Lettera ai e alle componenti delle Commissioni Affari costituzionali del Senato e della Camera La ragion d'essere dell'Associazione "Per la democrazia costituzionale" ci impone di esprimere un giudizio meditato ma allarmato sul progetto di "Revisione di alcune norme della Costituzione" presentato dal senatore Vizzini il 12 aprile scorso. Ne riassumiamo i motivi.Il superamento del bicameralismo perfetto, auspicato da tutte le parti politiche e da gran parte degli studiosi delle istituzioni, non risulta realizzato.
Dal testo emerge una netta conferma di tale tipo di articolazione della rappresentanza politica. La diminuzione del numero dei parlamentari è stata ridotta a contrazione della composizione dei due organi, a riduzione quindi del potenziale rappresentativo complessivo del Parlamento invece che a differenziata rappresentatività dei due organi, che avrebbe comportato che a comporre il Senato sarebbe stato o un componente per Regione o due. La configurazione di questo ramo del Parlamento che invece si propone è contorta. Delle due forme di espressione della rappresentanza territoriale esistenti al mondo, quella della scelta popolare dei componenti l'organo rappresentativo e quella espressa dagli enti esponenziali delle realtà territoriali (Stati, Länder, Regioni, Comunità) si è recepita ... la metà dei caratteri dell'una e dell'altra con conseguenze francamente sconcertanti. Della prima delle due forme, si sceglie l'elezione diretta, senza però la connessa eguaglianza del numero dei rappresentanti (due negli USA) per ciascuna entità territoriale. Della seconda, la sola derivazione territoriale, con la conseguenza che ciascun Ente-Regione è declassato a mera circoscrizione elettorale. L'escamotage della Commissione paritetica per le questioni regionali, composta dai venti rappresentanti delle assemblee elettive e da un egual numero di senatori da istituire presso il Senato, affidataria di una funzione consultiva sui progetti di legge all'esame di quel ramo del Parlamento, non può assolvere al compito di composizione degli interessi regionali e di quelli nazionali. Dispone di due potenzialità opposte e perverse, quella di blocco degli effetti dell'attività consultiva o quella di deriva separatista. Maggiore preoccupazione e ancora più netta contrarietà desta la distribuzione delle competenze legislative tra i due rami del Parlamento a seconda che il disegno di legge riguardi le materie di competenza esclusiva o concorrente dello stato. Spaccare la fonte di produzione delle leggi, atti aventi eguale valore, efficacia e forza normativa, non soltanto spezza, comprime, declassa la rappresentanza come tale nella sua potenzialità assuntiva della potestà del soggetto-stato e come sede di ultima istanza delle garanzie costituzionali. Ma incide profondamente sulla unitarietà dell'ordinamento legislativo, tanto più che, in caso di dissenso parziale o totale della Camera "del riesame", la decisione ultima sulla approvazione di una legge spetterebbe a quella delle due Camere che dovrebbe essere scelta con «decisione insindacabile» (anche da parte della Corte costituzionale ?) dai due Presidenti in base alla prevalenza del suo contenuto, se di competenza esclusiva o concorrente dello stato. Ma è il criterio della ripartizione che inquieta. Dieci e più anni di giurisprudenza costituzionale testimoniano lo sforzo, enormemente encomiabile, della Corte di estrarre, più con intuizioni che con impossibili deduzioni, più con integrazioni felici che con esegesi fruttuose, un senso accettabile dal testo della Legge costituzionale 2001 n. 3 recante il vigente Titolo V della Costituzione. Ignorare tale vicenda dell'esperienza costituzionale e fondare su quel testo, su quel catalogo delle materie tanto rigido quanto lacunoso il riparto delle competenze tra le due Camere del Parlamento, imporre volta a volta ai Presidenti delle due Camere di ripercorrere il vasto, complesso, articolato ridisegno normativo compiuto dalla Corte è segno di disinvoltura inaudita. A quale dei due rami del Parlamento affideranno i progetti di legge sulle materie-non materie che la Corte ha dovuto sollevare dal profondo dell'ordinamento per colmare i vuoti anche lessicali di quel testo ? A quale delle due Camere attribuiranno i progetti di legge "riguardanti" gli interessi unitari dell'ordinamento ? Anche le innovazioni che si intenderebbero apportare al procedimento legislativo allarmano per la ridondanza che le caratterizza senza alcuna reale esigenza istituzionale confessa[/ACM]bile. Il comma nono della proposta di modifica dell'articolo72 della Costituzione ha ad oggetto poteri già disponibili nel nostro ordinamento per la maggioranza parlamentare, quella sulla cui fiducia -si basa la composizione, la direzione, l'azione, la stessa esistenza di un determinato Governo. Non v'è chi non sappia che un qualsiasi progetto di legge, tanto più se di iniziativa governativa, può benissimo essere iscritto con priorità, anche assoluta, all'ordine del giorno della Camera o del Senato. Anche la determinazione del termine del procedimento di formazione di una legge è nella possibilità di tale maggioranza. Decorso lo stesso termine, la stessa maggioranza può sempre respingere emendamenti, articoli aggiuntivi e quant'altro dispiaccia al Governo. Perché allora attribuirgli poteri tipici delle Assemblee parlamentari? Se per richiamare la propria maggioranza alla coerenza col programma di governo concordato in occasione dell'instaurazione del rapporto di fiducia, il Governo può ben servirsi della "questione di fiducia" della quale, per la verità, già fa un uso scandaloso, specie se combinata a maxiemendamenti ai testi dei decreti-legge. Non basta tale uso, si intende legittimare costituzionalmente l'abuso di potere di intervento del Governo nel processo di formazione delle leggi, l'appropriazione surrettizia del potere legislativo a danno del Parlamento ? Sulle modifiche alla forma di governo prescritta dalla Costituzione vigente, le riserve non possono che accentuarsi. Da parte dei proponenti si afferma che con le modifiche che si vogliono apportate si miri a rafforzare Governo e Parlamento. Dal testo elaborato dal Presidente della I Commissione del Senato non risulta. Risulta l'opposto. A rafforzarsi dalla scelta di sostituire il Presidente del Consiglio all'intero governo come destinatario della fiducia parlamentare non è né il Parlamento, né il Governo. Non è il Parlamento cui viene sottratto il giudizio sulle qualità politiche dei singoli responsabili dei vari dicasteri e sulla intera compagine governativa. Non è il Governo cui mancherà la forza politica che solo la fiducia del Parlamento espressa al suo insieme può conferirgli. A rafforzarsi sarà solo l'incaricato di formare il governo .... prima ancora di formarlo. Quindi non in ragione dell'intera configurazione personale dell'organo governo che intende presiedere e che è chiamato a comporre, il cui profilo più o meno alto, costituisce sintomo probante della sua attitudine di leader che ambisce a diventare statista. Ma solo per compiacere i pasdaran della nefasta ideologia della personalizzazione del potere. Alla stessa ideologia si iscrive il meccanismo predisposto per la sfiducia. Lo si aggrava sia aumentando da un decimo ad un terzo dei membri di ciascuna Camera la sottoscrizione della mozione di sfiducia, sia stabilendo che debba contenere il nome del nuovo Presidente del Consiglio, sia prescrivendo che possa essere approvata solo con la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna delle due Camere. Alle quali, da una parte, si imporrebbe di riunirsi in seduta comune, dall'altra, si esclude che possano agire come collegio. Per la validità dell'approvazione della mozione di sfiducia, infatti, è richiesto il voto della metà più uno dei componenti di ciascuna delle due Assemblee che si vedrebbero costrette a votare nella stessa riunione ma separatamente. Perché si vuol prescrivere allora che la sfiducia debba essere approvata dal Parlamento in seduta comune? C'è solo da ipotizzare che si voglia in tal modo .... sceneggiare una sorta di Apocalisse. Alla stessa ideologia appartiene la previsione che, qualora una delle due Camere neghi la fiducia, il Presidente del Consiglio sfiduciato ne possa chiedere lo scioglimento al Presidente della Repubblica eventualmente assieme a quello dell'altra Camera. L'uso del termine "chiedere" invece che quello di "proporre" identifica l'atto. Il destinatario della richiesta non può che provvedervi accogliendola o respingendola. Per respingerla dovrà disporre di ineccepibili motivazioni. La compressione del potere di scioglimento che l'art. 88 della Costituzione attribuisce al Presidente della Repubblica è evidente. Altrettanto evidente è l'intento di munire il Presidente del Consiglio di uno strumento forte di intimidazione nei confronti del Parlamento. Non attenuato certo dal divieto di scioglimento delle Camere se, entro venti giorni dalla richiesta da parte del Presidente del Consiglio, il Parlamento in seduta comune dovesse indicare a maggioranza assoluta dei membri di ciascuna di esse il nome di un nuovo Presidente del Consiglio. Che alcuni di questi dispositivi siano stati desunti dalla Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca e che, adottati per assicurare la stabilità governativa, in quel contesto istituzionale e politico abbiano dato buona prova non è contestabile. Ma è del pari incontestabile che non è, da soli, che tali dispositivi abbiano determinato il buon rendimento di quella forma specifica di governo parlamentare. La stabilità è solo una condizione strumentale ma non indefettibile degli effetti virtuosi che può produrre una forma di governo. È l'efficienza invece la condizione indefettibile del successo di un sistema di governo. A produrla non può che essere la forza politica che i governi riescono ad esercitare e che deriva solo dall'ampiezza e dalla densità della rappresentanza di cui dispongono. A palesarlo è la natura rappresentativa dello stato contemporaneo, perché è rappresentativa la democrazia moderna. O non è. Non da altro, non da artifizi di ingegneria istituzionale più o meno reclamizzati deriva quindi il rendimento di un sistema di governo. Scambiare lo strumento per obiettivo è deleterio. Lo dimostra l'esperienza dei venti anni della cosiddetta "seconda repubblica". La stabilità o non ha retto per l'eterogeneità politica delle coalizioni affastellate solo allo scopo di godere delle distorsioni del sistema elettorale maggioritario con o senza premio di maggioranza, o ha addirittura bloccato la dinamica politica con governi inefficienti o perversi. Insistere sulla stabilità senza rappresentanza o con rappresentanza degli interessi del solo leader di maggioranza distruggerebbe irrimediabilmente la democrazia italiana. Signora Presidente, o Onorevole Presidente, abbiamo ritenuto di esprimere le nostre valutazioni senza infingimenti, lo stile esplicito col quale ci siamo espressi è dovuto solo alla passione per la democrazia parlamentare che ci anima e che ci induce a chiederLe l'onore dell'attenzione che vorrà concedere alle nostre riflessioni. Con la più alta considerazione
A Parma e a Genova si svolge tra due giorni un altro “redde rationem” tra la casta partitocratica e l’altrapolitica, quella al servizio dei cittadini anziché dei comitati d’affari e di malaffare.
A Parma la politica d’establishment si chiama Vincenzo Bernazzoli, Pd, ex dirigente sindacale, il cui cursus honorum è però da un ventennio tutto dentro la nomenklatura di partito. Amatissimo dalla lobby dell’inceneritore, dai palazzinari, dalle banche, dalla lobby degli ipermercati, se vincesse a Parma non cambierebbe praticamente nulla, se non nel senso reso proverbiale da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo.
Federico Pizzarotti, invece, del Movimento 5 Stelle, costituirebbe la scossa sismica di cui la città ha bisogno per tentare la rinascita. Risultati del primo turno alla mano, la vittoria di Pizzarotti sembra un miraggio, eppure questo “miracolo” è oggi alla portata dei cittadini, dipende da loro. Molti, consapevoli della deprimente continuità che rappresenterebbe Bernazzoli, sono frenati però dalla paura che un sindaco 5 Stelle costituisca un “salto nel buio”. Perché non aver paura, invece, della sicura “morta gora” in cui resterebbe la città con la “non politica” del dirigente Pd, corriva con i potenti di sempre? Speriamo che tra i cittadini di Parma prevalga la razionalità e la passione civile, cioè la maggioranza per Pizzarotti: un sindaco 5 Stelle costringerebbe oltretutto questo movimento alla prova delle responsabilità di governo.
A Genova l’altrapolitica si chiama invece Marco Doria, il candidato del centrosinistra scelto con le primarie e inviso alle nomenklature di partito e alle oligarchie bipartisan della città. I suoi nemici più subdoli sono acquattati proprio dentro il Pd (e l’Idv), dove le gerarchie di rito burlandiano hanno dirottato col voto disgiunto quasi il 3% dei suffragi sul doroteo-berlusconiano Musso, impedendo a Doria di essere sindaco al primo turno. E vogliono azzopparlo con una vittoria risicata, con cui poi costringerlo progressivamente alla resa nei confronti dei potentissimi comitati d’affari liguri per i quali, lucidamente, Burlando e Scajola non fanno differenza. Qui razionalità e passione civile chiedono che i cittadini tornino a votare in massa per Doria, liberandolo da futuri condizionamenti partitocratici. E spiace che il genovese Beppe Grillo continui a non vedere l’abisso che separa Doria da Musso e rispetto ai due abbia imposto ai 5 Stelle un atteggiamento alla ponziopilato.
Restano vietate tutte le iniziative annunciate ad eccezione del grande corteo di sabato. «La Germania? Qui è peggio della Russia»
FRANCOFORTE - Le tende dell'Occupy-Camp resistono davanti alla Banca centrale europea, come gli striscioni. Solo i dimostranti non ci sono più, da quando mercoledì la polizia li ha sgombrati. Teso all'ingresso della tendopoli deserta, uno striscione si interroga: «Chi è che fa casino qui?». Un cuoricino rosso penzola, appeso alla stoffa. Eurotower, Kaiserstraße 29. Questo è il centro del blocco.
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Francoforte sul Meno è in stato d'assedio, la città bloccata. Non sono i dimostranti a produrre questo scenario ingessato, ma la politica senza precedenti delle autorità comunali.
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Non lontano da qui, all'asilo Kiz nel quartiere Gallus, la paranoia è esplosa all'inizio della settimana. Ansiose telefonate dei genitori al Kindergarten: potranno ancora affidargli i bambini? Tre chilometri oltre, in un ginnasio nel centro della città, grande è l'agitazione: «Che razza di caos ci aspetta?», vogliono sapere madri e padri dalla direzione. L'ufficio scolastico della città dispone: le famiglie, a loro discrezione, mercoledì potranno ritirare da scuola i loro figli prima del termine delle lezioni. Fino a domenica ogni attività universitaria è sospesa, atenei chiusi. Una circolare rassicura i dipendenti: i salari verranno pagati.
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«Per disposizione di polizia, i convogli non fermeranno nella Taunusanlage», la striscia verde nel quartiere delle banche. Così sta scritto in caratteri bianchi, sul blu delle tabelle luminose, nelle stazioni della Stadt-Bahn, la ferrovia urbana. I negozi di lusso sono barricati. Le banche, già chiuse giovedì, che in Germania è giorno festivo per l'Ascensione, non apriranno gli sportelli nemmeno oggi. E chi in questo venerdì voleva sposarsi al Frankfurter Römer, la sede storica del municipio, dovrà rinviare la cerimonia. «Per motivi di sicurezza», matrimoni si faranno solo nei municipi urbani fuori dal centro.
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Come è arrivato lo stato d'assedio a Francoforte? Forse i civilissimi «bloccupisti» sono solo l'avanguardia di un'orgia di violenza autonoma, da giorni pronosticata dalle autorità. Sarebbero alle porte 40mila dimostranti, e tra loro ben «2.000 violenti», molti più di quanti ne conti la polizia berlinese nelle battaglie del primo maggio a Kreuzberg.
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Eppure giovedì, davanti alla stazione ferroviaria, duecento persone si sono raccolte attorno a un uomo con tutt'altra aura. Canta «Shalom Alechem, vogliamo pace sulla terra». Altri intonano con lui. C'è pure Henning Zierock, cantautore di Stoccarda: «In Germania ci si lamenta spesso per le limitazioni alla democrazia in Russia. Ma qui è peggio». Zierock è indignato perché, a parte il corteo di sabato - autorizzato - la città ha vietato tutte le altre iniziative annunciate per i giorni dal 16 al 19 maggio da una variegata rete di opposizione, per protestare contro il potere delle banche sotto la sigla di Blockupy-Frankfurt. I tribunali si sono accodati.
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Sul piazzale della stazione, l'altoparlante della polizia si sovrappone al canto di pace: «Se volete dimostrare nonostante il divieto, allora potrebbe essere vietata anche la dimostrazione di sabato, finora consentita». La piccola folla preferisce continuare a cantare, non sta più a sentire la polizia. «Vi preghiamo di astenervi da tutto ciò che possa dare l'impressione di una dimostrazione», insiste l'altoparlante.
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Paulsplatz. Ingo e Gaby, coppia arrivata da un sobborgo di Francoforte, entrambi oltre i 60, stanno con poche centinaia di altre persone davanti alla Paulskirche, dove nel 1848 si riunì il primo parlamento nazionale tedesco. I due hanno in mano copie del Grundgesetz, la costituzione della Repubblica federale, e le tengono bene in alto. Sulle copertine bianche spicca una fascia nero-rosso-oro, i colori della rivoluzione del 1848 e della bandiera della Rft. «Siamo venuti perché abbiamo saputo che i tribunali hanno introdotto lo stato di polizia. Non è concepibile che i francofortesi non possano più riunirsi davanti alla Paulskirche, simbolo della repubblica costituzionale». Accanto a loro c'è Kolja, bimbetto biondo. «Mamma - chiede - perché qui è tutto vietato, alles verboten?»
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La città è sorvegliata da un esercito di 5000 poliziotti. Giovedì mattina tre bus provenienti da Berlino con 200 dimostranti sono stati bloccati già sull'autostrada. Sono seguiti controlli di documenti. Divieti di soggiorno a Francoforte. Sebbene sabato - sia prevista una manifestazione «legale», a molti viene già negato l'accesso alla città. Ovunque si riunisca una dozzina di persone, subito vengono circondate. La polizia non tollera «assembramenti», e non sta a discutere.
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Ciò nonostante nel pomeriggio in 300 sono riusciti a riunirsi sul Römerberg, davanti al municipio, per protestare contro i divieti. Sono perfino riusciti a montare sul piazzale una trentina di tende. Per un po' la polizia ha lasciato fare. Poi uno schiacciante schieramento di agenti ha chiuso in una morsa la piazza, per fare piazza pulita.
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Nel campus universitario di Bockenheim si sono ritrovanti in 150. Tra loro anche qualche ragazza e ragazzo venuti dall'Italia. Hanno cercato di muoversi insieme verso il centro. Bloccati e fermati -provvisoriamente? - anche loro. In serata la polizia parla complessivamente di 150 persone portate nei commissariati. Non sanno dirci se tra loro ci siano italiani.
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Kaiserstraße 29, Eurotower. Le reti metalliche di sicurezza, disposte dalla polizia per centinaia di metri intorno alla Bce, sono un po' arrugginite. Silenzio, niente traffico, splende il sole. Non funziona più nulla. Forse, chissà, verranno pure battaglie di strada. Ma qui è già tutto bloccato, alla grande.
© die tageszeitung
Traduzione di Guido Ambrosino
Titolo originale: Citizen service for teenagers a 'big success' – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Il governo si prepara ad ufficializzare il fatto che il Servizio Civile Nazionale è un enorme successo dell’idea di "big society", da estendere a 90.000 partecipanti nel 2014, e che per ogni sterlina spesa ne arrivano almeno due alle comunità. Un calcolo effettuato da un organismo indipendente per conto del Servizio e pubblicato da NatCen Social Research. Il SCN è stato molto sostenuto da David Cameron, e mira a unire sedici-diciassettenni di tutti i ceti sociali in una esperienza comune formativa e al servizio delle comunità. Viene organizzato – molto elasticamente – secondo il modello del servizio militare, ma è del tutto civile e volontario.
Il governo prevede di ampliarlo dai 30.000 posti del 2012 a 90.000 nel 2014. Investendo 250 milioni di euro nel future dei giovani, che secondo calcoli del ministro Nick Hurd si possono tradurre in 500 milioni in vantaggi per le comunità. In altre parole il programma si paga abbondantemente da solo, tenendo conto delle ore di lavoro volontario erogate, nonché sul valore formativo per chi partecipa. Lo studio comparator rileva anche come il Servizio Civile Nazionale sia un momento di interazione fra ceti diversi, e riduca in seguito tendenze a comportamenti antisociali: in altre parole i vantaggi reali del programma potranno essere compiutamente valutati solo in futuro.
L’anno scorso hanno partecipato al servizio oltre 8.500 sedicenni. La ricerca conferma una notevole soddisfazione, e la tendenza a raccomandarlo agli amici, il 95% commenta che il servizio ha un ruolo formativo per il futuro professionale, mentre la percentuale di chi intende continuare a studiare in seguito aumenta dal 27% al 34%; l’85% dei partecipanti racconta di aver assunto un atteggiamento più positivo verso persone di ceti sociali diversi. L’indagine rileva complessivamente 200.000 ore di lavoro sociale erogate nel 2011 e il 77% dei partecipanti si dice intenzionato a proseguire qualche tipo di impegno con la comunità anche dopo. Penny Young, responsabile di NatCen Social Research, spiega: "La nostra valutazione fa emergere l’impatto del Servizio sui giovani. Comparando i risultati generali con quelli di un “gruppo di verifica” possiamo evidenziare precisamente anche i risultati in termini di formazione e alcune potenzialità".
postilla
Anche oltre l’ovvia retorica auto celebrativa, e le tutto sommato piccole cifre, dovrebbe saltare all’occhio quanto proprio l’approccio “monetario” del governo liberista per eccellenza sottolinei un aspetto: gli investimenti sociali sono davvero tali, e lo sono anche sul breve termine! Torna in mente nel caso italiano il vuoto lasciato dall’abolizione del servizio militare obbligatorio e la mancata riorganizzazione e rilancio di quello civile sostitutivo, che tanto avrebbe potuto (e forse ancora potrebbe) svolgere un ruolo fondamentale sia per chi partecipa, sia per gli enti e i territori interessati (f.b.)
Strane notizie dal Parlamento: a quel che pare è diventato «urgente e indifferibile» costruire stadi sportivi su aree a verde agricolo, e farlo in barba alle regole e alla Costituzione. Il governo ha appena rilanciato, peggiorandolo, un disegno di legge sugli stadi (AC 2800), presentato a inizio legislatura dal governo Berlusconi per «favorire la costruzione di impianti sportivi a sostegno della candidatura dell´Italia a manifestazioni sportive internazionali». Ma lo sport ha il ruolo di un cavallo di Troia: gli articoli della legge (già approvata al Senato e in discussione alla Camera) incoraggiano infatti la costruzione, intorno agli stadi, di zone residenziali e di servizi alberghieri e del terziario. Vere e proprie new towns, se vogliamo usare l´etichetta inventata per mascherare il delittuoso abbandono del centro storico dell´Aquila in favore di insediamenti "nuovi" che ne hanno disgregato il tessuto sociale.
Il governo Monti non si è finora distinto per attenzione ai problemi dell´ambiente, del paesaggio, dei beni culturali. Prosegue anzi, su questo fronte, la deriva inerziale che ha marcato il resto della legislatura in corso. Nulla, ad esempio, è stato fatto per correggere il dimezzamento dei fondi dei Beni Culturali (2008), perpetrato sotto gli occhi arrendevoli di Bondi. Nulla per frenare l´emorragia di personale: l´età media dei superstiti veleggia verso i 60 anni, e più di metà delle Soprintendenze italiane sono coperte "a scavalco", da funzionari che saltano da una città all´altra (nulla di simile accade per prefetti e questori). Eppure alcuni provvedimenti di questi mesi, pur innescati da motivazioni solo economiche, avranno effetti positivi. Tale è ad esempio la riduzione del sostegno alle imprese che producono impianti eolici e solari: fingendosi ecologista, l´Italia è in cima alle classifiche per incentivi alle imprese, ma non spende quasi nulla in ricerca nel settore. Si vede così che quel che importa non è produrre energia pulita, ma foraggiare gli amici degli amici. E intanto le pale eoliche, che in molti luoghi devastano il paesaggio, producono mediamente meno del 10% della potenza nominale installata (e sbandierata).
Bloccando la candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2020 (che i soliti noti aspettavano con l´acquolina in bocca, pronti a devastare quel che resta dell´agro romano), Monti ha detto saggiamente che «sarebbe irresponsabile in questa fase impegnare l´Italia mettendo a rischio i denari dei contribuenti»; insomma, ha previsto e fermato l´enorme spreco di denaro e di risorse che ci si apprestava a fare in nome dello sport. Dopo questa scelta ammirevole, sbalordisce che il disegno di legge sugli stadi vada in senso diametralmente opposto, sposando in pieno la prevedibile alleanza fra i club sportivi di Roma e Lazio e i costruttori non contenti di aver già allagato di orridi sobborghi quella campagna romana che incantò Claude Lorrain e Goethe, Coleridge e Corot. Per imbavagliare eventuali interventi delle Soprintendenze a difesa del paesaggio, il testo del 2008 prevedeva, con la scusa della "semplificazione" alla Calderoli, il meccanismo del silenzio-assenso. Ma sin dalla legge 241 del 1990 questo principio non può applicarsi «agli atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico», come poi ribadito più volte, dalla legge 537 del 1993 alla legge 80 del 2005 (governo Berlusconi). Nato per tutelare il cittadino contro l´inerzia della pubblica amministrazione, il silenzio-assenso non deve valere in materia di paesaggio, dove il silenzio o l´inerzia non possono sostituire l´attivo esercizio della tutela, che l´art. 9 della Costituzione pone fra i principi fondamentali dello Stato. Lo ha detto la Corte Costituzionale in almeno cinque sentenze: in questa materia «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può avere valore di assenso» (sentenza nr. 404 del 1997). In un soprassalto di dignità Galan, appena approdato al Ministero dei Beni Culturali, riuscì infatti a imporre nel testo di legge il rispetto dei vincoli e del parere delle Soprintendenze.
Rispetto a Galan, il nuovo governo ha fatto un passo indietro: nel testo presentato dal ministro Gnudi (che ha la delega allo sport), il silenzio-assenso torna a galla mediante il miserevole artificio di una conferenza dei servizi, destinata a favorire il trionfo dei palazzinari in agguato mettendo a tacere la voce del Soprintendente. Al suo parere vincolante si sostituisce infatti «il provvedimento conclusivo della conferenza di servizi, ad ogni effetto titolo unico per la realizzazione dell´intervento». Defenestrando senza scrupoli il pubblico interesse che (secondo la Costituzione) governa la tutela del paesaggio, la procedura viene svilita e ridotta al teatrino della contrattazione fra Comuni e costruttori. Perfino le «valutazioni di ordine sociale, ambientale e strutturale, degli impatti paesaggistici e delle esigenze di riqualificazione paesaggistica» vengono demandate (meglio: svendute) a uno studio di fattibilità, affidato non al Ministero, ma alla stessa impresa proponente. E, tanto per chiarire, il tutto dovrebbe svolgersi velocizzando al massimo «le necessarie varianti urbanistiche e commerciali» all´insegna di una «dichiarazione di pubblica utilità e di indifferibilità ed urgenza delle opere».
Si scopre così che, mentre è in atto una gravissima crisi economica, con la macelleria sociale che ne consegue, è indifferibile costruire nuovi stadi in giro per l´Italia, anzi circondarli di supermercati e condomini nonostante i due milioni di appartamenti invenduti (centomila nella sola Roma). Né si pensa, almeno, di costruire impianti sportivi recuperando le periferie più degradate: secondo le peggiori abitudini dei palazzinari romani, si punta invece sulle aree a verde agricolo, meglio se con vincolo paesaggistico e archeologico, come quelle su cui hanno messo l´occhio la Roma e la Lazio, con progetti già bocciati dalla Soprintendenza, ma che la nuova legge farà fiorire facendoli diventare "indifferibili". Si stenta a credere che il presidente Monti possa mai sottoscrivere una tale enormità. Che il suo governo voglia, mentre il Paese reclama equità e legalità, puntare le proprie carte su questi indecorosi circenses.
Stop. Niente più cemento nei suoli agricoli di Gomorra, su molti dei quali vigilano gli uomini delle cosche, che controllano anche tanta parte del ciclo dell’edilizia. Se in provincia di Caserta si dovrà costruire, lo si farà nelle aree già urbanizzate, abbandonate, stravolte dall’abusivismo e da un’espansione dissennata. Si potrà persino demolire e tirare su nuovi edifici. Tutela integrale, invece, per quel che è sopravvissuto alle discariche legali e illegali, alla semina sparpagliata di ville e villette, e cioè per i terreni un tempo baciati da coltivazioni di pregio, come la vite maritata, che sfilava di pioppo in pioppo, raccontata già da Virgilio.
Lo prevede il nuovo Piano di coordinamento territoriale della provincia di Caserta, approvato all’unanimità (la giunta è di centrodestra a guida dell’Udc Domenico Zinzi, ma il Piano è partito con il centrosinistra, con l’assessore Maria Carmela Caiola). Un documento che indica i paletti per cento e più Comuni, fra i quali Casal di Principe, Casapesenna e Castel Volturno sciolti per camorra, i quali hanno tempo diciotto mesi per varare i loro Piani regolatori. Paletti rigorosi: il territorio di ogni Comune va diviso in due insiemi, quello urbanizzato, intorno al quale è come se si tracciasse un perimetro con una matita rossa, invalicabile; e quello rurale.
Nel primo, gran parte dell’attività edilizia deve recuperare costruzioni scadenti, dismesse o sottoutilizzate, anche demolendo e ricostruendo su superfici più piccole per lasciare lo spazio ai servizi che non ci sono (in primo luogo il verde). Eccezionalmente, si legge nel documento, ci può essere espansione edilizia, ma mai nel territorio rurale: qui solo fabbricati per le produzioni agricole. E poi, niente più centri commerciali.
Il tono usato dai progettisti, guidati dall’urbanista Vezio De Lucia insieme a Georg Frisch, è secco: «Qualunque nuovo impegno di suolo è consentito esclusivamente a condizione che si dimostri l’impossibilità assoluta di soddisfare le nuove esigenze all’interno del territorio già urbanizzato». Un tono che sembra imposto da un dato: la provincia di Caserta ha raddoppiato in trent’anni il proprio edificato. Ma si è trattato di una crescita «sciatta, rapace e a bassa densità», la definisce Antonio Di Gennaro, che ha curato la parte del Piano sul paesaggio agrario. «La superficie urbanizzata è di 250 metri quadrati per abitante, più del doppio di quella napoletana, segno che qui si è immaginato un sogno americano di non-luoghi spersi per la campagna», aggiunge.
Il Piano tenta di arginare una vorace periferia. Almeno 5 mila ettari, un quinto di tutto l’edificato, sono definiti "aree negate", disseminate di macerie edilizie, fra capannoni dismessi e manufatti ridotti a baracche. Tre quarti di questo territorio non sono stati pianificati, abbandonati a una crescita senza regole. «Ormai gli spazi agricoli intorno ad Aversa e a Caserta sono i frammenti di un arcipelago circondato da una desolante edificazione», spiega De Lucia, che negli anni Novanta è stato assessore nella prima giunta napoletana di Antonio Bassolino.
Il paesaggio agrario che è stato sacrificato era fra i più celebrati (gli ettari con la vite maritata raggiungevano quota 18 mila ancora nel 1954, ora sono 400). Ma una parte di esso resiste lungo la valle del Garigliano, intorno ai castagni vicino al vulcano dormiente del Roccamonfina. Resiste a fatica il tracciato borbonico dei Regi Lagni. E perfino la vite maritata, per iniziativa di alcuni produttori, riprende a vinificare.
«Bisogna vedere questi paesi per comprendere che cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra», scrive Goethe nel Viaggio in Italia (citato in esergo al Piano). E poi ci sono un patrimonio di piccoli centri storici, l’acquedotto di Carlo III di Borbone e quindi le regge, da Caserta a Carditello (che, derelitta, rischia di essere venduta all’asta).
«Conservare il suolo agricolo non significa che non ci sarà sviluppo», sottolinea De Lucia, «anzi le cose da fare sono molte: cinquantamila alloggi in dieci anni per una popolazione che cresce, almeno un migliaio di ettari per verde pubblico e servizi, spazi per la mobilità...». «Ora bisogna vigilare affinché la Provincia talloni i Comuni e li accompagni in una corretta pianificazione», chiosa Maria Carmela Caiola, che da assessore all’urbanistica della precedente giunta diede l’avvio al Piano.
Sul futuro assetto delle province, la Sardegna fa da battistrada. Con il referendum del 6 maggio ne ha eliminate quattro, le più recenti: Olbia-Tempio, Medio Campidano, Carbonia-Iglesias e Ogliastra. I sardi si sono, inoltre, detti favorevoli a un'eventuale abolizione delle altre quattro province, quelle storiche (Cagliari, Sassari, Nuore e Oristano).La novità che può segnare la strada anche a livello nazionale non sta, però, tanto nel fatto che nell'isola si sia passati all'azione, dando così concretezza a un dibattito che a livello parlamentare si trascina da mesi e che oscilla tra la cancellazione totale delle amministrazioni provinciali e una loro profonda riorganizzazione (tesi, quest'ultima, sposata dal Governo Monti con il decreto legge salva-Italia, il 201/2011), quanto negli esiti immediati del dopo-referendum.
La Sardegna ora è, infatti, un laboratorio: sta sperimentando quello che potrà accadere in tutte le altre regioni quando – così come prevede l'articolo 23 del salva-Italia – si tratterà di dare un nuovo profilo alle province. Che non spariranno, ma saranno ridotte a super-uffici comunali: dovranno, infatti, coordinare le attività dei municipi che ricadono nel loro territorio. Le attuali competenze delle amministrazioni provinciali saranno, invece, trasferite ai comuni, insieme alla gran parte del personale e al resto delle funzioni.
Le future province avranno, dunque, una struttura più snella e consigli ridimensionati nonché formati solo dai politici che già siedono nei municipi che fanno parte della provincia. Il tutto secondo nuove regole elettorali contenute in un disegno di legge approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri del 6 aprile e che ora è all'esame del Capo dello Stato. Il disegno di legge – da cui si aspettano risparmi per lo Stato per 120 milioni e 199 milioni per le province – dovrà essere operativo entro fine anno e sempre entro dicembre dovrà essere portato a termine il trasferimento ai comuni delle funzioni. Per il transito verso i municipi del personale e delle risorse non c'è, invece, una scadenza, ma non potrà che essere contestuale al debutto delle province nuovo formato, che avverrà il prossimo anno, iniziando dalle amministrazioni che nel 2013 arriveranno a fine mandato.
Ebbene, la Sardegna tutti questi problemi li sta già affrontando, con l'aggravante che nell'isola si tratta di far sparire, e non di riconvertire, quattro amministrazioni e che non c'è stata alcuna preparazione all'evento. Così ora la regione, a cui spetta governare la transizione, è in difficoltà. Regna l'incertezza normativa, tant'è che sono stati investiti della questione quattro avvocati, che dovranno dare un parere sul da farsi. Si tratta di ridisegnare i confini delle province rimaste (non è automatico che si ripristino i vecchi limiti e anzi c'è chi sostiene che sia a rischio anche la geografia delle amministrazioni storiche, perché il referendum ha cancellato i loro riferimenti territoriali), come e dove trasferire i 505 dipendenti, che fare degli investimenti in corso.
Sul presente per il futuro
di Valentino Parlato
Dello stravagante fax dei commissari abbiamo già dato notizia ieri. Volerci chiudere a mezzo fax è una sconveniente provocazione. La nostra prima risposta è: resistere, resistere. Resistere perché il successo di Hollande dà speranze di uscire da un'Europa commissariata da banche e Merkel. E anche perché (lo vedete dagli annunci sul giornale) nel nostro paese ci sono moltissime comunità, ben politicizzate, che ci chiamano a tenere assemblee, con cene a sostegno del nostro giornale. Insomma non siamo soli.
Abbiamo nel nostro non breve passato attraversato crisi assai dure e siamo riusciti a superarle. Quindi ribadiamo la nostra parola d'ordine: non mollare.
Per non mollare anche noi dobbiamo darci una mossa: dobbiamo al più presto definire un piano economico che, anche con costi (inevitabile quanto dolorosa la riduzione del personale e delle spese), ci rimetta in condizioni di equilibrio. Dobbiamo definire questo piano e renderlo pubblico. E, aggiungo, contiamo molto sul sostegno dei nostri lettori, che già è rilevante. Dobbiamo pensare, come nel passato, a numeri a prezzo straordinario.
Ma più del piano economico è decisivo definire e rendere pubblico un piano editoriale. Dobbiamo riuscire a non farci attrarre dalle provvisorie congiunture politiche. Dobbiamo riuscire in una seria e continua analisi della attuale crisi della sinistra, non solo in Italia. Perché le ultime parziali elezioni amministrative sono andate così male? Perché il Pd e anche le forze alla sua sinistra non vanno bene? Perché c'è anche nei partiti un invecchiamento degli stati dirigenti, che danno spazio ai rottamatori tipo Renzi? Insomma cercare di capire innanzitutto che cosa è cambiato nei processi produttivi e capire in che misura le innovazioni hanno indebolito la forza della classe operaia.
Insomma, e l'attuale grande crisi globale lo testimonia, siamo a un passaggio d'epoca, nella quale anche forme di sfruttamento e accumulazione cambiano, e in una fase nella quale la finanza (il denaro che fa denaro) annebbia gli occhi più attenti. Questa è una crisi del capitalismo del tutto nuova. Quindi insistere in una discussione, già aperta, con intellettuali, economisti, uomini di cultura sul presente e sul probabile futuro per capire come governare questo processo per evitare che si concluda in un ennesimo affare dei soliti padroni. Resistere indubbiamente, ma con questo impegno a un serio rinnovamento della sinistra.
All'armi son faxisti!
di Alessandro Robecchi
Cari compagni. In questo difficile momento, mentre barcolliamo, pur senza retrocedere, davanti a un vile attacco faxista operato con antiche tecnologie dai commissari liquidatori del manifesto, è il momento della severa autocritica. Noi non siamo stati capaci di modernizzarci, non siamo stati al passo coi tempi, non abbiamo capito le mutate condizioni delle masse. E specialmente delle masse di pezzi di merda che hanno fatto i soldi con i contributi dell'editoria senza averne diritto e anzi con l'antico metodo della truffa. Noi, rinunciando alla nostra natura di rivoluzionari, abbiamo fatto tutto secondo la legge. Non abbiamo barattato qualche milioncino di euro con favori compiacenti, né ci hanno intercettato come il signor Lavitola mentre chiedevamo al presidente del consiglio Berlusconi buon'anima un po' di soldi per l'Avanti!, per dire. E nemmeno siamo andati a vendere elicotteri a Panama caldeggiando tangenti per ungere questo o quel presidente centroamericano. Abbiamo dimostrato così di non capire la complessità del presente. Noi non abbiamo messo a bilancio, come il prestigioso foglio la Discussione, un'Audi A8 del valore di 99.000 euro, con cui pagheremmo quasi cento stipendi. E nemmeno abbiamo destinato alle nostre spese personali qualche soldino ricevuto su esempio de Il Campanile, testata che certo campeggia nella rassegna stampa della Casa Bianca e dell'Eliseo, essendo emanazione dell'Udeur di Mastella. E non siamo nemmeno accusati, come il senatore Ciarrapico, di aver moltiplicato i contributi servendosi di prestanome ottuagenari (il processo a breve). Insomma, compagni: noi ci siamo seduti sulla più retriva legalità borghese, mentre altri (specie i "borghesi") fregavano a man bassa dichiarando milioni di copie e vendendone, nei giorni buoni, diciassette. Ora che il faxismo contabile ha colpito, dobbiamo meditare e discutere sulle nostre colpe e interrogarci sul vecchio ma sempre fecondo interrogativo: "che fare"? Non è che a Panama servono altri elicotteri? Non è che a Berlusconi servono altri favori? Sai mai che...
Su The American Economic Review ho letto un saggio autorevole in cui si spiegava esaurientemente come l´elevato tasso di disoccupazione del Paese avesse profonde radici strutturali e non fosse suscettibile di essere risolto in tempi brevi. La diagnosi dell´autore era che l´economia americana, semplicemente, non sarebbe abbastanza flessibile per affrontare il rapido cambiamento tecnologico. Il saggio era particolarmente critico nei confronti di programmi come il sussidio di disoccupazione che, si sosteneva, in realtà danneggia il lavoratore perché riduce l´incentivo a trovare una soluzione.
C´è una cosa che non vi ho detto: il saggio è del giugno 1939. Soltanto qualche mese dopo sarebbe scoppiata la Seconda Guerra Mondiale e gli Usa - sebbene non ancora entrati in guerra - avrebbero iniziato a organizzare un vasto programma di riarmo, accompagnato da forti incentivi fiscali su una scala commisurata alla gravità della recessione. E, nei due anni successivi alla pubblicazione di quell´articolo sull´impossibilità di creare rapidamente posti di lavoro, il tasso di occupazione del settore non agricolo americano sarebbe cresciuto del 20%: l´equivalente di 26 milioni di posti di lavoro di oggi.
Adesso ci troviamo a dover affrontare un´altra crisi, non così grave come l´ultima ma abbastanza grave. E, ancora una volta, personaggi dal tono autorevole sostengono che i nostri problemi sono "strutturali" e che non possono essere risolti rapidamente. Dobbiamo concentrarci sul lungo termine, ci dicono. Che cosa significa sostenere che il nostro è un problema di disoccupazione strutturale? La risposta che si è soliti dare è che i lavoratori americani sono bloccati nei settori di attività sbagliati o che richiedono competenze diverse. Raghuram Rajan, dell´Università di Chicago, sostiene che il problema consisterebbe nella necessità di spostare i lavoratori dai settori "gonfiati" dell´edilizia, della finanza e del governo.
In realtà, l´occupazione pro capite nel settore governativo è rimasta più o meno stabile per decenni, ma non importa: il punto essenziale è che la perdita di posti di lavoro, dall´inizio della crisi, non è rimasta perlopiù circoscritta a quei settori che, probabilmente, si sono ampliati troppo durante gli anni della bolla. L´economia ha perduto posti di lavoro su tutta la linea, in ogni ambito e in professione, come era accaduto negli anni Trenta. Inoltre, se il problema consistesse nel fatto che molti lavoratori hanno le competenze sbagliate o non sono impiegati nel posto giusto, ci si dovrebbe aspettare che la manodopera che ha le competenze adatte e che si trova al posto giusto riceva consistenti aumenti salariali; in realtà all´interno della forza lavoro i vincenti sono pochi.
Tutto questo suggerisce che non stiamo patendo le difficoltà di una qualsivoglia transizione strutturale la quale, gradualmente, è destinata a fare il suo corso, ma stiamo invece soffrendo di una generale insufficienza di domanda: il genere di insufficienza che potrebbe e dovrebbe essere curata rapidamente con programmi governativi mirati ad incoraggiare la spesa.
Cos´è dunque questa tendenza ossessiva a definire "strutturali" i nostri problemi? Sì, ho detto ossessiva. Gli economisti hanno discusso questo argomento per anni e gli strutturalisti non accetteranno un no come risposta, non importa quante siano le prove che dimostrano il contrario.
La risposta, direi, sta nel fatto che sostenere che i nostri problemi sono gravi e strutturali offre una buona scusa per non agire, per non fare nulla che possa alleviare la piaga della disoccupazione. Ovviamente, gli strutturalisti affermano di non cercare scuse. Dicono che dovremmo concentrarci non sulle soluzioni rapide ma su quelle di lungo termine - sebbene non sia chiaro in cosa dovrebbe consistere una politica di lungo termine, al di là del fatto che essa comporta l´imposizione di sacrifici a carico dei lavoratori e dei meno abbienti.
Più di ottanta anni fa, John Maynard Keynes conosceva già questo tipo di persone. "Ma questo lungo termine", scriveva, "è una guida fuorviante per i problemi che abbiamo davanti. Sul lungo termine saremo tutti morti. Gli economisti si danno un compito troppo facile e troppo inutile se nei tempi di bufera ci sanno solo dire che quando la tempesta sarà passata il mare tornerà ad essere calmo".
Vorrei aggiungere che inventare ragioni per non fare nulla circa l´attuale disoccupazione non è solamente crudele e dispendioso, è anche una cattiva politica di lungo termine. Ci sono infatti prove sempre maggiori che gli effetti corrosivi di una disoccupazione elevata getteranno un´ombra sull´economia per molti anni a venire. Ogni volta che qualche politico o qualche esperto presuntuoso comincia a spiegare quanto il deficit sia un peso per le prossime generazioni, bisogna ricordare che il problema più grande che i giovani americani devono oggi affrontare non è il fardello di un debito futuro, ma la mancanza di posti di lavoro che impedisce a tanti laureati di iniziare la propria vita lavorativa.
Perciò tutto questo parlare di disoccupazione strutturale non va nella direzione di affrontare i nostri reali problemi, ma in quella di evitarli, di trovare una via di fuga facile e inutile. Ed è arrivato il momento di smetterla.
(Traduzione di Antonella Cesarini)
Il problema, in sostanza, è di sostituire la domanda fornita dal mercato (ossia, di fatto, dai “produttori”) con una domanda fornita dallo stato. Ma che domanda presenterà questo stato: Una nuova domada di armamenti bellici, come dopo la crisi del 1929, oppore una domanda pr rafforzare un welfare adeguato ai temi (formazione, salute, mobilità a basso costo energetico, territorio, difesa del suolo, paesaggio e beni culturali, cultura)?
Il fronte dei diritti si è appena rimesso in movimento. Obama ha affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali, e lo stesso ha fatto François Hollande inserendolo nel suo programma e mettendo all´ordine del giorno quello ancor più impegnativo del fine vita. Di questa rinnovata centralità dei diritti dobbiamo tenere conto anche in Italia.
In che modo, però, e con quali contenuti? Qualche esempio. La recente sentenza della Corte di Cassazione sui matrimoni gay è un dono dell´Europa. Così come lo è l´avvio dell´estensione alla Chiesa dell´obbligo di pagare l´imposta sugli immobili. Così come può diventarlo l´utilizzazione degli articoli 10 e 11 del Trattato di Lisbona.
Mi spiego. La Cassazione ha potuto legittimamente mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio, e il conseguente diritto delle coppie dello stesso sesso ad una "vita familiare", proprio perché queste sono le indicazioni della Corte europea dei diritti dell´uomo e soprattutto dell´innovativo articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Sappiamo, poi, che la norma sul pagamento dell´Ici da parte della Chiesa è andata in porto solo perché erano ormai imminenti sanzioni da parte della Commissione europea. E la discussione sui rapporti tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, tornata con prepotenza in Italia anche per effetto degli ultimi risultati elettorali, trova nel Trattato chiarimenti importanti, a cominciare dal nuovo potere che almeno un milione di cittadini può esercitare chiedendo alla Commissione di intervenire in determinate materie. Lo ha appena fatto il Sindacato europeo dei servizi pubblici che si accinge a raccogliere le firme perché l´Unione europea metta a punto norme che riconoscano come diritto fondamentale quello di accesso all´acqua potabile.
Scopriamo così un´altra Europa, assai diversa dalla prepotente Europa economica e dall´evanescente Europa politica. È quella dei diritti, troppo spesso negletta e ricacciata nell´ombra. Un´Europa fastidiosa per chi vuole ridurre tutto alla dimensione del mercato e che, invece, dovrebbe essere valorizzata in questo momento di rigurgiti antieuropeisti, mostrando ai cittadini come proprio sul terreno dei diritti l´Unione europea offra loro un "valore aggiunto", dunque un volto assai diverso da quello, sgradito, che la identifica con la continua imposizione di sacrifici.
Questa è, o dovrebbe essere, una via obbligata. Dal 2010, infatti, la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed è quindi vincolante per gli Stati membri. Bisogna ricordare perché si volle questa Carta. Il Consiglio europeo di Colonia, nel giugno del 1999, lo disse chiaramente: «La tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell´Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità. Allo stato attuale dello sviluppo dell´Unione, è necessario elaborare una Carta di tali diritti al fine di sancirne in modo visibile l´importanza capitale e la portata per i cittadini dell´Unione». Sono parole impegnative. All´integrazione economica e monetaria si affiancava, come passaggio ineludibile, l´integrazione attraverso i diritti. Fino a che questa non fosse stata pienamente realizzata, al già mille volte rilevato deficit di democrazia dell´Unione europea si sarebbe accompagnato addirittura un deficit di legittimità. Si avvertiva così che la costruzione europea non avrebbe potuto trovare né nuovo slancio, né compimento, né avrebbe potuto far nascere un suo "popolo" fino a quando l´Europa dei diritti non avesse colmato i molti vuoti aperti da quella dei mercati.
Negli ultimi tempi questo doppio deficit si è ulteriormente aggravato. L´approvazione del "fiscal compact", con la forte crescita dei poteri della Commissione europea e della Corte di Giustizia, rende ancor più evidente il ruolo marginale dell´unica istituzione europea democraticamente legittimata – il Parlamento. Oggi si levano molte voci per trasformare la crisi in opportunità, riprendendo il tema della costruzione europea attraverso una revisione del Trattato di Lisbona. In questa nuova agenda costituzionale europea dovrebbe avere il primo posto proprio il rafforzamento del Parlamento, proiettato così in una dimensione dove potrebbe finalmente esercitare una funzione di controllo degli altri poteri e un ruolo significativo anche per il riconoscimento e la garanzia dei diritti.
Non è vero, infatti, che l´orizzonte europeo sia solo quello del mercato e della concorrenza. Lo dimostra proprio la struttura della Carta dei diritti. Nel Preambolo si afferma che l´Unione "pone la persona al centro della sua azione". La Carta si apre affermando che "la dignità umana è inviolabile". I principi fondativi, che danno il titolo ai suoi capitoli, sono quelli di dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza, giustizia, considerati come "valori indivisibili". Lo sviluppo, al quale la Carta si riferisce, è solo quello "sostenibile", sì che da questo principio scaturisce un limite all´esercizio dello stesso diritto di proprietà. In particolare, la Carta, considerando "indivisibili" i diritti, rende illegittima ogni operazione riduttiva dei diritti sociali, che li subordini ad un esclusivo interesse superiore dell´economia. E oggi vale la pena di ricordare le norme dove si afferma che il lavoratore ha il diritto "alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato", "a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose", alla protezione "in caso di perdita del posto di lavoro". Più in generale, e con parole assai significative, si sottolinea la necessità di "garantire un´esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti". Un riferimento, questo, che apre la via all´istituzione di un reddito di cittadinanza, e ribadisce il legame stretto tra le diverse politiche e il pieno rispetto della dignità delle persone.
Tutte queste indicazioni sono "giuridicamente vincolanti", ma sembrano scomparse dalla discussione pubblica. Si apre così una questione che non è tanto giuridica, quanto politica al più alto grado. Il riduzionismo economico non sta solo mettendo l´Unione europea contro diritti fondamentali delle persone, ma contro se stessa, contro i principi che dovrebbero fondarla e darle un futuro democratico, legittimato dall´adesione dei cittadini. Da qui dovrebbe muovere un nuovo cammino costituzionale. Se l´Europa deve essere "ridemocratizzata", come sostiene Jurgen Habermas, non basta un ulteriore trasferimento di sovranità finalizzato alla realizzazione di un governo economico comune, perché un´Unione europea dimezzata, svuotata di diritti, inevitabilmente assumerebbe la forma di una "democrazia senza popolo". Da qui dovrebbero ripartire la discussione pubblica, e una diversa elaborazione delle politiche europee.
Conosciamo le difficoltà. L´emergenza economica vuole chiudere ogni varco. Dalla Corte di Giustizia non sempre vengono segnali rassicuranti. Lo stesso Parlamento europeo ha mostrato inadeguatezze sul terreno dei diritti, come dimostrano le tardive e modeste reazioni alla deriva autoritaria dell´Ungheria. Ma l´esito delle elezioni francesi, e non solo, ci dice che un´altra stagione politica può aprirsi, nella quale proprio la lotta per i diritti torna ad essere fondamentale. Di essa oggi abbiamo massimamente bisogno, perché da qui passa l´azione dei cittadini, protagonisti indispensabili di un possibile tempo nuovo.
Il manifesto è in liquidazione coatta amministrativa da febbraio. La trattativa sul futuro del nostro-vostro giornale era in corso. La prossima settimana è previsto un incontro. Ieri i liquidatori hanno comunicato le loro intenzioni: chiudere il manifesto. Noi resistiamo e continuiamo a uscire. Oggi in edicola tutti i particolari.
Oggi in redazione abbiamo ricevuto un fax che non aspettavamo. Recita così: "Oggetto: Comunicazione cessazione attività aziendale e richiesta concessione trattamento straordinario di integrazione salariale". Ce lo inviano i nostri liquidatori: da febbraio siamo con i conti bloccati (per chi ha perso la storia, la trova qui).
Con i liquidatori abbiamo avviato una trattativa, e per la prossima settimana è stato fissato un incontro. Oggi il fax inatteso: "Si comunica che è stata decisa la cessazione della complessiva attività aziendale della cooperativa Il manifesto in Liquidazione Coatta Amministrativa". Solo un "passo" formale per avviare la trattativa al ministero? Forse, ma non ci rassicura il resto del fax, in cui si parla di una cassa integrazione di 12 mesi per tutti i lavoratori.
Domani sul giornale troverete tutti i particolari. Intanto chiediamo ancora il vostro sostegno, che in questi mesi è stato importantissimo, sia per i nostri conti che per la continuazione di questa esperienza politica. Cerchiamo di continuare a fare informazione in una situazione che è molto difficile per ciascuno di noi. Ci vediamo domani in edicola
La saracinesca, come chiamavano a Bari l’ecomostro di Punta Perotti, non tornerà a sequestrare il panorama più bello del lungomare. Al posto del mostro adesso c’è un grande prato, simbolo della legalità ripristinata, inaugurato nel 2007 con don Ciotti. Il prato in riva al mare è frequentato da migliaia di persone, che possono continuare a correre, come fanno d’abitudine, dopo aver infilato le scarpe da jogging. Nessuna sentenza glie lo toglierà.
La decisione della Corte europea dei diritti umani che dà ragione ai proprietari e impone allo Stato italiano un risarcimento di 49 milioni non è così terribile come appare in un primo momento. Il gruppo Matarrese e gli altri avevano chiesto risarcimenti per 353 milioni e l’incubo dei baresi era di pagare di “tasca propria”, cioè dalle casse comunali, l’abbattimento di quello che era e resta un gigantesco abuso edificato in dispregio della legge che stabilisce che non si può costruire a meno di 300 metri dal mare [quindi sulla base di un atto abilitativo illeggittimo, poiché in contrasto con la legge Galasso e il codice del paesaggio - ndr].
La sentenza scrive, dopo 17 anni, la parola “fine” a una vicenda che è iniziata nel 1995, quando aprì il cantiere per la costruzione di tre edifici, realizzati dalle imprese Sud Fondi, del Gruppo Matarrese, Mabar, del gruppo Andidero e Iema di Antonio Quistelli. E, ieri, le dichiarazioni del sindaco di Bari Michele Emiliano trasudavano soddisfazione: «Il comune di Bari non deve nulla, ha agito per obbligo di legge. La sentenza ha origine in una legge sbagliata dello Stato». Il sindaco si dice pronto ad incontrare subito i proprietari delle aree per trovare un’intesa perequativa.
IL PASTICCIO ITALIANO
Il pasticcio che ha dato origine ad una lunga serie di ricorsi e di opposizioni ha origine nel testo unico per l’edilizia (la legge 380 del 2001 che modifica la legge 47 del 1985) dove si dispone «la confisca dei terreni abusivamente lottizzati» anche quando non vi sia una condanna penale. È accaduto che pur essendo acclarato che l’ecomostro era un abuso, il Gup Mitola, nel febbraio del 1999, assolve i costruttori per “errore scusabile” ma ordina la confisca degli immobili e trasferisce il patrimonio al comune. Sul piano formale, infatti, le tre società avevano tutte le carte in regola, concessioni edilizie e autorizzazioni di Comune e Regione risalenti agli anni Ottanta. Peccato che quei permessi non potevano essere validi, poiché violavano le norme urbanistiche nazionali. In quel cruciale 2001, in cui una sentenza della Cassazione ribadisce confisca e l’abbattimento, anche se gli otto imputati sono assolti in corte d’appello, ricorda l’avvocato Gianfranco Grandaliano dell’avvocatura comunale, c’è anche il fatto che «il governo Berlusconi appena insediato, in un articolo della Finanziaria, avverte che se non sarà il comune dovrà essere la Regione amuoversi».
Michele Emiliano, eletto nel 2004, diede corso, quindi, ad obblighi di legge. Prima dello show down ci fu un ultimo tentativo di fermare le ruspe: la Salvatore Matarrese acquistò dalla banca il credito alla società costruttrice garantito da ipoteca e tentò il pignoramento degli immobili ormai diventati proprietà del comune.
L’ecomostro fu abbattuto, con grande festa popolare e diretta Tv, nell’aprile del 2006.
Dunque la sentenza della Corte di Strasburgo, spiega l’avvocato, «sconfessa un’ipotesi di rasarcimento multimilionaria» e riconosce, invece, «l’incidente di esecuzione». Incidente felice e il comune di Bari, che in un primo tempo si era opposto, aveva poi offerto la restituzione dei terreni ai proprietari. Ma il bene, risposero Matarrese e gli altri, è «completamente trasformato», in altre parole come si fa a togliere alla città un immenso e amatissimo parco? Rifiutarono. Anche forse sperando di avere il massimo dal risarcimento.
Ieri anche le imprese hanno espresso soddisfazione. La Corte Europea hanno dichiarato Sud Fondi (gruppo Matarrese) e Mabar (gruppo Andidero) ha accolto e condiviso tutte le tesi e i principi su cui erano fondate le richieste di risarcimento; risarcimento quantificato in una misura inferiore alle richieste in considerazione della restituzione della proprietà dei suoli, della loro destinazione edificatoria e del notevole valore ad essi attribuito anche dallo Stato italiano». Le imprese fanno sapere di essere pronte ad «avviare al più presto un confronto con l'amministrazione comunale per arrivare ad una soluzione condivisa». Una soluzione, dicono, «che consenta, da un lato la conservazione di un parco nell' area di Punta Perotti e, dall' altro, l'utilizzo da parte dei legittimi proprietari delle aree tuttora edificabili e ricomprese nei due piani di lottizzazione approvati dal Comune di Bari e mai annullati». Il tutto, conclude la nota, «nel rispetto del Piano regolatore generale della città e delle norme oggi vigenti a tutela del paesaggio». Parole dolci come il miele per il sindaco Emiliano che dà la sua piena disponibilità: «Adesso potrò incontrare i proprietari delle aree per definire con loro il destino del parco e le modalità con le quali garantire i loro diritti edificatori».
Digitando “punta perrotti” nella finestrina in alto e cliccando sul ottone “cerca” potete raggiugere gli altri articoli su eddyburg a proposito della vicenda
La demagogia è una forma degenerata della democrazia, la sua periferia interna. I classici la situavano al punto terminale della democrazia costituzionale o "buona".
Era la conseguenza di un impoverimento della società, del timore della classe media di vedere indebolito il proprio status e dei meno abbienti di perdere quel poco che a fatica avevano guadagnato. In questo scontento che contrapponeva i pochi ai molti poteva emergere un astuto demagogo che metteva in campo forze nuove, desiderose di farsi largo ed emergere.
Oggi la demagogia usa il linguaggio dell´antipolitica per esprimere opposizione alla classe politica attualmente esistente con il prevedibile obiettivo di scalzarla con una nuova. Se poi questa classe politica si è macchiata di corruzione ciò rende l´arringa del demagogo più facile ed efficace. Il Movimento Cinque Stelle rientra in questa categorizzazione demagogica. Beppe Grillo ha fatto dell´antipolitica la sua battaglia e alle recenti elezioni amministrative quel linguaggio ha dato i suoi frutti. La crisi economica e i recenti e meno recenti scandali politici hanno fatto da benzina. Ma che cosa è esattamente l´antipolitica?
Quando si parla di antipolitica nelle società democratiche si usa una parola molto imprecisa. Chi la usa non suggerisce infatti di ritirarsi nella solitudine di un convento, oppure di vivere solo di e per la famiglia, o solo di e per il lavoro. Chi usa l´espressione antipolitica vuole presumibilmente criticare il modo con il quale la politica è praticata ma in realtà sfruttare lo scontento che esiste ed è forte verso le forme tradizionali di esercizio della politica. Non è la politica l´obiettivo polemico e nemmeno la forma partito. Non è la politica perché il parlare di antipolitica è comunque un parlare politico, addirittura uno schierarsi partigianamente, e questo è a dimostrazione del fatto che nelle società democratiche non c´è scampo alla politica, nel senso che ogni questione che esce dal chiuso della domesticità è e si fa politica. Diceva Thomas Mann in un saggio esemplare sull´impolitico che nella società democratica anche chi si scaglia contro la politica è costretto a farlo con linguaggio politico, a farsi partigiano della sua causa. Ci si schiera e si entra nell´agone. L´antipolitica non è possibile.
Così è oggi: non c´è niente di più politico di questa persistente critica della politica. A ben guardare l´obiettivo polemico non è neppure la forma partito, l´associarsi cioè per perseguire o ostacolare determinati obiettivi e progetti politici. Anche i più astiosi demagoghi dell´antipolitica - anche l´arrabbiato Beppe Grillo - si presentano alle elezioni! Come scriveva Ilvo Diamanti su Repubblica a commento del recente voto amministrativo, il termine "antipolitica" sottintende una valutazione poco convincente quando è usata per spiegare il voto al Movimento Cinque Stelle - benché questo si sia alimentato pantagruelicamente dello slogan dell´antipolitica. Accettando di presentarsi alle elezioni ha accettato le regole democratiche della competizione e, soprattutto, messo in campo persone che, nonostante il linguaggio demagogico di Grillo, vogliono fare politica e discutono di problemi che sono politici, dall´ambiente alla corruzione, agli interessi privati nella cosa pubblica. A ben guardare gli elettori del Movimento sono semmai iperpolitici e vedono tutto in chiave politica (un termine al quale hanno dato un significato negativo, salvo... usarlo proprio per far politica). Scriveva Diamanti che i grillini "mostrano un alto grado di interesse per la politica" e in passato molti di loro hanno votato Lega Nord e anche Pd e Idv. La demagogia non piace ma è innegabile che chi si identifica con il Movimento del demagogo ha una visione politica, non antipolitica. E su questa visione ci si deve interrogare e ad essa occorre controbattere.
Il movimento Cinque Stelle opera come un partito e se vorrà persistere nel tempo dovrà strutturarsi come un partito. Nella democrazia rappresentativa non c´è scampo a questa regola. L´esperienza di Berlusconi insegna: avere i mezzi finanziari non è sufficiente poiché senza struttura e idee propositive la prima grossa sconfitta si rivela fatale. Perché un partito, se partito è, deve essere capace non solo di vincere ma anche di perdere. Un partito nato per solo vincere è un partito destinato all´estinzione. La memoria sulla quale ogni compagine si struttura creando identità collettiva si consolida anche grazie alle sconfitte, esperienze che uniscono, non meno delle vittorie. Quindi il Movimento Cinque Stelle se vuole consolidare la propria presenza nella politica nazionale dovrà essere pronto a scendere nell´agone sapendo che può perdere. La prepotenza verbale del suo leader rivela che questa non è ancora la sua condizione. Se sarà un partito di sola vittoria sarà di breve durata.
Perché dopo la protesta ci sarà la prova del fuoco del potere praticato. Essere eletti, avere una presenza nelle istituzioni, implica fatalmente prendere in mano quel potere urlando contro il quale il movimento di protesta è nato vittorioso. Si tratta di una regola ferrea che contraddice quel che ci aveva abituato a pensare una Democrazia Cristiana che stava in sella sapendo che non rischiava alternativa grazie alla guerra fredda: ovvero che il "potere logora chi non ce l´ha". Questa massima andreottiana valeva appunto perché chi aveva il potere sapeva di non rischiare di perderlo, cosicché a logorarsi erano appunto coloro che non potendolo avere per vie ordinarie (vittoria elettorale) dovevano scendere a patti con chi lo aveva già a costo di sporcarsi le mani. La massima andreottiana designa una condizione di irrilevanza della democrazia elettorale. Ma in una sana democrazia dove le elezioni funzionano davvero da deterrenza, e sono quindi rischiose (come si è visto il 6 e 7 maggio), allora il "potere consuma chi ce l´ha". E quindi le vittorie dei movimenti di protesta rischiano di spegnersi in fretta. La vicenda patetica della Lega Nord prova questa regola. Le ali se le scotta chi più si avvicina al sole. Il Movimento Cinque Stelle o diventa un partito e quindi accetta la sfida di essere vittima della critica di "antipolitica", oppure scompare. Ma se non scompare, allora deve darsi obiettivi e linguaggi che non sono più quelli della demagogia, roboanti, rozzi, e troppo facili.
Non archiviano solo il Pdl, le prime elezioni del dopo-Berlusconi, ma l'intero polo dell'allora "nuova" destra che Berlusconi mise al mondo nel '94 e che ha tenuto il campo della politica italiana per quasi un ventennio. Già lesionato dalla separazione di Fini di due anni fa, quel polo è oggi palesemente in frantumi, colpito al cuore dell'asse Berlusconi-Bossi che ne è stato il nerbo. Non aiuta la comprensione di quello che sta accadendo riportare questo crollo solo alle cause scatenanti più recenti: come sempre, nel momento della fine conviene piuttosto allungare lo sguardo sull'inizio.
Sul crollo della destra incidono infatti di sicuro la fine della leadership di Berlusconi - certificata ormai da un lungo declino, iniziato alle Europee del 2009 e mai più arrestatosi - e la devastante sequenza dei cosiddetti "scandali" - dal sexgate al Belsito-gate -, potenti rivelatori del funzionamento di un sistema di potere ancor più che eloquenti spie di una "questione morale" delegittimante. Giova però ricordare, per spiegarne la tenuta prima e adesso il disfarsi, di quali ingredienti fosse fatta la creatura berlusconiana del '94, una creatura tricipite che teneva insieme tre destre diverse fra loro: quella neoliberista di Forza Italia, quella comunitarista-xenofoba della Lega e quella statalista-sociale di An. Il "miracolo" del Cavaliere consistette precisamente nella capacità di unificare e cementificare sotto il proprio "carisma" queste tre anime diverse, talvolta perfino incompatibili, dando vita a un campo neolib-neocon più simile al suo omologo americano marcato Bush che alle destre europee. E consistette altresì nella capacità di incardinare su questa destra tricipite il bipolarismo della cosiddetta seconda repubblica, ridefinendo al contempo un'agenda di lotta e di governo tagliata sul blocco sociale e sugli interessi del Nord postfordista e "autoimprenditoriale", con il Sud "assistenzialista" in posizione periferica e ancillare.
Quel miracolo non è più ripetibile, e non solo perché è finita, o comunque sfinita, la leadership di Berlusconi senza la quale esso non si dà, ma perché la ricetta neolib-neocon che esso predicava non funziona (ammesso che abbia mai funzionato) e non seduce più. Il crollo, prima che politico, è di blocco sociale, nonché ideologico (al di là delle sue sopravvivenze residuali, paradossalmente più tenaci, a giudicare dal voto di domenica, al Sud che al Nord). Si tratta, in altri termini, della fine di una egemonia. Se e come una destra, e quale destra, riemergerà dalle macerie di questo blocco egemonico, ha probabilmente a che fare con la forma che prenderanno le sue tre componenti originarie. Ed è facile ipotizzare fin d'ora, dalle divisioni che le separano, che non si profila una loro ricomposizione bensì una loro scomposizione, dominata, più che dallo scenario nazionale, dall'evoluzione di quello europeo.
Qui entra in campo il secondo fattore decisivo del terremoto elettorale. Che non serve a nulla interpretare esclusivamente, o prevalentemente, nei termini triti dell'opposizione politica-antipolitica, rimuovendo il dato eclatante della contestazione antirigorista che dal voto (e dal non voto) emerge nettamente, in perfetta consonanza con i segnali che vengono dalla Francia e dalla Grecia. E qui si vedono anche gli enormi limiti di una transizione al dopo-Berlusconi tutta affidata alla sostituzione del neoliberismo più americano che europeo del Cavaliere con il neoliberismo più tedesco che americano di Monti.
Alla prima verifica elettorale, il risultato di questa transizione dall'alto è che alla sepoltura del ventennio del Cavaliere si somma la contestazione del governo dei tecnici e dell'Europa ostile e vessatoria che esso rappresenta. E questo mentre, crollato con la destra di Berlusconi il bipolarismo sperimentato fin qui, l'intero sistema politico deve ridefinirsi, e si sta già ridefinendo, in relazione al quadro europeo, alla crisi europea e alle politiche sociali europee. Non ne dipende infatti solo la configurazione che prenderà la destra, o le destre, orfana del Cavaliere, e allo stato prive di possibilità di riparo in un "terzo polo" che il voto di domenica ha dichiarato inesistente. Ne dipende altrettanto la configurazione che prenderà la sinistra, o le sinistre, nonché la curvatura che assumeranno i movimenti antisistema fin qui troppo genericamente etichettati come "antipolitici", e fin qui nella loro stessa autorappresentazione né di destra né di sinistra.
A proposito di questi ultimi, lo spettro europeo è assai vasto, va dalla sperimentazione delle pratiche di democrazia telematica dei "Pirati" tedeschi alla inquietante riesumazione del binomio socialnazista dell'"Alba dorata" greca, e oscilla dalla critica dell'Unione europea fin qui conosciuta al rifiuto tout court della costruzione europea. Sono movimenti che non garantiscono di per sé niente di buono, ma niente può piegarli al peggio quanto una pregiuziale sordità al disagio sociale di cui sono portatori.
Quanto ai destini della sinistra italiana, il voto francese, peraltro insistemente invocato dai suoi leader come condizione necessaria di un cambio di stagione su scala continentale, le indica limpidamente la strada. Non è affatto detto però che su quella strada essa possa portarsi l'appoggio al governo tecnico, né che basti mettere Monti nella posizione del mediatore fra Merkel e Hollande per far quadrare i conti dell'Euro e delle prossime elezioni politiche. Il Pd non è stato punito per le sue oscillazioni dal voto amministrativo, ma non è stato nemmeno granché premiato; e queste non sono circostanze in cui la rendita dell' "unico partito che tiene" possa durare a lungo. Ci sono situazioni in cui i tempi stringono, e le oscillazioni non pagano. La nettezza, manda a dire il caso Hollande, paga di più.
La fine dell'egemonia neoliberista berlusconiana e il cambiamento del vento europeo domandano e comandano una manovra controegemonica in grande stile, di segno opposto all'introiezione temperata del rigore montiano. E la stessa contabilità del voto obbliga a distogliere finalmente lo sguardo da un centro desaparecido e a volgerlo con più convinzione verso sinistra. Diversamente, ci saranno nell'immediato una sinistra senza popolo e un populismo senza sinistra, e all'orizzonte più la disgregazione greca che l'alternativa francese.
La Terza Repubblica
che non sa dove andare
di Ilvo Diamanti
Pdl e Lega senza leader e identità. il Pd tiene, Grillo forte sul territorio. Il Carroccio resiste ma a fatica. La valenza politica del Movimento 5 Stelle. Eccoli, i verdetti del voto per le comunali. Con effetti politici importanti sul piano nazionale
1. Le prime elezioni nell'era del Montismo hanno, anzitutto, suggerito che, insieme a Berlusconi, stia uscendo di scena anche il suo "partito personale". Quasi per conseguenza automatica e naturale. Il Pdl. In caduta, dovunque. Da Nord a Sud passando per il Centro. Non è facile decifrare i dati di elezioni specifiche, come quelle amministrative. Caratterizzate dalla presenza di molte liste civiche. Tuttavia, nei Comuni capoluogo, rispetto alle elezioni amministrative precedenti, il Pdl ha dimezzato il suo peso elettorale: è passato dal 30% al 14% (media delle medie). Governava in 95 Comuni (maggiori), insieme alla Lega. Al primo turno ne ha perduti 45 (inclusi quelli in cui è escluso dal ballottaggio). Ne ha mantenuti 5, conquistandone uno solo di nuovo. Negli altri 45 andrà al ballottaggio. In 16 Comuni, però, è in sensibile svantaggio. A livello locale, peraltro, il Pdl non aveva mai avuto basi solide e radicate. Ma senza Berlusconi ha perduto identità, senso. In qualche misura, speranza. Così ha travolto, nella slavina, anche il retroterra di An. Che, invece, fino a ieri, disponeva di una presenza diffusa in molti contesti. Soprattutto nel Sud.
2. La Lega resiste. Ma a fatica. Il risultato di Verona si deve, esclusivamente, a Tosi. È un voto "personale". Per molti versi, espresso "contro" la Lega di Bossi. Tosi, infatti, è il principale alleato di Maroni, come ha ribadito anche in questi giorni. Verona, d'altronde, non è una roccaforte storica della Lega, che si è insediata in città (e nell'area) solo nell'ultimo decennio. Prima era una zona di forza della Destra, da cui Tosi ha attinto molti consensi. Allargandoli in misura ampia, con la sua azione. E amministrazione.
Altrove, però, la Lega non ha fatto bene. Complessivamente, nei Comuni dov'era presente, la Lega ha perduto poco rispetto alle amministrative del 2007, ma ha dimezzato la percentuale del voto rispetto alle politiche del 2008 e le europee del 2009. Fra le 12 città maggiori al voto dove il sindaco uscente era leghista, la Lega ha perduto in 5 e in altrettante è al ballottaggio. Oltre a Verona, al primo turno ha vinto solo a Cittadella. Una roccaforte nel cuore del Veneto. Luogo quasi simbolico. Evoca la Lega che non è scomparsa, come alcuni ipotizzavano (e auspicavano). Ma "resiste" all'assedio. Ha reagito meglio nei Comuni più piccoli, inferiori a 15 mila abitanti (secondo l'analisi dell'Istituto C. Cattaneo).
Tuttavia, le sarà difficile, su queste basi, riproporsi come "partito del Nord". Tanto più perché perdere sindaci e peso nelle amministrazioni locali significa perdere radicamento nella società e nel (suo) territorio. Dove oggi appare un soggetto politico minoritario.
3. Ne deriva che il Pdl e la Lega, al di fuori dell'alleanza di centrodestra, risultino perdenti. Su base locale e non solo. D'altronde, anche un anno fa, alle amministrative, anche se alleati, avevano subito un notevole arretramento e alcune sconfitte pesanti. Per prima: Milano. Ma oggi, che Pdl e Lega corrono ciascuno per conto proprio, e anzi, uno contro l'altro, il loro futuro appare quanto meno difficile. D'altronde, solo Berlusconi era riuscito a coalizzarli, a farli stare insieme. Con argomenti efficaci. Per forza e/o per interesse. Il rapporto fra i due partiti, peraltro, era molto "personalizzato". Fondato sulle relazioni dirette fra Berlusconi e Bossi. Ma oggi il ruolo dei due leader si è ridimensionato e anche il legame fra i partiti si è sensibilmente allentato. In concreto, nel centrodestra si è aperto un vuoto di rappresentanza politica che non è chiaro come e da chi possa venire colmato.
4. Nel centrosinistra la situazione appare migliore. Soprattutto perché i partiti che ne fanno parte hanno, perlopiù, confermato l'alleanza. Anche se con geometrie variabili. Punto fisso: il Pd, che ha costruito intorno a sé diverse intese. In prevalenza, con la sinistra, ma anche insieme all'Udc. Al primo turno, nei capoluoghi di provincia ha tenuto, passando (in media) dal 19% al 17%: 2 punti in meno. Inoltre, nei 53 Comuni dov'era al governo, prima di queste elezioni, dopo il primo turno ne ha riconquistati 14 e altri 11 li ha strappati al Centrodestra. Eppure è indubbio che anche in quest'area emergano segni di sofferenza. Nel Pd - ma anche nel centrosinistra. Il quale non riesce a capitalizzare il crollo del centrodestra. Subisce, nelle sue aree, il peso dell'astensione. Che raggiunge non a caso il massimo nelle zone rosse: in Toscana, in Emilia Romagna, nelle Marche.
E, ancor di più, è incalzato dalla concorrenza del Movimento 5 Stelle, ispirato da Beppe Grillo. La sorpresa di questa consultazione. Dove i suoi candidati sono al ballottaggio in 5 Comuni oltre 15 mila abitanti (tra cui Parma). A Sarego, piccolo comune in provincia di Vicenza, è riuscito a fare eleggere il suo candidato sindaco. Il risultato del Movimento 5 Stelle, però, appare rilevante soprattutto per il livello dei consensi ottenuti un po' dovunque. Oltre il 10%, in media, nei Comuni capoluogo. Il 9% nell'insieme dei Comuni dove è presente. In alcuni contesti, peraltro, ha ottenuto performance importanti. Intorno al 20%.
5. La tendenza - e la tentazione - diffusa è di etichettarlo come un fenomeno "antipolitico". Equivalente e alternativo rispetto all'astensione. Una valutazione che mi sembra poco convincente.
A) Perché è comunque un soggetto "politico" che ha partecipato a una competizione democratica chiedendo e ottenendo voti. Facendo eleggere i propri candidati.
B) Poi perché il suo successo deriva, sicuramente, dalla critica contro il sistema di Grillo, ma anche dal fatto che il Movimento ha coagulato gruppi e leader attivi a livello locale. Impegnati su questioni e temi coerenti con quelli affrontati nel referendum di un anno fa. Collegati alla tutela dell'ambiente, ai beni pubblici. Alla lotta contro gli abusi. Progetti di "politica locale" promossi da persone a interessi privati e a lobby. Per questo credibili, in tempi scossi da scandali e polemiche sulla corruzione politica.
C) Infine, perché i loro elettori sono tutto fuor che "impolitici". Mostrano un alto grado di interesse per la politica (sondaggio Demos, aprile 2012). Certo, un terzo di essi, alle elezioni politiche del 2008, si è astenuto. Ma il 25% ha votato per il Pd e il 16% per l'Idv. Il Movimento 5 Stelle, per questo, rivela il disagio verso i partiti. Soprattutto fra gli elettori dell'area di centrosinistra. Ma non solo: un'analisi dei flussi elettorali condotta dall'Istituto Cattaneo sul voto di Parma, infatti, rileva una componente di elettori sottratti alla Lega (3% sul totale, rispetto alle regionali del 2010). Il Movimento 5 Stelle, dunque, offre a una quota di elettori significativa una rappresentanza, che può non piacere, ma è "politica".
Io, comunque, sono sempre convinto che sia meglio un voto, qualsiasi voto, del vuoto. Politico. Nell'insieme, questi risultati rafforzano l'impressione che il Paese sia ormai oltre la Terza Repubblica, fondata da - e su - Berlusconi e il Berlusconismo. Ma non sappia dove andare. Con questi partiti, questi leader, questi schieramenti, queste leggi elettorali e con questo sistema istituzionale: temo che passeremo ancora molto tempo a discutere di antipolitica. Per mascherare la miseria della politica.
Chi ha paura delle elezioni
di Barbara Spinelli
TUTTI ricordiamo le parole che Roosevelt pronunciò il 4 marzo 1933, appena eletto. La crisi che s'accingeva a fronteggiare era simile alla nostra, e disse: "La sola cosa che dobbiamo temere è la paura stessa: l'indicibile, irragionevole, ingiustificato terrore che paralizza gli sforzi necessari per convertire una ritirata in avanzata". Dopo le elezioni in Francia, Italia, Grecia, potremmo applicare la frase ai timori suscitati in molte capitali dai verdetti delle urne. "La sola cosa che l'Europa deve temere, oggi, è la paura che i tribunali elettorali suscitano nei governanti, nei partiti classici, in chiunque difenda lo status quo pensando che ogni sentiero che si biforca e tenta il nuovo sia una temibile devianza".
È con grande sospetto infatti che si guarda al nuovo Presidente socialista, e non solo quando in gioco è l'economia. Anche la sua politica estera è temuta: la volontà di uscire fin da quest'anno dall'Afghanistan, il rifiuto opposto nel 2009 quando Sarkozy decise di rientrare nel comando militare integrato della Nato. Ma il mutamento che maggiormente indispone e terrorizza è il rinegoziato del patto fiscale (fiscal compact) approvato a marzo da 25 Stati dell'Unione. È qui il nodo più difficile da sciogliere.
I capi d'Europa non troveranno salvezza che in simili mutamenti, ma cocciutamente rifiutano quel che li può salvare, considerandolo dinamite. Si sentono destabilizzati nelle loro certezze, e poco importa se son certezze empiricamente confutate, se la Merkel dovrà retrocedere comunque, perché senza socialdemocratici il fiscal compact non passerà in Parlamento. Giungono sino a dire che la formidabile spinta a cambiare politica è antipolitica, o conservatrice.
In Grecia il partito d'estrema sinistra (Syriza, Coalizione radicale della sinistra) è divenuto il secondo partito, superando i socialisti del vecchio Pasok, e il suo leader, Alexis Tsipras, sta tentando di formare un governo. Anche lui è tacciato di antipolitica, eppure è un europeista che profetizza il precipizio nella povertà e nel risentimento degli anni '30, se Angela Merkel non capirà la speranza racchiusa nella rabbie popolari. "L'Europa ha disperatamente bisogno di un New Deal stile Roosevelt": non è disfattismo quello di Tsipras, ma ardente appello a un'Unione più forte.
Di questa paura del nuovo converrà liberarsi, in Europa e America, perché anch'essa è terrore irragionevole, non già volontà di ripensare gli errori ma, come la chiamava Tommaso d'Aquino, chiusa non-volontà, nolitio perfecta. Non è un magnifico status quo quello che Hollande vuol rimettere in questione, non è una stabilità radiosa, che avrebbe dato chissà quali buoni frutti. Le urne dicono questo: il bisogno di Europa, di una politica che salvi il continente dal naufragio della disperazione sociale e di una guerra di tutti contro tutti. Il continuo accenno alla Grecia come spauracchio - e capro espiatorio - agitato dai nostri governi a ogni piè sospinto, non è altro che ritorno al vecchio bellicoso equilibrio di potenze nazionali, tra Stati egemoni e Stati protettorati.
Hollande ha in mente non solo l'economia, ma anche l'inerte mutismo europeo su pace e guerra. In Afghanistan la guerra iniziata dall'Occidente sta finendo in catastrofe, come ha spiegato con efficacia il generale Fabio Mini sul Corriere della sera: "È una guerra che stiamo combattendo con onore al fianco degli americani fingendo di non vedere che l'hanno già perduta. Sono stati sconfitti sul campo di battaglia nel 2003, quando dovettero coinvolgere la Nato per l'incapacità di gestire la violenza dei talebani e la corruzione del governo che avevano instaurato. Sono sconfitti ogni giorno sul campo dell'etica militare per l'incapacità di gestire l'eccesso di potenza, la frustrazione e i comportamenti degli squilibrati".
Lo stesso vale per la Nato: strumento che dopo la guerra fredda ha subito modifiche radicali, imposte da Washington e mai seriamente discusse tra europei. Da alleanza difensiva puramente militare, la Nato è divenuta un organo eminentemente politico, che esporta democrazia senza riuscirci, secernendo caos e Stati deboli, dipendenti o riottosi. Non stupisce dunque il fastidio manifestato da Hollande verso la scelta che ha coinvolto Parigi in un comando militare dominato dalla declinante potenza Usa. È bene che un Paese europeo di prima importanza chieda di fermarsi, e si interroghi sul punto cui siamo arrivati: che critichi lo status quo mentale che è dietro le guerre occidentali e dietro alleanze surrettiziamente snaturate. L'Unione, la Nato, i nostri rapporti col nuovo mondo multipolare: la mutazione già è avvenuta; sono la politica e l'Europa a esser sordo-mute, non all'altezza.
Queste battaglie di politica estera, così come le battaglie per un'Europa che sappia resistere alle forze disgregatrici dei mercati, dovranno tuttavia partire da un'unione di forze, da istituzioni comuni che durino più dei governi e diano sicurezza ai cittadini tutti. Che non si limitino più a eseguire gli ordini degli Stati più forti, e di un'ortodossia che non tollera pensieri eretici. Per questo Hollande non va lasciato solo, alle prese con le paure che suscita a Berlino o nelle accademie. Sul tema pace-guerra, come sulle discipline di rigore, occorre che gli Europei si radunino e definiscano senza paura i loro interessi, e le lezioni che vogliono trarre dai voti dei giorni scorsi.
Cosa dicono in ultima istanza le urne, oltre al rifiuto dell'austerità? Dicono che un numero crescente di elettori, a destra e sinistra, cede al richiamo del nazionalismo, della xenofobia, dell'antipolitica perché, pur conoscendo i disastri del richiamo, non vede formarsi uno spazio pubblico, un'agorà europea, in cui vien disegnato un nuovo ordine mondiale. Perché vedono candidati spesso corrotti, oppure governanti ingabbiati in dottrine economiche calamitose e in un ordine mondiale obsoleto, somma caotica di vizi e impotenze nazionali. Non vedono un'Europa ambiziosa, che proponga un modello di pace mondiale e non sia il Leviatano di Hobbes: potere sganciato dalle leggi civili, in assenza del quale (questa la sua propaganda) la vita è destinata a esser "solitaria, povera, incattivita, brutale, e corta". Grillo in Italia non è insensibile a questi richiami, anche se tanti suoi candidati e amministratori non credo siano d'accordo.
La sera della vittoria, alla Bastiglia, Hollande ha annunciato che la Francia vuol divenire un modello in Europa. Ma il grande salto qualitativo lo compirà il giorno in cui, negoziando con i partner, comincerà a esigere che l'Europa in quanto tale divenga modello. Quando dirà: tornerete ad avere fiducia nell'Unione creata nel dopoguerra, perché le abbiamo dato una voce unica e un governo federale dotato di risorse sufficienti a rilanciare l'economia al posto degli Stati costretti al rigore.
La volontà di ripensare la questione pace-guerra ha senso solo se partirà dall'Unione, non da un Paese isolato. L'idea di Kohl, quando nacque l'euro, va ripresa, continuata. La Germania sacrificò il marco sovrano, sperando nell'Europa politica e nella difesa comune. Il no di Mitterrand scatenò nei tedeschi diffidenze che perdurano. Quella stortura va corretta. Non dimentichiamolo: il federalismo europeo è ben più inviso a Parigi che a Berlino. Lo stesso si dica per le politiche, che non possiamo più delegare agli Usa, verso paesi arabi, Palestina, Russia. Occorre che l'Europa decida se vuol divenire potenza. Una potenza che non getti fuoribordo Atene, trattando i deboli come perdenti in guerra. La fierezza d'esser europei cresce solo così: risuscitando il modello sociale, l'ambizione politica degli inizi. Facendo di tutto perché i presenti tumulti popolari non siano un'occasione di regresso, ma si convertano in ripresa e ricominciamento.
François Hollande, socialista, è il nuovo presidente di Francia. Ed è la prima grossa spina nel fianco dell'Europa liberista. Della quale rifiuta le politiche di rigore e quindi il trattato intergovernativo sulla regola d'oro. Lo ha ripetuto instancabilmente, ancora domenica a mezzanotte, davanti alla folla stipata sulla piazza della Bastiglia, una folla mai vista, inattesa, che si è raccolta in tutte le piazze dell'esagono, prima di tutto in quella del suo collegio nella Corrèze, poi nel piccolo aeroporto di Brive, poi all'arrivo nell'aeroporto del Bourget e di là un corteo improvvisato di moto, auto, biciclette ad accompagnarlo - corteo allegro fitto e pericoloso - fino a Parigi, dove il servizio d'ordine ha stentato a fargli strada fino al palco sulla Bastiglia. La gente lo aspettava dalle otto, appena la vittoria era stata annunciata, zeppa di giovani e giovanissimi, di inattese bandiere di altri paesi, di gente felice. Felice era anche lui, Hollande, ma - ha subito aggiunto - «felici sì, euforici no, molte difficoltà ci attendono. Dovremo batterci, sia io che voi».
Non si può dire che abbia seminato illusioni. È il primo presidente socialista dopo Mitterrand, ma nel 1981 la situazione era meno grave di oggi. Ha ribadito, martellandoli, gli impegni cui non potrà sottrarsi. Due prioritari: più uguaglianza nei mezzi (dunque più lavoro, priorità alla grande disoccupazione giovanile, più potere d'acquisto con aumento subito del salario minimo) e nei diritti (fine di ogni discriminazione degli immigrati). E più giustizia redistributiva. Fine dei tagli nei servizi sociali, sessantamila nuovi impieghi fra sanità e scuola. E tutto questo pagato come? Non solo con i risparmi, ma con la crescita e tassando gli alti redditi fino al 75 per cento - cagnara dell'opposizione, ignara che Roosevelt era arrivato all'83. Tira un'aria di new deal, la destra e i moderati di Le Monde mettono le mani avanti.
È vero, ma Hollande, differentemente da Sarkozy, è un economista; uscito dalla ENA ai primi posti, sa che cosa è un bilancio, non straparla. Sa che la Francia ha un debito pubblico maggiore del nostro, anche se di minori proporzioni rispetto al Pil, ma sa anche che il rigore unilaterale non porta da nessuna parte, se non alla catastrofe economica della Spagna e a quella anche politica di una Grecia spaccata in quattro. Sa che di crescita si parla ormai un po' dappertutto, ma le ricette sono opposte: Hollande precisa che la sua si fa con l'aumento degli occupati, l'incremento delle tecnologie, e la tassazione degli alti redditi. Non crede affatto che si cresca tassando duramente pensioni, salari, servizi sociali ed enti locali, che riducono sia il potere d'acquisto dei più deboli sia le entrate pubbliche, e non è affatto persuaso - come Monti e la sinistra italiana - che i ricchi non devono essere disturbati perché investano nella produzione. Essi investono nella finanza «ed è la finanza - ha detto - il mio nemico». Pareva, al trio Merkel Sarkozy Monti e alla stampa al loro seguito, che dovesse venire giù il mondo. Ma i mercati sono più innervositi dalla Grecia che dalla svolta francese.
Calmo, deciso, normale quanto era agitato Sarkozy, alla mano, serio e non privo di humour, la vittoria di Hollande è quella di un uomo deciso, con un'idea in testa e capace di tessere attorno a sé tutte le forze del già rissoso Partito socialista e delle altre sinistre. Prenderà formalmente i poteri il 15 maggio, partirà subito per Berlino, poi per gli Stati Uniti, e al ritorno sarà davanti alle elezioni legislative dalle quali deve ricevere una maggioranza. È assai probabile che la avrà, e che dovrà negoziare con Jean-Luc Mélenchon (Front de gauche), che lo ha sostenuto con i suoi quattro milioni di voti, senza porre condizioni ma in autonomia (nelle legislative può averne di più, era arrivato nei sondaggi al 17 per cento, battendo il Fronte nazionale nelle zone operaie) e con i Verdi, il cui basso risultato al primo turno delle presidenziali si deve alle strettoie della legge di de Gaulle. Mélenchon lo incalzerà sui salari e sull'Europa, Eva Joly sul nucleare. Sull'Europa si tratta di modificare, fra le regole, l'interdizione alla Bce di finanziare gli Stati, sul nucleare di passare alle energie alternative per sostituire ben 58 centrali (cui attinge anche l'Italia). Un programma gigantesco, che incontrerà più ostacoli a Bruxelles che a Washington.
Intanto, nell'interregno cui è costretto fino al 15 maggio e, in buona parte, fino alle legislative, Hollande ha deciso due piccole cose che poteva decidere - ha ridotto del 30 per cento le indennità del presidente della Repubblica e dei ministri, e ha interdetto il cumulo delle cariche, fine dei sindaci ministri e dei ministri sindaci. Vecchia tradizione del notabilato che si rompe, come si è rotto ieri il primato di Parigi nel cerimoniale della nomina del Presidente. Hollande ha parlato prima nel suo collegio che nella capitale ed è uno strappo grosso. Anche se la capitale ha votato massicciamente per lui, come tutti i grandi centri urbani, periferie difficile incluse. Il Fronte nazionale appare forte ma radicato, salvo alcune zone al sud, nello scontento delle campagne.
Insomma, tempi difficili ma un varco in Europa si è aperto. In direzione opposta alla risorgenza delle destre. Farebbero bene a pensarci in Italia sia Bersani, sia Giorgio Napolitano artefici dell'unità nazionale liberista. E tutti gli araldi dell'inevitabilità dell'antipolitica, dell'astensionismo e della fine di una differenza fra destra e sinistra. Dove una sinistra ha il coraggio di esistere e dichiararsi tale, può vincere. La Francia, esplicitamente divisa, vede più chiaro e ha giocato una carta che anche in Italia, se coraggio ci fosse, sarebbe vincente.
La crisi che sta squassando il Paese (un suicidio al giorno) ha una delle sue cause nella stessa Costituzione della Repubblica, sicchè ne sarebbe urgente la riforma?
No, la Costituzione non ha nessuna colpa, e anzi la crisi consiste precisamente nel fatto che essa non è attuata. Se lo fosse, la Repubblica (cioè il potere pubblico) rimuoverebbe gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3); se lo fosse, la Repubblica renderebbe effettivo per tutti il diritto al lavoro (art. 4); sarebbe tutelato, anche contro le alluvioni, il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9); i giovani che vogliono formarsi una famiglia sarebbero “agevolati” dalla Repubblica con misure economiche e altre provvidenza (art. 31); la salute sarebbe tutelata (art. 32); la scuola pubblica non subirebbe tagli ma incentivi e nessuno potrebbe pensare di abolire il valore legale dei titoli di studio (art. 33); il diritto allo studio e il diritto anche degli indigenti a raggiungere i gradi più alti degli studi sarebbe reso effettivo dalla Repubblica con borse, assegni alle famiglie ed altre provvidenze (art. 34); il lavoro sarebbe tutelato in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), e così via.
Tutto questo invece non accade perché l’Italia è passata, senza che nessuno ne desse ragione e nessuno vi consentisse, da un regime a un altro, da una Costituzione ad un’altra, per cui si è deciso e si è accettato che tutte queste cose che dovrebbe fare la Repubblica le faccia invece il Mercato, cioè il potere privato e la legge della competizione e del profitto.
Perché questo passaggio di consegne fosse totale e irreversibile le forze politiche, tradendo il mandato costituzionale, hanno fatto a gara per privare la Repubblica sia delle risorse finanziarie (le tasse da evadere) sia degli strumenti operativi (Enti di Stato, partecipazioni industriali, piani di sviluppo) sia della stessa legittimazione a intervenire nella vita economica e a fronteggiare le crisi con le politiche di bilancio. Sicchè se anche nuove maggioranze e nuovi governi volessero ripristinare il ruolo e le finalità dell’azione pubblica, non potrebbero perché la Repubblica nel frattempo è stata resa del tutto impotente a rimuovere gli ostacoli, a rendere effettivi i diritti, a garantire, tutelare, promuovere, agevolare, proteggere, cioè a compiere quelle azioni che corrispondono a tutti i verbi con cui nella Costituzione sono definiti i suoi compiti. E se tale impotenza è stata per lungo tempo la conseguenza di una cattiva politica, ora con il rigorismo liberista del governo Monti e l’avallo degli altri poteri, diverrà un obbligo, frutto di una modifica strutturale dell’ordinamento e di una nuova definizione della Repubblica. La modifica, in quattro e quattr’otto dell’art. 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio ne è il primo segnale.
Invece di porre rimedio a tutto ciò, la riforma costituzionale a cui stanno lavorando i tre partiti che mediante i tecnici governano oggi l’Italia, tende a rendere insindacabile il potere politico e a mettere il presidente del Consiglio al riparo dalla sfiducia delle Camere, cioè a vanificare il più tipico e decisivo istituto della democrazia parlamentare.
L’accordo su cui si discute all’apposita Commissione del Senato, sulla base di un testo unficato presentato il 18 aprile scorso dal relatore Vizzini, prevede, per ingraziarsi la plebe, un’irrisoria e casuale diminuzione del numero dei parlamentari (da 630 a 508 deputati e da 315 a 254 senatori), ma per il resto comporta tre riforme destinate a cambiare la figura dello Stato.
La prima consiste nel confermare il bicameralismo, con due Camere ambedue elette a suffragio universale e quindi aventi la stessa dignità, ma con una gerarchia di competenze inegualmente distribuite tra loro e una rottura per materie dell’unicità delle fonti della legislazione e quindi dell’unità dell’ordinamento; la seconda consiste in una torsione presidenzialistica e leaderistica del sistema di governo, con un presidente del Consiglio provvisto di investitura popolare, dotato del potere di chiedere la nomina e la revoca dei ministri, e unico destinatario della fiducia del Parlamento, che sarebbe chiamato a votare per lui e non per l’intero ministero; la terza consiste nel rendere impraticabile il meccanismo della sfiducia: che potrebbe essere votata solo dal Parlamento in seduta comune con la maggioranza assoluta sia dei deputati che dei senatori, ciò che sta a significare la solennità, l’eccezionalità e l’implausibilità dell’evento; né le Camere potrebbero votare impunemente contro una legge su cui il governo ponesse la fiducia, senza cadere nella tagliola dello scioglimento che in tal caso il presidente del Consiglio farebbe scattare nei loro confronti; né potrebbe darsi sfiducia al capo del governo se non grazie a un ribaltone perfettamente organizzato dalla sua stessa maggioranza, con la contestuale indicazione di un altro presidente del Consiglio.
Sembra impossibile che i tre partiti possano fare insieme appassionatamente una tale riforma, così divisi e diversi come sono. In ogni caso occorre vegliare e resistere.
Ci sono sfide che vale la pena affrontare. Che altrimenti il rischio è restare prigionieri di alibi, senza fare un passo avanti né indietro. «La legge che regola il sequestro e la confisca dei beni va rivista e soprattutto vanno rivisti i criteri base dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati» riflette il ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri che ha incontrato Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e delegato nazionale per la legalità dopo la sua proposta di un progetto-pilota per provare a mettere a reddito, cioè vendere o far fruttare, i beni confiscati alle mafie. Un tesoretto di 20 miliardi che lo Stato non riesce a capitalizzare. Ministro, la sua sembra una proposta choc: snellire le regole e la burocrazia pur di vendere quei beni e andare avanti. Sta rompendo un tabù? «Senza scomodare categorie impegnative, dico che quella dei sequestri, della confisca e del riutilizzo dei beni (la legge Rognoni-La Torre, ndr) è un dispositivo di norme concepite molto tempo fa quando i sequestri erano oggettivamente pochi. Oggi sono molti di più, tanti e soprattutto molto diversificati quindi vanno cambiate le regole. Per questo d’accordo col ministro della Giustizia Paola Severino penso a un ddl che consenta ampio dibattito parlamentare su un tema così delicato». Il tabù era riferito alla possibilità di vendere quei beni, o metterli a reddito in qualche modo, correndo il rischio che tornino nelle mani dei clan.
«Non dobbiamo aver paura di mettere in vendita i beni confiscati. Il rischio di tornino nelle mani dei clan esiste ma, pazienza: vorrà dire che saranno nuovamente sequestrati e confiscati e che lo Stato ci guadagnerà due volte».
Sembra molto sicura?
«Ho avuto modo di parlarne spesso, non solo da ministro, con vari magistrati antimafia. Sono loro i primi a dire di andare avanti, a non voler restare ostaggi della paura. O di certe ideologie».
Montante propone un progetto pilota, individuare una zona e sperimentare in quel territorio lo snellimento delle procedure e la vendita dei beni. Per provare a mettere a reddito quel patrimonio di 20 miliardi. È d’accordo?
«Concordo con l’analisi di Montante, anche se a questo punto corro il rischio di sembrare faziosa (il ministro sorride ndr) visto che ho già appoggiato e siamo quasi arrivati a compimento con la proposta del rating antimafia per le aziende virtuose. La legge Rognoni-La Torre è un testo di garanzia, con una storia antica che nasce però in un momento in cui la lotta alla mafia dava altri risultati. È una legge calibrata sulle gestione di poche cose. Oggi è tutto diverso. E dobbiamo adeguare gli strumenti. Semplice».
Cosa e in che modo?
«Ad esempio penso a percorsi diversificati a seconda della tipologia dei beni. Una cosa è mettere a reddito un negozio di focacce, altra vendere una villa. Altro ancora un’attività industriale e produttiva...»
Clamoroso il caso di Riela group, azienda leader nei trasporti in provincia di Catania, proprietà dello Stato dopo la confisca e che ora rischia di chiudere definitivamente e di mandare a casa 22 dipendenti.
«Appunto. Di fronte a realtà di questo genere il rischio è dare un messaggio perverso, e cioè che i clan riescono a garantire occupazione e sviluppo mentre l’arrivo dello Stato significa disoccupazione e impoverimento. Di fronte a questo rischio, molto meglio provare a vendere a chi può acquistare aumentando ancora di più il massimo controllo di legalità. Se poi dovessimo trovarci di nuovo a tu per tu con le famiglie, scatteranno nuovi sequestri e confische. Non solo, penso sia superata ormai la regola per cui i beni confiscati abbiano una destinazione sociale e debbano essere affidati ad enti locali e istituzioni pubbliche per finalità sociali. I comuni oggi, spesso, non hanno soldi e quei beni perdono valore inutilizzati. Credo sia giusto invece darli il prima possibile a chi li può mettere a reddito creando occupazione e ricchezza».
Il prefetto Caruso, a capo dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati, denuncia il problema delle ipoteche bancarie sui beni mafiosi.
«Funziona così: il mafioso che sa di avere il fiato di qualche procura sul collo, intimidisce la banca, pretende un’ipoteca e porta a casa l’80% del valore dell’immobile. Che quando viene confiscato è proprietà della banca. È un problema serio. Il prefetto Caruso lo sta affrontando. Ecco perchè credo sia opportuno modificare il funzionamento dell’Agenzia nata tre anni fa ma su basi, come dicevamo, antiche».
Modificare, in questo caso, come?
«Credo che alla base sia necessaria molta liberalità. Non c’è più spazio per carrozzoni tipo Iri. Occorre un’agenzia agile, con una sola sede invece di cinque e pochi dipendenti. Vanno invece sfruttate di più le prefetture e presa in esame la possibilità di ricorrere a manager di fronte a casi specifici. L’Agenzia deve trovare la forza di autoalimentarsi. Non può diventare un altro peso per lo Stato».
Qualcuno dirà che il governo tecnico cerca di limitare l’azione dell’Agenzia. Non teme questa reazione?
«Nessuno limita nulla. Qui vogliamo solo che le strutture centrali siano più snelle e in grado di funzionare meglio».
Siamo sicuri che sia colpa solo dell’Agenzia? A Bari la gelateria Gasperini sequestrata alla mafia barese due mesi, è già stata riaperta dall’amministratore giudiziario che si è fatto carico dei rischi. A Roma l’Antico Caffè Chigi, sequestrato un anno fa alla ’ndrangheta, resta chiuso. Qual è la vera Agenzia?
«È chiaro che tutti si devono responsabilizzare e assumere i propri rischi. Quando parlo di modifiche legislative, con un nuovo disegno di legge, mi riferisco anche a questo: a monte sono necessari coordinamento e regole chiare; il resto dipende anche dalle persone che vanno sapute motivare. L’Agenzia è nata nel 2009 ma solo sulla carta: i decreti attuativi risalgono a due mesi fa».
Ministro, ha appena aderito alla campagna contro il femminicidio lanciata da “Se non ora, quando”.
«È il minimo che potessi fare. 57 vittime dall’inizio dell’anno, e quasi tutte per mano del compagno o dell’ex. E il numero dei reati aumenta se si aggiungono quelli non denunciati, ancora tantissimi. Il mio impegno, e non solo da oggi come ministro, è quello di cercare di far crescere la voglia delle donne a reagire alle continue violenze domestiche. Tutte le forze dell’ordine, le donne e gli uomini del ministero, sono impegnati a praticare, coltivare e diffondere una cultura del rispetto che è l'unico antidoto contro qualsiasi forma di violenza».
A proposito di donne-vittime, giovedì è stata in Calabria ed ha incontrato il sindaco di Monasterace Carmela Lanzetta. Com’ è andata?
«È una donna straordinaria che chiede solo di poter fare il sindaco in modo normale. Sempre di più ci dobbiamo rendere conto che fare il proprio dovere con normalità è il vero eroismo».
Aveva proprio ragione Keynes: le idee sbagliate alla fine sono più dure dei fatti. Come nel caso della vendita dei beni demaniali - al di là di altre considerazioni di opportunità, di merito e di etica - l'idea di alienare anche i beni confiscati, nell'attuale congiuntura, avrebbe solo l'effetto di scaricare sul sistema delle imprese le difficoltà della finanza pubblica.
Nel bel mezzo della più drammatica crisi da domanda dal 1929, il Governo ritiene insomma che le imprese dovrebbero ricorrere al credito non per riconvertirsi, per rafforzarsi e innovarsi nei settori che tirano a scala globale, quelli della green economy e della conoscenza, ma per comprare terre e immobili, ripercorrendo alla fine lo stesso triste percorso che ha condotto all'esplosione della bolla speculativa.
Insomma, sottrarre al sistema economico 20 miliardi (più 6 per la dismissione del demanio) vendendo terre e immobili sembra proprio una sciocchezza, un bel modo per impoverire e rendere ancor più fragile e arretrato il mondo dell'impresa e del lavoro in Italia.
A meno che non si tratti di un disperato tentativo di terapia omeopatica a larga scala, dove la malattia viene combattuta somministrando la stessa tossina che la causa. (a.d.g.)
Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.
Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent´anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.
Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.
1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All´elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell´Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell´Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d´opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.
Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.
2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all´opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l´attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all´Udc. Spesso diviso in diverse liste. L´Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all´Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all´Udc, in competizione con Sel e/o l´Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un´occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.
3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po´ semplicisticamente, nella formula dell´antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.
Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.
4. L´ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent´anni fa, nel 1993, la legge sull´elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent´anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall´emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l´esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.
Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".
ROMA — Una delle ipotesi è questa, che la provincia di Lecco finisca accorpata con quella di Como, e di conseguenza dominata, visto che Como comprende quasi 600 mila abitanti e Lecco si ferma a 340. Ma si può? Lecco è provincia da vent'anni solamente e mal sopporterebbe di riunirsi all'altro ramo del lago. Il ramo di Manzoni che si sottomette a quello di Alessandro Volta? Piuttosto, i lecchesi preferirebbero legarsi a Sondrio, che con i suoi 183 mila abitanti finirebbe in posizione gregaria. Le due possibilità convivono nel piano di lavoro che i tecnici del ministero della Pubblica amministrazione e dell'Interno stanno elaborando. Il tema è annoso, ha prodotto fiumi di parole, non si è mai tramutato in realtà: il taglio delle 109 province italiane. Un altro «matrimonio» impossibile sarebbe quello di Piacenza (290 mila abitanti) con Parma (442 mila). Furono assieme, per tre secoli, ma i parmigiani dicevano «Ducato di Parma e Piacenza (che anche se non c'è facciamo senza)». A Parma hanno sempre guardato verso Parigi, nobilitati dalla Certosa di Stendhal, a Piacenza (in provincia è nato Pier Luigi Bersani, segretario pd) si son sempre sentiti più lombardi che emiliani. Andiamo avanti. Enna (172) con Caltanissetta (272), i due capoluoghi di provincia più alti della Sicilia. Ma qui bisognerebbe superare la potestà delle Regioni a statuto speciale sulle autonomie locali...
Il governo Monti ha già dato un bel fendente. Col decreto «salva Italia», le Province (ultimati i mandati in corso) sono state abbassate a enti di secondo livello. Abolite le giunte. Consigli provinciali eletti non dai cittadini, ma dai consigli comunali interessati. Competenze da trasferire a Regioni e Comuni entro la fine dell'anno. Ora siamo agli atti successivi. Presso la commissione Affari costituzionali della Camera si discutono le modifiche agli articoli 114 e 133 della Costituzione. Da una parte, le Province potrebbero sparire dal breve elenco degli enti che costituiscono la Repubblica. Dall'altra, verrebbero cancellate (o accorpate) le province sotto un certo numero di abitanti. In questa fase il Dipartimento riforme istituzionali del ministro per Pubblica amministrazione, Patroni Griffi, e il ministero dell'Interno di Anna Maria Cancellieri forniscono idee e documenti al Parlamento. Le ipotesi principali all'attenzione della commissione sono tre: salvare le province con più di 350 mila abitanti, quelle con più di 450 mila, o addirittura solo quelle con 500 mila abitanti. Nel primo caso resterebbero in vita 58 province e le prime «non elette» sarebbero Arezzo (349.651 abitanti) e Livorno (342.955). Fuori anche Trieste, Siena, Campobasso, Grosseto, Prato... Nella seconda lista ci sono invece 39 province, lasciando a terra Brindisi, Potenza, Catanzaro, Siracusa. Infine, l'ipotesi più drastica salverebbe appena 36 province (qui stiamo inserendo anche quelle delle Regioni a statuto speciale), che includono le grandi città, comprese Udine, Reggio Emilia, Latina, Pavia.
Lo scenario disegnato dai tecnici ministeriali è drastico in ogni caso, se si pensa che suscitò scandalo, esattamente due anni e poi un anno fa, l'idea del ministro Tremonti di sforbiciare tutte le province al di sotto dei 220 mila abitanti o dei 300 mila abitanti, misura che ne avrebbe conservate in attività ben 86, oppure 70. Di fronte alle ribellioni degli esclusi, Berlusconi rinviò a miglior data. Nel frattempo in Italia sono andate avanti le rivendicazioni per nuove province, Gela, Caltagirone, anche la Ladinia, promossa dalla Lega Nord. Ora però nel clima generale di risparmi sulla spesa pubblica, perfino l'Unione province italiane ha presentato (febbraio scorso) un testo che propone l'autoriduzione da 109 a 60.
Le decurtazioni proposte dal governo sono accompagnate — come abbiamo visto — dalla possibilità di effettuare accorpamenti fra province contigue, che raggiungerebbero il «tetto» con la somma degli abitanti. Oltre ai difficili connubi fra Lecco e Como o fra Parma e Piacenza, ce ne sono altri immaginati nei ministeri. Con alcuni dolorosi passi indietro. Prendiamo Lodi. La Provincia è giovane, nata nel marzo '92, dal distacco di 61 Comuni da Milano. Ora quel che si prospetta sarebbe l'accorpamento di Lodi (228 mila abitanti) a Cremona (364 mila). Meglio tornare sotto l'ala di Milano, allora?
In Consiglio dei ministri, lunedì, il governo ha portato un sistema cartesiano nel quale si dimostra che le Province di maggiori dimensioni hanno spese per abitante notevolmente più basse delle Province più piccole. In Sardegna (statuto speciale) ci sono nove province per un milione e mezzo di abitanti. In Molise due province per 300 mila abitanti. Un terzo delle Province, secondo il ministero dell'Economia, spende più del 40 per cento del bilancio in stipendi per i dipendenti. Quanto si potrebbe risparmiare ancora non è chiaro, visto che il personale verrebbe riassorbito nei ranghi dello Stato.
Postilla
L’articolo ha un grande pregio: quello di riassumere la montagna di miserie che sta dietro a lustri di separazioni e cosiddette “riorganizzazioni” territoriali amministrative, che col territorio avevano (lo si sapeva, lo si intuiva, ora è evidente) poco o nulla a che fare. Nell’incipit si cita Como-Lecco: per caso mi è capitato di risiedere vent’anni in provincia di Como ma nel territorio di quella che è l’attuale circoscrizione di Lecco, e di ascoltare le infinite rivendicazioni di interessi particolari che poi hanno condotto alla separazione. Economia, servizi, e sotto sotto la solita “rappresentanza”, ma rappresentanza di cosa? È sacrosanto avere voce, ma proprio per considerare il peso relativo di queste voci si deve valutare quanto un territorio “guarda a Parigi”? E un altro adiacente invece preferisce, che so, guardare all’industria conserviera? Chi ha anche solo scorso il dibattito alla Costituente sulla riorganizzazione territoriale dello Stato non poteva fare a meno di imbattersi in incredibili sparate e meschinità, che nel nome della “rappresentanza democratica” tracciavano piccoli confini feudali di interessi. Un criterio che poi si è gonfiato a dismisura, sino alla smodata reazione di qualche mese fa, quando l’ipotesi di abolire del tutto le Province aveva incontrato una specie di spontaneo entusiasmo popolare, tanto inconsapevolmente suicida quanto comprensibile. Val la pena forse ricordare come parallelamente ai lavori della Costituente, la nascente urbanistica democratica italiana tramite Giovanni Astengo provava ad elaborare criteri di riorganizzazione dello Stato per circoscrizioni non basate (solo) sugli equilibri di consenso stabiliti dagli “agenti di sviluppo” (leggi: ras locali), ma su basi geografiche, storiche, socioeconomiche meno aleatorie. Qualcuno riuscirà a convincere gli attuali ragionieri contabili che stanno gestendo al momento la cosa pubblica, a investire un po’ di metodo in quella direzione? Le conoscenze di sicuro non mancano (f.b.)
A pochi giorni dal voto, il centrodestra monzese comincia a pensare di averla fatta davvero grossa, e vede il fantasma di una sconfitta che sarebbe clamorosa. Il sindaco leghista Marco Mariani ha dovuto piegarsi, molto controvoglia, al diktat del suo partito che gli ha imposto di correre da solo. E si ritrova come avversario un candidato del Pdl - il farmacista Andrea Mandelli - scelto in extremis in una riunione ad Arcore da Silvio Berlusconi. Roberto Scanagatti, candidato del centrosinistra, prova a costruire l´alternativa: "Perde chi governa male, non si tratta solo di un gioco politico".
La partita è fra questi tre. Se mai dovesse perdere, il centrodestra potrà ringraziare la famiglia Berlusconi. Sì, perché la divisione provocata dalla scelta solitaria della Lega è solo l´ultimo atto di una stagione in cui Monza è stata ridotta a feudo berlusconiano. E il lavoro della giunta Mariani ha avuto un obiettivo preponderante: far passare il nuovo Pgt che avrebbe permesso la nascita di Milano 4, una colata di cemento sull´area della Cascinazza. Un´area destinata a verde, e di proprietà di Paolo Berlusconi. "Per il Pgt - accusa Scanagatti - sono stati fatti 62 consigli comunali, anche di sabato e domenica". Obiettivo mancato, alla fine. Fra defezioni in extremis e sabotaggi interni leghisti, il grande affare del cemento berlusconiano è - per il momento - tramontato. E dire che Berlusconi aveva spedito a Monza, come assessore all´Urbanistica, il fido Paolo Romani. Mai visto in consiglio comunale, e forse una volta in giunta. Però, mentre seguiva da vicino gli interessi di famiglia, Romani costava parecchio alle casse comunali. La magistratura indaga sui 5 mila euro di bolletta per un telefonino forse dato in uso alla figlia. E sui 22 mila euro di spese in pranzi, in un anno e mezzo.
Nonostante il fallimento delle grandi manovre sulla Cascinazza, Mariani era convinto di poter spuntare una rielezione a capo del centrodestra. Ma i vertici leghisti hanno deciso che si doveva correre da soli. Ora il sindaco uscente ripete: "Se non stiamo insieme col Pdl è solo per una ragion di Stato. Non ci sono motivi politici per non proseguire l´esperienza". Dà per scontato, in caso probabile di ballottaggio fra Scanagatti e Mandelli, un apparentamento con l´esponente Pdl. Mandelli, il farmacista, non sembra voglioso di apparentamenti: "In caso di ballottaggio, i cittadini valuteranno i programmi". Se poi il duello dovesse essere Mariani-Scanagatti, ha già detto che i suoi elettori avranno libertà di voto. Lui, peraltro, ha già da vedersela con i maldipancia interni al Pdl, perché molti non hanno digerito l´imposizione della sua candidatura fatta in extremis da Berlusconi. Mandelli nega che ci siano malumori, però una vasta area legata a Cl premeva perché il candidato fosse Pierfranco Maffé, ematologo, assessore a Istruzione e Politiche sociali: "Io certamente - commenta lui - avrei preferito in questi anni più attenzione ai temi sociali, all´educazione, alla famiglia, e meno all´urbanistica che appassiona pochi". Scanagatti, mentre incassa il sostegno di Giuliano Pisapia e ne adotta il colore arancione di buon augurio, è sicuro: "La città sta dicendo no, non tollera più che si pensi solo agli affari del cemento".
INFO
Se nella piccola finestra in alto a destra, nella testata di questa pagina, scrivete “Cascinazza” e poi cliccate su “cerca” vedrete l’elenco delle molte decine di articoli che eddyburg ha raccolto su questo istruttivo episodio di malcostume urbanistico. Ce n’è per tutti i gusti. Magari l’argomento per una tesi di laurea…
Dalle cronache de il manifesto sull'assemblea di Alba a Firenze emergono due proposte di campagne politiche, sull'art.81 della Costituzione e sul Fiscal Compact, non ben delineate però negli strumenti e negli obiettivi. Voglio riprenderle per contribuire alla loro definizione.
Il 17 aprile, il Senato ha votato in quarta lettura il disegno di legge di revisione dell'art. 81 per introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione, e la votazione avvenuta con una maggioranza superiore ai due terzi, così come già era accaduto alla Camera per la terza lettura, impedisce il ricorso al referendum popolare secondo quanto prescrive l'art. 138 Cost. Il nuovo articolo 81 è ormai in Costituzione, anche se ciò non significa rimanere 'inerti e silenti' di fronte a questa manomissione voluta dall'Ue e attuata dalla maggioranza Pd-PdL-Terzo Polo, che sostiene il governo Monti.
L'Associazione per la democrazia costituzionale, nel corso della discussione parlamentare, ha organizzato dibattiti e inviato ripetutamente e-mail a tutti i parlamentari per denunciare la gravità dell'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, chiedendo al Parlamento un atto di rispetto democratico, quello di non votarla con la maggioranza dei due terzi così da consentire la raccolta delle firme per un referendum popolare, secondo quanto prevede l'art. 138.
Il Comitato No Debito ha organizzato una raccolta di firme e dei sit-in davanti alla Camera e al Senato per rompere il 'silenzio stampa' sulla questione. Solo il manifesto ha alimentato la discussione pubblicando articoli contro la modifica dell'art. 81. Il Parlamento non ha raccolto questa domanda volta a far svolgere il referendum popolare su una materia così importante come le regole del bilancio dello Stato, cuore del patto fiscale democratico.
Introdurre in Costituzione il pareggio di bilancio significa impedire alle istituzioni pubbliche di intervenire nella gestione dell'economia per orientare l'uso delle risorse rispettando il vincolo dei beni comuni naturali, l'acqua, il territorio, l'energia, l'aria e per attuare i diritti sociali - la salute, l'educazione, l'istruzione, la previdenza.
Ora l'articolo 81 è stato modificato ed è parte integrante della Costituzione aprendo però una contraddizione al suo interno: come si può conciliare il pareggio di bilancio con le disposizioni dell'art. 3 (la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale), dell'art. 4 (il diritto al lavoro), dell'art. 32 (il diritto alla salute), dell'art. 34 (il diritto all'istruzione), dell'art. 35 (la tutela del lavoro), dell'art. 37 (la tutela della donna lavoratrice e dei minori), dell'art. 38 (diritto all'assistenza, alla previdenza e alla sicurezza sociali)? La contraddizione è tra diritti e mercato, e su di essa occorre far leva.
Qui si inserisce la precisa proposta di Gianni Ferrara, avanzata su il manifesto, di raccogliere 50 mila firme, secondo il dettato dell'art. 71 Cost., per una proposta di legge di iniziativa popolare per un comma aggiuntivo all'attuale testo dell'art. 81 per vincolare almeno il 50 per cento del bilancio dello Stato all'effettiva fruizione dei diritti sociali e del lavoro prescritti in Costituzione.
L'Associazione per la democrazia costituzionale ha già avviato un lavoro per un'iniziativa legislativa popolare, aperta a tutte le forze intenzionate a difendere e sviluppare il costituzionalismo democratico e sociale di cui è espressione la nostra Carta costituzionale.
Il 2 marzo è stato siglato a Bruxelles il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento, sulla governance nell'Unione economica e monetaria, noto come Fiscal Compact, chiesto dal presidente della Bce, Mario Draghi, nel suo discorso al Parlamento europeo il 1 dicembre 2011. Con il Fiscal Compact si rendono permanenti i piani di austerità che mirano a tagliare salari, stipendi e pensioni, ad annullare la specialità del diritto del lavoro, a privatizzare i beni comuni, e si chiede, all'art. 3, l'introduzione del pareggio di bilancio negli ordinamenti nazionali, preferibilmente a livello costituzionale. Con questo trattato economico i governi, qualunque siano i loro colori politici, devono nelle politiche di bilancio attuare le decisioni del Consiglio europeo, della Commissione europea e della Bce: la democrazia viene cancellata, il potere è nelle mani dei mercati finanziari, delle banche, della tecnocrazia. Inoltre si prescrive l'abbattimento del debito per riportarlo nel limite del 60 per cento del Pil: per l'Italia venti anni di manovre economiche dell'ordine di 47-48 miliardi l'anno solo per ripagare il debito. Per questo occorre spezzare i vincoli dell'Ue.
In Italia la ratifica dei trattati internazionali, qual è il Fiscal Compact, è di competenza esclusiva del Parlamento tanto che l'art. 75 Cost. non ammette il referendum per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Ora i Trattati Ue vanno cambiando radicalmente le Costituzioni fino al loro sovvertimento, come avviene con il Fiscal Compact che, insieme con la modifica dell'art. 81, introduce una 'costituzione di mercato' contro il costituzionalismo dei diritti.
Certo importante sarà una campagna d'opinione contro la sua ratifica, ma questa campagna sarà tanto più incisiva se sarà centrata sulla richiesta che anche in Italia si svolga un referendum popolare. Ho ricordato il divieto dell'art. 75, ma i Trattati Ue hanno una tale incidenza sugli assetti costituzionali che il Parlamento italiano varò nel 1989 una legge costituzionale per consentire un referendum popolare di indirizzo su una questione fondamentale: l'attribuzione di un potere costituente al Parlamento europeo. A convincere un restio Pci a sostenerla furono in prima fila Ferrara, Bassanini e Rodotà.
Oggi occorre chiedere che il Parlamento, con la stessa rapidità con cui ha approvato la revisione dell'art. 81, vari una legge costituzionale per un referendum di indirizzo sul Fiscal Compact. I/le cittadini/e devono decidere sulle scelte europee: se vogliono un'Europa liberista, o un'Europa guidata dai valori del costituzionalismo democratico.
Nel Novecento i comizi sindacali alle manifestazioni del 1° Maggio si concludevano regolarmente con l'appello «al lavoro e alla lotta». Altri tempi, quando il lavoro c'era per quasi tutti, al punto che una parte del movimento operaio poteva anche permettersi di invocare una lotta contro il lavoro, anzi «contro questo lavoro», cioè contro i rapporti di produzione capitalistici per liberare il lavoro dal profitto. Oggi, se si concludesse un comizio chiamando «al lavoro e alla lotta» si parlerebbe a una parte sempre meno maggioritaria di interlocutori. L'unico appello unificante, semmai, sarebbe «alla lotta per il lavoro».
Se ci limitassimo a questa constatazione non faremmo un gran passo avanti e non fermeremmo lo smottamento in atto verso tempi bui. Come ha detto su questo giornale l'ex segretario della Cgil Antonio Pizzinato, «stiamo tornando a prima degli scioperi del 1944». La quantità - anzi la penuria - di lavoro, invece, dev'essere coniugata con la sua qualità. Perché le sorti del capitalismo declinato in chiave liberista non sono magnifiche né progressive e dentro questo modello di rapporti di produzione e dunque di relazioni sociali, non c'è futuro lavorativo e neppure dignità. Non è velleitarismo sostenere che dentro la crisi più drammatica bisogna ripensare un'altra società dove il lavoro, per tutti, sia socialmente e ambientalmente compatibile. Il modello dominante dettato dal Gotha della finanza mondiale a cui la politica ha passato la mano si fonda sulla cancellazione dei diritti e sulla distruzione delle risorse.
Come ha spiegato Mario Monti, non è accettabile che un lavoratore licenziato ingiustamente debba poter tornare al suo posto perché tale automatismo avvalorerebbe l'idea che il posto di lavoro è di proprietà di chi lo svolge. Invece no, chi lavora è appendice della macchina, variabile dipendente non solo dai profitti ma addirittura dai desideri di un capitale libero di dislocarsi dove vuole, alle condizioni che vuole. Il lavoro è merce, la soggettività roba da psicoanalisi, i diritti dei lavoratori cibo avariato incompatibile con le esigenze dell'impresa. Chi obbedisce alle regole del mercato potrà ricevere in premio il lavoro, a quali condizioni non dipende certo da lui. Chi vince alla lotteria può anche farsi rappresentare da un sindacato, purché a sceglierlo sia il padrone o chi ne fa le veci.
Se le cose stanno così, se è vero che il capitale si è globalizzato frantumando il lavoro, con la conseguente trasformazione del conflitto da verticale (tra lavoro e capitale) a orizzontale (tra lavoratori), allora vuol dire che c'è un problema di democrazia non solo nel lavoro ma nell'intera intelaiatura sociale: in Italia, in Europa, nel mondo. Se si assume che le relazioni sociali devono obbedire alle leggi di una guerra tra navi nemiche, in cui il nemico del rematore non è più l'armatore né il comandante bensì i rematori della nave avversaria, allora vuol dire che la democrazia stessa è diventata incompatibile con questo capitalismo. Giovani contro vecchi, indigeni contro migranti, uomini contro donne, uno stabilimento o un ufficio contro l'altro, stabili (si fa per dire, la stabilità è finita tra le scorie novecentesche) contro precari. In una competizione feroce senza regole, costituzioni, statuti, e gli «arbitri neutrali» al massimo potranno indicare risarcimenti monetari per la merce lavoro.
Non si vince da soli, in fabbrica, in ufficio, a scuola, in laboratorio. Non si fa la rivoluzione in un solo paese, oggi come quando si diceva «proletari di tutto il mondo unitevi», solo che oggi nelle strade del mondo corre solo il capitale. Non si vive di speranze di lavoro, e per di più a qualsiasi condizione: oltre ai diritti da ritrovare ce n'è uno inevitabile da conquistare ed è il reddito di cittadinanza. Ma soprattutto bisogna creare lavoro di qualità, utile, compatibile. Ha ragione Luciano Gallino che non è un sognatore a lanciare il suo appello keynesiano per un milione di posti di lavoro di pubblica utilità. Sarebbe un primo passo, piccolo ma concreto, un'inversione di tendenza, un modo semplice per legare la quantità del lavoro alla sua qualità.
Buon 1° maggio.
Il problema è che pensare, come giustamente sostiene Campetti, a una «società dove il lavoro, per tutti, sia socialmente e ambientalmente compatibile» significa pensare una società radicalmente diversa da quella attuale: una società in cui il lavoro non sia una merce (per di più sostituibile con un’altra merce più a buon mercato), ma il contributo che ogni essere umano dà al lavoro collettivo di conoscenza e trasformazione del mondo. Un lavoro, per ciò stesso, socialmente riconosciuto, quindi “retribuito”. Un’utopia? Forse; ma – come diceva Claudio Napoleoni – posto a un livello inferiore il problema non è risolubile.
Festa del Lavoro? Si è già parlato, più o meno scherzosamente, del suo opposto: festa del non lavoro. E dunque, se così è, si può ancora parlare di festa? E si può scendere nelle strade, invadere le piazze, agitare le bandiere, e cantare le canzoni del “Movimento”, e infine, dopo i pranzi fuori porta e le libagioni di rito, ascoltare i concerti che sembrano orma diventati il cuore dei nostri primi maggio? Si può, insomma, ripeto: “festeggiare”?
Sì e no.
Oggi, questa ricorrenza, come non mai, cade in un momento di feroce attacco padronale – mi scuso per la banalità dell’espressione che i miei critici leggeranno in chiave di nostalgismo veterocomunista, ma tant’è – ai ceti proletari e in generale ai subalterni, a “coloro che non hanno e che non sanno”, per citare un esponente del pensiero reazionario italiano, di oltre un secolo fa (tale Mario Morasso, ispiratore della destra più estrema del tempo). Oggi, un Ministero di “tecnici” sta facendo il lavoro sporco che il Governo dei politici non è stato in grado di portare a compimento. Chiediamoci come ci stia riuscendo.
Innanzi tutto per ragioni politiche, ossia nell’ordine: 1) il crollo ignominioso del governo precedente, a cominciare dal suo capo, rivelatosi, agli occhi anche dei suoi sostenitori, un personaggio al di sotto dei più malevoli sospetti, per tacere del suo alleato, il moralizzatore Bossi, che ha superato in grandiosità il marcio della Prima Repubblica e della Seconda, mostrando a che punto il familismo amorale possa giungere: fino all’estremo degrado; 2) l’appoggio della ex Opposizione, in particolare di quel Partito che una volta aveva nel suo statuto ideale, prima ancora che nelle sue pratiche quotidiane, la tutela dei ceti più deboli, a cominciare dalla classe operaia, in quanto “classe generale”, la classe che difendendo se stessa, ossia i propri interessi di classe, difende in realtà gli interessi di tutta la società.
Davanti alla inettitudine e alla corruzione dei berluscones e dei padan-leghisti, col soffio di aria pulita che sembrava giungere dal professor Monti (un po’ meno dalla sua compagine, troppo impelagata in conflitti di interessi, e in taluni suoi componenti palesemente al di sotto degli standard minimi di competenza; vedi il caso del famigerato sottosegretario Martone, quello che aveva chiamato “sfigati” chi aveva un destino meno felice del suo…) è stato quasi obbligatorio fare un’apertura di credito. Ma da qui a infilarsi nella grosse Koalition, alleandosi col nemico, ce ne passa! A meno che quel nemico non sia più tale, e che gli elementi di contiguità o di vicinanza siano maggiori e più forti di quelli di distanza e differenza. In ogni caso, in particolare il Partito democratico si è messo in un pasticcio politico dal quale non gli sarà facile levarsi. Con chi sta oggi quel partito: con la signora professoressa Fornero o con i pensionati a 7/800 euro al mese? Con Martone o con i giovani “sfigati”? Con i cassintegrati a zero ore o con il superministro Passera? Con le decine di migliaia di precari della ricerca o con il già rettore del Politecnico torinese, già presidente CNR, e ora ministro di Università e Ricerca, professor ingegner Profumo?
Ci sono situazioni in cui occorre scegliere e non solo perché, come ricorda Nicola Abbagnano in un suo libro di mezzo secolo fa, “esistere è decidere”, ma perché la politica, che è anche arte della mediazione e del compromesso, è soprattutto scienza della decisione, tenendo presente i possibili esiti delle proprie decisioni a breve, medio e lungo termine. E se non decidiamo noi, la nostra parte politica, sono altri a decidere per noi. E non è l’economia a decidere: sono gli esseri umani, portatori di passioni, pulsioni, valori e disvalori, e soprattutto interessi. Ecco perché il “governo dei tecnici” è un imbroglio, una volta ribadito quanto già più volte ho scritto su queste pagine: con Berlusconi e Bossi avevamo al potere un cricca di malaffare, ora abbiamo un canonico “comitato d’affari della borghesia”.
L’imbroglio nasce dall’ideologia, così diffusa in questi anni di crisi, e che si è trasformata ora in pratica politica, secondo cui l’economia sarebbe una scienza oggettiva, null’altro che la “naturale” esplicitazione della necessità delle cose, nel loro inevitabile, fatale andare. Ci hanno insomma convinto che l’economia è una scienza neutra, e come scienza non può essere che capita da scienziati e applicata da tecnici; e quindi il cittadino non può che accettare, e che quando l’economia “va bene”, siamo contenti, ma quando “va male” non possiamo che accettarne le conseguenze, su individui, famiglie, imprese. Insomma, che “non c’è nulla da fare”: bisogna pagare, oggi, per guadagnare domani, piegarsi all’imperio della Legge, ora, per potere rialzar la testa poi. E ci hanno imbottito il cervello ripetendoci che “siamo tutti nella stessa barca”. Ma c’è qualcuno che su quella barca rema, altri lavano i cessi, altri, invece, sono in coperta a godersi un daiquiri sotto la tenda che li ripara da troppo sole, mentre cianciano dei prossimi investimenti o di quanto sia diventata impossibile la vita a Portofino, dopo le incursioni della Guardia di Finanza…
E il governo dei tecnici, il ministero dei grandi esperti, la compagine dei bocconiani e cattolici militanti, che cosa ha partorito? Aumento delle imposte e delle tasse, in particolare delle imposte indirette – le più facili e le più inique, perché colpiscono indiscriminatamente ricchi e poveri –, scelte politiche inaccettabili mascherate da necessità o ovvietà: l’acquisto di nuovi aerei militari, dai costi stratosferici, la conferma inossidabile della Tav in Val di Susa, la prosecuzione del costosissimo impegno militare in Afghanistan. E ci vogliono far credere che si tratti di decisioni obbligate!
Le politiche di questo governo, come del precedente, insomma, non sembrano in grado di affrontare i problemi di fondo del Paese, che certo non si risolvono con lo stile ragionieristico di Monti, né con il piglio goffamente autoritario della Fornero, o il vacuo efficientismo di Passera, o le menzogne e le banalità dei ministri addetti a Sanità e Ambiente. I ricercatori vessati, gli insegnanti umiliati; gli scolari e studenti penalizzati; i professori di università costretti a cercare rifugio all’estero; i disoccupati, gli esodati, i licenziati, i de localizzati, i cassintegrati; le vittime (morti, feriti, invalidi) sul lavoro, o meglio di lavoro; i lavoratori in nero; i suicidati. Operai, impiegati, imprenditori: quanti sanno che è nata in aprile a Vigonza (Padova) un’Associazione dei familiari degli imprenditori morti suicidi? Nel 2012, i morti di propria mano sono stati, fino a metà aprile, 23. (Giunge ora la notizia di un altro suicida: o meglio suicidato: un imprenditore edile sardo, costretto a licenziare i dipendenti, compresi i suoi stessi figli. Possibile che i tecnici cattolici al governo, i teorici del “rigore finanziario” e della “coesione sociale”, non abbiano nulla da rimproverarsi?). E questa non è forse una nuova forma della distruzione del ceto medio, che abbiamo già visto in atto negli Stati Uniti? E, a sua volta, a me pare una tragica conferma della “profezia “ di Marx, relativa alla bipolarizzazione della società, e all’impoverimento crescente delle classi medie fino alla loro scomparsa tendenziale, e alla concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ridotto di mani, e in misura sempre più alta…
Ebbene, di tutto ciò dobbiamo ricordarci in questo Primo Maggio: che tuttavia, non deve essere di abbandono e di rinuncia. Ma di lotta, di mobilitazione, e, oso dirlo, di speranza. Non facciamoci abbattere dalla crisi e da chi la usa contro di noi. Contro i deboli, contro chi ha meno strumenti per difendersi, contro chi sta subendo il peso più grave. A loro dobbiamo stare vicini anzi farci parte di loro. E ricordiamoci che, come scriveva Carlo Rosselli negli anni Trenta – poco prima di essere ucciso dai fascisti francesi su mandato del regime mussoliniano – nulla può resistere a una massa di lavoratori che lasciano le officine e marciano compatti verso il centro della città. Nulla può resistere. Né i tecnici, che fanno oggi il lavoro dei politici, né questi ultimi preoccupati prima di tutto, se non esclusivamente, della propria sopravvivenza di individui e di ceto.
Il Primo Maggio 2012 dobbiamo essere tutti operai e operaie che lasciano i loro luoghi di lavoro, e di riposo, per marciare verso il cuore delle città e dire che esse ci appartengono. E che le “zone rosse” non devono più significare settori cui è vietato l‘accesso, bensì centri di occupazione simbolica e fisica, dietro le nostre bandiere, e scanditi dai nostri slogan ritmati, dalle nostre musiche e dai nostri canti. La teoria politica, quella seria, da Aristotele a Machiavelli a Gramsci, ci insegna che ogni azione politica è lotta per il potere. Per i subalterni, oggi, il potere significa la difesa di conquiste e diritti che qualcuno vorrebbe togliere, dall’articolo 18 al valore legale dei titoli di studio, dalla proprietà pubblica dell’acqua e degli altri beni comuni, alla tutela della salute. Difendiamo quello che una infinita catena di sofferenza e di umiliazioni, una scia di morte e dolore, ma anche di epiche vittorie, ci ha consegnato: e non arretriamo di un millimetro; anzi, avanziamo, unendo le forze, senza farci prendere dallo scoramento e dal pessimismo. La strada è lunga, impervia, ma “noi” siamo tanti, e siamo di più, molti di più di “loro”.