce a consolidare un corpo vivente di carte, prove, voci, immagini che ci raccontano cosa è accaduto attorno a noi. Le assoluzioni non bastano a cancellarlo. Cantava De Andrè: "Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti".

Postilla

La strage di Piazza Fontana non ci ricorda solo la complicità di “pezzi” (peraltro molto rilevanti) dello stato, ma anche un altro delitto d’altro ordine: quello compiuto dalla linea culturale, diventata egemonica, che ha tentato di seppellire un fatto storico ormai accertato dagli studiosi più attenti.

Il fatto che con la “stagione delle bombe” si è voluto contribuire - nell’immediato - a contrastare l’avanzata di riforme vere (riforme della struttura civile, economica, sociale del nostro paese) e – più tardi – a cancellare la memoria di quegli anni in cui si lottò, con successo, per un vero progresso della società italiana dando attuazione ai dettami e allo spirito della Costituzione e della Resistenza.

La rimozione della memoria del processo di riforma civile e sociale avviata, e in parte realizzata, negli anno 60 e 70 del secolo discorso è stata un’arma sapientemente adoperata in Italia per affermare anche da noi l’ideologia e la prassi del neoliberismo, attraverso il craxismo prima e il berlusconismo poi.

Mi sembra che non ne siamo ancora fuori, in nessuno dei segmenti dello spazio politico attuale. Anche per questo è utile ricordare quelli che ho definito I vent’anni del cambiamento e della speranza: un articolo pubblicato su “Carta”, che vi ripropongo.

Risale a più di dieci anni fa un articolo di Paul Krugman - uno dei più profetici - sul collasso della compagnia energetica Enron. La Grande Crisi che traversiamo fu preceduta da quel primo cupo segnale, e in esso l´economista vide, sul New York Times del 29 gennaio 2002, la forma delle cose future. Quella storia di finta gloria mischiata a frode era ben più decisiva dell’assalto al Trade Center, che l’11 settembre 2001 aveva seminato morte e offeso la potenza Usa. «Un grande evento - era scritto - cambia ogni cosa solo se cambia il modo in cui vedi te stesso. L´attacco terrorista non poteva farlo, perché di esso fummo vittime più che perpetratori. L´11 settembre ci insegnò molto sul wahabismo, ma non molto sull´americanismo».

La vicenda Enron mise fine all´età di innocenza del capitalismo, svelando le sregolatezze e il lassismo in cui era precipitato. I sacerdoti di quell´età erano prigionieri di dogmi, e nessuna domanda dura scalfiva la convinzione che questo fosse il migliore dei mondi possibili. Fu come il terremoto di Lisbona, che nel 1755 costrinse la filosofia europea ad abbandonare (grazie a Voltaire, a Kant) l´ottimistica fede nella Provvidenza. Nell´immediato non uccise come l´11 settembre, ma siccome non esiste sacerdote senza sacrifici cruenti anche questo presto cambiò: fra il 2007 e oggi la crisi ha cominciato ad avere i suoi morti, sotto forma di suicidi. Sono iniziati in Francia, nel 2007-2008. Ora quest´infelicità estrema, impotente, lambisce Grecia e Italia, colpite dalla recessione e da misure che rendono disperante il rapporto fra l´uomo e il lavoro, l´uomo e la propria vecchiaia, l´uomo e la libertà. Senza lavoro, senza la possibilità di adempiere gli obblighi che più contano (verso i propri figli, la propria dignità) la stessa libertà politica s´appanna: diventi un emigrante clandestino in patria, un trapiantato.

Suicidi di questo tipo non sono patologie intime, dislocazioni dell´anima che nella morte cerca un suo metodo. In Francia, in Grecia, in Italia, sono tutti legati alla crisi. Sono commessi da pensionati, lavoratori, imprenditori presi nella gabbia di debiti, mutui non rimborsabili, aziende fallite. È significativo che quasi tutti si immolino in piazza o nei posti di lavoro, lasciando lettere-testamenti che dicono l´indicibile scelta. Dimitris Christoulas, il pensionato che il 4 aprile s´è tolto la vita in Syntagma Square - la piazza delle proteste - scrive che il governo, ribattezzato «governo collaborazionista di Tsolakoglou» in ricordo del Premier che nel ´41-42 aprì le porte ai nazisti, «ha annientato la mia capacità di sopravvivenza, basata su una pensione dignitosa cui avevo contribuito per 35 anni». Christoulas non vuol «mettersi a pescare nella spazzatura» di che sostentarsi, e avverte: i giovani derubati di futuro impiccheranno i responsabili come fecero gli italiani a Piazzale Loreto con Mussolini. «Vista la mia età avanzata, non posso reagire in modo attivo. Ma se un mio concittadino afferrasse un Kalashnikov, sarei pronto a stare al suo fianco». Le statistiche sui primi cinque mesi del 2011 certificano un incremento di suicidi del 40 per cento, rispetto allo stesso periodo del 2010.

Disastri simili accadono in Italia. La Cgia, Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, annuncia che nel 2008-2010 i suicidi sono cresciuti del 24,6%: sono usciti dal mondo imprenditori, lavoratori dipendenti, pensionati. Nel 2008 i suicidi economici sono 150, nel 2010 sono 187. C´è un «effetto imitazione», spiega la Cgia, ma il termine è lenitivo. Ci si consolò così nel 2008, quando si uccisero 24 dipendenti di Telecom-Francia (una prima avvisaglia era venuta l´anno prima da Renault: tre suicidi in 4 mesi). Il motivo sociale venne sottovalutato, come nel 2002 si sottovalutò il crollo di Enron, rovinoso per i fondi pensione di migliaia di lavoratori. Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, parla di «perdita di sicurezza, solitudine, disperazione, ribellione contro un mondo che si sta rivelando cinico, inospitale». Governi, giornalisti, economisti dovrebbero smettere le sacerdotali litanie sulla «resistenza al cambiamento». Fa parte del loro mestiere provare a capire le segrete molle dell´uomo, non solo dei bilanci. Il suicida è un indignato che naufraga perché non riconosciuto, non visto.

Anche su questo Krugman fu veggente, nel 2002: «Per chi non è direttamente implicato - gran parte dei politici non lo è - non conta quel che ha fatto, ma quel che fa». Mancò infatti ogni esame critico del passato, del consenso a tante sregolatezze. Un decennio è passato, e l´ottusa reazione del ministro del Tesoro di Bush, Paul O´Neill, fa tuttora scuola: «Le imprese vengono e vanno. È il genio del capitalismo». I suicidi in Grecia o Italia sono una ribellione contro il fatalismo di questa definizione - genio - che vede nel capitalismo una forza di natura, contro cui nulla si può se non cader fuori dalla giostra impazzita. Un falso profeta, Samuel Huntington, predisse nel ´92 prossimi scontri tra le civiltà. Lo scontro è dentro le civiltà: la nostra. I suicidi ne sono il sintomo. Chi non ci crede vada all´Aquila. Salvatore Settis ha visto una Pompei del XXI secolo ( Repubblica 7-4). Le rovine del terremoto sono restate tali e quali, come in un racconto di fantascienza. Chi ha detto che il capitalismo è movimento?

Il suicidio studiato nell´800 da Emile Durkheim è l´autoaffondamento del cittadino cui sono strappati non solo i diritti ma gli obblighi stessi della cittadinanza: la libera sottomissione alla necessità del lavoro, il sentirsi parte di una società, di un ordine professionale, di un sindacato che includa e integri. A differenza del suicidio intimista, o dell´immolazione altruista, Durkheim lo chiama suicidio anomico. La sua radice è nell´anomia: nello svanire di norme che ogni crisi comporta. Nell´impunità di cui godono gli iniziati che di norme fanno a meno.

In quest´anomia viviamo, senza più gli avvocati dell´individuo che sono stati i sindacati, gli ordini professionali, le chiese, i partiti. La corruzione di questi ultimi è una manna, per chi vuol fare un deserto e chiamarlo pace. Grecia e Italia ne sono malate, e non a caso è qui che il cittadino tramutato in cliente non spera più di essere udito. «Mai gli uomini consentirebbero a limitare i propri desideri se si credessero autorizzati a superare il limite loro assegnato. Ma per le ragioni suddette non possono dettarsi da soli questa legge di giustizia. Dovranno perciò riceverla da una autorità che rispettano e alla quale si inchinano spontaneamente. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme, sia mediante uno dei suoi organi è capace di svolgere questa funzione moderatrice, soltanto essa è quel potere morale superiore di cui l´individuo accetta l´autorità. Soltanto essa ha l´autorità necessaria a conferire il diritto e a segnare alle passioni il limite oltre il quale non devono andare». (Durkheim, Il suicidio, 1897).

Della società fanno parte partiti, sindacati, imprenditori, governanti: tutti si sono rivelati incapaci di osservare e dunque imporre le norme, tutti sono portatori di anomia. Per questo leggi e tutele sono così importanti. Diceva nell´800 il cattolico Henri Lacordaire: «Tra il forte e il debole, tra il ricco e il povero, tra il padrone e il servitore: quel che opprime è la libertà, quel che affranca è la legge».

Di legge, di nòmos, hanno bisogno i cittadini greci e italiani, apolidi in patria. Se è vero che viviamo trasformazioni planetarie, urge sapere che esse scatenano sempre un aumento di suicidi: secondo Durkheim anche i boom economici demoralizzano. Dobbiamo infine sapere che Camus aveva ragione: la rivolta è la risposta, l´unica forse, al suicidio (il paese «si salva al piano terra», dice Erri De Luca). Quando è positiva, la rivolta tende a reintrodurre il senso della legge lì dove s’è insediata l’anomia.

Crisi del mercato - italiano ed europeo - dell'auto, attacco governativo agli incentivi per le energie rinnovabili, movimenti NoTav, No Tem (Tangenziale esterna milanese) ed altri simili: sono fatti da prendere in considerazione insieme. E insieme, anche, a due altri problemi: chi deve tenere insieme quei fatti? E dove?

Di questi tre problemi il più serio è il terzo: perché occorre ricostituire uno spazio pubblico - o molte sedi: una per ciascuno dei territori che sono interessati a quei fatti - dove affrontare la discussione in modo operativo. La soluzione del secondo problema coincide in gran parte con quella del terzo: una volta costituita una sede del genere, la partecipazione di una cittadinanza attiva, e di una schiera di lavoratori che aspettano solo di riprendere in mano il loro destino, è molto più facile: c'è nel paese una spinta alla partecipazione che da anni non si sentiva più (la Valle di Susa insegna). Quanto alla crisi dell'auto, agli incentivi per le rinnovabili e alla resistenza contro le Grandi opere, parlano da sé.

Li possiamo riassumere così. Primo, Marchionne ha lasciato definitivamente cadere il fantasioso progetto «Fabbrica Italia» che avrebbe dovuto triplicare la vendita in Europa di auto prodotte nel nostro paese. Al suo posto ha ridotto ulteriormente di un terzo la produzione italiana e spiegato che bisogna ridurre di un terzo anche la capacità produttiva di tutto il settore in Europa: il che vuol dire chiudere altri due (e forse tre) stabilimenti italiani della Fiat. Lo ha detto - o minacciato - e lo farà. In un'Europa ormai entrata in una recessione che a furia di tagli ai bilanci finirà per coinvolgere anche la Germania - e la Volkswagen - la Fiat non ha alcuna possibilità di recuperare le quote di mercato perse.

Ma che succederà degli stabilimenti dismessi? Si continuerà a chiedere a Marchionne di «tirar fuori» dei nuovi modelli per recuperare lo spazio perduto? Si aspetterà, come a Termini Imerese, un altro Rossignolo che prometta di produrvi un «Suv di lusso», solo per intascare, come ha sempre fatto, un bel po' di milioni pubblici? E si passerà poi la mano alla Dr Motors, perché produca - lì e anche alla Irisbus di Avellino - un «Suv per poveri», senza avere neanche i soldi né il credito per tenere in piedi lo stabilimento di quella capitale europea dell'automobile che è Isernia? Oppure si lascerà andare in malora fabbriche e lavoratori, come a Termini Imerese e a Avellino? Non si può invece mettere in cantiere una produzione che abbia un futuro più certo e un impatto meno devastante dell'automobile, e che sia compatibile con gli impianti, il know how e l'esperienza dei lavoratori della Fiat e dell'indotto?

Secondo, il ministro Passera vuole abolire o ridurre drasticamente gli incentivi per le fonti rinnovabili (che hanno eroso gli incassi degli impianti di termogenerazione) e riempire il paese di trivelle per estrarre altro petrolio e metano (se c'è). La scusa è che quegli incentivi costano troppo (anche se hanno fatto risparmiare parecchio ai consumatori). La realtà è invece che sono stati elargiti a casaccio, senza alcuna programmazione. Sono stati per anni i più alti del mondo (non ce n'era alcun bisogno) e sono finiti in gran parte in mano non a società energetiche, ma a finanziarie, in gran parte estere (che non ne avevano alcun bisogno); e non a coprire fabbisogni energetici di abitazioni e piccole imprese (fotovoltaico) o di comuni e zone industriali (eolico e biomasse) di prossimità.

È vero che con quegli incentivi sono stati finanziati oltre 400mila impianti fotovoltaici; ma quattro quinti della potenza installata è esclusa dallo «scambio sul posto»; cioè l'energia prodotta non è asservita a un fabbisogno locale, ma va tutta in rete: a costi maggiori di quella generata da impianti termici e, per lo più, dopo aver espiantato campi e frutteti per ricoprire intere vallate di assai più redditizi (grazie agli incentivi) pannelli solari. Peggio, il paese si sta riempiendo di impianti a biomassa, alimentati non da residui agroforestali di prossimità, ma da olio di palma importato da Indonesia e Madagascar; o da mais sottratto all'alimentazione umana e animale. Per di più, quasi tutti quegli impianti sono importati, mentre in Italia chiude - e continuerà a chiudere - uno stabilimento metalmeccanico dopo l'altro; perché si è lasciato che fosse il mercato - che è solo, e sempre più, speculazione - a decidere come e dove impiegare i fondi degli incentivi.

Ecco allora una soluzione. I nuovi incentivi devono essere inquadrati in una programmazione energetica nazionale che vincoli la loro concessione a un coinvolgimento diretto di quegli enti locali, Asl comprese, che si faranno carico di promuovere, raccogliere e organizzare la domanda di nuovi impianti sul loro territorio. Una programmazione che preveda anche il coinvolgimento societario degli enti locali nella riconversione delle fabbriche destinate alla dismissione, prima che il processo imbocchi un cammino irreversibile. Se il loro proprietario non sa più che cosa farsene, che ceda gli impianti a chi ha interesse alla loro esistenza e alla loro conversione. Un progetto del genere può riguardare tutte le fonti rinnovabili ma anche misure di risparmio energetico: per esempio produzione di infissi, di regolatori di flusso, di pompe di calore e, soprattutto, di impianti di micro cogenerazione, come quelli che Fiat aveva messo a punto e poi abbandonato quarant'anni fa (il Totem) e che oggi ha ripreso con successo la Volkswagen. Quest'idea vìola le regole del libero mercato? Forse. Comunque la Volkswagen le ha aggirate mettendosi in società con distributori di energia elettrica.

Dunque, si può fare anche in Italia. Cominciando a mettere insieme maestranze e sindacati degli stabilimenti a rischio con le imprese interessate a una generazione energetica locale; e con i loro tecnici, gli esperti della materia (università e centri di ricerca), la cittadinanza attiva e le amministrazioni dei comuni disposti a farsi coinvolgere in un progetto del genere.

Una piattaforma con questi progetti, una volta che siano stati messi a punto in termini generali, potrà essere presentata al governo - questo o il prossimo - ma soprattutto dovrebbe entrare in un programma elettorale e di governo sostenuto dalle forze e dalle istituzioni che vi si riconoscono. Ed essere sostenuta da una mobilitazione generale. In sostanza: si tratta di non delegare al governo la redazione di un piano energetico, ma di elaborarlo dal basso, mobilitando su interessi concreti tutti coloro che possono essere coinvolti e costruendo per questa via le forze per cercare di imporlo con la lotta. Un discorso analogo si potrebbe fare per la mobilità, rimettendo in pista la domanda di autobus, treni locali e traghetti per il trasporto merci lungo le «vie del mare»; o per l'edilizia; o per la salvaguardia del territorio; ecc.

Terzo, qui arriva il tema Tav, Tem e le decine di altri progetti di Grandi Opere in cantiere. Per finanziarle, dopo aver sottratto fondi a pensioni e servizi pubblici locali, Passera ha deciso di dare l'assalto alla Cassa Depositi e Prestiti: una specie di banca, finanziata dai depositi postali, che ha 300 miliardi di risorse utilizzabili. Era stata creata per finanziare gli investimenti degli enti locali; invece è stata privatizzata e oggi il governo conta di utilizzarla per finanziare quelle Grandi Opere devastanti che nessuna banca vuole più finanziare se non ha la certezza che i soldi, alla fine, li metterà lo stato.

La Cassa Depositi e Prestiti è fuori dal perimetro della finanza pubblica e per questo il governo pensa di poterla utilizzare senza aumentare il debito. Impedirglielo con un programma di riconversione produttiva significa impedire un furto a danno dei comuni, evitare ulteriori devastazioni del territorio, salvare occupazione, impianti e know how nelle imprese condannate a morte. È la strada verso la conversione ecologica: in una forma che unisce l'esigenza di mobilitarsi su un programma generale con la sua elaborazione dal basso.

In Europa e in Italia domina ancora la Treasury View, quel punto di vista del Tesoro britannico che nell'infausto '29 Winston Churchill, allora Cancelliere dello Scacchiere, aveva sostenuto con determinazione: «Quali che ne possano essere i vantaggi politici e sociali, soltanto una assai piccola occupazione addizionale, ma nessuna occupazione addizionale permanente, possono essere create con l'indebitamento pubblico e con la spesa pubblica». L'argomento addotto è che qualsiasi aumento della spesa pubblica sottrae un pari ammontare di risorse agli investimenti privati: se il governo si indebita, allora entra in concorrenza con il settore privato, assorbe risorse che altrimenti avrebbero potuto essere investite dall'industria privata e dunque non si avrà nessun effetto netto sul livello di attività. Oggi non ci si ricorda invece che nel 1936 era uscita la General Theory of Employment, Interest and Money di J. M. Keynes, che della Treasury View e del suo fondamento neoclassico costituisce una critica radicale, con particolare riguardo alle determinanti dell'occupazione.

La Treasury view è corretta soltanto in un caso: quando l'economia è già in una situazione di piena occupazione, così che la spesa pubblica spiazzerebbe gli investimenti privati; si noti però che se ci fosse già la piena occupazione non ci sarebbe bisogno di nessun intervento dello Stato. In una situazione di disoccupazione, soprattutto se la disoccupazione è elevata come è oggi in Italia, lo Stato dovrà invece intervenire e ciò potrà fare indirettamente o direttamente. «Lo Stato dovrà cercare di influenzare la propensione al consumo, in parte mediante l'imposizione fiscale, in parte fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Tuttavia sembra improbabile che l'influenza della politica bancaria sul saggio di interesse sarà sufficiente da sé sola a determinare un ritmo ottimo di investimento. Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento si dimostrerà l'unico mezzo per consentire di avvicinarci all'occupazione piena; sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di espedienti e di compromessi coi quali la pubblica autorità collabori con l'iniziativa privata».

La teoria neoclassica nega invece che possa esserci bisogno di un intervento diretto dello Stato, perché postula che il sistema economico è in grado di autoregolarsi; e in particolare assume che la flessibilità del mercato del lavoro sia condizione sufficiente per fare aumentare l'occupazione fino al livello della piena occupazione. Questa è l'unica ragione seria, ma analiticamente infondata, per mettere al primo posto dell'agenda del governo la riforma del mercato del lavoro. Così come i provedimenti di liberalizzazione di tutti gli altri mercati e i tagli della spesa pubblica hanno come unica giustificazione razionale, anche questa infondata, la tesi che in tal modo tutti i mercati diventeranno finalmente efficienti e che la spesa pubblica non spiazzerà gli investimenti privati.

Circa il mercato del lavoro - considerato oggi «un tema cruciale e una priorità» - il ragionamento neoclassico si svolge così: A. Se non ci fossero attriti o impedimenti artificiali, sul mercato del lavoro si stabilirebbe un salario (reale) tale che non vi sarebbe disoccupazione involontaria, cioè risulterebbero non occupati soltanto quei lavoratori più pigri e disposti a lavorare soltanto per un salario più elevato di quello di equilibrio. B. Data l'occupazione di equilibrio, risulta determinato il livello della produzione e del reddito, che sarà il livello più elevato possibile, date le risorse disponibili di lavoro e di capitale. C. Sul mercato dei beni, di consumo e di investimento, si determina quel saggio di interesse reale in corrispondenza al quale si ha uguaglianza tra investimenti e risparmio e dunque tra offerta aggregata e domanda aggregata. D. Sull'economia reale (sulla occupazione e sulla produzione) la quantità di moneta non ha nessuna influenza, è neutrale: essa influenza soltanto il livello generale dei prezzi. A ciò si aggiunge che la distribuzione del reddito tra salari e profitti è commisurata alla produttività del lavoro e del capitale, cioè al contributo di ciascun fattore della produzione alla produzione stessa.

Una teoria così fatta è una teoria la cui semplice e seducente conclusione di politica economica è la dottrina del laissez faire; ma conviene ricordare che la massima «laissez faire» è tradizionalmente attribuita al mercante Legendre e a una sua risposta a Colbert, verso la fine del diciassettesimo secolo. «Que faut-il faire pour vous aider?», chiese Colbert. «Nous laisser faire», rispose il mercante: «Lasciate fare a noi». Se questa teoria fosse realistica nei suoi postulati e logicamente ineccepibile, vivremmo nel migliore dei mondi possibili, nel mondo di Pangloss: «Ogni avvenimento è concatenato in questo migliore dei mondi possibile; ché, infine, se non foste stato cacciato per amore di Cunegonda a pedate sul didietro da un bel castello, se non foste passato sotto l'Inquisizione, se non aveste corsa l'America a piedi e non aveste perduti tutti i montoni del bel paese dell'Eldorado, non mangereste qui cedri canditi e pistacchi».

Così purtroppo non è, poiché è difficile contestare che il processo economico si svolge in altro modo, cioè nell'ordine descritto dal dimenticato Keynes; un ordine causale che comincia non dal mercato del lavoro ma dal mercato della moneta, un processo nel quale hanno un ruolo essenziale le aspettative dei consumatori e delle imprese circa un futuro incerto: A. L'equilibrio sul mercato della moneta dipende dallo stato delle aspettative, che influenza la domanda di moneta per il motivo speculativo, nonché dalla quantità di moneta in circolazione. Questo insieme di circostanze determina il livello del tasso di interesse. B. L'ammontare degli investimenti che corrispondono a un certo tasso di interesse dipende a sua volta dalle aspettative. C. Il volume degli investimenti, insieme all'ammontare dei consumi, che dipendono dalla propensione al consumo della collettività, determina il livello del reddito. D. Il livello del reddito determina il livello dell'occupazione.

Si noti che Keynes non ipotizza né il pieno impiego della capacità produttiva né che il livello di occupazione sia quello di pieno impiego. È anzi possibile, anzi normale, che il sistema economico sia bensì in un qualche equilibrio, e che però vi sia disoccupazione involontaria. A fronte di una insufficiente domanda effettiva, e senza un intervento diretto dello Stato, la diminuzione del salario reale conseguente alla massima flessibilità del mercato del lavoro si traduce non in un aumento degli investimenti e della occupazione, ma soltanto in un aumento dei profitti e delle rendite e in uno spostamento di questi redditi verso la speculazione finanziaria.

La legge delega varata ieri dal Consiglio dei ministri per la riforma delle forze armate conferma le anticipazioni delle scorse settimane fatte dal ministro-ammiraglio Di Paola alle Commissioni Difesa di Camera e Senato e dal Consiglio Supremo della Difesa: tagli in 10 anni al personale militare e civile della difesa (33mila addetti in meno) per avere più risorse da destinare alle armi e alle operazioni militari all'estero.

Infatti non si parla complessivamente di tagli alla spesa ma - dice Di Paola - di «bilanciare la spesa militare in senso virtuoso» (cioè meno soldi per gli stipendi e più risorse per le armi) per una riforma da fare, bontà sua, «senza richiedere risorse aggiuntive». E Di Paola ha aggiunto che non si tratta di un intervento «lacrime e sangue»: quelle infatti le versano già operai e pensionati, mentre i generali possono sorridere ancora una volta. I tagli al personale delle Forze Armate sono buona cosa, ma se ne possono fare tranquillamente il doppio e non è necessario aspettare 10 anni per farlo, mentre un operaio a Pomigliano o a Termini Imerese il posto di lavoro lo perde in un giorno.

Mentre si tagliano, massacrandole, le spese agli enti locali, al welfare, al lavoro, alle pensioni dovremmo pure ringraziare il ministro della difesa perchè propugna una riforma «senza chiedere risorse aggiuntive». Ci mancherebbe pure che ne volesse altre di risorse oltre ai 25 miliardi che la Difesa spende ogni anno per le forze armate e ai 10miliardi che si sperpereranno nei prossimi anni per i 90 cacciabombardieri F-35. E mentre su un altro tavolo, quello della Fornero, è l'articolo 18 (quello dello Statuto dei lavoratori) ad essere sotto attacco, sul tavolo del ministro Di Paolo è l'articolo 11 della Costituzione che va a farsi benedire. Cosa hanno a che fare con quegli articoli della Costituzione che dicono che «l'Italia ripudia la guerra come mezzo per dirimere le controversie internazionali» (art. 11) e che compito delle forze armate è la «difesa della patria» (art. 52), i 90 cacciabombardieri d'attacco F35 (arma del primo colpo, il famigerato first strike, capaci inoltre di trasportare ordigni nucleari), fiore all'occhiello del nuovo modello di difesa proposto dal ministro della difesa?

Il bilanciamento della «spesa militare in senso virtuoso» significherà sostanzialmente un aumento della spesa per i sistemi d'arma (come appunto i cacciabombardieri F35, ma anche le fregate Fremm e Orizzonte, i sommerbili U-212) e per le missioni militari all'estero dentro un modello interventista delle forze armate italiane che segue fedelmente la logica e la strategia della Nato. Queste altro non sono che una sorta di «mobilitazione permanente» contro i «nuovi nemici»: Islam, nuove potenze globali (Cina, Russia, India, ecc.), terrorismo internazionale, detentori (da cui dipendiamo) delle materie prime, come il petrolio e il gas. Invece di investire nella prevenzione dei conflitti, nella cooperazione internazionale e nella sicurezza comune, continuiamo ad armarci fino ai denti, per la felicità di Finmeccanica e di tutta l'industria militare italiana.

Più che una riforma, questa è una controriforma. Altro che «grossa innovazione» come l'ha definita il Ministro-Ammiraglio, che più tecnico non si può. È una controriforma perché spenderemo tanti soldi in più per le armi, perchè le nostre forze armate avranno sempre di più un ruolo interventista, perchè saremo a ricasco della Nato e perchè in questo modo l'articolo 11 della Costituzione sarà svuotato di senso, nella forma e nella sostanza. Di Paola e i generali saranno soddisfatti, ma c'è poco da cantar vittoria. Sicuramente non lo fa il paese e non lo fanno le tante persone (operai, pensionati, giovani) che non sanno come far fronte a questa crisi così drammatica. L'unico modo per affrontare «la spesa militare in senso virtuoso» è ridurla, destinando i risparmi al lavoro, al welfare e ai giovani. Il premier Monti, così attento al rigore e alla lotta alle corporazioni, di fronte agli interessi della «casta delle stellette» ha alzato arrendevolmente bandiera bianca. E questo non è un bene per il paese.

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