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Succede alla Regione Lazio. Dove Villa Adriana, scampato il pericolo di veder arrivare i rifiuti della città di Roma in una discarica a 800 metri da uno dei siti archeologici più importanti del mondo, tutelato dall'Unesco, è ora alle prese con quella che i Verdi (sempre loro) denunciano come ulteriore aggressione edilizia a un'area già fra le più martoriate dalla cementificazione.

Si chiama «Lottizzazione Nathan» e prevede la realizzazione di 122 mila metri cubi di residenze. «Un progetto legittimo che rispetterà pienamente Villa Adriana», ha tranquillizzato l'assessore all'Urbanistica, l'esponente dell'Udc Luciano Ciocchetti, amorevolmente ascoltato, in un'audizione pretesa dall'opposizione, nelle commissioni Urbanistica e Ambiente del consiglio regionale del Lazio. I cui rispettivi presidenti non possono che essere sensibili al tema. Molto sensibili.

La commissione Urbanistica è guidata da Roberto Buonasorte, della Destra: è titolare dell'impresa di costruzioni Dimore & Dintorni. Della stessa commissione fa parte anche il presidente della commissione Ambiente, che risponde al nome di Roberto Carlino. Lui è invece il padrone della Immobildream, che molti conoscono per lo slogan pubblicitario: «Non vende sogni ma solide realtà». Si tratta di un'agenzia immobiliare in affari con il gruppo imprenditoriale che fa capo a Francesco Gaetano Caltagirone, suocero del leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini. Per una curiosa coincidenza l'Unione di centro, alla quale compete oggi la responsabilità della gestione del territorio laziale, è lo stesso partito che ha fatto eleggere Carlino nel consiglio regionale del Lazio.

C’è da dire che inizialmente il venditore di «solide realtà», tipo quelle palazzine ordinarie che tutti possono ammirare nelle pubblicità di Immobildream, era stato folgorato da Silvio Berlusconi. Nel 1997 lo troviamo al fianco del candidato forzista al Comune di Roma, Pierluigi Borghini, come consulente edilizio (già, chi meglio di lui?). L'anno seguente eccolo nell'esecutivo romano di Forza Italia impegnato nella campagna per il ballottaggio alla Provincia. Tre anni dopo, si presenta alle elezioni comunali. Nel 2004, finalmente, una poltrona: entra nel consiglio regionale del Lazio al posto di Alfredo Antoniozzi, vincitore di un seggio al Parlamento di Strasburgo. Poi scoppia il feeling con Casini.

Arriva allora la candidatura alle elezioni europee nel 2009. E la poltrona del consiglio regionale, dove assume prontamente la presidenza di una prima commissione e si ricava uno strapuntino anche in una seconda commissione: entrambi competenti, guarda caso, per faccenduole quali il piano edilizio regionale, o la lottizzazione di Villa Adriana.

Il tutto senza che nessuno alzi non una mano, ma neppure un dito, davanti a una questione di opportunità grande come una casa. Meglio: grande come una palazzina a sette piani. Una delle tante «perle immobiliari» costruite a Roma e zone limitrofe con il marchio Immobildream che il consigliere regionale del Lazio Carlino, presidente della commissione Ambiente e membro della commissione Urbanistica che dovrebbero sorvegliare sulle speculazioni edilizie, mette ogni giorno in vendita. A prezzi di favore, beninteso. Non gli volete dire almeno grazie?

Nella prima sala dell’Arsenale tre pannelli di Bernard Tschumi potrebbero servire da introduzione a “Common Ground”, la mostra sulla quale si impernia la tredicesima Biennale Architettura. Hanno l’aspetto di un manifesto pubblicitario, sono divisi a metà (Tschumi li realizza dagli anni Settanta). In uno compare, da una parte, il Guggenheim di New York con la didascalia “common ground”, dall’altra, un edificio che sembra un parcheggio e che simula quello di Frank Lloyd Wright. Didascalia: “common place”, un posto comune.

“Common Ground” sta invece per terreno comune, ha più volte sostenuto il direttore dell’edizione di quest’anno, David Chipperfield. Più che l’edificio come spettacolo individuale, ha insistito l’architetto inglese, deve risaltare il lavoro come valore collettivo. Continuità, contesto e memoria. Deve emergere un oggetto che fondi uno spazio pubblico, attrattore di comunità (il Guggenheim lo è, il parcheggio no). E in effetti l’edizione appena inaugurata (e aperta fino al 25 novembre) sollecita i 69 espositori che, spesso raggruppati, arrivano a 119 progettisti, a non esibire il prodotto di un’azione individuale, bensì a mostrare un intervento concepito o in gruppo o come frutto di un’iniziativa culturale e anche sociale più ampie.

È un’esigenza che da qualche tempo viene rimarcata, quasi a voler sbiadire l’immagine di un’architettura come gesto geniale e bizzarro, adatto più all’intrattenimento che alla vita quotidiana. Non sempre alle parole corrispondono intenzioni e progetti. A Venezia, fra i Giardini e l’Arsenale, la varietà di interpretazioni è molto ampia, forse più ampia di quella che aveva in mente Chipperfield. “Common Ground” può essere articolato da Zaha Hadid esibendo minutamente le proprie ricerche sulle superfici curve, ondulate e mostrando le referenze storiche e culturali di questo lavoro.

Ma, appena più in là, l’indiana Anupama Kundoo riproduce in scala 1:1, a grandezza naturale quindi, la Wall House, la semplicissima casa che ha costruito nel sud del suo paese mescolando materiali, tecniche artigianali e hitech, portando dall’India manovali che non erano mai usciti dai confini nazionali e mettendoli a lavorare con studenti veneziani e australiani. Per Zaha Hadid il “Common Ground” è una relazione nel tempo, storico- culturale e professionale. Per Anupama Kundoo è la condivisione di un’idea dell’abitare, ha un preminente respiro sociale (ma anche tecnico: i mattoncini usati richiamano con evidenza il rivestimento delle colonne dell’Arsenale). Inoltre, la grandezza naturale è anche una sfida alla logica della mostra d’architettura: niente rilievi, plastici o progetti, ma un prodotto finito che chiunque, soprattutto i non addetti, può visitare, valutare e apprezzare.

Il “Common Ground” può essere il piano urbanistico di Vittorio Magnano Lampugnani per armonizzare i progetti di tanti big impegnati a realizzare il campus per un colosso farmaceutico o l’installazione di Norman Foster: sul pavimento di una stanza oscurata si proiettano e si intrecciano i nomi di grandi architetti del passato più o meno recente, le pareti pulsano di immagini di spazi pubblici – piazze, stadi, teatri… - animati da folle. Per il gruppo Fat il “Common Ground” è sintetizzabile nel concetto di copia: copiare un edificio è un modo per diffondere, nello spazio e nel tempo, modelli architettonici. Un esempio? La Rotonda di Palladio, che copia ed è a sua volta copiata. Un gruppo di cinque architetti di Detroit, invece, ricostruisce con lo stesso lievito culturale di Anupama Kundoo, ma con diversi esiti e sempre in dimensioni reali, una casa abbandonata nella ex capitale dell’auto e acquistata a un asta per appena 500 dollari (potenza della bolla immobiliare).

L’interno è integralmente reinventato, colorato e arricchito dalla documentazione di una città che, giunta sull’orlo del baratro, prova a rigenerarsi. Condivisione, collaborazione, spazio pubblico spiccano anche nelle installazioni lungo la Ruta del Peregrino, una strada di pellegrinaggio religioso in Messico (fra i progettisti, Ai Weiwei e il cileno Alejandro Aravena dello studio Elemental).

La crisi, nata da un eccesso di offerta immobiliare, e l’impoverimento di parte del mondo non possono che contagiare anche una mostra d’architettura (assecondando le direttive di Chipperfield).

Giovanissimi architetti spagnoli in tuta bianca mostrano i progetti che sono rimasti chiusi in un cassetto e raccontano sé stessi, professionisti senza lavoro. Due grandi stelle del firmamento internazionale, Herzog & de Meuron, esibiscono il plastico di un auditorium ad Amburgo, bloccato a fine 2011 per i costi schizzati alle stelle e per contrasti fra loro, l’impresa e l’amministrazione pubblica. Alejandro Aravena espone i piani per ricostruire una comunità distrutta dallo tsunami del 2010 (un lavoro analogo, ma per il Giappone, lo presenta Kazujo Sejima) e per consentire una migliore accessibilità all’acqua in una località poverissima, dove le forti disparità economiche avevano causato violente proteste.

L’idea di architetture a misura di territorio e di paesaggio arriva fin dentro il Padiglione Italia, curato da Luca Zevi, ma, restando alla mostra di Chipperfield, il “Common Ground” che raccoglie molte delle interpretazioni possibili, è il progetto di Urban-Think Tank, giustamente premiato dalla giuria: un ristorante nella Torre de David, un grattacielo incompiuto di quarantacinque piani a Caracas, in Venezuela, costruito per una banca, ma poi, fallita la destinazione, occupato da migliaia di famiglie e diventato una “favela verticale”. Uno spazio pubblico prestato dall’architettura per fare comunità fra i più poveri del mondo.

Alcoa, Fiat Pomigliano, Ilva. Ecco tre problemi industriali emersi che il governo non vuole, non sa risolvere. C'è un quarto problema, minerario questo, e quindi non industriale ma sottoterra, ed è quello del Sulcis. Sulcis e Alcoa gravitano nello stesso quadrante della Sardegna, Sulcis-Iglesiente, tra la stessa gente: giovani che non trovano lavoro, redditi familiari in estremo pericolo. Che prospettive rimangono per un ragazzo, una ragazza di Carbonia con le miniere senza futuro, il parco che non decolla, l'alternativa della produzione di alluminio che svanisce?

Il turismo costiero vale per una breve stagione, invece i giovani - e le famiglie - hanno la brutta abitudine di mangiare tutto l'anno. Sul manifesto di ieri su tutto questo c'era un articolo, competente e sdegnato, di Loris Campetti («Un governo senza politica industriale»). Nel corso della giornata lavoratori dell'Alcoa hanno poi raggiunto Roma per sostenere un'eventuale trattativa. Seguiranno anche i pastori. L'immagine scelta da Campetti è che sia stato tolto il tappo alla Sardegna e l'isola intera rischi di affondare. Gira la voce di una trattativa aperta con Glencore, la multinazionale suprema dei metalli e delle derrate; quella che non solo compra e vende in tutti i paesi di mondo, ma punta spesso al monopolio e da qualche anno ha cominciato anche a produrre. Nel Sulcis, Glencore fa zinco e piombo con migliaia di addetti. Se appare come una soluzione semplice per il governo italiano è però un temibile concorrente, forse da evitare, per Alcoa.

Sarebbe come se Riva vendesse l'Ilva di Taranto a Mittal, il magnate indiano che controlla l'acciaio mondiale, oppure se Fiat vendesse lo stabilimento di Pomigliano - tanto per fare un nome - a Volkswagen. Siccome spesso la realtà supera la fantasia, quest'ultima favola potrebbe realizzarsi. Con un colpo di scena, la vendita dell'intera fabbrica, nuove linee e operai compresi, esclusi solo i 145 della Fiom, alla casa tedesca, è entrata nel novero delle scelte possibili in casa Fiat, da proposta indecente che era. Ricordavano opportunamente i giornali, per esempio l'Unità di ieri, che Sergio Marchionne aveva da meno di una settimana accusato il gruppo di Wolsburg di «sanguinaria politica al ribasso» e che era perciò difficile immaginare un contatto amichevole tra la sua Fiat e «quelli». Ma i capitalisti si muovono in un territorio e si parlano con un linguaggio che sono inaccessibili alle persone comuni e a quelli che hanno il compito sociale di cercare le notizie; tutti tanto facili da turlupinare.

Glencore e Volkswagen sembrano gli esiti favolosi di un governo senza idee, incapace di affrontare le multinazionali che agiscono in Italia, quelle indigene e le altre. Il mantra, sempre ripetuto, è quello di richiamarne altre e altre ancora, con il risultato di avere sul territorio nazionale sempre più imprese fuori controllo, mettendo però a disposizione la forza lavoro, dopo averla privata di diritti acquisiti; e assicurando a capitali stranieri e mercato di avere ormai salari, modelli di organizzazione del lavoro e flessibilità del tutto concorrenziali con i paesi vicini e lontani.

L'arroganza e l'impunità dello stato israeliano sembrano davvero ben rappresentate dalla sentenza di ieri su Rachel Corrie della Corte di giustizia di Haifa che ha dichiarato: «Si mise da sola e volontariamente in pericolo. Fu un incidente da lei stessa provocato».

Così lo stato e il governo israeliani archiviando il caso internazionale dietro il paravento della giustizia sommaria per uno stato in guerra che occupa un altro territorio e sottomette un altro popolo, si autoassolvono, dopo nove anni e mezzo dall'uccisione della pacifista americana dell'Internationl Solidarity Movement - come Vittorio Arrigoni. Tentando di cancellare insieme alla giustizia, il nome di Rachel Corrie e ancora una volta la stessa resistenza palestinese.

Rachel venne barbaramente schiacciata il 16 marzo del 2003 da un bulldozer dell'esercito israeliano mentre cercava d'impedire, con la sola intermediazione non violenta del suo corpo e della sua voce scandida da un megafono, la scientifica demolizione di migliaia di case palestinesi. Cercava Rachel di fermare quel terrorismo di stato, condannato anche dall'Onu e in particolare dall'Unrwa-Agenzia per i Rifugiati, che lasciò senza casa 17 mila famiglia palestinesi e che venne però giustificato per «fermare i terroristi» ed edificare al posto delle abitazioni civili un altro muro alla frontiera con l'Egitto. Il tribunale così ha respinto il ricorso della famiglia che aveva accusato lo Stato isrealiano di essere responsabile dell'uccisione della figlia e di avere scientemente evitato indagini accurate.

Ora l'esercito è assolto. Non solo. La colpevole sembra essere proprio Rachel che con il suo strabordante coraggio ha osato sovrastare e «schiacciare» l'operazione «umanitaria» dei bulldozer di Tel Aviv. Lei che, solo pochi giorni prima di venire assassinata, in una e-mail agli amici, aveva denunciato: «Abbattono le case anche se si trova della gente dentro. Non hanno rispetto di niente né di nessuno».

Non hanno avuto rispetto di niente e di nessuno anche con questa sentenza. Al punto da diventare come una seconda uccisione. Quella denunciata dall'attrice Vanessa Redgrave ogni volta che sul nome di Rachel Corrie in Occidente e negli Stati uniti scende il velo della censura. Perché il pacifismo attivo e diretto che si frappone alla guerra è stato, proprio nell'anno della morte di Rachel Corrie, il grande sconfitto dalla guerra infinita di Bush. Come è sconfitto, silenzioso e inattivo, ogni giorno che la deriva integralista delle primavere arabe è degenerata e degenera in quotidiani bagni di sangue, come in Siria.

Difficile cancellare la memoria di Rachel Corrie la cui immagine torna sempre nelle piazze con Occupy. Naomi Klein ha recentemente ricordato che nei Territori occupati e nella Striscia di Gaza, ovunque ci sono bambine chiamate Rachel in suo onore. La storia di Rachel è viva, nonostante il cuore dei palestinesi, dopo la morte di Arafat, sia spezzato nelle due anime per ora non facilmente conciliabili, di Hamas e Fatah. Perché, qual è l'essenza della solidarietà di Rachel Corrie? «Avvertire la consistenza della storia vivente del popolo palestinese - ha scritto Edward Said - come comunità nazionale e non semplicemente come un gruppo di poveri rifugiati».

Tra le molte maledizioni di cui soffre l'Italia, ce n'è una che a intervalli regolari la insidia: ogni scelta cruciale si presenta sotto forma di dilemma tragico, irrisolvibile. Nella Grecia classica si direbbe: di aporia. Uno scontro mortale tra principi egualmente forti, e spesso egualmente validi. Solo che da noi manca la catarsi, che snoda i nodi. I nostri grovigli, tendiamo a viverli come ineludibili fatalità.

Nel caso dell'acciaieria Ilva, il dilemma consiste nella scelta, inconcepibile in altri paesi europei, tra la morte di fame per il lavoro perduto e la morte per i tumori che la fabbrica ha continuato a espandere lungo gli anni, per inadempienza e corruzione. Nel caso della disoccupazione giovanile, il dilemma viene addirittura presentato come cruento gioco della torre.

Visto lo stato di necessità che traversiamo, chi buttare giù dagli spalti: la generazione dei 30-40 anni o quella successiva? Non so cosa abbia pensato il Presidente Monti, nell'intervista del 27 luglio a Sette, quando ha pronunciato, con la leggerezza dell'apatia, un verdetto anch'esso poco immaginabile altrove in Europa: "Esiste un aspetto di generazione perduta, purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni (...) ma più che attenuare il fenomeno con parole buone, credo che chi (...) partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci seriamente a non ripetere gli errori del passato, a non crearne altre, di generazioni perdute".

Più grave ancora il dilemma - l'aporia tragica - che è all'origine della pubblica discussione attorno alle inchieste della magistratura di Palermo e Caltanissetta, e all'intervento del Presidente della Repubblica che ha deciso di sollevare un conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani a seguito di telefonate intercettate con l'ex ministro dell'Interno Mancino, non ancora inquisito per falsa testimonianza.

Non credo che Napolitano voglia ostacolare le inchieste siciliane sulle trattative fra mafia e parti dello Stato: più volte ha assicurato anzi il contrario. Ma condivido il timore espresso su questo giornale da Gustavo Zagrebelsky: il rischio esiste che l'iniziativa presidenziale assuma "il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia".

Se mi soffermo su questo caso è perché tra i nostri dilemmi mi pare il più significativo, e il più periodico. Tra le critiche rivolte agli inquirenti dell'antimafia ce n'è una, che ricorre da vent'anni: l'accusa di protagonismo. L'epiteto resiste a tutte le intemperie: chi ha letto il libro Le ultime parole di Falcone e Borsellino (Chiarelettere 2012), ne constaterà l'inossidabile natura, il suo ripetersi ossessivo.

Ecco un altro nostro nodo che non si snoda. I magistrati sono sospettati di intromettersi nella politica e di farla, invece di lavorare in silenzio e risparmiare ministri e deputati: usano rilasciare interviste, impartire lezioni, e soprattutto denunciare l'irresponsabile non-presenza dello Stato. Non da oggi, ma dagli anni del maxiprocesso istruito dal pool di Palermo. Né Falcone né Borsellino bramavano le luci della ribalta. Se si esponevano con tanta frequenza, con accuse così esplicite, è perché percepivano l'isolamento cui erano condannati, l'insabbiamento che minacciava l'operazione verità. Non accade dappertutto, che un magistrato definisca se stesso un morto che cammina.

Lo stesso accade oggi a Antonio Ingroia, quando rilascia interviste colme di inquietudine. O a Roberto Scarpinato, Procuratore generale di Caltanissetta: il culmine l'ha raggiunto il 19 luglio, anniversario della morte di Borsellino, quando ha letto una lettera immaginaria all'amico ucciso dalla mafia vent'anni fa. Una lettera dura per i politici che ogni anno commemorano la strage di via d'Amelio: "Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite - per usare le tue parole - emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà".

A causa di queste parole, il Consiglio superiore della magistratura presieduto da Napolitano ha aperto un fascicolo sul trasferimento d'ufficio del procuratore, rendendo perigliosa la sua nomina ai vertici della procura di Palermo. Lo stesso Csm ha attivato il procuratore generale della Cassazione, affinché verifichi se Scarpinato abbia utilizzato, nella lettera, parole censurabili con provvedimento punitivo. È il motivo per cui Zagrebelsky parla, rivolgendosi a Napolitano, di "eterogenesi dei fini": sollevando un conflitto di poteri con i giudici di Palermo, Napolitano si inserisce, non intenzionalmente, in un contesto che vede i magistrati siciliani fortemente screditati, in difficoltà.

Non fu sollevato lo stesso conflitto nel '93, quando il Presidente Scalfaro fu intercettato nell'ambito di un'inchiesta sulla Banca Popolare di Novara (la Procura di Milano depositò agli atti l'intercettazione, contrariamente alla telefonata Mancino-Napolitano). O quando nel 2009 fu intercettata una telefonata a Napolitano di Guido Bertolaso, indagato per gli appalti. L'intervento del Quirinale è legittimo, Scalfari ha ragione e Ingroia lo conferma. Così come sono comprensibili le preoccupazioni istituzionali espresse da Scalfari in una serie di articoli.

Ma è legittima anche la domanda: perché proprio oggi, e non prima? Cosa c'è di così allarmante nelle inchieste siciliane, da smuovere le pubbliche istituzioni e da dividere fra loro giornali seri? È segno della ricchezza di questo giornale il fatto che ambedue le inquietudini siano presenti e conversino tra loro civilmente.

Forse tutto questo accade perché siamo alla vigilia di elezioni. Perché i partiti temono l'avanzare del Movimento 5 stelle. Forse, più semplicemente, perché l'Italia fin dal dopoguerra passa da un dilemma emergenziale all'altro, e mai arriva a quella che Zagrebelsky chiama la tranquillità del diritto. Anche sull'antimafia l'aporia resta irrisolta, dunque tragica: o vuoi sapere finalmente come ha funzionato il tuo paese - se sulla base di compromessi con la malavita oppure no - o convivi con misteri italiani eternamente inconoscibili. O la morte della verità, o la morte della politica e delle sue istituzioni.

Il problema è sapere come mai non sia possibile uscire da simili emergenze, e ritrovare la tranquillità politica in cui ciascuno fa la sua parte, e non quella dell'altro. Come mai, per imporre l'austerità in tempi di crisi, da noi sia necessario annunciare che esiste, nientemeno, una generazione perduta. Come mai sia obbligatorio parlare di Grillo come di un "fascista del web". Come mai se critichi una mossa del Quirinale sei accusato (per quale malinteso o cortocircuito?) di voler abbattere Napolitano e Monti.

L'incapacità di stare responsabilmente al proprio posto - il politico per governare, il partito per fare programmi, il giudice per giudicare, il giornalista per scrutare e analizzare - è certamente all'origine dell'odierno sfacelo. È un'altra conseguenza non voluta delle azioni del Quirinale: il suo desiderio di blindare la carica (con quali conseguenze future?) influenza l'intera classe dirigente, di destra e sinistra, quasi che l'articolo 90 della Costituzione sull'irresponsabilità presidenziale divenisse prerogativa d'ogni politico. Segretamente, si direbbe che ciascuno, schivando il compito che gli compete, voglia Monti in eterno. Se qualcuno non è d'accordo, si fa una legge elettorale per impedirgli di sedere in Parlamento. Intanto si dibatte, all'infinito, su destra e sinistra. Sempre deliberatamente operando in modo che non venga mai l'ora delle responsabilità, dell'azione: della tranquillità del diritto e della politica.

La democrazia rappresentativa è in crisi. Lo si legge con frequenza quotidiana. A questa, che sembra ormai una verità assodata, manca un codicillo di non poca importanza: non è in crisi dovunque. Né la sua riuscita è percepita come problematica ovunque. La democrazia rappresentativa è in crisi in Italia più che in Germania o in Finlandia o in Francia. Contestualizzare è necessario. Anche per comprendere bene la portata della partita che si sta giocando, non soltanto fra poteri eletti e non eletti all’interno dei confini nazionali, ma soprattutto fra gli stessi Paesi europei, tra quelli nei quali la democrazia è un fatto acquisito e quelli nei quali pare lo sia meno. Abbiamo appreso anche di recente che da Oltralpe si guarda con preoccupazione all’eventualità – che è un atto dovuto, costituzionale – che in Italia ci siano nuove elezioni e che Monti possa non essere più primo ministro. Leggiamo il testo preoccupato riportato qualche giorno fa su questo giornale in un articolo di Alberto D’Argenio: «Sul medio periodo il pericolo maggiore per l’Italia è che vengano smontati pezzi delle difficili riforme strutturali approvate dal governo Monti, così come il timore che ci siano arretramenti rispetto alle misure prese per mettere in sicurezza i conti pubblici». Il riferimento alle future elezioni è qui abbastanza chiaro e diretto. Nell’Europa dei Paesi nordici, dove c’è lo stesso sistema democratico che c’è in Italia, si teme che il ritorno dei partiti, e quindi le libere elezioni, metta fine all’impegno italiano di rientrare nei ranghi, riportando Roma ad essere un problema per il Continente. La democrazia rappresentativa preoccupa quando è praticata in Italia come non preoccupa quando lo è altrove. Nessuno si sarebbe sognato di mostrare preoccupazione prima delle elezioni francesi. Nessuno si sogna di dirsi preoccupato se Angela Merkel non verrà rieletta. Ma la democrazia rappresentativa praticata in Italia incute timore e desta preoccupazione.

La crisi della democrazia rappresentativa è allora una crisi di credibilità nella e della politica elettorale nel nostro Paese. Il Sud dell’Europa è sotto tutela – chi più chi meno, dalla Grecia giù giù fino al Portogallo, alla Spagna e all’Italia. È l’Europa non protestante o quella che, come la Francia, ha avuto il suo protestantesimo politico (come Piero Gobetti chiamò la Rivoluzione francese) a nutrire dubbi sull’uso della democrazia nell’Europa non protestante e non nordica. Questa preoccupazione è una forma di pensiero del quale temere gli effetti perversi. Si sente l’eco delle parole di Martin Lutero sulla libertà dei cristiani: una libertà perfetta nei cristiani riformati, e via via meno perfetta negli altri, sapendo i primi soltanto obbedire alla legge senza bisogno di un guardiano esterno. Letta questa diagnosi con le lenti politiche di oggi, si potrebbe dire che Oltralpe si pensa che non tutti siano capaci di sopportare la libertà, di vivere sotto un governo democratico usando bene la libertà politica. La pratica della democrazia come un bene che è di difficile uso, quindi, perché le sue scelte possono avere conseguenze preoccupanti. Questo sembra sia oggi il senso delle elezioni in Italia: una libertà che desta preoccupazione.

Noi diamo l’impressione dellala fragilità. La democrazia dei partiti da noi desta preoccupazione. È questo il segno della crisi della «nostra» democrazia rappresentativa. Ed è questo il senso della distanza che separa le democrazie del Nord Europa da quelle del Sud Europa (e l’Italia come centro del Sud). Una distanza molto visibile poiché, a leggere i giornali in questi giorni, nel Sud la politica democratica è meno sicura che al Nord e forse ha più scettici che al Nord. Stessi regimi, a Nord come a Sud, stesse procedure: eppure lassù la democrazia rappresentativa segue le sue regole senza sostanziali scossoni e senza destare problemi, mentre quaggiù i capipopolo sono sempre in agguato, e rendono le regole democratiche meno funzionali, più incerte negli esiti. E, come nei secoli passati, anche nell’Europa quasi unita (ma mai una), sembra che si torni ad accarezzare l’idea che il governo libero (leggi la democrazia rappresentativa) si adatti meglio ai paesidel Nord che a quelli del Sud, o comunque che non si adatti a tutti egualmente.

Ad alcuni, sembra di leggere tra le righe, si può adattare meglio un dispotismo illuminato, cioè, in fondo, un governo dei tecnici che può in prospettiva diventare un governo di esperti confermati per plebiscito, purché non scelti nella lotta dei partiti, attori di un’opinione politica non saggia, di un mercato elettorale confuso, incerto, poco coraggioso e molto propenso a portare acqua al proprio mulino. La democrazia dei confermati per plebiscito può diventare la forma moderna del dispotismo illuminato. Ed è una tentazione che sembra catturare l’attenzione di molti, Oltralpe e, purtroppo, anche nel Paese. Un pericolo da sfuggire a tutti i costi. Un pensiero nefasto che dà alla politica un’ulteriore responsabilità perché solo ad essa spetta la determinazione a volerlo ribaltare.

Trascorrere qualche giorno in Calabria — dico la Calabria solo come un caso esemplare (e pur sapendo di dispiacere agli amici che vi conto), dal momento che quanto è successo lì è più o meno successo in mille altre contrade della Penisola — significa essere posti di fronte ad uno spettacolo a suo modo apocalittico. Ed essere costretti ad interrogarsi su tutta la recente storia del Paese.

Lo spettacolo apocalittico è quello della condizione dei luoghi. Sono cose note ma non bisogna stancarsi di ripeterle. Centinaia di chilometri di costa calabrese appaiono distrutti da ogni genere di abusivismo: visione di una bruttezza assoluta quanto è assoluto il contrasto con l'originaria amenità del paesaggio. Dal canto loro i centri urbani, di un'essenzialità scabra in mirabile consonanza con l'ambiente, sebbene qua e là impreziositi da autentici gioielli storico-artistici, sono oggi stravolti da una crescita cancerosa: chiusi entro mura di lamiere d'auto, per metà non finiti, luridi di polvere, di rifiuti abbandonati, di un arredo urbano in disfacimento. L'inaccessibile (per fortuna!) Aspromonte incombente sulle marine figura quasi come il simbolo di una natura ormai sul punto di sparire; mentre le serre silane sono già in buona parte solo un ricordo di ciò che furono. Luoghi bellissimi sono rovinati per sempre. Non esistono più. Ma nel resto d'Italia non è troppo diverso: dalla Valle d'Aosta, alle riviere liguri, a quelle abruzzesi-molisane, al golfo di Cagliari, ai tanti centri medi e piccoli dell'Italia peninsulare interna (delle città è inutile dire), raramente riusciti a scampare a una modernizzazione devastatrice. Paradossalmente proprio la Repubblica, nella sua Costituzione proclamatasi tutrice del paesaggio, ha assistito al suo massimo strazio.

Ma oggi forse noi italiani cominciamo finalmente a renderci conto che distruggendo il nostro Paese tra gli anni 60 e 80 abbiamo perduto anche una gigantesca occasione economica. L'occasione di utilizzare il patrimonio artistico-culturale da un lato e il paesaggio dall'altro — questi due caratteri unici e universalmente ammirati dell'identità italiana — per cercare di costruire un modello di sviluppo, se non potenzialmente alternativo a quello industrialista adottato, almeno fortemente complementare. Un modello di sviluppo che avrebbe potuto essere fondato sul turismo, sulla vacanza di massa e insieme sull'intrattenimento di qualità, sulla fruizione del passato storico-artistico (siti archeologici, musei, centri storici), arricchita da una serie di manifestazioni dal vasto richiamo (mostre, festival, itinerari tematici, ecc.); un modello capace altresì di mettere a frutto una varietà di scenari senza confronti, un clima propizio e — perché no? — una tradizione gastronomica strepitosa. È davvero assurdo immaginare che avrebbe potuto essere un modello di successo, geograficamente diffuso, con un alto impiego di lavoro ma investimenti non eccessivi, e probabilmente in grado di reggere assai meglio di quello industrialista all'irrompere della globalizzazione, dal momento che nessuna Cina avrebbe mai potuto inventare un prodotto analogo a un prezzo minore?

Capire perché tutto ciò non è accaduto significa anche capire perché ancora oggi, da noi, ogni discorso sull'importanza della cultura, sulla necessità di custodire il passato e i suoi beni, di salvare ciò che rimane del paesaggio, rischia di essere fin dall'inizio perdente.

Il punto chiave è stato ed è l'indebolimento del potere centrale: del governo nazionale con i suoi strumenti d'intervento e di controllo. In realtà, infatti, in quasi tutti gli ambiti sopra evocati è perlopiù decisiva la competenza degli enti locali (Comune, Provincia, Regione), tanto più dopo l'infausta modifica «federalista» del titolo V della Costituzione. Lo scempio del paesaggio italiano e di tanti centri urbani, l'abbandono in cui versano numerose istituzioni culturali, l'impossibilità di un ampio e coordinato sviluppo turistico di pregio e di alti numeri, sono il frutto innanzi tutto della pessima qualità delle classi politiche locali, della loro crescente disponibilità a pure logiche di consenso elettorale (non per nulla in tutta questa rovina il primato è del Mezzogiorno). Questa è la verità: negli anni della Repubblica il territorio del Paese è sempre di più divenuto merce di scambio con cui sindaci, presidenti di Regione e assessori d'ogni colore si sono assicurati la propria carriera politica (per ottenere non solo voti, ma anche soldi: vedi il permesso alle società elettriche d'installare pale eoliche dovunque). D'altra parte, si sa, sono molte le cose più popolari della cultura: elargire denari a pioggia a bocciofile, circoli sportivi, corali, sagre, feste patronali e compagnia bella, rende in termini di consenso assai più che il restauro di una chiesa. I politici calabresi sanno benissimo che la condizione in cui si trovano i Bronzi di Riace — fino ad oggi nascosti da qualche parte a Reggio, in attesa da anni di un museo che li ospiti — se è un vero e proprio scandalo nazionale, tuttavia non diminuisce di un briciolo la loro popolarità a Crotone o a Vibo Valentia.

Solo un intervento risoluto del governo centrale e dello Stato nazionale può a questo punto avviare, se è ancora possibile, un'inversione di tendenza; che però deve essere necessariamente anche di tipo legislativo. Ma per superare i formidabili ostacoli che un'iniziativa siffatta si troverebbe di sicuro davanti, deve farsi sentire alta e forte la voce dell'opinione pubblica, per l'appunto nazionale, se ancora n'esiste una. Non è ammissibile continuare ad assistere alla rovina definitiva dell'Italia, al fallimento di un suo possibile sviluppo diverso, per paura di disturbare il sottogoverno del «federalismo» nostrano all'opera dovunque.

Sarà che era lunedì e si era a corto di titoli ma i giornali hanno enfatizzato oltre i limiti del ridicolo il piano città del ministro Passera e del viceministro Ciaccia. Di fronte alle carenze strutturali e allo stato di abbandono delle nostre città che non riescono a competere con le capitali dell'Europa, in tutti i titoli si leggeva che erano stanziati niente meno che 2,1 miliardi di euro.

Lavoce.info - sempre puntuale e preziosa - ha dimostrato che i 224 milioni, gli unici veri della partita perché il resto sono anticipazioni della Cassa depositi e prestiti, non sono neppure tutti nuovi perché verranno dai tagli di interventi di edilizia già programmati. Ma fermiamoci sulla cifra stanziata. Sono 20 le città con popolazione superiore o vicina ai duecento mila abitanti. A ciascuna di esse toccherà poco più di un milione di euro di finanziamento e circa 80 milioni di prestito. Cifre ridicole come si vede, indegne di un paese serio. E invece di sottolineare la sua miope miseria, quel finanziamento è stato presentato come il pilastro della ripresa, con le solite cifre sparate a casaccio: addirittura 100 mila nuovi posti di lavoro!

A questo punto, pare di sentirlo, scatta puntuale il refrain: che volete, non ci sono risorse. Il ministro Passera ha rifinanziato appena due settimane fa l'ennesimo piano delle grandi opere inutili con 100 miliardi destinati a tacitare le voraci grandi imprese che assediano il governo. Il vice ministro Ciaccia, come noto, si era peraltro occupato di esse con un altro ruolo, quello di amministratore delegato della banca Biis del gruppo San Paolo Intesa.

Ricapitoliamo, dunque. Nello stesso mese di giugno 100 miliardi sono stati assicurati alle lobby del cemento e dell'asfalto. Al sistema urbano nel suo complesso andranno 2 miliardi fatti in gran parte di prestiti!

Ha ragione su queste colonne Sandro Medici a denunciare che manca ancora l'assunzione della centralità del tema della riqualificazione urbana. Questo governo, al pari dei precedenti, non comprende che soltanto finanziando il rinnovo urbano e non la crescita, la creazione di sistemi di trasporto non inquinanti e non ulteriore asfalto, la messa in sicurezza dei servizi, delle abitazioni e dei corsi d'acqua, si potranno creare le premesse per una nuova fase economica che privilegia imprese che adottano nuove tecnologie.

Ed anche in termini di efficienza della spesa deve essere ricordato che nel 2005 l'Associazione nazionale dei Costruttori edili aveva calcolato che il 53% dei progetti delle grandi opere avevano trovato difficoltà operative ed erano stati costretti a varianti progettuali. Ma di questo non si parla: la palla al piede dello sviluppo sono i vincoli, i sindacati e i lavoratori, mica chi sbaglia progetti lautamente pagati.

Il finto piano città svela ancora una volta che il governo dei tecnici si limita ad assicurare ai poteri forti un altro fiume di denaro pubblico senza avere una proposta convincente per il sistema paese. Un governo prigioniero dei legami che alcuni dei suoi uomini avevano stretto in anni passati e non consentono oggettivamente di cambiare musica. Ciaccia è stato anche presidente di Arcus, la società nata dal ministero dell'Economia per finanziare i beni culturali. Arcus era assurta agli onori della cronaca per il caso del palazzo di Propaganda Fide restaurato con i nostri soldi per la felicità della cricca. Era ministro Lunardi, c'era il cardinale Sepe e De Lise era uno degli esponenti di quel gruppo di potere. Oggi non c'è più Lunardi, ma De Lise resta nel ruolo di arbitro delle infrastrutture generosamente finanziate da Passera-Ciaccia.

Il presidente Monti ha affermato che deve assolutamente portare la cancellazione dei diritti dei lavoratori nel prossimo vertice internazionale. Con qualche sforzo potrebbe portare anche il segnale di una rigorosa pulizia della macchina statale di cui c'è immenso bisogno. Ma non lo farà. Aspettiamo impazienti che richiami con gli onori che meritano Balducci e Bertolaso.

Eh, no, “non è un anno come gli altri” va ripetendo Luca Zevi, il responsabile del Padiglione Italia della 13esima mostra di architettura della Biennale di Venezia in calendario dal 29 agosto (negli stessi giorni decolla la mostra del cinema) fino al 25 novembre. “Non è certo grazie alla finanza che la svangheremo dalla crisi. Serve un grande progetto per le imprese d’eccellenza del Made in Italy”. Ricordando, non copiando, il modello di Adriano Olivetti del dopoguerra.

Il padiglione italiano si dipana lungo quel magnifico spazio d’antico lavoro e tipicamente veneziano che sono le Tese delle Vergini all’Arsenale e lì l’architetto romano ha approntato un titolo vivaldiano, “Le quattro stagioni” con un sottotitolo esplicativo: “Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy”. Scandisce il percorso in quattro “stagioni”: la prima appunto su Olivetti; la seconda sull’ “assalto al territorio” a partire dagli anni ’80, documentata da un video; la terza parte su “progetti architettonici d’eccellenza” dell’ultimo quindicennio; infine la puntata su imprese e Green Economy in vista dell’Expo 2015 a Milano. Il modello: rileggere– senza venerare - la lezione di Adriano Olivetti e da lì ripartire per un modello culturale e architettonico a misura di paesaggio, territorio, persone, bisogni.

Architetto, cosa intende con “le quattro stagioni del made in Italy”?

Intendiamo un modello di modernizzazione del paese legato a caratteri costitutivi del paese. Il primo riferimento è ad Adriano Olivetti perché lui ha tentato di dare una stagione modernissima all’Italia delle cento città che è meravigliosa perché ha centri urbani piccoli e medi di straordinaria qualità. Olivetti capisce che il nostro territorio è costituzionalmente policentrico, capisce che l’imprenditore italiano è fortemente individualista e creativo. Di conseguenza si distribuisce sul territorio con una azienda piccola e media, una grande originalità del prodotto e un forte radicamento del territorio , incluso quello agricolo.

Oggi però una miriade di capannoni ha devastato molte zone. Basti ricordare quanto lamentava e denunciava un poeta Zanzotto riguardo alla campagna veneta.

L’invasione dei capannoni avviene anche per l’incapacità della cultura e della politica di seguire quanto succede. E si torna ad Adriano Olivetti: dalla sua scomparsa negli anni 60 un’operazione culturale ancor prima che politica lo ha fatto passare come un personaggio legato all’800 sostenendo invece che la prospettiva è la grande fabbrica, la grande città con il quartiere periferico. Ma questo non era nella genetica produttiva italiana per cui il ciclo della grande fabbrica si conclude in una ventina d’anni. Invece il modello olivettiano si sviluppa in maniera incontrollata: quando le grandi fabbriche entrano in crisi esplode questo processo di piccoli centri produttivi, il territorio viene invaso perché la cultura architettonica e urbanistica non si dà come tema il decentramento produttivo in un’Italia policentrica.

E questo travolge anche l’agricoltura

L’agricoltura ne risente in modo pesante. Il paesaggio italiano è tutto un progetto, è la sua meraviglia, è realizzato e mantenuto con amore dall’uomo. È quindi architettura della stessa qualità delle città che viene invasa dai capannoni a causa di una sottovalutazione della politica e della cultura negli anni del mito dell’industrialismo.

E di cosa parlate quando parlate di Made in Italy?

Parliamo del rilancio della piccola e media impresa, dell’agricoltura piccola che ha inventato ad esempio la produzione a chilometro zero o, in città, gli orti urbani: sono segnali non necessariamente coordinati ma ci sono.

Cosa si vedrà nel padiglione italiano?

Proponiamo una rilettura dell’esperienza di Olivetti, non un omaggio. Diciamo: quello era il progetto, l’effimero è stata la produzione massiccia che sembrava la modernità. Con l’invasione del territorio si consolidano circa quattromila piccole-medie imprese con prodotti di eccellenza che diventano leader nel mondo e devono rappresentarsi architettonicamente e realizzano centri di qualità.

Esempi?

Da Aguzzini a Recanati, Cucinelli, la Ferrari, Prada, diventano poli territoriali che condensano interventi più importanti come il chilometro rosso della Brembo a Bergamo fatto da Jean Nouvel. Contemporaneamente, grazie anche alla presenza di Expo 2015, mostriamo anche le cantine firmate da architetti importanti e la centralità dell’agricoltura per una nuova architettura del paesaggio agricolo. Certe politiche europee hanno favorito le monocolture che sono invasive, ad esempio in Sardegna c’è una quantità smisurata di campi di girasole. Anche qui si rilancia valorizzando la caratteristica multiculturale e differenziata del nostro paesaggio.

Documentate l’assalto al territorio?

Lo documentiamo con immagini di questa occupazione indifferenziata: capannoni, impianti petrolchimici, l’Ilva di Taranto. È un modello di sviluppo che ha portato più difficoltà: dagli anni 80 è un fenomeno generalizzato favorito anche da terremoti che hanno moltiplicato i finanziamenti. Al sud si sono finanziati capannoni mai entrati in produzione, ma è successo dappertutto.

A suo parere, come recuperare uno slancio produttivo e un territorio ferito?

Non usciremo dalla crisi con una politica centrata sulla finanza bensì sulla capacità di lavorare creativamente. La nostra vera efficienza è ecologica, è multiculturale e solidale e si fonda su una comunità operosa con un equilibrio sociale: questo è il modello di sviluppo, un grande progetto con caratteristiche che non sono state riconosciute né dalla cultura né dalla politica. E ora in zone come le Marche ogni giorno chiude una di queste aziende. Quindi o nasce un progetto per fare di tutti questi spazi come una grande Olivetti collettiva che manda avanti l’Italia o non saranno le operazioni finanziare per lo spread a salvarci. Dobbiamo assolvere a questi impegni ma serve un grande rilancio produttivo con al centro questi soggetti: non è detto che la svangheremo, se continuiamo a essere banche e finanza non credo.

Il Padiglione Italia così sembra più una proposta di idee.

Il nostro programma non ha un curatore che sceglie architetti perché non è un anno come gli altri. Sarà un Padiglione inusuale perché la crisi è inusuale. Per questo abbiamo chiamato intellettuali di tutti i campi e soprattutto conoscitori dell’Italia vera per delineare una prospettiva in cui lavorare. Viviamo una grande confusione culturale e se non sappiamo quali sono le nostre vere risorse non ne usciamo. L’importante è puntare sui nostri veri punti di forza.

Questo discorso sfiora anche una polemica che Settis ad esempio tiene alta e riguarda proprio Venezia: l’invasione pericolosissima delle mega navi nel delicato e fragile tessuto della città lagunare. A chi critica l’arrivo di questi colossi dell’acqua la risposta è che portano soldi. Lei come la vede?

Sono come cattedrali industriali nel deserto. Se vogliamo un rilancio del made in Italy come lo intendiamo qui allora Venezia deve essere frequentata nel modo giusto. Si faccia un approdo appropriato per le grandi navi creando lavoro dove è giusto che stia ma che non è piazza san Marco o Riva degli Schiavoni. Le grandi navi sono una realtà, ma non è affatto necessario che sbarchino a San Marco. L’economia giri sul modo giusto e ce ne sarà per il turismo e una per il trasporto si spera di qualità.

«It's the economy, stupid»: era stato questo lo slogan vincente di Bill Clinton nella campagna contro George Bush (senior) vent'anni fa. Forse oggi è il caso di riprendere quelle stesse parole contro il ragionier Monti, economista di fama mondiale, che non riesce a spiegarsi come mai, avendo «messo i conti in ordine», lo spread italiano continui a essere il triplo di quello di altri paesi quasi altrettanto indebitati e senza quell'avanzo primario (la differenza tra entrate e spese dello Stato destinata al pagamento degli interessi) che nessun altro in Europa può vantare.

Le borse non sono cieche: spread alto ed economia a pezzi vanno insieme Il fatto è che con le sue misure «salvaitalia», «crescitalia», spending review e «spremilavoro» Monti ha letteralmente strangolato, e continua a strangolare, l'economia italiana: la sua base produttiva e occupazionale, le sue imprese, le sue potenzialità; mentre con il pareggio di bilancio in Costituzione e il fiscal compact ha posto le premesse perché nei prossimi anni e decenni l'economia italiana non possa mai più riprendersi: esattamente come in Grecia. Perché allora la finanza internazionale (e nazionale), che guarda alla sostanza delle cose e non ai discorsi, non dovrebbe aspettarsi che un programma del genere porti diritto al fallimento?

Lo spread è la dimostrazione che, in barba ai cosiddetti «fondamentali», la scommessa è proprio questa. A difesa di Monti si potrebbe argomentare che a non capire questa cosa elementare (o a fingere di non capirla, per nascondere altri obiettivi) non è solo lui ma che è in buona compagnia.

Innanzitutto del suo governo e dei partiti che lo sostengono; che continuano a blaterare di un "dopo Monti", come se questo governo non stesse mettendo le premesse (addirittura in Costituzione!), perché il dopo non si differenzi minimamente dal prima (compreso il «prima di Monti», con cui è sempre più evidente la sostanziale continuità, a parte lo «stile» al posto del carnevale). Ma dietro o accanto a lui, a confermarlo nella sua pretesa di salvatore della patria, c'è tutto l'establishment della finanza internazionale, a partire da Goldman Sachs che lo ha allevato insieme al suo socio Draghi. Entrambi si presentano come i demiurghi dalle cui decisioni dipendono le sorti non solo dell'Italia ma anche quelle dell'euro, e insieme all'euro, dell'Unione europea - e per inevitabile contagio, come ben ha capito Obama, prigioniero anche lui, però, dello staff di finanzieri nelle cui mani si è messo contando di addomesticarli e non di esserne addomesticato - dell'economia mondiale. Ma entrambi cominciano a capire che il gioco in cui si sono messi è più grande di loro (nonostante tutta la «potenza di fuoco» che Draghi sostiene di voler mettere in campo); e forse più grande di chiunque altro al mondo.

Perché il modo di operare della finanza non è una congiura, ma un meccanismo cieco che nessuno in realtà governa: giacché è un contesto in cui ciascuno, anche le maggiori potenze del mondo, non può più agire se a difesa del proprio, per quanto immenso, «particulare»: che nel corso del tempo si è andato riducendo sempre più alla contabilità dei margini realizzati giorno per giorno: magari e per lo più, come si sta scoprendo giorno per giorno, attraverso meccanismi truffaldini: come la manipolazione del libor e dei rating, le scommesse contro governi o investitori di cui si è consulenti (i famigerati Cds, spacciati per il loro contrario, cioè assicurazioni contro il fallimento). O le modificazione delle regole delle vendite allo scoperto: quella con cui Draghi, allora ancora Governatore di Banca d'Italia, ha a suo tempo spianato la strada alla nomina di Monti.

Le regole con cui tenere sotto (parziale) controllo gli spiriti mortiferi della finanza, messi a punto tra la crisi del 1929 e la conferenza di Bretton Woods (a favore, per la verità, di una parte ridotta e privilegiata delle nazioni) sono state abolite da tempo in nome del pensiero unico, della deregolamentazione e della libera circolazione dei capitali. E con un solo obiettivo: privatizzare tutto e riprendere ai lavoratori quel poco che avevano conquistato in più di un secolo di lotta di classe.

Non saranno quindi né Monti né Draghi a porre un freno o a invertire questo processo. La partita tornerà ben presto in forme drammatiche e in un contesto tumultuoso e privo di mediazioni - distrutte o rese insignificanti dalla degenerazione della «politica» - nelle mani delle vittime del loro operato: ma in un contesto nazionale e internazionale carico di rischi autoritari e di elementi di confusione. È questo il quadro di riferimento di ogni possibile discussione sulla «ripresa» d'autunno

La dissociazione fra politica e democrazia rappresentativa. Si è ormai consumata. Anche se si continua a parlare “come se”. Tutto fosse come prima. Quando l’arena “politica” era occupata dai partiti e i “politici”, di conseguenza, erano gli eletti dai cittadini.Nelle liste promosse e proposte dai “partiti”. Eppure non è così. Oggi in modo particolarmente esplicito ed evidente. Basta riflettere sulle vicende al centro del dibattito “politico” in questi giorni. Anzitutto, la polemica intorno alla presunta trattativa fra Stato e mafia, che vede coinvolto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, “intercettato” durante le indagini, da un lato. I magistrati di Palermo, titolari dell’inchiesta, dall’altro. Accanto ad essi, altri soggetti istituzionali importanti. La Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità dell’intercettazione e, soprattutto, del suo uso ai fini dell’inchiesta. Inoltre, il capo del governo, Mario Monti, il quale ha parlato di “abusi” nell’ambito delle intercettazioni. E, ancora, l’Anm, intervenuta a sostegno dell’azione della Procura di Palermo. Ma potrei elencare altri nomi, di altre figure, titolari di altre cariche istituzionali. Uno per tutti: Mario Draghi. Protagonista delle vicende relative all’economia e ai mercati. Le questioni che attraggono maggiormente l’attenzione pubblica. Il discorso non cambierebbe di significato. Per l’assenza, pressoché totale, di leader e soggetti di partito. “Eletti” in assemblee “elettive”. Segno che oggi la politica, in Italia, è guidata e influenzata da soggetti non direttamente espressi dai canali della rappresentanza democratica. Della democrazia rappresentativa.

Naturalmente, i magistrati (inquirenti, giudicanti e costituzionali) interpretano istituzioni e poteri “costitutivi” della democrazia. Che concorrono a “garantire” e sorvegliare. Il Presidente della Repubblica e il Capo del governo: hanno un ruolo di primo piano, nel sistema politico. E sono, ovviamente, espressi dagli organismi rappresentativi. Per primo: il Parlamento. I giornali e i giornalisti, gli intellettuali: sono gli attori protagonisti dell’Opinione Pubblica. Prerogativa e condizione essenziale della democrazia rappresentativa.

A conferma, però, che i partiti, oggi, partecipano al “campo politico” in misura laterale e subalterna. Questa situazione è stata provocata, anzitutto, da comportamenti e situazioni di privilegio che la crisi economica ha reso ancor più inaccettabili, per i cittadini. Ma anche dall’importanza assunta, sulla scena politica, da altri ambiti e canali. Anzitutto i media e la televisione. I teleschermi hanno, infatti, sostituito le piazze, la comunicazione e l’immagine hanno rimpiazzato il rapporto diretto con il territorio e la società. I “politici”, cioè gli uomini di partito, eletti nei parlamenti nazionali e anche locali, per conquistare il consenso, si sono mascherati da “gente comune”. Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari.

Per conquistare voti, per vincere le elezioni, i “politici” si sono presentati come “antipolitici”. Cioè: contro i partiti e i politici eletti nei partiti. Anche se, per essere eletti, hanno formato e fondato nuovi (anti) partiti.

Un’altra importante causa di delegittimazione della politica e dei politici è di tipo “tecnologico”. Questa, infatti, è l’epoca della Rete e del Digitale. Che influenzano tutto. L’economia, la politica, la vita quotidiana. I mercati: sono sempre aperti, dovunque. Scossi da emozioni e sentimenti a ciclo continuo. Fiducia e Sfiducia si propagano in tempo reale. E, si sa, Fiducia e Sfiducia sono il fondamento dei Mercati. Ma anche della Politica. Visto che la Politica, oggi, si fonda sull’andamento dei Mercati.

Ed essa stessa, a sua volta, è un “mercato”.

Le tecnologie della comunicazione: hanno trasformato anche e soprattutto le nostre abitudini quotidiane. Noi siamo in contatto con tutti, dovunque, in qualunque momento. Attraverso i computer, i telefoni cellulari, i tablet. E ora gli smartphone. Che sono computer, telefoni cellulari e tablet al tempo stesso. Tutti comunicano in tempo reale. Su Fb e Twitter. D’altronde, ciò che prima era custodito in immensi giacimenti cartacei oggi è digitalizzato.

Conservato in archivi immateriali. Siamo nell’era dell’Opinione Pubblica sempre in Rete. In cui tutti possono parlare ed essere ascoltati. Intercettati. In cui ogni documento, anche il più segreto, può essere scrutato, captato e divulgato. In Rete. Dove le Democrazie temono l’eccesso di trasparenza e di libertà. Dove Assange e Wiki-Leaks diventano la peggiore minaccia per le Patrie della Democrazia e dei diritti, come gli Usa e l’Inghilterra. Dove una band di ragazze diventa un rischio inaccettabile per un potere centrale e centralizzato, come quello della Russia. Che, più della protesta in piazza, teme il “ridicolo” diffuso in Rete. E si ribella alla ribellione “pop”. Pardon: punk.

In Italia, la rivoluzione digitale, la Rete, insieme alla degenerazione della Democrazia del Pubblico – portata alle estreme conseguenze da quasi vent’anni di berlusconismo – hanno minimizzato il ruolo e l’importanza dei “politici di partito”. E dei “partiti politici”. Oscurati dai Tecnici, dai Magistrati, dai Professionisti della Comunicazione. Non a caso, i soggetti politici di maggior successo, oggi, sono un Professore senza Partito, come Mario Monti (accolto con entusiasmo all’inaugurazione del Meeting di Rimini) e un protagonista della Rete e della Comunicazione (con grandi competenze nello spettacolo), come Beppe Grillo. Inseguito, a fatica, da un Magistrato Politico, come Di Pietro. Personalmente, mi preoccupa l’eclissi della democrazia rappresentativa e dei soggetti che, tradizionalmente, la interpretano. Tuttavia, ritengo la democrazia diretta, che corre in Rete, utile a correggere e arricchire la democrazia rappresentativa. Non a sostituirla.

Così, ci attendono tempi insidiosi. Perché non vedo futuro per la democrazia rappresentativa “senza” partiti. Ma neppure “con questi” partiti. Rischiamo altrimenti di assuefarci a una politica che si svolge fuori, oltre e sempre più spesso contro. I partiti.

Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d’un tassello, anzi del perno, di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la “trattativa” tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c’è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l’esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo

di nasconderla.

Questa è una prima considerazione. Ma c’è dell’altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come “potere dello Stato”, possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch’egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d’una controversia sui caratteri d’un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona. Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d’una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull’altra, l’autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l’esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per

la sua parte, sono entrambi “custodi della Costituzione”. Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l’uno che l’altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d’una alleanza in vista d’una sentenza schiacciante. A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d’irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d’essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell’interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell’interesse della tranquillità del diritto.

C’è ancora dell’altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall’esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell’opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento. “In ogni caso”, dice la norma, l’intercettazione deve essere disposta da un tale “Comitato parlamentare”. che interviene nel procedimento d’accusa con poteri simili a quelli d’un giudice istruttore. Nient’altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d’accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull’utilizzabilità, sull’inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente. A questo punto, si entra nel campo dell’altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un “consapevole silenzio” dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell’art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell’esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione. La “irresponsabilità” comporterebbe “inconoscibilità”, “intoccabilità” assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest’interpretazione, che è una delle due: l’una e l’altra hanno dalla loro parte l’opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l’irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l’appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d’essere presidente della Repubblica. Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un’alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall’altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una “operazione”, inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n’è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l’ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso “plusvalore” di chi dispone dell’autorità; un’altra cosa è l’informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità.

Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo “decreto” del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino “precedenti” tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori. Nella Repubblica, l’integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l’acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D’altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo.

Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata “leale collaborazione”, di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira – la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica – attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c’è d’un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s’è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d’applicare lealmente la legge?

UNA funzione essenziale delle leggi consiste nell’impedire che il più forte abbia la meglio sul più debole. I giudici di Taranto nelNel caso di Taranto sembra accertato che la parte più forte, la proprietà dello stabilimento, abbia permesso che esso infliggesse da anni alla parte più debole, i lavoratori del sito insieme con l’intera popolazione della città, un tasso di inquinamento che i periti della Procura hanno ritenuto letalmente elevato. Nel caso di Pomigliano è comprovato, stando alla sentenza della Corte d’appello, che la Fiat abbia proceduto ad assunzioni discriminatorie, applicando il singolare principio per cui un’impresa assume soltanto quei lavoratori che abbiano in tasca una tessera ad essa gradita, o meglio nessuna.

Adesso ambedue le vicende sono giunte a un punto critico. I giudici di Taranto hanno disposto il blocco dell’attività produttiva sino a quando l’impianto non sia dotato di tecnologie antiinquinamento adeguate. Non si vede come avrebbero potuto decidere altrimenti. Un impianto siderurgico integrato tipo quello tarantino presenta due caratteristiche: tutti i suoi componenti, dal reparto sinterizzazione sino ai treni di laminazione, sono fortemente inquinanti; al tempo stesso non si può fermarne uno per metterlo a norma perché in un ciclo integrato fermare un componente significa bloccare tutti gli altri. Ma se si ferma tutto il sito circa 15.000 operai, tra diretti e indiretti, rischiano di restare senza lavoro. A Pomigliano quel che può succedere è che la Fiat metta in cassa integrazione un numero di nuovi assunti più o meno corrispondente agli iscritti alla Fiom che dovrebbe riassumere, visto che per gli attuali volumi produttivi, essa dice, gli addetti attuali sono più che sufficienti. In ambedue i casi, siamo da capo: la tutela della legge che i giudici hanno offerto ai più deboli rischia di essere vanificata.

Non si è qui dinanzi soltanto alle responsabilità del più forte, per quanto queste siano grandi. Nessuna delle due vicende sarebbe arrivata al punto in cui è oggi se i governi che si sono succeduti negli ultimi anni; i ministeri competenti, in specie quelli dell’Ambiente e dello Sviluppo (o dell’Industria, come si chiamava un tempo); nonché i partiti ieri contrapposti e oggi alleati nel sostenere il governo cosiddetto dei tecnici, non avessero dato in qualche modo un aiuto alle società coinvolte per aver mano libera o quasi nei loro siti produttivi. Che l’impianto di Taranto inquinasse dentro e fuori dei suoi cancelli era risaputo da anni. Senza risalire troppo indietro, basterà ricordare che l’Arpa della Puglia aveva trasmesso al ministero dell’Ambiente, nei primi mesi del 2008, un documentato rapporto circa i rischi derivanti dalla diffusione di sostanze velenose provenienti dall’impianto in questione. Tuttavia una lettera del ministero all’Arpa in data 8 agosto 2008 affermava seccamente che le rilevazioni effettuate a cura dell’agenzia non potevano essere ritenute valide. Non proprio una licenza di inquinare, ma in ogni caso un efficace contributo per perdere altri anni prima di intervenire.

Quanto a Pomigliano, è probabile che la Fiat non avrebbe osato attuare le sue pratiche discriminatorie se le cosiddette riforme del lavoro susseguitesi sin dai primi anni 2000, le posizioni dei partiti ancorché definitisi di centro-sinistra, più tambureggianti campagne mediatiche, non avessero fatto tutto il possibile per spingere in un angolo la Cgil e la Fiom come rappresentanti di un sindacato capace ancora di dire no, almeno ogni tanto, alle richieste sempre più intrusive dei diritti dei lavoratori avanzate dalle imprese. Sarebbe inaudito veder buttare fuori dalla fabbrica tanti operai quanti l’azienda deve riassumerne in forza della sentenza di appello. In gioco qui non è tanto il destino dei singoli, quanto un principio basilare della democrazia industriale.

Mentre a Taranto si tratta soprattutto di salvare il lavoro di migliaia di operai, davanti una disposizione dei giudici che a fronte delle responsabilità grandissime delle imprese e dei politici appare doverosa prima ancora che pienamente giustificata. Per farlo occorrono non soltanto soldi, che oltre allo stato la proprietà dovrebbe tirare fuori anche di tasca propria a fronte degli utili degli ultimi anni (le stime parlano di miliardi), ma anche invenzioni organizzative. Come, ad esempio, adibire gran parte dei lavoratori stessi ai lavori di ristrutturazione ambientale dello stabilimento. Nessuno conosce quell’impianto meglio di chi ci lavora; e molte professionalità potrebbero essere utilizzate nei lavori di ristrutturazione con un periodo relativamente breve di formazione. Su questo punto non è ammesso dire che non è possibile, prima ancora di approfondire la questione. Quel che non sembrava possibile, consentire all’impianto tarantino di avvelenare insieme i suoi addetti e la popolazione, lo stato e i suoi ministeri lo hanno già fatto. Ora hanno il dovere di imboccare al più presto la strada opposta, quella di un’opera di risanamento che non fa pagare il prezzo per una seconda volta ai lavoratori e alla città.

Qualcuno l'ha definita «la rivoluzione dell'Apecar»; qualcun altro, invece, semplicemente la risposta libera degli operai più coraggiosi che si sono sottratti alla morsa dell'Ilva e alla contrapposizione tra lavoro e salute. Lo scorso 2 agosto, in occasione della manifestazione di Cgil, Cisl e Uil a Taranto contro la chiusura dello stabilimento siderurgico, un gruppo di lavoratori e cittadini, alcuni a bordo di un Apecar, hanno preteso la parola. Ne avevano chiesto il permesso per tempo senza ottenere risposte dai sindacati. Il tutto con un unico obiettivo: evidenziare l'esistenza di tanti operai che non ci stanno a rivendicare il lavoro a tutti i costi, anche a scapito della salute. Tra di loro c'era Cataldo Ranieri, operaio del siderurgico, ex delegato sindacale e impiegato presso gli impianti marittimi (carico del minerale e partenza del lavoro finito). Per lui, portavoce del comitato «Cittadini e lavoratori liberi e pensanti», il provvedimento di ieri del gip Todisco era necessario.

Non bastava quanto scritto dal Tribunale del Riesame?

Evidentemente no. L'azienda faceva finta che non fosse successo nulla, continuava a produrre interpretando erroneamente il provvedimento. Avevano fatto la stessa cosa anche quando fu emessa la prima ordinanza. Anzi, addirittura in quel caso produssero di più degli altri giorni dopo aver fatto credere a gran parte dei lavoratori che il sequestro fosse già esecutivo. Attraverso i capi reparto, ci dissero che gli impianti erano chiusi e ci spinsero a manifestare bloccando la città. Quello sciopero fu voluto e favorito dall'azienda salvo poi detrarne le ore dalla busta paga anche a chi rimase nello stabilimento a lavorare.

Il suo comitato sta riscontrando molta simpatia nel quartiere Tamburi, a ridosso dell'Ilva e più inquinato,ma non solo. Chiedete alternative economiche. Non le piace il suo lavoro?

Tutti i 12 mila i lavoratori del siderurgico tarantino, se potessero scegliere, farebbero un altro lavoro. Noi chiediamo che si discuta di riconversione della città perché per anni sono state sacrificate tutte le risorse di un territorio splendido. È stato fatto anche perché noi operai non potessimo scegliere, ci hanno condannati a morte. Oggi, però, non voglio che i miei figli continuino a vivere in un ambiente poco sano.

E se l'Ilva mettesse a norma gli impianti seguendo ogni prescrizione della Magistratura? Sarebbe una soluzione, o no?

Il problema è proprio questo: Riva non lo farà mai, è molto più probabile che scelga di chiudere. È per questo che i politici e i sindacalisti, più che fiancheggiare l'azienda nel tentativo di smontare il lavoro della magistratura, farebbero meglio a concentrarsi sul futuro, su come dare una nuova economia a questo territorio. Considerando che gli stipendi dei dipendenti gravano sugli utili dell'azienda non più del 10%, si potrebbe spegnere gradualmente il siderurgico in 3-4 anni e, nel frattempo, avviare le bonifiche, restituire alla città le aree demaniali e favorire nuovi investimenti.

Ha subito ripercussioni nello stabilimento dopo le sue prese di posizione?

Sì. È sempre accaduto dato che da anni denuncio, come altri colleghi, ciò che non funziona nel siderurgico. Proprio in questi giorni mi è stato notificato un provvedimento disciplinare. Il motivo? Ho deciso di non firmare più il registro di presenza delle riunioni periodiche che vengono promosse sulla sicurezza. Trovo inutile che tali informazioni vengano diffuse se poi, quando noi operai cerchiamo di applicarle, diventiamo un problema.

Ha paura?

Certo, potrei perdere il lavoro. Non posso però chiudere gli occhi e non fare niente. Sono prima cittadino di questa città, poi operaio.

Le recenti scoperte di nuove risorse naturali in parecchi paesi, agosto africani – tra i quali Ghana, Uganda, Tanzania e Mozambico – sollevano un interrogativo importante: queste risorse insperate costituiranno una benedizione in grado di apportare benessere e speranza, oppure diventeranno una maledizione politica ed economica. In media, i paesi ricchi di risorse hanno avuto un rendimento addirittura inferiore a quello dei paesi privi di tali fortune. Sono cresciuti con maggiore lentezza e con maggiori sperequazioni. Proprio il contrario di quello che ci si sarebbe potuti aspettare. Dopo tutto, fissare imposizioni fiscali a tassi elevati sulle risorse naturali non ne provocherà la scomparsa, e ciò implica che i paesi le cui risorse naturali costituiscono la principale fonte di reddito possono utilizzarle per finanziare l’istruzione, l’assistenza sanitaria, lo sviluppo e la ridistribuzione. Si è andata sviluppando una vasta letteratura in campo economico e in quello delle scienze politiche, mirante a spiegare questa “maledizione delle risorse”.

Tre degli ingredienti economici di questa maledizione sono ben noti: 1) i paesi ricchi di risorse hanno la tendenza ad avere forti valute, che ostacolano le esportazioni di altri prodotti ; 2) tenuto conto che l’estrazione delle risorse comporta spesso un’esigua creazione di posti di lavoro, la disoccupazione aumenta; 3) i prezzi oscillanti delle risorse determinano che anche la crescita diventa instabile; a ciò contribuisce anche il fatto che le banche internazionali accorrono quando i prezzi delle materie prime sono alti e se ne allontanano non appena si palesa una recessione (riflettendo così il principio da tempo confermato secondo cui i banchieri prestano i loro soldi soltanto a chi non ne ha bisogno). Inoltre, il più delle volte i paesi ricchi di risorse non perseguono strategie di crescita sostenibili. Non riescono a capire che se non reinvestono le ricchezze ottenute tramite le loro risorse in investimenti redditizi sul campo, in realtà si impoveriscono sempre più. Le disfunzioni politiche, infine, esacerbano il problema, proprio come le lotte per l’accesso alle rendite delle risorse stesse portano a governi corrotti e non democratici. Per contrastare ciascuno di questi problemi esistono antidoti anch’essi ben noti: un basso tasso di cambio, un fondo di stabilizzazione, investimenti prudenti dei proventi delle risorse (anche tra la popolazione del paese stesso), il divieto a contrarre prestiti, e la trasparenza (così che la popolazione possa quanto meno vedere i capitali andare e venire). Cresce però il consenso sul fatto che queste misure, per quanto necessarie, non sono sufficienti: per aumentare la probabilità che dalle risorse nasca una “benedizione ” è indispensabile che i paesi che si sono arricchiti da poco prendano ulteriori provvedimenti.

Prima di ogni altra cosa, questi paesi devono fare molto di più per garantire che la cittadinanza riscuota l’intero valore delle risorse locali. Invece, esiste un inevitabile conflitto di interessi tra le società che hanno il controllo delle risorse naturali (e che di solito sono straniere) e i paesi che le accolgono. Le prime vogliono ridurre al minimo le loro spese, mentre i secondi hanno bisogno di portarli al massimo. Vendite all’asta ben organizzate, competitive e trasparenti potrebbero generare introiti molto più cospicui di quelli derivanti da transazioni effettuate con condizioni eccessivamente favorevoli. Anche i contratti dovrebbero essere trasparenti e garantire che qualora i prezzi scendessero – come è accaduto ripetutamente – i guadagni supplementari imprevisti non vadano soltanto alle società estere di sfruttamento delle risorse. Purtroppo, sono tanti i paesi che hanno già firmato contratti svantaggiosi e concedono quindi una percentuale spropositata del valore delle loro risorse alle società private straniere. Esiste però un modo per sopperire a ciò: rinegoziare tutto. E qualora ciò non fosse possibile, imporre una tassazione delle sopravvenienze attive. Cosa altrettanto importante, i capitali messi insieme grazie alle risorse naturali possono essere impiegati per promuovere lo sviluppo. Le potenze coloniali di un tempo consideravano l’Africa alla stregua di un luogo dal quale estrarre meramente risorse. E alcuni dei nuovi acquirenti continuano a mantenere questo atteggiamento. Si sono realizzate le infrastrutture (strade, ferrovie, porti) con un unico obiettivo in mente: far uscire dal paese le risorse naturali al prezzo più basso possibile, senza compiere alcuno sforzo volto a incentivare la lavorazione locale delle risorse, per non parlare dello sviluppo di industrie in loco per il loro effettivo sfruttamento. Per uno sviluppo reale è indispensabile invece scandagliare tutte le possibili connessioni: la formazione di lavoratori locali, lo sviluppo delle piccole e medie imprese affinché forniscano input per le attività estrattive e per le società petrolifere e del gas, una lavorazione locale, l’integrazione delle risorse naturali nella struttura economica del paese in questione. A contare davvero è il vantaggio relativo dinamico, o il vantaggio relativo sul lungo periodo, che può essere condizionato. Quarant’anni fa la Corea del Sud aveva un vantaggio relativo nella coltivazione del riso, ma se si fosse limitata a questo unico punto di forza oggi non sarebbe il colosso industriale che è diventato. Sarebbe potuta rimanere il produttore di riso più produttivo al mondo,ma sarebbe rimasta povera.

Traduzione di Anna Bissanti Copyright: Project Syndicate, 2012

Il processo di vendita dei beni immobiliari pubblici era iniziato nella metà degli anni '90, ma i numerosi provvedimenti bipartisan hanno prodotto risultati modesti. Oggi la vendita annunciata dal governo Monti si farà perché la crisi economica favorisce l'efficacia dei provvedimenti.

I beni da vendere appartengono a quattro categorie. I beni culturali, e cioè i gioielli che rappresentano la storia e il prestigio del nostro paese, luoghi spesso a disposizione di tutta la popolazione. Beni che sono alla base di uno degli articoli fondamentali della prima parte della Costituzione verranno svenduti senza remore: non ce lo possiamo permettere più, secondo la religione dei professori. Vedremo che dirà al riguardo il Presidente della Repubblica che in passato ha richiamato all'intangibilità delle radici culturali dell'Italia.

Il secondo gruppo appartiene ai beni strumentali, cioè a tutte quelle proprietà che tuttora ospitano una funzione pubblica. Si tratta di servizi scolastici, sanitari e sociali, di uffici che formano la sempre più debole trama pubblica delle nostre città. È evidente che la loro alienazione provocherà un ulteriore passo indietro per milioni di cittadini che vedranno cancellati preziosi servizi e la rete civica di convivenza. Il terzo gruppo appartiene ai (non tantissimi) beni non in uso: caserme dismesse, ospedali già soggetti alla forbice dei ragionieri, scuole ubicate in aree in cui la popolazione giovane è merce rara. Beni su cui in linea generale è difficile non convenire sul fare cassa. Ma non a tutti i costi. Le pubbliche amministrazioni spendono ingenti quantità di denaro per affitti di immobili privati. Alcune scuole sono vecchie e fatiscenti. Decine di migliaia di famiglie nelle grandi città vivono in grave disagio abitativo. Perché non si redige un piano di rientro dalle esposizioni per affitti passivi utilizzando anche a fini sociali gli immobili pubblici dismessi? Rischiamo una nuova beffa, come per la vendita degli alloggi degli enti pubblici, appannaggio a quattro soldi anche di ministri in carica.

L'ultimo gruppo è un'ulteriore sottolineatura della natura non tecnica del governo in carica. Un anno fa la stragrande maggioranza dei cittadini italiani si è espressa sul mantenimento di alcune prerogative in capo ad aziende pubbliche: questo è il senso inequivocabile del referendum sull'acqua. Ma il quarto segmento della svendita è rappresentato proprio dai beni di proprietà della aziende municipalizzate. Un colpo micidiale alla cultura dei beni comuni. La folle dottrina liberista, dopo aver provocato la crisi a partire dai mutui subprime statunitensi e averla aggravata con la bolla immobiliare spagnola, vuole continuare a guadagnare sulle macerie. La svendita del patrimonio immobiliare pubblico non avrà alcun effetto per far uscire il paese dalla crisi economica. Servirà a far quadrare i bilanci di molti istituti di credito e fondi speculativi che a parole si dice di combattere. E servirà a far arretrare le vite di coloro che fin qui «hanno vissuto sopra le loro possibilità», come dice il professor Monti. Obiettivo da raggiungere anche svendendo le radici del nostro paese.

Il manifesto

Il movimento senza equivoci

di Ida Dominijanni

Renato abitava a pochi metri dal manifesto, e dunque capitava spesso d’incontrarlo, mangiare qualcosa assieme a lui e a Marilù, chiedergli un pezzo che non lesinava mai, scambiare due idee sull’ultimo fatto che ci aveva colpiti o sull’ultima iniziativa che aveva messo in piedi. Due idee o anche solo una battuta, perché l’ironia, caustica, e l’intelligenza, generosissima, erano in lui la stessa cosa, così come la rapidità delle associazioni mentali, della fantasia e dell’inventiva facevano tutt’uno con la profondità dello sguardo e lo spessore del sapere. Adesso come trent’anni fa, il tocco veloce, leggero, imprevedibie, indisciplinato e al tempo stesso meditato e mirato, motivato e progettuale era sempre lo stesso, cifra inconfondibile di una personalità irripetibile, impronta incancellabile di un amico indimenticabile.

Adesso come trent’anni fa, del resto, non era cambiato il tiro dell’azione, culturale e politica, culturale cioé politica, che restava ugualmente alto oggi nella programmazione del Teatro di Reggio Calabria, la città dell’insegnamento universitario, come ieri nella programmazione dell’Estate Romana, la capitale dell’esperimento di governo: e tanto Nicolini si sentiva felicemente radicato in quell’esperimento, quanto lo infastidiva vedersi monumentalizzato e racchiuso solo in quella cornice, che lui non aveva mai considerato né chiusa né conclusa, e casomai altri avevano fatto sì che si chiudesse o non avevano fatto in modo che si riaprisse. Il cordoglio unanime e il riconoscimento corale che accompagnano ora la sua scomparsa testimoniano da soli quanto sia stata in realtà duratura l’impronta della politica del co-iddetto effimero, ma non rendono conto di quali e quanti conflitti, ostacoli, equivoci l’abbiano costellata. L’equivoco, infatti, permane in memoriam: la leggerezza contro il piombo, le luci della notte contro il buio del terrorismo, la cultura in piazza contro le piazze armate, lo spettacolo insomma contro il conflitto, la distrazione di massa contro la durezza del passaggio dagli anni Settanta agli Ottanta...

Ma non fu questo l’effimero, non fu questo l’Estate romana, non è stato questo Renato Nicolini.Non vale nemmeno la pena, oggi che nelle notti d’estate del più minuscolo borgo d’Italia si intrecciano cultura alta e bassa, fioriscono le arene e fioccano, o con la crisi languono, le sponsorizzazioni, tentare di restituire la dirompenza di un’idea che all’epoca ridisegnò la Capitale, reinventò gli spazi, invertì il giorno e la notte, aprì il centro ai barbari delle periferie, offrì le rovine antiche alla fruizione del presente, incantò e inchiodò giovani vecchi e bambini con le con le loro seggioline a Massenzio davanti ai tutt’altro che leggeri Senso di Visconti o Napoléon di Abel Gance, scoprì o riscoprì, con Nicolini e la sua squadra che non dormivano mai e mangiavano cioccolata per tenersi su, un monumento o uno squarcio o una piazza al giorno. Né vale la pena di ricordare che molti scettici o detrattori di allora, spaventati da questa irruzione di massa sulla sacralità della cultura, hanno finito con l’adottarne nel tempo la convenienza commercia-e senza saperne riprodurre l’energia, le intenzioni e lo spirito.

Merita invece tornare sull’equivoco politico di cui sopra, perché è sintomo di un problema aperto nella memoria collettiva sul passaggio dagli anni Settanta al dopo, e perché a Renato stava a cuore dissiparlo ogni volta che poteva. Ne scrisse per noi in un articolo sul decennale del Ne scrisse per noi in un articolo sul decennale del Settantasette che ripubblichiamo qui sotto, dove raffigura il ’77 e l’Estate romana come due gemelli: non l’una contro l’altro, non la luce dopo il buio o la leggerezza dopo il piom- bo o lo spettacolo dopo il conflitto, bensì l’una incontro all’altro, rispo- sta politica e istituzionale alle do- mande di quel movimento, l’unica risposta giocata sul terreno della contaminazione e non su quello difensivo della immunizzazione dei «buoni» dai «cattivi», dei perbene dai permale, dei rispettabili del centro dai barbari delle periferie, dei colti da ossequiare dagli incolti da indottrinare. Quel movimento e i bisogni che esprimeva e anticipava, scriveva Renato nel 1987, non hanno avuto altre risposte e altri interlocutori politici laddove sarebbero stati necessari: sulla disoccupazione, la ristrutturazione del lavoro, la forma-metropoli, la terziarizzazione.

Era vero allora, resta vero oggi che la crisi economica ci presenta ilconto di una trasformazione trentennale. Era vero allora, resta vero oggi che la crisi della politica paga anche il prezzo della sottovalutazione di figure d’eccezione come quela di Nicolini, o della loro derubricazione a eccentricità effimere legate a una stagione e a una sola. Con la sua politica della vita che sapeva parlare alle vite – biopolitica affermativa, la si chiamerebbe oggi – l’assessore dell’Estate romana avrebbe avuto ancora molto da dire e da dare contro la tanatopolitica triste e depressiva del neoliberismo europeo.

La Repubblica

Se n’è andato Nicolini sognatore

metropolitano


di Valerio Magrelli

“Non adottiamo quegli spettacoli che rinchiudono tristemente poche persone in un centro oscuro, tenendole timorose e immobili nel silenzio e nell’inerzia”. Chi sa se Renato Nicolini, architetto, docente, assessore, ma soprattutto mirabile inventore dell’Estate romana, avrà avuto presenti queste parole che Jean-Jacques Rousseau scrisse oltre due secoli fa.IL GRANDE filosofo ginevrino voleva condannare il teatro e ogni tipo di intrattenimento basato sulla passività del pubblico. In questo, il suo teatro ricorda molto da vicino il nostro cinema (per non parlare di televisione...). Ebbene, a tutto ciò veniva opposto un ideale di gioioso rito collettivo, cui far partecipare l’intera comunità.

Detto altrimenti: una cittadinanza non può restare unita soltanto per ragioni di interesse. L’esistenza comune richiede un rapporto emotivo. Un popolo felice deve saper ritrovare la sua coesione nei giochi, nei divertimenti: «Piantate in mezzo a una pubblica piazza un palo coronato di fiori, ponetevi intorno un popolo, e otterrete una festa ». In tal modo, ha spiegato Paolo Apolito seguendo le ricerche di Mona e poi Ozouf, la festa assume addirittura il compito di «rendere evidente, eterno, intangibile il nuovo legame sociale».

Certo, un simile discorso sembrerà preso un po’ troppo alla larga, eppure, per apprezzare il progetto di Nicolini, occorre ricostruirne la genealogia. Infatti, sotto la cappa degli Anni di piombo, questo studioso in apparenza tanto svagato, ebbe l’idea acutissima e letteralmente rivoluzionaria (nel senso del suo prototipo francese) di trapiantare la festa nel cuore della metropoli moderna, e al contempo di riappropriarsi della notte, ossia di uno spaziotempo che il terrorismo aveva

progressivamente convertito in mesto «coprifuoco». Ebbene, Nicolini «scoprì quel fuoco », lo fece divampare, ma senza più violenza, anzi, nel segno della pura euforia dionisiaca, con balli, canti, letture.

Chi non ricorda la tre giorni di poesia sulla spiaggia di Castelporziano, organizzata da Franco Cordelli nel 1979? Autori italiani e stranieri, il falso annuncio di un concerto di Patty Smith, trentamila spettatori vocianti, l’assalto al cibo e al palco, il crollo di quest’ultimo, la magica apparizione di Allen Ginsberg che, trasformato in Orfeo, placa con un suo mantra la folla inferocita.

E in tutto ciò, al largo, una petroliera in fiamme (o erano due? oppure stiamo entrando in «Apocalipse now»?). Così, fra dada e pop, il teatro fagocitò la poesia, dando vita ad una sensazionale performance.

Ma Nicolini era questo, un apprendista stregone, anche se danni non ne fece mai. Nel frattempo nei parchi cittadini, da Villa Ada a Villa Borghese, e in mezzo ai più maestosi monumenti, la città ritrovava umanità e insieme unanimità.

Se tutto ciò è vero, risulterà evidente che il suo capolavoro fu il rilancio del teatro e del cinema all’aperto. Ai testi di Peter Brook recitati nelle vie del quartiere Prati, rispose il film «Senso» di Visconti, proiettato nell’agosto 1977 sotto le volte della Basilica di Massenzio. Non più poche persone, timorose, immobili, inerti, silenziose, chiuse in un centro oscuro, bensì una folla raggiante e scatenata, vivace e rumorosa, raccolta in platee immense e luminose. Altro che Effimero! Quello che alcuni chiamarono così, fu in realtà la vittoria di Rousseau.

manifesto

La stagione delle arti

d Gianfranco Capitta

Il dolore per la morte di Renato Nicolini è soprattutto quello di una privazione di qualcuno insostituibile. Non solo per le chance che la sua presenza dava a una politica che pure lo ha sempre rifiutato, non gradito, messo ai margini mentre faceva posto, e si teneva stretti in primo piano i mediocri, magari incapaci, magari corrotti. Nicolini è e resterà insostituibile per qualcosa che ha fatto di molto concreto, qualcosa che lui stesso filosofava fosse «effimero», ma che si è rivelato duraturo come il marmo e inoppugnabile come un teorema copernicano. L'invenzione della «estate romana», la voglia di consumo culturale che ha snidato e attratto in centro la sera una popolazione che se ne stava chiusa in casa per paura e sfiducia, e che riscopriva invece, come in una saga delle favole antiche, quanto fosse «bello» vedere un film con altre migliaia di spettatori, vedere spettacoli che non avrebbe mai sognato di vedere, che fossero classici o elaborazione di avanguardia, ma in un luogo riconoscibile e affidabile, dove il centro tornava a essere a disposizione delle periferie, beh quella invenzione ha attirato su di lui una gratitudine e una popolarità plurigenerazionale (il suo nome, come la sua creatura, sono entrati nel linguaggio comune), ma anche tanta animosità e tanto boicottaggio personale.

Ora Renato Nicolini è rimasto vittima di una orribile malattia, che lo ha colpito in meno di un anno prima ai polmoni e poi alla colonna vertebrale (lui che non ricordo fumasse, così come non guidava un'auto), e che ha cancellato in poco tempo quel volto da eterno ragazzo, quel sorriso inconfondibile che si era fatto insieme amorevole e scettico, curioso e insoddisfatto. Aveva settant'anni giusti, compiuti il primo marzo, e si diceva contento di andarsene finalmente in pensione dall'università. Da tanto tempo si sobbarcava ad andare e tornare dalla sua Roma a Reggio Calabria, sua sede accademica, dove però insieme alla sua compagna attrice Marilù Prati da tanti anni si spendevano per dare a quella città un laboratorio teatrale di livello adeguato. Così che erano riusciti a legare università e altri enti nella gestione del Teatro Siracusa, una grande struttura dove dare i classici e Pinter, le riscritture di Adele Cambria e quelle di Francesco Suriano. Con una vitalità e una perseveranza notevoli, che del resto gli venivano sempre da quell'invenzione degli anni 70.

Era stato allora che, giovane architetto, militante per quanto problematico nel Pci (di una genìa di architetti celebri, che contemplava tra gli antenati anche il famoso Piacentini), era stato chiamato a sorpresa dal mitico sindaco Giulio Carlo Argan come assessore alla cultura nella giunta capitolina di sinistra, che poneva termine alla lunga, soporifera e iperdevozionale amministrazione di centrosinistra ad egemonia dc. Poi ci sarebbero stati i sindaci Petroselli e Vetere, ma il nome di Nicolini si era nel frattempo fatto conoscere nel mondo. Perché erano i bui anni 70, e Roma si era chiusa in una spirale cupa di opposizione frontale quanto simbolica. L'invenzione del cinema a Massenzio, con megaproiezioni sotto le famose arcate imperiali di classici del cinema, attrasse irresistibilmente quasi fino all'alba il pubblico romano. Anzi i pubblici, perché c'erano famiglie e intellettuali, studenti e anziani, che si sarebbero moltiplicati ancora quando lo schermo diventò immenso, prospiciente l'arco di Costantino, e la platea si allungò fin quasi al Circo Massimo: e il muto Napoleon di Abel Gance risuonò di una partitura sinfonica dal vivo diretta dal maestro Coppola! I francesi son stati gli ammiratori più sfrenati dell'invenzione nicoliniana: Jack Lang la prese dichiaratamente a modello per costruire la sua fortuna come ministro della cultura della République.

Ma il cinema era solo la punta più vistosa dell'iceberg: tutte le arti hanno avuto da Nicolini, in quella felice stagione, un impulso che a Roma non si era mai visto, scatenando del resto gli studi dei sociologi come le chiacchiere al bar. In teatro il suo intervento non fu meno radicale: dalla conquista dei luoghi meno visibili per farne sede di spettacolo (e neanche facile, se si pensa a uno storico Britannicus di Racine nella chiesa dei Fori) ai molti palcoscenici in contemporanea del Parco Centrale di via Sabotino, alla riapertura degli argini del Tevere e della mussoliniana villa Torlonia, alla stessa nuova funzione fatta assumere al Teatro di Roma, che si convinse a promuovere e realizzare i progetti che provenivano anche dall'assessorato di piazza Campitelli. Nicolini era in grado di far risvegliare i pigri uffici amministrativi e le soprintendenze, con il sorriso e con la cocciutaggine. Se no, non si sarebbe mai realizzato quel vero evento storico del Festival dei Poeti sulla spiaggia di Castelporziano: poeti da tutto il mondo, spettatori da tutta Europa, emozioni da profondità marine.

Oggi, dopo soli 30 anni, tutto questo sembra archeologia lontana; o forse fantascienza, se rapportata ai balbettii insensati e senza fondamento di Alemanno e della sua giunta. Del resto Nicolini assessore, nonostante la fiducia e l'appoggio dei suoi sindaci e del suo pubblico, non ha avuto contro solo la destra più ovvia. Per la nota legge dell'invidia, soprattutto da parte di chi non riusciva a imitarlo pur provandoci incessantemente, lui non era amato certo a Botteghe oscure. Sia per l'incapacità a comprenderlo di quella generazione che lì a due passi dal suo assessorato non riusciva neanche ad affermarsi (ma oggi è ben solida al proprio posto), sia perché nessuna via preferenziale veniva accordata ai progetti provenienti «dal partito». Oltre alla concomitante insofferenza che per lui provavano i socialisti: uno di loro arrivò a farsi nominare vicesindaco pensando di poterlo meglio controllare! Nicolini, bisogna proprio dirlo, è rimasta sempre una persona onesta, giocherellone nei comportamenti quanto rigoroso sulla qualità dei progetti, quando vi scorgeva una radice culturale valida. Del resto così è arrivata Pina Bausch all'Argentina, Bob Wilson e Gavin Briars hanno composto un episodio di Civil War per il Teatro dellOpera, e Klaus Maria Brandauer è stato Jedermann sul Campidoglio come faceva davanti al duomo di Salisburgo. Senza Renato, sembra davvero un'altra era glaciale, di cui c'è rimasto in eredità solo il freddo disincanto.

vedi anche l'articolo di Vezio De Lucia

Preparandosi a riprendere in mano il timone del governo, la politica farebbe bene a riflettere sulle ragioni della sua Caporetto, nel novembre 2011. Ciò che ha atterrato l’onorabilità della politica non furono tanto gli scandali sessuali del premier o le diffusissime vicende di corruzione, ma l’impotenza a fare il suo lavoro: governare. L’incapacità, non la disonestà, ha mandato a casa il governo Berlusconi. Questa accusa è molto più grave di quella di corruzione. Poiché mentre la disonestà è l’esito di una deturpazione che non mette in discussione la politica ma alcuni suoi praticanti, l’inadeguatezza a prendere decisioni mette in luce un limite oggettivo della politica democratica. Infatti fu il sapere di dover andare di fronte agli elettori con programmi di rigore e sacrifici, e di rischiare di perdere il consenso, che ha reso il governo Berlusconi impotente. Con il governo dei tecnici è circolata un’idea perniciosa: che la forza di un governo sia in proporzione della sua non rispondenza agli elettori. Questo è il vulnus democratico contenuto nella filosofia di un governo tecnico. L’uscita dal quale deve necessariamente corrispondere alla rinascita della politica delle idee e della progettualità con la quale presentarsi agli elettori.

Difficile prevedere che cosa lascerà il governo Monti. Ma una cosa sembra chiara proprio in virtù di questa premessa: con l’avvento del governo dei “tecnici” la politica dei politici si trova di fonte a un compito impervio, che è quello di dimostrare di essere meglio di un governo senza politica partigiana; che un governo che deve rendere conto agli elettori è migliore e altrettanto capace di un governo tecnico. Ritornare a parlare di programmi e di idee è la via maestra. Ed è urgente. Un problema tra i più urgenti che una politica democratica dovrà affrontare sarà quello della crescente diseguaglianza della società italiana. La diseguaglianza è un problema per la democrazia, soprattutto quando si radica nelle generazioni, perché balcanizza la società e rompe la solidarietà tra cittadini, inducendo i pochi a secedere, se così si può dire, dall’obbligo di contribuire per chi non sente più come uguale.

La società italiana sta da alcuni anni percorrendo una strada a ritroso rispetto a quella nella quale si era immessa dopo la Seconda guerra mondiale: dall’eguaglianza alla diseguaglianza. Lo documentano ricerche effettuate dal 2009 al 2012 da istituti diversi come l’Ocse, la Banca d’Italia e l’Istat. Da circa quindici anni, si assiste a una progressiva disuguaglianza dei redditi e un aumento progressivo della povertà. Come osserva Giovanni d’Alessio in uno studio per la Banca d’Italia di qualche mese fa, il rapporto tra la ricchezza e il reddito è all’incirca raddoppiato negli ultimi decenni; insieme è aumentato il ruolo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. In altri termini, la ricchezza sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo mentre declina il ruolo del lavoro. Un significativo aspetto della disuguaglianza riguarda la sua tendenza a trasferirsi da una generazione all’altra, legando sempre di più il destino dei figli a quello dei genitori. È questo un fattore tra i più devastanti e che documenta direttamente la stabilizzazione delle classi. Perché disuguaglianza non occasionale, non per personale responsabilità, ma di classe, un fatto che vanifica ogni più ragionevole discorso sul merito individuale.

Questo trend classista ci dice in sostanza che lavoro dipendente e lavoro autonomo sono divaricati (il reddito del secondo aumenta molto più in proporzione al reddito del primo) e che i punti di partenza (la famiglia) diventano sempre più determinanti e difficilmente neutralizzabili da parte degli individui. Non a caso, insieme alla divaricazione dei redditi autonomi e da lavoro si ha la divaricazione degli accoppiamenti: sempre più persone si sposano con persone con reddito simile. Insomma poveri sposano poveri, ricchi sposano ricchi – e per conseguenza, tendenza al trasferimento delle diseguaglianza e dei privilegi da una generazione all’altra.

La democrazia non ha mai promesso né perseguito l’obiettivo di rendere tutti i cittadini economicamente eguali, ma ha promesso con formale dichiarazione nelle costituzioni e nelle carte dei diritti, di “rimuovere gli ostacoli” che impediscono a uomini e donne, diversi tra loro sotto tanti punti di vista (dal genere al credo religioso alla ricchezza) di aspirare a una vita dignitosa. Vi è nella democrazia politica un invito assai esplicito a mai interrompere il lavoro di manutenzione sociale operando sulle condizioni di accesso o le “capacitazioni” per usare un termine coniato da Amartya Sen. Ecco perché a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale le democrazie hanno dichiarato che i livelli di disuguaglianza nella ricchezza devono e possono essere mitigati agendo sui meccanismi che la determinano, ad esempio con politiche in grado di assicurare che il godimento di alcuni diritti fondamentali raggiunga più pienamente e uniformemente la popolazione. Scrive d’Alessio, che “la scuola pubblica erogando un servizio a tutti, tende a ridurre la disuguaglianza tra i cittadini in termini di conoscenze e di abilità, presupposto di una quota rilevante di quella in termini di ricchezza, riducendo in particolare il divario che caratterizza coloro che provengono dalle classi sociali più svantaggiate”. Lo stesso vale per il servizio sanitario, che rimuove un ostacolo forse ancora più fatale per chi non ha altra ricchezza se non il proprio lavoro. Eppure proprio queste “spese sociali” sono oggi messe in discussione e decurtate. I programmi politici sono quindi determinanti perché a consolidare le classi insieme al declino fortissimo dei matrimoni interclassisti interviene proprio lo smantellamento di quel fattore sul quale si era costruita la democrazia moderna: la politica sociale, che significa la ridistribuzione dei redditi attraverso i servizi destinati alla salute e all’istruzione; in questi due settori chiave che da sempre hanno contribuito a contenere il divario tra le classi lo Stato investe sempre di meno, dimostrando nei fatti di non essere in grado o di non volere più usare la spesa pubblica per obiettivi democratici, per rimuove gli ostacoli alla crescita della disuguaglianza, come promesso dalla Costituzione.

La rivolta degli operai dell'Ilva di Taranto contro la chiusura del loro stabilimento, che danneggia gravemente la loro salute e quella dei loro concittadini, ha un significato sinistro per l'avvenire di tutti. Non perché fa balenare la prospettiva di un'alleanza tra imprenditori e lavoratori che metta la difesa dell'occupazione in contrasto con la difesa dell'ambiente. Questa prospettiva è stata indicata da Asor Rosa ed è tutt'altro che irrealistica. A voler essere precisi non si tratta di una prospettiva nuova ma di una contraddizione antica mai effettivamente risolta che ritorna con una brutalità imprevista a distruggere le illusioni di uno sviluppo ecosostenibile, che sono state il frutto più dell'ottimismo di una volontá "politicamente corretta" che della ragione (che avrebbe diversi motivi per essere pessimista).

La globalizzazione ha reso evidente che il futuro del mondo non si giochi nei pochi paesi dell'Europa in cui la difesa dell'ecosistema ha fatto passi incoraggianti e innegabili. La crisi economica sta rimescolando le carte in modo tale che la regressione verso politiche di sviluppo devastanti per l'ambiente e per i diritti dei lavoratori (e, per estensione automatica, di tutti i cittadini) non appare un'ipotesi ardita. Scaricare sulle spalle dei lavoratori la responsabilità di eventi che mettono loro con le spalle al muro, minando perfino, a lungo andare, la loro salute, è la tentazione che può prevalere in tanti, seppure in modo non del tutto consapevole. In una società in cui i sindacati sono impediti nella loro funzione di agenti dell'interesse generale e spinti inesorabilmente verso una prassi di difesa dei posti di lavoro di breve respiro la responsabilità è del governo e delle forze politiche.

Perché la cosa che diventa sempre più evidente è l'irrazionalità del sistema capitalistico che lasciato privo di contrasto, di antagonismo e di controllo produce disperazione e disordine. La vicenda di Taranto è emblematica non per il tradimento possibile dell'interesse collettivo da parte della classe operaia ma perché evidenzia, nel modo più drammatico, il suicidio della qualità della nostra vita a cui ci costringe un sistema di produzione basato su parametri quantitativi sempre più astratti dai nostri desideri e sempre più avversi al loro appagamento. Dobbiamo prima di tutto mangiare affermano alcuni operai a Taranto e non molto diversamente da loro direbbero le popolazioni affamate dei paesi della periferia del sistema capitalistico.

Qualsiasi compromesso di fronte alla propria sopravvivenza fisica non potrebbe che essere lecito sul piano individuale ma sul piano della coscienza collettiva produce smarrimento l'accumulo di una ricchezza di risorse materiali mai vista prima che tende ad affamare più che a sfamare l'umanità. Il vero contrasto non è tra operai (interesse corporativo) e magistrati (interesse collettivo) o tra bisogni materiali elementari e bisogni materiali più evoluti (meglio morire di cancro tra molti anni che morire di fame oggi ha detto un operaio). La gestione puramente quantitativa dell'interesse collettivo, la sua completa sottomissione alla logica dei numeri, è in rotta di collisione con la razionalità della nostra esistenza, produce povertá materiale per i molti e infelicitá affettiva per tutti. La qualità della vita non è una scienza esatta ma non è un’opinione.

Postilla

Lo raccontava già efficacemente Frederick Engels ne La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845) sino a che punto certe distorsioni indotte dal capitalismo riuscissero a deviare completamente coscienza e identità dei lavoratori. I quartieri popolari di Manchester, oltre ad essere malsani e gestiti dagli speculatori, erano letteralmente soffocati dai fumi delle vicine industrie che rendevano l’aria irrespirabile, ma i giovani operai consideravano segno di forza e virilità saper sopportare senza lamentarsi troppo anche questo, sino a fare delle specie di gare di resistenza. Piuttosto sconfortante scoprire (?) sino a che punto ancora oggi certi sedicenti marxisti da dispense settimanali rilegabili pontifichino a nome di tutti sul che fare (f.b.)

Viva il Milan e viva l'Inter, viva l'Atalanta e viva la Sampdoria, viva il Palermo e viva la Salernitana e insomma viva tutti: ma perché costruire uno stadio dovrebbe essere più facile che tirar su una scuola, una caserma dei pompieri o un ospedale? Te lo chiedi leggendo la nuova legge che vorrebbe dare un'accelerata a tutti i nuovi impianti sportivi che abbiano in allegato ipermercati, ristoranti, condomini... Legge votata in mezz'ora, grazie a una tregua-lampo nella rissa tra i partiti, da un'ammucchiata mai vista.

Tema: possibile che un Parlamento capace di rifiutare la corsia preferenziale alla legge sui bilanci dei partiti mentre si consumava lo scandalo dei rimborsi elettorali gestiti dai tesorieri della Margherita Luigi Lusi e della Lega Francesco Belsito, non l'abbia invece negata a un provvedimento come questo, approvato fulmineamente in 30 minuti netti dalle 13.55 alle 14.25 di giovedì 12 luglio, in «sede legislativa» da una commissione di 44 deputati, senza passare per l'aula?

Seconda domanda: perché se n'è occupata la Commissione cultura, scienza e istruzione invece di quelle che hanno a che fare con l'urbanistica o i lavori pubblici? Perché ha competenza sullo sport? Ma «che c'azzecca», per dirla in «dipietrese», con la costruzione di questi trans-stadi-ipermercati-hotel? Ma qui proprio il caso dipietrista pone la terza domanda: come mai, nel bel mezzo di una guerra termonucleare contro tutto e tutti, la stessa Idv s'è associata al coro degli entusiasti della nuova norma?

Tutti, l'hanno votata. O quasi: la sola Luisa Capitanio Santolini, a nome dell'Udc, ha votato contro: era delusa che il testo, frutto «del lavoro condiviso», non fosse «meditato e discusso ulteriormente». Gli altri, tutti insieme appassionatamente. Maria Coscia, del Pd, lo ha benedetto come «un provvedimento di grande utilità per il mondo dello sport». Rocco Crimi, il tesoriere del Pdl, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per la vigilanza sul Coni, già consulente farmacologo della Roma Calcio e dell'istituto di Medicina dello sport Coni-Fmsi, ha esultato per gli «importanti miglioramenti» apportati nella seconda lettura alla Camera dopo il passaggio al Senato nell'ormai lontano 2009. Pierfelice Zazzera, vicepresidente della commissione, dipietrista, ha applaudito. E non è mancata, in chiusura, l'aspersione dell'incenso governativo: operazione assegnata al ministro dello Sport Piero Gnudi, speranzoso d'aver dato il via a «un volano per l'economia». Le firme in calce alla legge, risultato dell'unificazione di più proposte, sono un arcobaleno. Spiccano su tutti gli azzurri Luigi Grillo e Paolo Barelli, presidente della Federnuoto. Ma anche esponenti del Pd quali l'imprenditore farmaceutico Andrea Marcucci, Mariapia Garavaglia o Anna Maria Serafini, moglie di Fassino. E i leghisti? Hanno preferito non sbilanciarsi in dichiarazioni di voto: metti mai che poi i tifosi padani dell'Albinoleffe o della Solbiatese… Ma il loro okay, alla fine, non lo hanno fatto mancare.

La lettura del provvedimento è molto istruttiva fin dal titolo: «Disposizioni per favorire la costruzione e la ristrutturazione di impianti sportivi anche a sostegno della candidatura dell'Italia a manifestazioni sportive di rilievo europeo o internazionale». Messa così, sembrerebbe il via libera a uno sforzo per costruire nuovi «Maracanà» o nuovi «Santiago Bernabeu». Insomma: tre o quattro spettacolari strutture in grado di farci fare un figurone planetario.No: per beneficiare della «semplificazione e dell'accelerazione delle procedure amministrative» non serviranno più neppure i limiti previsti dalla versione uscita dal Senato: almeno 10 mila posti a sedere allo scoperto e 7.500 al coperto. Nella nuova stesura ne basteranno rispettivamente 7.500 e 4.000. Col risultato, tremano gli ambientalisti, che la soglia si è abbassata al punto di invogliare alla costruzione di stadi e palazzetti «ibridi», cioè affiancati da ipermercati e hotel e sale gioco e beauty center in deroga ai piani urbanistici, anche nelle cittadine di provincia. Che certo non punteranno mai a ospitare le Olimpiadi o gli Europei. Novità: la società sportiva che realizza l'impianto dev'essere riconosciuta dal Coni. Che si va ad aggiungere alla miriade di enti e istituzioni che hanno competenza sulle opere pubbliche.

Fin qui, direte, è roba di sport. Vero. Ma tutto fa pensare che la «ciccia», quella vera, non sia negli impianti. Ma in quel comma, il numero 2 dell'articolo 4, più insidioso. Che recita: «Il progetto per la realizzazione di complessi multifunzionali può prevedere ambiti da destinare ad attività residenziali, direzionali, turistico-ricettive e commerciali».Poche parole, ma tali da far sospettare a Legambiente, come si legge nel dossier elaborato con l'Istituto nazionale di Urbanistica e il Consiglio nazionale degli Architetti, che «questo provvedimento non è pensato per le squadre di calcio ma per chi vuole realizzare speculazioni edilizie. Perché altrimenti prevedere che si possano realizzare case e alberghi, centri commerciali e uffici? E senza neanche una scadenza legata a un avvenimento sportivo, per cui varrà per sempre come procedura speciale, permettendo in pochi mesi di rendere edificabili terreni agricoli e persino, con alcune forzature, aree vincolate»!

Assurdo, accusa il dossier: «Del resto l'unico grande stadio realizzato in Italia in questi anni, lo Juventus Stadium di Torino, non ha avuto bisogno di procedure speciali, né di essere finanziato dalla costruzione di case e alberghi». Qui no, qui «la vera invenzione è nella formula "complessi multifunzionali" definiti come "complesso di opere comprendente ogni altro insediamento edilizio ritenuto necessario e inscindibile purché congruo e proporzionato ai fini del complessivo equilibrio economico e finanziario"».Parole così generiche da comprendere e consentire tutto.

Le procedure, accusa Legambiente, «sono davvero speciali: si presenta uno studio di fattibilità finanziario e di impatto ambientale, entro 90 giorni la giunta comunale si esprime, convoca una conferenza di servizi per le varianti ai piani vigenti e l'approvazione del progetto da concludersi entro 180 giorni, e poi dopo l'approvazione del consiglio comunale (entro 30 giorni), si può partire con i lavori». Evviva la velocità: ma i rischi? Un solo caso tra i tanti ricordati dal dossier: l'area scelta dalla Lazio, 600 ettari e su cui realizzare 2 milioni di metri cubi, «si trova intorno al km 9,4 della via Tiberina in area di esondazione del Tevere vincolata dal punto di vista idrogeologico ed archeologico».Un pasticcio. Che spacca anche i partiti. A partire dal Pd. Basti leggere le dichiarazioni di fuoco, dopo il via libera della legge alla Camera (adesso deve tornare in Senato ma stavolta dovrà passare per l'aula) di Ermete Realacci o di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, secondo i quali è «una nuova legge-porcellum. Tagliata su misura sugli appetiti speculativi di pochi presidenti di società di calcio. Gli stadi sono solo un pretesto, la vera intenzione è realizzare grandi volumetrie commerciali, residenziali, direzionali fuori dalle previsioni e dai limiti dei piani regolatori». Rispondano anche i tifosi: ne vale la pena?

Il problema può essere di principio, ma può anche non esserlo perché l'analisi marxista della realtà non è obbligatoria. Dire che la colpa è sempre del padrone a qualcuno, magari anche tra i nostri lettori, potrebbe apparire come un pregiudizio ideologico. Allora mettiamola così: ovunque arrivi il padrone dell'Ilva esplode la zizzania tra i lavoratori e, soprattutto, tra i lavoratori e la popolazione vittima dei fumi di Emilio Riva. Ieri è successo a Genova, oggi si ripete a Taranto. Sentire, al termine di una grandissima e difficile manifestazione che tentava di unire i diritti al lavoro e alla salute, i leader di Cisl e Uil che per difendere il diritto al lavoro si schierano al fianco del padrone, oppure ascoltare il capo dell'Ilva che "difende" i lavoratori in sciopero dalle contestazioni, dà il segno di un inquinamento ideologico che si somma a quello, devastante, ambientale.

L'Ilva avvelena chi lavora e chi vive intorno al suo insediamento innanzitutto perché il profitto è stato e resta l'unico parametro di riferimento. Il profitto a tutti i costi, al massimo risparmio, è all'origine del disastro ambientale di Taranto come lo è stato precedentemente di altre città. Se si risparmia sulla sicurezza, sul risanamento dei guasti provocati al territorio nel corso di decenni, se si rinviano le ristruttuzioni del ciclo lavorativo per renderlo compatibile con l'aria che si respira, le cozze che si mangiano, l'erba di cui si nutrono le pecore, perché stupirsi della strage perpetrata dentro e fuori dalle lavorazioni a caldo di Emilio Riva?

Quei sindacati che solidarizzano con Riva e se la prendono con la magistratura, così come coloro che ieri contestando la manifestazione di Taranto scaricavano tutte le colpe sui sindacati, hanno perso di vista il responsabile principale della tragedia.

La magistratura arriva per coprire i buchi lasciati aperti dalla politica e dalle istituzioni, che rappresentano il secondo responsabile della crisi di Taranto.

Esistono, certo, anche responsabilità sindacali per aver concesso troppo al padrone, per aver subito il ricatto di una scelta insensata tra diritto al lavoro e diritto alla salute, per aver accettato scambi inaccettabili con la controparte naturale. Non tutti: i delegati Fiom venivano licenziati per gli scioperi organizzati in difesa della salute e per il miglioramento del ciclo produttivo. Se una colpa esiste, ed esiste, di una parte del sindacato, è di aver rinunciato alla sua autonomia. Accusare la Fiom, come fanno Cisl e Uil, per i disordini di ieri che hanno impedito alla Fiom stessa e alla Cgil di parlare, non è un errore ma il prodotto di un imbarbarimento culturale.

Difendere il lavoro e l'ambiente è possibile se si ha un progetto di riqualificazione e di riconversione della produzione, reso ancora più urgente dalla crisi. L'obiettivo sarebbe più vicino se la politica, la sinistra, si occupassero di questi problemi e se il governo si assumesse le sue responsabilità, invece di ripetere come un mantra che gli imprenditori hanno il diritto di decidere da soli come, cosa e dove produrre per fare più utili.

Così tramonta un simbolo dell’industria italiana

Luciano Gallino

L’acciaio è un materiale composto soprattutto di ferro, nonché di carbonio in misura inferiore al 2 per cento, più una dozzina di altri elementi presenti in una misura che varia da una frazione millesimale (il molibdeno) a oltre il 10 per cento (il cromo). Ha molte caratteristiche positive. Se si varia il tenore dell’uno o dell’altro elemento, si ottengono migliaia di tipi di acciaio dalle prestazioni diversissime quanto a elasticità, capacità di sopportare carichi oppure urti, resistenza alla corrosione, modalità di lavorazione. Grazie alla sua natura proteiforme, l’acciaio è presente ovunque, dalle mollette dei cellulari alle arcate dei viadotti ferroviari e stradali, dalle carrozzerie di auto ed elettrodomestici allo scafo delle navi, dagli strumenti chirurgici alle ruote dei treni. Possiede inoltre la virtù di essere riciclabile senza fine. Presenta però anche, l’acciaio, una caratteristica negativa: la sua produzione è altamente inquinante. Gli impianti siderurgici sono capaci di diffondere sia al proprio interno sia per chilometri quadrati attorno a sé grandi quantità di polveri a grana grossa oppure sottili, più ogni sorta di fumi visibili e di veleni invisibili, dal benzopirene alla diossina. Il maggior problema per l’abbattimento del grado di inquinamento deriva dal fatto che in pratica ciascuno dei tanti pezzi di un impianto contribuisce per conto suo all’inquinamento. In misura variabile diffondono polveri, fumi e veleni le cokerie quanto gli altiforni, la laminazione a caldo quanto quella a freddo, le fornaci elettriche quanto i convertitori.

Al fine di ridurre l’inquinamento sono state seguite nel mondo tre strade. La prima consiste nello sviluppare tecnologie specifiche per abbattere l’inquinamento nel punto preciso dell’impianto in cui si genera. È una strada piuttosto costosa. Un’altra strada è consistita nel costruire impianti più piccoli, le cosiddette mini-acciaierie, che di per sé inquinano meno e costano meno in tema di prevenzione. Esse presentano tuttavia il difetto di non poter produrre molti tipi di acciaio che invece riescono bene nei grandi impianti integrati. Ampiamente

praticata è poi la terza strada, in specie nei paesi emergenti, ma non soltanto in essi. In questo caso la proprietà, spesso con l’assenso del governo nazionale o locale, trasmette per vie dirette o indirette un messaggio: se volete posti di lavoro e reddito, dovete sopportare senza fare storie quel po’ di inquinamento che il nostro impianto genera.

A fronte di queste premesse, dal caso dell’acciaieria di Taranto si possono trarre varie lezioni. Una è locale. Che lo stabilimento sorto a ridosso della città fosse molto inquinante lo si sapeva da quarant’anni, cioè dal momento in cui la Italsider che lo aveva creato ne realizzò il raddoppio. Sarà vero che i successivi proprietari – l’Ilva che fa capo al gruppo Riva – hanno effettuato investimenti notevoli al fine di ridurre l’inquinamento, ma pare evidente che essi non sono bastati.

L’elenco dei tipi di inquinanti e delle loro quantità diffusi negli ultimi anni dall’impianto in questione, messo insieme da varie fonti dalla magistratura di Taranto, è agghiacciante. Ci si dovrebbe

spiegare come mai la Regione, il ministero dell’Industria ovvero dello Sviluppo, i governi che si sono succeduti nello stesso periodo non abbiano saputo intervenire con mezzi efficaci per rimuovere la cappa di veleni che grava sulla città.

La seconda questione è nazionale. Nel 2011 l’Italia ha prodotto 29 milioni di tonnellate d’acciaio. Assai meno della Germania, ma quasi il doppio di quante non ne abbiano prodotte, a testa, Francia e Spagna, e tre volte la produzione del Regno Unito. Più o meno la metà dell’acciaio italiano proviene da Taranto. Si tratta in pratica di una delle ultime produzioni industriali su larga scala che esistano in Italia. Non si può fermarla in gran parte per un periodo indefinito, al fine di consentire alla proprietà di procedere da sola, se e quando ne avrà voglia, per introdurre le tecnologie necessarie ad abbattere sul serio l’inquinamento. Occorre procedere al più presto, d’intesa con la proprietà, a interventi radicali attuati con il massimo e il meglio dei mezzi che si possono mobilitare sul piano interno e internazionale. Senza farsi illusioni. L’impianto di Taranto, che ha il pregio ma anche il difetto di essere il più grande d’Europa, non può materialmente venire convertito in una mezza dozzina di mini-acciaierie. Né si può pensare di fargli produrre in breve acciai di varia e superiore qualità, perché ogni tipo di acciaio richiede macchinari ad hoc, che comporterebbero grossi investimenti addizionali oltre a quelli anti-inquinamento.

Infine c’è la questione globale. Molti settori dell’industria, del commercio e della finanza si sono sviluppati per decenni, creando al proprio interno posti di lavoro ma infliggendo anche a gran numero di persone elevatissimi costi esterni in termini di rischio, inquinamento, distruzione dell’ambiente, condizioni di vita. Taranto è stato tristemente esemplare da questo punto di vista. È arrivato il momento di porre fine a tale scambio perverso. Per diverse vie, con diversi mezzi, i costi esterni dello sviluppo, le cosiddette esternalità, dovrebbero essere drasticamente ridotti o riportati all’interno delle imprese che li generano.

Due diritti da difendere

Stefano Rodotà

È possibile che entrino duramente in conflitto la salute, diritto fondamentale della persona (art. 32 della Costituzione), e il lavoro, fondamento della Repubblica (art. 1)? Sì, è possibile. E non è la prima volta che, nelle piazze italiane, si pronunciano le terribili parole “meglio morti di cancro che morti di fame”. Quando si è obbligati ad associare il lavoro con la morte, si tratti di produzioni nocive o di infortuni, davvero siamo di fronte a inammissibili violazioni dell’umanità delle persone. Il lavoro si trasforma in condanna quotidiana, che non arriva però da una maledizione biblica, ma dal modo in cui è concretamente organizzato il mondo della produzione.

Da dove cominciare per cercare di comprendere queste vicende? Ancora una volta ci aiuta la Costituzione con il suo articolo 41. Qui si dice che l’iniziativa economica privata, dunque l’attività d’impresa, «non può svolgersi in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana». Vale la pena di sottolineare la lungimiranza dei costituenti, che posero la sicurezza prima ancora di libertà e dignità. E la sicurezza riguarda il lavoro, ma è pure sicurezza per i cittadini nell’ambiente e per i prodotti che consumano. Quelle parole nella Costituzione piacciono sempre di meno e si cerca di cancellarle,

in nome della legge “naturale” del mercato. In un decreto recente, salvato acrobaticamente dalla Corte Costituzionale, si è messo abusivamente al primo posto il principio di concorrenza, nel tentativo di ridimensionare la portata complessiva di quell’articolo. Lungo è il catalogo dei fatti di cronaca che rendono evidente la mortificazione del lavoro attraverso il sacrificio della salute del lavoratore. Taranto è il nome di un luogo che si aggiunge a Marghera, Casale Monferrato, Val di Chiana, per citare solo i casi più noti. Quando l’attività d’impresa viene organizzata prescindendo dal fatto che la sicurezza dei lavoratori è un obbligo giuridico e un dovere collettivo, sono sempre devastanti le conseguenze umane e sociali.

La soluzione non poteva venire dalla tecnica molte volte usata di monetizzazione del rischio – denaro in cambio di salute. Bruno Trentin sottolineava la necessità di andare oltre l’ottica puramente retributiva e di tutelare nella sua integralità la persona del lavoratore. Né può venire dalla pretesa di un silenzio della magistratura di fronte a violazioni gravi e ripetute di un diritto fondamentale e di specifiche norme di legge.

Sempre più spesso i lavoratori sono vittime di ricatti. Occupazione a qualsiasi prezzo, anche della vita. Occupazione con sacrificio della libertà, come è accaduto con il referendum di Mirafiori sovrastato dalla minaccia della chiusura della Fiat. Questa è la spirale da spezzare. Soluzioni provvisorie possono essere ricercate, ma ad una sola condizione: la restaurazione integrale dei diritti dei lavoratori, che diventa anche la via per tutelare i diritti di tutti, come quello all’ambiente.

Sono tempi duri per i diritti fondamentali, per quelli sociali in specie. In nome dell’emergenza, siamo ormai di fronte a vere e proprie sospensioni di garanzie costituzionali. Si è dimenticato che l’articolo 36 della Costituzione prevede che la retribuzione debba garantire al lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa». Non essere il prezzo della perdita d’ogni diritto.

Fuori aula fioriscono disinvolte giurisprudenze. Fautori della «prerogativa», con lieve sentore d'ancien régime, ammettevano che gl'indaganti palermitani operassero bene quando l'addetto registrava i suoni intercettando telefonate d'un ex ministro ora imputato quale falso testimone sui negoziati Stato-mafia, anziché interrompere l'ascolto lacerando i nastri; e presunta una lacuna, invocavano legge ad hoc o sentenza «additiva» dalla Consulta. Secondo l'ultima massima, non occorrono l'una né l'altra: vale l'art. 271 c.p.p. sulle intercettazioni invalide: carte, nastri, dischi, vadano al diavolo, inauditi dalle parti, in deroga all'art. 268, c. 6. Era un'intrusione sciagurata: lì dentro risuonano emissioni vocali che nessun profano può udire; il tutto avvenga al buio. Non è chiaro se sprofondino nella curva dell'oblio anche i detti dell'interlocutore, talvolta inscindibili.

Il contraddittorio va a farsi benedire. Vengono spontanei dei quesiti: perché inabissare santi discorsi quando il pubblico può trovarvi alimento spirituale?; o la scelta dipende da chi parla, secundum tenorem verborum, nel senso che alcuni siano ascoltabili, altri no? Quesito antipatico ma il punto è marginale. Vogliamo sapere dove stia il divieto d'ascoltare. Non basta esclamarlo, va letto nel testo d'una norma. Qui l'onorevole Gianluigi Pellegrino alza i toni (cattivo segno): sono parole del Presidente, «coperte dalla guarentigia d'inviolabilità»; è vertice dello Stato; comanda le forze armate. Dio sa cosa c'entri. «Guarentigia », parola melodiosa, suona retrò; e così 'inviolabile', aggettivo ignoto al moderno lessico costituzionale, che io rammenti, mentre appare nell'art. 4 dello Statuto Albertino, 4 marzo 1848: «la persona del Re è sacra e inviolabile ». L'oracolo non dà altro, né forniscono lumi i due articoli citati nel decreto 12 luglio.

In lingua italiana l'immunità penale del Presidente (art. 90 Cost.) non significa divieto d'ascoltarlo conversante su linee legittimamente controllate: anche i parlamentari sono immuni, rispetto alle «opinioni espresse e ai voti dati» (art. 68, c.1, Cost.); eppure i colloqui su nastro soggiaciono al contraddittorio regolato dall'art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140. Altrettanto poco interessa l'art. 7 l. 5 giugno 1989 n. 219, dov'è stabilito che intercettazioni, ricerche coattive, misure cautelari possano essere disposte nei suoi confronti solo quando la Corte l'abbia sospeso dalla carica: nessuno gliele aveva inflitte; l'ascolto era accidentale, su una linea captata, e chi frequenta luoghi pericolosi «imputet sibi» gli accidenti. L'avevamo rilevato: i devoti alla prerogativa interpolano nel codice categorie arcaiche da Ramo d'oro o Re taumaturghi;

ma veniamo al quadro casistico.

Cos'avverrebbe se, essendo «inviolabile » il Presidente, un domestico infedele lo spiasse mentre telefona, registrando i suoni: inammissibile la testimonianza in processi su fatti altrui, perché viola l'augusta privacy?; inceneriamo l'abusivo reperto fonico? Rabelais sogghignerebbe, spiritoso qual era nel descrivere gli hommes de loi. Supponiamo ora che il dialogo registrato sia corpus delicti, in quanto configura una condotta penalmente qualificabile: l'art. 271, ultima frase, vieta la distruzione dei reperti, anche se l'origine fosse illegale; il dogma dell'inviolabilità inghiotte tutto? Intavolata una falsa premessa, piovono paradossi.

Sotto gli esclamativi c'era poco, anzi niente, né risultano applicabili i divieti probatori effettivi (ad esempio, l'art. 7 l. 5 giugno 1989). Squagliati i fantasmi, cerchiamo le norme. L'unica reperibile sta nella l. 20 giugno 2003 n. 140: intesa ad attuare l'art. 68 Cost. (immunità parlamentari), contemplava anche il Presidente della Repubblica (giudizi relativi alle «alte cariche dello Stato»), ma i tre commi dell'art. 1 erano invalidi, tali dichiarati perché incompatibili con l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge (classico prodotto berlusconiano, reiterato dal cosiddetto lodo Alfano, alla cui vita intrauterina non era estraneo il Quirinale). L'art. 5 contempla intercettazioni fortuite (alias «indirette») dei parlamentari. Caso diverso, dicono i prerogativisti. Sì, ma simile, quindi la regola è analogicamente applicabile (art. 12, c. 2, «Disposizioni sulla legge in generale »): udite le parti, il giudice delle indagini preliminari, inoppugnabilmente ordina la distruzione dei materiali se li ritiene irrilevanti; e salta agli occhi l'inadeguato contraddittorio; sparita la prova, l'eventuale errore diventa irreparabile.

Tale risulta l'attuale disciplina, facilmente diagnosticabile fuori da sedicenti verità dogmatiche. Teoria delle fonti, ermeneutica, sintassi contano ancora qualcosa, finché duri l'ormai anomala sopravvivenza.

Risolta la questione tecnica, va detto qualcosa sullo sfondo ideologico.

Corrono vecchie nomenclature: la persona del Presidente è inviolabile; cade l'aggettivo 'sacra', pudicamente omesso, ma persiste l'idea; spira panico religioso nel preteso obbligo d'interrompere l'ascolto appena risuoni la Voce. Carismi, «guarentigie», immunità, segreto significano arcigna «ragion di Stato» (titolo d'un libro del rissoso gesuita politologo, dimesso dalla Compagnia, Giovanni Botero, Venezia, 1589). Novantun anni prima che Carlo Alberto promulghi lo Statuto, lunedì 28 marzo 1757, dopo le 15, ora canonica delle feste patibolari, in place de Grève ne va in scena una fuori programma da 147 anni: un regicida che sei cavalli non riescono a squartare, previ attanagliamenti, ustioni sulfuree, taglio della mano, ma chiamarlo regicida è gonfia metafora; Robert-François-Damiens aveva lievemente punto Luigi XV, detto l'Amatissimo, atto simbolico; voleva ammonirlo; ed è un mattoide dal sangue bollente (quando gli sale alla testa, se ne fa cavare). Roba futile se il corpo del re non fosse santo: Robert-François sputa l'anima dopo due ore d'uno scempio sul quale Casanova chiude gli occhi inorridito. Non sono più tempi da squartamento a trazione equina ma l'enfasi intimidatoria batte senza tregua, quando sarebbe raccomandabile una sobria ragione laica.

Cosa avrà deciso ieri pomeriggio il gip Patrizia Todisco? Avrà davvero firmato «il provvedimento di sequestro (senza facoltà d'uso) degli impianti dell'area a caldo dell'Ilva di Taranto, oppure avrà accolto i miti, unanimi consigli di governo, padronato, sindacato metalmeccanico, ricamati sul giornale della Confindustria? Si sarà fidata dei mediatori della Regione? Per una volta, il giornale non aveva rampogne, ma comprensione e sostegno ai lavoratori che bloccavano le strade nazionali e il centro della Città, si addensavano intorno alle sedi della giustizia e della politica, per difendere il proprio lavoro e insieme l'azienda e i proprietari Riva.

Dal canto loro, i verdi - il presidente Bonelli è consigliere comunale a Taranto - descrivono una città divisa tra gli operai e chi non vuole morire di cancro.

Se i sindacati vogliono «fare presto», è per prendere la guida delle manifestazioni ed evitare che la situazione degeneri e diventi ingovernabile: in effetti si aspettano che la decisione del gip sarà contro di loro. I lavoratori sanno che il fermo dell'area a caldo bloccherà l'intera acciaieria e quindi porterà in un breve futuro al loro licenziamento; altre prospettive di lavoro - a Taranto! - non riescono a immaginarne. Tanto meno riescono a immaginare una città o forse un civiltà prive del loro prodotto, del loro orgoglioso lavoro: fare acciaio, base di tutto il resto che esiste al mondo. Riva è un pessimo padrone, dicono i metalmeccanici; ma spetta a noi dirlo, a nessun altro. Per competente che sia, un giudice non può condannare Riva e costringerlo a chiudere la fabbrica. La fabbrica è anche nostra che lavoriamo, che viviamo lì dentro. «Noi non meritiamo condanne».

D'altra parte la fabbrica di Riva è pericolosa da sempre e sono gli operai i primi a morirne. Nell'udienza preliminare di maggio per 30 dirigenti dell'Italsider, vecchio nome, poi mutato in quello ancora più vecchio di Ilva, risuona l'accusa di aver provocato la morte di 15 operai facendoli lavorare senza protezione in ambienti di gas tossici e amianto.

La risposta, a nome di tutti difensori della «fabbrica siderurgica più grande d'Europa», la fornisce in un'intervista lo stesso ministro dell'ambiente Clini che una volta di più parla all'incontrario su Il Sole 24 Ore: non si può condannare uno per vicende passate. «L'Ilva di Taranto non va fermata. Il giudizio sui rischi connessi ai processi industriali dello stabilimento va attualizzato». Qualche mese prima, in gennaio, dalla perizia veniva anche un'accusa un po' diversa. Emergeva «la quantità rilevante di polveri rilasciata dagli impianti, anche dopo gli interventi di adeguamento».

Uno Stato padrone di sé avrebbe imposto un ciclo di riconversione degli impianti, con molti lavori in cui impiegare lavoratori competenti per tutto il tempo necessario. Il nostro Stato è pezzente e incatenato; quel poco che aveva lo ha ceduto all'Europa che lo costringe a non fare niente e poi lo rimprovera per non avere fatto niente. Possiamo sperare che un giudice più potente rovesci la decisione di Patrizia Todisco e si dia così, secondo il modello consueto, «tempo al tempo»?

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