La proposta governativa di accorpare alcune delle attuali province, per risparmiare soldi, potrebbe offrire l’occasione per una originale operazione culturale ed ecologica. I confini fra le regioni e le province italiane coincidono, in molti casi, con quelli fra gli stati esistenti prima dell’unificazione d’Italia del 1861. Molti di tali confini erano rappresentati dai fiumi che, in quei tempi, erano facilmente difendibili da una invasione nemica e rendevano facile controllare i commerci e riscuotere le imposte: ne sono esempi il Ticino fra Piemonte e Lombardia, il Po fra Veneto e Emilia, eccetera.
La cultura ecologica odierna ha invece riconosciuto che il fiume è punto non di divisione, ma di unione fra terre vicine e ha rivalutato l’importanza del bacino idrografico, quel territorio i cui confini, ben definiti geograficamente, coincidono con gli spartiacque dei monti e colline. Nel bacino idrografico, che comprende il fiume principale e i suoi affluenti, torrenti e fossi, si svolgono tutte le attività agricole, industriali, urbane; nel bacino idrografico vengono immessi tutti i rifiuti solidi, liquidi e anche gassosi, generati dalle attività umane, ma anche i prodotti dell’erosione dei terreni: Tutte le frazioni solubili dei rifiuti, dai residui dei concimi, a quelli industriali, ai rifiuti urbani, immessi nel bacino, si disperdono nelle acque superficiali e sotterranee e vengono trascinate dalle piogge verso il mare che funziona da grande collettore finale di tutti gli eventi ecologici ed umani che si sono svolti all’interno del bacino.
Soltanto nell’ambito di ciascun bacino idrografico possono essere organizzate le azioni di lotta all’inquinamento delle acque e di difesa del suolo mediante rimboschimento. Per inciso, l’acqua che scorre nei bacini idrografici italiani ha un “contenuto di energia rinnovabile” di circa 200 miliardi di chilowattore all’anno, ma di queste solo una quarantina è prodotta oggi come energia idroelettrica.
L’importanza del fiume e del bacino idrografico ai fini dell’amministrazione del territorio fu riconosciuta dall’assemblea costituente della Repubblica nata dalla Rivoluzione francese del 1789; un gruppo di geografi ebbe l’incarico di dividere il territorio francese in dipartimenti a ciascuno dei quali fu dato il poetico nome del fiume principale o della montagna; così da allora si hanno i Dipartimenti della Mosa, della Mosella, dell’Alta Loira, del Basso Reno, eccetera, un centinaio più o meno come le province italiane attuali. Lo stesso criterio fu applicato ai territori italiani ”sotto” la Francia, nacquero così i Dipartimenti dell’Olona (con capoluogo Milano); del Serio (capoluogo Bergamo); del Brenta (capoluogo Padova); del Basso Po; del Reno (capoluogo Bologna); del Taro, dell’Arno (capoluogo Firenze), dell’Ombrone (capoluogo Siena), eccetera. In Francia i dipartimenti col nome di fiumi sopravvivono da due secoli, in Italia furono cancellati dalla restaurazione del 1814.
Nell’attuale divisione amministrativa dell’Italia, i fiumi e i bacini idrografici sono frazionati fra regioni e province vicine, ciascuna delle quali può condurre una politica ambientale differente, al punto che certe attività possono essere vietate su una riva di un fiume e permesse sull’altra riva se questa è “sotto” un’altra regione. Soltanto nel 1989 fu emanata una legge di difesa del suolo e delle acque che prevedeva che le attività nell’ambito di ciascun bacino idrografico, anche se esso si estendeva nel territorio di differenti regioni o province, dovesse essere gestita da speciali autorità di bacino che avrebbero dovuto coordinare le iniziative e pianificare (la legge usava proprio questo termine) gli interventi e le spese, costringendo le regioni a decidere insieme quello che occorreva fare o non fare nel bacino idrografico che ricadeva nei rispettivi territori.
La legge non ebbe mai effettiva applicazione e poi è stata sostituita da altre; la diffusione di una “cultura” di bacino idrografico, quella che avrebbe potuto portare ad una solidarietà fra gli abitanti di ciascun bacino, indipendentemente dalla regione di appartenenza, si è sempre scontrata con interessi politici e amministrativi locali. Ebbene: nella suddivisione e riaggregazione delle varie province i nuovi confini potrebbero coincidere con quelli dei bacini idrografici, magari assegnando alle nuove province il nome del fiume principale. Tanto per fare un esempio, le province di Foggia, Barletta, Andria, Trani potrebbero diventare, senza far torto a nessuno, una “Provincia dell’Ofanto”. Perugia e Terni hanno in comune il bacino dell’”Alto Tevere”; Siena e Grosseto “appartengono” al bacino dell’Ombrone; La Spezia (Liguria) e Massa Carrara (Toscana) hanno in comune il bacino del Magra-Vara (e che siano state costrette a lavorare insieme si è visto nell’alluvione dell’ottobre 2011).
Nel gran fermento di proteste per lesi interessi locali, la presente modesta proposta può sembrare una bizzarria. Forse il governo potrebbe consultare un gruppo di storici e geografi per verificare se è possibile trasformare una operazione di risparmio di soldi, in una duratura riforma amministrativa, culturale e ambientale.
La proposta di Giorgio Nebbia ha un triplice significato positivo: (1) riproporre, come base delle decisioni sul territorio che ne comportano le trasformazioni e l loro governo, la sua natura propria (e il territorio non è una macchina per far quattrini, ma la dimora dell’umanità e di molte altre specie; (2) nel sottolineare, in qualunque discorso o dispositivo che concerna il territorio, il ruolo delle acque che sono, un bene primario per tutti (“universale” più che “comune”); (3) invitare a porre il ragionamento, e le decisioni, sulle province e il loro abbandono su una base appena un po’ più razionale di quella del letto di procuste e delle determinazioni esclusivamente quantitative, e per di più meramente finanziarie e congiunturali.
La questione è: quali sono i problemi del territorio (come città dei cittadini, e non come mero supporto all’incremento di un PIL drogato dalle rendite) che richiedono un governo d’area vasta, e quindi una visione e un insieme di politiche per le quali sia la dimensione locale che quelle sovraordinate – comprese la nazionale e la regionale – si sono rivelate fin dall’inizio incompetenti. Nebbia sottolinea il ruolo delle acque, ed è certamente di grande rilievo, ma non è la sola questione che richiede un governo (e un’istituzione) d’area vasta. C’è poi quello della mobilità e dei trasporti, dell’abitazione, delle attrezzature e dei servizi intercomunali e sovralocali, quello della gestione dei rifiuti e via enumerando.
su eddyburg ci sono numerosi scritti che illustrano le ragioni del governo d’area vasta, del ruolo delle province e di quello della pianificazione territoriale (generale e specialistica)in relazione a qesti problemi. Qui di seguito ne indichiamo qualcuno, Sono una testimonianza del modo in cui se ne discusse, e dei risultati che si raggiunsero nei decenni che precedettero quelli torpidi e insensati nei quali ancora viviamo, sempre più a fatica.
Livelli di pianificazione e livelli di governo, Intervento, Bologna 1984 piano d’area vasta nell’esperienza di Salerno, saggio, Pianificazione e paesaggio nel Mezzogiorno, saggio, Piano per la regione metropolitana di Parigi, Lucio Gambi e la riforma delle circoscrizioni amministrative
Dopo il terremoto che ha colpito Emilia e Lombardia, si affaccia il pericolo che le mafie possano approfittare della situazione di emergenza per investire i soldi provenienti da traffici illeciti nella ricostruzione delle città colpite dal sisma. «La mafia gli affari li fa solamente con il famoso tavolino a tre gambe», spiega Lucia Musti, procuratore aggiunto della procura della Repubblica di Modena e pubblico ministero per diversi anni alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna,«nel senso che una di esse deve essere per forza la politica a livello locale, ossia gli amministratori comunali».
Qualche settimana fa è stato siglato in Regione un protocollo di legalità per la ricostruzione: è la conferma che l’appetito delle mafie è forte?
Le mafie fanno impresa. L’operatività in diversi settori economici costituisce ormai il primo sbocco dell’attività della criminalità organizzata. La mafia seria è quella imprenditrice, che agisce silenziosamente e non è certo quella che spara. È quella che ricicla, reimpiega in attività legali fiumi di denaro provenienti da attività illecite come il traffico di stupefacenti, l’organizzazione del gioco clandestino, lo sfruttamento della prostituzione. I terremoti, che ahimè costellano la storia del nostro Paese, sono certamente un veicolo di reinvestimento sicuro per le mafie e quindi lo è, potenzialmente, anche quello che ha colpito l’Emilia.
Ne parla come si trattasse di un fatto ineluttabile.
Le racconto un fatto che chiarisce bene il mio pensiero. Durante il terremoto de L’Aquila, al tempo in cui ero pubblico ministero della Dda di Bologna e dunque con competenza regionale, mi furono inviati degli atti da una collega di Reggio Emilia. Si trattava di intercettazioni svolte nell’ambito di indagini su un banale traffico di stupefacenti locale, che contenevano una telefonata tra un casalese ed un appartenente alla ‘ndrangheta. Ebbene, i due si stavano organizzando per andare a L’Aquila a far visita a un certo amico assessore di un certo Comune, al fine di pianificare l’inserimento di aziende affiliate alle rispettive organizzazioni nella ricostruzione post terremoto.
Questo evidenzia anche come senza la collaborazione istituzionale gli affari la mafia fa fatica a farli.
Certo. Gli affari la mafia li fa solamente con il famoso tavolino a tre gambe, nel senso che una di esse deve essere per forza la politica a livello locale, ossia gli amministratori comunali. Da questo punto di vista, non intravvedo il rischio che la mafia trovi sponde istituzionali nei territori funestati dal terremoto.
Resta però il fatto che la mafia è presumibile si stia organizzando per tentare di avere un ruolo nella ricostruzione.
È evidente. Le mafie si mobilitano e si organizzano rapidamente. Per loro è una fortuna che ci siano i terremoti, in particolare in zone come queste, ad alta capacità produttiva e dove c’è un’esigenza fortissima di riprendere a produrre nel più breve tempo possibile.
Da chi dobbiamo guardarci in particolare?
I mafiosi non abbiamo bisogno che vengano da fuori, ce li abbiamo in casa: gli affiliati ai casalesi ed alla ‘ndrangheta, i cutresi in particolare, sono già presenti in Emilia Romagna da anni. Sono attivi soprattutto nell’industria del mattone e quindi già pronti a intervenire nel processo di ricostruzione. È un fatto storico che in Emilia Romagna ci sono insediamenti mafiosi, qualcosa in più di una semplice infiltrazione, qualcosa in meno di un vero e proprio radicamento. Le Autorità costituite non possono più chiudere gli occhi, della serie “non vedo, non sento, non parlo” come le tre scimmie sagge…
E quale è la fetta della torta della ricostruzione che le mafie cercheranno di aggredire?
L’ambito dove le mafie possono “mangiare” più facilmente è quello della ricostruzione privata, perché in tale settore è più basso il livello di controlli. Rispetto alle gare pubbliche, la nuova legislazione in materia sicuramente costituisce un filtro all’inserimento da parte di ditte affiliate, poichè crea le condizioni per cui sia possibile ricostruire con precisione tutta la filiera di appalti e subappalti. Poi la normativa in tema di tracciabilità del denaro è un serio ostacolo alle operazioni di riciclaggio e di reimpiego di denaro illecito in attività economiche.
C’è però da considerare che i capi-clan e gli affiliati difficilmente sono a capo delle aziende.
In effetti facciamo i conti con il fatto che le mafie non sono fatte da personaggi che girano con la coppola in testa, privi di istruzione scolastica, ma si reggono anche su professionalità di alto livello (notai, commercialisti, ingegneri, progettisti, eccetera), che mettono appunto a disposizione dei clan competenze e cognizioni. Questo per dire che i clan sono tutt’altro che sprovveduti e cercheranno di aggirare i protocolli ed eludere la normativa. E poi, in genere ci sono i cosiddetti uomini di paglia, le teste di legno in prima linea nella gestione degli affari. Il rischio più grande è che ci sia anche la società di legno, costituita con i crismi della legalità, ma dietro la quale si celano situazioni di malaffare.
Lei crede che le istituzioni regionali e locali, al di là delle dichiarazioni di intenti, profonderanno uno sforzo straordinario perché la ricostruzione non sia inquinata dalle aziende dei clan?
Secondo me sì. Le Istituzioni ora hanno consapevolezza del tema. Consideri che pur tardivamente e dopo quello che io definisco un lungo periodo di sonno, la Regione, per merito in particolare di Simonetta Saliera, vicepresidente della giunta Errani, ha varato due leggi importanti sul contrasto della criminalità organizzata. Una di queste ha stanziato delle risorse per promuovere la cultura della legalità tra le giovani generazioni e questo è essenziale. C’è insomma una nuova consapevolezza sul tema, confermata e rafforzata dalla presenza di una vasta platea di associazioni impegnate contro le mafie.
Sul fronte delle gare pubbliche, molto dipenderà dalla volontà e capacità del Commissario straordinario di evitare ogni possibile contaminazione da parte della malavita organizzata.
Il protocollo siglato rappresenta una dichiarazione di intenti, che va necessariamente tradotta in atti concreti conseguenti. È comunque un primo passo importante. Ciò a fronte di un governo regionale che, allo stato, pare essersi comportato nel rispetto della legalità.
La fame di credito da parte di chi vuole ricostruire velocemente per ripartire al più presto può essere un ulteriore terreno fertile per i clan?
Il rischio che la malavita organizzata faccia, come si suol dire, da banca alternativa, è effettivo. Con la evidente conseguenza per cui la messa a disposizione di somme di denaro a tassi usurari, potrebbe dare luogo a situazioni di asservimento alla malavita organizzata e di inquinamento del tessuto economico-produttivo. Rendiamoci conto che il mercato del credito parallelo è nelle mani dei clan e purtroppo, in una situazione come questa, è più facile che il denaro venga ottenuto da questo canale che da canali ufficiali.
Un’ultima domanda, dottoressa Musti: la mafia può essere vinta?
La mafia esisterà fino a quando esisterà l’essere umano. Guardi non si tratta di avere un atteggiamento arrendevole, quanto invece consapevole del valore del “nemico”. Conosco le potenzialità della mafia, gli strumenti che utilizza. Più andiamo avanti, più crescono gli strumenti della malavita organizzata e più diminuiscono quelli a disposizione dello Stato, che tuttavia fonda la sua più grossa offensiva sul diffuso senso del dovere da parte delle forse dell’ordine e della magistratura. È preferibile un atteggiamento concreto, continuare a lavorare e tenere sempre alta la guardia con la consapevolezza che per il contrasto alle mafie non basta solo l’impegno di coloro che sono preposti a tale compito, ma è necessario anche il sostegno della collettività e la più ampia diffusione della cultura della legalità.
Fissati i criteri per le Province, il cammino per ridurne il numero e per accorpare territori ora divisi è ancora lungo. Il Consiglio dei ministri ieri mattina ha deciso che sopravviveranno solo le Province con almeno 350mila abitanti e una superficie di 2.500 chilometri quadrati: delle attuali 107 ne rimarrebbero solo 43. La situazione sarebbe paradossale, specie per alcune Regioni come la Toscana che rimarrebbero con la sola Firenze o la Sardegna con la sola Cagliari, oppure altre in cui di due Province ne rimarrà una sola che coincide con la Regione (Perugia per l’Umbria, Campobasso per il Molise). Le Province più piccole invece saranno accorpate, ma sul chi e come il dibattito è già aperto. Il Consiglio dei ministri ha dato infatti poi il via libera alla creazione di Città metropolitane (in rigoroso ordine alfabetico Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Torino, Venezia) che potranno poi assorbirne altre. Gli obbrobri geografici poi si sprecano: la Romagna ad esempio avrebbe la sola Ravenna, Pisa e Livorno dovrebbero unirsi. Poi ci sono tutte le Province che non rientrano nei parametri per pochissimo: Viterbo ad esempio per soli 30mila abitanti o Latina per 49 chilometri quadrati. Probabili quindi deroghe e lunghe discussioni.
Nei prossimi giorni il governo trasmetterà la deliberazione al Consiglio delle autonomie locali (Cal), istituito in ogni Regione e composto dai rappresentanti degli enti territoriali (in mancanza, all’organo regionale di raccordo tra Regione ed enti locali). La proposta finale sarà trasmessa da Cal e Regioni interessate al governo che provvederà all’effettiva riduzione delle Province promuovendo un nuovo atto legislativo che completerà la procedura. Secondo il ministro Patroni Griffi alla fine il riordino potrà portare «intorno alle 40 Province e alle 10 città metropolitane», realizzata
«con legge», mentre sui tempi si punta «a concludere il processo normativo entro il 2012», precisando però «che si può fare anche prima».
Il giudizio dell’Unione delle Province è però positivo: «Il varo della delibera spiega il presidente dell’Upi Giuseppe Castiglione dà il via ad un processo di riforma istituzionale dal quale ci auguriamo esca una Italia più efficiente con una amministrazione più moderna. I parametri stabiliti consentono alle Province che nasceranno di potere svolgere il loro ruolo di enti di governo di area vasta. Il governo ha colto la nostra richiesta di non abolirle continua Castiglione ora spetta al Parlamento assicurare che il percorso avvenga lasciando spazio ai territori: tutte le Province, quelle delle Regioni a statuto ordinario come di quelle a Statuto speciale (per loro varranno le prerogative previste dai rispettivi Statuti: in Sardegna la legge costituzionale dell’Isola prevede Cagliari, Sassari e Nuoro, ndr) con il riordino degli uffici periferici dello Stato intorno alle nuove Province. Il ruolo dei Consigli delle Autonomie locali conclude Castiglione diventa determinante, perché sarà attraverso la condivisione delle decisioni tra Regioni, Province e Comuni che si dovrà portare a termine tutto il percorso».
«BENE LE CITTÀ METROPOLITANE»
Articolato il giudizio del Pd. «Bene le città metropolitane, ma sulla semplificazione delle Province il governo poteva anche osare di più commenta Davide Zoggia, responsabile Enti locali In questo senso il Pd aveva avanzato alcune proposte. In ogni caso, ora è necessario che il riordino concreto degli enti intermedi venga realizzato con il coinvolgimento delle Regioni e dei Comuni, avendo come punto di riferimento, oltre ai criteri numerici, l'efficienza dei servizi reali per i cittadini».
Contento per la conferma delle Città metropolitane è Nicola Zingaretti: «Il via libera alla Città Metropolitana di Roma rappresenta una grande vittoria per chi, come noi, si è battuto fin dal primo giorno per questa prospettiva: finalmente una scelta che colma un vuoto e una nuova opportunità per tutto il Paese», dichiara l’attuale presidente della Provincia di Roma e neo-candidato sindaco alla Comune, anzi, quasi certamente già Città metropolitana di Roma.
Con nomi diversi, con caratteristiche proprie di ciascuna specifica civiltà giuridica, la Corte suprema svolge spesso il compito di tenere a freno gli impulsi più classisti del potere politico ed economico di riferimento. Lo ha fatto la Corte negli Stati uniti in difesa della riforma sanitaria di Barack Obama, in Germania la Corte di Karlsruhe ha tenuto duro sul reddito di cittadinanza e in questi ultimi giorni resiste, estremo baluardo europeo, contro il Fiscal compact e contro l'Ems - Meccanismo europeo di stabilità. E in questo è stimolata da Die Linke: segno che perfino in Germania, prima di cedere, la sinistra non rinunciataria le tenta tutte.
In Italia - ieri - un nuovo segnale dalla Corte Costituzionale. La nostra «Consulta» ha addirittura messo in salvo il patto tra cittadini rappresentato dai referendum di un anno fa, i famosi referendum sull'acqua pubblica. Nel sistema italiano un referendum è un secondo modo, diretto, per fare una legge, a fianco dell'altro, più tradizionale, svolto dalle rappresentanze parlamentari. Serve una legge esistente (da abolire), la raccolta di mezzo milione di firme e il voto della maggioranza degli elettori. I poteri forti, nel loro alternarsi, sono rimasti compatti almeno su un punto. Ai referendum non hanno mai creduto, l'hanno sempre scambiati per un giorno di vacanza, un grasso martedì di carnevale, per poi non farne niente, tornare alla politica vera, all'economia delle spartizioni decisive.
Anche in questo caso: i governi, nell'anno successivo ai referendum sull'acqua, hanno scelto la linea di minimizzarne l'esito, tranquillizzare le imprese, nazionali e multinazionali: «Niente cambia, tutto come prima», assicurando i loro decisivi interessi idrici nella futura irrimediabile siccità. L'acqua come grande business promesso per i cent'anni avvenire, con lauti profitti sicuri; l'acqua dolce, privata, da catturare e mettere in circolo, a disposizione dei popoli, delle città, delle famiglie, purché in grado di pagare le salate bollette. Certo i governi di Roma hanno giocato sulle parole e sulle frasi dei referendum in attesa che non fossero del tutto dimenticate, ma nella sostanza hanno spiegato ai futuri padroni dell'acqua che non c'era spazio per ogni e qualsiasi fantasia legata a stravaganti beni comuni, anzi alla "Tragedia dei beni comuni", secondo l'insegnamento di tanti anni fa e ancora per loro validissimo, di Garrett Hardin.
La decisione della Corte italiana, sulla base della richiesta di sei regioni, ha sconvolto i piani. Gli interventi dei quotidiani importanti, a parte la felicità espressa da Mattei e Lucarelli sul nostro manifesto, per conto di noi tutti, hanno mostrato fino in fondo il disorientamento dei grandi poteri. Dopo tutto i beni comuni esistono, o almeno alla Corte costituzionale ci credono, è stata la prima riflessione, seguita dalla seconda: «e adesso che si fa»? L'idea di dover fare i conti con qualcuno (milioni di schede, la maggioranza dei cittadini) e con qualcosa (una scelta opposta alla loro, generosa, solidale) li manda in tilt. Chi glielo dirà ai banchieri dell'acqua, ai boss delle spiagge, del cemento, dei rifiuti, dei tunnel, dei rigassificatori, del petrolio e a chi compra e vende pezzi di natura, che le cose stanno cambiando?
IL LORO arrivo potrebbe compensare la fuoriuscita di capitali speculativi. Quei capitali che abbandonano i nostri Btp per rovesciarsi sui Bund tedeschi, e sono perfino disposti a pagare (interesse negativo) pur di rifugiarsi nella “cassetta di sicurezza” del Tesoro di Berlino. “Cento, mille Valentino!” sembra il nuovo slogan del governo italiano: fa sognare l’operazione da 700 milioni con cui il Qatar ha assunto il controllo della celebre casa di moda. Monti si è spinto sulle montagne dell’Idaho, pur di corteggiare i big del capitalismo hi-tech,
sperando che vogliano investire in casa nostra. Ma quali sono le possibilità concrete di attirare questi capitali produttivi? E chi sono i Signori dell’investimento estero corteggiati da tutti i governi?
Il club dei fondi sovrani vede nei primi 10 posti asiatici e arabi. Unica eccezione la Norvegia. Domina la Cina che tra la State Administration of Foreign Exchange (Safe) e la China Investment Corporation (Cic) amministra oltre mille miliardi di dollari, a cui si aggiungono 300 miliardi di Hong Kong. Seguono gli Emirati arabi uniti che da Abu Dhabi gestiscono 627 miliardi. Poi la Norvegia 593 miliardi, l’Arabia saudita 533, Singapore 400, il Kuwait 296, il Qatar 100 miliardi. Australia e Brasile figurano tra gli inseguitori. La loro liquidità cresce a vista d’occhio, in parallelo con l’attivo commerciale della Cina o i surplus petroliferi dei paesi arabi. Da un anno all’altro gli investimenti dei fondi sovrani nel mondo intero sono cresciuti del 42%. Spesso sono interessati a diventare azionisti stabili (vedi il caso Valentino), non a fare operazioni mordi-e-fuggi.
Attenzione però a non farsi illusioni: ci siamo già cascati. Quasi un anno fa, nel settembre 2011, sembrò che i cinesi della Cic fossero attirati dall’Italia, sia per comprare Btp che partecipazioni nelle nostre aziende. Ci fu all’epoca una grande eccitazione, protagonista l’allora ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: proprio colui che aveva indicato nella Cina “la causa di tutti i nostri mali”. Tremonti accolse a braccia aperte il presidente della Cic, Lou Jiwei. Il suo braccio destro, Grilli, si recò a Pechino per corteggiare l’altro fondo sovrano, Safe. I più esperti di “sovranologia” ci ammonirono già allora: non scambiate le manifestazioni d’interesse
per un voto di fiducia verso l’Italia. Avevano ragione. Le speranze si sono rivelate eccessive. Gli investimenti cinesi o arabi in casa nostra restano un rigagnolo rispetto ai flussi che si dirigono altrove.
Per un caso Valentino che fa notizia in Italia, in Francia il Qatar ha fatto ben di più: è entrato nel capitale delle società di servizi urbani e utilities Suez Environment, Veolia, Vivendi. Sempre il Qatar è primo azionista
del gruppo Lagardère (media e tecnologie militari). E’ in trattativa con Starwood per comprare una catena di hotel di lusso francesi. In altri paesi europei il Qatar è azionista di Volkswagen, Harrod’s, Credit Suisse, Shell. Perché l’Italia resta una Cenerentola, rispetto alle nazioni europee? La ragione è svelata in uno studio del Sovereign Investment Lab della Bocconi, un’autorità in materia che viene citata dal Financial Times.
«I fondi sovrani — si legge nel rapporto — privilegiano i grandi gruppi, e quelli che hanno una presenza significativa sui mercati emergenti di Asia e America latina». Ecco spiegate le nostre delusioni. Paghiamo le fragilità strutturali del capitalismo italiano: abbiamo pochissime grandi aziende; e abbiamo accumulato ritardi nell’espanderci sui mercati emergenti. Non a caso una delle poche aziende che attirano i fondi sovrani è la Snam, corteggiata da Abu Dhabi e Qatar grazie alla sua presenza internazionale; così come la Fincantieri per la sua notorietà nel mercato degli yacht. Il bilancio è deprimente: anche se il 36% delle società quotate alla Borsa di Milano ha un fondo sovrano tra gli azionisti, per ora sono briciole, l’investimento totale arriva appena al2% della capitalizzazione di Borsa italiana. Se le nostre aziende sono in maggioranza nane e provinciali, non altrettanto può dirsi del Tesoro: abbiamo il quarto debito pubblico del pianeta. A febbraio ci fu una fugace attenzione dell’Asia verso i nostri Btp, mostrarono un interesse inedito la terza banca giapponese, il primo gruppo finanziario coreano, la prima compagnia assicurativa di Taiwan, attratti da rendimenti cinque volte superiori a quelli asiatici. Ma il fascino dei Btp è durato poco. Perché? Ogni volta che lo spread torna a salire, quegli investitori istituzionali subiscono perdite pesanti in conto capitale. A differenza del singolo risparmiatore, che può tenersi i Btp fino a scadenza incassando le cedole, i grossi investitori devono segnare sui propri bilanci ogni variazione nel valore corrente dei Btp. E quando il rendimento di mercato sale, rispetto ai vecchi Btp, questi ultimi perdono
valore.
Restano le multinazionali. Benché i fondi sovrani siano il fenomeno più recente, il maggior volume di investimenti esteri diretti viene ancora dalle grandi imprese globali. Sono quelle che Monti è andato a corteggiare a Sun Valley: Apple, Google. Più i colossi tradizionali, da Nestlé a Coca-Cola a Sony. L’Italia non appare neppure tra le prime 20 destinazioni dei loro investimenti. Ci superano non solo gli Stati Uniti e i Brics, non solo Germania e Francia, ma perfino il Belgio. Uno studio della Columbia University ci ammonisce: manca a Roma un approccio sistemico, olistico, che intervenga su tutti i fattori di appetibilità dell’Italia inclusa la politica delle infrastrutture, la burocrazia, la giustizia civile.
Quasi nessuno, tra i politici italiani, e in particolare tra quanti sostengono Monti, sembra propenso a pensare che il declassamento notificato venerdì da Moody’s sia in connessione con l’annuncio di un ritorno di Berlusconi alla guida dell’Italia. Ritorno confermato da Alfano due giorni prima, ma da tempo evocato, invocato, dai fan dell’ex premier sui siti web. C’è stata invece un’unanime insurrezione, molto patriottica e risentita, e l’inaffidabilità delle agenzie di rating (Moody’s, Standard & Poor’s) è stata non senza valide ragioni denunciata: le stesse agenzie che sono all’origine della crisi scoppiata in America nel 2007, continuano infatti a dettar legge, fidando nell’oblio di cittadini, governi, istituzioni internazionali. Ciononostante, quel che veramente conta resta nell’ombra: non in Italia, ma ovunque in Europa, il verdetto di Moody’s (che pure non nomina il fondatore di Forza Italia) viene d’istinto associato all’infida maggioranza di Monti, e più specialmente alla decisione di Berlusconi di tentare per la sesta volta la scalata del potere: per ridiventare premier o salire al Quirinale, ancora non è chiaro. Monti sarebbe insomma un interludio, non l’inizio di una rifondazione della Repubblica.
È quanto dicono le radio francesi, gli editoriali sulla
che senza infingimenti adombra la possibilità di una ricomparsa in Italia del
Der Pate, Teil IV,
il Padrino parte IV: il nomignolo, si aggiunge, è da anni diffuso in Europa. Accade spesso che lo sguardo esterno dica verità sgradevoli a Paesi che da soli non osano guardarsi allo specchio: è successo nell’Italia postmussoliniana come nella Francia dopo il fascismo di Pétain. La
Sueddeutsche
chiede che l’Europa lanci «un segnale chiaro: con Berlusconi il Paese si riavvicinerà al baratro», e non a causa dei festini a Arcore. Il commentatore Stefan Ulrich non sarà probabilmente ascoltato, perché purtroppo così stanno le cose nell’Europa della moneta unica: paradossalmente i governi autoritari godono di margini più ampi di libertà, da quando le loro economie sono tutelate da Bruxelles.
I parametri finanziari vengono prima della democrazia. L’Unione s’allarma assai più del bilancio greco che dello Stato di diritto calpestato in Ungheria, Romania o Italia, ottusamente trascurando i costi immensi della non-democrazia, della corruzione, dell’impunità, della consegna alle mafie di territori e attività economiche. Resta lo sguardo severo, molto più del nostro, che da fuori cade su di noi. Si pensi al candore con cui l’economista Nouriel Roubini dice, a Eugenio Occorsio su
la Repubblicadel
15 luglio: «Sicuramente Monti ha molto credito presso la Merkel, infinitamente più del suo predecessore che si faceva notare solo per la buffoneria e i comportamenti personali diciamo eccentrici. Guardate che i mercati stanno cominciando a considerare con terrore l’ipotesi di un ritorno di Berlusconi al potere. Sarebbe un incubo per l’Italia, per il suo spread e per il suo rating. So per certo che la Merkel non vorrebbe neanche guardarlo in faccia».
C’è dunque qualcosa di malsano nella rabbia suscitata in Italia da Moody’s, quali che siano gli intrallazzi dell’agenzia. C’è una sorta di narcotizzata coscienza di sé. Una nube d’oblio ci avvolge, coprendo pericoli che altri vedono ma noi no: il rientro di Berlusconi è considerato dagli italiani o normale, o un incidente di percorso. Significa che da quell’esperienza non siamo usciti. Che questo governo, troppo concentrato sull’economia e troppo poco su democrazia e diritto, non incarna la rottura di continuità che pareva promettere.
Non ne sono usciti i partiti, se l’unico aggettivo forte è quello di Pier Luigi Bersani: «agghiacciante». Che vuol dire agghiacciante? Nulla: è il commento di un passante che s’acciglia e va oltre. Più allarmante ancora l’intervista che Enrico Letta (vice di Bersani) ha dato alCorriere della Serail 13 luglio, e non solo perché preferisce «che i voti vadano al Pdl piuttosto che disperdersi verso Grillo» (le accuse rivolte a Grillo possono esser rivolte a gran parte del Pdl e alla Lega). La frase più sconcertante viene dopo: «Non vorrei che si tornasse alla logica dell’antiberlusconismo e delle ammucchiate contro il Cavaliere». Per la verità, di ammucchiate antiberlusconianese ne sono viste poche in 18 anni. Altro si è visto: la condiscendenza verso il Cavaliere, la rinuncia sistematica, quando governava la sinistra, a tagliare il nodo del conflitto d’interessi e delle leggi ad personam. Non solo: l’ascesa di Berlusconi fu permessa, favorita, nonostante esistessero leggi che avrebbero potuto allontanare dal potere un grande magnate dei mezzi di comunicazione. Fu Violante, il 28 Febbraio 2002 alla Camera, a rivelare i servizi fatti dai Ds a Berlusconi: «Per certo gli è stata data la garanzia piena,non adesso ma nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni, questo lo sa lui e lo sa Gianni Letta. Comunque la questione è un’altra: voi ci avete accusato di regime, nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, avessimo aumentato di cinque volte durante il centrosinistra il fatturato di Mediaset». Morale (o meglio immorale) della storia: Berlusconi poté candidarsi nonostante un decreto (30 marzo 1957, n° 361) che dichiara
ineleggibili i titolari di pubbliche concessioni.
Questo significa che il primordiale male italiano (l’assenza di anticorpi, che espellano da soli le cellule malate senza attendere i magistrati o la Corte costituzionale) resta non sanato. Che un esame del berlusconismo tuttora manca. Il conflitto di interessi è anzi diventato normale, da quando altri manager «scendono in campo». Montezemolo sarà forse candidato, e nessuno l’interroga sugli interessi in Ferrari, in Maserati, nel Corriere della Sera,nel Nuovo trasporto viaggiatori (Ntv). Il silenzio sul suo conflitto d’interessi banalizza una volta per tutte quello di Berlusconi. Non è antipolitica, la convinzione che i manager siano meglio dei politici?
Viene infine il governo. Un governo di competenti, che non sembrano attaccati alla poltrona. Una persona come Fabrizio Barca lavora senza pensare a carriere politiche. Dice addirittura che per fare riforme per la crescita servono «visioni del capitalismo che solo un mandato elettorale può attribuire», e solo un «governo nato da una competizione elettorale vera» può attuare (la Repubblica,
) 15 luglio.
Monti ha fatto molto per ridare credibilità all’Italia. Quando parla dell’Unione, è senza dubbio più preparato di Hollande e della Merkel. Ma a causa della maggioranza da cui dipende, molte cose le tralascia. Ha tentato di restituire indipendenza alla Rai, ma sulla giustizia i compromessi sono tanti: a cominciare dalla legge contro le intercettazioni che potrebbe passare que-st’estate, fino ai legami tuttora torbidi che conferiscono al clero un potere abnorme sulla politica.
L’ultimo episodio riguarda la Banca del Vaticano, lo Ior. Risale al 4 luglio l’ordine che il governo ha dato alle autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia, invitate a dire quel che sapevano sui traffici illeciti dello Iot, affinché tenessero chiusa la bocca in una riunione degli ispettori di Moneyval, l’organismo antiriciclaggio del Consiglio d’Europa convocato a Strasburgo. Talmente chiusa che Giovanni Castaldi, capo dell’Unità di informazione finanziaria (Uif, organo di Bankitalia), ha ritirato i suoi due delegati dall’incontro.
Gli anticorpi restano inattivi, se certe abitudini persistono. Se il governo si piega a poteri non politici. Se lascia soli i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia. Se non garantisce che il vecchio non tornerà. Non solo il vecchio rappresentato dal debito pubblico. Anche il vecchio che per anni ha offeso lo Stato di diritto. Possibile che Il Padrino-Parte IVsia un film horror per i giornali tedeschi, e non per gli italiani?
Paolo Berdini Calcio e politica all'ultimo stadio
L’affarismo esce daglistadi e invade il territorio. O viceversa? Forse un feice incontroIl manifesto, 16 luglio 2012
L'effetto Europei di calcio ha dato i frutti sperati. Chissà se fuori dell'agenda protocollare se ne è parlato anche nella cerimonia di ringraziamento generosamente concessa al Quirinale: fatto sta che a quindici giorni dal fischio di chiusura del campionato europeo, alla camera dei deputati è stato approvato il provvedimento di legge che concede alla società di calcio la facoltà di realizzare, in deroga a qualsiasi regola urbana, nuovi stadi, ipermercati, alberghi e alloggi. Insomma, la solita overdose di cemento.
La legge sugli stadi in discussione alla camera parte con tutta evidenza da un presupposto oggettivo: il deficit della squadre di calcio è arrivato a una voragine pari a un miliardo di perdita nei tre campionati, dovuti a spese folli e a gestioni irresponsabili.
Nella nostra società a dominio finanziario, questo enorme debito mette in affanno le già affannate banche. Chi non ricorda la complessa trattativa sulla vendita della Roma Calcio effettuata lo scorso anno sotto la regia di Unicredit, fortemente esposta con la società calcistica romana. Che di legge a favore della speculazione immobiliare si tratti non c'è dubbio. Sempre le statistiche della Lega calcio ci dicono che gli introiti delle partite rappresentano soltanto il 18 per cento dei bilanci societari, mentre soltanto i diritti televisivi valgono più del 50 per cento. Non saranno dunque i nuovi stadi a rimettere a posto i bilanci delle società calcistiche, la legge approvata alla camera è l'ennesimo regalo al sistema bancario.
Ne saranno felici Monti, Passera e i ministri che provengono da quel mondo. Ma non ne saranno felici i milioni di cittadini che in ogni città italiana vedranno crescere, in luoghi incontaminati in aperta campagna, nuovi quartieri strade e, forse, anche gli stadi.
Si dirà che questo è un quadro fosco, o prevenuto. Basta allora ripercorrere l'incredibile vicenda avvenuta a Roma nel mese di aprile, quando è apparso su tutta la stampa nazionale un bando per cercare le aree dove costruire lo stadio della Roma Calcio promosso dalla Cushman & Wakefield, società controllata dalla Exor della galassia Fiat. Evidentemente chi non sa più produrre automobili sa invece come produrre plusvalenze immobiliari, perché la Cushman & Wakefield chiedeva ai proprietari delle aree la loro disponibilità ad alloggiare il nuovo stadio della Roma compreso albergo, ipermercato e quant'altro. L'importante era avere dieci ettari di territorio incontaminato.
Questo è il provvedimento che è stato approvato alla camera dei deputati e che sta per essere inviato al senato, speriamo soltanto che ci sia un sussulto da parte di alcuni dei partiti, in particolare di chi fa opposizione al governo Monti, e da coloro che all'interno del partito democratico, come Roberto Della Seta, sono risolutamente indipendenti dalla cultura che domina quel partito. La legge andrà in discussione al senato e speriamo che invece di continuare con il sistema delle deroghe si ricominci a parlare di ripristinare le regole e a mettere i bisogni sociali al primo posto dell'agenda politica
DAI mercati finanziari italiani sono arrivate venerdì tre buone notizie: i Bot a dodici mesi sono stati oggetto di ampia domanda e collocati a tassi molto più bassi rispetto a quelli registrati appena un mese fa; i Btp a tre anni hanno avuto anch'essi notevole successo e anch'essi hanno segnato un tasso inferiore di un punto rispetto a giugno. Infine la Borsa di Milano ha snobbato il declassamento dell'Italia con un aumento dell'1 per cento rispetto al giorno precedente.
Dunque risparmiatori e operatori italiani e stranieri hanno ricominciato a comprare i titoli emessi dal Tesoro e non solo a breve ma anche a medio termine. Lo "spread" del Btp decennale è ancora molto elevato sul mercato secondario, ma il Tesoro ha saggiamente deciso di rallentare le emissioni a lunga scadenza in attesa che il meccanismo di intervento deciso dall'Europa entri concretamente in funzione. Ci vorranno alcuni mesi e fino ad allora le emissioni quinquennali e decennali saranno ridotte al minimo senza alcun nocumento per il finanziamento del fabbisogno.
Queste le buone notizie. Ma il "downgrading" di Moody's , anche se Piazza degli Affari ha risposto con un'alzata di spalla, non è campato in aria. Non è un declassamento economico ma politico, segnala un elemento negativo per il dopo-Monti e a ragione perché quegli elementi negativi esistono e il "rieccolo" di Berlusconi è uno di quelli e va quindi analizzato con estrema attenzione.
Berlusconi sa che avrà un flop elettorale, questo è già nel conto. Se dovesse arrivare al 20 per cento dei consensi sarebbe oggettivamente un successo clamoroso. Ma il suo problema non è questo. Il suo problema è di mantenere in vita un simulacro di partito e impedirne l'implosione in mille frammenti. Questo risultato l'ha già ottenuto, è bastato l'annuncio della sua ri-presentazione per bloccare la fuga dei quadri, delle clientele e dei rimbambiti del "Silvio c'è". Moderati? Ma quali! Conservatori? Non se ne vedono in giro. Liberali? Forse Ostellino, ma con lui non si va lontano.
Niente di tutto ciò, ma i suoi colonnelli ex An restano in linea, Cicchitto anche, Quagliarello e Lupi pure, perfino Scajola, perfino Galan. Forse arriva Storace. Certamente Micciché. E Daniela. Daniela è la vera vincitrice. I Santanché-boys non valgono più dell'1 per cento, ma è il "folk" che conta. Il partito non c'era, non c'è mai stato e continua a non esserci, ma le clientele sì, quelle ci sono sempre state e adesso serrano i ranghi.
Certo, ci vuole una legge elettorale che assecondi. E poi quel pizzico di bravura nell'ingannare i gonzi, specie quelli di mezza età. Sono tanti in questo Paese e per lui sono l'ideale. Allora forza con l'aquilone tricolore, forza coi discorsi del predellino. E se ci fosse un pazzoide che gli tirasse un sasso in faccia come avvenne a Piazza del Duomo qualche anno fa, beh quello sarebbe l'ideale.
Il partito non c'è mai stato, ma volete che non ci sia un 15 per cento di allocchi che poi, su un 60 per cento di votanti sarebbe più o meno il 7 per cento della platea elettorale?
Questo è l'obiettivo. Ma ci vuole una legge elettorale come si deve e questo è lo strumento necessario.
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Niente più bipolarismo, niente più sistema maggioritario. Per raggiungere l'obiettivo ci vuole un sistema proporzionale, su questo non si discute.
Chi altri vuole quel sistema? Certamente la Lega. Certamente Casini. Dunque la maggioranza c'è. Soglia di sbarramento alta ma ragionevole (serve a scoraggiare le possibili liste del para-centro, diciamo alla Montezemolo). Un premio al primo partito, ma molto ridotto, diciamo il 10 per cento. Preferenze o collegi, oppure un mix tra liste con preferenze e collegi.
Un sistema proporzionale di questo tipo va a pennello per la Lega e per Berlusconi. Anche per Casini che in quel caso sarebbe molto più forte nella possibile alleanza post-elettorale con il centrosinistra. Se prevalesse un sistema maggioritario l'alleanza Casini-Bersani dovrebbe essere pre-elettorale; col proporzionale si fa dopo e ci si fa tirare per la calzetta. La differenza è evidente.
Diciamo: il partito dell'Aquilone al 15-18 per cento, l'Udc all'8-10, il Pd (con Vendola in pancia) al 25-30 e al 35 col premio. Non c'è maggioranza se non tutti e tre insieme. E tutti e tre al governo. E Monti che li presiede.
Questo è il progetto, pacatamente ma fermamente sponsorizzato da Giuliano Ferrara. Non malvisto dai montiani del Pd. Per il Berlusca un terno al lotto. Per Casini anche. Per la spazzatura mediatica anche: campane a festa per il "Giornale", campane a festa per "Libero" e campane con doppia festa per il "Fatto" che potrebbe di nuovo sparare col suo fucile a due canne non solo contro la casta di centrosinistra ma anche contro quella berlusconiana che sembrava scomparsa.
Un governo lobbistico presieduto da un anti-lobbista. Grillo all'opposizione ma un po' spompato (lo è già). Maroni pronto a rientrare in gioco ma a ranghi ridotti.
Non è un cibo digeribile. Allora la domanda è questa: c'è un'alternativa?
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Prima di ragionare sulla possibile alternativa debbo però formulare due osservazioni, pertinenti e non marginali.
Ernesto Galli della Loggia ha descritto sul "Corriere della Sera" che cos'è in realtà la classe dirigente italiana e che cosa sono nella loro maggioranza gli italiani: un Paese che da trent'anni si è auto-paralizzato dandosi una struttura corporativa, clientelare, mafiosa in tutti i sensi. Insomma una casta nazionale, mondo dei "media" compreso e senza eccezioni.
Consento in gran parte con la diagnosi di della Loggia, ma non su quest'ultimo punto. L'informazione castale ha avuto le sue eccezioni, caro Ernesto, e tu lo sai bene. L'eccezione principale è stata "Repubblica" fin da quando esiste, cioè dal 1976. E prima di Repubblica l'eccezione era stata "L'Espresso". Nei pochi anni della sua direzione l'eccezione fu anche il "Corriere" diretto da Piero Ottone.
La seconda osservazione riguarda invece la "scivolata" di Mario Monti sul tema della concertazione, che sarebbe stata "dannosa per l'Italia perché ha determinato la formazione d'un sistema assistenziale che favorisce i privilegi di pochi a scapito della libera partecipazione di molti e specialmente dei giovani. E perché ha reso possibile la creazione d'un debito pubblico enorme che è la causa delle nostre attuali difficoltà".
Questa "scivolata" - come già è stato scritto nei giorni scorsi sul nostro giornale - è storicamente sbagliata. La concertazione fu introdotta da Giuliano Amato e soprattutto da Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e rese possibile il superamento della crisi in quegli anni e l'ingresso in Europa durante il ministero Prodi-Ciampi. Ma prima di allora, dieci anni prima d'allora, senza bisogno di concertare, il sindacalismo operaio - come allora lo si chiamava - aveva imboccato da solo la via dell'austerità per realizzare la piena occupazione. Luciano Lama fu il vessillifero di quella politica e la proseguì fin tanto che rimase al suo posto, fiancheggiato da analoga posizione di Giorgio Amendola e poi anche di Enrico Berlinguer.
La differenza di ora rispetto all'allora sta nel fatto che la classe operaia non somiglia più in nulla a quella di Lama e di Amendola. Non è più un blocco sociale portatore di valori e interessi generali, ma un coacervo di contratti, di precariato, di immobilismo parcellizzato. Uno sfrizzolio innumerevole. Dalla spigola al sale - direbbe uno chef - al fritto misto.
In questa situazione Camusso e Bonanni cercano di tutelare il fritto misto. Che cos'altro potrebbero fare? Perciò, caro presidente Monti, lei condanna un fenomeno che non c'è più e che, quando ci fu, risultò positivo e non vincolante perché - come Ciampi può testimoniare meglio d'ogni altro - a monte e a valle della concertazione restava sempre e comunque la decisione del governo e del Parlamento. Quanto al debito pubblico, fu creato dalla partitocrazia dell'epoca come tante altre magagne che abbiamo ancora sulle spalle.
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L'alternativa è la sinistra e il centro che debbono crearla e debbono farla, pena l'irrilevanza in cui stanno precipitando. Anzi: in cui sono già precipitati.
Ho letto nei giorni scorsi due articoli scritti da persone con biografie politiche diverse ma tutte e due marcatamente di sinistra: Alfredo Reichlin sull'"Unità" e Alberto Asor Rosa sul "Manifesto". Tutti e due gli autori arrivano a conclusioni analoghe: la sinistra deve scoprire nuovi orizzonti e ad essi improntare la sua azione. Non esiste più la sinistra autarchica operante nei singoli Stati nazionali. Esiste già un'economia globale; esisterà - se vuole sopravvivere - un'Europa-Stato.
In queste nuove condizioni la sinistra non può che esser riformista. Radicalmente riformista. Deve coniugare i valori della libertà con quelli dell'eguaglianza. Deve togliere le bende che l'hanno da tempo mummificata. Deve disciplinare la concorrenza con le regole. Deve smantellare i privilegi, le mafie, le clientele, a cominciare dalle proprie.
E il centro deve fare altrettanto. Non è più tempo di radunare i moderati. Bisogna radunare i liberali, quelli veri e non quelli fasulli. Quelli che non vogliono i privilegi, le rendite, i monopoli, che detestano la demagogia e la legge del più forte.
A quel punto si accorgeranno - il centro e la sinistra - che non solo il loro obiettivo, ma la loro stessa natura è identica. Questa è l'alternativa.
A me ricorda lo slogan "giustizia e libertà"; ad altri potrà legittimamente ricordare Giuseppe Di Vittorio, Lama e Amendola, Antonio Labriola e Gramsci, ad altri ancora Giustino Fortunato e Danilo Dolci, ed anche Luigi Einaudi delle "Lezioni di politica sociale".
Andate a rileggerli quei testi, voi Bersani, voi Casini, voi Vendola, voi Pisapia, voi Tabacci. Giorgio Napolitano li conosce bene, lui è sempre stato un uomo di sinistra anche se da Capo dello Stato ha appeso quella vocazione all'attaccapanni prima di varcare la soglia del Quirinale.
Un uomo di sinistra, di quella sinistra. Non c'è un'altra strada. Quella è la sola vincente e l'obiettivo è di rifondare l'anima dei democratici e chiamare a raccolta gli spiriti liberi e forti del Paese. Forse è la maggioranza degli italiani, ma se non lo fosse pazienza, si lavorerà per il futuro. Nell'uno come nell'altro caso sarà comunque una vittoria.
Berlusconi - ovviamente - con queste prospettive non ha niente a che fare. Lui rappresenta l'Italia di Santanché che certo non è la nostra.
(
il Kazakistan. Così Moody's, l'agenzia di valutazione dei rischi finanziari, considera oggi i titoli di stato italiani: «Baa2». La repubblica ex-sovietica ha petrolio quanto basta per garantire un debito pubblico pari ad appena il 10% del Pil, mentre l'Italia viaggia intorno al 123%. Per la finanza non conta più nulla lo sviluppo di un paese, solo la possibilità d'insolvenza. Ma davvero scambiereste un Bot con un titolo del governo di Astana? Con i criteri di Moody's, il petrolio di Trinidad e Tobago, Russia e Messico, e l'austerità selvaggia della Lituania garantirebbero i creditori meglio di Roma. Se cadessimo ancora di un gradino, ci troveremmo in compagnia di Spagna, Azerbaigian, Namibia, Lettonia e Cipro, il prossimo paese ad essere investito dall'euro-crisi. Più che la classifica del rischio, questa è la lista delle opportunità di speculazione. E qui Moody's arriva tardi: l'agenzia di rating cinese Dagong aveva già tolto la «A» all'Italia nel gennaio 2011, retrocedendola da «A meno» a «Bbb».
Lo schema è sperimentato. Si declassano le vittime designate, gli investitori internazionali vendono titoli, i rendimenti si alzano fino a un livello - ieri il 6% sui titoli italiani a dieci anni - tale da far saltare i conti pubblici (quest'anno pagheremo forse 95 miliardi di euro di interessi sul debito), le aspettative si auto-realizzano, insieme ai guadagni speculativi. La politica asseconda la finanza con «fondi salva-stati» e «scudi anti-spread» che premiano gli speculatori e puniscono le vittime. Il conto lo paga l'economia reale: siamo al 25% di produzione industriale in meno rispetto al 2008, ed è sbottato perfino il capo degli industriali Giorgio Squinzi. Un sassolino in quest'ingranaggio è venuto ieri dalla procura di Trani. I vertici di Moody's sono stati messi sotto inchiesta per aver manipolato il mercato con un rapporto sui rischi bancari del maggio 2010 che portò a un crollo di Borsa delle banche italiane.
Per la finanza l'estate è da sempre la stagione più avventurosa. Servirebbe una politica capace di fermare gli avventurieri, ma partiti e governi - in Italia e in Europa - sono disposti a sacrificare le persone sull'altare del rating.
In questo enorme vuoto politico, che parta qualche inchiesta giudiziaria è un piccolo segnale. Ma quello che servirebbe è convocare un Tribunale internazionale contro i banchieri. Come quello sui crimini della guerra in Vietnam.
A volte, quando critichiamo Angela Merkel, dimentichiamo quel che sta succedendo in Germania: l'astio che domina tanti commenti di cittadini e politici, contro un'Europa del Sud che sta divenendo loro estranea. L'esigenza democratica, che si mescola ambiguamente a un nuovo nazionalismo e che spinge i tedeschi a fidarsi quasi solo della Corte costituzionale: proprio ieri, la Corte ha iniziato l'esame degli impegni presi da Berlino a Bruxelles, per verificare la loro compatibilità con la sovranità del popolo e del Parlamento. Il Sud Europa non si stanca di ammonire Berlino, evocando l'espandersi di sentimenti antitedeschi. Ma conoscono poco i sentimenti antieuropei che si addensano in Germania.
Citiamo, fra gli epiteti usati dai frequentatori dei giornali sul web, i più significativi: gli italiani, greci, spagnoli, portoghesi sono scrocconi, parassiti, perfidi, svergognati. Puntando l'indice sul passato tedesco, sono soprattutto ricattatori. Sono "cani, e che abbaino pure alla loro altezza". Un lettore conclude: "Chi ha amici simili, non ha più bisogno di nemici". L'astio colpisce anche europeisti come gli ex cancellieri Schmidt e Kohl, i verdi Trittin e Roth, l'ex ministro degli Esteri Joschka Fischer ("un depravato morale"): sono "traditori del popolo", "odiatori della Germania".
Bastano queste citazioni per capire che sarà pieno di insidie, il cammino degli europei verso una progressiva messa in comune dei debiti. La parola solidarietà è vista come una trappola, tesa per costringere i tedeschi a svenarsi per espiare chissà quale colpa. Questo clima va tenuto presente, quando si parla di scudo antispread o Fondi salva-stati, o si celebrano i progressi raggiunti ai vertici europei. È un clima incendiario, che le classi dirigenti tedesche non sanno evidentemente governare: il più delle volte lo lusingano, altre volte lo contrastano, ma avendone paura. Manca tragicamente la pedagogica capacità di spiegare le cose "nei dettagli": è l'accusa, pesante, che il Presidente Gauck ha rivolto sabato al governo. Né serve la politica dei piccoli passi: solo un salto qualitativo (Unione politica, potenziamento della Bce) creerebbe la scossa che calmerebbe gli animi oltre che i mercati. Le misure piccole sono vissute come una tortura della goccia cinese. Ma nessuno osa, e tra chi osa di meno nelle classi dirigenti ci sono gli economisti: una corporazione che ovunque ha mancato - salvo eccezioni - l'appuntamento con la crisi del 2007-2008.
Ben 172 economisti tedeschi, e non dei minori, hanno firmato giovedì un appello in cui intimano al governo di non cedere alle pressioni e ricusare le misure concordate al vertice del 28 giugno, troppo costose per Berlino. Pur non firmando, è d'accordo anche il governatore della Bundesbank Weidmann, ostile a scudi salva-spread e unione bancaria. Weidmann è membro di un'istituzione comunitaria (il Consiglio direttivo della Bce), e l'uscita è quantomeno anomala. All'appello dei 172 hanno risposto due contro-appelli, firmati tra gli altri da Peter Bofinger e Bert Rürup, membri del Consiglio degli esperti economici che nel 2011 suggerì una messa in comune parziale dei debiti: i 172 sono accusati di nazionalismo e incompetenza. Siamo, insomma, di fronte a un grande dibattito che lascerà tracce, non dissimile dalla disputa fra storici del 1986-87 attorno al passato nazista. Oggi è l'economia al centro, e il ruolo più o meno egemonico, o dominatore, che Berlino deve svolgere nell'Unione.
L'economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l'economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Quanto all'egemonia: molti invitano la Merkel a esercitarla - - Obama per primo - ma Berlino tentenna. Non dubita del proprio modello economico, che giudica anzi l'unico valido, superiore a ogni altro. Quel che fatica a fare, è guidare con efficace magnanimità i paesi deboli dell'Unione, come fecero gli americani col Piano Marshall nel dopoguerra. Irretita in dogmi contabili, la Germania ricade nel passato: sa comandare, non ancora guidare.
Il dogma non è solo quello che impone di mettere la "casa in ordine" prima di creare unioni transnazionali (l'assioma non tiene, perché l'unione sovranazionale muta l'ordine casalingo). Dogmatico è il primato dell'economia, fonte pressoché unica dello Stato e della democrazia. Divenne tale soprattutto nel dopoguerra, quando ai tedeschi era negato il diritto di divenire Stato giuridico, ma ha radici lontane. È dai tempi dell'Unione doganale (il Zollverein del 1834 e 1866) che i tedeschi fanno dell'economia il sifone della comunità politica. L'Unione europea deve ricalcare quel modello, che peraltro fallì quando la Prussia inglobò la Confederazione tedesca del nord: prima viene l'economia, poi la politica, lo Stato, il consenso dei popoli. Come scrive Marco D'Eramo su Micromega, anche in Europa, come nello Zollverein, "è la moneta a "battere" lo Stato invece dello Stato a battere moneta". La Merkel e il ministro Schäuble nuotano contro una corrente forte e anche contro se stessi, quando implorano un'unione politica federale: non ascoltarli, come non fu ascoltato Kohl, è letale.
Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l'unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. Alle origini, c'è l'esperienza d'un paese vinto dalla guerra, dimezzato, che nell'economia vide un surrogato di sovranità statale. Gli artefici del nuovo Stato economico furono Ludwig Erhard e i cosiddetti ordoliberali, che negli anni fra le due guerre avevano osteggiato l'idea keynesiana che i mercati possano, debbano esser governati.
L'ordoliberalismo divenne il credo della Repubblica federale, la via per uscire dallo statalismo nazista. Vale la pena ricordare come ne parla Michel Foucault, nelle lezioni del 1978-79. Le parole-chiave furono quelle che Erhard, futuro Cancelliere e allora responsabile dell'amministrazione nella zona occupata dagli anglo-americani, pronunciò il 28 aprile '48: "Bisogna liberare l'economia dai vincoli statali (...) ed evitare sia l'anarchia sia lo Stato-termite. Solo uno Stato capace di stabilire al contempo la libertà e la responsabilità dei cittadini può legittimamente parlare in nome del popolo". Decaduto lo Stato, solo la libera economia poteva ricostituirlo. Un marco solido, una crescita forte, una bilancia dei pagamenti salda: divennero la sovranità sostitutiva della Germania. "La storia aveva detto no allo Stato tedesco, ma d'ora in poi sarà l'economia a consentirgli di affermarsi", e in più di dimenticare un nazismo che non "parlava in nome del popolo" (Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli 2005).
Mettere la casa in ordine, e soltanto dopo farsi Stato: il prototipo dello Zollverein fu ripreso da Erhard, e ora va applicato all'Europa. Gli Stati sono incitati a cedere sovranità, ma la costituzione europea sarà economica e di marca tedesca, o non sarà. È stupefacente la disinvoltura con cui un uomo intelligente come Thomas Schmid, vicino nel '68 a Fischer e Cohn-Bendit, confonda il comando con l'egemonia, nel carteggio con Ezio Mauro apparso il 28 giugno su Repubblica: "La Germania deve usare la sua forza per aiutare altri, deve diventare un amministratore e garante per la stabilità riconquistata di Stati oggi deboli (...) deve essere egemone, ma in modo amichevole".
Forse è qui uno dei nodi da sciogliere, nelle discussioni fra governi e fra economisti. L'operazione tedesca è singolare. Parla di Federazione, ma intanto tratta i paesi meridionali dell'Eurozona come se fossero nazioni dimezzate e vinte in guerra, i cui Stati hanno perduto non tanto consistenza, quanto legittimità. Come se tutti dovessero percorrere la via tedesca, pur venendo da storie così diverse.
Che cosa fai quest’estate? «Vado al campo estivo. A scuola». Un edificio scolastico su tre resta aperto anche in luglio nelle grandi città italiane, con orari perfino più lunghi di quelli delle normali lezioni. E se è vero che i programmi proposti da cooperative e associazioni, ai quali i Comuni appaltano il problema del parcheggio estivo dibambini e ragazzi, sono più vari di quelli scolastici, con visite ai musei e passeggiate nei parchi, è vero anche che di un parcheggio pur sempre si tratta, con orari da rispettare e cancelli da varcare.Tutto il contrario della lunga, oziosa estate di trenta o quarant’anni fa, ma anche delle frenetiche vacanze ante-crisi, quando almeno 15 giorni si passavano al mare, e magari anche il doppio se mamma e papà si alternavano nei turni. Oggi la permanenza media di bambini e ragazzi nei campi urbani promossi dai Comuni, con tariffe che variano secondo le fasce, si è allungata da una a due settimane, e in molti casi può durare anche tre o quattro, coprendo tutti i turni disponibili. Se dipendesse dai genitori, le scuole potrebbero restare sempre aperte, sono i Comuni a imporre un minimo di chiusura anche per ragioni di bilancio (e quando avviene, da Torino a Roma a Napoli, le stesse associazioni offrono il servizio privatamente anche in agosto, utilizzando i centri sportivi).
Prendiamo il caso di Torino, una delle grandi città che negli ultimi trent’anni aveva puntato moltissimo sui servizi per l’infanzia. Quest’anno, complici i tagli alla spesa, le famiglie che scelgono la proposta del Comune (e non le molte possibili in convenzione con gli oratori) possono spaziare tra 27 diversi centri, 25 dei quali non sono altro che normali scuole rimaste aperte. Si continua fino al 3 agosto, si inizia alle 7 del mattino per facilitare mamme e papà che in luglio lavorano, la quota massima per famiglia arriva a 90 euro.
«Cerchiamo di evitare di far passare troppe ore ai bambini tra le mura scolastiche spiega Maura Dotta, responsabile organizzativa della Safatletica, un’associazione nata per lo sport giovanile che negli ultimi anni si è “riciclata” anche in versione estiva — Lavoriamo per il Comune, ma il nostro obiettivo è rendere un buon servizio ai bambini, facendo quello che i genitori, impegnati al lavoro, non possono fare: portarli al parco, farli muovere, far conoscere loro la città. E negli anni ci siamo resi conto che la crisi ha spinto le famiglie a allungare il periodo di permanenza».
«La scelta — suggerisce Angelica Arace, docente associata di Psicologia dello sviluppo all’Università di Torino — andrebbe sempre calibrata tenendo conto delle caratteristiche del singolo bambino o ragazzo. Per molti condividere il tempo delle vacanze restando in città con i compagni può essere piacevole, altri hanno bisogno di più tempo per il riposo, magari in solitudine. Bisogna distinguere tra le esigenze del bambino e quelle dei genitori, che ovviamente non dispongono di tre mesi di vacanza ». A Napoli, l’orario dei campi estivi è ridotto (4-5 ore al giorno) e unisce gite e laboratori tra le mura scolastiche, a Bologna il servizio è “flessibile”, i genitori possono scegliere tra orario breve o lungo, e dura fino a 4 settimane per i piccoli tra i 3 e i 5 anni (15 centri, anche in questo caso gli stessi dell’anno scolastico) e fino a 7 settimane per la fascia che arriva agli 11 anni. E a Padova non si chiude mai, neppure ad agosto, e 213 bambini si sono iscritti anche in quel mese: l’orario finisce alle 16, ma con un sovrapprezzo di 30 euro si possono lasciare i figli fino alle 18.«L’obiettivo è coprire tutta l’estate e presto ci arriveremo — riassume Daniela Ruffino, sindaco di Giaveno e membro della commissione scuola dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani — È vero, gli orari sono lunghi, forse piacciono di più alle mamme che ai bambini, ma se i Comuni impongono alle associazioni un buono standard qualitativo è una soluzione migliore che essere parcheggiati da nonni e zii». Sarà, ma che fatica!
Postilla
Forse se ne sono scordati quasi tutti, adesso, ma fra le varie proposte emerse nel corso delle straordinarie primarie di coalizione per il sindaco di Milano una delle più originali era un organico sfruttamento delle risorse costituite dagli spazi scolastici, luoghi attrezzati e diffusi nel tessuto urbano, ma che a parte la funzione didattica e relativi orari restano esclusi dalla rete complessa della vita metropolitana. Queste idee di colonia estiva urbana, una specie di “vacanza a chilometro zero” indotta dalla crisi economica, curiosamente ripropongono le medesime dinamiche sociali che hanno visto affermarsi l’idea di urbanistica moderna e di quartiere integrato all’inizio del ‘900, e che vedono al centro proprio la scuola. Scuola dove non solo l’argomento città dovrebbe entrare sempre più nei programmi e nelle attività integrative, sotto forma di educazione civico-ambientale a pervadere di sé tutte le materie, ma anche spazio chiave e nucleo centrale di identità per i “vicinati”. Non dimentichiamo che fu proprio studiando nel 1914 le attività spontanee di istituti scolastici, gruppi di genitori, associazioni sportive e culturali annesse, che il sociologo dei servizi Clarence Perry iniziò a tracciare anche delle mappe territoriali di influenza, con raggi massimi e articolazioni per fasce di età e censo. Le medesime riflessioni che negli anni ’20 lo portarono a teorizzare in modo compiuto la Neighborhood Unit. Anche questa delle colonie estive urbane quindi può essere, se ben gestita, molto più di una pura vacanza per poveretti, anzi! (f.b.)
Sono almeno 400 mila i braccianti arruolati dal caporalato che ogni estate dalla Puglia al Trentino lavorano nelle campagne. I sindacati denunciano lo sfruttamento ma serve una ribellione della società civile. E una legge che punisca i “mandanti”
Tre euro e mezzo per raccogliere un cassone di pomodori da 300 kg sotto il sole a 40 gradi. Due euro e mezzo se si è clandestini. È questa la paga che un immigrato riceve nelle campagne pugliesi, dove fa anche 14 ore al giorno. Lavora a cottimo. I più robusti riescono a portare a casa 20/25 euro al giorno (il 40% in meno di un italiano con le stesse mansioni), al netto di un taglieggiamento su trasporto, cibo, acqua e altre necessità elementari controllate dai caporali che li assumono e distribuiscono il lavoro. Mentre gli italiani iniziano ad andare in vacanza, non lontano dalle spiagge più belle si raccolgono pomodori, meloni e angurie, impiegando migliaia d’immigrati africani extra-comunitari o dei neo-comunitari provenienti dall’Est Europa.
Vogliamo aspettare un’altra drammatica protesta come a Rosarno nell’inverno 2010? O un altro sciopero come quello di Nardò, della scorsa estate, per renderci conto che ciò che mangiamo rischia di essere passato per le mani di uomini ridotti in semi-schiavitù? Non abbiamo garanzie: i pomodori che ci portiamo a casa, o le passate di pomodoro, l’anguria che divoriamo assaliti dalla calura è probabile che siano il frutto di condizioni di lavoro e di vita (in abitazioni di fortuna, senza servizi igienici, elettricità, assistenza sanitaria, sotto costante minaccia) inaccettabili, tanto più per un Paese che si definisce civile.
È una tragedia umana, un incubo per tante persone che si consuma ogni anno, in tutte le stagioni, sotto un pesante velo di omertà e su cui campa buona parte della nostra agricoltura e del nostro decantato made in Italy. Flai-Cgil stima che in Italia ci siano 400mila lavoratori che vivono sotto i caporali. Hanno la loro stagionalità come ce l’ha l’ortofrutta:a luglio e agosto si concentrano in Puglia, soprattutto nella Capitanata in provincia di Foggia o in Salento; subito dopo passano in Basilicata, nella zona di Palazzo San Gervasio dove i pomodori si raccolgono un po’ dopo; ci sono in Campania, nelle province di Salerno (Piana del Sele) e Caserta (Villa Literno e Castel Volturno). In autunno/inverno tocca agli agrumi: la Calabria con la Piana di Gioia Tauro dove si trova Rosarno, la Sicilia dove ci sono fenomeni di caporalato fino a primavera, con la successiva raccolta delle patate e di altri prodotti orticoli.
Ma non è esente il Nord: si segnalano fenomeni in Emilia-Romagna (frutta a Modena e Cesena), in Veneto (Padova), in Lombardia (Mantova e i meloni) e perfino nel civilissimo Trentino Alto Adige per la raccolta delle mele. Fenomeni settentrionali che sono ancora marginali, ma che vista la crisi sono in forte ascesa. Crisi che colpisce i lavoratori stagionali, gli immigrati che accettano loro malgrado di sottoporsi a condizioni sempre peggiori, ma crisi che colpisce anche l’agricoltura e i suoi imprenditori, i quali devono ridurre al minimo il costo del lavoro, per non fallire o lasciar marcire il cibo nei campi.
È una crisi che accentua l’assurdità del nostro sistema del cibo industriale, in cui diventa facile puntare il dito contro i caporali, ma in cui è ora che anche altri soggetti si assumano delle responsabilità. I caporali sono terribili, e rappresentano un fenomeno che riguarda anche altri settori lavorativi, soprattutto l’edilizia. Oggi non sono più soltanto italiani, spesso sono africani come gli sfruttati, scatenando una guerra tra poveri che non è esente da fenomeni d’infiltrazione mafiosa. Gli imprenditori affidano ai caporali il potere di gestire le vite dei
braccianti lontano dei centri abitati come lontani sono i campi: se l’occhio non vede nessuno s’indigna, tantomeno chiede regolarità e legalità. Tutto in nero: si calcola che per l’agricoltura il sommerso incida per il 90% al Sud, per il 50% al Centro e per il 30% al Nord.Altro che far rispettare i contratti, questi lavoratori neanche esistono.
Per fortuna, dopo lo sciopero di Nardò dell’estate 2011, è stato accelerato l’iter per una legge che preveda il reato di caporalato, che tuttavia è stata approvata solo in parte: per esempio non vi è traccia di sanzioni per le imprese e non ci sono meccanismi di tutela per i lavoratori che denunciano i loro caporali. Sono tanti le associazioni e i sindacati che si stanno impegnando su questo fronte, ma non possiamo andare avanti con la loro limitata capacità strutturale di sopperire alle mancanze dei sistemi istituzionale e agricolo che sembrano non volerci sentire. Bisogna colpire duramente gli imprenditori agricoli coinvolti: che lo facciano le leggi, le forze dell’ordine, le associazioni di categoria. Un primo risultato si è ottenuto proprio a Nardò a maggio, dove insieme ai caporali, dopo una lunga indagine, sono stati arrestati anche gli stessi imprenditori, i “mandanti”. Gente che tra l’altro esporta la quasi totalità del proprio prodotto, e che dunque farebbe l’orgoglio di chi si lamenta che la nostra agricoltura «è poco competitiva».
Intanto però bisogna che si sollevi la società civile. Si può fare in diversi modi: lo fanno le associazioni o i sindacati come Flai/Cgil, che parte in questi giorni con “Gli invisibili delle campagne di raccolta” e un “camper dei diritti” su cui viaggiano medici, insegnanti di lingua, avvocati, sindacalisti, volontari e Yvan Sagnet, il leader dello sciopero di Nardò. Toccheranno la Puglia, poi la Calabria e infine il Trentino. Vogliono risvegliare le coscienze dei lavoratori, spesso inconsapevoli dei loro diritti e del potere che hanno quando incrociano le braccia: la frutta e la verdura non si raccolgono da sole, e vanno raccolte al momento giusto.
Però possono mobilitarsi le persone che vivono in quei luoghi, darsi da fare di più per l’accoglienza, trovare coraggio e protestare, sposare le battaglie dei braccianti, non accettare che nel loro territorio accadano tali nefandezze. Infine tutti noi possiamo fare qualcosa. Io mi rifiuto di mangiare prodotti che provengano da quei campi, e voglio sapere con esattezza se provengono da quei campi. Voglio poterli boicottare, e premiare invece chi lavora in maniera trasparente; sono anche disposto a pagare di più, il giusto, se ho queste garanzie. Perché è pur vero che bisogna aiutare i bravi agricoltori.
È ora che il sistema Italia rigetti con forza il caporalato in tutte le sue forme. È urgente, perché intanto queste povere persone sono lì nei campi, a soffrire, in alcuni casi a morire. Sono necessari un intervento del governo (in fondo anche queste sono tasse che vanno recuperate) e della politica locale, un coordinamento nazionale delle forze dell’ordine, l’auto-certifcazione delle aziende virtuose, la nostra scelta quotidiana di un cibo che non sia soltanto buono e sostenibile dal punto di vista ambientale, ma anche giusto: giusto per chi lavora, giusto per chi non vuole diventare complice di questa vergogna italiana.
Con tutta la buona volontà richiesta in tempi di emergenza, non si può onestamente accettare un provvedimento che toglie risorse all’università statale per destinarle alle scuole private. Il piano di tagli agli sprechi messo in cantiere dal governo Monti prevede alla voce scuola una ingiustificata partita di giro che toglie 200 milioni di euro alle istituzioni pubbliche per darli a quelle private. Con una motivazione che ha dell’ironico se non fosse per una logica rovesciata che fa rizzare i capelli in testa anche ai calvi. Leggiamo che si tolgono risorse pubbliche alle università statali al fine di “ottimizzare l’allocazione delle risorse” e “migliorare la qualità” dell’offerta educativa. Stornare risorse dal pubblico renderà la scuola più virtuosa. Ma perché la virtù del dimagrimento non dovrebbe valere anche per il settore privato? Perché solo nella già martoriata scuola pubblica i tagli dovrebbero tradursi in efficienza?
Lo stillicidio delle risorse all’istruzione pubblica e alla ricerca va avanti imperterrito da più di dieci anni, indipendentemente dal colore dei governi e dallo stato dei conti pubblici. Il paradosso, che suona irrisione a questo punto della nostra storia nazionale, la quale documenta di una disoccupazione giovanile che veleggia verso il 40%, è che l’apertura di credito alle scuole private è andata di pari passo all’umiliazione di quelle pubbliche, ottime scuole peggiorate progressivamente quasi a voler creare artificialmente, e con i soldi dei contribuenti, un mercato per il servizio privato educativo che non c’era.
A partire dalla legge 62/2000, concepita come attuazione dell’Art. 33 della Costituzione, le scuole private dell’infanzia, quelle primarie e quelle secondarie possono chiedere la parità ed entrare a far parte del sistema di istruzione nazionale. Ottenere la parità (rispetto al valore del titolo di studio rilasciato) non equivale per ciò stesso a ricevere denaro pubblico. Eppure l’interpretazione della Costituzione che ha fatto breccia alla fine della cosiddetta Prima Repubblica ha imboccato la strada della revisione della concezione del pubblico, un aggettivo esteso anche a tutta l’offerta educativa riconosciuta come “paritaria”. Ciò ha aperto i cordoni della borsa pubblica alle scuole private, che in Italia sono quasi tutte cattoliche e che ricevono denaro dallo Stato sotto forma di sussidi diretti, di finanziamenti di progetti finalizzati, e di contributi alle famiglie come “buoni scuola”. I politici cattolici (trasversali a tutti i partiti) hanno giustificato questa interpretazione della parità con una lettura del 3° comma dell’Art.33 che è discutibile. Il comma dispone che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Ma dice anche che “la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali». Tuttavia il trattamento “scolastico equipollente” pertiene alla qualità educativa e formativa, un bene che spetta alla scuola privata mettere sul mercato, senza “oneri per lo Stato”. L’Articolo 33 potrebbe essere interpretato in maniera diversa.
Nel 1950, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione, Piero Calamandrei proponeva una interpretazione ben diversa. E lo faceva mentre elucidava le astuzie e le strategie che potevano essere usate per distruggere la scuola della Repubblica. Le sue parole sembrano scritte ora: «L’operazione si fa in tre modi: (1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico... Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione... Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito».
Con il volgere dei decenni i timori di Calamandrei sono diventati realtà e a questo ha contribuito il mutamento nei rapporti di forza tra cattolici e laici con la crisi dei partiti tradizionali. Questo squilibrio di potere pesa come un macigno se neppure un governo tecnico riesce a evitare di farsi tanto politico da discriminare le scuole pubbliche e privilegiare quelle private quando si tratta di dare o togliere finanziamenti. E questa politicità a senso unico rende questo provvedimento ancora più ingiusto.
Nell'icona Piero Calamandrei
Il “principio di realtà” sembra irrompere nella politica solo quando si fanno più drammatiche le questioni dell’economia, alle quali tuttavia si guarda troppo spesso come se in esse si manifestasse una ineludibile legge “naturale”. I mercati “votano”, si attendono le “reazioni” dei mercati. Soggetti onnipresenti e impersonali, alle cui pretese la politica si piega, e palesa le sue impotenze, smarrisce ogni filo razionale, sembra rassegnata alle dimissioni. Di questo contagio la politica è vittima consapevole. Prigioniera della sola dimensione economica, perde la capacità di misurarsi con le grandi questioni della società, di elaborare strategie di più largo respiro e di più lunga durata. E si priva così degli strumenti che possono consentirle di ricominciare a pensare lo stesso mercato come una creazione sociale, non come una entità naturale, alle cui leggi si è costretti ad obbedire.
Nella realtà vi sono più cose da vedere, analizzare, comprendere. A questa ricchezza la politica deve attingere. Non è una impresa impossibile, a condizione che si voglia davvero uscire dall’autoreferenzialità e dalle logiche oligarchiche che si sono impadronite dei partiti. I punti di riferimento non mancano. Questa sembrava l’indicazione venuta dal segretario del Pd quando, lanciando la sua candidatura verso primarie aperte, l’associava con una dichiarata attenzione per le nuove dinamiche sociali, per le richieste di partecipazione, per i diritti civili, per il tema centrale del lavoro, dando la sensazione che si volesse così dar vita ad una agenda politica finalmente espressiva di contenuti concreti, abbandonando le abitudini che hanno trasformato l’azione del partito in una eterna schermaglia tra persone. Solo in questo modo si può evitare che le primarie si trasformino in un’altra tappa verso quell’estrema personalizzazione della politica che è all’origine di infinite distorsioni istituzionali.
Il principio di realtà dovrebbe portare verso una riflessione sulle effettive dinamiche degli ultimi tempi. Tutto quello che usciva fuori dai canali della politica ufficiale è stato sbrigativamente etichettato come antipolitica. Questo non è stato solo un errore analitico. Si è rivelato come un modo per sottrarsi ad un confronto scomodo, non con l’antipolitica, ma con l’altra politica che si è presentata in modo incisivo sulla scena italiana, suscitando nei partiti una reazione di fastidio e di sufficienza, quasi che si trattasse di inutili iniziative “movimentiste” e protestatarie.
Le cose non sono andate così. Tra il 2010 e il 2011 si sono svolte grandi manifestazioni di donne e lavoratori, studenti e mondo della cultura. A questa iniziativa diffusa si deve la reazione che ha bloccato la “legge bavaglio” sulle intercettazioni, fino a quel momento contrastata
blandamente dall’opposizione parlamentare. Quel variegato movimento ha contribuito grandemente ai successi nelle elezioni amministrative dell’anno scorso, non a caso vinte, in città chiave come Milano e Napoli, da candidati scelti fuori dalle indicazioni dei partiti. In quelle campagne elettorali, come ha ricordato Ilvo Diamanti, vi fu una straordinaria e spontanea presenza dei cittadini. Punto di approdo di tutta quella fase fu il voto referendario del 13 giugno dell’anno scorso, quando ventisette milioni di cittadini dissero no alla privatizzazione dell’acqua, al nucleare, alle leggi ad personam.
Altro che movimentismo sterile, del quale disinteressarsi. Quelle sono state tutte iniziative vincenti, che avrebbero dovuto sollecitare la massima attenzione della politica “ufficiale”, rimasta invece sorda, lontana, ostile. Ora proprio a quel mondo si dice di voler rivolgere l’attenzione. Ma questo non è affare di parole.
Non si può dire di voler prendere sul serio i segnali che arrivano dalla
società e poi contribuire a una strategia che vuole sostanzialmente cancellare i risultati del referendum sull’acqua. Sta accadendo proprio questo con una rottura della legalità costituzionale che giustifica un appello al Presidente della Repubblica. Migliaia di cittadini si organizzano in una campagna di “obbedienza civile”, pagando le bollette dell’acqua in base a quel che essi stessi hanno deciso con il referendum. Una convincente nuova politica non può eludere questo terreno, che i cittadini hanno pacificamente occupato non con iniziative sgangherate, ma con il loro voto. Quale credito può recuperare un partito che ignora la voce di ventisette milioni di persone?
Vi è una lezione generale da trarre da questa storia recente. Tutti quei movimenti non hanno mai scelto la strada non solo antipolitica, ma antistituzionale, che altri hanno imboccato o vogliono imboccare. Al contrario. I loro interlocutori sono stati i parlamentari al tempo della legge bavaglio. Gli strumenti adoperati sono quelli della democrazia quando si sceglie di partecipare convintamente alle elezioni amministrative e quando si raccolgono le firme e si vincono i referendum. Se davvero si vuole rafforzare la partecipazione, la via da seguire è nitidamentesegnata.
Tutto questo, infatti, è avvenuto all’insegna della Costituzione, salvata nel giugno del 2006, da sedici milioni di cittadini che, dicendo no alla riforma costituzionale approvata dal governo Berlusconi, indicavano pure una strada da seguire. Se oggi si vuol discutere seriamente di riforma costituzionale, bisogna tenere nel giusto conto le indicazioni venute in questi anni da milioni (insisto, milioni) di cittadini, non dalle intemperanze di gruppetti o dalle pretese di professori (anche se un po’ di attenzione per la grammatica costituzionale non guasterebbe). Queste indicazioni sono chiarissime. Il rifiuto dell’accentramento del potere e di una più intensa personalizzazione dovrebbe essere ancor più tenuto in considerazione oggi, di fronte alla minaccia di pericolose derive populiste. L’attenzione per la partecipazione dei cittadini non può essere ridotta a una giaculatoria. Ma nelle proposte di riforma costituzionale non vi è nulla (insisto, nulla) che vada in questa direzione, anzi si va verso accentramenti e smantellamento di equilibri e garanzie. E questa è una linea autolesionista, al limite del suicidio, perché la stessa democrazia rappresentativa può essere salvata solo da una sua intelligente integrazione con forme di partecipazione dei cittadini. Dall’Europa ci vengono indicazioni che consentono, ad esempio, di rafforzare l’iniziativa legislativa popolare, come vado dicendo da anni.
Ma l’altra politica manifesta pure una fortissima richiesta di diritti, che non può essere sacrificata all’economia con il trucco della politica dei due tempi, come ha benissimo ricordato Chiara Saraceno, né può essere affidata a documenti come quello predisposto dal Pd, elusivo su troppe questioni. I diritti del lavoro sono emblematici del legame scindibile tra economia e diritti, come dimostrano alcuni opportuni interventi dei giudici, resi possibili anche da indicazioni provenienti dall’Europa che, anch’essa, deve essere considerata nella dimensione dei diritti.
Sono molte, dunque, le possibilità concrete di riprendere il filo del rapporto spezzato tra partiti e cittadini. Ma questa, evidentemente, non è una operazione a costo zero. Esige l’abbandono di pessime abitudini e qualche segnale immediato. Torno alla questione dell’acqua come bene comune e ricordo che in Parlamento, su vari temi, giacciono proposte di legge di iniziativa popolare o regionale. Perché non metterle all’ordine del giorno, cominciare a discuterle? I cittadini capirebbero.
ROMA - Raggiunge l´ultima curva la spending review. Oggi Mr. Forbici, Enrico Bondi, l´uomo sul quale pesa il compito di recuperare il maggior numero di risparmi nell´ambito della pubblica amministrazione, incontrerà i ministri di spesa, da Balduzzi (Sanità), alla Cancellieri (Interni), a Patroni Griffi (Pubblico Impiego), a Giarda (Programma e Rapporti con il Parlamento). Domani sarà la volta dei sindacati, della Confindustria e delle Regioni. Il decreto potrebbe essere varato giovedì o venerdì, ma non è escluso che slitti alla prossima settimana. I sindacati, con la Cisl, hanno già avanzato un aut aut sugli statali, i ministri di spesa resistono, sul vertice con gli enti locali pesa l´ipoteca della sanità, nell´imminenza del rinnovo del Patto sulla salute. Ieri intanto il segretario del Pd Bersani ha inviato un messaggio all´insegna della cautela: «Pronti a dare il nostro contributo per evitare un ulteriore aumento dell´Iva cui ci hanno inchiodati Tremonti e Berlusconi, ma c´è modo e modo per arrivare all´obiettivo e vogliamo discuterne». Anche sul fronte opposto, il capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto, invita alla prudenza: «Siamo in attesa di saperne di più, è evidente che i partiti dovranno essere informati prima della presentazione dei decreti».
L´obiettivo - come anticipato da Repubblica - è quello di recuperare risorse per evitare l´aumento dell´Iva negli ultimi tre mesi dell´anno (circa 4,2 miliardi, come previsto fin dal varo dell´intera operazione della revisione della spesa); per il 2013, invece, l´aumento resterà, ma dimezzato (un punto invece di due). Sul tavolo del resto si affastellano anche altre urgenze: la questione degli esodati, le spese per il terremoto dell´Emilia, gli interventi urgenti come il rifinanziamento delle missioni internazionali. Senza contare l´aggravamento della recessione: un elemento che, stando allo stesso premier Monti, non dovrebbe dar luogo ad una manovra aggiuntiva in quanto il rapporto deficit-Pil al netto della congiuntura ci consentirà comunque di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013. A dare fiato alla fiducia il buon esito del vertice di Bruxelles e gli obiettivi centrati del gettito Imu che ha dato circa 9 miliardi.
Sul fronte dei tagli il sentiero sembra tracciato, ma è proprio sui questo versante che potrebbero aprirsi dei problemi. Mr. Forbici Bondi avrebbe fatto il suo lavoro e sarebbe in grado di portare sul tavolo un menù di tagli per 9 miliardi: a quel punto la decisione sarebbe politica e spetterebbe alla collegialità dei ministri. Lo scambio Iva-statali e Iva-sanità starebbe creando dei problemi anche perché le cifre e le misure sembrano lievitare di giorno in giorno. Tant´è che si parla di spacchettare l´intervento in due tempi.
Sul versante della Sanità sarebbe il ministro Balduzzi a puntare i piedi: il suo pacchetto sarebbe attestato ad un miliardo, ma la spending prevederebbe solo dai farmaci 1,5 miliardi e per beni e servizi 4,4 miliardi. Inoltre alla Sanità sono disponibili a concedere alla centrale acquisti l´operatività su spese alberghiere e prodotti generici, ma vorrebbero una supervisione tecnica sul Tac, medicinali e spese ad alto contenuto specialistico. Anche sul fronte del pubblico impiego sale la tensione: il prezzo sarebbe 10 mila esuberi, prepensionamenti (seppure con sospensione della Fornero), stretta sul turn over, taglio dei buoni pasto, dei distacchi. Regioni, Province e Comuni per ora mandano segnali deboli, ma già parlano di «insoddisfazione», anche in relazione al taglio del fondo sanitario di 1,8 miliardi che viene utilizzato come boccata d´ossigeno di ultima istanza per le Regioni in deficit.
La logica dei “tecnici” al comando è sempre la stessa, ed è quella dettata dalla loro ideologia. Per sanare la crisi determinata dalla sostituzione del Mercato allo Stato, espressione della Politica, riduciamo ancora lo Stato, le sue competenze, i suoi poteri, la sua responsabilità. La politica, ormai ridotta a quel suo simulacro che sono i partiti d’oggi, è del tutto asservita. Lo smantellamento ulteriore dello Stato, del “pubblico”, non ci sarà ostacolato da nessuno. Chi proclamava “privato è bello”, “meno Stato e più Mercato”, ha vinto. Se poi al “privato” e al Mercato hanno sacrificato anche la nostra salute, mbeh, la frittata della “crescita” merita pure che si rompano un po’ di uova, si o no?
Per il ministro del Lavoro la disoccupazione non è mai involontaria, il sindacato può essere espulso dall'azienda se non vi si sottomette, e l'amministratore delegato della Fiat non ha violato alcuna regola.Concludendo la sua intervista, la ministra Fornero ha spiegato al giornale di Wall Street che l'Italia «non è un paese basato sulle regole; si manipolano, si tirano di qua e di là, aggiustandole secondo le proprie convenienze. Questo deve finire». Si riferisce a Marchionne che, quanto a regole, ha in odio anche il «folclore italiano» delle sentenze dei giudici? Non fatevi illusioni. Marchionne è per il ministro del lavoro al di sopra di ogni sospetto. La manipolazione è evidentemente tipica di chi pretende che un posto di lavoro sia un diritto, «mentre deve essere guadagnato, anche attraverso i sacrifici».
Dietro l'avventatezza delle affermazioni, si può intravvedere una posizione teorica. La disoccupazione non è mai involontaria, ma dipende dalle condizioni alle quali i lavoratori sono disposti a lavorare. Evidentemente, fra queste condizioni c'è anche quella di non iscriversi a un sindacato che contesta gli accordi imposti dall'azienda. A un normale lettore può apparire una posizione ideologica spropositata sia del ministro che di Marchionne. Ma dobbiamo ricordarci che Fornero parla a un giornale americano per il quale questa è la norma.
Marchionne non inventa nulla. Cerca solo di importare in Italia il modello di relazioni industriali americano. Il quale si basa su due principi. Il primo è che il sindacato deve essere fuori dai luoghi di lavoro; il secondo è che se vi è presente, deve sottomettersi alle richieste dell'azienda.
Quanto al primo principio, l'esclusione del sindacato è ormai una pratica comune. Naturalmente non è stato sempre così. In passato, se i sindacati potevano far valere l'iscrizione del 50 per cento più uno dei lavoratori di un'unità produttiva, acquisiva automaticamente la loro rappresentanza e il diritto alla contrattazione. Era la famosa legge Wagner voluta nel 1935, in pieno New deal, da Franklin D. Roosevelt. Poi fu modificata nel senso che l'azienda poteva chiedere un referendum di conferma. Le cose non cambiarono, e il sindacato divenne progressivamente il più forte nel mondo. Non a caso John K. Galbraith lo descrisse come un pilastro del sistema economico americano nel suo celebre saggio del 1968, Il nuovo Stato industriale".
Le cose cambiarono con l'avvento di Ronald Reagan che diede l'esempio licenziando in tronco i 12.000 lavoratori addetti alla regolazione del traffico aereo, e spiegando che i lavoratori in sciopero potevano essere sostituiti da altri non affiliati ai sindacati. Le imprese apprezzarono il cambiamento e misero in atto le misure necessarie a impedire che i lavoratori potessero mettere piede nelle aziende tramite la pratica referendaria. Il management convocava i lavoratori in assemblea senza la presenza di sindacalisti e spiegava che l'ingresso del sindacato in fabbrica avrebbe comportato la sospensione degli investimenti, la delocalizzazione di parte dell'impianto e i conseguenti licenziamenti. Naturalmente, non mancavano i militanti che si esponevano, rivendicando il diritto a costituire il sindacato, ma era un'auto-candidatura al licenziamento.
Ma veniamo al secondo principio. Dove il sindacato c'è, al momento del rinnovo contrattuale, l'impresa presenta una propria contro-piattaforma. In un contesto nel quale il sindacato è ridotto a una rappresentanza del sette per cento dei lavoratori del settore privato, e non esistendo contratti collettivi nazionali, il management ha il coltello dalla parte del manico. Le piattaforme aziendali comprendono generalmente due rivendicazioni: un secondo livello salariale più basso per i nuovi assunti, la riduzione o l'annullamento dell'assicurazione sanitaria per tutti, oltre al cambiamento del sistema pensionistico di carattere integrativo.
Con la crisi l'attacco alla contrattazione è diventato ancora più duro e determinato. Sono sempre più numerose le aziende che interrompono i negoziati per il rinnovo dei contratti e attuano la serrata. Scriveva recentemente il New York Times: «I lavoratori americani sindacalizzati, colpiti dai licenziamenti e dalla stagnazione dei salari, si confrontano con un altro fenomeno che li costringe sempre di più sulla difensiva: le serrate... Lo scorso anno, almeno 17 imprese hanno imposto la serrata, affermando che l'avrebbero mantenuta fino a quando i lavoratori non avessero accettato il contratto proposto dal management».
L'esempio più clamoroso è quello dell'American Crystal Sugar, la più grande impresa americana di trasformazione dello zucchero da barbabietola con stabilimenti in North Dakota, Minnesota e Iowa. Nell'estate del 2011, l'azienda, in occasione del rinnovo del contratto, chiese come contropartita la riduzione del salario aziendale per i nuovi assunti, il ricorso all'esternalizzazione di parte del lavoro e una drastica riduzione dell'assicurazione sanitaria. Il 95 per cento dei lavoratori respinse l'accordo sottoposto a referendum il 31 luglio; il 1° agosto l'azienda dichiarò la serrata, lasciando senza lavoro e senza salario 1300 lavoratori. Nelle settimane successive, aprì, attraverso la stampa, una campagna di reclutamento per l'assunzione a tempo determinato di 900 lavoratori in sostituzione di quelli esclusi dal lavoro.
I lavoratori del North Dakota hanno cercato di ottenere una forma d'indennità di disoccupazione sull'esempio degli altri stati dove è presente l'azienda. Ma il governatore del Dakota che è repubblicano ha negato l'indennità. Al tempo stesso, l'amministratore delegato, David Berg, sulla base dei crescenti profitti registrati dall'azienda, intascava alla fine del 2011 un compenso di 2,4 milioni di dollari. Dieci mesi dopo l'inizio della serrata, e dopo ripetuti tentativi di negoziato da parte del sindacato che non mutano nella sostanza la posizione aziendale, il 23 giugno scorso si è svolto un nuovo referendum tra i lavoratori. Il referendum (è il terzo) si è concluso col rigetto da parte dei lavoratori delle condizioni poste dall'azienda.
La serrata continua, mentre la produzione continua con lavoratori non iscritti al sindacato. David Berg aveva spiegato agli azionisti alla fine dell'anno scorso che non bisognava cedere: «Si tratta di un cancro che bisogna estirpare», aveva affermato. Carla Kennedy, trentenne che fa parte dei 1300 che l'azienda è impegnata a mettere in ginocchio, finora senza riuscirvi, ha ricordato in un'intervista come è cominciato tutto: «Il mio ultimo turno di lavoro di notte era cominciato la sera del 31 luglio. Mi dissero di smettere a mezzanotte. Incontrai il capo del reparto che mi prese per un braccio e mi disse: per te qui non c'è più lavoro».
Marchionne - vale la pena di ripeterlo - non inventa nulla. Ha in mente un certo modo di organizzare la fabbrica, di americanizzare i rapporti di lavoro, e cerca di applicarlo. Quella applicata a Pomigliano è una serrata selettiva. Si riferisce solo a una parte dei lavoratori. Stranamente (per lui), un giudice ha osato mettersi di mezzo. Eppure quello che Marchionne si sforza di fare è molto semplice, cambiare un certo modo d'essere del mondo del lavoro, una certa concezione dei diritti e della dignità dei lavoratori, un certo modello di comportamenti. Come ha detto la ministra del lavoro nella sua intervista al Wall Street Journal: «Questa riforma (del lavoro) non è perfetta... ma per gli italiani è anche una scommessa sulla possibilità di cambiare per molti versi i loro comportamenti».
Stasera a Milano Libertà e Giustizia ospita in un dibattito pubblico il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. È un primo contatto con la cosiddetta “società civile” in vista delle elezioni del 2013. A discutere con il leader democratico ci saranno Sandra Bonsanti e Gustavo Zagrebelsky. Il presidente emerito della Consulta apprezza alcune aperture del Pd nei confronti del mondo esterno ai partiti. Come la scelta di votare per il cda della Rai due personalità delle associazioni. Intanto sulle riforme istituzionali si procede in ordine sparso e Berlusconi sembra pronto a far saltare anche quel tavolo.
«Ma davvero crediamo che il discorso sulle riforme costituzionali sia un discorso onesto, fatto cioè per il bene della Costituzione? A me sembra viceversa che serva strumentalmente a creare assi politici particolari, a lanciare messaggi all’opinione pubblica che sono appunto puri messaggi perché non si arriverà mai in fondo. Infine viene usato da alcune persone, anche nel Pd, per accreditarsi come protagonista di un clima costituente strizzando l’occhio all’avversario».
Fa bene Napolitano a difendere l’intesa raggiunta in commissione e ad avvertire la politica che fughe in avanti sono destinate al fallimento?
«Il presidente della Repubblica difende la funzionalità delle istituzioni e in questo svolge il suo ruolo. Ma a me non piace affatto la bozza in discussione. Meglio, molto meglio tenersi la Costituzione che c’è. Altri costituzionalisti la pensano così e loro non trafficano con la Carta, a differenza di quello che fanno i politici. Il rapporto tra Senato federale e Camera è un pasticcio inverecondo, la sfiducia costruttiva ingessa la vita politica estromettendo il presidente della Repubblica dalle sue funzioni di garante. Non sono il solo a essere contrario a certe proposte. Mi piacerebbe che il capo dello Stato rappresentasse anche queste posizioni».
Libertà e Giustizia al di là dei contenuti sostiene che questo Parlamento non è legittimato a cambiare la Costituzione.
«La risposta dei partiti è che l’articolo 138 sancisce la possibilità di modifiche. Definitive con il voto dei due terzi delle Camere, soggette a referendum con maggioranze della metà più uno. Ma quell’articolo presuppone che una larghissima maggioranza parlamentare coincida con la grande maggioranza del Paese. Oggi, siamo sicuri che sia così? Con i risultati delle amministrative, l’astensionismo, con l’esplodere del grillismo, questo Parlamento può pensare di mettere mano in profondità alla Costituzione?».
Però a questo Parlamento chiedete di cambiare la legge elettorale.
«Cambiare il Porcellum sarebbe un atto di resipiscenza attiva. Dopo essersi accorti di aver fatto una schifezza, gli autori corrono ai ripari. Per pentirsi, qualsiasi rappresentanza politica è buona».
Rispetto al Porcellum va bene tutto?
«Con la legge attuale abbiamo raggiunto il punto zero costruendo un sistema rovesciato dove il mondo politico non è al servizio dei cittadini ma il contrario. Però non dobbiamo affidare agli strumenti di tecnica elettorale la soluzione di gravi disfunzioni politiche. Per dire, c’era qualcuno che aveva addirittura immaginato nelle prime bozze tre premi di maggioranza per i primi tre partiti. Ecco dove si può arrivare senza un’opinione pubblica vigile».
Quel qualcuno era il Pd. Con queste premesse il confronto diventerà
un duello.
«Sulle questioni istituzionali LeG ha posizioni nette e vuole risposte altrettanto nette. Ma il dibattito con Bersani nasce nel clima più amichevole e costruttivo possibile. La nostra associazione è legata all’idea che una democrazia senza partiti non esiste. Siamo interessati a partiti che funzionino come canali di comunicazione tra cittadini-elettori e la politica. Temiamo la critica cieca ai partiti perché sappiamo dove conduce».
Bersani si è mosso in questa direzione con la scelta sulla Rai e con l’annuncio di un’apertura delle liste all’esterno?
«La vita politica non è fatta quasi mai di sole buone intenzioni bensì di risposte a necessità oggettive. Credo che il segretario del Pd sia davvero interessato, per convinzione, a un discorso di apertura e partecipazione. Ma anche se non fosse così il problema è recuperare alla vita politica due intere generazioni di elettori e contrastare fenomeni come l’astensionismo e il grillismo. Spero che in Bersani si realizzi un’unione feconda tra buona disposizione e stato di necessità».
Sulla Rai ha prevalso la prima?
«Badi che nessuno di noi ha mai chiesto posti e infatti nessuna associazione ha indicato nomi di propri membri presenti negli organismi dirigenti. La nostra aspirazione non è l’”entrismo”. Chi teme si voglia cercar posti, stia tranquillo. Ci auguriamo che molto presto non ci sia più bisogno di rivolgersi all’esterno per trovare persone degne di fiducia. La richiesta di aiuto è consolante da un lato perché dimostra disponibilità ma dall’altro è un segno di fragilità e impotenza. Perciò il nostro incontro ruota intorno alla domanda: come rianimare la vita politica del nostro paese ridando forza ai partiti e facendoli tornare ad essere attrattivi. Oggi sono repulsivi, soprattutto per le giovani generazioni».
“Stiamo cercando di proteggere le persone, e non il loro posto di lavoro. Deve cambiare l’atteggiamento delle persone. Il lavoro non è un diritto, deve essere guadagnato, anche attraverso sacrifici”. Su questa frase, affidata dal ministro del Lavoro Elsa Fornero al Wall Street Journal (“Work isn’t a right; it has to be earned, including through sacrifice”), si è scatenata la bufera. Le reazioni politiche hanno circondato la titolare del Welfare e così la Fornero è stata costretta a precisare: “Il diritto al lavoro non può essere messo in discussione perché è riconosciuto dalla Costituzione”.
La precisazione non è ufficiale. Ma fonti del dicastero precisano che nell’intervista la Fornero ha fatto riferimento “alla tutela del lavoratore nel mercato e non a quella del singolo posto di lavoro, come sempre sottolineato in ogni circostanza”. Insomma: il diritto è del lavoro, non del posto di lavoro. Ma non è bastato per placare la reazione dei partiti, in particolare quelli di opposizione. Antonio Di Pietro ha parlato di asineria politica, la Lega si chiede se il ministro abbia giurato su Topolino, il segretario di Rifondazione Ferrero le definisce parole aberranti.
“A quanto pare – ironizza il leader dell’Italia dei Valori sul suo blog – la badessa Fornero ha riscritto, tutta da sola e senza chiedere il permesso a nessuno, l’articolo 1 della Costituzione. Cara professoressa, questa è un’asineria bella e buona”. “La nostra Costituzione – continua Di Pietro – dice l’esatto contrario. Secondo la Carta, infatti, il lavoro è un diritto, così come lo è l’essere messi in grado di condurre una vita dignitosa in cambio del lavoro prestato. Questo governo, invece, continua a comportarsi come se l’articolo 1 della nostra Costituzione dicesse che l’Italia, anziché ‘una Repubblica democratica, fondata sul lavoro’, sia ‘una Repubblica oligarchica, fondata sulle banche e sulle caste’. Prima di capovolgere così il principio fondamentale della Repubblica, non sarebbe opportuno che i professori Monti e Fornero consultassero gli italiani per capire se sono d’accordo?”.
All’arrembaggio anche la Lega con il senatore Gianvittore Vaccari: “Il lavoro è un diritto. Il ministro Fornero ha giurato sulla Costituzione o su Topolino?”. “Napolitano richiami al suo dovere il ministro del Lavoro” aggiunge il senatore ricordando, oltre all’articolo 1, anche l’articolo 4 della Carta: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Probabilmente, conclude Vaccari, “la Fornero ha dimestichezza con troppi testi ma con pochi luoghi di lavoro”.
Le parole della Fornero sono “aberranti” secondi il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero che rincara la dose: ”La riforma che il governo sta blindando in queste ore con la fiducia alla Camera è un provvedimento pessimo, altro che buono: via libera ai licenziamenti con la demolizione dell’articolo 18 e precarietà per tutti”. E annuncia un referendum per ristabilire la vecchia forma dell’articolo 18.
“La prossima correzione sarà ‘il posto è un diritto, non il salario’ – attacca il responsabile Lavoro di Sel, Gennaro Migliore – La ministra ‘del non lavoro’ Fornero usa bene le parole per illustrare ai mercati il suo decreto”. “Un tempo si chiedeva ‘lavorare meno per lavorare tutti’, oggi con il decreto Fornero si passa a ‘lavorare? Dipende se sei figlio di papà e mamma’. Chi approverà il decreto del non lavoro romperà il patto di solidarietà costruito in cinquant’anni di lotte”. “Il ministro del Lavoro – chiosa Angelo Bonelli, presidente dei Verdi – dovrebbe contare fino a dieci prima di parlare o inciampare in stupidaggini come quella sul diritto al lavoro”.
Interviene anche il Pd, con il capogruppo in commissione Bilancio Pierpaolo Beretta: “‘Quella approvata oggi e’ una buona riforma, fortemente innovativa. E mi auguro che il governo spieghi questo agli italiani e agli interlocutori istituzionali, piuttosto che enfatizzarne gli aspetti di dissenso e sminuirne il significato con dichiarazioni controproducenti. Per noi il lavoro è un diritto. Mai pensato che i diritti siano senza fatiche e sacrifici. Peraltro, chi lavora onestamente lo sa bene. Ma guai a pensare che merito e competenza, che debbono essere alla base di una sana cultura del lavoro, possano attenuare il principio che ciascuno possa poter lavorare, e per questa via emanciparsi come persona e come cittadino”.
Infatti, tra le nubi della tempesta sulla gaffe, la Camera approverà entro oggi la riforma del mercato del lavoro. Proprio l’articolo che prevede il “nuovo” articolo 18 è stato approvato con i voti di fiducia di ieri. In vista del voto definitivo la Fornero si è recata a Palazzo Chigi per incontrare il presidente del Consiglio Mario Monti. L’approvazione avviene di corsa proprio per richiesta esplicita del presidente del Consiglio che vuole presentarsi al tavolo del Consiglio dell’Unione Europea di domani presentando quelli che ha definito i “progressi dell’Italia”, tra i quali appunto la riforma del lavoro.
Il provvedimento esce quindi da Montecitorio senza alcuna modifica rispetto alla versione approvata dal Senato. “Continuo a considerare questa riforma una buona riforma” ha spiegato la Fornero oggi. Ma ha ribadito che “il governo è disposto a fare cambiamenti”. I partiti, che hanno concesso la delega all’esecutivo non senza malumori, si aspettano ora che sulla questione degli esodati, sugli ammortizzatori e sulla flessibilità in entrata, l’esecutivo intervenga “al più presto”. Protestano i sindacati, con la Cgil che organizza a piazza Montecitorio un ‘grande presidio’ contro un provvedimento che giudica “dannoso”.
Contestazioni in piazza in occasione degli stati generali del Sociale a Roma, dov’è intervenuta la stessa Fornero: un gruppo di manifestanti ha lanciato pile elettriche, zucchine e uova contro gli agenti della Guardia di Finanza. Qui il ministro ha ripetuto che la riforma va fatta partire perché ha novità importanti per i giovani.
I sindacati ribadiscono la loro contrarietà alla riforma: la Cgil è scesa in piazza in tutta Italia, mentre secondo Raffaele Bonanni della Cisl, “non risponde a quello che si era detto dall’inizio, e cioè che da queste norme ci sarebbero stati più posti di lavoro”. Anzi, aggiunge, “meno si tocca il testo e meglio è, perché lo si vuole toccare solo per peggiorarlo”.“Il governo ha avuto un dialogo di circa tre mesi con le parti sociali per arrivare a un documento condiviso, da tutte le parti sociali tranne la Cgil” è la risposta del ministro del Lavoro.
Domani si riuniranno a Bruxelles, nei dintorni del Parlamento europeo, coloro che hanno partecipato all'elaborazione della Rotta d'Europa, proposta da Sbilanciamoci con la collaborazione del manifesto. Sono gruppi diversi, associazioni, movimenti che, assieme a molti esperti, hanno lavorato non solo all'analisi della crisi ma ad alcune proposte essenziali per impedirne la precipitazione. Siamo infatti ormai da un paio di anni sull'orlo d'un disastro che ha già coinvolto diversi paesi della cosiddetta periferia sud, ha fatto a pezzi la Grecia, ha costretto qualche giorno fa la Spagna ad accettare i diktat della troika per avere un prestito, e stringe l'Italia a una politica di rigore unilaterale, accettata da otto mesi da un parlamento unanime - nuova anomalia peninsulare. Già nel continente la crescita è a livelli minimi, la disoccupazione non cessa di salire, lavoratori - precari o no - e pensionati sono costretti a un sempre più pesante regime di sacrifici per evitare, se mai lo eviteranno, di sprofondare nella trappola del debito.
Non basta. Perfino il rigorista Monti si trova un po' in difficoltà fra il pessimo umore che sente montare in Italia e la rigidità della Germania, padrona illegittima ma indiscussa d'Europa. Sempre domani, contemporaneamente a noi ma con ben altri poteri e solennità si riunirà a Bruxelles il Consiglio d'Europa, e assisteremo a un suo ennesimo incagliarsi fra interessi contrastanti, unito soltanto dalla sordità verso le proteste dei deboli. Proteste che non trovano nessuna rappresentanza nelle nostre istituzioni elettive, che pur decidono in ultima istanza. È dunque dal gruppo di esperti, associazioni e movimenti che assieme o in parallelo con noi hanno lavorato, che domani verrà avanzata una serie di misure d'urgenza, che metteremo a confronto ed a punto. Già sappiamo, per i rapporti che sono intercorsi in questi mesi, gli incontri e i documenti, che esse hanno al centro una tassazione sulle transazioni finanziarie, il mutamento della regola che impedisce alla Bce di prestare agli stati all'interesse dell'1%, consentitole soltanto con banche o istituti che li prestano a tassi almeno sei volte maggiori ai paesi in difficoltà (in Grecia a venti e oltre, se questa non è usura come chiamarla?), consentono la rinegoziazione del debito, delineano una regolamentazione fiscale omogenea di tutta la zona a Ue senza la quale ogni paese debitore è esposto a speculazioni indecenti, inizia a togliere dalle nebbie i vari progetti di finanziamento comunitario come gli eurobonds, riflette su una assunzione continentale del debito come nel regime federale degli Stati Uniti e di una crescita attraverso un progetto di reindustrializzazione che poggia su due assi, il primato di una green economy e una omologazione sociale avanzata dei regimi sociali, il cui disordine è alla base delle funeste delocalizzazioni.
Nulla di questo è impossibile, e nemmeno grandemente rivoluzionario; è una gestione delle risorse meno disordinata, meno crudele e anche - a guardarne i risultati - meno stupida di quella compiuta dalle scelte liberali, e permessa dall'ambiguità dei poteri comunitari oggi oscillanti, fra sovranismi e subalternità, verso una democrazia zero. Le scelte economiche comportano infatti anche scelte istituzionali finora sospese e da correggere, in una comunità cominciata male e che rischia di finire in peggio.
ALLA vigilia del vertice europeo di domani, l’economista greco Yanis Varoufakis scruta l’incaponita ottusità delle politiche con cui i governi dell’Unione pretendono di salvare la moneta unica, e si stupisce di fronte a tanto guazzabuglio dei cuori e delle azioni. Un’attesa quasi messianica di palingenesi si combina all’abulia dei politici, alla pigrizia mentale degli economisti, alla sbalorditiva mancanza di leadership. Ancora una volta siamo alla vigilia di un vertice definito cruciale.
Ci sarà un prima e un dopo, decideremo cose grandi o fatalmente naufragheremo. In Italia, chi punta allo sfascio annuncia che Monti avrà fallito, se fallisce il summit: come se il guazzabuglio europeo fosse suo, come se le responsabilità di Berlusconi si dissolvessero in quelle del successore. Alcuni si esercitano a contare i minuti: l’euro non vivrà più di tre mesi, dicono, pensando forse che l’orologio stia fermo. Sono anni che i mesi di vita sono quasi sempre tre.
È quello che spinge Varoufakis a fare due paragoni storici che impaurano a pensarci. Il primo rimanda alla crisi del ’29, e alla condotta che il Presidente americano Hoover ebbe a quel tempo. La ricetta era uguale a quella di oggi: ridurre drasticamente la spesa pubblica, tagliare salari e potere d’acquisto, il tutto mentre l’economia Usa implodeva. Seguirono povertà, furore, e in Europa fine della democrazia. Non meno inquietante il paragone con la guerra del Vietnam: negli anni ’60-’70, gli uomini del Pentagono erano già certi della sconfitta. Continuarono a gettar bombe sul Vietnam, convulsamente, perché non riuscivano a mettersi d’accordo su come smettere un attivismo palesemente sciagurato. Riconoscere l’errore e cambiar rotta avrebbe salvato migliaia di vite americana, centinaia di migliaia di vite vietnamite, e risparmiato parecchi soldi. Disfatte simili a queste lo storico Marc Bloch le chiamò «strane», nel 1940: le avanguardie politico-militari sono senza visione né guida, mentre nelle retrovie società e classi dirigenti franano. Chi guida oggi l’Europa è animato dalla stessa non-volontà (l’antico peccato di nolitio): la crisi delle banche e dei debiti non è guerra armata, ma certi riflessi sono identici. Il povero cittadino perde la testa, non si raccapezza.
Sono mesi che si succedono vertici (a due, quattro, diciassette, ventisette) e ognuno è detto risolutivo. Sono mesi che sul palcoscenico vengono e vanno personaggi, declamando frasi inalterabili. Merkel e Schäuble entrano in sala di Consiglio, si siedono, e recitano: «Non si può fare, prima della solidarietà ognuno faccia ordine a casa». E sempre c’è qualcuno, della periferia-Sud, che invece di negoziare sul serio implora: «Ma fate uno sforzo, qui si sta naufragando!». Sembra la musica che nei dischi di vinile d’improvviso s’incantava. Si siedono e ripetono se stessi (Ecolalia è il termine medico), come i generali quando continuavano a cannoneggiare i vietnamiti nella speranza che la guerra, come i mercati, si sarebbe placata da sola, esaurendosi.
Qualcosa, è vero, sta muovendosi in Europa. Grazie alle pressioni di socialdemocratici e verdi, il governo tedesco ammette d’un tratto che qualcosa bisogna fare per la crescita (una parola vana come quando i generali in guerra dicono: pace). Nella riunione a 4 che si è svolta a Roma tra Merkel, Hollande, Monti, Rajoy si è deciso di mobilitare 120 miliardi di euro (una bella somma ma sporadica, visto che contemporaneamente non si vuole un aumento del comune bilancio europeo). Si è anche deciso, finalmente, di ignorare le riserve inglesi e svedesi e di approvare una tassa sulle transazioni finanziarie, per dar respiro all’eurozona. Chi da anni lotta per la Tobin tax spera che nasca, per la prima volta, una vera fiscalità europea: il gettito previsto è di 30-50 miliardi all’anno, senza aggravi per i contribuenti. Ma la tassa ha difetti non ancora risolti: come pensare che l’Unione possa avviare con propri soldi investimenti congiunti, se il gettito non andrà nella cassa comune? Il 29 marzo, sulla Zeit, il ministro delle finanze austriaco si felicitò in anticipo per la tassa, i cui proventi erano già iscritti nel bilancio del 2014: nel bilancio austriaco, non europeo. Passi avanti sono stati fatti, assicurano i governi, ma l’essenziale manca: ancora non si possono emettere eurobond, e Berlino esita sul progetto – concepito in novembre dal Consiglio tedesco degli esperti economici – di una redenzione parziale dei debiti. «Ci vuole un salto federale», si comincia a sussurrare, ma anche queste parole rischiano di tramutarsi in nomi nudi, apparenti: come crescita, pace. Perfino cultura della stabilità diventa nome nudo, senz’alcun rapporto con l’idea che ci facciamo di una vita stabile. La sostanza che resta è il dogma tedesco della casa in ordine.
E resta il nuovo potere di controllo sui bilanci nazionali, conferito alla Commissione di Bruxelles. Ma un potere strano, di tecnici che censurano e castigano. Non un potere che edifica politiche, dispone di proprie risorse, è controbilanciato democraticamente. Non dimentichiamolo: le spese federali in America coprono il 24 per cento circa del prodotto nazionale. Quelle dell’Unione l’1,2. Quanto alla tassa sulle emissioni di biossido di carbonio (carbon tax), nessuno ne parla più.
Il fatto è che le misure non bastano perché il male non è tecnico: è politico. Ci siamo abituati a criminalizzare i mercati, a dire che l’Europa non deve dipendere dalla loro vista corta. Ma li ascoltiamo, i mercati? Sono imprevedibili, ma se diffidano dei nostri rimedi significa che c’è dell’altro nella loro domanda: «Siete proprio intenzionati a salvare l’Euro? La volete fare o no, l’unione politica che nominate sempre, restando fermi?». Se i mercati somigliano a una muta aizzata è perché fiutano un’Europa e una Germania che il potere non se lo vogliono prendere, che scelgono l’irrilevanza mondiale. Si calmeranno solo di fronte a un piano con precise scadenze (importa dare la data, anche se non immedia-ta): un piano che preveda un fisco europeo, un bilancio europeo credibile, un controllo del Parlamento europeo, una Banca centrale simile alla Federal reserve, un’unica politica estera. Hanno ragione a insistere. Anche perché stavolta, manca l’America postbellica che spinse alla federazione. Obama chiede misurette all’Europa, non un grande disegno unitario.
In una conferenza dei verdi tedeschi, domenica a Berlino, Monica Frassoni, Presidente del Verdi europei, ha detto parole giuste: «Quello di cui tutti (mercati compresi) abbiamo bisogno è che la parola
più Europa significhi qualcosa», non sia flatus vocis.
Deve esser chiaro in maniera lampante che Grecia, Italia, Portogallo, Spagna non potranno sanare i debiti con terapie che il debito addirittura l’accrescono. Urge un cambio di passo, dunque «una dichiarazione che dica: non si permetterà a nessuno Stato di fallire; la Bce interverrà comprando titoli delle nazioni indebitate se il Fondo salva-Stati non basta; l’Unione si darà un bilancio federale degno di questo nome, capace di avviare una crescita diversa, ecologicamente sostenibile ».
Il salto federale di cui c’è bisogno, pochi vogliono compierlo. Hollande dice che l’unione politica voluta da Berlino è accettabile solo se subito c’è solidarietà. La Merkel non esclude la solidarietà, ma prima chiedel’unione politica (anche se ieri ogni idea di scambio è svanita: « Finché vivrò non
accetterò gli eurobond»). Qualcuno dunque bluffa. È come la scena del film Gioventù bruciata: due ragazzi guidano simultaneamente le loro auto verso un dirupo. Il primo che sterza sarà chiamato coniglio o pollo (per questo si parla di chicken game). Se entrambi insistono nella corsa finiranno nella fossa. È tragico il gioco, perché riproduce il vecchio equilibrio di potenze nazionali che ha condotto il continente alla rovina. L’Unione europea era nata per abolire simili gare di morte.
San Giuliano di Puglia(Campobasso). Siamo abituati a parlare degli anni berlusconiani come di un’epoca di torbidi: torbidi nei palazzi di potere, nei rapporti tra esecutivo e magistratura, nei partiti che avrebbero potuto, se lo avessero voluto, fermare la degradazione della politica, il discredito terribile che oggi l’affligge. Siamo meno abituati a considerare le cicatrici che questi anni hanno lasciato sul corpo fisico dell’Italia, sul suo paesaggio, sull’idea che gli italiani si fanno delle proprie città, sul modo in cui le abitano. Sono sfregi profondi (si aggiungono a più antichi sfregi: il sacco di Palermo negli anni ‘50-’70 fu l’acme) e in ampie zone d’Italia sono indelebili: ci hanno cambiato antropologicamente, nessun’alternanza riuscirà a eliminarli. Parlo delle ferite non rimarginate all’Aquila, città che ho visto rinserrata nei ponteggi, dopo oltre tre anni, come un prigioniero impietrito di Michelangelo. Parlo di San Giuliano di Puglia, dove sono andata per capire e vedere com’è iniziato questo strazio cui dovremo ormai dare il nome che merita: urbanicidio, rito sacrificale che ha immolato tante città terremotate, riducendo in polvere la parola stessa che usiamo associare alla polis: il vivere urbano che incivilisce l’uomo, che lo rende conviviale, aperto al diverso. È stato Antonello Caporale a consigliarmi questo viaggio («Vai lì, è lì che tutto è cominciato») ed è lui a guidarmi nel borgo che Berlusconi ha rifatto, truccato, storto, e usato.
Tutti ricordiamo il giorno in cui la terra a San Giuliano tremò. Era il 31 ottobre 2002, e alle 11.32 crollò la scuola: schiacciati dalle macerie, 27 bambini della prima elementare morirono con la loro maestra, Carmela Ciniglio. Ricordiamo l’orrore, poi la sera i fari e le telecamere che s’accesero per filmare l’arrivo del Presidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Non aveva telefonato a nessuno prima, neanche al sindaco Antonio Borrelli che nel sisma aveva perso la figlia. Aveva bisogno di telecamere e fu davanti a esse che promise la redenzione se non la resurrezione, da vero Re Guaritore. Ripetutamente usò l’avverbio prediletto: assolutamente.
Assolutamente sarebbe sorta «una nuova San Giuliano». Assolutamente avrebbe «realizzato un quartiere pieno di verde, con la separazione completa delle automobili dai percorsi per i pedoni e le biciclette ». Entro 24 mesi, assolutamente, gli abitanti avrebbero ricevuto «nuovi appartamenti funzionali, innovativi, costruiti secondo le nuove tecniche della domotica, in un ambiente verde».
Fu uno sgargiante teatro della morte, il filmato che Porta a Porta trasmise quella sera sul Premier in missione. Volti segnati dal dolore, occhi scintillanti, parole che promettevano miracoli in tempi perentoriamente dati per certi. E che visione alla grande!
Una scuola già pericolante, mai collaudata dopo una ristrutturazione criminosa, era stata distrutta, le altre case avevano crepe ma erano intatte, e nonostante ciò un intero paese andava rifatto ex novo, come la mappa immaginaria di Borges che è così esaustiva da coprire per intero l’universo del reale, fino a sostituirlo e renderlo del tutto inutile, ininfluente.
È la Superfetazione dei terremoti denunciata da Antonello Caporale: letteralmente, l’affastellarsi di aggiunte ricostruttive decise in un secondo tempo, e superflue. Un pleonasmo. Conta la mappa, non la realtà con le persone che contiene. Nella sceneggiatura cominciarono a proliferare, accanto all’avverbio assolutamente, i diminutivi che nel 2009 all’Aquila avrebbero impregnato la neolingua delle disgrazie italiane: le casette, gli angioletti, i praticelli, e via vezzeggiando, trasformando la messa in scena del dolore in kitsch. La San Giuliano che ho visto non è la cittadina d’un tempo. È divenuta l’occasione di un ciclopico esperi mento urbanistico, e un inaudito spreco di denaro pubblico che ancor oggi paghiamo. È stata invenzione di bruttura, disumanizzazione di una città, spudorata circolazione di denaro dello Stato a vantaggio di una cricca chiusa: le tre cose vanno insieme. Un paese minuscolo, di circa 1.000 abitanti, è stato metamorfosato in una sorta di metropoli: con fontane monumentali, con un parco della memoria che imita il memoriale dell’olocausto a Berlino, una scuola mastodontica che potrebbe ospitare migliaia di bambini e invece ne accoglie non più di 98. All’elenco si aggiungono altre assurdità: una piscina olimpionica (il paese è essenzialmente abitato da anziani), un Palazzo dello Sport, una strada di 700 metri attorno alla città costata 5 milioni di euro, un auditorium, un mega edificio per la succursale dell’università del Molise, un centro polifunzionale necessario all’accademia. L’università è accostata alla nuova scuola: la targa all’ingresso pomposamente certifica la destinazione dell’edificio, ma l’università qui non è venuta mai. Chi c’è qua dentro? Un call center. I quartieri, gli appartamenti ipermoderni, le grandi opere annunciati da Berlusconi sono tutti monumen-tali, tutti sconfinatamente sovradimensionati. Tutti pensati non per gli abitanti che hanno ricevuto quest’inattesa e misteriosa manna, ma per magnificare il taumaturgo, per far scena, come facevano scena Nerone o Pietro il Grande. Il vice del Re Guaritore è Guido Bertolaso, l’angiolone della Protezione civile.
Ed ecco come si presenta la Nuova Gerusalemme molisana: nella città bassa la piazza 31 ottobre 2002, teatrale e fredda, le case disegnate e colorate con le sue forme bizzarre, che nulla hanno a vedere con il vecchio paese. La piazza è quasi sempre vuota, mi dicono in città: è dissuasiva. Ci sono scalinate in pietre pregiate, strisce pedonali non dipinte ma di marmo, e a ridosso della piazza una strada inutile, addirittura in porfido. Il visitatore, se non è guidato, difficilmente si raccapezzerà. Avrà l’impressione di una manna grandiosa ma misteriosa, appunto. Nessun mistero invece, come Caporale spiega perfettamente (Terremoti Spa, Rizzoli 2010, in particolare il capitolo su «teoria e pratica del terremoto infinito»). Sin da principio la strategia fu chiara, ineluttabile: perché il cataclisma possa essere convertito in occasione, occorre che il fabbisogno di soldi e di ricostruzione diventi infinito, che il numero di terremotati incongruamente lieviti, che i comuni sfasciati si moltiplichino ad libitum. L’area sismica andava estesa: perché più largo il cratere, più si spende, si specula e si scrocca. Michele Mignogna, condirettore del giornale Il Ponte online, mi ricorda i nomi della cricca che confezionò in vitro il modello emergenziale, ingrossando le spese e lucrando. In primis Claudio Rinaldi (nel frattempo indagato per abuso d’ufficio e corruzione: uomo di Bertolaso, amico di Balducci e Anemone. Bertolaso stesso. Michele Iorio, Presidente della Regione e Commissario alla ricostruzione (nel frattempo condannato in primo grado per abuso di ufficio, indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, concorso formale per reato reiterato, e per aver «esteso abusivamente l’area del cratere non avendone la competenza né la legittimazione»).
È il paradigma dell’Italia che viviamo. I governi colpevolizzano gli italiani che vivono al di sopra dei loro mezzi, ma sbagliano bersaglio quando impudentemente pontificano. Sono loro che pur di sceneggiare e lucrare ci hanno fatto vivere sopra i nostri mezzi. È così quasi ovunque: in Campania dal terremoto dell’80, in Molise, in Abruzzo. Nel suo bel libro su camorra e immondezza campana, Tommaso Sodano racconta molto bene come malaffare politico e malavita, in combutta, abbiano fatto dell’Italia uno dei più corrotti, indebitati paesi del mondo. Non c’è calamità naturale, non c’è dramma dei rifiuti, che non diventi banchetto, robba da divorare, terra da stuprare, morte oscenamente trasfigurata in opportunità da presunti Uomini Nuovi. Le parole d’ordine dell’homo novus — scrive Sodano — sono «passato, disastro, cambiamento, novità, futuro». Altro non fu il terremoto in Irpinia: «appalti agli amici e spreco di denaro pubblico». (Tommaso Sodano, La Peste, Rizzoli 2010). Abbiamo visto come i diminutivi siano il marchio dell’homo novus.
A chi visitasse San Giuliano consiglio uno sguardo sulla Fonte degli Angeli, in vetro di Murano e ceramica, ideata da Sabino Ventura e dalla giapponese Yumiko Tachimi. È installata nel patio nella nuova scuola “Angeli di San Giuliano”: ventisette obesi putti bianchi, ventri e sederi ridondanti, che ridono ebeti sotto gli spruzzi d’acqua. Chiara D’Amico, un’amica che viene dal vicino comune di Jelsi, mi guarda smarrita. Dice che non riesce a guardare, le si rivolta lo stomaco. I putti ricordano il Pegaso fatato Papo che piace ai bambini in età d’asilo.
A questo serve la struttura emergenziale. Nell’emergenza tutto è permesso, le leggi e normali gare vengono aggirate, il cittadino sgrana gli occhi, infantilizzato. Si formano piccole cerchie: sono gli invitati al banchetto. E quando finisce la fase dell’emergenza se ne apre un’altra subdolamente affine: la fase della «criticità » (Monti ha finito col chiuderla). Mi dice Michele Petraroia, ex segretario della Cgil, vicino all’associazione Libera di Don Ciotti, oggi consigliere regionale del Molise: «San Giuliano servì da cavia per il modello Berlusconi-Bertolaso. Un meccanismo preciso: il Commissario per la ricostruzione diveniva Presidente della Regione, la Protezione civile prendeva ogni potere esautorando gli amministratori locali, Palazzo Chigi accentrava le operazioni garantendo risorse. Il mezzo erano le ordinanze della Presidenza del consiglio, che fissavano i criteri di ricostruzione e la ripresa economica della zona, e grazie alle quali venivano eluse leggi e gare d’appalto. Solo grazie all’ultimo governo Prodi divenne obbligatoria la cosiddetta rendicontazione. Il piano è costato in dieci anni 1 miliardo di euro: un torrente spropositato rovesciato su zone che spesso non ne avevano alcun bisogno». I comuni terremotati erano 25-30 (secondo altre stime 18). Divennero 84. Il risultato? «Una ricostruzione fermatasi al 35 per cento, le scuole non messe in sicurezza, il calo demografico, le imprese chiuse, lo spopolamento di San Giuliano». Si parla poco degli architetti, che si sono prestati alla creazione delle città-cavia. Si parla poco dell’offesa, dell’umiliazione che il brutto secerne, soprattutto in un paese come l’Italia. L’urbanicidio è fatto anche di questo, e un giorno gli architetti dovranno ripensare la loro responsabilità.
Tra le persone straordinarie che ho incontrato nel Molise, vorrei ricordarne una in particolare: è Don Antonio Di Lalla, parroco di Bonefro e delle annesse, fatiscenti casette provvisorie che ancora ospitano 10 famiglie di sfollati. Dirige un giornale indispensabile per chi voglia conoscere l’Italia che si oppone agli scempi: La Fonte — Periodico dei terremotati o di resistenza umana. Dice Don Antonio: «La domanda che dobbiamo porci è: che fine ha fatto tutto il danaro messo a disposizione? Il fatto è che si preferisce il superfluo — mentre parla penso alla
domotica, alle strade in porfido, alla scuola abnorme di San Giuliano — ma si lascia incompiuto l’essenziale, in modo tale che si eterni questo clima di dipendenza nei confronti di chi distribuisce risorse. Ci sono stati sprechi enormi, ma i soldi sono stati dati per opere morte; opere fatte e chiuse (come l’università fantasma). Non per opere dove l’uomo ricominci il lavoro e la vita cittadina normale».
Il castello di Sergio Marchionne si è disfatto come una formina di sabbia quando arriva un'onda più potente e distrugge la costruzione con le torri allestita dal bambino in costume. Anche il castello di Marchionne era costruito sulla sabbia e una sentenza del tribunale di Roma l'ha buttato giù, semplicemente rimarcando un dato ovvio ma mai acquisito davvero: in Italia la legge vale anche per la Fiat. La Fiat ha discriminato gli operai iscritti alla Fiom per le loro idee e per colpire il sindacato da cui hanno deciso di farsi rappresentare. Su 2091 nuovi (si fa per dire) assunti non ce n'è uno solo con quella tessera in tasca. E questo non si può fare da noi, neanche invocando la produttività e la globalizzazione, il dio mercato e la madonna spread. Di conseguenza la multinazionale, già torinese, è costretta dalla sentenza ad assumere subito, oggi, nella nuova società di Pomigliano - nuova solo per mettere fuori il sindacato di Landini - 145 operai iscritti alla Fiom. E a pagare 3 mila euro a ciascuno dei 19 lavoratori che hanno intentato causa all'azienda, l'intero gruppo dirigente dei metalmeccanici Cgil sotto il Vesuvio.
Non basta. Siccome una sentenza precedente targata Torino obbliga la Fiat a riconoscere il diritto della Fiom a eleggere le sue rappresentanze, ora che 145 militanti di questo sindacato rientreranno in fabbrica automaticamente potranno darsi una rappresentanza e riprendere quell'attività democratica che nel castello di sabbia di Marchionne era stata loro impedita. Non è una vittoria della Fiom ma della democrazia perché riconosce ai lavoratori il diritto di scegliere il proprio sindacato e condanna la pretesa della Fiat di decidere al loro posto.
La sentenza di Roma rappresenta la vittoria di una straordinaria comunità operaia che ha resistito all'aggressione di un padrone prepotente che ha tentato in tutti i modi, con l'aiuto dei sindacati complici, dei governi, della politica subalterna di espellere i diritti dalla fabbrica. Franco non riesce a trattenere le lacrime, Antonio che è appena sbarcato da un congresso internazionale del sindacato dell'industria a Copenhagen si stropiccia gli occhi assonnati e non riesce a parlare. Maurizio Landini fatica a nascondere una commozione sincera e per primi ringrazia gli operai di Pomigliano che hanno resistito a minacce, ricatti e sirene che consigliavano di consegnare lo scalpo in cambio del posto. La controprova della discriminazione messa in atto dalla Fiat sta nel fatto che 20 operai di Pomigliano sono stati assunti solo dopo aver stracciato la tessera della Fiom. Ciro invece ringrazia le mogli e le compagne degli operai discriminati per aver sopportato e anch'esse resistito. «La cosa più bella questa mattina è stato il pianto a dirotto di mia moglie quando ci hanno telefonato la notizia della sentenza».
Dignità e orgoglio sono i pilastri di una resistenza durata due anni, due anni terribili in cassa integrazione perché marchiati a fuoco, con i figli che ti guardano negli occhi «e tu quasi ti vergogni», con i negozianti che non ti fanno più credito, i vicini di casa che non ti salutano, gli ex compagni di fabbrica che se ti incontrano abbassano la testa. Quella di Pomigliano è una storia modernissima che ricorda tante storie del Novecento e persino dell'Ottocento, quando non c'erano la globalizzazione e lo spread e i padroni delle ferriere facevano il bello e soprattutto il cattivo tempo. C'erano anche comunità di resistenti, mondine, minatori, ferrovieri, operai. Poi finalmente l'Italia postfascista si è data una Costituzione e persino uno Statuto dei lavoratori. Poi sono tornati i padroni delle ferriere, la politica è stata a guardare o ha applaudito l'uomo della provvidenza con il golfino, i sindaci democratici hanno detto che se fossero stati operai avrebbero detto sì a Marchionne che cancellava lo sciopero, la mensa, i riposi, la Fiom. I governi hanno assecondato e a Pomigliano sono stati costretti a fare come le mondine, i minatori, i ferrovieri, gli operai dell'Ottocento e del primo Novecento. I media si sono messi in linea. Sono tenaci questi operai ribelli, e generosi perché lottano per tutti e chiedono che tutti e 5 mila tornino al lavoro. E se di lavoro ce n'è poco, si possono sempre fare i contratti di solidarietà seguendo l'esperienza della Volkswagen. Dice Ciro: «Mando un pensiero anche a chi non ce l'ha fatta, a chi preso per la gola ha piegato la testa con la speranza di tornare al lavoro e magari ancora aspetta una chiamata. Non li abbandoneremo. Spero che questa sentenza dia coraggio a chi è stato vinto dalla paura».
Anche nella Cgil in molti avevano «consigliato» agli operai di Pomigliano e in seguito a quelli di Mirafiori di mettere da parte orgoglio e principi per mantenere il diritto a fare sindacato in fabbrica. Bella roba. Andrea non si tiene, in un misto di rabbia e di gioia quasi grida: «Marchionne dovrebbe finalmente capire che da questa fabbrica non riuscirà mai a cacciarci». Insomma, Corvo rosso non avrai il mio scalpo.
Come dice il commosso Landini, che deve il suo successo sindacale e mediatico anche all'orgoglio di questa comunità operaia e lo riconosce, «Marchionne dovrebbe capire che la determinazione, la voglia di lavorare e lavorare bene di queste persone farebbero funzionare meglio le sue fabbriche». Chissà che pensa Marchionne, tutti si chiedono cosa potrà mai inventarsi questa volta. Con quale faccia potrebbe reagire annunciando la dipartita dall'Italia (che sta praticando da mesi) perché vogliono fargli rispettare le leggi e le sentenze? La verità è che dei cinquemila dipendenti della vecchia fabbrica di Pomigliano ne ha riassunti solo duemila, perché la Panda non si vende e la Fiat continua a perdere quote nei mercati italiano ed europeo. Però Marchionne pensava di avere almeno spezzato le reni a quei ribelli della Fiom che come dice Crozza gli tirano i gatti morti sul finestrino. Ha sbagliato i conti, se non si investe in nuovi prodotti si esce dai mercati e infatti investe soltanto negli Usa dove la Chrysler non sta uscendo dal mercato. E sbaglia perché non ha capito di che farina sono fatti gli operai della Fiom di Pomigliano. Resta la speranza, seppur vaga, che tanti errori possano insegnargli qualcosa. Ma è già una grande soddisfazione, questo ci sia consentito, vedere questi nostri amici partenopei piangere di gioia e immaginare la natura diversa delle lacrime di Marchion
Avevamo, purtroppo, ragione qualche settimana fa (il manifesto del 5 scorso) a gettare l'allarme alla notizia che il Pdl si apprestava a far proporre dai suoi senatori la trasformazione della forma di governo della Repubblica da parlamentare in semipresidenziale, con un emendamento al disegno di legge costituzionale, detto ABC, esemplare, già da solo, di quello che non può essere, per decenza, un progetto di legge di revisione costituzionale. Di emendamenti poi ne sono stati presentati nove. Ce ne vorrebbero il doppio, il triplo ed anche più se fosse logicamente, giuridicamente, democraticamente concepibile una siffatta proposta.
Infatti, non lo è. Perché non è immaginabile che si possa modificare la forma di governo di un Paese civile in assenza di una informazione estesa, dettagliata, meditata, di una proposta discussa, esaminata, dibattuta. Senza cioè che le elettrici e gli elettori ne sappiano qualcosa. Senza che i membri del Parlamento possano esibire qualche straccio di mandato politico. Contro, radicalmente contro la volontà netta, chiara, univoca espressa sei anni fa dal corpo elettorale con referendum oppositivo al una deliberazione legislativa parlamentare diretta ad analoghi fini, quelli di concentrare poteri in un solo organo. Una dichiarazione di volontà che confermava la forma di governo parlamentare e quindi ne rinnovava la validità e l'efficacia. Non è concepibile quell'emendamento e cento altri di quel tipo - ed è per chi scrive la ragione risolutiva - perché la forma di governo è sottratta al potere di revisione costituzionale dall'articolo 139 della Costituzione.
Ma certi settori dello schieramento politico italiano non limitano la loro vocazione ad indignare. Come se non bastasse quello o quelli sul semipresidenzialismo, un altro emendamento risulta presentato al Senato sul disegno di legge costituzionale ABC. È l'emendamento volto ad aggettivare il Senato col termine "federale". Alla modifica della forma di governo verrebbe aggiunta così quella del tipo di stato. Una pretesa abnorme, impossibile a pensarci. Si tratterebbe di sconvolgere l'intera struttura dello stato-soggetto, di tutti i suoi apparati, di tutte le competenze, di tutti i poteri pubblici, l'intera distribuzione delle risorse pubbliche e dei debiti dello stato. Si tratterebbe cioè di erigere un altro stato. Lo si vorrebbe con un emendamento.
Non è follia, come appare. Si tratta della più recente manifestazione dell'uso illegale del potere legale a fini distorti, privati, eversivi. È l'uso che abbiamo tante volte denunziato in questo ventennio. Oggi viene sperimentato in sede di revisione costituzionale per ottenere dalla Lega i voti per il semipresidenzialismo dando in cambio una denominazione al Senato del tutto ingannevole, che potrebbe ben prestarsi però a scardinare l'unità della Repubblica.
La Lega mirerebbe a compensare con una falsa denominazione l'uso privato del denaro pubblico che ne vede dimezzati i consensi. Il Pdl, nel disegno delle sue frange estreme, guadagnerebbe invece l'ultima possibilità di offrire al suo capo lo strumento per sperimentare ancora una volta le sue uniche qualità, quelle di imbonitore che ha già determinato tante sciagure all'Italia.
La combinazione dei due "emendamenti" riserverebbe alla Repubblica l'intruglio letale. Alla democrazia italiana l'inavvertita scomparsa.
Da cittadini e da abbonati dobbiamo augurarci che arrivino designazioni spedite dalle associazioni alle quali, con felice intuizione, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, ha chiesto due nomi da votare per il CdA Rai in Vigilanza. Si tratterebbe di una soluzione non partitica che anche le altre forze dovrebbero adottare per uscire da una palude altrimenti micidiale. Non si cambierà in tal modo il «governo» Rai che l’oscena legge Gasparri fa dipendere dall’esecutivo e dai partiti, ma se ne mitigheranno gli effetti disastrosi. Specie se per il Consiglio di Amministrazione si sceglieranno persone, oltre che oneste, capaci e competenti nella gestione di un’azienda tanto complessa. Il tutto in attesa, ovviamente, della indispensabile riforma della «governance», oggi lontana da ogni formula e garanzia europea.
Certo, i conti rappresentano un problema chiave per la Rai. È in grave crisi la raccolta pubblicitaria drenata, come ad altre tv generaliste, nelle forme più varie e insidiose. La Sipra, nel 2011, è rimasta sotto dell’8,2 per cento rispetto all’obiettivo di 1.050 milioni e il suo 2012 rischia di risultare anche più magro. Nel contempo il canone di abbonamento, aumentato a 112 euro (+1,5), continua ad essere il più basso d’Europa (la Francia è a 123, l’Irlanda a 160, la Gran Bretagna a 183, la Germania a 213, l’Austria a 264 e via salendo) e anche il più evaso.
Poi va registrata la perdita della Formula Uno a beneficio di Sky. I diritti tv del circus della F1 sono passati all’emittente satellitare: Sky trasmetterà in esclusiva 11 dei 20 Gran Premi della prossima stagione mentre i restanti 9 saranno “girati” anche alle televisioni in chiaro. L’addio alla F1, sommato a quello del Moto GP e, in prospettiva, dei Mondiali di Calcio, indeboliscono la “fedeltà” dell’abbonato. Del resto, negli ultimi sette anni l’azienda ha ridotto di circa 300 milioni i costi gestionali e tuttavia quelli per il personale sono saliti di 150. Ma i programmi di maggior qualità e impatto sono da tempo prodotti all’esterno.
Sono soltanto conti questi, per i quali occorrono guardiani severi quali la presidente Annamaria Tarantola (Bankitalia) e il direttore generale designato Luigi Gubitosi? E però chi si occuperà di contenuti, di programmi, di palinsesti diversificati e attraenti? È problema tecnico-finanziario l’aver cancellato nel recente passato programmi come quelli di Santoro e di Fazio-Saviano, di alto ascolto e di non meno alto ritorno pubblicitario? O l’aver espulso via via tutta la satira italiana, presente in blocco in Rai fino al 2002, in testa Corrado Guzzanti ora a Sky? È problema tecnico-finanziario il pluralismo politico-cul turale nei tg e nei giornali radio del servi zio pubblico, nazionali e regionali? È pro blema tecnico-finanziario la crisi complessiva di identità della Rai nel quadro delle tv pubbliche europee, l’oscuramento del la sua “mission” di radio- televisione pubblica? Pesano in questo soltanto i conti?
Il rischio che il cavallo di Viale Mazzini, ulteriormente salassato da una cura soltanto finanziaria, stramazzi è facile da prefigurare per chi conosce dall’interno la Rai. A forza di attaccare quasi unicamente la “casta” si sono illusi gli italiani che, tagliati certi costi della politica, tornerebbe florido il bilancio dello Stato. Una fesseria palese, avallata però dai sondaggi. Discorso analogo vale per Viale Mazzini.
Si dirà che Mediaset sta anche peggio. Verissimo. Uno dei più acuti osservatori del settore, Marco Mele, sul Sole 24 Ore, ha scritto di recente: «I debiti (della Rai) sono pari a circa 300 milioni: per ora non sono preoccupanti (Mediaset è vicina ai 3 miliardi), ma rischiano di crescere se la pubblicità continuerà a calare e gli ascolti a frammentarsi con il digitale. La tv è un’industria di contenuti e la Rai, assente dalla paytv, ha crescenti difficoltà a competere».
Mario Monti ha prefigurato un vertice a due dai poteri, di fatto, commissariali: e allora almeno uno dei due doveva essere un vero manager della multimedialità, un conoscitore profondo del mondo radio-televisivo. Tanto più che rimane del tutto irrisolto il problema delle “garanzie”: qua le organismo garantirà infatti alla maniera inglese, francese o tedesca la reale autonomia dall’esecutivo e dai partiti del nuovo CdA e soprattutto del duo di comando?