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La cosa incredibile è che ogni volta lo dicono con l’aria di chi ha avuto una grande idea. Innovativa. E invece è un concetto noto da millenni in ogni famiglia: ci sono quelli che si vendono la casa per pagare i debiti. Lo Stato italiano da oltre vent’anni, cioè da quando il debito pubblico ha raggiunto livelli stellari, pensa di tappare i buchi vendendo i suoi immobili. Nel solco della tradizione corrono idee strampalate e numeri a caso. Quanti sono gli immobili pubblici che si possono almeno in parte mettere in vendita? Secondo la Cassa Depositi e Prestiti valgono 500 miliardi di euro, su un totale del patrimonio statale di 1.800 miliardi. Secondo la Ragioneria dello Stato valgono invece 56 miliardi. Una differenza da uno a dieci, non poco per due pensatoi entrambi del ministero dell’Economia.

Ai tempi gloriosi di Giulio Tremonti fu coniato il marchio “finanza creativa”, e l’architrave dell’inventiva tremontiana era la mitica “cartolarizzazione” degli immobili. Ma anche il governo Monti non scherza. Prima annuncia che la spending review affidata al mastino Enrico Bondi dovrà portare tagli di spesa per 4,2 miliardi. Ieri è stata affidato alle agenzie di stampa (con l’impagabile formula “secondo quanto si apprende”, che con tutta evidenza non significa niente, se non che qualcuno del governo ti ha chiesto di dare la notizia senza dire che te l’ha detta lui) l’annuncio che dalla spending review arriveranno risparmi non più per 4,2 miliardi in un anno ma per 30 miliardi in tre anni. E così forse non ci sarà il temuto l’aumento dell’Iva.

Ma in questa disperata ricerca di denaro per fare fronte al debito, cioè al risultato finale di una spesa pubblica senza controllo, è sempre la vendita degli immobili a fare la sua figura. Annunci a cui non fanno mai seguito risultati apprezzabili, a parte quelli conseguiti da banche, avvocati e immobiliaristi: per loro, ogni volta, il guadagno è assicurato. Il primo inventore della vuota formula fu, come spesso è accaduto, Giuliano Amato. Nel 1992 il suo governo, alle prese con la gravissima crisi finanziaria dell’estate, dopo aver sottratto nottetempo il famoso sei per mille ai conti correnti degli italiani, varò la società Immobiliare Italia, che doveva fare quello che da vent’anni tutti hanno continuato a rifare: censimento degli immobili pubblici, valorizzazione, vendita.

Immobiliare Italia ha concluso così poco che anni dopo fu lo stesso Amato a ironizzare, convinto che come sempre gli italiani si fossero dimenticati che l’idea era stata sua: “Era meglio chiamarla Immobile Italia”. Nel frattempo era arrivato al governo l’Ulivo di Romano Prodi, che puntualmente avviò un censimento degli immobili pubblici, in vista della valorizzazione e vendita. Infatti il censimento è il momento chiave dell’incontro tempestoso fra politici e tecnici. Il governo Amato, nel ‘92, mise in vendita anche il monte Cristallo e le Tofane, cioè i gioielli dolomitici affacciati sulla conca ampezzana. Nessuno ha mai capito chi mai avrebbe dovuto comprarsi il Patrimonio Spa, monte Cristallo e per farci che cosa, e soprattutto a che prezzo. Nessuno al tempo fece notare ad Amato, molto più fantasioso nella progettazione della sua pensione d’oro, che per risanare i conti pubblici avrebbe fatto molto prima a tassare come si conviene i frequentatori di Cortina e delle Tofane.

Poi venne Tremonti, e con la collaborazione di un altro inventore non da poco, Domenico Siniscalco, suo direttore generale al Tesoro e poi suo successore, lanciò nel 2002 Patrimonio Spa, che doveva vendere gli immobili pubblici, ma servì solo per dare una poltrona a Massimo Ponzellini ed è finita nel nulla, come Immobiliare Italia. Però Tremonti ha fatto le cartolarizzazioni, passate alla storia come Scip 1 e Scip 2. Ha messo dentro queste società veicoli immobili degli enti previdenziali per 16 miliardi di euro, sono stati venduti per 5 miliardi di euro, lo Stato e gli enti ci hanno rimesso 5 miliardi. Nel frattempo banche d’affari, consulenti, studi legali e immobiliaristi, hanno emesso parcelle per centinaia di milioni di euro. Perché da vent’anni questa è la costante: quando partono le vendite di immobili pubblici non si sa quanto ci guadagnerà (o perderà) lo Stato. Ma si può dire in anticipo con la massima certezza chi sta già pregustando l’affare della vita.

Così usava chiamarla ironicamente Bersani: dalla militanza comunista ai Ds fino al Partito democratico. Il segretario del Pd delegò Penati come suo emissario nel Nord Italia, prima di sceglierlo come braccio destro a Roma. Per un decennio gli sono state affidate relazioni delicate con ambienti imprenditoriali, soprattutto nel settore delle infrastrutture.

È impensabile che Penati le abbia coltivate prescindendo da una visione condivisa.
Per questo gli atti resi pubblici dalla magistratura di Monza con la richiesta di rinvio a giudizio per corruzione, concussione e finanziamento illecito dei partiti, esigono un chiarimento politico per il quale non serve attendere gli esiti giudiziari della vicenda. Cavarsela ricordando che Penati si è autosospeso dal partito, tanto più ora che Bersani avanza la propria candidatura al governo del paese, apparirebbe come una reticenza inspiegabile.
Dalla lettura degli atti istruttori emergono domande squisitamente politiche: è opportuno che un dirigente di partito rivesta una funzione reticolare di intermediazione con aziende private e cooperative, finalizzata alla spartizione di appalti e licenze?

E ancora: è accettabile che gliene derivino finanziamenti trasversali per l’attività politica di partito e sua personale? Infine: che lezione intende trarre il Partito Democratico sui rapporti fra politica e affari evidenziati dalle inchieste sull’Autostrada Milano Serravalle e sulle aree industriali dismesse di Sesto San Giovanni? Il ricorso a professionisti di fiducia e l’inserimento nei cda di funzionari legati al partito, deve essere considerata una prassi necessaria?


La consuetudine palesata da Penati, ad esempio, con l’impresa della famiglia Gavio, da sempre bene introdotta nei più diversi ambienti politici, merita una riflessione. Nel settore delle infrastrutture finanziate con fondi pubblici non è stata svolta un’azione regolatoria a tutela della libera concorrenza e nell’interesse della collettività, ma piuttosto riscontriamo l’opposto: il mercanteggiamento delle concessioni con reciproco vantaggio, all’insegna del “ce n’è per tutti”.

Un clima equivoco in cui perfino un banchiere come Massimo Ponzellini riteneva conveniente staccare assegni per la “Fondazione Metropoli” di Penati.
Non è purtroppo un caso se esplodono in parallelo gli scandali lombardi del sistema dominante Formigoni e del sistema Penati, subalterno ma a quanto pare non così marginale. Colui che il Pd aveva candidato a ribaltare l’egemonia del centrodestra in crisi, ha rivelato una concezione accomodante dell’opposizione, preoccupato di non restare tagliato fuori dalla spartizione della torta. E difatti, prima ancora dell’intervento della magistratura,
è stata l’economia della regione nel suo insieme a non reggere più, dentro la crisi, questi metodi consociativi e affaristici. Lo conferma anche il fatto che gli accusatori di Penati siano imprenditori dal comportamento equivoco, sodali fin che gli conveniva e divenuti ostili nella disgrazia.
Tanto più vero ciò appare nell’epicentro del sistema Penati: a Sesto San Giovanni. Dove sono entrati in azione, per acquisire il controllo redditizio delle aree industriali dismesse, protagonisti più vicini politicamente alla corrente di Penati: le cooperative rosse e due imprenditori pugliesi considerati dalemiani come Roberto De Santis e Enrico Intini.
Mi auguro che Bersani rifugga dalla tentazione di liquidare gli interrogativi posti dall’inchiesta sul “sistema Sesto” come un attacco dei poteri forti ai settori economici più vicini al suo mondo di provenienza. Questa tentazione è riemersa di recente, quando la Corte d’Appello di Milano ha assolto i manager dell’Unipol, Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti, insieme all’ex governatore Antonio Fazio, dall’accusa di avere concertato nell’estate 2005 la scalata alla Bnl. Si è parlato di un vero e proprio complotto contro la finanza rossa, ad opera della stampa asservita ai salotti buoni del capitalismo italiano. Come se la ristabilita verità giudiziaria, di cui è doveroso prendere atto, cancellasse anche i rapporti intrattenuti con i Fiorani, Gnutti, Ricucci e furbetti del quartierino vari, in una logica di schieramento cui non si sottrassero i dirigenti Ds. Con la medesima apprensione di accesa tifoseria, del resto, certi ambienti di sinistra stanno seguendo l’intricata acquisizione di ciò che resta del gruppo Ligresti da parte dell’Unipol. Quasi che una preordinata ostilità politica tentasse di impedire alla finanza rossa di consolidarsi sulla piazza di Milano.
La vicenda Penati necessita di una considerazione serena ma severa, rifuggendo tali pregiudizi. Anche perché le sue ripercussioni nel Pd lombardo e milanese continuano a manifestarsi pesanti.

C’è un vuoto di leadership. Ci sono dirigenti che vedono ancora in lui il proprio riferimento naturale. C’è disorientamento fra i militanti. Ne risente l’efficacia dell’opposizione alla pericolante giunta Formigoni.
Viene quindi da chiedersi, di fronte al quadro gravissimo delle attività di Penati delineato dalla pubblica accusa, se non avverta egli lo scrupolo di dimettersi dal Consiglio Regionale, essendo palesemente compromesso il rapporto di fiducia con un elettorato del quale non può essere più il rappresentante.
Ma intanto un discorso di verità da parte di Pier Luigi Bersani aiuterebbe la sinistra del Nord a delineare la svolta necessaria nel rapporto fra politica e affari. Tema ineludibile nella sfida per risanare l’economia e governare il paese.

Ho lanciato qualche tempo fa, sul manifesto, con il collega Piero Bevilacqua, l'appello, che non solo ha avuto un notevole successo, ma ha prodotto una serie di assemblee culminate negli Stati generali dell'Università italiana (il 31 marzo a Roma), da cui è poi scaturito, in un paziente lavoro di raccolta di suggerimenti, aggiunte, correzioni e revisioni, un documento che abbiamo chiamato Carta di Roma (ora sui siti www.amigi.org e www.historiamagistra.it).

Su questa base numerosi docenti di vario ambito disciplinare, organizzati in commissioni di lavoro, stanno provando a disegnare un progetto radicalmente alternativo all'università che in una sostanziale continuità (sia pure con qualche momento di timida rottura), ha portato da Luigi Berlinguer all'attuale ministro Profumo, toccando la punta più efferata nella cosiddetta riforma Gelmini. In attesa di ottenere qualche risultato pratico, ci tocca ancora assistere o subire le nefandezze del sistema.

Sono, come si sa, ormai pochissimi i concorsi per l'assunzione di personale docente e ricercatore e sono pressoché tutti seguiti da ricorsi dei concorrenti sconfitti. Normale, si dirà, in una situazione di terribile lotta per la vita, ove si pensi che ormai ci sono decine di migliaia di precari della ricerca che reggono larga parte del peso didattico e organizzativo dei nostri atenei, tutti senza prospettiva, e la gran parte più vicina ai 40 che ai 30 anni, e non pochi sono coloro che hanno traguardato il mezzo secolo di vita. E oltre. Dunque la lotta è durissima: come sempre guerre tra poveri determinate da politiche miopi (che purtroppo hanno accomunato largamente governi di centrodestra e di centrosinistra), da strutturali carenze di fondi, via via aggravate dai famigerati tagli lineari e dal micidiale combinato disposto di incapacità organizzativa e pochezza culturale.

Malgrado questo, l'Università italiana, vittima negli ultimi anni di una sistematica campagna di diffamazione basata su cifre truccate (Giavazzi-Alesina e Perotti, tanto per far qualche nome: consiglio l'illuminante librino di Francesco Coniglione, Maledetta Università, Di Girolamo editore), e inique generalizzazioni, non è affatto tra le peggiori del mondo, come amava ripetere la passata ministra.

Eppure le sue colpe le ha. E non vuole emendarsene. La maggiore concerne appunto il cosiddetto reclutamento. Ovvero i concorsi. Quelli che producono ricorsi. Malgrado oggi l'attenzione della pubblica opinione sia diventata assai più forte, e a dispetto delle sentenze dei Tar che cominciano a dar ragione ai ricorrenti, i membri delle Commissioni giudicatrici continuano a comportarsi come padreterni, convinti di poter imporre le loro scelte anche quando del tutto implausibili, certi dell'impunità, anche se vanno contro le leggi e i regolamenti; e, soprattutto, fiduciosi che nell'Accademia nessuno si muoverà per esprimere un dissenso, levare una voce di protesta, perché tutti aspettano il proprio turno per compiere in autonomia, ossia prescindendo dal valore dei candidati, le proprie scelte: ossia far vincere chi deve vincere.

Ora, intendiamoci, ci sono ottime ragioni per sostenere la cooptazione, e personalmente le ho esposte, per iscritto e oralmente, in molte circostanze, anche su questo giornale, su MicroMega rivista e on line, nel dibattito che ha accompagnato e predisposto la Carta di Roma. La cooptazione è il mezzo attraverso cui si formano le scuole, lo strumento col quale un maestro passa il testimone agli allievi migliori, dopo averli formati, selezionati, accuditi, fatti crescere, insegnando loro metodo e tecniche. Ma la cooptazione, lecita, e a mio avviso giusta, deve avere un limite: bisogna che il candidato da cooptare abbia i requisiti minimi, ossia non sia palesemente inferiore agli altri concorrenti (in ogni caso attraverso la cooptazione il maestro si qualifica o si squalifica). Di solito per ovviare a questo problema si fanno concorsi blindati: ossia i titolari di una certa disciplina si accordano tra loro affinché nessuno vada a "rompere le scatole" (così si dice nel lessico accademico), mandando i propri allievi a concorrere a un posto che è stato richiesto e bandito con un vincitore in pectore, designato dal cattedratico di quel certo ateneo e facoltà. In questo modo l' "interno" avrà vita facile: i candidati forti saranno dirottati ad altro concorso, invitati cioè ad aspettare il proprio turno, quello che il cattedratico indicherà, con l'accordo, se possibile, dei seniores di quella certa disciplina. E se vi saranno dei riottosi, toccherà ai loro padrini convincerli a rinunciare. O saranno gli stessi commissari a esercitare pressione, se si sono presentati, affinché si ritirino. Tanto più il vincitore in pectore è debole, tanto meno numerosi debbono essere i suoi competitors. Ovvio.

Ma esistono altre pratiche, quando il sorteggio (sempre ove si creda ai sorteggi effettuati presso il Ministero, senza alcun controllo esterno; io personalmente ci credo poco) sia sfavorevole: ossia due commissari si accordano sul vincitore ancora prima che la commissione sia insediata; e il vincitore, ovviamente, è di solito l'allievo/a di uno dei due, e fanno carte false per farlo prevalere, semplicemente contando sulla forza della maggioranza, a prescindere dal cosiddetto ius loci (il diritto di far prevalere l'interno, quanto meno a parità di merito), e soprattutto a prescindere dalla giustizia e dalla verità.

Clamoroso il recentissimo caso di Catania, per un posto da ricercatore a tempo determinato (3 anni, più 2 eventuali) di Storia contemporanea nel quale, contro l'evidenza, il buon senso e persino la normativa vigente, la commissione ha fatto vincere un'architetta, tale Melania Nucifora (ignota alle cronache della storiografia), addirittura priva del titolo di Dottore di ricerca (oggi praticamente obbligatorio), e con una produzione scientifica incongruente col settore disciplinare (Msto/02), a danno di un candidato incomparabilmente più forte, provvisto di ben 4 monografie. Un episodio che suona come un'offesa alla stessa università che ha bandito il posto, e che, pur davanti alla sentenza del Tar che ha dato ragione al ricorrente (Giambattista Scirè, apprezzato studioso, già ben noto alla comunità degli storici), sembra disinteressarsi della vicenda. Altrettanto, gli storici contemporaneisti. Cane non mangia cane. Ma non sarebbe ora di rompere il silenzio? E di rialzare la schiena? La commissione, invitata dal Tar a rivedere il suo giudizio, clamorosamente incongruo rispetto alla realtà dei candidati, e da molti punti di vista, illegittimo, non ha fatto una piega. Si è nuovamente riunita e ha riconfermato pari pari il giudizio. Ammettere di aver sbagliato? Giammai! Complimenti ai colleghi. Ora è pendente alla Camera una interrogazione sul caso, svolta da un deputato del Pd, a sua volta storico di professione. E aspettiamo con curiosità la risposta del ministro o di chi per lui.

A Catania insomma ha prevalso, nella maniera più brutale, lo ius loci (ma non la cooptazione; là non c'è scuola che tenga, e la candidata, sebbene legata a qualcuno dei commissari da collaborazioni varie, non è certo l'allieva che si sta formando, provenendo da tutt'altri studi, che poco o nulla attengono alla stessa storiografia).

Invece a Torino un concorso - avviato, da molto tempo e non concluso - ha seguito l'altra strada, quella che ho indicato come alternativa (altrettanto inaccettabile) allo ius loci. Prima ancora di avere preso visione di titoli e pubblicazioni dei candidati, due commissari, in combutta tra loro, si sono presentati avendo già in tasca il nome del vincitore, anzi della vincitrice, nella persona dell'allieva e collaboratrice della presidente della Commissione: candidata palesemente tra i meno meritevoli di coloro che si sono presentati (numerosi perché qui non c'è stato l'accordo preliminare con il commissario interno all'Ateneo che ha bandito: «Non far presentare tizio e la prossima volta ti prometto che...»). Anzi, una candidata le cui pubblicazioni non erano neppure pienamente congruenti al settore disciplinare (Sps/02, Storia delle dottrine politiche). Il terzo commissario, l'interno, ha dichiarato di rinunciare a combattere per la persona per la quale, secondo il principio della cooptazione, aveva chiesto e ottenuto il posto (posto assai appetito, trattandosi di ricercatore a tempo indeterminato!). E aveva invocato un «vero concorso». Ossia, prescindiamo da tutto, e valutiamo i concorrenti al di fuori di ogni altra logica che non sia il famoso "merito" di cui dal ministro in carica, ai commentatori professionali, fino agli ignari avventori del Caffè Sport si riempiono la bocca, tra un cornetto e un cappuccino: troviamo un candidato oggettivamente meritevole sul quale far convergere i nostri voti. La risposta dei colleghi è stata: noi siamo due, tu sei uno.

A questo punto, con una dura lettera di denuncia alle autorità del suo Ateneo (dalle quali si è sentito non sostenuto), ha presentato le dimissioni. E ha ripreso la sua battaglia. Non più per far vincere il/la migliore, ma almeno per mostrare che cosa siano i concorsi farsa. Invece di firmare la solita relazione di minoranza, e aspettare il ricorso di un candidato, ha preferito passare subito al disvelamento. Non servirà? Ma gutta cavat lapidem. Se tutti facessero lo stesso, invece di tacere in attesa delle proprie rivincite, ossia di commettere loro domani, a danno di qualcuno, le ingiustizie di cui oggi sono vittime i propri allievi o comunque "protetti", forse si accelererebbe il processo di modifica di questi demenziali meccanismi di reclutamento, che per loro natura favoriscono arbìtri, e producono iniquità, provocando l'ovvio, progressivo scadimento del livello scientifico e dello stessa funzione culturale e civile dell'Università italiana.

Davanti a fatti come quelli qui accennati, non ci possiamo limitare ai discorsi, magari a mezza voce. Occorre squarciare il velo omertoso che avvolge il sistema e che rischia di divenirne il sudario.

No. Non è questa l'Università che vogliamo.

La decisione di fornire al governo spagnolo fino a cento miliardi di euro per salvare le banche eliminerà probabilmente il rischio di un collasso immediato di sistemi bancari europei, ma non è certo una novità. Anche nei casi della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo le erogazioni ai governi di quei Paesi, fatte dal fondo cosiddetto salva Stati, era servito a salvare le banche. Anche questa volta ha vinto la Germania e i fondi non saranno dati direttamente alle banche spagnole, ma allo Stato affinchè li giri alle banche. La novità, si dice, è che questa volta non verrebbe imposta come condizione l’accettazione di una pesante politica di austerità, ma quella politica il governo spagnolo l’ha già adottata sin dai tempi di Zapatero.

Il risultato sarà che vedremo il debito pubblico spagnolo, che prima della crisi era il più basso d’Europa, impennarsi ancora e quasi raggiungere il livello di quello italiano e che il governo spagnolo, nel mettere i quattrini dei contribuenti europei dentro le banche, dovrà decidere quale governance dare ad esse, e se intende ancora una volta salvare insieme alle banche anche i responsabili dei loro fallimenti. Si discute anche dell’unificazione dei sistemi bancari europei, che vuol dire regole comuni, un unico controllore, un meccanismo comune per la gestione di eventuali default di banche. Sarebbero positive novità ma appaiono decisioni lontane. Il sostegno alle banche spagnole, invece, se anche frenerà la fuga dei risparmiatori dalle banche spagnole, appare l’ennesimo intervento all’ultimo minuto per evitare di cadere nel baratro, ma senza cambiare la direzione di marcia. Nonostante il gran parlare della necessità di crescita economica, le uniche decisioni pesanti riguardano ancora la finanza. La crisi col suo movimento circolare ci ha riportati al punto di partenza: siamo partiti dal salvataggio delle banche e lì stiamo tornando. E bisognerebbe chiedersi perché. E bisognerebbe capire come mai le banche europee, quelle inglesi, tedesche e francesi in testa, sono le più indebitate al mondo e hanno accumulato una quantità di asset, dai quali provengono i rischi di perdite, mediamente pari a tre volte il Pil europeo. L’enorme squilibrio finanziario generatosi nell’area euro è intrecciato alla crescita delle divergenze fra Paesi forti e quelli deboli. Fino a che tale divergenza non sarà aggredita lo squilibrio finanziario tenderà a rafforzarsi. Ancora una volta, comunque le banche vengono salvate con il denaro dei contribuenti. Appare, inoltre, chiaro il paradosso per cui Stati costretti con politiche di austerità a ridurre il debito pubblico tagliando pensioni, investimenti, spese per l’istruzione, vengono simultaneamente indotti ad aumentare quel debito per salvare le banche. E i titoli che emetteranno per il maggior debito contratto per i salvataggi saranno in buona misura acquistati dalle stesse banche aumentando il rischio complessivo.

Arriviamo così al cuore del problema che si racchiude in questo fatto: la crisi ha avuto origine da un livello record del debito totale - debito privato e pubblico - nei Paesi avanzati; a cinque anni dall’inizio della crisi il livello del debito totale non è diminuito, in Europa è aumentato. Nessuna meraviglia che tornino le crisi finanziarie. Concludendo la presentazione di un rapporto speciale sul debito, nel 2010, The Economist sosteneva che «per il mondo sviluppato, il modello finanziato dal debito ha raggiunto il suo limite, ciascun governo dovrà trovare la sua via per ridurne il peso. La battaglia tra creditori e debitori può essere lo scontro determinante della prossima generazione». Siamo nel bel mezzo di tale scontro e poiché creditori e debitori non sono solo singole persone, ma anche Stati, soprattutto fra Stati. Le politiche seguite finora sono andate a vantaggio dei creditori. Nessuno dei modi con i quali in passato si è ridotto il livello dell’indebitamento è stato accettato. Non i default guidati delle banche; non la ristrutturazione dei crediti (quello del debito greco è stato accettato obtorto collo e tardivamente); non l’aumento del tasso di inflazione come proponeva anche il Fmi. L’esperienza storica, attestata da recenti ricerche, ci dice che da situazioni di eccesso di indebitamento generalizzate si esce con una svalutazione dei debiti. Qui non si tratta solo di un problema pur importante di equità. Si tratta di vedere anche quale è la strada che favorisce il rilancio dello sviluppo. Onorare fino in fondo il debito, onorarlo magari con i quattrini di chi quel debito non aveva contratto, significa mantenere sul sistema economico un peso impossibile e colpire le nuove generazioni due volte: facendogli pagare il debito e menomando il loro futuro.

Il programma di sinistra

È il tempo delle scelte. I metalmeccanici invitano le forze politiche a battersi contro «un'ingiustizia sempre più profonda». Dall'articolo 8 alla scuola: le tute blu hanno un piano. In mancanza della Cgil

La concretezza delle tute blu non sopporta giri di parole fumose. E la politica italiana, anche a sinistra, è abituata da troppo tempo al tatticismo, agli «schieramenti elettorali» che prescindono dal «che fare?» una volta in Parlamento; senza più attenzione agli interessi materiali e politici dei «rappresentati». Specie per quanto riguarda i lavoratori.

La Fiom ha rovesciato l'ottica. «Non aspetteremo che i politici, in piena campagna elettorale, vengano a prometterci il possibile e l'impossibile». Li «chiamiamo noi» per dire con chiarezza cosa vogliamo e «chiedere risposte». Perché «non consentiremo che i lavoratori vadano a votare senza sapere come si potrà recuperare la profonda ingiustizia che anche in queste ore si sta legiferando».

Nella grande sala del Parco dei Principi, il segretario generale Maurizio Landini espone un vero e proprio programma di governo per una sinistra «necessaria», più che possibile. Fatto di punti concretissimi, che ribaltano come un guanto le politiche del lavoro e industriali applicate finora. È stato sciocco chi ha provato a descrivere l'appuntamento come la trasformazione di questo sindacato in una nuova forza politica. «Noi siamo un sindacato autonomo e indipendente, ma non indifferente», che «può parlare alla pari con tutti: imprese, partiti, governi». Un sindacato che da oltre un secolo è parte integrante della sinistra, ma non ha più un partito di riferimento. «Vogliamo discutere di un programma alternativo a quello del governo Berlusconi, ma anche del governo Monti». Perché «la crisi è molto profonda e non se ne vede la fine; quindi «va avviata una fase costituente in cui tutti si rimettono in gioco».

Di conseguenza, mette giù una griglia di argomenti che devono selezionare gli interlocutori, testarne la serietà. Sarebbe stato logico che l'avesse fatto tutta la Cgil, ma ieri era presente e solidale solo uno dei segretari confederali, Nicola Nicolosi.

Legge sulla rappresentanza sindacale. L'unità sindacale sarebbe una buona cosa, ma quando non c'è - come oggi - i lavoratori debbono avere il diritto di scegliersi il sindacato e soprattutto di votare accordi e contratti che poi loro saranno chiamati a rispettare. Il rischio, altrimenti, è che le aziende si scelgano o si facciano il loro sindacato finto.

Cancellazione dell'art. 8. La «manovra d'agosto» di Berlusconi-Sacconi ha inserito una bomba a tempo nelle relazioni industriali, con questo articolo che consente agli accordi aziendali - firmati magari da sindacati di comodo - di andare «in deroga ai contratti e alle leggi». Anti-costituzionale, ma conservata da Monti.

No a questa riforma del mercato del lavoro. L'art. 18 è stato svuotato completamente, togliendo la possibilità reale del reintegro (al contrario di quanto sostengono sia il Pd che Susanna Camusso, ndr). Va ripristinato nella sua forma originaria ed esteso, perché da questo dipende il diritto del singolo lavoratore di poter aprire bocca e di fare il delegato senza timori. Va ridotto drasticamente il lavoro precario; introdurre il principio che a parità di lavoro e mansione ci deve essere parità di salario e diritti.

Ammortizzatori sociali. Vanno estesi, non ridotti (come sta facendo il Parlamento); le risorse vanno trovate facendo pagare il contributo anche a quelle categorie economiche che oggi non hanno la cig, ecc.

Reddito di cittadinanza. Un principio europeo che il nostro paese non ha mai reso attivo, che può garantire il diritto allo studio e ridurre il ricatto sul salario.

Pensioni. I lavori non sono tutti uguali; stare in fonderia o in corsia non è come fare il prof. universitario. Va riconosciuto il peso che hanno sulle aspettative di vita, altrimenti è una tassa sulla vita. Il «metodo contributivo» non può esser l'unico; già con Prodi si era fissato il criterio (non rispettato) di portare l'assegno pensionistico minimo almeno al 60% del salario di categoria. I soldi dei fondi pensione andrebbero investiti solo per rilanciare l'economia interna.

Fisco. Patrimoniale, progressività delle imposte, tassazione delle rendite finanziarie, combattere la criminalità nell'economia.

Occupazione. Ridurre l'orario di lavoro (come in Germania) per non perdere competenze.

Nuovo modello di sviluppo. Cosa, come, per chi produrre, e in modo ambientalmente sostenibile. Politica industriale. Non se ne parla più. Ma Finmeccanica (pubblica) vuol tenere solo la produzione militare e dar via tutto il civile avanzato (treni, nucleare, ecc).

Riforma della scuola. Garantire parità di condizioni di partenza per aumentare la «mobilità sociale».

Europa. Dopo 20 anni, il sistema rischia di esplodere. Servono regole per la finanza, intervento pubblico: No al pareggio di bilancio in Costituzione.

E intanto ci si mobilita ancora. Il 13 e il 15 a livello territoriale (scioperi e presidi); il 14 sotto il Parlamento, a Roma, contro la riforma del mercato del lavoro e lo spacchettamento di Finmeccanica. Un programma da imporre con la lotta, insomma, non una lista di richieste a una politica distratta.

L'INTERVENTO DEI «PROFESSORI»

La Costituzione non basta più La cultura di fianco al conflitto

Parole dure contro la politica da Rodotà, Revelli, Pianta, Flores. Tronti: «Rompere le compatibilità»

Gli intellettuali. Se ne riscopre l'indispensabilità quando l'orizzonte diventa confuso e si cerca una bussola. I migliori tra loro tornano dentro la «rude razza pagana» quando quella domanda diventa un tuono. Ieri mattina sono stati in diversi a prendere la parola. Differenti per scuola e specializzazione, tutti hanno finito per confrontarsi con gli «sbreghi alla Costituzione» apportati in successione da Berlusconi e Monti. Stigmatizzando la retorica che accomuna sotto la presunta «antipolitica» l'universo delle critiche ragionevolissime contro questa classe politica, il governo che sostiene, gli interessi che difende e quelli che calpesta. Un universo che, per esempio sull'acqua pubblica, ha messo in piedi un'altra politica. Per di più vincente.

Stefano Rodotà scatena l'applauso ricordando «la riforma costituzionale fatta all'insaputa dei cittadini», quella modifica dell'art. 81 che introduce il «pareggio di bilancio» nella Carta e impedisce qualsiasi azione pubblica in deficit. Ma la lista è lunga. C'è la «svalutazione dell'art. 41», quello per cui la libertà d'impresa «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»; ma che prima Berluska, ora Monti, vorrebbero riscrivere mettendo come «valore» la competizione e la concorrenza. Mentre la dignità svanisce come nelle risposte di quegli operai costretti a votare «sì» al «modello Pomigliano» per pagare il mutuo o mandare il figlio all'università.

Un ragionare che ritorna anche nelle parole di Marco Revelli e Mario Pianta, sempre a cavallo tra aggressione ai diritti costituzionali dei lavoratori e andamento della crisi economica. Da qui, infondo, parte quell'«imbarbarimento pazzesco della società europea» obbligata a forza a cancellare le sue conquiste costate secoli., Frutto anche di una «costruzione dell'integrazione europea» fondata su due assi: «la «totale libertà di mercato per la finanza globale» e «l'illusione nella razionalità del libero mercato».

Il risultato? Nel 2012 l'Italia impegnerà il 10% della propria spesa pubblica per il pagamento dei soli interessi sul debito pubblico. Naturalmente questa è l'unica quota della spesa che «non si può tagliare»; tantomeno dopo che sarà stato reso funzionante il «fiscal compact, quel vincolo che costringe a ridurre il debito pubblico al 60% del Pil in 20 anni. Per l'Italia significa una finanziaria di tagli da 45 miliardi l'anno, da qui al 2033. Altro che barbarie, «sono gli effetti di una vera e propria guerra».

La speranza, qui viene in parte dalla vittoria di Hollande, che «ha spezzato l'asse neoliberista con la Merkel». Ed è sorprendete che siano gli intellettuali a dover far notare che mentre la nuova Francia e la Germania merkeliana hanno grosso modo deciso il via libera a una Tobin Tax europea (contraria solo l'Inghilterra, al momento), il prode Monti si guarda bene dal premere su questo tasto con i suoi partner della Ue.

Tocca a Mario Tronti ripercorrere l'intreccio continuo tra movimento operaio e sviluppo, facendo notare che - statisticamente - «nella storia c'è stato sviluppo capitalistico quando c'è stata piena occupazione, diritti, salari alti». Al contrario, disoccupazione di massa, caduta della credibilità della classe politica e crisi economica hanno spesso aperto le porte alla reazione e al declino. Alle nostre spalle, negli ultimi anni, «c'è stato un terremoto di magnitudo 10», una «distruzione creatrice» furibonda e cieca. Il compito oggi, a suo giudizio, è «recuperare capacità offensiva». Un concetto che riguarda prima di tutto la cultura politica: bisogna essere in grado di «rompere le gabbie d'acciaio delle compatibilità di sistema», quelle che rendono impossibile difendere gli interessi dei lavoratori».

Sull’argomento vedi anche l’eddytoriale 144 e la bozza di “visita guidata Il lavoro su eddyburg

Mario Monti ha deciso ed ha spiazzato un po’ tutti sulle nomine Rai attese da settimane in una situazione di stallo sempre più imbarazzante. Dei tre nomi avanzati due sono noti: per la presidenza Anna Maria Tarantola vice-direttore generale di Bankitalia dov’è ininterrottamente dal 1971, lombarda, formatasi alla Cattolica di Milano, laureata con Luigi Frey; per la direzione generale un altro esperto di questioni finanziarie, Luigi Gubitosi, già Ad di Wind Telecomunicazioni fino all’aprile 2011, dopo un passaggio in Fiat, ora country manager alla Bank of America per l’Italia, docente alla Luiss. Per il consigliere che dovrà rappresentare il Ministero dell’Economia, ha fatto il nome di Marco Pinto che viene dritto da quello stesso Ministero, dove è stato braccio destro di Tremonti. Quindi un altro guardiano dei conti.

Nel ’93, di fronte ad un bilancio Rai disastrato, con la prospettiva di portare i libri in Tribunale, i presidenti delle Camere nominarono i cinque consiglieri di amministrazione, chiamati poi “i professori”, i quali, secondo la legge allora vigente, elessero al loro interno l’economista Claudio Dematté presidente. Gli altri quattro erano Feliciano Benvenuti, amministrativista, Tullio Gregory, filosofo, Paolo Murialdi, giornalista, ed Elvira Sellerio, editore. Direttore generale, il giornalista Gianni Locatelli, ex direttore del “Sole 24 Ore”. C’era comunque una certa varietà di competenze, anche se quelle specificamente radiotelevisive non spiccavano molto.

Oggi,di fronte a difficoltà finanziarie meno drammatiche, forse, di quelle di un ventennio fa, il capo del governo avanza designazioni tutte finalizzate, culturalmente, al riassetto economico-finanziario. Fra l’altro, secondo la legge, il direttore generale deve essere proposto dal CdA all’azionista della Rai, ricevere da esso l’approvazione e convalidare in via definitiva la nomina. Per ora non si vede nelle nomine varietà di competenze, tantomeno in senso radiotelevisivo. Per i conti della Rai andranno anche bene, ma l’emittente di Stato non soffre soltanto sul piano economico-finanziario, è in crisi di identità come servizio pubblico, presenta una rete, Raidue, presso che in caduta libera, riesce a perdere talora il confronto con la stessa Mediaset colpita gravemente dalla crisi della raccolta pubblicitaria (crisi potenziata dalla perdita di Palazzo Chigi per Silvio Berlusconi), ma ancor più da una crisi di creatività da far tremare. E da far pensare che la prospettiva di un ingresso in Telecom non sia poi una prospettiva lunare.

Il governo manda in Viale Mazzini persone che sanno certamente maneggiare i conti e i numeri nel modo più efficace, ma che non hanno dimestichezza alcuna col telecomando o con la manopola della radio. Per ora molti punti interrogativi rimangono sospesi sul vertice della più grande azienda culturale del Paese che produce tante cose, informazione, cultura, intrattenimento, musica, spettacolo, sport, cinema, fiction, programmi per ragazzi, e l’elenco potrebbe continuare a lungo, un’azienda dalla grande rete tecnologica, passata al digitale terrestre senza avere capitali da investire in prodotti nuovi e in canali veramente nuovi. Sbarcheranno gli alieni, come dice qualcuno, o i marziani in Viale Mazzini e a Saxa Rubra?

l'Italia arretra scendendo all'ottavo posto tra i paesi industrializzati, su ciascun cittadino il Censis stima un debito di 31 mila euro. Naturalmente la crisi ha ragioni strutturali profonde, europee, globali, ma può contare su un contributo italiano di assoluto rilievo. Nell'arretramento economico registrato dal centro studi di Confindustria, maturato nell'ultimo ventennio e oggi alimentato dal governo tecnico, non è affatto secondario il ruolo cruciale svolto dalla comunicazione, dal potere straordinario della televisione, dalla subalternità della sinistra alla sottocultura liberista e populista del berlusconismo.

Il micidiale triangolo economico, politico, culturale è operante ancora oggi quando un governo di centrodestra è finito e l'uomo che lo incarnava è stato sostituito dal governo dei professori. Lo dimostra la lottizzazione dei membri dell'Agcom (uno al Pd, due al Pdl, uno all'Udc) e di quelli dell'autorità della Privacy (uno al Pd, che avrà anche il presidente, uno alla Lega, uno al Pdl) decisi con un voto parlamentare, di camera e senato. Antipasto che probabilmente annuncia la prossima abbuffata quando i partiti si occuperanno delle nomine per il Cda della Rai.

Per sette anni l'autorità delle comunicazioni (Agcom) deciderà quali regole dovranno governare lo sviluppo di infrastrutture strategiche del paese: banda larga, frequenze, par condicio, televisione, mercato pubblicitario, il diritto d'autore on line. Le funzioni decisive di una democrazia moderna sono ancora affidate ai custodi berlusconiani dell'etere, a un funzionario della camera dei deputati gradito a Casini (offerto dal Pd), a un tecnico indicato dal partito di Bersani. Pennellata finale: Augusta Iannini, magistrato, moglie di Bruno Vespa, entra nell'autorità della privacy, probabilmente per controllare la cronaca al sangue di Porta a Porta. Non fosse vero sembrerebbe una scenetta di quelle che Beppe Grillo recita nelle piazze.

Una nuova violenta scossa di terremoto del 5.8 grado della scala Richter ha colpito stamani l’Emilia, con epicentro tra Carpi, Midolla e Mirandola nel modenese.

Subito sono tate pubblicate dichiarazioni dei membri del Governo dello Stato:

La dichiarazione del Presidente del Consiglio Monti: lo Stato “farà tutto quello che deve fare, che è possibile fare, nei tempi più brevi, per garantire la ripresa della vita normale in questa terra così speciale, importante e produttiva per l’Italia” (cfr. La Stampa web del 29/5/2012 ore 12:45)

La dichiarazione del Ministro Forenro: “E’ innaturale che i palazzi crollino ad ogni nuova scossa” (cfr. Repubblica web del 29/5/2012 ore 12:45).

Inoltre, dal Corriere della Sera web del 29/5/2012 ore 12:47: “… Ripartono le polemiche che investono le autorità per aver dato l'ok a rientrare in scuole e abitazioni. (…)”.

E della vicinanza alle popolazioni colpite il capo dello Stato ricorda di averne già parlato ieri “prima che accadesse questa nuova grave scossa. So che da qui a poco il presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani e il presidente del Consiglio Mario Monti si rivolgeranno attraverso la tv alle popolazioni colpite e al Paese per riaffermare l’impegno forte di solidarietà, assistenza, vicinanza e impegno per la ricostruzione” (da La Stampa web del 29/5/2012 ore 12:50).

La prevenzione sismica non importa a nessuno perché, a differenza della ricostruzione, non fa PIL, a meno che non vengano imputati i costi delle opere di prevenzione a investimenti.

Nelle dichiarazioni istituzionali non si può non notare una sorta di ipocrisia istituzionale.

Vorrei ricordare, senza andare tanto lontano nella memoria, che il 22/12/2011 le Agenzie di Stampa divulgavano un comunicato della Conferenza Unificata Regioni – Province autonome (presieduta dal Presidente della Giunta Regionale della Basilicata, che tante vittime ha dato al terremoto) nel quale veniva reso noto che – tutti raggianti – i Presidenti, all’unanimità, avevano deciso di proporre allo Stato la modifica dell’art. 94 del D.P.R. n. 380/2001 al fine di abrogare l’istituto della preventiva autorizzazione del Genio Civile per iniziare i lavori in zona sismica.

Siccome i nostri Amministratori non provano alcuna vergogna, possiamo tranquillamente rendere noto per extenso il testo del comunicato stampa, sicuri che non offendiamo nessuno:

“Snellire le procedure relative all’autorizzazione per l’inizio dei lavori nelle località sismiche, in modo da ridurre i tempi necessari per l'adeguamento antisismico degli edifici. E’ questo l'obiettivo della proposta di modifica di alcuni articoli (art. 94 e 104) del Testo Unico per l'Edilizia, approvata all'unanimità dalla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome.

Controlli a campione al posto dell'autorizzazione preventiva.

Le nuove norme, presentate dall’assessore alle Infrastrutture della Regione Basilicata (che presiede la relativa commissione della Conferenza), Rosa Gentile, contemplano la possibilità per le Regioni di prevedere al posto dell’autorizzazione preventiva per l’inizio dei lavori, modalità di controllo a campione.

Norme più leggere.

Le Regioni, stando alla proposta licenziata, potranno derogare alle norme che disciplinano i vincoli per il reclutamento del personale al fine di costituire efficaci reti tecniche di controllo. In caso di cambiamento della classificazione sismica dei territori o delle norme tecniche, chi abbia già iniziato una costruzione non avrà l’obbligo di adeguarsi alle nuove previsioni se concluderà i lavori entro 18 mesi. Diversamente, per tempi più lunghi, sarà necessario presentare una valutazione della sicurezza al fine di stabilire se è possibile proseguire con la costruzione o sia necessario un progetto di adeguamento.

Obiettivo la celerità della prevenzione sismica.

“Il nostro obiettivo – ha spiegato l’assessore lucano Gentile – è quello di rendere la celerità una materia ordinaria e non straordinaria legata all’emergenza. In un settore delicato come la prevenzione sismica è fondamentale potersi muovere celermente nell’adeguamento degli edifici per giungere ad un abbattimento del rischio legato al territorio. E piuttosto che derogare a tutte le norme quando i problemi e i lutti si sono già verificati, è bene rendere le normative più leggere prima ed evitare eventi catastrofici”.

L’obiettivo, in realtà e come è evidente nei carteggi ministeriali scambiatisi tra l’ex Ministro On. Di Pietro e l’ex Ministro On. Lanzillotta all’indomani della sentenza n. 182/2006 della Corte Costituzionale, è sempre stato quello di affrancare le Regioni dalle connesse responsabilità derivanti dall’esercizio della funzione di controllo sismico (ex ante, mediante il rilascio della preventiva autorizzazione, ex post mediante il rilascio dei certificati di rispondenza). Per la precisione, Vasco Errani è stato colui il quale ha sempre richiesto (nella sua qualità di Presidente pro tempore della Conferenza Regioni-Province), talora con veemenza, allo Stato la completa liberalizzazione dell’attività edilizia nelle zone sismiche.

A quest’ultimo proposito vorrei ricordare che è dal 1982 che le Regioni in asserita applicazione della Legge n. 741/1981 hanno eliminato la preventiva autorizzazione sismica richiesta dalla Legge n. 64/1974 per edificare in zona sismica. Ciò ha comportato la pressoché totale elusione di controlli.

Dico elusione perché, in realtà, le leggi regionali non potevano – in attuazione della Legge n. 741/1981 – eliminare l’obbligo della preventiva autorizzazione per l’edilizia privata, bensì la loro sfera di azione legislativa delegata era rivolta unicamente verso le opere pubbliche (è evidente la ratio del legislatore che riteneva un inutile defatigamento dell’azione di governo l’approvazione di un’opera pubblica da parte di un soggetto pubblico, visto che ab origine la progettazione deve essere stringente ed assicurare la massima tutela possibile contro i fattori di rischio connessi all’utilizzazione del suolo).

Invero, la Legge n. 741/1981 già nel titolo “Ulteriori norme per l'accelerazione delle procedure per l'esecuzione di opere pubbliche” delinea il campo applicativo.

La delega legislativa concessa dallo Stato alle Regioni mediante le disposizioni di cui all’art. 20 è strettamente eccezionale in materia la cui potestà legislativa esclusiva è statale.

Ne consegue che dovendo essere interpretata in senso restrittivo, la delega legislativa – conformemente al campo di applicazione della Legge n. 741/1981 e cioè le opere pubbliche – non poteva inferire le opere private.

Di talché, in assenza di un intervento statale che impugnava le leggi regionali manifestamente incostituzionali nella parte che consentivano di poter ovviare alla preventiva autorizzazione sismica per la realizzazione delle opere private, è legittimo pensare che lo Stato e le Regioni abbiano – violando la Costituzione – un concorso di colpa nei delittuosi eventi sismici succedutesi dal 1982 ad oggi ?

Può essere, questa ricostruzione, un recondito motivo che ha portato, recentemente, il Governo ad emanare un decreto legge con il quale non viene più assicurato l’intervento risarcitorio dello Stato in caso di eventi sismici o, più in generale, di calamità naturali (compreso inondazioni) ?

Oggi l’importante è la produttività, l’efficientismo, la liberalizzazione delle attività economiche.

Seppoi ciò si traduce in pericolo per i Cittadini non importa niente a nessuno, anzi ci guadagna pure l’impresa funeraria (anche loro fanno PIL).

Sarà che il progresso è fare due passi indietro, finché siamo a tempo ?

È un Paese sospeso, quello che emerge dal sondaggio dell´Atlante Politico di Demos. Un Paese spaesato, in cerca di prospettive politiche ancora incerte. E per ora, comunque, insoddisfacenti. Il governo, dopo il sensibile calo di fiducia subìto fra marzo e aprile (circa 20 punti in meno), sembra aver recuperato consenso, fra i cittadini. Oggi il 45 per cento degli italiani ne valuta positivamente l´operato. Una quota elevata, se si pensa alle difficoltà economiche e sociali del periodo. E al malessere suscitato dalle politiche fiscali, in particolare dall´Imu, giudicata negativamente dal 70 per cento degli intervistati.

Se si pensa, inoltre, che quasi il 50% degli italiani giustifica le proteste - talora clamorose - contro Equitalia. Nonostante tutto ciò, una consistente maggioranza della popolazione (60%) continua a credere che, alla fine, il governo "ce la farà" a condurci fuori dalla crisi. E per questo, probabilmente, ne sopporta le scelte, per quanto con insofferenza. D´altronde, Monti stesso, personalmente, è giudicato positivamente da oltre il 50% degli intervistati. E si conferma, quindi, il leader "politico" più affidabile, presso gli italiani. Molto più di qualunque altro leader di partito o aspirante tale. Da Bersani a Di Pietro, passando per Fini, Casini e Montezemolo. Mentre la popolarità di coloro che avevano guidato la maggioranza di governo per circa un decennio, Berlusconi e Bossi, è scesa ai minimi storici. La perdita di credibilità personale - e familiare - di Bossi ha coinvolto tutta la Lega. Compreso Maroni. Da ciò la crisi che ha affondato il centrodestra, attualmente privo di leadership ma anche di riferimenti politici.

Gli orientamenti di voto riflettono questo senso di spaesamento, rivelato - e accentuato - dalle recenti amministrative. Segnalano, in particolare: a) lo sfaldamento del Pdl, ormai dimezzato, rispetto alle elezioni politiche del 2008; b) la frana della Lega scivolata poco sopra il 4%, come 10 anni fa; c) Mentre il Pd e l´Idv tengono bene, anche se non riescono a intercettare lo sfarinamento dei partiti di centrodestra. Il Pd, in particolare, si conferma primo partito in Italia. D´altronde, secondo gli intervistati, è la formazione politica che si è rafforzata maggiormente, in seguito alle elezioni amministrative. d) Insieme, ovviamente, al Movimento 5 Stelle (M5S), promosso e ispirato da Beppe Grillo. Il quale, dal punto di vista elettorale, è stimato oltre il 16%, poco al di sotto del Pdl. Il successo alle recenti amministrative ha contribuito ad allargare ulteriormente la sua base elettorale. Il M5S è divenuto, infatti, il collettore privilegiato dell´insoddisfazione sociale verso il sistema partitico. Un sentimento generalizzato, che non dà segni di rallentamento.

Oltre il 40% degli intervistati, infatti, vede nella "protesta contro i partiti" la principale ragione di successo del Movimento. Una valutazione condivisa anche dal 27% degli elettori del M5S, i quali, però, danno maggiore importanza ad altri argomenti: l´estraneità dei candidati alle logiche di potere e la concretezza dei programmi proposti ai cittadini. Resta, comunque, l´incognita sulla capacità del Movimento di "tenere" la scena politica, oltre a quella elettorale. Soprattutto, oltre i confini locali. Infatti, quasi metà degli italiani (la maggioranza) ritiene il M5S in grado di "amministrare" le città e il territorio. Ma quasi 7 persone (e 4 elettori del M5S) su 10 non lo considerano capace di governare, a livello nazionale.

Da ciò l´impressione di un Paese sospeso. In attesa di un cambiamento ancora incompiuto. A cui Grillo e il M5S hanno offerto una risposta, uno sbocco. Sfruttato da molti elettori che, in un primo tempo, non li avevano presi in considerazione. Non è un caso se, rispetto a un mese fa, l´elettorato del M5S ha modificato sensibilmente il profilo sociopolitico. In particolare, al suo interno sono aumentati: a) gli elettori dei comuni medio-piccoli; b) le persone di età medio-alta; c) le componenti di centro-destra; d) gli elettori provenienti dalla Lega e dal Pdl. In altri termini: il M5S ha intercettato il disagio diffuso fra gli elettori. L´ha canalizzato, dandogli visibilità. Ma senza risolverlo.

La domanda di cambiamento politico, infatti, resta molto estesa, al punto che circa un terzo degli elettori sostiene che, se si presentasse un partito "nuovo", guidato da un leader "nuovo" e "vicino alla gente": lo voterebbe "sicuramente". Si tratta di un orientamento trasversale. Particolarmente accentuato nella base elettorale dei soggetti politici che in precedenza detenevano il monopolio della rappresentanza del "nuovo", come la Lega. Ma anche l´Idv e Sel. Tuttavia, questo orientamento appare ampio anche fra gli elettori dell´Udc, alla ricerca, da tempo, di un modo - e di uno sbocco - per uscire dal "centro", che rischia di trasformarsi in un ghetto. Schiacciato da destra, sinistra e, ora, anche dal M5S.

Siamo, dunque, in una fase fluida. Il "mercato elettorale" è instabile, in cerca di un´offerta politica adeguata. Che stenta a delinearsi. Così cresce la voglia di "nuovo". Anche se per gran parte degli elettori (quasi sette su dieci) il "nuovo" è il "vecchio" rivisto e ri-qualificato. Per cui si traduce, anzitutto, nella domanda di "rinnovamento" degli attuali partiti. Ma il "rinnovamento", per la grande maggioranza degli elettori (il 61%), significa "ricambio e svecchiamento" della classe dirigente.

D´altra parte, fra i motivi che hanno favorito il M5S alle recenti amministrative, un ruolo importante è stato sicuramente giocato dalla figura e dall´immagine dei candidati. Giovani e preparati. Estranei a lobby e interessi. In grado di esprimere opinioni competenti sulla realtà locale. Senza slogan e senza retorica.

Ciò suggerisce che, per rispondere all´insofferenza verso i partiti, che si respira nell´aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni - politiche e antipolitiche.

Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano. Ciò suggerisce che, per rispondere all´insofferenza verso i partiti, che si respira nell´aria, non sarebbero necessarie grandi rivoluzioni - politiche e antipolitiche. Basterebbe che i principali partiti attualmente presenti sulla scena politica fossero in grado di rinunciare alle logiche oligarchiche e centralizzatrici che li guidano. Basterebbe che offrissero maggiore spazio e ruolo ai dirigenti e ai militanti giovani, presenti e impegnati sul territorio. (Ce ne sono molti, nonostante tutto, ma vengono puntualmente scoraggiati.)

Basterebbe. Ma non ne sono capaci. Così, avanza la richiesta del Nuovo-a-ogni-costo. Ormai, un mito, più che una rivendicazione. Travolge tutto. E rende la "nostra" Democrazia: "provvisoria". La Politica e i partiti: inattuali.

I «compiti a casa» il governo Monti li ha fatti, ma la crisi non si allontana. Visco parla al di sopra della mischia, ma pluade alla controriforma del mercato del lavoro La «prima» del governatore di Banca d'Italia. Mette in luce il deficit di Europa politica; approva il salvataggio delle banche; chiede di ridurre la pressione fiscale. Ma benedice la fine dello stato sociale

Bisogna saper stare all'altezza dei problemi, anche se la vertigine è a un passo dal prenderci. Bisogna capire e fare, non fuggire tornando a ciò che si conosce, al rassicurante piccolo mondo antico che non c'è più. E questo vale sia per chi - come il governatore della Banca d'Italia - dentro la realtà del mondo si muove per migliorarne l'efficienza, che per quanti, al contrario, si interrogano sui limiti, sulla caducità di questo «sistema», cercando di individuare i contorni del suo possibile esperimento.

La prima volta di Ignazio Visco in sede di presentazione delle «Considerazioni finali», da governatore, restituisce intanto questo invito a «mettersi all'altezza», fissando l'ostacolai sotto la quale non si «compete», ma si bofonchia. E viene da pensare che la scuola di Federico Caffè, scomparso 25 anni fa, rappresenta tuttora un esempio inegualiato di «eccellenza» scientifica (da lì sono usciti sia Visco che Mario Draghi; e tanti altri, anche tra «i nostri»).

Le Considerazioni hanno una struttura istituzionalizzata che per una volta ci sembra non utile rispettare. Il punto più alto è rappresentato infatti dal discorso sull'Europa, che nell'esposizione non è il primo.

L'Europa e l'Italia

L'eurozona, come «entità unitaria», sarebbe un colosso molto equilibrato: «ha conti con l'estero bilanciati, un disavanzo e un debito del settore pubblico poco sopra i limiti (3 e 90% del Pil); famiglie con una ricchezza finanziaria lorda 3 volte il reddito annuo disponibile, un debito delle imprese pari al prodotto di un anno». Ma è al centro dell'offensiva della «speculazione internazionale» per un solo motivo sistemico: «si avverte la mancanza di fondamentali caratteristiche di una federazione di Stati». C'è un mercato e una moneta unici, non c'è un potere politico centralizzato (e legittimato; ma questo Visco non può nemmeno lasciarlo pensare). I paesi più deboli, dunque, sono aggredibili come parti isolate da un tutto altrimenti potente.

Quei fondamentali sono ovvi: «processi decisionali che favoriscano l'adozione di politiche lungimirante», «risorse pubbliche comuni», «regole davvero condivise e azioni tempestive su sistema finanziario e banche». Prevale invece una «pericolosa tendenza alla rinazionalizzazione dei sistemi finanziari», che crea un doppio regime interno. «Questo rende alla lunga l'unione monetaria più difficile da sostenere».

Visco riconosce i tentativi fatti per «rafforzare la governance», ma «i processi decisionali» restano «condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell'unanimità», che rende ogni scelta «lenta e farraginosa». E la Bce non può sostituirsi (troppo a lungo o troppo a fondo) alle istituzioni politiche. L'auspicato «cambio di passo» non si vede e quindi gli spread tra i rendimenti dei titoli dei diversi paesi possono divaricarsi in modo non corrispondente alla realtà davvero «unitaria» - sul piano dell'integrazione economica - della Ue. Al punto che gli spread «non sembrano tener conto di quanto è stato fatto», sia a livello comunitario che dei singoli paesi. Del resto, al centro della crisi vi sono i «dubbi crescenti degli investitori internazionali» su problemi più politici che economici, come «la coesione dei governi nell'orientare la riforma della governance europea». La «tenuta stessa dell'Unione monetaria» è in mano alla «politica», ai «governi», prima che alle istituzioni monetarie. La credibilità di un insieme malmesso è insomma un problema «non economico».

Il nodo, anche per Visco, è la «crescita che stenta». I suggerimenti, però, non vanno oltre «l'avvio immediato di progetti comuni e cofinanziati di investimento». Perché è vero che «sta ai paesi in difficoltà attuare le riforme strutturali», ma «sta ai paesi più forti aiutare questo processo, non ostacolando il riequilibrio». Un fendente educato a Bundesbank e fraü Merkel, probabilmente coordinato con i vertici della Bce.

Economia e politica monetaria

Sia chiaro: quelle «riforme» vengono benedette da via Nazionale, non ci sono incertezze. Il livello di blocco creditizio e produttivo, nello scorso autunno, era tale che «le condizioni per rinnovare il debito nei mesi invernali rischiavano di diventare proibitive». E quindi «dovevano» essere avviate sia le «incisive correzioni dei debiti pubblici» che le «riforme strutturali per la crescita». Su questo il nostro dissenso non può che restare radicale, perché non c'è nulla di «oggettivo» e «obbligato» nel modo di reperire risorse; anche il liberalissimo Einaudi, del resto, non avrebbea avuto problemi nel varare una «patrimoniale». Anziché strangolare i redditi più bassi.

E cancellare l'articolo 18 non produrrà un solo centesimo di Pil in più. Anzi, comprimendo di fatto salari e quindi i consumi (soprattutto quelli «necessari»), probabilmente contribuirà a ridurlo anche oltre quell'1,5% - per il 2012 - che anche Visco riconosce. Vuol dire recessione, per almeno altri tre trimestri oltre i tre già messi in cascina.

Banche e sistema finanziario

La crisi rischiava di accentuare oltre misura la «segmentazione del mercato interbancario lungo linee nazionali», anticipando e sollecitando risposte «populiste» nella stessa direzione. È stata tamponata quasi soltanto dalla Bce, prima con gli acquisti irrituali di titoli di stato dei paesi in difficoltà e poi con due maxi-operazioni di rifinanziamento che hanno portato 1.000 miliardi nelle casse della banche private. L'effetto è stato positivo, dice Visco, perché ha stabilizzato le attese dei mercati, per un po'. Ma ora «le tensioni sono riprese», e le banche rispondono riducendo il credito erogato a imprese e famiglie.

Pesa indirettamente anche la normativa di Basilea 3, che obbliga a requisiti di «riserva» molto più stringenti. La «chiave» per riprendere ad aumentare «le attività» viene quindi vista - anche qui - nella riduzione del «costo del lavoro, difficilmente compatibile con le prospettive di crescita» del sistema bancario.

Riforme e fisco

In definitiva, Bankitalia appoggia esplicitamente sia le scelte del governo Monti che quelle della Bce, perché «era urgente mettere il bilancio pubblico su una dinamica sostenibile» e «rianimare la capacità di crescita attraverso riforme strutturali». Ma è ormai ora di «rivedere le priorità di spesa a parità di saldo di bilancio, ad esempio a favore dell'istruzione e della ricerca». Anche perché «si è pagato il prezzo di un innalzamento della pressione fiscale a livelli non compatibili con una crescita sostenuta». E quindi «la sfida si sposta: occorre trovare, oltre a più ampi recuperi dell'evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale». La «logica tedesca» del rigore ha ormai toccato un limite oltre cui sta diventando un danno evidente. Ma le condizioni di vita della popolazione in tutti questi calcoli, costituiscono solo una variabile ininfluente. Il che non può essere accettato da nessuno.

L'Emilia Romagna è stata un mito per la mia generazione. L'aspetto più triste è ora constatare l'abbandono del territorio in una regione che ha avuto meriti immensi e un ruolo di avanguardia nella salvaguardia. In Italia, dal dopoguerra, è mancata una adeguata cultura del territorio, però c'erano le eccezioni. C’erano l'urbanistica di Bologna, l'urbanistica di Modena, le scuole di Reggio Emilia davano speranza, e si pensava: «dobbiamo assumere l'Emilia Romagna come un modello». Purtroppo anche l'Emilia Romagna si è normalizzata, è diventata come il resto d'Italia. Eppure, lo studio di Silvio Casucci e Paolo Liberatore pubblicato da Eddyburg mostra quanto ci è costata la mancanza di prevenzione: dal 1950 al 2009 il danno alle cose provocato dai terremoti è di 147 miliardi, quasi 3700 milioni di euro l'anno e le morti causate dai terremoti nello stesso periodo sono 4665.

Negli ultimi venti anni alluvioni e frane ci sono costate un miliardo e 200 milioni l’anno. Casucci e Liberatore calcolano che il costo delle catastrofi è in media ogni anno di cinque miliardi. L'Emilia Romagna ha un altro merito straordinario: fondò l'Istituto dei Beni culturali (Ibc). Per la prima volta si dimostrò con una azione pratica la dimensione culturale del territorio, l'importanza del patrimonio artistico minore. L'Istituto dei beni culturali fece un immane censimento del patrimonio storico artistico nei centri minori, concretizzando l'idea larga del bene culturale incardinato nel territorio, del legame profondo del bene culturale con il territorio che lo ha prodotto. Nel 1983 l'Istituto dei beni culturali organizzò una grande mostra dal titolo «I confini perduti»: le fotografie storiche della Raf (la Royal Air Force) scattate nel 1942 erano messe a confronto con fotografie dell'epoca. Quella mostra fece una impressione drammatica, era in assoluto la prima denuncia dello sprawl, del consumo di territorio determinato dallo sparpagliamento degli insediamenti.

Oggi l'Emilia Romagna non esprime più questa leadership culturale, eppure nella prima metà degli anni Settanta l’aver posto il tema della salvaguardia dei centri storici è stato un merito indiscusso della amministrazione bolognese. Il piano per il recupero del centro di Bologna di Pier Luigi Cervellati del 1973 fece il giro del mondo, Bologna diventò la capitale del recupero: era nata la moderna cultura del recupero ed era nata a Bologna, era italiana. Ora, purtroppo, anche questo è in discussione e nel centro storico di Bologna si ammettono le sostituzioni edilizie, rinnegando una pagina fra le più belle della nostra storia recente.

Ma l'Emilia non è L'Aquila. A L'Aquila il disastro è stato probabilmente l'acceleratore di un declino irreversibile. Dopo tre anni si discute come se fossimo a tre settimane dal sisma e, probabilmente, la città - è doloroso dirlo - non si risolleverà. In Emilia, all'opposto, c'è un grande dinamica sociale, economica e produttiva, c'è un tessuto civile che è il migliore d'Italia. Gli stessi lutti di due giorni fa sono stati provocati dalla straordinaria spinta a ricominciare. In questo caso la catastrofe potrebbe, come altre volte è avvenuto nella storia, essere occasione di un grande scatto di orgoglio e di dignità per riprendere l'iniziativa da tutti i punti di vista. Forse è azzardato, è fuori scala, fare paragoni con la ricostruzione del dopoguerra, però se c'è un posto dal quale ci si può aspettare un'impennata, questo è l'Emilia. È rincuorante sentire gli amministratori dichiarare «ce la faremo», «ci rimetteremo in piedi». Il riscatto sarà possibile se lo sforzo delle popolazioni terremotate sarà fortemente sostenuto dalle autorità locali (da parte delle quali un po' di autocritica non sarebbe male), dall'azione del governo nazionale, dall'opinione pubblica. E

dall’impennata dell’Emilia potrà partire il riscatto di tutto il paese.

C'è chi si è reinventato la filiera della carne per trattare meglio gli animali, nutrirli in maniera più naturale, vendere tutta la bestia per evitare gli sprechi da macello e fare al contempo un prodotto più sano e più buono: ora gli allevatori fanno la fila per entrare in questo circuito virtuoso. C´è chi ha messo su un gruppo d'acquisto. C´è chi ha lasciato la città, un lavoro "sicuro", ed è andato a fare il pastore transumante o il coltivatore di antiche varietà di frutta e di verdura. C´è chi nell´azienda agricola dei suoi genitori ha convertito tutto al biologico e vi ha inaugurato un asilo nido rurale. Ci sono giovani e meno giovani che hanno aperto ristoranti dove si servono quasi esclusivamente prodotti locali, comprati da fornitori amici; altri ristoratori che hanno fatto un orto per avere prodotti freschissimi e di stagione: hanno tutti reinventato la propria cucina in base a questi ingredienti. Abbiamo chi vende i propri prodotti su Internet o direttamente in azienda per saltare troppi viaggi poco sostenibili e troppe mediazioni sconvenienti. Intanto sono migliaia i cittadini che tengono corsi nelle scuole, che fanno informazione come volontari durante le manifestazioni, alcuni hanno scritto manuali di educazione alimentare ed ecologica molto innovativi. E sono milioni quelli che nel mondo hanno cambiato anche soltanto una piccola abitudine insostenibile che avevano nel fare la spesa.

L'elenco potrebbe continuare e occupare tutto il giornale, tanto più se lo allargo agli altri Paesi: non faccio nomi per non fare torti, ma i protagonisti si riconosceranno, e li ringrazio. Li conosco perché fanno parte di reti e associazioni, e agiscono individualmente tramite piccole aziende familiari o quando acquistano il cibo. Sono tutti collegati in qualche modo tra di loro, anche in maniera invisibile. Sono tantissimi quelli che negli ultimi anni si sono dedicati alle buone pratiche agricole e alimentari, ciò che gioco-forza rappresenterà il nostro futuro. Hanno messo al centro delle loro vite quello che mangiano e stanno dimostrando che con il cibo si può fare buona economia, produrre e consumare in maniera sostenibile, ridare fiato a un Pianeta sempre più alle corde. Chi crede che tutto questo faccia parte di una bella utopia presto si dovrà ricredere.

In occasione della Giornata Mondiale dell'Ambiente del 5 giugno, e a maggior ragione mentre la comunità internazionale si appresta a riunirsi a Rio de Janeiro per la conferenza "Rio + 20" sullo sviluppo sostenibile (20-22 giugno), queste persone rappresentano già il cambiamento, qualcosa di forse ancora un po´ sommerso ma molto concreto: anticorpi che si stanno diffondendo contro i virus della crisi. Sono a pieno titolo parte di quella che si vuole chiamare "Green Economy". Io non ho simpatia per queste definizioni perché spesso sono limitative o fuorvianti, con la Green Economy si rischia di pensare soltanto a chi installa pannelli fotovoltaici e pale eoliche, a chi lavora con le energie alternative, fa innovazione per mettere a disposizione delle aziende e dei cittadini nuove tecnologie "verdi". Tutto eccezionale, tutto benvenuto, ma non facciamo l'errore della vecchia economia che pensa a compartimenti stagni e li tiene separati. La Green Economy sarà tale soltanto se riferita a un sistema complesso, che parte dal cibo e che ha implicazioni non solo ecologiche ma anche sociali, culturali; arrivo a dire esistenziali.

Per me, e per tanti altri nel mondo, Green Economy è per esempio ricostruire quei sistemi locali fatti anche di piccoli esercizi commerciali, di panettieri e salumai, di gente che re-impara il savoir-faire del cibo e lo mette a disposizione della comunità. Nuove filiere del cibo, ri-educazione alimentare. Gente che ritrova un senso in un mestiere, che rimette in piedi la socialità attorno al suo laboratorio, negozio, fattoria, mercato, osteria. Non è nostalgia del passato: per esempio mi chiedo che Green Economy sarà se non si recuperano i borghi, li si ripopola e li si fornisce dei servizi essenziali, dei negozi, di una nuova ruralità. Senza che s´investa nelle ristrutturazioni e nel riparare o prevenire i danni di disastri naturali sempre più frequenti. Che ne sarà del cibo senza che si fermi il consumo di suolo libero, delle nostre città senza il verde, anche un verde produttivo, o senza gli esercizi commerciali di quartiere, i mercati contadini, l'agricoltura di prossimità. Non si fa Green Economy solo con il solare e l´eolico o solo con il biologico; non si fa Green Economy solo con la "chimica verde" o con un mercato contadino. Si fa Green Economy con un nuovo paradigma che ci riguarda tutti e che può diventare un´opportunità di fronte ai dati allarmanti sul cambiamento climatico e alle tremende crisi economico-finanziarie.

Ma bisogna educarsi, avere memoria del passato, imparare cose nuove, avere coraggio e creatività. Bisogna ricostruire un sistema intero e lo si può fare soltanto se si guarda oltre al proprio ambito, se si capisce per esempio che il cibo è la rappresentazione principale di questo sistema e che anche con un piccolo cambio di dieta, con un semplice acquisto, si può davvero cambiare il mondo e fare un´economia diversa, "new" o "green" che sia. Proprio per cambiare dieta segnalo la nuova guida al consumo responsabile di Slow Food, "Fulmini e Polpette", con tema il cambiamento climatico. È gratis e si può scaricare dal sito www.slowfood.it/slowfoodday. Al suo interno ci sono tante facili buone pratiche che possiamo fare nostre, con piacere e per fortuna senza essere soli, ma molto ben accompagnati.

C'è chi si è reinventato la filiera della carne per trattare meglio gli animali, nutrirli in maniera più naturale, vendere tutta la bestia per evitare gli sprechi da macello e fare al contempo un prodotto più sano e più buono: ora gli allevatori fanno la fila per entrare in questo circuito virtuoso. C'è chi ha messo su un gruppo d'acquisto. C'è chi ha lasciato la città, un lavoro "sicuro", ed è andato a fare il pastore transumante o il coltivatore di antiche varietà di frutta e di verdura. C'è chi nell'azienda agricola dei suoi genitori ha convertito tutto al biologico e vi ha inaugurato un asilo nido rurale. Ci sono giovani e meno giovani che hanno aperto ristoranti dove si servono quasi esclusivamente prodotti locali, comprati da fornitori amici; altri ristoratori che hanno fatto un orto per avere prodotti freschissimi e di stagione: hanno tutti reinventato la propria cucina in base a questi ingredienti. Abbiamo chi vende i propri prodotti su Internet o direttamente in azienda per saltare troppi viaggi poco sostenibili e troppe mediazioni sconvenienti. Intanto sono migliaia i cittadini che tengono corsi nelle scuole, che fanno informazione come volontari durante le manifestazioni, alcuni hanno scritto manuali di educazione alimentare ed ecologica molto innovativi. E sono milioni quelli che nel mondo hanno cambiato anche soltanto una piccola abitudine insostenibile che avevano nel fare la spesa.

L'elenco potrebbe continuare e occupare tutto il giornale, tanto più se lo allargo agli altri Paesi: non faccio nomi per non fare torti, ma i protagonisti si riconosceranno, e li ringrazio. Li conosco perché fanno parte di reti e associazioni, e agiscono individualmente tramite piccole aziende familiari o quando acquistano il cibo. Sono tutti collegati in qualche modo tra di loro, anche in maniera invisibile. Sono tantissimi quelli che negli ultimi anni si sono dedicati alle buone pratiche agricole e alimentari, ciò che gioco-forza rappresenterà il nostro futuro. Hanno messo al centro delle loro vite quello che mangiano e stanno dimostrando che con il cibo si può fare buona economia, produrre e consumare in maniera sostenibile, ridare fiato a un Pianeta sempre più alle corde. Chi crede che tutto questo faccia parte di una bella utopia presto si dovrà ricredere.

In occasione della Giornata Mondiale dell'Ambiente del 5 giugno, e a maggior ragione mentre la comunità internazionale si appresta a riunirsi a Rio de Janeiro per la conferenza "Rio + 20" sullo sviluppo sostenibile (20-22 giugno), queste persone rappresentano già il cambiamento, qualcosa di forse ancora un po´ sommerso ma molto concreto: anticorpi che si stanno diffondendo contro i virus della crisi. Sono a pieno titolo parte di quella che si vuole chiamare "Green Economy". Io non ho simpatia per queste definizioni perché spesso sono limitative o fuorvianti, con la Green Economy si rischia di pensare soltanto a chi installa pannelli fotovoltaici e pale eoliche, a chi lavora con le energie alternative, fa innovazione per mettere a disposizione delle aziende e dei cittadini nuove tecnologie "verdi". Tutto eccezionale, tutto benvenuto, ma non facciamo l'errore della vecchia economia che pensa a compartimenti stagni e li tiene separati. La Green Economy sarà tale soltanto se riferita a un sistema complesso, che parte dal cibo e che ha implicazioni non solo ecologiche ma anche sociali, culturali; arrivo a dire esistenziali.

Per me, e per tanti altri nel mondo, Green Economy è per esempio ricostruire quei sistemi locali fatti anche di piccoli esercizi commerciali, di panettieri e salumai, di gente che re-impara il savoir-faire del cibo e lo mette a disposizione della comunità. Nuove filiere del cibo, ri-educazione alimentare. Gente che ritrova un senso in un mestiere, che rimette in piedi la socialità attorno al suo laboratorio, negozio, fattoria, mercato, osteria. Non è nostalgia del passato: per esempio mi chiedo che Green Economy sarà se non si recuperano i borghi, li si ripopola e li si fornisce dei servizi essenziali, dei negozi, di una nuova ruralità. Senza che s´investa nelle ristrutturazioni e nel riparare o prevenire i danni di disastri naturali sempre più frequenti. Che ne sarà del cibo senza che si fermi il consumo di suolo libero, delle nostre città senza il verde, anche un verde produttivo, o senza gli esercizi commerciali di quartiere, i mercati contadini, l'agricoltura di prossimità. Non si fa Green Economy solo con il solare e l'eolico o solo con il biologico; non si fa Green Economy solo con la "chimica verde" o con un mercato contadino. Si fa Green Economy con un nuovo paradigma che ci riguarda tutti e che può diventare un´opportunità di fronte ai dati allarmanti sul cambiamento climatico e alle tremende crisi economico-finanziarie.

Ma bisogna educarsi, avere memoria del passato, imparare cose nuove, avere coraggio e creatività. Bisogna ricostruire un sistema intero e lo si può fare soltanto se si guarda oltre al proprio ambito, se si capisce per esempio che il cibo è la rappresentazione principale di questo sistema e che anche con un piccolo cambio di dieta, con un semplice acquisto, si può davvero cambiare il mondo e fare un´economia diversa, "new" o "green" che sia. Proprio per cambiare dieta segnalo la nuova guida al consumo responsabile di Slow Food, "Fulmini e Polpette", con tema il cambiamento climatico. È gratis e si può scaricare dal sito www.slowfood.it/slowfoodday. Al suo interno ci sono tante facili buone pratiche che possiamo fare nostre, con piacere e per fortuna senza essere soli, ma molto ben accompagnati.

Anche stavolta, pur di non fare i conti con lo sviluppo dissennato del territorio italiano e delle conseguenze che paghiamo in termini di perdita di vite umane, di distruzione di patrimonio storico e produttivo, si è messa in moto la gigantesca macchina della fuga dalle responsabilità. Di fronte al crollo di interi capannoni industriali con pochi anni di vita alle spalle ecco la scappatoia: si è saputo che l'area era sismica soltanto da un decennio e i capannoni crollati erano precedenti a quella data. Le colpe, dunque, sono di tutti e di nessuno. Non è così. È noto che chi progetta strutture impegnative, come i grandi capannoni industriali, usa ogni prudenza a prescindere dalla sussistenza del rischio sismico. Se il rischio sismico esiste si usano certo cautele e verifiche più complesse e sofisticate, ma è inspiegabile che ci siano stati crolli. Potevano esserci lesioni, cedimenti, ma crolli no perché l'intensità dell'evento non è stata enorme.

Ma la furbesca attribuzione di ogni evento che devasta l'Italia a «tragiche fatalità» una volta tanto ritorna a sfavore dei corifei del tutti responsabili, nessun colpevole.

Se è vero quanto hanno incautamente affermato, e cioè che i capannoni sono crollati perché calcolati sulla base di assenza di terremoto che poi si è verificato, è anche vero che un paese che guarda al proprio futuro doveva porre in essere un piano sistematico di messa in sicurezza dell'esistente. Si è fermata una parte importante del motore produttivo italiano e non si è fatto nulla in via preventiva per proteggerlo. Ancora più grave, se possibile, la questione dell'edilizia storica e abitativa. In questo caso è scontato che essa sia stata prevalentemente realizzata con concezioni e tecnologie inadatte a sopportare i terremoti. Sono decenni che la miglior cultura italiana, le grandi associazioni di difesa del territorio e ambientaliste chiedono, proprio sulla base di questa constatazione, di metterlo in sicurezza. E invece nulla, si continua a espandere le città, a sciupare prezioso territorio agricolo. Poi tutto va a terra e «non ci sono i soldi per risanare e ricostruire».

Non c'è una sola voce - a eccezione forse del ministro Clini - che affermi con la forza necessaria che l'unico modo per far uscire il paese dalla crisi economica in cui lo ha cacciato il liberismo senza regole, è quello di avviare un gigantesco processo di piccole opere che recuperino e mettano in sicurezza città e territori.

Pochi giorni fa, invece, è stato dato il via al piano (l'ennesimo) per le grandi opere per un importo di 100 miliardi. Dietro ognuna di queste opere ci sono le stesse fameliche imprese - tipo Ponzellini-Impregilo, per capirci - che posseggono giornali che strillano su un paese fermo a causa della burocrazia. Tra le opere finanziate, manco a dirlo, ci sono opere inutili come l'autostrada Roma-Latina, la nona tranche di finanziamento al grande scempio ambientale del Mose di Venezia e tante altre. Si continua con le stesse politiche che hanno portato all'attuale disastro. L'assetto anarchico del territorio non è stato causato dall'eccesso di regole: è figlio della cancellazione delle regole e della cultura dello sviluppo senza limiti e delle grandi opere.

È ora di prendere atto che i limiti esistono. Due anni fa il Centro studi dei geologi e il Cresme avevano stimato in sette milioni gli edifici a rischio. Da allora non è stato fatto nulla e il governo continua ad annunciare il «piano città». Per essere efficace questo piano dovrà prevedere sostanziali prerogative pubbliche perché ci vogliono risorse vere per avviare la ripresa. E dovrà affermare due semplici verità: è finita la fase della crescita urbana perché non la possiamo sostenere economicamente e bisogna mettere in sicurezza e innovare dal punto di vista energetico quello che già esiste.

«Avvezza la popolazione di Reggio e della provincia alle scosse di tremuoti, sembra ad ognuno che avrebbe dovuto pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso. Or qui si vedeva precisamente il contrario...». Sono trascorsi oltre due secoli da quel 1783 in cui la Commissione Accademica napoletana stese quel rapporto denunciando che in Calabria, nonostante tanti terremoti, si continuava a costruire senza alcun criterio. E altri due secoli erano già passati allora dalla catastrofe di Ferrara del 1570-1574 e dal progetto della prima casa antisismica disegnato da Pirro Ligorio. Eppure, gran parte delle polemiche di oggi ruota intorno alla scelta di non cancellare la cerimonia del 2 Giugno, scelta difesa da Giorgio Napolitano con una motivazione sensata: «Non possiamo piangerci addosso, dobbiamo dare messaggi di fiducia». Ogni dissenso, si capisce, è legittimo. Ma l'esaltazione online di Arnaldo Forlani, benedetto per avere lui sì sospeso la celebrazione dopo il terremoto in Friuli, è così pelosa e strumentale da gettare un'ombra perfino sulle migliori buone intenzioni. E rischia di fare chiasso mettendo in secondo piano il tema vero: non ne possiamo più di piangere i lutti causati da «fatalità» talvolta imprevedibili (non sempre: talvolta), ma i cui danni vengono moltiplicati da un vuoto inaccettabile nella cultura della prevenzione.

Che dei ladri possano rubare un chilometro di fili di rame isolando l'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia nei giorni della crisi sismica in Emilia manda il sangue alla testa. Ma lì siamo nell'ambito della criminalità più stolta. Molto più gravi sono le responsabilità di chi negli anni si è opposto a ogni irrigidimento (norme più facili ma rigide) sulla sicurezza. Nella convinzione che non valesse la pena di infastidire i cittadini e le aziende, obbligati a spendere di più senza essere mai stati informati dei rischi che correvano. Un errore suicida. Per decenni, finché la natura non tornava a ricordare con nuove distruzioni come le catastrofi del passato possano ripetersi, la grande maggioranza degli amministratori nazionali e locali ha preferito costantemente derubricare i rischi sismici, geologici, ambientali di questo e quel territorio piuttosto che affrontare la realtà. C'è un saggio («La classificazione e la normativa sismica italiana dal 1909 al 1984» di autori vari) che spiega tutto: la mappa delle aree pericolose è stata composta di scossa in scossa. Con l'aggiunta via via di Messina e Reggio nel 1908, di Avezzano e della Marsica nel 1915, del Riminese nel 1916, della Val Tiberina nel 1917, del Mugello nel 1919, della Garfagnana nel 1920 e avanti così... Come se lo Stato si rassegnasse a riconoscere man mano, quando era ormai impossibile continuare a negarlo, ciò che non solo gli studiosi ma i vecchi abitanti dei luoghi sapevano.

E questo processo, con il rattoppo continuo delle mappe delle zone a rischio, è proseguito fino ai nostri giorni. Senza che mai venisse definita una mappa finale che non fosse una pura accumulazione di variegate mappe precedenti. E una seccatura, finché non crollano il campanile, le case e i capannoni, accettare la definizione di area sismica più o meno esposta al pericolo. E più facile scacciare il pensiero confidando nella buona sorte. Valga per tutti il manifesto affisso nel 2010 a Ischia, dove chi ricorda il terremoto di Casamicciola del 1883 è considerato nemico del turismo: «Sulla scheda elettorale scrivi: voto abusivo». E come dimenticare l'ospedale di Agrigento costruito con materiali di scarsa qualità senza rispettare le regole? La scuola di San Giuliano di Puglia o la Casa dello studente dell'Aquila collassate perché erano state tirate su in modo scriteriato? La polemica contro Bassolino del sindaco di San Sebastiano al Vesuvio furente perché il «Piano casa» della destra con le sue abolizioni di lacci e lacciuoli non era esteso alla «zona rossa» sotto il vulcano per la quale invocava «almeno di realizzare i sottotetti a copertura degli immobili esistenti»? O ancora quel comma dello stesso «Piano casa» che prevedeva, prima di essere abolito la mattina stessa del terremoto abruzzese, «semplificazioni in materia antisismica» che fissavano solo «modalità di controllo successivo anche come metodi a campione»?

È come se decine di disastri non ci avessero insegnato niente. Spiega lo studio «Societal landslide and flood risk in Italy» pubblicato nel 2010 sul «Natural Hazard and Earth System Sciences» da Salvati, Bianchi, Rossi e Guzzetti e ripreso da Silvio Casucci e Paolo Liberatore del «Cles», che «nel corso degli ultimi 60 anni circa (1950-2008) sono stati rilevati in Italia rispettivamente 967 eventi franosi e 613 eventi alluvionali» con danni alla popolazione. In media, ogni frana «ha causato oltre 4 fatalities (morti e dispersi), mentre un'alluvione circa 2». Facciamo due conti? Oltre cinquemila morti. Più quelli causati dai terremoti e da altri disastri naturali che la studiosa Emanuela Guidoboni (cui è stato chiesto finalmente dalle autorità fino a ieri sorde come mai avesse scritto l'anno scorso il libro «Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato») ha calcolato in almeno 200 mila dall'unità d'Italia ad oggi. Quanto ai danni patrimoniali, prendiamo i dati (per qualcuno sottostimati) di un rapporto della Protezione civile del settembre 2010: «I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale. (...).

Attualizzando tale valore, si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro». Una montagna di soldi. Soprattutto se messi a confronto con quanto stimò un giorno Guido Bertolaso: «Per mettere in sicurezza tutto il nostro Paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro». Quante vite, quanti strazi, quante rovine ci saremmo risparmiati affrontando la vera grande emergenza di questo Paese, e cioè uscire dalla cultura dell'emergenza? Certo, la mazzata di questi giorni colpisce duro un Paese già in difficoltà. La storia del Friuli, che seppe reagire al terremoto del 1976 e non si lasciò demoralizzare e ricostruì le fabbriche e insieme, mattone su mattone, il duomo di Venzone e tutti i centri storici devastati, è però di luminoso incoraggiamento. I friulani non si limitarono a rimettere a posto le pietre delle chiese e far ripartire i macchinari delle fabbriche. Approfittarono della catastrofe per darsi nuove regole nell'edilizia, far rivivere i centri storici, rilanciare le loro imprese, allargare la loro economia. E chissà che un giorno non possiamo ricordare il dolore di queste settimane come punto di partenza di una rinascita.

Il sisma ha ucciso altri quattro lavoratori. I capannoni industriali sono crollati di nuovo in Emilia, dopo il secondoforte terremoto di stamane, dopo quello del 20 maggio, con epicentro stavolta nel modenese, a Medollae aMirandola, cittadina che proprio ieri aveva accolto le parole del capo dello StatoGiorgio Napolitano("Nessuno sarà lasciato solo").

Ad oggi, infatti, nella cittadina modenese, che diede in natali al celebre filosofo Pico, cento anni prima del più grande terremoto (nel 1.570) che si ricordi da queste parti, i danni stimati per 150 aziende dalle scosse di nemmeno dieci giorni fa superano i 600.000 euro, mentre 4.000 persone sono state messe in cassa integrazione. Tanti, troppi lavoratori lasciati a casa, in uno dei distretti più attivi nella regione e in Italia, cuore nazionale del biomedicale, assieme al ceramico.

Ma la natura non ascolta. E le nuove scosse di stamattina hanno fatto cedere altri capannoni come un castello di carta, provocando danni a molte strutture dell’area che saranno valutati con una maggiore puntualità solo nei prossimi giorni. Intanto la produzione di molte aziende è stata fermata e i lavoratori lasciati, precauzionalmente, a casa. A rischio i rifornimenti di prodotti ai pazienti per alcune patologie, in particolare la dialisi, secondo Stefano Rimondi, presidente di Assobiomedica.

Eppure il presidente di Confidustria,Giorgio Squinzi, oggi ha ricordato che questi capannoni non sono affatto di carta velina. Anzi. "Quelli nel settore della ceramica erano signori capannoni, costruiti con tutti i crismi. Quindi mi sembra che i crolli siano da attribuire alla fatalità", ha aggiunto.

Ma prendersela con il fato a volte non basta. Bisogna guardare alle leggi che lo Stato si è dotato per fare in modo che le case e le aziende resistano alle avversità della natura, come i terremoti e alluvioni. "Dal terremoto di San Giuliano di Puglia nel 2002, in cui crollò una scuola elementare, la legislazione si è evoluta divenendo estremamente rigida e più severa dal punto di vista antisismico per chi vuole costruire nuovi edifici", spiega a Panorama.itStefano Calzolari, ingegnere strutturista e presidente dell’ordine degli ingegneri di Milano.

"Ad oggi, insomma, se i capannoni sono tirati su rispettando le norme è quasi impossibile che crollino: ci sono precise indicazioni progettuali non solo per i capannoni, ma anche per le scaffalature, si pensi al caso delle forme di parmigiano andate rovinate nei giorni scorsi, che, se fatte bene e rispettando i criteri normativi, possono reggere alle scosse. Ma spesso molte imprese non lo fanno per ragioni di costi, senza contare che in Italia manca ancora una cultura della performance degli edifici”, aggiunge.

Dal decreto ministeriale del gennaio 2008, infatti, le strutture che ospitano attività industriali e artigianali devono essere costruite in tutta Italia, e non solo nelle aree considerate a rischio terremoto (l'Italia Peninsulare) rispettando precise norme antisismiche. “Il problema, quindi, è per le strutture precedenti, perché - conclude - sono fatte secondo valutazioni sismiche differenti e spesso non vengono ristrutturate, sempre per ragioni di costo. Ma se i crolli riguardano, invece, edifici più recenti, post 2008, allora significa che c’è stata una lacuna sia nell'esecuzione lavori sia nei successivi controlli da parte delle autorità".

Il recentissimo terremoto che ha colpito l’Emilia rende ancora una volta evidente il fatto che il nostro Paese è costretto ogni anno a sopportare perdite di vite umane ed enormi costi a causa dei disastri naturali; molti di questi costi, peraltro, potrebbero essere evitati, se si seguissero con maggiore attenzione le più elementari regole antisismiche.

Per offrire un contributo al dibattito abbiamo provato a effettuare una stima economica dei costi che in media ogni anno il nostro Paese è chiamato a pagare a causa di eventi naturali disastrosi. L’analisi condotta in questa sede si concentra in particolare sulle frane, sulle alluvioni e sui terremoti; per effettuare una quantificazione degli effetti dannosi che ne derivano sono stati considerati sia gli impatti sulla salute dell’uomo (morti e feriti) che quelli sulle cose (distruzione di strutture e infrastrutture).

I costi associati al dissesto idrogeologico: frane e alluvioni

Frane e alluvioni (piene) sono fenomeni naturali particolarmente frequenti in Italia e costituiscono oggi, con i terremoti, i principali fattori di rischio di origine naturale per persone e cose; le cause principali di questo fenomeno sono da ricercarsi soprattutto nelle caratteristiche geologiche e geomorfologiche del territorio italiano, cui si aggiungono alcune particolari condizioni climatiche (alternarsi rapido tra periodi di siccità e precipitazioni intense), le dinamiche idrauliche e di versante dei bacini idrografici, e (per le frane) alcune attività antropiche.

Dalla classificazione messa a punto dal Ministero dell’Ambiente, di concerto con gli altri Enti istituzionalmente competenti (ANPA, ora ISPRA; Dipartimento dei Servizi tecnici nazionali; Dipartimento della Protezione civile), risulta che il 21% dei comuni ha nel proprio territorio amministrativo aree franabili, il 16% aree alluvionabili e il 32% aree a dissesto misto; più in generale, il 7% circa della superficie territoriale nazionale è classificata a rischio idrogeologico potenziale più elevato.

Per effettuare una valutazione dei danni alla salute dell’uomo si può fare riferimento prioritario ai dati elaborati dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del CNR, che negli anni recenti ha dedicato specifica attenzione alla ricostruzione delle serie storiche di frane e alluvioni e alla rilevazione dei danni alle persone. In particolare, in un recente studio pubblicato sul Natural Hazard and Earth System Sciences (Salvati, P., Bianchi, C., Rossi, M., Guzzetti, F., (IRPI-CNR), “Societal landslide and flood risk in Italy”, 2010) vengono fornite alcune preziose informazioni di dettaglio sulle frane e le alluvioni registrate sul territorio italiano che hanno generato danni all’uomo (morti, dispersi o feriti). Da questo studio risulta che nel corso degli ultimi 60 anni circa (1950-2008) sono stati rilevati in Italia rispettivamente 967 eventi franosi e 613 eventi alluvionali che hanno causato danni alla popolazione; l’impatto medio degli eventi considerati in termini di social risk è molto rilevante: in media, una frana ha causato oltre 4 fatalities (morti e dispersi), mentre un’alluvione circa 2; i valori salgono rispettivamente a oltre 6 e oltre 4, se si considerano invece le casualities (fatalities + feriti).

Il dato utilizzato in questa sede per effettuare la valutazione monetaria degli effetti prodotti dai fenomeni idrogeologici sulla salute dell’uomo si basa sul numero medio di fatalities per singolo anno (circa 70 per le frane, oltre 20 per le alluvioni) e al numero medio di feriti per singolo anno (pari, rispettivamente, a 34 e a 25 unità). Facendo riferimento ai parametri monetari generalmente utilizzati in questo tipo di valutazioni, relativi al valore di una vita umana perduta (VOSL - Value of statistical life, pari a 1,5 milioni di euro) e di un periodo medio di malattia (DALY – Disability adjusted life year. Si assume qui un periodo medio di malattia pari a due mesi, per un valore unitario pari a 5.800 euro circa euro), il danno alla salute causato in media in Italia da frane e alluvioni è quantificabile, rispettivamente, in circa 104,5 milioni di euro/anno e in 31,0 milioni di euro/anno, per un totale di circa 135,5 milioni di euro/anno.

Per quel che riguarda invece la valutazione dei danni alle cose (strutture ed infrastrutture) associati a frane e alluvioni, i dati disponibili in letteratura sono invece assai più frammentari e imprecisi. Una prima indicazione generica, già citata all’inizio del presente paragrafo, viene fornita dal sito istituzionale dell’ISPRA, secondo il quale frane e alluvioni, considerate insieme, hanno generato costi economici quantificabili in circa 30 miliardi di euro in 20 anni; da questo dato è immediato ricavare una prima stima del “danno medio annuo” provocato da tali fenomeni, ovviamente del tutto orientativa, pari a 1,5 miliardi di euro/anno. Sono peraltro disponibili in letteratura dati relativi ad un arco temporale più lungo. In particolare, in un recente lavoro realizzato dal Centro Studi del Consiglio Nazionale dei Geologi (CNG) in collaborazione con il Cresme (Consiglio Nazionale dei Geologi, Cresme, Terra e sviluppo. Decalogo della Terra 2010 – Rapporto sullo stato del territorio italiano, Roma, 2010) viene ricostruita la dinamica dei costi del dissesto idrogeologico in Italia tra il 1944 e il 2009, basato sull’elaborazione di precedenti stime del Servizio Geologico Nazionale e del Ministero dell’Ambiente. Secondo lo Studio, in particolare il valore dei danni causati da eventi franosi e alluvionali dal dopoguerra ad oggi è stimabile in circa 52 miliardi di euro. Mediamente, si tratta di circa 800 milioni di euro all’anno, una cifra che nell’ultimo ventennio è peraltro aumentata, assestandosi intorno al miliardo e 200 milioni annui.

È a questo valore (1.200 milioni/anno), più basso di quello indicato da ISPRA, che - per cautela - si ritiene opportuno fare qui riferimento come indicatore complessivo. È importante specificare, peraltro, come nell’ambito del rischio idrogeologico, per incompletezza dei dati, non abbiamo considerato i danni generati da fenomeni meno diffusi quali subsidenza e sinkholes (voragini catastrofiche di forma sub-circolare, con diametro e profondità variabili da pochi metri a centinaia di metri, che si aprono rapidamente nei terreni, nell'arco di poche ore).

I costi associati agli eventi sismici

L’elevato rischio sismico che caratterizza l’Italia è legato alla posizione della nostra Penisola, situata lungo la zona di convergenza tra la zolla eurasiatica e quella africana e dunque sottoposta a continue spinte compressive e ad accavallamenti; anche la storia recente mostra come la frequenza e – soprattutto – l’intensità dei terremoti che si registrano sul territorio italiano siano in grado di generare danni gravi ed estesi, associati a elevatissimi costi socio-economici. Il sito istituzionale della Protezione Civile fornisce alcuni dati significativi: in 2.500 anni, sul territorio italiano si sono verificati oltre 30.000 terremoti, di cui 560 di intensità e magnitudo rilevanti (oltre l’ottavo grado della scala Mercalli); solo nel secolo scorso (1900-2000) sono stati registrati 7 terremoti con effetti classificabili tra il decimo e l’undicesimo grado della scala Mercalli; ed è nota, a inizio del XXI secolo, la gravità dell’evento sismico che ha colpito il territorio aquilano nell’aprile 2009, con oltre 300 morti e danni ingentissimi ad abitazioni, infrastrutture e, più in generale, all’intero sistema economico e sociale della provincia.

Per la valutazione dei danni alla salute dell’uomo associati agli eventi sismici, si precisa innanzi tutto come l’operazione di stima del “numero medio annuo di decessi per terremoto” sul territorio italiano nella storia recente risulti particolarmente rischiosa; mentre, infatti, frane e alluvioni sono fenomeni relativamente costanti e regolari nel tempo, sia in termini di frequenza che di intensità, per i terremoti le stime variano notevolmente a seconda della serie storica scelta come riferimento.

Dal 1860 sino al 2010, infatti, sono stati rilevati in Italia almeno 43 terremoti che hanno causato perdite di vite umane, per un totale di oltre 164.000 vittime in circa 150 anni: ne deriva una media, sui 150 anni, pari a oltre 1.000 morti/anno. Tuttavia, ben 150.000 di tali decessi (oltre il 90%) sono stati registrati in occasione di due soli terremoti: quello cioè che sconvolse le aree di Messina e Reggio Calabria nel 1907 provocando 120.000 vittime, e quello che, dopo soli 8 anni, rase al suolo la zona di Avezzano, in Abruzzo, provocando il decesso di 30.000 persone circa. Di conseguenza, a seconda che il periodo considerato come “campione” contenga o meno gli anni 1907 e 1915, il parametro relativo al numero medio di morti anno cambia di oltre un ordine di grandezza.

Per motivi sia di cautela che di coerenza metodologica con i valori proposti per frane e alluvioni, si ritiene opportuno fare qui riferimento al periodo 1950-2009, senza dunque considerare i due valori outlier ora indicati; nei 59 anni così considerati, sono stati registrati 15 terremoti con decessi, per un totale di 4.665 decessi (in media, dunque, circa 79 l’anno). Senza considerare i feriti (ovviamente molto numerosi, per i quali tuttavia non si dispone di informazioni affidabili) e facendo riferimento al valore del VOSL già applicato per frane e alluvioni, si perviene così ad una stima del danno medio annuo alla salute dell’uomo associato al rischio sismico in Italia pari a 118,6 milioni di euro; non considerando i feriti, si tratta ovviamente di una stima significativamente approssimata per difetto.

Per ciò che riguarda invece la valutazione dei danni alle cose (strutture ed infrastrutture) associati ai terremoti, un dato di riferimento autorevole è ricavabile da un recente approfondimento sul rischio sismico redatto direttamente dal Dipartimento della Protezione Civile (settembre 2010). In particolare, nel documento si specifica come “[…]I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro [a prezzi 2005], che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale. […]”. Attualizzando tale valore, si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro/anno.

Un quadro di sintesi

Nella tabella seguente sono state sintetizzate le stime relative ai costi associati a disastri naturali che la collettività nazionale ha sopportato in media ogni anno a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Come si può facilmente osservare si tratta di un costo enorme, superiore ai 5 miliardi di euro l’anno. Considerando che si tratta di una stima assolutamente prudenziale, che non tiene peraltro conto dei danni temporanei alle attività economiche, si capisce quante risorse (pubbliche e private) si potrebbero risparmiare nel nostro Paese se le abitazioni e gli edifici destinati alle attività produttive ed ai servizi fossero costruiti rispettando con maggiore attenzione le norme antisismiche ovvero evitando le aree a rischio potenziale idrogeologico più elevato.

Nell'allegato il testo con le tabelle

Proprio la minaccia esistenziale causata dalla crisi finanziaria e dalla crisi dell’euro ha reso gli europei nuovamente consapevoli di non vivere in Germania o in Francia, ma in Europa. La gioventù europea esperisce per la prima volta il proprio "destino europeo": disponendo di una formazione migliore di quella di un tempo essa va incontro, carica di aspettative, al declino dei mercati del lavoro determinato dall’incombente minaccia di bancarotta degli stati e dalla crisi economica. Un europeo su cinque sotto i venticinque anni è senza lavoro.

Come il precariato accademico ha innalzato le barricate e fatto sentire la propria voce, così anche tutte le proteste dei giovani rivendicano soprattutto giustizia sociale. In Spagna, in Portogallo, ma anche in Tunisia, in Egitto, in Israele (a differenza della Gran Bretagna) queste proteste sono condotte in maniera non violenta, ma potente. L’Europa e la sua gioventù sono accomunate dalla rabbia nei confronti della politica che stanzia somme di denaro esorbitanti per salvare le banche e mette a repentaglio il futuro dei giovani. Ma se persino la speranza rappresentata dalla gioventù europea cade vittima della crisi dell’euro, quale futuro potrà mai esserci per un’Europa che diventa sempre più vecchia?

Di fatto la sociologia non se n’è proprio accorta; e ora come allora continua a operare e a elaborare le proprie riflessioni nella prospettiva di un nazionalismo metodologico. Considerando che in Europa le relazioni giuridiche e sociali sono vicendevolmente intrecciate e non possono più venire diversificate a livello nazionale, persino i conflitti nazionali scaturiti dalla disuguaglianza (come, ad esempio, nel caso della Germania) possono essere compresi solo tenendo conto della dimensione europea. Analizzando le situazioni dei singoli stati nazionali diventa pertanto imprescindibile fare riferimento all’Europa.

Vedo tre processi sovrapposti che determinano una nuova effettiva minaccia dell’Europa per l’Europa. Innanzitutto l’ostilità verso gli stranieri, poi l’antisemitismo e l’antiislamismo, infine l’ostilità verso la stessa Europa. Il primo fenomeno non è nuovo e si manifesta di continuo. Rispetto all’antisemitismo noi sociologi siamo abbastanza tranquilli fintantoché rimane circoscritto in determinate zone marginali. Nel frattempo il problema ha però assunto dimensioni esorbitanti nella forma dell’antiislamismo. Gli avversari dell’Islam sono infatti riusciti a presentare il loro rifiuto della dimensione religiosa di determinati gruppi emigrati in Europa come una sorta di atteggiamento illuministico. In Germania è ben noto il nome di Thilo Sarrazin, ma non è il solo. In situazioni di crisi le file degli xenofobi, degli antisemiti, degli antiislamici e degli antieuropei si ingrossano, si sovrappongono e si inaspriscono vicendevolmente. Così facendo tra la popolazione si fa via via più labile il sostegno all’Europa – fino ad assumere proporzioni che non mi sarei mai immaginato.

Ma oggi in Europa ci sono almeno altri due esempi di politica della violenza che occorrerebbe ricordare: il colonialismo e lo stalinismo, ai quali viene di fatto riconosciuto un peso diverso. La memoria della colonizzazione è presente in maniera assolutamente marginale nella costituzione dell’Unione europea. Finora non si è affatto messo in luce né il significato che i paesi colonizzati hanno avuto nel processo di formazione degli stati nazionali all’interno dell’Europa, né quale significato hanno avuto i paesi postcoloniali nella formazione dell’Unione europea. Rispetto all’olocausto e allo stalinismo le cose sono diverse. Tuttavia la memoria del colonialismo potrebbe verosimilmente esercitare un ruolo nell’atteggiamento dell’Unione europea di fronte agli eventi della primavera araba nei paesi nordafricani. Ci si dovrebbe domandare per quale ragione l’Europa non sfrutti la propria situazione particolare (ossia le sue tre memorie storiche) come fonte per nuovi orientamenti e progetti per il futuro.

Rispetto alla Germania, ora come ora, posso solo pronosticare un amore inarrestabile per lo status quo. Siamo senz’altro uno dei paesi industrializzati più dinamici del mondo, e tra quelli più vincolati al mercato globale. Con la riunificazione si è però evidentemente esaurito ogni bisogno di cambiamento. Si fa strada, nell’agire e nel pensare, un atteggiamento di totale disimpegno. Persino in ambito scientifico le teorie che da tempo trattano della fluidificazione e dello sgretolamento dei rapporti sociali vengono recepite in maniera molto marginale. Le figure chiave tra gli intellettuali, la politica e la sfera pubblica nutrono un disinteresse incredibile di fronte a ciò che sta accadendo in ambito politico e intellettuale nelle altre regioni del mondo. Ma questa Germania disorientata, che ora come ora geme, tartaglia e pencola nella nebbia, non è caduta dal cielo. Elaborando la teoria della modernizzazione riflessiva e della società globale del rischio siamo riusciti a individuare un fenomeno che è diventato ormai di esperienza comune: la marcia trionfale della modernità radicalizzata genera una serie di effetti collaterali che demoliscono i fondamenti e le coordinate delle istituzioni e delle singole esistenze private, tramutandoli in elementi politici.

Improvvisamente si fanno urgenti questioni come queste: a che cosa serve l’Europa? La crisi finanziaria mina alla base la democrazia? Ma pure: che cos’è la famiglia? Dal canto mio ho tentato di distinguere tra il "cosmopolitismo", inteso come una teoria normativa e politica, e la "cosmopolitizzazione" come sviluppo de facto sociale. La cosmopolitizzazione, nelle varie forme in cui si realizza, può ad esempio essere descritta a partire dal caso del capitalismo fondato sull’outsourcing. In quel caso non si tratta infatti solo di una variante della globalizzazione, ma di una forma di cosmopolitizzazione in cui i lavoratori dei paesi ricchi, europei, si percepiscono come intercambiabili ed entrano in relazione diretta con l’"altro globale". Questa relazione non è né un’interazione né uno scambio comunicativo, bensì una messa in discussione dell’interesse esistenziale dei lavoratori per un posto di lavoro sicuro. Da ciò deriva, seppur detto in maniera un po’ diretta, un’ostilità economica che riveste un’importanza quotidiana per gli atteggiamenti xenofobi, antisemiti, antiislamici e persino antieuropei. Questa ostilità economica è una forma di cosmopolitizzazione priva di interazione e di comunicazione. Essa non ha nulla a che spartire con il cosmopolitismo filosofico, anzi, ne è l’esatto opposto. Nondimeno si tratta di una relazione nuova, molto concreta, in cui l’"altro globale" è pienamente presente in Europa, al di là di ogni frontiera, ed è al centro della nostra vita. Basandomi sulla distinzione tra cosmopolitismo e cosmopolitizzazione avevo creduto di poter dar vita a una discussione su tali forme di sviluppo, soprattutto in Germania, essendo il cosmopolitismo una delle grandi tradizioni tedesche. Nei secoli XVIII e XIX grandi pensatori – Kant, Heine, Goethe, Schiller e altri – discutevano del modo in cui il cosmopolitismo, il patriottismo e il nazionalismo potessero realmente rapportarsi l’uno all’altro. Mi ero figurato che la grande tradizione culturale tedesca, continuamente celebrata, potesse offrire lo spunto per ripensare l’Europa e la percezione di sé come nazione nell’epoca globale in una maniera nuova e sorprendente. Devo però constatare che la Germania è completamente sorda a questo dibattito, che viene invece condotto in maniera assai vivace in molte altre lingue.

Il “piano città”, a cui il ministero delle Infrastrutture e trasporti sta lavorando, entra nella fase delle proposte concrete. Finora non molto si sapeva di un progetto più facile a dirsi, che a farsi. Non solo per l’obiettivo ambizioso di riqualificare aree urbane degradate, ma anche per il numero di soggetti chiamati a dire la loro. Secondo il ministero è questo invece il punto di forza, perché coinvolgere tutti gli interessati garantisce interventi realmente necessari e permette di individuare le soluzioni più adatte. L’idea nasce da uno studio dell’Ance (l’Associazione nazionale costruttori edili) e prende forma il 4 maggio, quando sono iniziate le riunioni al ministero.

Ma cosa prevede in concreto il “piano città”? La rigenerazione di aree urbane degradate, la valorizzazione di aree demaniali dismesse, la creazione di alloggi sociali, la ristrutturazione delle scuole per migliorare l’efficienza energetica, l’ottimizzazione del trasporto pubblico locale. Insomma, tutto quel che contribuisce a migliorare la vivibilità delle città con in più l’importante risvolto di rimettere in moto l’economia grazie all’impulso garantito al comparto dell’edilizia. Nella riunione di oggi verranno illustrate le diverse proposte. Si sa già che tra le città destinatarie di interventi ci sono Roma (in particolare il quartiere di Pietralata), Verona, Firenze, Bari. Il sindaco di Piacenza, nella veste di rappresentante dell’Anci (l’associazione dei comuni italiani) ha individuato diverse aree al Nord, Centro e Sud Italia. Al tavolo siedono anche Federcostruttori, Confedilizia, Cassa depositi e prestiti, regioni, comuni e vari ministeri (Istruzione, Economia, Sviluppo economico). L’impegno era di arrivare a fine mese con delle proposte, che appunto verranno presentate oggi. L’intenzione del ministero è di procedere in maniera molto spedita. Il consiglio dei ministri dovrebbe approvare già in settimana il provvedimento, mentre a giugno dovrebbero partire i primi cantieri. Le azioni da intraprendere investono settori diversi (dalla gestione dei rifiuti alle case popolari), ma tutti di rilievo per i cittadini e con in comune l’ambito delle costruzioni. Perché è un settore portante che può dare spinta all’occupazione: il comparto dell’edilizia oltre ad essere un volano può generare crescita.

Secondo l’Ance per un miliardo investito ne vengono generati altri tre e con ricadute positive sull’occupazione. Nel piano città molta attenzione è riservata alle scuole: su 45 mila ispezioni in 3596 scuole di tutta Italia, si prevede di spendere 943 milioni per mettere in sicurezza quelle più fatiscenti. Più della metà sono risorse già stanziate dal Cipe e 161 milioni di euro sono già stati erogati per i cantieri in corso (altri 20 milioni arriveranno entro luglio).

Spostandosi sul fronte finanziario dei conti, viene da chiedersi da dove arrivino le risorse per un progetto utile quanto ambizioso. Il totale delle risorse a disposizione sarebbe di 2 miliardi, reperiti qua e là tra le pieghe dei bilanci e programmi già finanziati ma non più attivi. La parte del leone la fa Cassa depositi e prestiti che, attraverso il Fondo investimenti per l’abitare, mette a disposizione 1,6 miliardi. Ci sono poi il ministero delle Infrastrutture che garantisce 233 milioni (da spostare con un’apposita norma da altri programmi cui erano destinati); il ministero dell’Istruzione che porta in dote 100 milioni per le scuole ad alta efficienza energetica, lo Sviluppo economico che garantisce una quota degli incentivi all’energia.

Solo considerando l’housing sociale, 833 milioni di euro investiti generano 72 mila alloggi a canone sociale e 141 mila occupati. Il punto è mettere in comunicazione provvedimenti diversi che finora viaggiavano in ordine sparso. In settimana il Consiglio dei ministri dovrebbe varare una norma che formalizzi un piano operativo per realizzare in modo coordinato e sistemico l’efficientamento energetico e la riqualificazione e il recupero della bellezza delle nostra città.

Speriamo che, alla fine, resti solo un grave scivolone nelle stanze di Palazzo Chigi. Fatto sta che con questo progetto di legge i tecnici sembrano dar voce alla più retriva pulsione della partitocrazia: il controllo politico sulla giustizia. Così non si colpiscono i giudici, ma la collettività e l’ordinamento costituzionale nel suo complesso; il nostro diritto, garantito dalla Costituzione, di avere un servizio giustizia autonomo e imparziale. Non a caso il progetto riproduce alla lettera i testi proposti dal Pdl nella fase più acuta della guerra alla giustizia.

La paritetica rappresentanza parlamentare che viene riproposta nella sezione disciplinare del Csm è idonea da sola, ad esempio, a disporre l’ingiusta assoluzione del magistrato "amico" che ha volontariamente ritardato gli atti per far scattare la prescrizione in favore del politico imputato. Il che prova come la separazione tra i poteri sia un diritto della società, non tanto dei giudici. Per non dire delle punizioni che appariranno sempre ritorsive o vendicative, a prescindere anche dalla qualità personale dei componenti l’organo disciplinare.

Insieme ai principi fondamentali, vengono sfregiati specifici precetti costituzionali. La Consulta sin dal 1971 ha evidenziato che la sezione disciplinare sui magistrati deve rispecchiare proporzionalmente le componenti previste per il plenum del CSM: due terzi di togati e un terzo di eletti dal Parlamento. Pertanto la composizione paritetica progettata ora da Palazzo Chigi è pacificamente incostituzionale, oltre che giuridicamente sciatta e inguardabile. Ancora più forte la mortificazione riservata alle altre magistrature. Per gli organi disciplinari della giustizia amministrativa e contabile, il progetto di legge va infatti oltre la composizione paritaria e giunge a stabilire una prevalenza assoluta dei membri di nomina politica.

L’intensità del veleno si rivela poi nella coda. Nell’ultimo dei quattro articoli, con riguardo ai giudici tributari, si prescrive una componente politica "almeno" paritaria. L’avverbio è confessorio: va bene anche un organo disciplinare composto soltanto da politici. Un tribunale di inquisizione. Il progetto è talmente abnorme che viene da chiedersi se Monti e Severino ne siano a conoscenza. Comunque si affrettino, i professori, a cestinare questo scempio e a spedire dietro la lavagna chi lo ha concepito. Per il futuro si guardino bene da certi tecnici, che a volte sono ventriloqui della peggiore politica.

Né si dica che si vorrebbero arginare le pressioni sulla responsabilità civile di cui all’emendamento Pini, approvato dalla Camera, in mentita applicazione di pronunce comunitarie che non chiedono certo una maggiore e diretta esposizione personale del giudice, ma soltanto e per profili limitati, quella dello Stato. In ogni caso si tratterebbe di un rimedio peggiore del male. Peraltro, con queste premesse, resterebbe pure la norma voluta dal leghista, consegnandoci un giudice che più che guardare al processo dovrebbe guardarsi dai processi, e dalle minacce delle parti e della politica. L’inatteso frutto al tramonto, dell’unica missione cui il cavaliere si sia davvero dedicato.

In realtà, se di riforme serie volesse parlarsi (ma non se ne vedono le condizioni) l’opzione dovrebbe essere ben altra. Lavorare ad un completamento del disegno costituzionale con una Corte disciplinare unitaria per tutte le magistrature, espressione dei diversi organi di autogoverno ma autonoma sul versante funzionale. Si chiarirebbe una volta per tutte che nessun giudice è un burocrate; e se deve senz’altro rispondere ad un rigoroso principio di professionalità e responsabilità, lo deve fare su un piano necessariamente diverso rispetto ad un dirigente ministeriale. Se c’è un’istanza che sale dalla società, è quella di coniugare verso l’alto i valori di responsabilità e indipendenza di tutti i giudici, prerogative irrinunciabili di un nostro diritto di cittadinanza libera e costituzionale. Ma è proprio qui che veniamo minacciati da questo progetto di legge ora partorito dalle scrivanie di Palazzo Chigi, con improvvida e sorprendente leggerezza.

Continua ad allungarsi, di ora in ora, l’elenco dei danni al patrimonio culturale nell’area terremotata: inatteso, per ampiezza, per chi non ha conoscenza di questi luoghi. E’ un tessuto di edifici e infrastrutture storiche diffuso capillarmente e per questo ne va respinta l’etichetta di “patrimonio minore”: proprio perché costitutivo del volto di intere cittadine e paesi, questo patrimonio ne rappresenta la stessa possibilità di esistenza. Non esiste Finale senza la sua torre dei Modenesi, Palazzo Veneziani, il Duomo, e neppure San Felice senza la Rocca, la parrocchiale eponima, la Canonica Vecchia, Villa Ferri (e la lista è solo esemplificativa, purtroppo).

Non ci sono forse emergenze da lista Unesco, ma un vastissimo repertorio di strutture che, in particolare per quanto riguarda l’architettura militare o quella signorile, testimoniano, nel loro insieme, l’eccellenza monumentale complessiva di un territorio che, fino ad adesso, aveva saputo conservarle con saggezza e competenza.

Fino ad adesso, appunto, perché l’intensità del sisma spiega solo parzialmente la gravità dei danni. Già Jean Jacques Rousseau, dopo il disastroso terremoto di Lisbona del 1755, additava la stoltezza degli uomini, rei di aver costruito troppo, e non la malevolenza della natura come maggiore colpevole della sciagura; così anche ora incuria e insipienza umana hanno aggravato quelli che potevano essere danni ben più sopportabili.

Il fattore moltiplicatore che ha ingigantito l’effetto distruttivo del terremoto sul patrimonio culturale è la mancanza di un programma di manutenzione degno di questo nome. Da anni, per mancanza di risorse e di personale, non vengono più effettuati controlli sistematici, per non parlare dei restauri riservati ormai solo alle “eccellenze”. Le verifiche anche statiche sono episodiche e legate ad eventi particolari. In pratica questo significa l’abbandono ad un destino di inesorabile degrado, accelerato, in questo caso, dall’evento sismico. E bastano davvero pochi anni di mancata manutenzione per aggravare il rischio di vulnerabilità in maniera determinante.

Come è successo per Pompei: non appena si cessa l’opera di ricognizione e manutenzione, i danni possono essere devastanti. Mancano i mezzi ed è sempre più evidente che il Ministero, il Mibac, annichilito dai tagli lineari tremontiani mai più recuperati, non è più in grado di garantire una decorosa operazione di controllo e manutenzione generalizzata e continuativa del patrimonio che è chiamato a tutelare. A questa condizione di impotenza oggettiva sarebbero chiamati a reagire, in prima istanza, coloro che la subiscono tutti i giorni in prima battuta, a partire dal Ministro e dalla dirigenza del Mibac che, al contrario, sembrano di fatto rassegnati ad una situazione di sfaldamento progressivo del sistema di tutela del patrimonio.

E la cecità nei confronti dei rischi territoriali è ormai generalizzata se le amministrazioni locali hanno potuto dar credito ad un incredibile progetto di stoccaggio di gas naturale in unità geologica profonda nel sottosuolo della Bassa Modenese.

Il progetto, contrastato a lungo dalla sezione di Italia Nostra e da Comitati locali e non ancora abbandonato, prevedeva di immagazzinare tre miliardi di metri cubi di gas naturale nel sottosuolo a circa tre chilometri di profondità esattamente nella zona oggi interessata dal terremoto con palese sottovalutazione dei rischi geologici e sismici che oggi si sono puntualmente manifestati in tutta la loro evidenza.

Contemporaneamente i media ci rimandano il mantra ossessivo di un’idea del nostro patrimonio culturale come strumento per generare ricchezza, petrolio a basso costo in grado di rilanciare la nostra economia perché capace di attirare masse di turisti pronti a spendere.

E che fare allora nel caso dei monumenti colpiti da quest’ultimo sisma, turisticamente poco eclatanti e spendibili, “importanti” non per il turista di passaggio, ma per il cittadino che quei luoghi quotidianamente vive?

Eppure anche in questo caso la risposta sarebbe abbastanza semplice: un programma nazionale di riqualificazione urbana, conservazione e restauro dei centri storici, consolidamento e manutenzione del territorio avrebbe sicuramente costi elevati, ma del tutto allineati alle decine di miliardi che l’attuale governo e il ministro Passera, in specie, è intenzionato ad investire nelle così dette “Grandi Opere”. Ma in più garantirebbe un tasso di occupazione addirittura triplo, secondo alcune stime, rispetto a queste ultime. Insomma, più lavoro e la prospettiva di un territorio migliore e di un patrimonio tutelato. Ce l’aveva già spiegato Cederna oltre trent’anni fa: è tempo di cominciare ad ascoltarlo.

L'altra volta, quando venne giù mezza città e dappertutto era pieno di morti e perfino il duca Alfonso II d'Este e la famiglia dovettero accamparsi «come zingari» nel cortile della reggia, i ferraresi accusarono quel menagramo del gabelliere e il pittore Helden disegnò sulle rovine un drago fiammeggiante e il papa Pio V ci vide la punizione di Dio per la protezione accordata agli ebrei.

Qualche secolo dopo, però, è inaccettabile che davanti alle vittime e alle macerie del terremoto ferrarese, non potendo più incolpare draghi ed ebrei, si parli ancora di tragica e imprevedibile fatalità. Certo, i nostri avi li fecero bellissimi ma fragili, quei campanili e quelle rocche che ieri si sono sgretolati aggiungendo dolore ai lutti per le vite umane. Non avevano gli strumenti, le tecnologie, i materiali di oggi per reggere l'urto di un sisma. Ma proprio a Ferrara, dopo il devastante terremoto del 1571, ricordacentroeedis.it, l'architetto Pirro Ligorio, successore di Michelangelo alla Fabbrica di San Pietro, progettò la prima casa antisismica. E se con strazio possiamo accettare il collasso di certe residenze antiche, non possiamo rassegnarci al crollo di palazzine e capannoni ed edifici vari tirati su, nel Ferrarese come altrove, in tempi recenti.

Perché noi sappiamo esattamente quali sono le aree a rischio, già colpite in passato e fatalmente destinate a esserlo ancora. I sismologi storici del gruppo di Emanuela Guidoboni hanno contato negli ultimi cinque secoli, in Italia, 88 disastri sismici dagli effetti superiori al 9° grado della scala Mercalli, cioè più gravi di quello abruzzese. Fate i conti: uno ogni cinque anni e mezzo. Catastrofi che hanno causato complessivamente, solo dall'Unità a oggi, oltre 200 mila morti e danni pesantissimi.

Siamo un Paese ad alto rischio. Forse più di tutti per la densità abitativa e il patrimonio storico, monumentale e artistico di cui siamo (forse immeritatamente…) custodi. Altri fisserebbero norme edilizie rigidissime e farebbero regolari corsi d'addestramento per i cittadini e lezioni in classe per i bambini fin dalla materna. Noi no. Da noi gli ascensori salgono dal piano 12° al 14°, gli aerei non hanno la fila numero 13 e chi ha abusivamente costruito in zone pericolose invoca il condono e meno lacci e lacciuoli antisismici. Come se già due secoli e mezzo fa Jean-Jacques Rousseau, dopo il terremoto di Lisbona, non avesse sottolineato amaro: «Non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case di sei-sette piani».

Sapete come si intitola un lavoro recentissimo della Guidoboni? «Terremoti a Ferrara e nel suo territorio: un rischio sottovalutato». Vi si spiega che, al contrario di quanto pensavano nel Medioevo, anche sotto la pianura più piatta possono esserci faglie capaci di dare scossoni tremendi e che l'area colpita ieri nell'ultimo millennio aveva contato già 22 «botte» più o meno gravi «eppure quanti sono i cittadini di Ferrara e della sua provincia ad avere percezione della pericolosità sismica dell'area in cui abitano?». Per mesi e mesi gli amministratori locali erano stati martellati: occorre un progetto per affrontare il tema. Risposte? Sorrisi. Ringraziamenti. Rinvii. Perché parlarne se porta iella?

Torri abbattute, chiese sventrate, centri storici mutilati: il terremoto dell’Emilia rinnova la tragedia che periodicamente colpisce il Paese. Con la perdita di vite umane, le distruzioni del patrimonio culturale sono la traccia più violenta che un terremoto si lascia dietro. Feriscono la memoria collettiva.

Feriscono l’accumulo di storia che i nostri padri ci hanno lasciato, e che la Costituzione ci impone di preservare per i nostri nipoti.

Spesso ci vantiamo di quanto sia grande l’arte italiana. Dimentichiamo però quanto sia fragile, perché fragile è il nostro territorio, il più franoso d’Europa (mezzo milione di frane censite nel 2007), il più soggetto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste, anche per «interventi sull´ambiente invasivi e irreversibili» sui due terzi del territorio (dati Ispra). È, anche, il più soggetto a sismi, recentemente censiti da E. Guidoboni e G. Valensise: dall’Unità d’Italia a oggi, 34 terremoti distruttivi e un centinaio di meno gravi, senza contare migliaia di piccole scosse. 1.560 i Comuni colpiti, non meno di 250.000 i morti, 120.000 solo a Reggio e Messina nel 1908.

Avezzano 1915, Garfagnana 1920, Carnia 1928, Irpinia 1962, Belice 1968, Friuli 1976, Noto 1990, Umbria e Marche 1997, Abruzzo 2009: sono le date di altrettante battaglie, anzi di una guerra continua che l´Italia combatte contro i terremoti. Con che esito? È triste constatare che a ogni terremoto ci consumiamo di lacrime, per poi dimenticare e sbalordirci quando il sisma colpisce di nuovo, e sempre nelle stesse aree.

Resuscitare i morti è impossibile, ma sarebbe facile ridurne il numero, e insieme limitare i danni al patrimonio evitando i due principali fattori di rischio: il forsennato consumo di suolo che "sigillando" i suoli agricoli ne riduce l´elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; e l´addensarsi di edifici costruiti in spregio ai criteri antisismici "per risparmiare", cioè perché guadagni di più chi costruisce, condannando a morte i cittadini (per esempio all’Aquila).

L’amnesia collettiva che ci affligge spinge in direzione opposta, come mostrò il famigerato "piano casa" di Berlusconi (2009), che "semplificava" le norme antisismiche, invitando le Regioni a sostituire ogni garanzia preventiva con «controlli successivi alla costruzione, anche a campione» (art. 5). Il terremoto d’Abruzzo (due giorni dopo) bloccò l’approvazione della legge, mai varata anche se tutte le Regioni si affrettarono a fare le loro leggine.

Il piano per la protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico messo a punto nel 1983 da Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, è rimasto lettera morta. Al contrario, il terremoto d’Abruzzo ha segnato una brusca inversione di rotta nella cultura italiana della tutela. Prima di allora (per esempio in Friuli e in Umbria), la ricostruzione dei centri storici era data per scontata: l’abbandono dell’Aquila (fino ad oggi, tre anni dopo) in favore delle new towns amate da Berlusconi e dai costruttori ha calpestato le priorità costituzionali, condannando alla rovina il patrimonio culturale e il tessuto sociale della città.

Accadrà lo stesso in Emilia? Anche stavolta, come col "piano casa" di Berlusconi, la sequenza fra i provvedimenti del governo e gli eventi naturali è drammatica. È di questi giorni l’annuncio del ministro Passera, secondo cui 100 miliardi verranno spesi nei prossimi anni in "grandi opere" per rilanciare l’economia. Ottima notizia, se per "grandi opere" si intendessero le necessarie, urgentissime misure per mettere il territorio nazionale in sicurezza dalle sue mille fragilità e non, come sembra, per continuare in una spietata cementificazione, figlia della mitologia bugiarda di una crescita infinita imperniata sull’edilizia, a scapito dell’ambiente, del paesaggio, dei cittadini. Ma se tutte le "grandi opere" si facessero continuando a ignorare la fragilità del territorio, l’Italia ne uscirebbe più debole, e non più forte. E con essa il suo patrimonio artistico, di cui solo a parole ci vantiamo, abbandonandolo intanto al suo destino (nulla è stato fatto per rimediare agli insensati tagli di Tremonti ai Beni Culturali nel 2008).

Il Presidente Napolitano, in un discorso a Vernazza, la cittadina delle Cinque Terre colpita da alluvione (quattro morti), ha detto che «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione». Dopo questo saggio monito, l’unico provvedimento concreto è stato, con sinistro tempismo, la "tassa sulla disgrazia" istituita con decreto legge del 15 maggio: in caso di calamità naturali (come il terremoto dell’Emilia), lo Stato se ne lava le mani. Nessuno avrà più un centesimo, se non aumentando le accise sulla benzina, cioè ridistribuendo i costi fra i cittadini (anche i disoccupati, anche i poveri); i cittadini (meglio: chi può) sono inoltre invitati a stipulare un’assicurazione (privata) contro le calamità.

La domanda è dunque: può lo Stato abdicare al proprio compito primario di tutelare il territorio e l’eguaglianza dei cittadini? Può davvero promuovere, all’indomani di un terremoto, nuove cementificazioni e nuovi balzelli?

Federare il vecchio continente sembra oggi un’impresa quasi disperata, residuo del sogno di visionari che hanno buttato l’occhio troppo lontano nel futuro. La crisi dell’Unione Europea può apparire a molti come una conferma che lo stato nazionale, erede di quello territoriale moderno, sia dopo tutto la forma più stabile di ordine politico, anche nell’età della globalizzazione dei mercati. L’anti-europeismo è imbastito su questa dottrina della sovranità assoluta degli stati. Per i teorici politici che situano lo stato all’apice della evoluzione dei gruppi umani associati, le forme federative o sono nuovi stati a loro volta o sono alleanze per ragioni di autodifesa la cui durata dipende dalla volontà e convenienza degli stati stessi. Quindi, o gli stati sono autonomi o non sono "stati". Questo schema modernista ha per decenni modellato la storia politica del mondo antico, immaginata come il tempo della nascita della polis indipendente proprio come uno stato secondo il dogma otto-novecentesco. Questa versione è stata smentita da ricerche molto puntuali che hanno dimostrato come le polis anziché essere entità autonome erano parti di ampie associazioni, forme federate, spesso nell’orbita egemonica di una polis centrale.

Come scrive Eva Cantarella nella prefazione al libro di Mogens Herman Hansen, Polis. Introduzione alla città-stato dell’antica Grecia (Università Bocconi Editore) con postfazione di Guido Martinotti, gli stati che gravitavano nelle costellazioni delle polis mediterranee erano né più né meno come gli stati europei oggi: individualmente nessuno di loro indipendente eppure indiscutibilmente "stati" che insieme cooperavano e si davano istituzioni comuni, come un esercito, una moneta, una divinità che li proteggesse tutti insieme, mentre individualmente avevano i loro sistemi di sicurezza e di governo delle loro popolazioni. Sovranità interna organizzata secondo le esigenze di politica domestica e sovranità esterna organizzata come sistema federato. Questa fu secondo Hansen, tra i più autorevoli storici e teorici politici dell’antichità, il modo organico di costituzione delle polis del Mediterraneo, un mondo di circa 4.500 città interrelate in qualche modo e con centri di riferimento che come costellazioni tenevano insieme gruppi di città. Il volume, uscito in inglese nel 2006 e appena tradotto dalla casa editrice bocconiana, è di straordinaria importanza. Raccoglie una sintesi dei risultati dell’enorme e complessa ricerca quantitativa e qualitativa sulle città e l’urbanizzazione messa in cantiere dalla Danimarca, che nel 1993 ha finanziato il Polis Centre affidandone a Hansen la direzione.

Il modello della città non appartiene solo al mondo mediterraneo, e greco in particolare, ma a tutti i continenti, ci racconta Hansen. Tuttavia la Grecia ci ha lasciato certamente il modello più straordinario e più documentato. Un modello federativo. E partendo da questa ipotesi Hansen ne formula altre, altrettanto suggestive e importanti: per esempio che la nascita delle istituzioni politiche non pare sia avvenuta al centro ma nelle colonie. La colonizzazione (per esempio quella greca nell’Italia meridionale) era un fenomeno diffuso nell’antichità. Consisteva nell’abbandono della madre patria di membri maschi della comunità che andavano a stanziarsi in un nuovo territorio, dove formavano una nuova città indipendente all’interno ma legata da stretti vincoli alla madre patria. I problemi associati alla nascita delle colonie (per esempio il rapporto conflittuale con le popolazioni locali che avevano lingua e tradizioni diverse) rendevano particolarmente urgente il bisogno di istituzioni politiche – cosicché non è fantasiosa l’idea di Hansen che le leggi scritte e le istituzioni di molte polis siano sorte proprio nella periferia, luogo dove non c’erano come nella madre patria tradizioni sedimentate che fungevano da norma e una popolazione omogenea linguisticamente.

La politica e le istituzioni dunque come soluzione di conflitti e stabilizzazione di equilibri di potere fra classi e popolazioni non omogenee. Il lavoro di Hansen sfata poi un altro pregiudizio, ovvero che le polis fossero mondi chiusi e che l’autogoverno crebbe insieme ad un’economia cittadina autarchica (con l’eccezione miracolosa di Atene). Hansen ci mostra che le polis erano centri di scambi, di commerci, di norme, un sistema di inter-dipendenza. L’ideale di federazione europea, che tanto preoccupa gli stati forti dell’unione (forse più di quanto non preoccupi quelli deboli) ha una matrice antica, certo pre-romana. L’idea che il Polis Centre di Hansen sostiene con l’apporto di dati statistici e analisi comparate conferma un’intuizione ideale che ha accompagnato la cultura federalista e repubblicana da Kant a Sismondi al nostro Spinelli. Che cosa resterà di questo ideale è difficile dire oggi; ma è probabile che chi dopo di noi studierà l’Europa potrà constatare che nel ventesimo e parte del ventunesimo secolo i suoi stati si coordinarono e organizzarono per meglio affrontare le sfide del loro tempo e darsi istituzioni comuni. Proprio come molti e molti secoli prima fecero le polis che si affacciavano sul Mediterraneo.

Non era mai successo. In mezzo secolo di bombe, mafia, terrorismo di destra e di sinistra, stragi di Stato o semplice racket malavitoso, nessuno aveva mai osato colpire le scuole. Ordigni sui treni, nelle stazioni, professori uccisi nelle aule universitarie, operai e giuslavoristi sparati sotto casa, carabinieri massacrati mentre uscivano da un bar dopo aver preso un caffé. Ma mai, qualche mente criminale e/o politica aveva preso di mira così gli studenti.

Perché tra le 7 e le 8,30, ogni mattina, milioni di ragazzi e ragazze vanno tranquillamente a scuola e milioni di genitori, ovviamente, si fidano e li affidano allo Stato che provvederà a educarli e custodirli nelle successive 4 o 5 ore. Questa grande rito che succede ogni mattina in Italia come nel resto del mondo, è uno dei momenti più normali ma anche più alti del rapporto tra Stato e cittadino. Tante cose, non vanno, in questo Paese, ma nessuno ha mai pensato che, al di là dei (purtroppo) "normali" pericoli della strada e della vita, si potesse finire a mandare a i figli a scuola con l'apprensione nel cuore. E non solo: quante scuole ci sono oggi, in Italia, intitolate a vittime della mafia, del crimine o del terrore. Centinaia, migliaia? E' possibile, è ammissibile, che dei genitori debbano finire a pensare che mandare i figli in scuole che portano quei nomi onorati ed eroici possa diventare fonte di pericolo invece che di orgoglio? Ecco un altro pezzetto di innocenza, di convivenza civile che ci viene portato via, strappato dalla pelle e dalle menti.

Chiunque sia stato, mafia o racket, terrorismo o altro, non è neanche detto che ci abbia pensato. Non è detto che sia stato così perverso e raffinato da rendersi conto di quello che stava colpendo, di come sarebbe andato in profondità nelle nostre insicurezze, di come avrebbe scavato nel tessuto sempre più lacerato di questo Paese. Ma è anche possibile che proprio questo volesse. Perciò è necessaria una risposta generale, davvero imponente e forte. Per dire, ancora una volta, che non dobbiamo aver paura, che non ci faranno paura.

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