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Il governo Monti bis nonpuòdiventare l’obiettivo di un grande paese come l’Italia. Sarebbe anzi una sconfitta, un certificato di minorità, una dichiarazione di impotenza. E, si badi bene, la sconfitta non riguarderebbe soltanto il centrosinistra, come taluni sostengono, ma anche i cittadini, le istituzioni, gli uomini e le imprese che più di altri si trovano ad affrontare la competizione globale e che dell’Italia sono di fatto ambasciatori. Perché il nostro Paese non può avere un governo, nato da una competizione democratica tra alternative legittime ed europee? Perché non può scommettere su un nuovo progetto, per l’Italia e per il Continente, che cerchi di correggere l’inerzia (peraltro drammatica) delle politiche economiche e sociali e, al tempo stesso, dia garanzie sugli impegni assunti come nazione? Perché bisogna cancellare dall’orizzonte ogni speranza di cambiamento e vanificare la partecipazione (persino le elezioni) nel timore di recare fastidio al conducente? Mario Monti è molto più saggio dei suoi sostenitori, e nel dichiarare la propria disponibilità a restare premier oltre le elezioni del 2013, ha aggiunto: «Speriamo di no». Sa che quella previsione contiene il fallimento politico del suo governo tecnico, perché questo è nato esattamente per ricondurre l’Italia umiliata dai governi Berlusconi ad una normalità istituzionale. Sa che per lui sarebbe comunque molto più difficile, perché non si riprodurrebbero le condizioni eccezionali della «strana» intesa politica: non solo i conflitti aumenterebbero nella maggioranza, ma fuori da essa si ingrosserebbe l’area della sfiducia verso la politica, verso l’Europa, verso la stessa democrazia.

Non basta come lezione ciò che accaduto in Grecia? Se gli elettori si trovano di fronte ad una soluzione obbligata, preconfezionata, per di più priva di ogni autonomia rispetto a mandati e verifiche esterne, il loro potere democratico residuo viene spinto con forza verso opzioni populiste, proteste radicali, contestazioni di sistema.

È vero che l’Europa, come l’intero Occidente, oggi non può permettersi il fallimento neppure della più piccola banca spagnola (e pensare che da noi, qualche professore liberista addirittura esultò il giorno del crack di Lehman Brothers, proclamando la vittoria definitiva del mercato: ancora viene ascoltato come un vate, e ovviamente pontifica sul Monti bis). Ma il collasso democratico di un Paese non avrà un contagio minore sull’economia e la società: soffiare sul fuoco dei populismi vuol dire inceppare le opportunità di sviluppo e spezzare il circuito della fiducia, necessario per il mercato non meno che per la solidarietà sociale.

Siccome Monti sa di aver restituito all’Italia prestigio e credibilità, è consapevole anche che una paralisi post-elettorale sarebbe un pericoloso fattore involutivo. Anche Giorgio Squinzi, neopresidente di Confindustria, si mostra assai più attento e sensibile di molti campioni del capitalismo nostrano. Ieri ha detto di essere pronto a rinunciare agli incentivi alle imprese, in cambio di tagli fiscali a favore del lavoro e delle famiglie. E sul Monti bis ha aggiunto: «Mi auguro che un Paese di 60 milioni di persone, la settima-ottava economia al mondo, sia capace di esprimere con il voto popolare un governo capace di governare». Ancora: «Se Monti si presenta e raccoglie la maggioranza per me va benissimo». Parole normali di un democratico normale. Che però nel nostro dibattito pubblico appaiono quasi rivoluzionarie. Nella borghesia italiana prevale un’altra tendenza: seminare sfiducia nella democrazia, strizzare semmai l’occhio alla protesta di Grillo, trasformare la giusta indignazione per la dilagante corruzione in una opposizione assoluta, indistinta verso tutti i partiti. «Sono tutti uguali» è il motto del disimpegno che porta ad acclamare la soluzione tecnocratica e oligarchica.

Purtroppo, la cecità di parte della classe dirigente è uno degli handicap competitivi più gravi del nostro Paese. Non vogliono i partiti e i corpi intermedi, detestano le autonomie sociali perché pensano così di difendere meglio i loro interessi di fronte al mercato globale e alla progressiva cessione di sovranità verso l’Europa. Ma, così facendo, azzoppano ancor più l’Italia, accelerano il declino e sottraggono opportunità ai loro stessi figli. La partecipazione democratica, la competizione tra alternative è parte essenziale di un Paese che deve, anzitutto, dimostrare al mondo di essere vivo. Non malato, o moribondo.

C’è anche chi dice: se proprio volete fare le elezioni, almeno firmate davanti a Monti un patto che vincoli qualunque governo futuro. La chiamano Agenda Monti, giocando con le parole. Se per Agenda Monti si intende l’impegno europeista, la continuità della presenza italiana nelle sedi internazionali, la tenuta dei conti pubblici nelle condizioni di mercato, non si capisce cosa ci sia da firmare. È ovvio che qualunque alternativa politica parte da lì. E il centrosinistra ha già dimostrato altre volte la propria affidabilità, a cominciare dal primo governo Prodi, che salvò l’Italia agganciandola all’euro e che pagò un prezzo alto di consenso per mantenere la coerenza nelle politiche di bilancio. Semmai è il centrodestra a non essere mai stato capace di tenere insieme i conti pubblici con un minimo di respiro vitale dell’economia reale.

Ma purtroppo l’Agenda Monti è per i più un pretesto per dimostrare l’inevitabilità del Monti-bis. Dal Monti dell’emergenza al Monti dell’impotenza democratica. Evitare questo esito sarà una battaglia politica difficile, non meno di quella che ha portato alla nascita dell’attuale governo Monti. Una battaglia che per il centrosinistra comincia con le primarie.

Diciamo la verità: molti dubitano che siano davvero uno strumento utile. Portano acqua al mulino del dubbio sia coloro che si mostrano indifferenti al rischio di inquinamento del voto, sia coloro che ora declassano le primarie ad una sorta di scampagnata, propedeutica all’«inevitabile» Monti bis. Le primarie devono essere invece l’avvio della sfida per il governo, devono disegnare il profilo della proposta del centrosinistra al Paese e all’Europa. Abbiamo davanti scelte di portata storica. Il cambiamento deve essere una bandiera anzitutto per il Paese. Chi vuole fare delle primarie un congresso di partito, per favore, aspetti un turno perché altrimenti rischia di favorire i Berlusconi e i Grillo che pagherebbero oro per avere un Monti bis da occupare (pro quota) o da contrastare (indicando tutti i partiti come complici). La vera sfida delle primarie consiste in questo: dimostrare che il centrosinistra può offrire all’Italia un progetto di maggiore equità sociale, di maggiore sviluppo, di maggiore riforma rispetto al governo tecnico. E dimostrare al tempo stesso che lo si può fare assicurando i nostri partner europei, anzi consolidando le alleanze con i progressisti d’Europa.

"Le mani bucate delle Regioni" è il titolo di un recente editoriale di Sergio Rizzo sul Corriere della sera. Il tema è tutto nel titolo. Le Regioni - scrive Rizzo – , nei dieci anni tra il 2000 e il 2009, hanno speso dai 119 iniziali sino ai 209 miliardi, in gran parte buttati nel buco nero della sanità (il 75.6% della spesa). Tre volte e mezzo l'inflazione. Il doppio rispetto alla crescita registrata dalla spesa pubblica italiana nel suo complesso (37.8%). E ciononostante la sanità, con poche eccezioni, fa acqua. Quindi – è la conclusione – la spesa non solo è stata eccessiva ma anche male indirizzata. Morale? Bisogna tornare a una finanza pubblica centralizzata nello Stato. Al potere supremo della Ragioneria generale. Il Titolo V è stata una sciagura, perché ha impedito al Tesoro di controllare la finanza regionale.

Domando a Rizzo: ma come mai in Germania la finanza federale è virtuosa? Non sarà, qui in Italia, un problema tutto nostro, non risolubile tanto rafforzando i gendarmi centrali, quanto introducendo seri controlli preventivi, un sistema efficace di avvisatori che valga a ricondurre le Regioni sulla via di una finanza controllata, senza però togliere loro la possibilità di spendere responsabilmente e avvedutamente?

E’ stato Sabino Cassese il primo ad avvertire che quando le funzioni pubbliche vengono trasferite dal centro alla periferia aumenta quasi per un automatismo oggettivo il rischio della corruzione, anzitutto perché cresce la “prossimità” tra l’amministrazione e gli interessi e poi perché (per lo meno in Italia) le burocrazie regionali, reclutate con minori garanzie, sono più “permeabili” dalla politica di quanto non accada a livello centrale. Ma, soprattutto – ed è questo il punto fondamentale –, i controlli sull’amministrazione periferica (Regioni, province, comuni) sono pressoché interamente lasciati alla autodisciplina interna, essendo inefficace l’azione delle sezioni regionali della Corte dei conti (controlli legalistici e a posteriori) e praticamente inesistenti altre eventuali forme di vigilanza sui conti degli enti locali. Il Coreco, istituto certo da non rimpiangere (anche per la allora già elevata commistione con la politica), costituiva però anni fa quanto meno un paletto esterno. Il segretario comunale di carriera, di fatto dipendente dal Ministero dell’interno, sarà pure stato un odioso residuo di invadenza centralistica, ma per lo meno rappresentava in molti casi una remora alla totale discrezionalità delle politiche di spesa degli enti locali. Oggi la sostanziale scomparsa di questa rete di controlli ha generato il mostro del quale solo adesso si accorge la grande stampa d’opinione (ma vorrei dire a Rizzo che se ci studia un po’ scoprirà che il mostro era stato individuato e denunciato – ahimé invano – già molti anni fa).

Sappiamo qual è il disastro, ne conosciamo le cause. La disorganizzazione degli apparati, innanzitutto, ideale perché la corruzione alligni e detti legge. La scarsa separazione politica-amministrazione (quanto male ha fatto nei ministeri la sciagurata legge sullo spoil system…). Poi la mala gestione degli appalti, con la consuetudine diffusa degli affidamenti diretti al posto delle gare. Poi ancora la pessima politica del personale, basata su concorsi ad personam o addirittura sulla prassi dell’assunzione fuori sacco, degli ope legis, delle promozioni, retribuzioni, trattamenti aggiuntivi privi dei presupposti di legge. E ancora l’uso senza regole dei fondi europei (il grande business degli ultimi anni), sicché non si contano le “incompiute”, iniziate solo per attingere ai fondi e poi lasciate a metà, e la svendita al ribasso del patrimonio pubblico a privati interessati senza le necessarie avvertenze, oppure – come denunciano diverse sezioni regionali della Corte dei conti – la prassi corrente per cui, da parte pubblica, si sceglie spesso di soccombere nei giudizi promossi da terzi, anche “quando le prime fasi di giudizio, hanno dato piena ragione all'amministrazione” (la citazione è da una recente denuncia del viceprocuratore della Corte dell’Aquila).

Il resto (a cominciare dalle feste del Lazio) è solo la conseguenza: i costi senza controllo delle istituzioni, l’artificiosa moltiplicazione delle strutture a scopo di distribuire danaro, l’arricchimento di una classe politica avida e senza scrupoli. Del resto non è diverso nel sistema-Paese: l’Italia, non dimentichiamolo, è, secondo il Corruption perception index (la misurazione internazionale più autorevole) sessantanovesima nel 2011 nella classifica dei paesi più corrotti del mondo (la Germania è quindicesima, il Belgio diciannovesimo, la Francia venticinquesima, la Spagna trentunesima).

Un quadro desolante. Al quale però si può e si deve porre rimedio. Basterebbe applicare la ricetta che il disegno di legge del governo appena licenziato alla Camera e poi bloccato dal Pdl al Senato introduce con determinazione: quella della prevenzione. E la prevenzione consta di tre capitoli essenziali, direi decisivi, e di una indicazione finale. Primo: ripristinare in tutte le amministrazioni, anche quelle periferiche, i controlli esterni. Ma non quelli formalistici, che verificano solo il rispetto astratto della norma, quanto piuttosto quelli economici e di gestione (il che implica, ad esempio, avere organi diversi dalla Corte dei conti, formata in maggioranza da giuristi). Secondo: ripristinare i corpi ispettivi, sistematicamente smantellati nei decenni scorsi. Terzo: dotare le amministrazioni, al centro come alla periferia, di adeguati apparati tecnici, in grado se non di progettare le opere almeno di seguirne l’esecuzione, competenti nei singoli campi dell’attività pubblica, capaci di fronteggiare e arginare la oggi preponderante expertise dei contraenti privati.

Infine la raccomandazione: curare di più l’etica pubblica, adottare e far valere codici etici rigorosi, introdurre criteri trasparenti e rigidi nella selezione e formazione del personale. E invitare i cittadini a scrutare dentro l’amministrazione e a denunciarne le magagne. L’apparato pubblico – si diceva un tempo – dev’essere una casa di vetro.

Nelle autonomie si sono devitalizzati i rapporti

fra governi e opposizioni e i controlli esterni

“Vuol dire che con le Regioni si decentreranno anche le bustarelle…” Mai previsione di uno dei pionieri del regionalismo (non sto a far nomi, sono passati decenni) fu più azzeccata. “Ma vedrai che gli esempi virtuosi di certe Regioni finiranno per contagiare le altre…” Mai previsione fu meno azzeccata, purtroppo. C’è una furente indignazione attorno ai protagonisti dello scandalo alla Regione Lazio, dove il presidente sostiene di non aver neppure percepito l’odore di quella fiumana di soldi finita ai gruppi consiliari e da qualcuno – come Francesco Fiorito – utilizzata nel modo più insultante per i cittadini. E c’è subito chi propone: torniamo allo Stato centralista e ai suoi controlli.

Lo Stato delle Regioni (lasciamo perdere quello federale che non è mai nato, concepito dalla Lega per rompere l’unità del Paese) non ha fatto molto perché ora, nel pieno dell’indignazione, non si butti via, assieme all’acqua sporca (parecchia), la creatura partorita nel 1970. Sarebbe una assurdità. Ma perché tutto ciò è successo? Come ha scritto lucidamente lo studioso dell’amministrazione (ora deputato del Pd) Guido Melis sulla Rassegna sindacale, perché il sonno dei controlli genera mostri. Si sono devitalizzati, nelle autonomie, il rapporto governo-opposizioni e i controlli esterni su Regioni ed Enti locali. L'elezione diretta di sindaci, presidenti, governatori, ha certo rafforzato la governabilità, ma ha pressoché sterilizzato il ruolo delle assemblee elettive, il cui palese e impotente scontento è stato placato a suon di euro. Si sono scissi Giunte e Consigli spegnendo ogni vera opposizione, anche individuale. Siamo dunque passati da un assemblearismo a volte eccessivo (consentito peraltro da leggi che rimontavano a Giolitti) all'afasia dei Consigli. Le decisioni significative sono diventate atti di Giunta. Sovente anche quelle sulla “torta” fondiaria, immobiliare.

Mentre fondi e poteri venivano decentrati (e si avvicinavano agli appetiti locali), sono stati depotenziati i controlli effettivi, gli apparati ispettivi, i quadri tecnici, per esempio sugli appalti, con un lassismo urbanistico senza fine. Tanto più col Titolo V della Costituzione, pieno di buchi in materia. Oggi ci stupiamo che i materiali sanitari di base possano costare 10 in una Regione e 80-100 in un’altra, ma chi poteva fissare dei parametri nazionali nel clima che spingeva verso i magnifici “risparmi” del federalismo? Non rimpiango i Coreco, e però i Coreco.co – come si è sottolineato l’altra sera a “Ballarò” - impersonati non da tecnici qualificati (in economia prima che in diritto), ma da politici dell'opposizione, portano al coinvolgimento di tutti in un'unica giostra. Ed è sbagliato. E’ la stessa malattia che ha fatto diventare le nostre Authority la caricatura di quelle vere.

I partiti, purtroppo, si sono o liquefatti davanti ad un “padrone”, oppure arroccati su posizioni burocratico-oligarchiche facendo muro, in tutt’e due i casi, alle critiche interne, ai gruppi di opinione, “nominando” personaggi "mediocri purché fedeli" (lo scrivemmo Nando Tasciotti ed io in un libro lontano uscito da Laterza prima di Tangentopoli, "La crisi dei Comuni"). Tutto ciò ha spinto i movimenti, numerosi e generosi, ad essere tanto radicali quanto estemporanei, tanto “indignatos” quanto poveri di proposte. Ma cos’è rimasto ai cittadini, dopo leggi elettorali come il Porcellum, col totale permissivismo in materia di spese elettorali personali, con l’uso distorto (anche malavitoso) del nobile istituto delle preferenze? Poco o nulla. Aggiungiamoci i guasti provocati nella dirigenza pubblica di carriera dallo spoil system, dal non aver attrezzato sezioni regionali della Corte dei conti, dall’aver promosso burocrati locali “più permeabili”, ecc., e avremo un primo quadro delle tante cose da fare, da ricostruire per rendere meritocratica e trasparente la politica, per ridare alcuni strumenti di controllo ai cittadini (tramite gli eletti dal popolo) e altri ad organismi “terzi” di grande qualificazione. Nella cui nomina i partiti non devono neppur provare ad entrare. Insomma, una spending review delle Regioni non basta proprio. E’ soltanto un inizio. Ci vuole ben altro. Una ricostruzione.

È vero che i dibattiti sull'università italiana sono spesso astrusi e poco invitanti. E tuttavia l'Anvur - l'Agenzia nazionale di valutazione dell'università e della ricerca - riserva sempre sorprese e vere e proprie chicche. Se uno si annoia, mettiamo, una domenica pomeriggio piovosa, quando le ore non sembrano passare mai e aspetta tra gli sbadigli l'ora di cena, gli basta visitare il sito dell'Anvur ed ecco che per incanto gli torna il buon umore. Salvo poi, riflettere seriamente su questa bizzarra agenzia che costa 7 milioni di euro all'anno, mentre ai membri del consiglio direttivo vengono erogati compensi di 180 mila euro, nonché 210 mila al Presidente. Solo nel 2012 l'Anvur gestirà un colossale processo di valutazione che costerà 301,9 milioni di euro: 276,2 milioni per i 450 valutatori, 18,7 milioni a carico delle 1700 strutture universitarie. Ci sarebbe da gridare per la rabbia, considerando che il taglio agli atenei previsto per quest'anno ammonta a 407 milioni di euro.

Già la pubblicazione delle mediane dei titoli necessari sia per essere ammessi al ruolo di commissari, sia per accedere all'abilitazione, hanno suscitato diffusa ilarità e seri dubbi sulla competenza dell'Anvur nella matematica elementare. L'ultima perla in ordine di tempo è la pubblicazione delle riviste considerate scientifiche ai fini dell'abilitazione nazionale degli aspiranti professori universitari. I vari gruppi di valutatori nominati arbitrariamente dal direttivo dell'Anvur, senza alcun processo trasparente, né gara pubblica, avevano già individuato le cosiddette riviste di fascia A, quelle cioè più scientificamente prestigiose, innescando un mare di polemiche. In alcuni casi, nei settori scientifici meno soggetti a vincoli e controlli, come quegli umanistici, è apparso subito evidente che erano entrati in gioco fattori molto poco scientifici e universalistici. Forse l'appartenenza a cordate accademiche, a gruppi confessionali, a reti di amicizie?

Ma ora, con la pubblicazione delle riviste meno prestigiose, ma pur sempre considerate «scientifiche», la comicità ha cominciato a dilagare. Nei settori «non bibliometrici» - non soggetti cioè al calcolo preventivo dell'impatto scientifico - vengono considerate ammissibili per l'idoneità nazionale pubblicazioni locali come Etruria oggi o Abruzzo contemporaneo, periodici patinati (Airone), organi che diffondono la passione dei ricchi per le barche (Yacht club, Barche), riviste dal nome minaccioso e comunque poco credibile in ambito umanistico (Acta herpetologica), che alludono a sfuggenti condizioni esistenziali (Adultità), bollettini di informazione bibliografica (Aib news), riviste che hanno cessato le pubblicazioni (Problemi del socialismo), periodici politici come Fare futuro web magazine (dei finiani), la rivista di suinicoltura, per non parlare della significativa presenza di organi cattolici come La rivista del clero italiano, Vita cattolica , e di settimanali di informazione come Diario della settimana (che oltretutto non esce più) e persino quotidiani (Il Sole 24 ore).

Questa lista è stata immediatamente segnalata e analizzata dal sito www.roars.it, il combattivo gruppo di docenti e ricercatori che fa le pulci sia alle storture dell'università italiana, sia alle riforme insensate e centralistiche che la stanno distruggendo. E, in poco tempo, è divenuta l'occasione di una caccia alle riviste più incongrue e fuori luogo in una classificazione scientifica. Ma, al di là del divertimento, qui si possono fare due osservazioni. La prima è che in linea di principio non c'è nulla di male se un accademico, come un ricercatore precario, che operano in un settore umanistico scrivano su Etruria oggi o Il Mattino. La seconda riguarda il rischio della moltiplicazione dei ricorsi che sommergerà l'abilitazione nazionale per i docenti universitari. Ad oggi c'è quello degli storici della matematica contro l'uso dei criteri bibliometrici o quello di 130 docenti contro il criterio delle mediane. Altri sono in gestazione. Il vero problema è che l'Anvur abbia preso per buone tutte queste riviste, senza controlli, scremature ed esclusioni, dando prova di una leggerezza e una superficialità che renderebbero necessarie le dimissioni del comitato direttivo.

postilla

Immaginiamo che questo sito, eddyburg.it , svolgesse tutte le pratiche necessarie ad accreditarsi come pubblicazione scientifica, et voilà ecco servito caldo caldo un nuovo sbocco alle alte riflessioni di giovani e meno giovani esploratori del sapere. Gli unici ostacoli sarebbero di ordine burocratico, visto che quello scientifico principale (l’articolo del manifesto per qualche motivo spero in buona fede non lo cita) non esiste: è infatti sufficiente che la testata abbia tra i suoi garanti esponenti della comunità accademica. Fauna non proprio difficile da snidare in questi paraggi, anche col solo uso del motore di ricerca interno. Ed è proprio lì la questione: la garanzia di essere in qualche modo una pubblicazione scientifica deve stare nel COME, non nel CHI garantisce. Criteri, presumibilmente semplici visto il genere di testate divulgative, ma criteri, non l’ennesima discrezionalità assoluta quella del “garantisco io” classica dei sistemi di cooptazione cronica. Se invece la cooptazione piace, il sistema delle famiglie, dei feudi, delle relazioni amicali, politiche o (perché no?) di classe deve continuare imperterrito, allora stiamo pure a ridacchiare su quanto sia scientifico l’organo ufficiale della Confindustria, o una copertina patinata dal sorriso di Briatore. Poi, è vero, ovunque (anche in campo internazionale) spesso basta mettere in fila ordinata note e riferimenti per guadagnarsi la patente scientifica, anche se si butta giù un percorso logico senza senso, o ripetitivo, ma qui c’è il trucco, la mano invisibile: il percorso c’è, e lo si può risalire alla ricerca delle sciocchezze. Criteri, appunto, quelli che non piacciono a cooptati e cooptatori (f.b.)

Lo scandalo della regione Lazio non può essere derubricato all’ennesimo caso di ruberie guidate da un comodo mariolo. E’ anche questo, ma il motore vero che provoca l’ascesa dei tanti Franco Fiorito sta nell’assenza di regole cui sono state abbandonate le città. Egli inizia infatti il suo percorso come sindaco di Anagni e trae evidentemente profitto (27 mila voti di preferenza alle recenti elezioni regionali sono un consenso enorme) dall’immensa opacità con cui -senza violare alcuna legge- si possono governare le città d’Italia.

La prima causa del crollo della pubblica moralità sta nella cancellazione di qualsiasi norma urbanistica. Da due decenni vige come noto una zona franca sconosciuta nell’Europa civile in cui un sindaco può variare a proprio piacimento le destinazioni urbanistiche senza essere ostacolato da nessuno. Per realizzare una lottizzazione in una zona agricola occorre andare dal sindaco: sarà lui a portare a buon fine l’affare. E di grandi affari si tratta: dieci ettari di terreno agricolo valgono poco sul mercato immobiliare: se diventano edificabili salgono anche a centinaia di milioni. Senza pensare che non avvengono dazioni di denaro (e a leggere le cronache di questi giorni si fa fatica) i sindaci stringono legami economici e controllano posti di lavoro.

La seconda causa sta nella legislazione degli appalti pubblici. Le ultime norme imposte dal duo Berlusconi-Tremonti e lasciate in vita dagli attuali “tecnici”, hanno portato a 500 mila euro il limite con cui si può procedere all’affidamento mediante trattativa privata. Anche in un periodo di ristrettezze economiche, un sindaco appalta molti lavori pubblici: consentirgli di affidarli a proprio piacimento è indegno di un paese civile. E in questo modo il legame con il mondo economico si rafforza ulteriormente e si continua a disporre di posti di lavoro.

La terza causa sta nella cultura dell’esternalizzazione dei servizi urbani. Affermatosi negli anni in cui sono state privatizzate alcune importanti aziende pubbliche, il morbo riguarda ormai tutti i servizi: dal ciclo dei rifiuti alla gestione dei depuratori. Invece di rimuovere le cause delle inefficienze che esistevano è stata percorsa una comoda scorciatoia: i sindaci possono affidare a imprese amiche la gestione di servizi pubblici, tanto le procedure di controllo sono inesistenti e pressoché impossibile per la magistratura contabile risalire ai bilanci.

E non si pensi che si tratta di un fenomeno che riguarda esclusivamente i comuni piccoli o le piccole imprese. Nelle maggiori città, si pensi al caso da antologia di Parma, la mala politica aveva creato 35 società di settore per gestire i servizi. Altri posti di lavoro e altro vertiginoso debito pubblico. Nelle grandi opere sono state allentate o cancellate le regole ambientali e paesaggistiche. Insomma, il caso Fiorito è il frutto del ventennio del liberismo selvaggio che ha cancellato ogni regola.

Le città non sono più i luoghi del governo della cosa pubblica. Sono le palestre per costruirsi un consenso elettorale ed economico da utilizzare nella scalata verso i vertici dello Stato. Il più urgente compito di chiunque vuole salvare il paese dalla sfiducia è dunque quello di ricostruire regole semplici quanto inflessibili. Guido Rossi (tra i firmatari dell’appello “ Furto d’informazione” apparso su queste pagine il 30 luglio scorso) notava nel suo editoriale di domenica sul Sole 24 Ore che a parole non c’è nessuno che non si definisca “liberale” e fautore di regole. Salvo scorrazzare a piacere nelle praterie di un paese senza leggi che ha svenduto le sue città.

DAVANTI al rovinoso crollo di una delle più famose passeggiate d’Italia, la “via dell’amore” alle Cinque Terre, vedremo dispiegarsi il consueto rituale, identico a quanto accadde più o meno un anno fa a Vernazza. Ministri e assessori deplorano le impensate fatalità, accusano la sfortuna, il caso, la siccità, un acquazzone, le alluvioni, frane a sorpresa, divinità ostili.E naturalmente pronunciano le più solenni promesse.

«Presto un piano contro il dissesto idrogeologico», proclama pensoso il ministro dell’Ambiente Clini. Evidentemente, essendo stato Direttore Generale di quel Ministero per soli dieci anni prima di diventare ministro, non ha avuto il tempo di pensarci prima. Questa ed altre sceneggiate somigliano (come due gocce d’acqua) a quel che accade quando crolla a Roma la Domus Aurea o il Colosseo, quando si sfarinano le case di Pompei, quando si scopre che ville e musei, parchi e chiese, sopravvivono per pura forza d’inerzia. Anche qui, grandi deprecazioni del ministro di turno, dichiarazioni solenni, promesse immarcescibili. Poi nulla. Fino alla prossima frana, al prossimo crollo, alla prossima “disgrazia” di cui incolpare la sorte maligna.

E allora proviamo a ricordarcelo, che cos’è questa Italia. È il Paese più franoso d’Europa (mezzo milione di frane in movimento censite nel 2007), il più soggetto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste, anche per «interventi sull’ambiente invasivi e irreversibili» sui due terzi del territorio (dati Ispra). Per non dire del rischio sismico: negli ultimi cento anni, circa 150 terremoti di cui una quarantina gravissimi, 1600 Comuni colpiti, almeno 250.000 morti. Eppure a ogni terremoto ci sbalordiamo come davanti a un evento imprevisto.

Non sappiamo costruire, in questo Paese, una cultura della prevenzione, e le buone pratiche che ne conseguono. Dopo ciascuno di questa «serie di sfortunati eventi », ci ritroviamo a leccarci le ferite, specialmente quando ci siano di mezzo vite umane (anche nel crollo di ieri ci sono quattro feriti, di cui due gravi). Siamo bravissimi a dimostrare solidarietà, mobilitare protezione civile e volontari, raccogliere fondi via sms. Siamo veloci a fare i conti degli enormi danni, non solo in vite umane, ma in guasti all’ambiente, alle attività economiche, al patrimonio pubblico e privato, all’immagine dell’Italia (i feriti di Riomaggiore sono australiani), al paesaggio.

Una cosa sola non sappiamo fare: prevenire i disastri mediante la manutenzione del territorio. Ricordiamo un precedente significativo: nell’ottobre 2009, quando la frana di Giampilieri (presso Messina), uccise almeno 37 persone, la posizione di quel governo fu espressa icasticamente dalla sequenza di due dichiarazioni, a pochi giorni di distanza dalla frana: il sottosegretario Bertolaso dichiarò che era impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti); il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo (Clini era il suo direttore generale) dichiarò subito che il Ponte sullo Stretto andava fatto, e subito. Riassumendo: due miliardi per mettere in sicurezza il territorio non si trovano; dieci o venti miliardi per costruire un Ponte il cui costo esatto nessuno è in grado di indicare,

sì.

Fra il governo Berlusconi e il governo Monti c’è, da questo punto di vista, perfetta continuità. Sul fronte dell’ambiente, la promozione di Clini da direttore generale a ministro ha un solo significato possibile: gattopardescamente, «bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’è». Si continuano a promuovere “grandi opere”, come l’inutile (se non dannosa) Tav in Val di Susa e sotto Firenze; si propugna l’idea di assediare le nostre coste con una cintura di piattaforme petrolifere. Si proclama, per ora senza molto credito, che si troveranno per queste imprese ottanta, novanta, cento miliardi. A quel che pare non viene in mente a nessuno che la vera prima “grande opera” di cui l’Italia ha bisogno è la messa in sicurezza dell’intero territorio, consegnato da decenni alla speculazione e cementificazione selvaggia. Mettere in sicurezza il territorio non vuol dire solo arginare le frane e prevenire i sismi. Vuol dire prima di tutto promuovere l’agricoltura, anziché mortificarla come costantemente si fa, e controllare il rapporto fra suoli edificati e suoli coperti da vegetazione. Dovrebbe voler dire, per questo governo, approvare con procedura d’urgenza l’ottimo disegno di legge del ministro Catania sui suoli agricoli, anziché immetterlo in una corsia lentissima, in modo che si arrivi alla fine della legislatura senza averlo approvato.

Stracciarsi le vesti non serve, e specialmente poco credibile è chi se le straccia, a ogni disgrazia, da più di dieci anni. Strutturare la prevenzione è (dovrebbe essere) il primo passo per gestire l’emergenza, e per ridurre il numero delle emergenze. Come scrisse molti anni fa Giovanni Urbani, grande direttore dell’Istituto Centrale per il Restauro, «ci vorrebbe assai poco, una volta saputo che quasi metà della nazione è esposta a gravi rischi, proiettare su questa scala le perdite subite a ogni evento [anche alle Cinque Terre], e calcolare il corrispettivo danno economico che incombe sulla penisola ove persistesse, come purtroppo certamente persisterà, l’assenza di ogni politica di difesa del suolo e di consolidamento preventivo dell’edilizia storica». O questa raccomandazione di un grandissimo tecnico è troppo complicata da capire per il nostro “governo tecnico”?

Forse era tutto scritto nell’accordo Fiat-Chrysler: tecnologie agli americani, soldi agli azionisti italiani, cioè alla famiglia Agnelli, stabilimenti storici, da Mirafiori a Pomigliano, in vita finché la domanda di mercato avesse retto.

Le promesse di Marchionne, il progetto Italia, i venti miliardi di investimenti, un libro dei sogni che politica e buona parte del sindacato hanno letto, con malizia o con ingenuità, come un modo per tirare a campare, illudendo se stessi e illudendo buona parte di quanti nelle fabbriche Fiat si sono guadagnati da vivere e ci contavano ancora.

«Chi ha mai letto – commenta Luciano Gallino, sociologo e grande studioso dell’industria e del lavoro in Italia – una pagina di quel programma. Nelle mani di chi è mai stato consegnato un volume di centinaia di pagine in cui si dettagliassero progetti per la Fiat e conseguenze per l’indotto, in un quadro di enorme complicazione: basti dire che il futuro Fiat si sarebbe dovuto misurare con la realtà di ottocento fornitori. Niente. Quanto ci è stato riferito adesso, quanto siamo venuti a sapere, non aggiunge nulla, se non ancora una promessa, la promessa di Marchionne di investire quando il mercato riprenderà quota. Vaghe e soprattutto strane parole. Perché se davvero le vendite prima o poi dovessero riprendere, la Fiat arriverebbe inevitabilmente in ritardo, seguendo la strada indicata da Marchionne. Sappiamo bene quanto tempo sia necessario per progettare e mettere in produzione un nuovo modello. Due, tre anni? In un mercato ipoteticamente in rilancio, Marchionne si ripresenterebbe con modelli vecchi? Per perdere un altro giro? Siamo alla ripetizione di una scena già vista: non abbiamo ascoltato null’altro che dichiarazioni generiche, senza una prospettiva, senza una novità, senza una invenzione. Faccio un esempio: una grande impresa automobilistica non è detto debba produrre solo proprie automobili, potrebbe realizzare anche parti per altre imprese, motori o pianali. Non mi sembra che Marchionne abbia mai esplorato una

sibilità del genere».

Il manager italiano più americano, come lo hanno definito alcuni, o il solerte funzionario di un dipartimento Usa, come lo hanno definito altri, probabilmente sa di finanza, molto meno di auto. Ma, allora, professor Gallino, dobbiamo rassegnarci al ridimensionamento e al declino della Fiat in Italia?

«Ridimensionamento e declino appartengono alla storia degli ultimi decenni. Negli anni novanta la Fiat produceva due milioni di vetture, che sono diventate un milione, ottocentomila, mezzo milione. Adesso siamo a quattrocentomila. Queste sono cifre che dicono tutto. A proposito del passato e a proposito del futuro. Pensiamo al calo degli occupati, anche se in questo caso entrano in gioco nuove tecnologie che hanno consentito di ridurre pesantemente il numero degli addetti».

Il governo deve accontentarsi di ascoltare Marchionne o ha strumenti per intervenire? Ammesso che abbia i soldi...


«È difficile immaginare nuovi incentivi. In passato si usò l’arma della rottamazione. Adesso si finirebbe con il favorire i produttori stranieri più che la Fiat. Se la Fiat non avesse chiuso Irisbus, si sarebbe potuto pensare a un intervento di Stato e Regioni per rinnovare un parco autobus obsoleto, inquinante. Sarebbe stato un bel modo per favorire una mobilità sostenibile e collettiva, alternativa al mezzo privato. Ma non s’è mosso lo Stato, non si sono mosse le Regioni e non c’è più Irisbus. Peraltro costruire autobus non prevede l’automazione in atto nella produzione di auto. L’operazione è più complicata, chiede manodopera specializzata, vi sarebbe stato un bel vantaggio anche per l’impiego. Un autobus, a bilancio, pesa come cinque o dieci auto».

Le chiedo di nuovo: dobbiamo rassegnarci a perdere l’auto italiana?

«Non si può pensare di produrre all’infinito e con la stessa intensità di un tempo macchine, frigoriferi, elettrodomestici o altri tradizionali beni di consumo. Nell’auto non si tornerà mai ai livelli di produzione del 2007. Bisogna immaginare altri modelli di sviluppo, con il realismo di chi sa che non si cambia con un clic e sa che cosa significa dal punto di vista dell’occupazione l’auto, rampo di attività produttiva che riguarda chi costruisce,chi fornisce, chi (dai gommisti ai benzinai) garantisce la funzionalità del sistema. Detto questo bisogna pensare ad altro...».

Ma ci sono le idee? Soprattutto ci sono i soldi?


«Le idee ci sono. Dove intervenire: il dissesto idrogeologico, la scuola, i beni culturali, l’energia... Settori ad alta intensità e qualità professionale. I soldi? Quanti miliardi di euro ha consumato l’Unione europea per tenere in piedi banche e finanza? Poi ci si dice che non si può spendere per rilanciare l’industria».

L’ultima fotografia è quella di un governo che assiste impotente...


«Come sempre, quando non si sa che cosa, si istituisce una commissione che studierà oppure si apre un tavolo di trattativa. Politica industriale non se n’è fatta da tempo. Il governo dei professori è preda di una cultura neoliberale: aspettano che siano gli imprenditori e il mercato ad aggiustare le cose. Considerano lo Stato come il nemico e in frangenti come questi ritengono che lo Stato non debba far nulla. Salvo, appunto, pagare le banche».

La deroga alla Cig potrebbe non essere compatibile con gli interventi in materia del ministro del Welfare. Il nodo degli interventi dopo la riforma Fornero

L'incontro di ieri tra la Fiat e il governo ha avuto un pregio: è durato a lungo. Vuol dire che ciascuno ha detto e spiegato la sua. La seconda nota positiva è l'impegno a costituire un gruppo di lavoro misto presso il ministero per lo Sviluppo economico per rafforzare le strategie di esportazione nel settore dell'automotile. Le indiscrezioni dicono che il mercato di sbocco salvifico dovrebbe essere l'America dove la capacità produttiva della Chrysler sarebbe quasi saturata. Ma qui si fermano le note positive. Che all'orecchio degli oltre ventimila dipendenti della Fiat Auto in Italia e degli 80 mila dell'indotto suonano ancor più generiche e vaghe dei discorsi dei partiti politici sulle riforma elettorale.

Il comunicato congiunto governo-Fiat, che in questi casi è ciò che vale perché impegna i firmatari, non prende alcun impegno. Il progetto Fabbrica Italia non viene più menzionato. Nemmeno per celebrarne le esequie, visto che era stato annunciato in pompa magna nell'aprile del 2010 proprio a palazzo Chigi, con Silvio Berlusconi in sella. Ma nell'era di Facebook, dove ogni informazione si consuma in una chiacchiera in diretta, la memoria è un lusso per pochi o un approccio troppo pedante al reale. La nota non spiega se ci sarà una deroga alle norme sulla cassa integrazione così da poter offrire copertura ai dipendenti se il lavoro continuerà a mancare come ormai appare, purtroppo, molto probabile. Ma se ci fosse, bisognerebbe poi spiegare all'Italia come si giustifichi la deroga rispetto alla riforma del mercato del lavoro firmata dal ministro Fornero. Certo, l'idea di due Italie, una protetta da eventuali accordi Fiat e un'altra allo sbaraglio, non andrebbe bene. Ma sarebbe un problema della gente Fiat o farebbe emergere un limite della riforma?

In ogni caso, la nota congiunta prende atto dell'orientamento dell'azienda a investire in Italia al momento idoneo. Il che può essere un'ovvietà (quando mai si investe nel momento sbagliato) oppure un avvertimento (adesso non si investe altrimenti sarebbero tutti felici di dire che il momento idoneo è questo). L'azienda dichiara anche una cifra, 5 miliardi, per quantificare gli investimenti fatti nel nostro Paese negli ultimi tre anni. Certi numeri ricordano i 20 miliardi di Fabbrica Italia che non si sono mai visti.

Ora, le Fiat sono due: la Fiat Industrial, che fa camion e trattori, e la Fiat Spa, che fa le automobili. Quei 5 miliardi come si suddividono tra le due? Quanto è investimento vero, quanti sono costi capitalizzati e quanto è spesa per ricerca e sviluppo? Ma se anche fosse, 5 miliardi in tre anni equivalgono a 8 e mezzo in cinque anni. Non avevamo detto che erano 20 nel quinquennio? Non facciamo questi conteggi per spirito polemico. Ma perché dobbiamo tutti essere credibili in momenti come questi. I numeroni possono essere spacciati nei talk show televisivi, ma troppo spesso la realtà è un'altra. Ed è dolorosa.

Con il governo di che cosa si parla? La Fiat ha escluso che esista un'offerta Volkswagen per l'Alfa Romeo e uno stabilimento. Questo filtra. Ma è la Fiat, parte in causa, che deve dirlo o è il governo che, con i suoi strumenti, deve accertare alla fonte come stanno le cose? Non bisogna essere dei germanisti per capire che a Wolfsburg si attendono un approccio che tenga conto di che cosa sono oggi la Volkswagen, la Fiat e l'Alfa. In altre parole, per Marchionne non è come quando trattava, con coraggio e intelligenza, la Chrysler con Obama.

Il caso Fiat sta mettendo a dura prova la premiership di Monti. Il contrasto sullo spread va bene, i licenziamenti a macchia di leopardo fanno soffrire, ma si vedono poco. La Fiat, invece, fa rumore. Sia perché la Fiat era stata presentata come l'alfiere della modernità quando invece è un gruppo in crisi e gli alfieri della modernità sono le multinazionali tascabili del Quarto Capitalismo, sia perché a rischio è ormai un intero, storico settore industriale come quello dell'auto.

La risposta dell'amministratore delegato, Sergio Marchionne, al ministro Corrado Passera deve far pensare. Se la Fiat va bene in Brasile perché là riceve cospicui aiuti di Stato e non può andar bene in Italia e in Europa perché questi aiuti sono proibiti dalle regole antitrust, dovremmo tutti aprire una riflessione.

Marchionne è un realista. Probabilmente lo è troppo. E, come tutti quelli che peccano di eccesso di realismo, rischia di risparmiare qualcosa oggi e di perdere molto domani. O forse sta duramente trattando, da quel grande scommettitore che è, una nuova tornata di sussidi da parte del governo. Certo è che si fatica a capire come possa essere possibile esportare 3-400 mila auto negli Usa per salvare le nostre fabbriche quando l'Italia è già oggi importatrice netta di marchi Fiat.

LA CASA Bianca è in rotta di collisione con YouTube. L’oggetto del contendere è la limitazione della libertà di parola e di espressione (free speech),il primo pilastro del diritto civile moderno sul quale si reggono le democrazie costituzionali. Google ha deciso di non tenere conto della richiesta della Casa Bianca di riconsiderare l’opportunità di tenere in circolazione il video anti-Islam che ha scatenato la violenza e le manifestazioni anti-americane e anti-occidentali in tutto il mondo arabo. Google si appella all’auto-governo. Google ha precisato di aver già operato affinché il video non violi i termini della legge Americana sullo

hate speech (discorso che infiamma odio) e di aver predisposto che il video venga oscurato in alcune regioni del mondo, per esempio l’Egitto, la Libia, l’India e l’Indonesia. Oscuramento temporaneo però, per ragioni di opportunità e prudenza, non censura permanente.

La decisione di Google si basa su una carta diciamo così costituzionale che la compagnia ha adottato nel 2007 per risolvere decisioni controverse. La carta dice che la compagnia nel prendere decisioni sulla pubblicazione di materiale sui suoi siti deve tener conto non soltanto delle leggi e delle politiche dei paesi, ma anche delle norme culturali non scritte, del contesto etico e tradizionale. Di fronte al pluralismo giuridico oggettivo, Google sceglie di mostrarsi sensibile alle “culture locali” e quindi ai sentimenti dei suoi utenti, ma si riserva di decidere, non riconoscendo al governo di nessun paese l’autorità di imporre la sua linea di comportamento.

Il governo mondiale della libertà di pensiero è in mano a chi ha il potere di esercitare questa libertà. Ci troviamo di fronte a un caso esemplare di che cosa significhi “società civile globale”, un dominio di relazioni private che sta al di fuori e in questo caso anche sopra ai singoli governi, i quali mentre esercitano l’autorità sovrana di fare leggi nei loro paesi, non hanno il potere, materiale e giuridico, per interferire sulle decisioni di una compagnia multinazionale, il cui mercato e la cui azione sono globali. Non è forse lo stesso per i diritti dei mercati? Non è forse vero che gli interessi dei mercati finanziari hanno il potere di respingere e addirittura cambiare le decisioni politiche dei governi? Perché la lex mercatoria non fa scandalo quando opera a difesa della società economica globale mentre la rivendicazione della libertà di pensiero e della sua autoregolazione da parte di Google produce tanto scalpore? Google rivendica la sua autorità di governo su questa materia, di curarsi direttamente di monitorare le circostanze, paese per paese, nelle quali operare. Di non subire le leggi dei paesi, nemmeno degli Stati Uniti, dove la compagnia ha sede. Come ogni compagnia multinazionale non è di nessun paese. Ed è questo che indispettisce l’amministrazione statunitense. Google è una cosa a sé, un “paese” a sé quando si tratta di prendere decisioni su che cosa produrre, pubblicare e censurare. E alle critiche che sono piovute dall’opinione pubblica globale Google ha così risposto: «A Google noi nutriamo un pregiudizio (bias)in favore dei diritti della gente alla libera espressione in tutto ciò che facciamo… ma riconosciamo anche che la libertà di espressione non deve o non dovrebbe essere senza limiti. La difficoltà consiste nel decidere dove porre questi limiti ». Una sfida che Google tuttavia non vuol demandare alle autorità dello Stato, di nessuno Stato. È la libertà civile, che vale per i singoli come per le compagnie come Google, a ispirare questa decisione. I governi degli Stati (democratici e no) possono non essere contenti, anzi criticano duramente questa dichiarazione di autonomia decisionale di Google, ma le organizzazioni per i diritti civili, le organizzazioni non profit per la libertà tecnologica e le libertà civili digitali (il Center for Democracy and Technology, per esempio) non possono che essere dalla parte di Google. E così, malgrado gli inviti della presidenza americana, e le promesse in un primo momento di far sparire il video, Google, che controlla il portale come un editore controlla il suo giornale, ha deciso di tenere comunque online il film blasfemo, censurandolo solo in 45 Paesi arabi. Questa decisione viene criticata da quasi tutti i mezzi di informazione. Ma se difendiamo la libertà di Google quando il governo cinese lo oscura per impedire che i suoi sudditi non si scambino idee che non piacciono al potere, se abbiamo difeso la libertà dei giornali italiani contro i tentativi del governo Berlusconi di imbavagliarli, se temiamo e denunciamo ogni intervento repressivo o censorio, come possiamo stupirci che Google si faccia arbitro della sua libertà di parola ed espressione?

Certo, alcuni paesi più di altri regolano la libertà di stampa e di parola, ma nessuno può negare che i più liberi sono quei paesi dove lo Stato accampa meno ragioni di intervento e censura, e dove le corti meglio salvaguardano i diritti civili. L’Italia democratica ha assistito al rogo di

Ultimo tango a Parigi, ha sottoposto per decenni pellicole e opere d’arte al giudizio di un ufficio di censura ispirato ai valori religiosi e della pubblica “decenza”. Non possiamo onestamente dire che quella libertà sotto tutela era soddisfacente – ed è proprio per questo che i dirigenti di Google si sono dati regole e norme che riescano a tenere insieme libertà e contesto, principio e cultura locale. Se non che, quella stessa cultura locale nel nome della quale ora si chiede la censura del video di Google, comunica grazie a Google e alle tecnologie digitali, ha bisogno di Google... anche per attaccare ciò che Google rende pubblico.

SCRIVE il narratore greco Petros Markaris che l’Europa vive una strana insidiosa stagione: del suo sconquasso non parlano che gli economisti, i banchieri centrali. Con il risultato che la moneta unica diventa la sostanza stessa dell’Unione, non uno strumento ma la sua ragion d’essere, l’unica sua finalità: «L’unità dell’Ue è stata sostituita dall’unità dell’eurozona. Per questo il dibattito rimane così superficiale, come la maggior parte dei dirigenti europei, e unidimensionale, come il tradizionale discorso degli economisti ». Priva di visione del mondo, l’Europa ha interessi senza passioni, e non può che dividersi tra creditori nobili e debitori plebei. «Stiamo correndo verso una sorta di guerra civile europea».

Come un improvviso sparo nel silenzio è giunto il nuovo sisma nei paesi musulmani, sotto forma di una vasta offensiva dell’integralismo musulmano contro l’Occidente e i suoi esecrabili video: la violenza s’addensa nel Mediterraneo, e l’Europa – in proprie casalinghe faccende affaccendata – d’un tratto s’accorge che fuori casa cadono bombe. S’era addormentata compiaciuta sulle primavere arabe, ed ecco irrompe l’inverno. Aveva immaginato che le liberazioni fossero sinonimo di libertà, e constata che le rivoluzioni son sempre precedute da scintille fondamentaliste (lo spiega bene Marco d’Eramo, sul Manifestodi ieri), prima di produrre istituzioni e costituzioni stabili. Come Calibano nella Tempestadi Shakespeare, i manifestanti ci gridano: “Mi avete insegnato a parlare come voi: e quel che ho guadagnato è questo: ora so maledire. Vi roda la peste rossa per avermi insegnato la vostra lingua!”.

L’Europa potrebbe dire e fare qualcosa, se non continuasse ad affidare i compiti all’America: non solo in Afghanistan, dove molti europei partecipano a una guerra persa, non solo in Iran, ma nel nostro Mediterraneo. È da noi che corrono i fuggitivi dell’Africa del Nord, quando non muoiono in mare con una frequenza tale, che c’è da sospettare una nostra volontaria incuria. L’Europa potrebbe agire se avesse una sua politica estera, capace di quel che l’America lontana non sa fare: dominare gli eventi, fissare nuove priorità, indicare una prospettiva che sia di cooperazione organizzata e non solo di parole o di atti bellici.

Ormai evocare la Federazione europea non è più un tabù: ma se ne parla per la moneta, o per dire nebulosamente che così saremo

padroni del nostro destino.Ma per quale politica, che vada oltre l’ordine interno, si vuol fare l’Europa? Con quale idea del mondo, del rapporto occidente- Islam, dell’Iran, di Israele e Palestina, del conflitto fra religioni e dentro le religioni? Più che una brutta scossa per l’Unione, l’inverno arabo rivela quel che siamo: senza idee né risorse, senza un comune governo per affrontare le crisi mondiali, e questo spiega il nostro silenzio, o l’inane balbettio dei rappresentanti europei. Difficile dire a cosa serva Catherine Ashton, che si fregia del pomposo titolo di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione. Nessuno sa cosa pensino 27 ministri degli Esteri, ibridi figuranti di un’Unione fatta di Stati non più sovrani e non ancora federali. Quanto ai popoli, non controllano in pratica più nulla: né l’economia, né il Mediterraneo, né le guerre

mai discusse dall’Unione.

Per la storia che ha alle spalle (una storia di democrazie e Stati restaurati grazie all’unione delle proprie forze, dopo secoli di guerre religiose e ideologiche), l’Europa ha gli strumenti intellettuali e politici per divenire un alleato delle primavere arabe in bilico, e di paesi che faticano a coniugare l’autorità indiscussa dello Stato e la democrazia. E resta un punto di riferimento laico per i tanti – in Libia, Egitto, Tunisia – che vedono la democrazia o catturata dai Fratelli musulmani, o minacciata dai fondamentalisti salafiti.

La via di Jean Monnet, nel dopoguerra, fu la combinazione fra gli interessi e le passioni, dunque la messa in comune delle risorse (carbone e acciaio) che dividevano Germania e Francia. La Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca), fu nel 1951 l’embrione dell’Unione: gli Stati non si limitavano più a cooperare, ma riconoscevano in istituzioni sovranazionali un’autorità superiore alla propria. In seguito le istituzioni si sarebbero democratizzate, con l’elezione diretta di un Parlamento europeo sempre più influente. Così potrebbe avvenire tra Europa e Sud Mediterraneo, grazie a una Comunità non basata sul carbone e l’acciaio, ma sull’energia (o in futuro sull’acqua).

Un piano simile è stato proposto, nell’ottobre 2011, da due economisti di ispirazione federalista, Alfonso Iozzo e Antonio Mosconi. L’idea è che Washington non sia più in grado di garantire stabilità e democrazia,nel Mediterraneo e Medio Oriente. Di qui l’urgenza di unaComunità euromediterranea dell’energia: energia spesso potenziale, difficilmente valorizzabile senza aiuti finanziari e tecnologici europei: «Il principio di una Comunità tra eguali è essenziale e ricorda la rivoluzione realizzata dall’Eni di Enrico Mattei, che ruppe il monopolio delle “sette sorelle” petrolifere concedendo per la prima volta alla Persia la gestione in parità delle risorse petrolifere del paese». La nuova Comunità deve «riconoscere ai paesi associati la proprietà delle risorse energetiche e degli impianti, dando all’Europa diritti di utilizzazione su una quota dell’energia prodotta, per un periodo determinato con aumento progressivo della quota utilizzata localmente, in cambio delle tecnologie e degli investimenti effettuati». Si dirà che è solo una comunità di interessi. Lo si disse anche per la Ceca. In realtà l’ambizione politica è forte: sostituire il modello egemonico con un modello paritario e chiedere agli associati precisi impegni democratici, controllati da una comune Assemblea parlamentare.

Sostituire o affiancare il potere Usa nel Mediterraneo vuol dire prendere atto che quel modello non funziona: ha creduto di esportare democrazia con le guerre, creando Stati fallimentari e rafforzando Stati autoritari. Le democrazie (Israele compresa) hanno sostentato per anni i fondamentalisti (i talebani contro l’Urss, Hamas contro l’Olp) e volutamente ignorano una delle principali fonti delle crisi odierne: l’Arabia Saudita, finanziatrice dei partiti salafiti che minano le barcollanti, appena nate democrazie arabe.

Obama è alle prese con importanti insuccessi. Nonostante il discorso di apertura all’Islam tenuto nel 2009 al Cairo, il diritto della forza prevale spesso sulla forza del diritto, come per Bush. Abbiamo già citato l’Arabia Saudita, non meno pericolosa dell’Iran e tuttavia esente da obblighi speciali. Permane l’influenza della destra israeliana su Washington, con effetti nefasti sul Medio Oriente. Guantanamo non è stata chiusa come promesso (risale all’8 settembre la morte di un prigioniero, Adnan Latif, torturato per 10 anni senza processo, nonostante l’ingiunzione dei tribunali a rilasciarlo). L’Iraq è

liberato, e nessuno protesta contro i pogrom polizieschi della popolazione gay, testimoniati in questi giorni da un documentario della Bbc. Le guerre scemano, ma sotto Obama l’uso di droni senza piloti è sistematico, in Pakistan, Somalia, Yemen: le uccisioni mirate in zone non belliche «distruggono 50 anni di legge internazionale», sostiene l’investigatore Onu Christof Heyns. La questione ci concerne. Obama risponderà all’attentato di Bengasi con droni che forse partiranno da Sigonella, e sul loro uso il governo italiano non potrà tacere.

Tocca all’Europa dare speranze al Mediterraneo, difendere le sue democrazie. Se si dà un governo, l’Unione avrà l’euro e una politica estera. Solo in tal caso il colpo di fucile che udiamo nei paesi arabi potrà svegliare, come nella poesia di Montale, un’Europa il cui cuore «ogni moto tiene a vile, raro è squassato da trasalimenti».

CHE cos’è davvero l’antipolitica? Da mesi le forze politiche in Parlamento non trovano l’accordo invocato da tutti, dal Quirinale alle associazioni, dal primo cittadino all’ultimo di noi, per cambiare una porcata di legge elettorale invisa al 99 per cento degli italiani. In compenso ieri, in un attimo, i partiti sono riusciti a bloccare quasi all’unanimità una piccola norma di trasparenza, l’obbligo di affidare a una società esterna il controllo delle spese dei gruppi parlamentari. Poca roba, si capisce, rispetto a quello che i partiti avrebbero potuto e dovuto fare di corsa dopo l’ondata di scandali che rischia di travolgerli, dai casi di Lusi e Belsito giù fino alle spese trimalcionesche della Regione Lazio, e cioè una vera riforma dei rimborsi elettorali e un taglio netto agli sprechi, con un severo controllo da parte di organismi terzi.

Insomma una spending review applicata ai costi della politica. Nulla di questo è avvenuto e la montagna di promesse aveva finora partorito lo sparuto topolino di una singola regola di trasparenza, per giunta applicata a una modesta fetta della torta di danaro pubblico destinata ai partiti, quella gestita dai gruppi della Camera. Ma anche questo minimo sforzo d’intercettare le richieste del Paese reale è parso al ceto politico un sacrificio troppo grande e ieri la norma ha rischiato di essere cancellata, prima dell’intervento di Fini e di Pd, Udc e Idv. Negare l’obbligo di un controllo esterno per lasciarlo alla vigilanza degli organi interni significa non cambiare nulla. Andare avanti

com’è andata finora, ovvero malissimo.

Questa è antipolitica. Autentica, volgare e pericolosa. Quando si disprezza in questo modo la richiesta da parte dei cittadini di maggior pulizia e controllo sul danaro pubblico dato ai partiti, quando si maschera con la bandiera ideale dell’autonomia una sostanziale impunità, quando si predicano i sacrifici ogni giorno agli altri per barricarsi alla prima occasione intorno ai propri privilegi, non si rende soltanto un pessimo servizio alla democrazia e al Paese. Si pongono le basi per far saltare l’intero sistema politico, le fondamenta stesse del patto di rappresentanza fra cittadini e partiti. Che razza di professionisti della politica sono questi, in grado di trovare l’unanimità su scelte oggettivamente odiose, ma incapaci di raggiungere un accordo sulle riforme chieste a gran voce dall’intera opinione pubblica?

Viene quasi da chiedersi se non vi sia una logica in questa follia. Se una classe dirigente di gattopardi allergici al cambiamento non abbia deciso di blindarsi a palazzo, nel calcolo che comunque il movimentismo di Grillo non esprimerà mai un’alternativa di governo per una grande nazione, ma al massimo uno sfogatoio ai rancori accumulati da pezzi di società. Se così fosse, si tratterebbe di una strategia catastrofica.

Occorre sperare che non sia vero. Sperare di trovarci di fronte all’ennesimo richiamo della foresta di sorde burocrazie di partito e vecchi gruppi dirigenti che hanno perso il contatto con la realtà, la volontà e i sentimenti dei cittadini. Credere che il ripensamento di alcuni partiti, il Pd, l’Udc, l’Idv, sia la sincera ammissione di un errore e non una retromarcia da opportunisti. Ma al solito, perché non ci avevano pensato prima? Non si pretende che la politica arrivi sempre prima della società. Per quanto proprio in questo consista la buona politica. Ma neppure si può rassegnarsi all’idea che arrivi ogni volta molto dopo, quasi sempre troppo tardi e per giunta con l’aria di chi è trascinata a forza verso soluzioni chiare e oneste, cui naturalmente sfuggirebbe come il diavolo davanti all’acquasantiera. Non bastassero ogni mese un nuovo scandalo e un altro rinvio delle leggi contro la corruzione per alimentare cattivi pensieri e pessimi populisti.

Non c'è niente di peggio che dire «io l'avevo detto», perché a babbo morto non è gratificante né consolatorio. Una cosa però, questo giornale può dirla: più che Marchionne, fa impressione lo scandalo che oggi esibisce la folta schiera di adulatori del presunto uomo della provvidenza, quelli che «con Marchionne senza se e senza ma», quelli delle partite a pocker notturne, quelli che «Pomigliano è un caso irripetibile, quelli che «non si può avere tutto» e per non essere cacciati dalla fabbrica bisogna chinare la testa e accettare le nuove regole perché così si salva la Fiat, il lavoro, l'Italia.

Risultato: si è perso tutto, la Fiat e il lavoro, mentre ci resta un'Italia il cui governo mica può decidere in che giorno e a che ora chi guida una multinazionale dovrà presentarsi dal governo per spiegare cosa intenda fare oggi e domani. E' vero, la Fiat che scappa dal nostro paese è la stessa che per 113 anni ha munto e persino saccheggiato le casse dello stato, ma come dice il presidente professore un imprenditore ha il diritto di scegliere di investire dove più gli conviene.

Marchionne scappa da un paese piegato, guidato da una banda politica arcobaleno che ha assistito ai preparativi della fuga con il cappello in mano, spellandosi le mani ad applaudire le prodezze di un avventuriero. Non scappa di notte come i ladruncoli Marchionne, come i padroncini che in una notte senza luna svuotano la fabbrica per trasferire i macchinari in Romania. Marchionne se ne va camminando su una passerella di velluto stesagli davanti ai piedi da un'intera genia di politici, amministratori, sindacalisti complici. I suoi colleghi manager e l'intero padronato - le eccezioni si contano sulle dita di una mano - non si sono limitati ad applaudire le sue gesta, hanno addirittura copiato le sue ricette. Un paio di governi hanno assunto la filosofia del «Marchionne del Grillo» trasformandola in leggi, demolendo la civiltà del lavoro. Via il contratto nazionale, via la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori. Via la democrazia dai posti di lavoro, è il padrone a scegliere i sindacati a cui dettar legge con i ministri che precisano: il posto di lavoro mica è di proprietà del lavoratore. Non è Marchionne che ha spaccato i sindacati, sono i sindacati, gran parte di essi, che si sono messi al servizio del padrone, a lui hanno deciso di render conto. Siccome non si può salvare capra e cavoli, hanno consegnato sia la capra che i cavoli, pazienza se i proprietari dell'una e degli altri erano i lavoratori.

Possibile che solo il manifesto tra i giornali, o solo la Fiom tra i sindacati, si fossero accorti che Marchionne stava fregando tutti, distruggendo il sistema di regole, disinvestendo e trasferendo risorse, know-how, saperi, ricerca, modelli da Torino a Detroit? Fanno pena i Della Valle che oggi attaccano il deus ex machina della Fiat, sono gli stessi che hanno sempre sognato di fare come lui, e infatti il reuccio del made in Italy marchigiano ha più cause lui per antisindacalità che lo stesso Marchionne. Romiti si toglie i sampietrini dalla scarpe, ha le sue ragioni più o meno nobili.

La differenza con Marchionne è che lui i sindacati e i lavoratori li faceva a pezzi sul campo di battaglia, in una guerra in cui gli avversari si rispettavano, Marchionne invece preferisce cambiare le regole del gioco e comprarsi i generali nemici, evidentemente sul mertcato. Il Romiti leninista - per usare un'espressione felice di Marco Revelli - veniva chiamato «Sgiafela leun» (schiaffeggia leoni), Marchionne preferisce sgozzare le pecore.

Non diremo «noi l'avevamo detto»; diremo solo «onore» a quei lavoratori che non hanno offerto il collo al boia.

Per Silvio Berlusconi la messa in vendita de La7 e di Mtv da parte di Telecom rappresenta un raggio di sole e anche più, mentre sul sistema dei media italiani può calare con essa una autentica cappa di piombo. Saremmo più che mai a MediaRai. Ora si capisce meglio perché l’ex premier rinvii di continuo ogni annuncio sul proprio futuro politico. Gli affari di famiglia esigono che il Berlusconi politico eviti di danneggiare, in una partita difficile, Mediaset. La quale presenta dati negativi sia negli ascolti che nella raccolta pubblicitaria. Meglio per lui rimanere in scena a fare il controllore delle maggioranze invece di impegnarsi in un improbabile ritorno a Palazzo Chigi

La mossa di Mediaset di presentare entro il 24 settembre una proposta di interesse per TiMedia di Telecom (emittenti tv, infrastrutture, frequenze, ecc.) serve ad “andare a vedere” le carte di chi vende. Ma può anche significare la volontà di comprare per poi smembrare una tv generalista e tenersi soltanto ciò che serve. Come ha ben rilevato ieri su l’Unità Rinaldo Gianola, TiMedia ha chiuso il 2011 con una perdita di 83 milioni (quasi 29 più dell’anno precedente) e il primo semestre di quest’anno con un “rosso” di 35 milioni. Né il varo di un Tg “diverso” che pure fa ascolti e di qualificati programmi di approfondimento e di intrattenimento con elementi ex Rai (Lerner, Formigli, Gruber, ecc.) ha portato lo share medio oltre il 4 %. Però la raccolta pubblicitaria è la sola a segnare incrementi (+ 10,8 %) insieme a quella di Sky, contro una perdita media del settore sull’8-9 %.

Inoltre l’arrivo sul video dell’équipe di Michele Santoro, reduce dalla buona esperienza di Servizio pubblico, promette, o prometteva, un balzo degli ascolti e quindi degli spot connessi. Come accadeva su Raidue ai tempi di Annozero, prima che la Rai si “suicidasse”, anche economicamente, estromettendolo. Assieme ai nomi già indicati, Santoro presenta agli occhi del Cavaliere il grave difetto di potenziare una tv già fastidiosamente critica per lui, sia come candidato-premier sia come controllore delle maggioranze (del Monti dopo Monti, magari). Comprare La7 e devitalizzarla può diventare dunque per lui un doppio affare.

Glielo consentono le leggi vigenti? La legge Gasparri è tagliata su misura per lui come il doppiopetto grigio che indossa: all’interno del calderone del Sic (Sistema Integrato delle Comunicazioni), dovrebbe superare, in modo diretto e indiretto, il 20 %. Né dovrebbe – ma è più controverso – creargli problemi il “tetto” di 5 multiplex che pure, più che un tetto, è un grattacielo. Potrà intervenire allora l’Antitrust? Potrebbe. E però molto dipende anche dal governo dei tecnici che, fin qui, non ha fatto granché in materia. Nominati i vertici della Rai e ristretti i poteri del CdA, la decisione più significativa è stata quella di parcheggiare l’ex direttore generale Lorenza Lei alla Sipra che boccheggia ed avrebbe bisogno di competenze molto agguerrite. Sul versante dell’asta delle frequenze il ministro Passera non partorisce da mesi una decisione: se Mediaset potrà comprare La7 e le sue frequenze, spenderà di meno e non avrà più bisogno d’altro.

L’acquisto diretto di TiMedia da parte di Mediaset – certamente sfrontato in una Europa dove il servizio pubblico è da decenni “messo in sicurezza” da leggi forti e da canoni elevati – non è la sola prospettiva minacciosa. Nel senso che esso riporterebbe a galla il gigantesco conflitto di interessi berlusconiano e magari ricreerebbe, risvegliando i dormienti, un fronte politico meno sfaldato e diviso. Non meno pericoloso purtroppo sarebbe l’acquisto da parte di una cordata di «amici del Cavaliere», che sortirebbe per lui effetti politici analoghi (via o imbavagliati i programmi molesti) e non andrebbe a scontrarsi coi pur radi paletti opposti da leggi e Autorità di vigilanza (dove altri “amici” vigilano, pro Arcore o Cologno Monzese, s’intende). Con la Rai conciata com’è, rischia dunque di calare sul panorama dell’informazione televisiva – i Tg sono l’unica fonte per oltre il 60 % degli italiani – la cappa più opprimente, il più gigantesco bavaglio che la storia ricordi, dagli esordi televisivi del 1954. Stavolta saremmo davvero alla videocrazia.

SENTITE le dichiarazioni di Marchionne, Passera ha detto che vuole «capirne le implicazioni». Dunque, per lui, un dirigente che ha promesso 20 miliardi di investimento, ne ha effettuato uno, e poi dichiara che degli altri 19 non se ne parla proprio, è stato poco chiaro.Bisogna capire meglio cosa vuol dire. D’altra parte Passera ha assicurato all’ad che «non è pensabile che la politica si sostituisca alle (sue) scelte imprenditoriali e di investimento ». Quanto alla ministra Fornero, ha fornito alcune date disponibili per incontrarlo. «Non ho il potere di convocare l’amministratore delegato di una grande azienda», ha fatto sapere. Però anche lei vuole «approfondire con Marchionne cosa ha in mente per i suoi piani di investimento per l’occupazione ».

Dinanzi a una simile remissività dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio, e alle difficoltà che denunciano nel comprendere l’ad della Fiat, c’è da chiedersi se hanno capito, loro, il nocciolo della questione: sono in gioco, entro pochi mesi, decine di migliaia di posti di lavoro. Se lo capissero, la telefonata da fare sarebbe di questo tipo: «Dottor Marchionne, il governo considera gravissime le sue dichiarazioni circa le produzioni Fiat in Italia. Pertanto la aspettiamo domattina alle 8 precise a palazzo Chigi. Dovrà spiegarci con dati e cifre solide come la sua società intende operare nel prossimo futuro in questo Paese. Il governo non tollererà informazioni ambigue né generiche espressioni di intenti».

A parte ministri che non capiscono e telefonate che non si faranno, Marchionne ha pure dei sostenitori. C’è la crisi, essi rammentano, che comprime le vendite di auto. I salari lordi, tasse e contributi inclusi, in Italia sono molto alti. La produttività dei nostri operai è scarsa. In realtà le cose non stanno così. D’accordo che la crisi ha ridotto le vendite di auto in Europa di oltre un quarto, rispetto ai 16,8 milioni di vetture del 2007. Ma ciò non spiega perché l’Italia, che ha nel gruppo Fiat l’unico produttore di autoveicoli, sia ormai soltanto il settimo produttore europeo, dopo essere stata a lungo il secondo o il terzo. Nel 2011, quella che fu una grande potenza automobilistica ha prodotto meno di 0,8 milioni di autoveicoli (vetture più veicoli commerciali leggeri). La sola Polonia ha superato di parecchio tale cifra. Poi ci sono, a crescere, la Repubblica Ceca, con 1,2 milioni di unità; il Regno Unito (1,5 milioni); la Francia (2,3); la Spagna (2,4); infine la Germania, con 6,3 milioni in totale. Per questi Paesi sembra che la crisi sia un’altra

cosa.

Del pari inconsistenti sono le altre affermazioni per cui in Italia non conviene produrre auto. Nello stesso settore, i salari lordi dei lavoratori dell’auto sono più alti in Francia, e più alti ancora lo sono nel Regno Unito e in Germania. Quanto alla produttività, basta accostare i dati in modo appropriato. Evitando – ad esempio – di comparare stabilimenti esteri dove si lavora sei giorni la settimana tutti i mesi, tipo quello polacco di Tichy, con Mirafiori, dove da anni si lavora qualche giorno al mese. Si scopre così che la produttività per ora effettivamente lavorata in Italia è analoga a quella di molti impianti stranieri.

In tale quadro di ministri simili al cavaliere di Calvino, inesistenti per quanto attiene alla questione Fiat (ma anche, duole dire, per altri casi recenti), e di commentatori sovente poco o male informati, spiccano le critiche di un imprenditore, Diego Della Valle, alle due massime cariche di Fiat, l’Ad Marchionne e il presidente Elkann. Ha detto, in soldoni, che la colpa di quello che sta accadendo alla società del Lingotto è tutta loro. Pare difficile dargli torto. Se un’impresa si ritrova in basso nelle classifiche europee, dopo essere stata per decenni in prima fila, chiunque mastichi un poco di questioni industriali e manageriali non può fare a meno di pensare che il suo massimo dirigente, al governo di essa ormai dal lontano 2004, qualche responsabilità ce l’abbia. Siano queste da cercare nell’ambito delle competenze – Marchionne non è un uomo dell’industria, viene dalla finanza – oppure di un disegno volto a trasferire il peso produttivo dell’impresa verso altri lidi per i più diversi motivi.

Semmai si potrebbe obbiettare a Della Valle che al punto in cui siamo arrivati le critiche dovrebbero venir rivolte in maggior misura agli azionisti, in primo luogo alla famiglia che controlla finanziariamente la Fiat, più qualche altro grosso azionista che sta dalla sua parte, che non al dirigente di vertice. L’Ad in carica potrebbe essere congedato anche domani. Ma questo non cambierebbe di per sé la posizione dei maggiori azionisti, i quali ormai da lungo tempo mostrano, non con quello che dicono bensì con le scelte che compiono, di considerare l’industria dell’auto come un intralcio alla loro ricerca di maggiori rendimenti per i capitali di cui dispongono.

INVANO abbiamo atteso che il presidente Monti o il ministro Passera convocassero nella giornata di ieri i responsabili della Fiat, in seguito alla disdetta unilaterale del piano di investimenti Fabbrica Italia.

Sono intervenuti Diego Della Valle e Cesare Romiti per censurare l’addio annunciato di Marchionne, ma il governo no: forse aspetta, per darsi una mossa, che anche la disperazione degli operai di Mirafiori, Melfi, Cassino, Pomigliano degeneri nelle forme estreme ormai tristemente consuete? Non sono bastate le lezioni dell’Ilva e dell’Alcoa? Capisco che sia difficile per la classe politica riconoscere di essere stata presa in giro dalla multinazionale che nella primavera 2010, già in piena crisi di sovrapproduzione, vaneggiava di un raddoppio delle automobili da fabbricare in Italia, con investimenti (mai pianificati) per la stratosferica cifra di 20 miliardi. Una promessa, mai formulata per iscritto, in cambio della quale Marchionne ha preteso e ottenuto la deroga contrattuale dalle normative vigenti; imponendo sacrifici ai lavoratori dopo aver estromesso dagli stabilimenti il sindacato più rappresentativo.

Se il precedente governo di destra assecondava per convenienza politica la prova di forza della Fiat, e gli stessi dirigenti del Partito Democratico hanno rivelato sudditanza psicologica nei confronti della presunta “modernità” di Marchionne, l’attuale premier e i suoi ministri tecnici appaiono invece prigionieri di una sorta di integralismo accademico: le aziende devono essere lasciate libere di seguire il loro mercato; investano dove meglio credono; e il governo resti un passo indietro.

Bel risultato. La rinuncia a pretendere una politica industriale concordata si è sposata così all’applicazione ideologica della dottrina secondo cui i posti di lavoro si salvano concedendo maggiore flessibilità all’azienda. È falsa l’equazione “meno diritti uguale più lavoro”, come la storia si è già incaricata di dimostrare, non solo in Italia. Ma proprio lo stesso giorno in cui la Fiat preannunciava la cancellazione degli investimenti promessi, Monti ribadiva questa sua antica certezza: indicando lo Statuto dei Lavoratori, peraltro già modificato per facilitare i licenziamenti, come ostacolo alla crescita dell’occupazione.

Quali interessi tutela il governo: l’economia nazionale o il piano della multinazionale? Cosa ha fatto per armonizzarli o quanto meno per condizionarli? Si è forse udita la voce del sindaco di Torino e del suo predecessore Chiamparino divenuto nel frattempo presidente di una grande fondazione bancaria legata al territorio? Renzi, candidato alle primarie, correggerà il suo appoggio incondizionato a Marchionne? E Bersani saprà offrire risposte credibili all’ansia delle famiglie e delle comunità minacciate nel loro futuro? Qui non si tratta di negare la realtà del drastico calo delle vendite di automobili in Europa; semmai il vertice Fiat dovrebbe spiegare perché nel trend negativo continua a fare peggio dei concorrenti. La sua espansione mondiale in mercati dinamici come gli Usa e il Brasile, grazie a cui gode di un florido bilancio per la gioia degli azionisti, è un fattore positivo imprescindibile che giocoforza modifica la strategia aziendale. Ammettiamo pure che l’amministratore delegato della multinazionale debba privilegiarne gli interessi globali, anche a discapito

della nazione da cui la Fiat ha estratto la sua linfa vitale: se la Fiat fosse rimasta italiana, probabilmente sarebbe morta.

Ma quel che vale per il manager necessariamente “apolide” non vale per il nucleo di controllo dei suoi azionisti. La famiglia Agnelli-Elkann che oggi beneficia di una invidiabile patrimonializzazione miliardaria grazie all’innesto americano, non può d’un colpo prescindere dal suo legame storico con la realtà italiana.

Faceva effetto trovare nei giorni scorsi sulla copertina di

Panorama ilvolto sorridente del presidente della Fiat, John Elkann, che annunciava un’iniziativa filantropica a favore di 200 (duecento) studenti meritevoli di Torino, cui sarà fornito un prestito d’onore per la somma totale di 2 (due) milioni di euro. Spiacevole coincidenza, mi auguro involontaria, questa mancetta; a fronte della disdetta del piano d’investimenti che si tradurrà, ormai pare inevitabile, nella distruzione di un patrimonio tecnologico e occupazionale d’inestimabile valore.

Nel capitalismo anglosassone spesso evocato come esempio da seguire, gli azionisti beneficiati da grandi profitti adoperano la parola “restituzione” per indicare le modalità attraverso cui intendono onorare il debito morale contratto con la società in cui si sono arricchiti. Avvertono uno stimolo del genere gli azionisti Fiat nei confronti dell’Italia, di cui sono stati per oltre un secolo classe dirigente? E il governo che pare come ammutolito di fronte alla disperazione sociale, Passera che da banchiere contribuì a salvare la Fiat e ora traccheggia al cospetto della realtà del lavoro penalizzato, vorrà finalmente cimentarsi nell’apprendistato della politica? Chi inchioderà la Fiat alle sue responsabilità storiche, scoprendo che un governo dispone di leve efficaci se vuole farsi dare retta dai capitalisti?

La fuga della Fiat ferisce non solo le famiglie dei suoi dipendenti ma l’intera comunità nazionale; rivelandosi questione politica per eccellenza, se solo la si volesse affrontare.

IL PROF-PENSIERO

«Lo Statuto ha limitato i posti di lavoro»

In videoconferenza, come da un'astronave aliena, il presidente del consiglio ha ammannito ai convenuti all'Università di Roma Tre alcune pillole del suo pensiero economico-sociale. Liberismo allo stato puro, senza alcuna contaminazione con la società reale. Vediamole.

Alcune disposizioni della legge 300 del 1970 (lo «Statuto dei lavoratori») «pur ispirate all'intento nobile di difendere i lavoratori, hanno contribuito a determinare una insufficiente creazione di posti di lavoro».

In passato «c'è stato uno scarto tra l'etica delle intenzioni e l'etica della responsabilità. Alcune decisioni importanti puntavano a fare bene, ma spesso non sono state contraddistinte da pragmatismo».

«Certe disposizioni, giustamente, tese a tutelare le parti deboli nei rapporti economici hanno finito, impattando nel gioco del mercato, per danneggiare le stesse parti che intendevano favorire».

Per farsi capire bene, visto che in materia di diritto del lavoro è facile scivolare nell'enunciazione di princìpi non sempre facili da rintracciare nella realtà empirica, Monti ha pensato bene di fare un esempio alla portata di tutti: quello della casa.

«Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso difficile la disponibilità di alloggi in affitto a favore di coloro che si volevano tutelare».

Non è affatto difficile arrivare alla conclusione che, nella filosofia di Monti, ogni «protezione» sociale debba essere eliminata perché produrrebbe - suo malgrado - il contrario di quel che si prefigge. Quindi, nella giungla dei rapporti economici tra «deboli» (il singolo richiedente lavoro) e «forti» (gli imprenditori di qualunque livello), i primi avrebbero tutto da guadagnare.

Come sempre, fin dai tempi di Berlusconi, nel pomeriggio è arrivata la precisazione minimizzante. Le parole del premier «non avevano alcun intento polemico». Quella di Monti sarebbe solo «un'impostazione di lunga data» (viene allegato un testo scritto dallo stesso Monti «il 24 aprile 1985»). Appunto.

La provocazione di Mario Monti sullo Statuto dei lavoratori non poteva restare senza risposta e contestazioni di merito, anche perché stavolta è andato decisamente fuori del suo campo. Su più campi.

Sul piano politico-sindacale, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, ha sentito subito puzza di bruciato. «Non vorrei che qualcuno, siccome non c'è una idea su nulla, si reiventasse una logica contro i lavoratori. Mi pare che abbiamo fatto già abbastanza contro i lavoratori». Una logica che appartiene al «peggiore liberismo, quello che ha teorizzato che la diseguaglianza abbia fatto crescere il mondo mentre sono quattro anni che il mondo non sa uscire dalla crisi determinata proprio da quella logica lì». Una dimostrazione del fatto che «questo governo non ha idea su cosa fare per lo sviluppo e la crescita. È la ripetizione di un film già visto. Si continua a riproporre ricette che hanno già dimostrato la loro fallimentarietà oppure si butta la palla in un altro campo».

I diritti del lavoratore

I giuslavoristi, naturalmente, entrano nel merito e nella «filosofia» che Monti butta lì come un'ovvietà. Giovanni Naccari, una vita nella consulta giuridica della Cgil, lo Statuto dei lavoratori l'ha visto nascere. «Monti è sicuramente un bravo economista di scuola liberista ma quando esce dal suo campo dice cose che non hanno riscontro nella realtà; né sotto il profilo scientifico, né dei contesti storici». Soprattutto, non sta in piedi l'idea che esista una contraddizione tra «quantità dei diritti» e «quantità dei posti di lavoro». In fondo, si tratta del solito tentativo di far passare un lavoratore «protetto» dal diritto come un «fannullone» o un privilegiato, ammiccando esplicitamente alle sacche di clientelismo esistenti in alcuni settori. «Chi è che ha voluto decenni di regalie e clientele? La stessa classe dirigente che ha voluto Monti premier».

Sul piano scientifico, al contrario, «la compatibilità tra diritti e sviluppo è acclarata» (il «libro bianco» di Delors); e anche tra efficienza e proprietà statale (Massimo Severo Giannini). Naccari ricorda che «allora erano d'accordo tutti, anche le imprese e Gianni Agnelli; erano consapevoli di poter avere una tregua nel conflitto sociale, che avrebbe prodotto sviluppo economico». Del resto, non è mai stato vero che le imprese tendono a non assumere se sanno di non poter licenziare: «i licenziamenti collettivi» per stato di crisi sono sempre stati possibili, la Fiat, nel 1980, mandò via in un sol colpo 23.000 lavoratori.

La «stagione dei diritti» arrivò al culmine di un forte periodo di crescita (il «boom») e fu interpretata come un «doveroso scambio» con la lunga compressione imposta in precedenza («sia sotto la dittatura fascista che nel ventennio successivo»). Un «modello» che non ha caratterizzato soltanto l'Italia ma l'Europa intera, contemporaneamente; al punto che «oggi i cinesi stanno studiando il nostro sistema di welfare». Lo sfruttamento senza diritti, infatti, «funziona nel periodo di 'accumulazione originaria'», quando un paese passa a forza dalla dimensione agraria ad una industriale. Poi deve «sviluppare il mercato interno». L'espansione dei diritti, dunque, è figlia di una visione «lungimirante ed evoluta», «smorza tensioni che avrebbero ripercussioni economiche enegative». Oggi, dopo anni di «riforme pensionistiche» e del mercato del lavoro, «abbiamo lavoratori anziani licenziabili e giovani precari per sempre; è questa la società che hanno in mente?». Lo Statuto recepisce un principio costituzionale che nel lavoro cerca l'«emancipazione della persona», non solo l'agente economico. Certo, per chi vede il mercato secondo la vulgata protestante (il «successo come prova del favore divino»), tutti i diritti dello Statuto (studio, riunione, ecc) appaiono un intollerabile «spreco».

Casa, affitti, equo canone

Con l'esempio sulle case Monti cade platealmente nella demagogia. «Certe norme sul blocco dei fitti hanno reso più difficile la disponibilità di alloggi a favore di coloro che si volevano tutelare». Ma le «norme», da sole, non fanno il mercato. L'economia reale conta un po' di più. E là dove non c'è - come in Italia negli ultimi 30 anni - una «politica della casa», ecco restringersi improvvisamente «l'offerta» di abitazioni, che facilita la salita dei prezzi (sia dell'acquisto che degli affitti).

Una prova? Guardiamo i dati (del 2004, ma la situazione è anche peggiorata dopo le «cartolarizzazioni» di Tremonti). In Italia le case popolari costituiscono solo il 4% del totale delle abitazioni occupate. In Francia la percentuale sale al 17%, nell'iperliberista Gran Bretagna al 18, tra i «rigoristi» del nord Europa si arriva al 20% della Svezia, al 25 dell'Austria e addirittura al 35% dell'Olanda. Anche alla Bocconi dovrebbero sapere che il rapporto domanda/offerta pesa più delle «norme», bene o malintenzionate che siano.

“Riparare il mondo”, scriveva Alex Langer (vedi la bella pagina che Adriano Sofri gli ha dedicato su Repubblica di ieri). Oggi che il nostro modello di sviluppo appare infartuato, e si parla di crisi di sistema, le persone come Langer (e come Laura Conti, Antonio Cederna, Aurelio Peccei, fondatori dell’ambientalismo italiano) ci sembrano davvero profeti inascoltati. Se prima qualcuno poteva illudersi che per creare posti di lavoro si dovessero ferire terra, acqua e aria, e sperperare paesaggio, oggi ci accorgiamo che rovina ambientale e caduta dell’occupazione sono, in un paese come il nostro, facce della stessa medaglia. E che “riparare il mondo”, come chiedeva Langer, qui in Italia non è solo una missione culturale e politica; è anche, se non soprattutto, una gigantesca occasione di nuovo lavoro, nuova economia, nuovo e diverso sviluppo.

Come tantissimi italiani non so ancora per chi votare, quando sarà il momento. Ma cercherò di votare per chi, più degli altri, si avvicina al concetto di “riparare il mondo”. Bloccando la cementificazione folle e sterile, la corsa stupida alla “crescita”, e dunque crescendo davvero.

Una intuizione sul presente disagio della civiltà europea: sulla sfiducia, sul risentimento che monta contro l’Unione. Quel che non convince è il linguaggio dei proponenti, ed è il vuoto di iniziative che l’annuncio prefigura. Non basta affibbiare agli antieuropei un epiteto – populista – che svilisce ogni loro argomento ed è quindi inadatto a reintegrare quel che si sta disgregando. Anche la bellicosa parola lotta è incongrua, soprattutto quando la strategia si riduce a quella che Monti chiama «manutenzione psicologica e politica» di tanto diffuso malessere. Manca l’analisi dei motivi per cui si moltiplicano i moti di rigetto, nati da un’austerità che ha sin qui generato recessione e povertà. Manca soprattutto una rifondazione dell’Unione che vada oltre la manutenzione.

«Io penso semplicemente a una riflessione, non al percorso successivo», così Monti a Sarajevo: come se fosse sufficiente un dibattito, nel quale i medici d’Europa si chinano, sicuri delle proprie ricette, sui pazienti che giacciono ai loro piedi sempre più infermi e meno pazienti. Se così stanno le cose è proprio il percorso successivo che conta, ben più del dibattito. Se quasi tutto un popolo, in Germania, attende il verdetto che domani darà la Corte costituzionale su Fiscal compact e Fondo salva-Stati, e se l’attende nella convinzione che la sovranità del Paese e del suo Parlamento siano stati lesi in nome dell’Europa, vuol dire che siamo in un’epoca di nervosità, di torbidi, nella quale ciascuno Stato e ciascun popolo è in lotta contro il presunto nemico del bene. Chi combatte tali nemici non ha bisogno di mettere se stesso in questione, di inventare farmaci diversi. La colpa è tutta dei populisti, dicono in Italia. È tutta dei debitori, dicono in Germania. Non dimentichiamo che Schuldin tedesco significa due cose, debito e colpa: spostata sul terreno morale, la battaglia si fa cruenta. Non dimentichiamo che Weidmann, governatore della Bundesbank, è sconfitto nella Bce ma vincitore politico in patria.

Occorre dunque che i capi di governo e le comuni istituzioni facciano l’Europa veramente, ne discutano con le società (Parlamenti nazionali, Parlamento europeo), e non si limitino alla gestione psico-politica di popoli minorenni o depressi. Occorre, da parte dei comandanti d’Europa, quella che Albert Hirschmann chiama auto-sovversione, auto-confutazione: non sono fallite solo le misure ma anche le dottrine dominanti, avendo prodotto un’Unione divisa fra creditori e debitori, e aumentato disuguaglianze e povertà. Una lotta d’altro genere s’impone, che conduca all’Europa politica: rifondando ed estendendo i perimetri geografici dell’agire politico, partitico, democratico. Dando all’Unione una costituzione vera, scritta dai popoli rappresentati nel Parlamento europeo e sottratta al “possesso” degli Stati. L’obiettivo non è astratto. Urgono piani di investimento, e una crescita che sarà duratura a patto di cambiare natura (puntando su ricerca, energie alternative, istruzione, comune difesa): solo un governo europeo può farlo – con un bilancio consistente approvato da un comune Parlamento – visto che gli Stati non hanno più soldi. Gli esperti concordano nel dire che i risparmi sarebbero enormi se la crescita fosse fatta in comune, e consentirebbero cali di tasse nei singoli Paesi.

Solo così si dimostrerà che a comandare non sono lontani oligarchi, e che le terapie adottate sono confutabili come è confutabile in democrazia ogni politica, ogni leadership. L’ultima mossa di Mario Draghi è ottima, ma finché a muoversi è un organo tecnico, per legge a-politico, non affiancato da un governo, un Tesoro, un fisco europeo, è mossa insufficiente. Se i politici pensano che il grosso è fatto, grazie a Draghi, si sbagliano: perché tocca a loro l’azione decisiva, e il grosso non consiste né nella lotta ai populisti né nella cura di mantenimento. L’una e l’altra mantengono lo status quo e fanno morire la politica, che in democrazia è ricerca di alternative e conquista di consenso popolare, non di consenso dei mercati. Quelli che vengono definiti populismi sono figli di questo status quo, e di questa morte. Ci s’indigna quando Grillo dice: «I politici sono morti che camminano». Sono parole fatue, essendo rivolte indiscriminatamente a tutti. Ma sono vivi i politici, e la sinistra, e la destra? Se tutti aspettano i governatori della Bce o i giudici di Karlsruhe come si aspetta Godot, vuol dire che c’è del vero nell’ira gridata da Grillo: sono quattro anni che i governi sono impelagati in politiche sterili, che hanno portato paesi come la Grecia a una contrazione di redditi e servizi pubblici senza eguali nel dopoguerra, che hanno azzerato il controllo democratico sui rimedi dell’Unione, e dilatato l’imperio di oligarchie allergiche alla politica per obbligo o per scelta. Che è la manutenzione dell’esistente, se non perpetuare la tara dell’euro-senza-Stato?

L’Europa unita si farà solo con i popoli, e solo se la politica riacquisterà il primato ceduto negli anni ’70 ai mercati. Rinascerà – la politica come professione– se si trasforma alle radici, se le scelte fatte sono riconosciute sterili, come il chicco di grano che solo morendo produce molto frutto. La via non è abolire i partiti, o il contrasto classico destra-sinistra. Il liberalismo si nutre del conflitto fra idee alternative della società, della politica, dell’economia. Il migliore è selezionato nella gara, nella disputa. Dai tempi di Pericle questo è democrazia: «Qui a Atene noi facciamo così. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Benché in pochi siano in grado di dare vita a una politica, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla». Come giudicarla, se chi confuta è ostracizzato come populista? Resta che la disputa dovrà mutare volto, e rotta. Sinistre, destre, partiti, sindacati dovranno dare una dimensione europea a programmi e delibere, e imparare l’agorà dell’Unione. Non possono nascondere a militanti e cittadini che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi, che sono troppo piccoli nell’economiamondo. Mai le sinistre riusciranno a salvaguardare il modello sociale e democratico della Comunità postbellica, se l’ottica resta nazionale.

Sovvertire se stessi non significa abolire destra e sinistra, e sognare comitati d’affari che curino, al posto di inetti politici, interessi e poteri di industrie obsolete. Anche questo va ricordato: sono i comitati d’affari che, fidando per trent’anni nelle virtù riequilibratrici dei mercati, hanno causato la crisi del 2007-2008. Auto-confutarsi serve a scoprire quali sono le nuove linee divisorie: tra forze che chiedono un’Unione federale, eforze aggrappate a sovranità nazionali fasulle. Prendere il potere in Europa e non più nella nazione, visto che è lì e non qui che esso si esercita: ecco la missione per sinistre e destre. Un vertice dell’auto-sovversione: questo sì sarebbe benvenuto!

Napolitano ha detto proprio questo, il 6 settembre a Mestre, parlando di nuove mapped’Europa: nell’Unione non esistono discorsi simili, lungimiranti e severi sulle cose fatte e da farsi. Il Presidente ha denunciato i limiti delle misure anti-crisi, e indicato la via d’uscita. I partiti (parafrasando Paul Reynaud, fondatore con Monnet della Ceca) devono europeizzarsi o perire. Non cadono infatti dal cielo, «il ripiegamento, l’immeschinimento, la perdita di autorità della politica». O l’«impoverimento ideale (delle forze politiche), gli arroccamenti burocratici, l’infiacchimento della loro vita democratica, il chiudersi in logiche di mera gestione del potere e di uno scivolare verso forme di degenerazione morale».

Di questo degenerare sono artefici i partiti, non il mercato, e a loro spetta sanarlo, cessando di stipare l’Unione negli armadi della politica estera. Le parole di Napolitano sono altamente realistiche, non retoriche. Invocando l’europeizzazione di Stati, partiti, movimenti, egli cita un padre del federalismo, Mario Albertini: «Il “punto di non ritorno” (dell’unità europea) non potrà essere che propriamente politico. È il momento in cui la lotta politica diviene europea, in cui l’oggetto per il quale lottano uomini e partiti sarà il potere europeo».

Lottare per la conquista del potere in Europa e per il suo controllo democratico: non è missione piccola, per una sinistra che voglia salvare i due pilastri dell’unità europea concepiti nel pieno dell’ultima guerra; il pilastro antinazionalista e quello dello Stato sociale, il Manifesto di Ventotene dell’agosto ‘41 e il rapporto Beveridge sul Welfare del novembre ’42. Anche le destre hanno contribuito al doppio pilastro (da Adenauer e De Gasperi a Kohl): oggi constatiamo che son divenuti custodi delle vecchie sovranità nazionali. È un buon programma, per una sinistra che non vuol perire, come ha fatto per decenni, dedicandosi alla pura manutenzione.

Metti una sera a cena, con la Fiom. In realtà le cene sono una decina e i dibattiti ancora di più, dallo scorso venerdì fino a domenica prossima. I metalmeccanici della Cgil stanno chiamando a rapporto a Torino la politica - diciamo la sinistra in tutte le sue varianti, comprese quelle a cui il termine sinistra va stretto - e la società per capire se è possibile costruire un percorso comune, e con chi, per tirare il paese fuori dalle secche della crisi senza lasciarsi alle spalle il lavoro e i diritti.

Quello in corso a Torino è il primo appuntamento dopo l'assemblea del 9 giugno, quando il sindacato di Landini chiamò a confronto i segretari dei partiti antiberlusconiani, parlamentari ed extra, per sapere se il lavoro c'entri qualcosa con i loro programmi di governo. Tradotto in pillole di programma: uno schieramento antagonista alla destra e in discontinuità con il «vulnus» tecnico di Monti, abolirà l'art.8 di berlusconiana memoria che cancella i contratti nazionali, nonché le sciagurate modifiche all'art.18 di marca montiana che lo svuotano di significato? E qual è l'idea di sviluppo, e il ruolo dello stato nell'economia che questo ipotetico schieramento «alternativo» ha in mente?

Se sul piano della politica classica saliranno a Torino, a discutere con Landini e Airaudo, i segretari Di Pietro, Vendola, Ferrero e Fassina (l'unica differenza rispetto al primo round di Roma il 9 giugno è l'assenza del segretario Pd Bersani, l'aggiunta invece è la presenza di Pallante dell'Mds, vicino al Movimento 5 stelle), su quello più vicino ai movimenti della società vanno segnalati i No-Tav, una realtà a cui la Fiom non ha mai fatto mancare il suo appoggio. Sarà la vicepresidente dei Verdi al parlamento europeo, Monica Frassoni, a discutere con i metalmeccanici la scelta tra gli investimenti per le grandi opere e un'idea completamente diversa della tutela e dello sviluppo economico e democratico del territorio.

In casa Fiom un sindacato «naturalmente» industrialista si interroga liberamente su cosa, dove e come produrre, cioè sulle compatibilità sociali e ambientali del lavoro, e lo fa insieme a chi alza la bandiera della decrescita. Si parlerà di vecchie povertà, quelle dickensiane, e nuove povertà, prodotte dalla crisi e dalle ricette liberiste per (non) uscirne, insieme a Marco Revelli. Ci si chiederà con economisti di diverso orientamento se ha un senso, e quale e come, finanziare le imprese. Si parlerà di giornali che sentono il fiato caldo della crisi sul collo e una volta ancora la Fiom farà la sua parte, sostenendo il manifesto con una cena di finanziamento, ma troverà uno spazio di ascolto anche un giornale che nasce: Pubblico.

Giorgio Airaudo, segretario nazionale della Cgil con un occhio particolarmente attento a Torino che è stata la sua palestra sindacale, ricorda che oggi si costituirà presso la Corte di Cassazione il comitato promotore dei due referendum sul lavoro (art.8 e art.18). Airaudo plaude all'obiettivo difficile e importante raggiunto: «Grazie alla disponibilità dell'Idv si è messo in moto un fronte molto ampio che consentirà di portare i temi del lavoro dentro la campagna elettorale». Ma non si fa soverchie illusioni: quello schieramento non è automaticamente l'embrione di uno schieramento ampio che abbia al centro i temi del lavoro e dei diritti, che però bisognerebbe costruire. «C'è chi, non solo nel Pd, pensa che il lavoro sia un tema del passato. C'è chi, nel Pd, si dichiara dalla parte di Marchionne senza se e senza ma, come ha fatto Renzi». «Nelle primarie del Pd il lavoro non c'è», è la sua amara constatazione. Però Airaudo, Bersani l'aveva invitato, ma verrà Fassina. Invece il Pd, nella sua festa torinese la Fiom non l'aveva invitata, a costo di non parlare della Fiat. Se poi anche nel partito di Bersani passa l'idea cara al presidente Napolitano che chiunque vinca le elezioni il segno della politica economica dovrà essere in continuità con quella messa in atto da Monti, c'è poco da farsi illusioni.

Perché proprio a Torino questo appuntamento? Perché da qui, con il modello Marchionne, è partito tutto. Perché Torino, aggiunge Airaudo senza far sconti al nuovo sindaco Pd Piero Fassino, è la città più indebitata d'Italia e sceglie di tagliare il welfare e appaltarne le briciole ai privati, cooperative disposte a competere abbattendo i diritti di chi ci lavora. «E' inquietante che a parte la Fiom, e certo con più autorevolezza, l'unico a parlare di declino della città sia il vescovo, che non si fa scrupoli a chiamare in causa la famiglia Agnelli-Elkann».

Non sarà, è la domanda che si ripete noiosamente dal 9 giugno, che la Fiom vuole farsi partito? La risposta è sempre la stessa: la Fiom è un sindacato e vuole fare sindacato. Ciò non vuol dire che sia indifferente a quel che avviene in politica.

La battuta che circola tra gli oltre diecimila soci è questa: «Siamo Italia Nostra, non Milano Nostra». Ma lo scontro interno tra le due anime della gloriosa associazione fondata, tra gli altri, da Giorgio Bassani, e che il 15 settembre dovrà eleggere il suo nuovo presidente, non è banale questione di campanilismi. In ballo, invece, c’è una scelta che potrebbe profondamente modificare le strategie di Italia Nostra, in particolare il suo rapporto con le istituzioni e i poteri forti.

Sembra ormai certo che la nomina a presidente sia una corsa a due tra Nicola Caracciolo, attuale vicepresidente nazionale nonché protagonista delle molte battaglie della sezione toscana, e Marco Parini presidente del presidio milanese dell’associazione. Se alla vigilia dell’elezione dei 24 consiglieri nazionali sembrava scontato un accordo per la nomina di Caracciolo, a sparigliare la situazione sono arrivati i 1300 voti dei soci lombardi (4 mila i votanti complessivi) che hanno fatto venire a Parini la voglia di provarci. È quindi scattata la caccia alla preferenza e la ricerca di alleanze. A fare da ago della bilancia non c’è tanto la presidente uscente, Alessandra Mottola Molfino, la cui gestione non ha entusiasmato molti soci («uno dei periodi più tristi nella

vita della benemerita associazione » è la definizione dell’architetto Vezio De Lucia), quanto piuttosto un gruppetto di consiglieri di grande peso come l’urbanista Edoardo Salzano, e la professoressa Maria Pia Guermandi. Per tutti, la sfida che attende Italia Nostra è quella di farle recuperare quel ruolo, culturale e politico, di interlocutore istituzionale con ministeri, direttori della pianificazione e dell’urbanistica, funzionari e assessori regionali, per poter incidere nelle future scelte legislative a iniziare dal tema delle tutele in materia di paesaggio.

Come e con quale spirito dipenderà anche da chi sarà il nuovo presidente. I sostenitori di Caracciolo appartengono a quella tipologia di soci che, accanto alla prestigiosa matrice culturale di Italia Nostra, ne apprezzano anche il lato «movimentista», che condividono le battaglie di molti comitati di cittadini. I milanesi, invece, si presentano più moderati. Per molti attivisti di Italia Nostra i “milanesi” sono stati troppo tiepidi su alcune vicende importanti come il progetto per il park adiacente la basilica di sant’Ambrogio. Anche su una delle eccellenze dell’associazione, come il Boscoincittà, primo progetto italiano di riforestazione urbana e centro didattico, era stato ritenuto poco combattivo l’atteggiamento dei soci della Madonnina di fronte all’allora sindaco Letizia Moratti che tenne in sospeso il rinnovo della convenzione, poi siglata dal successore Giuliano Pisapia.

Ma quello che davvero ancora pesa sul curriculum della sezione lombarda, è quella clamorosa “gaffe” dell’inizio del 2011 quando, con l’intento di pubblicare un’antologia critica che rivisitasse il pensiero di Antonio Cederna – un altro dei padri di Italia Nostra –, i milanesi provocarono una tale sollevazione di intellettuali e ambientalisti da far addirittura interrompere la stampa del volume. Un ricordo che il 15 settembre non sarà ancora certamente evaporato.

Martedì mattina alla Corte di Cassazione si costituirà ufficialmente il comitato promotore dei due referendum sul lavoro inizialmente presentati dall'Italia dei valori e successivamente aperti a un ampio arco di forze politiche, sociali, sindacali, intellettuali impegnate nella difesa dei diritti e della democrazia. Del comitato faranno parte, insieme a Di Pietro e ad alcuni suoi rappresentanti, giuslavoristi, giuristi, intellettuali (due nomi importanti tra gli altri, Stefano Rodotà e Umberto Romagnoli), dirigenti della Fiom e della Cgil (non solo Gianni Rinaldini, motore della ricomposizione unitaria e coordinatore della minoranza «La Cgil che vogliamo»), di Rifondazione e di Sel, di Alba e non è escluso che del comitato faccia parte anche l'eurodeputato del Pd Sergio Cofferati che milioni di persone identificano con la battaglia in difesa dell'art.18, e che ha già dichiarato al manifesto la sua adesione alla campagna. Da ottobre a dicembre, e cioè nel cuore della campagna elettorale, si svolgerà la raccolta di firme che consentirà - costringerà? - un vastissimo schieramento politico e sociale a lavorare gomito a gomito nei banchetti su un obiettivo comune: il ripristino della democrazia nei luoghi di lavoro.

«Un bellissimo risultato», dice senza mezze parole Massimo Torelli, di Alba. Il comitato esecutivo dell''Alleanza lavoro benicomuni ambiente' ricorda che nelle motivazioni che l'hanno fatta nascere c'è «l'affermazione di una nuova idea di politica e convivenza civile fondata sulla partecipazione, i diritti sociali e la rimessa in discussione del modello economico e sociale dominante». Aggiunge Alba che «questi referendum su/per il lavoro non fanno che rappresentare una prima importante affermazione e un imprescindibile punto di partenza per il riscatto del nostro paese». Abolire l'art.8 dell'ultima manovra del governo Berlusconi che cancella il contratto collettivo nazionale, fatta propria dal governo Monti che le ha trovato una prima applicazione con il contratto nelle ferrovie di Italo, la società di Montezemolo; abolire le modifiche imposte all'art.18 ancora dal governo Monti, sostenuto da uno schieramento inedito che comprende il Partito democratico. L'esigenza di ricostruire una nuova cultura di sinistra attraverso una pratica che parta dai contenuti: Alba lavora alla «costruzione di una grande risposta di popolo» capace «di riaprire il campo al futuro e alla speranza, dando voce all'indignazione diffusa e al radicale desiderio di cambiamento». Che oggi ha un primo strumento di lavoro: «Una grande campagna referendaria unitaria per la riappropriazione dei diritti sul lavoro e sulla democrazia». Siccome da cosa nasce cosa, per l'esecutivo di Alba c'è un altro aspetto che meriterebbe un altrettanto vasto e rappresentativo schieramento per avviare una campagna «che colpisca il secondo pilastro dell'azione del governo Monti: il fiscal compact, quel meccanismo con il quale si impongono tagli al welfare e svendita del patrimonio pubblico». Il segretario del Prc, invece, punta il dito sulla riforma delle pensioni imposto di Fornero.

Forse, però, per evitare di disperdersi in mille rivoli, conviene intanto concentrarsi sui due referendum già depositati, anche se è ovvio che sotto accusa è l'intera politica economica italiana ed europea, imposta dalla troika ai governi, che agita gli spread per modificare i rapporti di potere nella società, cancellando diritti fondamentali, privatizzando, presentando ai più deboli il conto dei guasti prodotti dalle ricette liberiste. Riducendo la politica stessa ad ancella del capitale finanziario. È l'esigenza di riportare al centro del confronto politico e dei programmi la difesa della quantità e della qualità del lavoro che ha consentito la formazione di un comitato referendario così ampio. Al punto che anche le ossessioni identitarie, per una volta, non hanno prevalso lasciando il posto a una battaglia sui contenuti. Un modo diverso da quello prevalente per costruire le alleanze.

Nell'icona "Il ritorno a casa dei lavoratori", di Edvard Munch

SUL silos dell’Alcoa un operaio si è sentito male. È sofferente di cuore. Visitato dal medico, ha deciso di restare: quei settanta metri di scale, pericolosi da salire, per lui possono esserlo ancor più in discesa. Per ora resta lì, dunque, in prima linea. Combatte per il suo posto di lavoro. Che non è un diritto, come ha spiegato il ministro Fornero: è qualcosa che bisogna guadagnarsi.

Una volta col lavoro ci si guadagnava da vivere, oggi si rischia la vita per guadagnarsi il lavoro. O almeno per guadagnarsi un po’ d’attenzione: quanti hanno dovuto arrampicarsi sui tetti, sulle gru, spremersi il cervello per trovare il modo di essere visti, per avere almeno per un momento l’attenzione dei media?Si fa fatica a ricordare perfino quello striptease alla Full Monty

di operai Alcoa che inaugurò il carnevale di Venezia del 2009. Eppure ce l’avevano messa tutta a ballare uno spogliarello con tanto di slip e di elmetti da metalmeccanico. Il problema nostro è che c’è una distrazione invincibile che tutti ci coglie davanti a quello che è il dramma più serio e più terribile del-l’Italia di oggi: l’assenza del lavoro. Si pensi a come sia normale fare proiezioni pre-elettorali senza interrogarsi più che tanto sul numero nero dei non partecipanti al gioco: che non è il frutto dell’antipolitica, quella parola che è solo la sigla della nostra ignoranza, l’hic sunt leones dellemappe del presente. È la semplice, inevitabile trascrizione nel funzionamento di una moderna democrazia della divisione del nostro tempo tra chi attraverso il lavoro esercita la sua cittadinanza e chi resta prigioniero del nulla e non può, semplicemente non può nutrire interesse per l’agitarsi e il gridare dei fantasmi politici sullo schermo di casa.

Statistiche continuamente aggiornate ci dicono che una parte crescente della società italiana non ha mai vissuto l’esperienza del lavoro. Eppure è quello il momento fondamentale della crescita civile, quando si apre la porta di casa e si entra nella società perché lì c’è qualcosa che ti viene chiesto di fare. Per chi il lavoro lo ha avuto e lo perde, è anche peggio: è il taglio del cordone ombelicale che unisce un individuo agli altri, la sentenza capitale su tutto il tempo che sarà la sua vita. La generazione anziana, quella

che ha avuto il lavoro e magari anche la pensione, non può capire sul serio quello che sta accadendo: non ne ha i parametri. Lo si vede dalle parole che girano tra quelli che governano: “bamboccioni”, “cittadini a metà”, “generazione spazzata via”, spazzatura umana, prodotti fallati della fabbrica umana. Ed è dubbio che lo capiscano i poteri politici ed economici, dove la recessione è vissuta col fatalismo con cui si reagisce a un terremoto o a un uragano. Basta leggere le cronache del convegno “Jobs for Europe” in corso a Bruxelles. Lì ha parlato anche il nostro ministro Elsa Fornero, la responsabile della riforma del lavoro che è diventata legge, l’autrice di quella frase che è apparsa molto irritante ma che ha avuto il merito di adeguare il linguaggio alla realtà che viviamo. Ma non è facile parlare la nuova lingua. Qualcuno ha provato ad aggiornare la solenne frase della Costituzione sostituendola con quest’altra: “Il lavoro è un bene comune”. Ma non funziona. In un tempo come il nostro si fa fatica a difendere la proprietà comune dell’aria e dell’acqua, figuriamoci il lavoro. E comunque l’aria che si respira a Taranto, quella che si è respirata all’Eternit di Casale Monferrato, quella delle miniere sarde è una maledizione, non un bene. Forse era questo che intendeva Elsa Fornero quando aveva detto: «Noi stiamo cercando di proteggere gli individui non i loro posti di lavoro».

Eppure, la sua stessa, molto discussa, riforma ha mostrato che qualcosa si può cambiare: per esempio, è stata disarmata la ferocia sociale di quella legge che col licenziamento trasformava l’immigrato in clandestino: l’aveva varata colui che il presidente del Consiglio Monti suole definire pudicamente «il mio predecessore». E al convegno di Bruxelles la ministra ha detto che è l’ora di prestare attenzione alle politiche di sostegno dell’economia reale piuttosto che insistere sul rigore (nel gioco delle parti ora tocca al ministro Passera pedalare se vuol guadagnarsi un altro giro di bicicletta col futuro governo).

Vedremo se da Bruxelles verranno solo parole o se ne riceveremo qualche idea non preconcetta, liberatoria. Per ora, siamo in guerra, per dirla col presidente del Consiglio Monti: ma è una guerra che non possiamo vincere. Sono in conflitto alternative disperate. Una volta il canto dei lavoratori diceva: “O vivremo di lavoro o pugnando si morrà”. Oggi l’alternativa è morire di tumore o morire di fame. Il sistema in cui viviamo produce lavoro al prezzo di un’aggressione spaventosa alla natura. E il sistema finanziario prosegue tranquillamente un accumulo di profitti che crea ricchezze megaga-lattiche e povertà disumane, scommette sulla sussistenza quotidiana di popoli interi, punta sul fallimento della Grecia, sulla trasformazione

dell’Europa in un club per pochi dove si potrà fare a meno delle culture che l’Europa l’hanno creata – quella greca, quella latina. Tutto questo viene vissuto come un decreto immutabile di una scienza economica impassibile, scritta sul bronzo delle porte dell’eternità. Pazienza dunque. L’operaio dell’Alcoa si rassegni: “It’s the economy, stupid!”.

E tuttavia c’è un pensiero inquietante che si affaccia nella mente degli anziani: come fu possibile che al termine della Seconda guerra mondiale un’Europa fatta di paesi distrutti, gravati da debiti mostruosi, dove vincitori e vinti erano ridotti tutti al lumicino, poté ripartire in un grandioso, esaltante processo di ricostruzione che in un decennio appena creò lavoro e condizioni di vita quali non si erano mai viste prima? Perché allora fu possibile cancellare i debiti ai debitori e mobilitare ingenti risorse? Ce lo ricordava di recente un teologo, Franz Hinkelammert, osservando che anche oggi l’indebitamento di certi paesi europei ha raggiunto un livello tale da risultare impagabile. Ma, aggiungeva, «questo è proprio quello che vogliono le banche. I paesi indebitati possono così venire saccheggiati senza la minima possibilità di difendersi». Ci chiediamo allora se e quando verrà il giorno in cui la politica cesserà di essere l’ancella dell’economia finanziaria e riprenderà la sua funzione antica, quella di arte del possibile.

A proposito del lavoro vedi in questo sito Il lavoro su eddyburg

La Bulgaria ha reso noto di non avere interesse all'ingresso nell'Unione Europea fino a che questa non avrà risolto i suoi problemi. Questa dichiarazione misura quanto il sogno di un'Europa unita, promosso dai suoi padri fondatori e condiviso da milioni di cittadini, sia stato tradito.

Non che le politiche della Comunità, poi Unione, Europea siano mai state tali da accendere l'entusiasmo dei suoi cittadini; ma la crisi scoppiata nel 2008, che ha visto le politiche europee ridursi a una corsa affannosa prima per salvare le banche responsabili del dissesto, e poi per «rassicurare» i cosiddetti mercati, cioè gli speculatori che ingrassano sui debiti pubblici dei paesi membri, ha portato le istituzioni dell'Unione a una resa dei conti. Mentre i governi si trastullano con gli spread in una serie di riunioni inconcludenti che ne evidenziano incapacità e impotenza, ma sostanzialmente la resa ai poteri della finanza internazionale, la coesione sociale della compagine europea - di cui l'economia non è che una manifestazione, e neanche la principale - ha ormai imboccato la strada della dissoluzione.

Di questo disastro che coinvolge un intero continente (e con esso il resto del mondo), e delle scelte che l'hanno provocato, l'Italia è senza dubbio l'espressione più compiuta: l'inconsistenza dei suoi governanti, si tratti di «tecnici», di politici o di clown, è lo specchio (certo deformante) di una mancanza di prospettive e di una miseria intellettuale che accomuna tutto l'establisment europeo; e non a caso, ma per la sua subordinazione senza alternative ai poteri della finanza. Che cosa sarà dell'Europa - e che cosa sarà del mondo - domani, tra dieci anni, tra venti, a metà del secolo? Nessuno di loro sa rispondere (ci mancherebbe...). Ma nemmeno si pone il problema.

La Grecia è certo più avanti di noi lungo il sentiero dello sfascio sociale e politico, ma l'Italia la sta seguendo a ruota. Il pareggio di bilancio e il fiscal compact segnano il cammino lungo un itinerario già tracciato e destinato a travolgere uno dietro l'altro tutti gli altri membri della compagine europea. D'altronde neanche la Germania, che sembra attendere sulla riva del fiume il cadavere degli altri «Stati membri» dell'Unione, sta più tanto bene.

All'intervento pubblico che in Italia, ma non solo, ha avuto nell'industria di Stato uno dei suoi strumenti principali, viene oggi imputato, sulla base dei canoni dell'ideologia liberista, lo stallo in cui è incorso lo sviluppo del «miracolo economico». Senza prendere mai in considerazione l'ipotesi che quello stallo, che ormai riguarda in misura maggiore o minore tutto il pianeta, comprese le economie «emergenti» che si sono lanciate all'inseguimento di quel modello portandolo al parossismo, sia invece riconducibile a problemi di tutt'altro genere: l'insostenibilità sociale e ambientale e la saturazione dei mercati dei beni inutili.

No, ci viene detto ora. La causa di quello stallo e dei disastri che l'accompagnano è l'intrusione di una classe politica squalificata dentro i meccanismi dell'economia, senza ricordare che quella classe politica ha avuto per più di mezzo secolo, e fino a ieri, il sostegno di tutta l'imprenditoria italiana, delle sue associazioni e dei media che l'hanno difesa in tutti i modi. Così, invece di adoperarsi per rinnovarla, il rimedio che la cultura e la pratica liberiste hanno trovato ai guai veri o presunti creati dall'intervento pubblico è stata la privatizzazione di tutto il possibile - in base all'assunto che privato è efficienza e pubblico è spreco, e che il compito del governo è bastonare i lavoratori, mentre produzione e sviluppo sono affare delle imprese - cercando di far dimenticare che a beneficiare di un intervento pubblico oneroso, devastante e arbitrario erano stati, e da sempre, non i lavoratori ai cui «privilegi» viene oggi imputato la crisi delle finanze statali, ma i grandi profittatori di quegli anni: i Moratti, i Rovelli, gli Onorato, gli Orlando; della Fiat che si è fatta costruire o cedere a spese dello Stato buona parte degli stabilimenti che ora abbandona.

Oggi possiamo toccare con mano i risultati della cura delle privatizzazioni adottata con la «svolta» degli anni '80: i disastri dell'Ilva, dell'Alcoa, della Lucchini Sevestal, la scomparsa dell'Alfaromeo in mano alla Fiat, le autostrade in mano ai Benetton, le malversazioni dell'Eni in mano ai Ferruzzi, la sclerosi di Telecom, per non parlare dei rifiuti campani gestiti da Impregilo o dell'importazione e distribuzione di gas in mano agli eredi Ciancimino; e ancora, le Banche di interesse nazionale, accorpate, imbolsite e consegnate a una gestione «imprenditoriale» che, se venisse sottoposta a un autentico stress test, si ritroverebbe - come si ritroverà - nella stessa situazione di quelle spagnole: ripiena di crediti inesigibili dai grandi capitani dell'edilizia privata. Tutto ciò prova non solo che l'industria, le infrastrutture e le stesse funzioni dello Stato sono state svendute - per non dire regalate - ai privati; dimostra anche che la gestione privata è intervenuta solo per spremere fino all'osso quanto era ancora possibile ricavare da quei regali di Stato, per poi abbandonarli al loro destino; forse in attesa che lo Stato intervenga di nuovo, magari mobilitando la Cassa depositi e prestiti, come già sta facendo a favore dei «piani di sviluppo» del Ministro Passera.

Non basta. Oggi abbiamo un governo di «tecnici» in gran parte prelevati da quella Università che ha usato la cooptazione senza verifiche (leggi parentopoli) per soffocare le spinte innovatrici del '68. Così abbiamo un ministro del lavoro che non sa quel che dice e quel che fa, emulo, per competenza, della Prestigiacomo; un ministro dell'istruzione che si trova a suo agio sula scia della Gelmini; un ministro della salute che si occupa delle bollicine invece che dei tumori provocati dall'Ilva. E un primo ministro che non sa che cos'è l'ambiente e che si autonomina «garante» del disastro europeo, dopo aver «garantito» mesi fa i risultati dei suoi provvedimenti (ricordiamo i "numeri" che aveva dato: Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18...); e dopo aver confermato - tra i tanti bluff - il Tav Torino-Lione contro il parere di 360 tecnici, loro sì autentici. Per non parlare di quelli che non sono neppure professori, come Passera, che nell'ignoranza dei problemi del contesto in cui opera non è secondo a nessuno. Più tutti quelli assurti a un Ministero o a un Sottosegretariato - e non sono pochi - per ragioni di famiglia o di conoscenze (alcuni dei quali sono già stati presi con le mani nel sacco). Eccoli i veri «bamboccioni» di cui tanto si parla (altro che quelli costretti a vivere «in famiglia» perché senza lavoro e senza soldi per pagare un affitto): uomini e donne in carriera grazie alla loro adesione al liberismo. Che poi, alla prova dei fatti, fanno solo disastri: tra gli applausi della stampa e dei media di regime, trasformati in altrettante Pravde.

Ma se il «pubblico» non funziona e il privato neppure, che cosa bisogna fare? Il vero problema dell'Italia e dell'Europa non sono gli spread, ma la necessità di un ricambio radicale delle classi dirigenti: in campo politico, in campo economico e imprenditoriale, in campo accademico e culturale. Occorre creare una classe dirigente capace e disposta ad affrontare il ciclo economico, dalla produzione al consumo e al riciclo, come un bene comune; per recuperare un rapporto di reciproca fiducia con i governati che l'attuale establishment ha irrimediabilmente perduto.

Certo, non è un programma di breve periodo (nel frattempo, di fronte alle urgenze del momento, bisognerebbe che due «colossi» come Italia e Spagna, seguiti da molti altri, rinviassero le scadenze di rimborso del loro debito per costringere tutti, Merkel in testa, a correre in qualche modo ai ripari). Ma è un programma che ha la sua premessa nella mobilitazione e nelle lotte dei cittadini e dei lavoratori, il 99 per cento, colpiti dalle misure «imposte dall'Europa»; che certo già oggi non mancano, e non mancheranno domani. Ma che può trovare la strada di una sua affermazione soltanto nella creazione di nuovi istituti di democrazia partecipata, di valorizzazione dei saperi oggi misconosciuti da chi governa e da chi impiega il lavoro altrui, di conversione delle politiche industriali, orientandole verso prodotti e produzioni sostenibili, di rinnovamento della cultura, per riabilitare la solidarietà contro la competizione, la sobrietà contro lo spreco, il rispetto della natura e degli altri contro l'aggressione e il razzismo imperanti.

I fischi alla Fiom non sono un dramma: fa parte del ruolo dei sindacalisti. E Landini ha avuto coraggio Il comitato può svolgere un ruolo fondamentale per non lasciare il risanamento nelle mani degli inquinatori L'Ilva (già Italsider) di Taranto inquina e uccide da cinquant'anni la città e i suoi abitanti, insieme a diversi altri impianti che ne occupano il territorio.

Tuttavia, nonostante numerosi tentativi, in corso da anni, di portare la situazione all'attenzione dell'opinione pubblica, Taranto è diventata un caso nazionale solo ora: innanzitutto per l'impegno di un magistrato coraggioso che ha scelto di obbedire alla legge e non ai padroni della città; ma soprattutto per l'iniziativa del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, che ha rotto la cappa di omertà nei confronti delle malefatte dell'azienda che le forze politiche - e gran parte di quelle sindacali - avevano steso da anni sulla fabbrica e sulla città: in uno stile sovietico che calza a pennello a un territorio cui è stato assegnato il destino di città dell'acciaio; e null'altro. Cittadini e lavoratori liberi e pensanti è un bellissimo nome: una risposta anticipata all'establishment politico e massmediatico locale e nazionale, che da un mese a questa parte cerca di contrapporre i cittadini ai lavoratori, sostenendo che i primi, in nome della salute e dell'ambiente, vorrebbero la morte della fabbrica; e che i secondi, in nome del lavoro e del salario, sono disposti a condannare a morte mogli, figli e parenti, oltre che se stessi. E questo nonostante nella maggior parte dei casi cittadino e lavoratore coincidano nella stessa persona. Se il comitato saprà continuare a respingere con il coraggio e l'intelligenza di cui ha dato prova finora questo tentativo di divisione e di falsa contrapposizione, presto, in questo autunno che si prospetta rovente, le bandiere con l'apecar (il traballante veicolo con cui è stato interrotto il comizio sindacale del 2 agosto e che è diventato il simbolo del movimento) si affiancheranno a quelle del movimento No Tav, che da tempo compaiono in tutte le manifestazioni nazionali; e la vicenda di Taranto diventerà uno spartiacque per gli schieramenti politici e sociali nazionali come lo è da tempo la vicenda della Valle di Susa.

Apparentemente è stato il segretario della Fiom, il sindacato che si è schierato fin dall'inizio a fianco della Valle di Susa, a fare le spese dell'irruzione in piazza dei cittadini e dei lavoratori liberi e pensanti con il loro apecar. Ma questa in parte è stata una mera coincidenza temporale, perché l'irruzione era innanzitutto diretta contro Bonanni, che se l'è data a gambe insieme ad Angeletti e Susanna Camusso appena il corteo del comitato è entrato in piazza, mentre Landini ha deciso di restare. In parte la cosa non va drammatizzata. I fischi ai sindacalisti ci sono sempre stati: fa parte del loro ruolo, spesso difficile, quasi sempre delicato e raramente appagante; specie quando sono in gioco questioni dirimenti. Durante l'autunno caldo e le lotte successive di quarant'anni fa, Trentin, Carniti e Benvenuto di fischi ne avevano presi a iosa, per non parlare di Rinaldo Scheda ed altri, pochi anni dopo (il caso di Lama cacciato dall'Università è diverso: lui se l'era andata a cercare).

In parte bisogna dire che la Fiom, che giustamente si è dissociata dagli scioperi contro il giudice Todisco, negli anni passati aveva fatto veramente troppo poco per differenziarsi dai sindacati padronali Fim e Uilm, che a Taranto governano letteralmente il personale dell'Ilva per conto della famiglia Riva. Se il comitato saprà corrispondere alle speranze che i cittadini di Taranto stanno riponendo nella sua azione, presto per molte di quelle organizzazioni si arriverà a una resa dei conti; e la Fiom potrebbe ritrovarsi, come già succede da oltre due anni alla Fiat e nella contrattazione nazionale, dalla parte opposta a quella, sempre più padronale, in cui si sono posizionate le altre organizzazioni sindacali. E questo in un contesto locale e nazionale rovente, in cui difendere le ragioni del padrone sarà sempre più difficile. Il problema è dunque «che fare?» per mantenere la rotta. Una risposta esauriente per ora non ce l'ha, e probabilmente non ce la può avere, nessuno. L'importante è cominciare a mettere in chiaro le poche certezze e i molti interrogativi da cui quella risposta dipende.

La prima certezza è questa: la vita non si contratta. Di fronte alla prova documentaria che l'Ilva-Italsider ha distrutto e continua a distruggere la vita di migliaia di lavoratori e di cittadini - e quella dei loro figli - qualsiasi altra considerazione deve passare in secondo piano.

La seconda è che non bisogna più mentire sulla reale portata del disastro in corso (o nascondere le cose, il che è lo stesso), come sempre ha permesso che si facesse l'attuale ministro Clini, già direttore generale e vero dominus di un ministero dell'Ambiente affidato, da dodici anni, a personaggi incompetenti, ridicoli e arraffoni. O il neopresidente Ferrante, uomo per tutte le stagioni, approdato a difendere le ragioni dell'Ilva dopo aver fatto lo stesso per conto dell'Impregilo, nel tentativo di liberarla dalle responsabilità per i disastri compiuti con i rifiuti in Campania e con il Tav in Casentino e sulla Torino-Milano (e in attesa di quelli sulla Torino-Lione). O il sindaco Stefàno, portato al governo della città da una autentica rivoluzione degli schieramenti politici, e grazie anche alle cure personalmente prodigate ai bambini di Taranto (è un pediatra), senza che questo lo abbia mai spinto a dire una sola parola contro la causa di tanti malanni e di tanti decessi.

Ma non bisogna neanche mentire a se stessi. Chiunque dia per scontato, come è stato fatto da tutti o quasi finora, che la salvaguardia della salute e dell'ambiente a Taranto è compatibile con la continuità della produzione dell'Ilva, senza una verifica della fattibilità tecnica ed economica delle misure prescritte dai giudici e dai periti per mettere in sicurezza l'impianto e di quelle per bonificare il sito e tutto il territorio, cerca di ingannare innanzitutto se stesso. L'Ilva è un impianto vecchio e obsoleto, che i Riva, consapevoli che non aveva davanti a sé molti anni di vita, avevano deciso di sfruttare fino a esaurimento, investendo solo lo stretto necessario per tenerlo in funzione.

Può essere quindi che le prescrizioni di giudici e periti per rimetterlo a norma abbiano costi ingiustificabili a fronte dalla vita residua dell'impianto; o che richiedano di fatto il suo rifacimento ex novo - il che porrebbe il problema della convenienza e dell'opportunità di rifarlo proprio lì - dovendosi poi anche verificare l'effettiva possibilità di imporre alla proprietà i costi astronomici del risanamento di sito e impianto. Facile dunque che qualcuno - anzi, molti - cerchino fin da ora di cambiare le carte in tavola, nascondendo una parte dei costi, riducendo la portata degli interventi, per poi far sì che le cose continuino più o meno come prima, con un po' di belletto. A un gioco del genere, d'ora innanzi, non si deve più prestare nessuno.

La terza considerazione è che all'interno dello stabilimento e nella città sono stati compiuti per anni - consapevolmente, come rimarca il giudice - dei reati gravissimi, assimilabili a quello di strage; e non solo in campo ambientale e sanitario. Questi sono stati resi possibili da un regime di fabbrica dispotico e illegale - quello che l'abolizione dell'art. 18 renderà ordinario in migliaia di altri stabilimenti, anche grazie a una sostanziale cooptazione nella gestione di quel regime delle organizzazioni sindacali, o di una parte consistente di esse, oltre che di partiti, Enti locali, Diocesi, Università, ecc. Basti pensare che in fabbrica - oltre all'istituzione di un reparto confino, il Laf, già sanzionato dalla magistratura e per questo soppresso e sostituito con altri sistemi di persecuzione dei lavoratori non acquiescenti - sono all'opera, a fianco della gerarchia ufficiale, numerose figure che gli operai chiamano «i rappresentanti di Riva»: che non sono dipendenti dell'azienda, ma che di fatto comandano: sono loro a ingiungere comportamenti da cui dipende buona parte delle emissioni nocive dello stabilimento, nella certezza che, non figurando nell'organico dell'azienda, a una loro responsabilità non si potrà mai risalire; e al massimo questa ricadrà sugli operai a cui hanno dato quegli ordini.

La quarta considerazione è questa: anche se con la privatizzazione il clima di fabbrica è ulteriormente peggiorato, l'inquinamento selvaggio della città ad opera dello stabilimento siderurgico è stato realizzato, nell'impunità più assoluta, fin dall'inizio; anzi, fin dalla decisione di collocare uno stabilimento del genere a ridosso di una città di 200mila abitanti; quando ancora l'Italsider era di Stato. Il che dimostra che di per sé la proprietà pubblica o privata di uno stabilimento non fa la differenza che conta (anche se per molte produzioni e, sicuramente, quando sono in gioco grandi dimensioni, la prima è decisamente preferibile). La differenza la può fare soltanto un controllo dal basso, effettivo e consapevole, ad opera dei lavoratori e dei cittadini coinvolti nel processo lavorativo o nei suoi impatti ambientali e sociali. Che è appunto quanto si ripropone il comitato: ciò che può segnare l'inizio di una svolta teorica e pratica nelle dinamiche politiche dei prossimi anni. Per questo Taranto deve restare un caso di portata nazionale.

La quinta considerazione è che l'acciaio è un materiale indispensabile. In una prospettiva di progressiva riterritorializzazione delle produzioni, che è l'unica forma praticabile di contrasto agli effetti della globalizzazione liberista, sarebbe sbagliato in linea di principio delegare ai paesi emergenti o a quelli del terzo e del quarto mondo le produzioni che hanno impatti pesanti sul territorio, in nome di una visione bucolica dello sviluppo - o della decrescita - fatta solo di una sacrosanta valorizzazione dei beni ambientali, dei beni culturali, delle opere dell'ingegno e delle produzioni soft (di agricoltura, purtroppo, a Taranto, non si parlerà più per anni).

Questo non significa accettare lo stato di cose esistente - e meno che mai i progetti devastanti del ministro Passera - ma mettere lo sviluppo tecnologico al servizio non del profitto, non del gigantismo industriale, ma di una graduale e progressiva conciliazione tra produzioni e ambiente: innanzitutto ridimensionando, ovunque possibile, il gigantismo delle prime, causa prioritaria di impatti ambientali insostenibili.

Che la produzione dell'Ilva di Taranto, se si verificheranno le condizioni per la sua continuazione, vada comunque progressivamente ridimensionata, fino allo spegnimento finale dell'impianto (come peraltro devono aver messo in conto anche i Riva, visto il modo in cui lo hanno gestito finora) non può essere messo in discussione. Ma certamente una soluzione del genere, che permetterebbe di affiancare a una produzione ridimensionata le attività e l'occupazione necessarie alla bonifica del sito e del territorio e una politica di creazione, scaglionata nel tempo, di nuove opportunità occupazionali nel campo delle produzioni sostenibili (energie, efficienza, mobilità, eco-edilizia, ecc.) è senz'altro preferibile alla chiusura immediata e definitiva dell'impianto. Perché questa lascerebbe senza lavoro e senza prospettive di reimpiego quasi ventimila lavoratori, e un sito inquinato e abbandonato alla cui bonifica nessuno avrebbe più alcun interesse né possibilità di controllo. Ce lo insegnano le vicende di tante aree dismesse, come Crotone o Bagnoli (dove pure, in quest'ultimo caso, il valore dei suoli ha scatenato una corsa all'accaparramento).

Che fare allora? Il comitato deve mettersi in grado di definire, promuovere, rivendicare e seguire direttamente questi processi, diventando il punto di riferimento di tutti coloro che intendono lavorare a una autentica conversione ecologica, che faccia i conti con i vincoli imposti dallo stato di cose esistente. Facendosi innanzitutto garante della verità sulle cose che possono e che non possono essere fatte. Per questo a Taranto ho proposto di lanciare a livello nazionale un manifesto che metta in luce la centralità dei problemi dell'Ilva e della città e che chiami tutte le persone di buona volontà che hanno competenze in materia a partecipare e contribuire con le loro conoscenze al sostegno del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti; per non lasciare il processo di risanamento o di riconversione dello stabilimento nelle mani di chi fino a oggi ha lavorato all'occultamento della verità su questa autentica tragedia nazionale, spartendosi qualche briciola degli ingenti guadagni ricavati dalle disgrazie di un'intera popolazione.

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