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. il manifesto, 6 novembre 2012. In calce un'intervista a Giraudo

Un'operazione «complicata ma necessaria, che deve essere messa in campo subito», prima che l'elettore progressivo, sfinito o imbufalito, si rassegni a scegliere tra «Monti e Monti, cioè tra i tecnocratici puri e i partiti che vorrebbero sostituire i tecnici senza segnare una netta discontinuità con la loro agenda, come propone la carta d'intenti della coalizione Pd-Sel-Psi; o votare il Movimento 5 stelle; o ritirarsi nell'astensione».

Di liste arancioni si parla da mesi. Ma, stavolta - giurano gli organizzatori - si parte sul serio. Ieri è stato presentato l'appello «Cambiare si può! Noi ci stiamo», promotori e primi firmatari i sociologi Luciano Gallino e Marco Revelli, e l'ex magistrato Livio Pepino (ora a capo delle Edizioni Abele di don Ciotti). Seguiti da una distesa di nomi dell'associazionismo (come don Marcello Cozzi, vicepresidente di Libera), intellettuali e giuristi (Paul Ginsborg, Tonino Perna, Alberto Lucarelli, Ugo Mattei), amministratori (anche della Val Susa), artisti e scrittori (Moni Ovadia, Massimo Carlotto, Sabina Guzzanti, Gianmaria Testa), delegati sindacali (come Antonio Di Luca, uno dei lavoratori di Pomigliano discriminati da Marchionne), giornalisti (Oliviero Beha, Gabriele Polo), e don Gallo, Haidi Giuliani, Riccardo Petrella, Guido Viale.

Stavolta, giurano, non è solo di un appello: è una concretissima «campagna» che porterà, un passo alla volta ma ormai di corsa, ad un'iniziativa il primo dicembre, dopo le primarie ma - non a caso - prima del ballottaggio: come per dire che ci sarà una «presenza arancione» nel 2013 chiunque vinca ai gazebo, qualunque legge elettorale venga apparecchiata. Che pure non è variabile irrilevante ai fini dell'organizzazione e quindi del rapporto - lista o coalizione - con i partiti come Prc e Idv. Intanto «i fatti richiedono un'iniziativa politica nuova e intransigente», dice l'appello (lo pubblichiamo per esteso a pag.14), «per non restare muti» e «rompere con la logica paralizzante delle compatibilità», «non la raccolta dei cocci di esperienze fallite, dei vecchi ceti politici, delle sigle di partito, della protesta populista» e che porti «alla costituzione di un polo alternativo agli attuali schieramenti, con uno sbocco immediato anche a livello elettorale» che convochi le migliaia di persone mobilitate «dalla pace ai referendum, movimenti, associazioni, singoli, amministratori di piccole e grandi città, lavoratrici e lavoratori, precari, disoccupati, studenti, insegnanti, intellettuali, pensionati, migranti in un progetto di rinnovamento». Parte delle firme provengono da Alba (alleanza lavoro benicomuni ambiente), ma stavolta «siamo ancora più ambiziosi», spiega Pepino: c'è un mondo che si sgretola e noi vogliamo far partire una palla di neve». Per far partire la valanga, sottinteso. Arriveranno nuove «pesanti» adesioni. Si guarda naturalmente anche a De Magistris, che intanto ieri ha battuto non uno ma molti colpi, intervistato un po' ovunque. Ha annunciato per dicembre il lancio di un «movimento arancione» che a tutta l'aria di convergere con l'appello dei 70 - sull'Huffington Post ha ipotizzato il nome «Partigiani» - per «mettere insieme quello che i partiti contro il sistema e quello che coloro che stanno fuori dai partiti hanno fatto di buono in questi anni». Forse ci sarà anche Di Pietro, a cui ha espresso solidarietà umana. E se ci fossero anche Landini e Ingroia «sarebbe da stappare una bottiglia di champagne». d.d.

«Ma per farcela servono i numeri»

INTERVISTA A GIORGIO AIRAUDO, FIOM
«Io in lista? Non farò mai una scelta personale. Primarie? Si parla poco di lavoro, ma forse voterò. Anche lì si fa battaglia, voteranno molti lavoratori». Giorgio Airaudo, responsabile auto della Fiom, è la tuta blu più corteggiata dai partiti e dai movimenti della sinistra. m«Nell'appello dei 70 c'è un'analisi che condivido. Dovessi dettagliarla io direi che si stanno determinando tre grandi comportamenti: da una parte la ritirata dalla partecipazione, l'astensione o il rifiuto del voto; dall'altra, fra chi va alle urne, un voto su una proposta che raccoglie una protesta, quella delle 5 stelle, non liquidabile come populismo, e il tentativo, attraverso le primarie, di riattivare un percorso di partecipazione più tradizionale».
Ma lei non crede che ci sia bisogno di una proposta elettorale fra Grillo e il centrosinistra?
Condivido tutte le domande di quel documento, ed è un bene che ci sia chi continua a porle. Ma si continua a sfuggire dalla capacità di realizzare un rapporto di forza capace di essere credibile nel cambiamento.
È un problema di concretezza?
Il movimento 5 stelle in questa fase dilaga anche perché i numeri rendono possibile quell'idea. Tant'è che ancora in questi giorni tutti si esercitano sull' improbabile alleanza fra loro e noi. Veniamo tirati per la giacca da una parte e dall'altra: perché siamo parte di quelli che hanno provato a produrre movimento in una fase difficile. Chi ci vuole dentro il campo delle primarie, chi ci vuole radicali fino a improbabili rapporti con Grillo. Inutile, non siamo un partito politico.
La tiro anch'io per la tuta. Quest'area dei 70 guarda anche a voi. Che farete?
La Fiom non può essere soggetto di nessuna iniziativa politica. Altra cosa sarebbe stata mettere dagli scorsi mesi il lavoro al centro del discorso politico, con qualcuno dei suoi protagonisti, e costruire un'alleanza. Ma questo non c'è stato. Abbiamo perso l'occasione di avere un Lula italiano. Certo comportava dei rischi. Ci accusano di fare politica, ed è il contrario: siamo noi ad aver bisogno che la politica faccia delle scelte, per esempio quella di non lasciare soli i lavoratori.
Landini, che poteva essere il 'Lula italiano' ha scelto diversamente. E attualmente non vede da nessuna parte uno schieramento costruito intorno al lavoro?
No, c'è un lungo cammino. Anche perché siamo in una fase storica in cui è possibile sostenere che se si reintegra per discriminazione 19 lavoratori se ne possono licenziare altri 19. C'è indignazione, ma non produce cambiamento. Negli ultimi due anni è stato spiegato che i lavoratori potevano difendersi il lavoro solo se rinunciavano ai diritti.
Anche Bonanni, della Cisl, chiede il ritiro di quei licenziamenti.
C'è un limite, una linea della morte, i licenziamenti per rappresaglia. Se un sindacalista lo supera non è più un sindacalista. Non sono stupito che abbia chiesto il ritiro, ma che si sia fatto portare su questa linea.
Diceva che non c'è un'ipotesi politica costruita intorno al lavoro.
Un'ipotesi che avrei caldeggiato, e che indirettamente gli uomini e le donne della Fiom potevano proporre.
In Sicilia c'era una candidata Fiom. Non è andata bene.
L'ex segretaria regionale Fiom ha generosamente supplito a un errore clamoroso di gestione di una candidatura. E non si può governare una regione, e neanche una pro loco, se non si è in grado di presentare una candidatura. Giovanna Marano va solo e sempre ringraziata: ha ha riparato un guaio, con generosità, tappato un buco.
L'appello dei 70 si rivolge a un campo di sinistra in trasformazione. L'Idv poteva essere una parte di un'area arancione, o di una Syriza all'italiana, ma ora naviga in cattive acque. Lei è stato tentato dall'Idv?
Andiamo con ordine. Quando si fa l'esempio della greca Syriza bisogna sapere che è solo una suggestione: è tutt'altro che un movimento spontaneo. Qua in Italia criticheremmo la loro forma partito pesante, e da noi il parallelo non esiste. Quanto all'Idv, la nostra storia, quella dei metalmeccanici, è una storia collettiva, non individuale. Nessuno di noi da solo può risolvere il tema della rappresentanza politica del lavoro. E chiunque pensasse di farlo mettendo il «barboncino» della Fiom in salotto, se lo scordi. Rappresentare il lavoro richiede coerenza, reinsediamento sociale e rappresentatività diretta dei soggetti, ovvero più lavoratori e meno sindacalisti in politica. La storia di uno è sempre possibile, ma non è la nostra storia. La nostra è una storia collettiva: a me, Giorgio Aiuraudo, interesserebbe solo così. E faccio fatica anche a immaginare che la Fiom sia da una parte sola. Abbiamo militanti e delelgati iscritti al Pd, alla Federazione, alle 5 stelle, a Sel.
De Magistris propone liste arancioni con 'magistrati, operai e studenti'. Interessa?
È un quarto stato curioso. Pellizza da Volpedo i magistrati non li avrebbe mai messi.
Forse perché all'epoca non c'era Ingroia.
De Magistris è un sindaco di una città importantissima, che ha cercato di non lasciare soli i lavratori. E' giusto che chi è nel campo della politica proponga forme di coalizione. Ma resta a il tema della possibilità di incidere.
Per finire il giro, lei è stato da poco a Mirafiori con Vendola. Un avvicinamento?
Noi metalmeccanici abbiamo una pratica solidale e la manteniamo nei rapporti politici. Sentiamo un debito con tutti quelli che non ci hanno lasciati soli davanti ai cancelli di Pomigliano, Melfi e Mirafiori. Noi non dimentichiamo: Vendola, Di Pietro, Ferrero, c'erano. Per quanto le primarie mi sembrino simili a un congresso del Pd, possono essere utilizzate per cambiare l'agenda sui temi del lavoro. Vanno utilizzate, con laicità . Riguarderanno qualche milione di cittadini, tra cui tanti lavoratori. E so già che a Renzi andava bene Marchionne 'senza se e senza ma'.
La questione operaia è dentro le primarie?

Per ora non molto. La proposta di Vendola di riaccompagnare i lavoratori reintegrati a Pomigliano, è caduta nel vuoto, tranne il sì di Puppato. Se le primarie non si misurano sul lavoro non c'è nessuna possibilità di cambiare né l'agenda di Monti né quella europea.

Voterà alle primarie?

Penso di sì.
Se Vendola le chiedesse di stare nella sua lista?

Non mi piacciono le ipocrisie: un'ipotesi così ad oggi non c'è. Quel che è certo è che ne discuterei con i miei compagni della Fiom.

. Basta pensare al lavoro come a un bene e non una merce, e cominciare a tirarne le conseguenze. La Repubblica, 3 novembre 2012

MENTRE le cifre della disoccupazione sono sempre più drammatiche, il governo non pare avere alcuna idea per creare d’urgenza un congruo numero di posti di lavoro. I rimedi proposti alla spicciolata, dalla riduzione del cuneo fiscale alle facilitazioni per creare nuove imprese, dagli sgravi di imposta per chi assume giovani alla semplificazione delle procedure per l’avvio di cantieri e grandi opere, non sfiorano nemmeno il problema.

Per di più il governo sembra sottovalutare la gravità della situazione. La disoccupazione di massa rappresenta tutt’insieme un’enorme perdita economica, uno scandalo intollerabile dal punto di vista umano, e un minaccioso rischio politico. Sotto il profilo economico, quasi tre milioni di disoccupati comportano una riduzione del Pil potenziale dell’ordine di 70-80 miliardi l’anno. Anche se ricevono un modesto reddito dal sussidio di disoccupazione o dai piani di mobilità, i disoccupati sono lavoratori costretti loro malgrado alla passività. Non producono ricchezza sia perché non lavorano, sia perché i mezzi di produzione, cioè gli impianti e le macchine che potrebbero usare, giacciono inutilizzati. Un’altra perdita economica deriva dal fatto che lunghi periodi di disoccupazione comportano che le capacità professionali si logorano e sono difficili da recuperare.
Dal punto di vista umano la disoccupazione di massa, insieme con la povertà che diffonde, è uno scandalo perché i loro effetti, come ha scritto Amartya Sen, scardinano e sovvertono la vita personale e sociale. Elementi fondamentali di questa, dall’indipendenza personale alla possibilità di accedere per sé e i figli a una vita migliore, dalla realizzazione di sé alla sicurezza socio-economica della famiglia, sono strettamente legati alla disponibilità di un lavoro stabile, dignitosamente retribuito. Quando esso viene a mancare, anche tali elementi crollano, e la persona, la famiglia, la comunità sono ferite nel profondo delle loro strutture portanti.
Quanto al rischio politico, qualcuno dovrebbe ricordarsi che uno dei fattori alla base dell’ascesa del fascismo e ancor più del nazismo è stata la disoccupazione di massa. E la capacità di ridurla mostrata da tali regimi dopo la crisi del ’29 è una delle ragioni del sostegno popolare di cui hanno goduto fino alla guerra che li ha abbattuti. Di certo oggi né l’uno né l’altro dei due regimi avrebbero la stessa faccia. Ma i sintomi di autoritarismo che affiorano in Europa, e i movimenti di estrema destra dagli alti tassi elettorali in almeno dieci Paesi, non sono da sottovalutare. Sperando che qualche movimento non cominci a promettere “ridurrò la disoccupazione a zero”. La promessa che fece e poi mantenne Hitler, fra il 1933 e il ’38.
Poiché le austere ricette dei tecnici finora hanno aggravato il tasso di disoccupazione anziché ridurlo, sarebbe ora di pensare a qualcosa di più efficace, e magari sperimentarlo. Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” (job guarantee,
JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito. Coloro che elaborano simili schemi sono economisti e giuristi americani, australiani, canadesi, argentini, indiani; i quali, diversamente dai nostri governanti di oggi e di ieri, sembrano tutti aver meditato sull’articolo 4 della nostra Costituzione, quello per cui “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”: non del lavoro, si noti, di cui tratta invece l’articolo 35. Il primo mai attuato, il secondo in via di estinzione nella legislazione e nelle relazioni industriali.
Uno schema di JG prevede che in via di principio esso sia accessibile a chiunque, essendo disoccupato, vuole lavorare ed è in grado di farlo. Di fatto sarebbe inevitabile, visti i numeri in gioco, dare la preferenza a qualche strato di persone in peggiori condizioni di altre, quali, per dire, i disoccupati di lunga durata. L’attuazione di uno schema di JG richiede un’agenzia centrale che stabilisce le regole di assunzione e i livelli di retribuzione, e gran numero di imprese (o centri di servizio o cooperative) a livello locale che assumono, al caso addestrano e impiegano direttamente i lavoratori, oppure li assegnano a imprese locali in progetti di immediata e rilevante utilità collettiva. Dando la preferenza a settori ad alta intensità di lavoro e bassa intensità di capitale, dai beni culturali ai servizi alla persona, dal recupero di edifici e centri storici alla ristrutturazione di scuole e ospedali. I centri locali trattano con le imprese le condizioni a cui esse possono impiegare i lavoratori del programma, dalla partecipazione ai costi del lavoro fino all’eventuale passaggio del dipendente dal pubblico al privato.
Trovare le risorse per finanziare simili schemi è una questione complicata, nondimeno vari studi attestano che non è impossibile risolverla. Prima però di trattare tale tema c’è una premessa inderogabile: deve manifestarsi la volontà politica di affrontare con nuovi mezzi la catastrofe disoccupazione. Chiedere a un governo neoliberale di esprimere una simile volontà è forse troppo, ma le crisi sono sia uno stimolo, sia una buona giustificazione per cambiare idee e politiche.
C’è una novità a livello europeo che dovrebbe indurre a discutere di simili schemi, e magari a sperimentarne qualcuno in singole regioni. Ai primi di settembre 2012 si è svolta a Bruxelles una conferenza internazionale sulle politiche del lavoro, organizzata dalla Commissione europea. Una sessione era dedicata a “La garanzia di un posto di lavoro – Concetto e realizzazione”. Hanno perfino invitato a parlare uno degli studiosi più noti e polemici in tema di JG, l’australiano Bill Mitchell. Posto che nei programmi di JG rivivono le teorie di Keynes in tema di politiche dell’occupazione, nonché la memoria del successo che gli interventi statali ebbero durante il New Deal rooseveltiano, aprire alla discussione di tali programmi uno dei templi della teologia neo-liberale, qual è la Commissione europea, è un segno che qualcosa sta cominciando a cambia-
re sul fronte ideologico delle politiche del lavoro.
Il documento base della sessione in parola formula varie domande: “Quali sono i maggiori ostacoli in Europa alla realizzazione di schemi di garanzia d’un posto di lavoro… volti ad affrontare la crisi della disoccupazione? Possono tali ostacoli venire superati? In quali aree potrebbero o dovrebbero essere sviluppati degli impieghi pubblici per disoccupati? Quanto tempo ci vorrebbe prima che a un disoccupato sia dato un lavoro nel settore pubblico?”. Sono domande a cui anche il nostro governo dovrebbe cercare di dare risposta, meglio se non soltanto in forma cartacea. Dopotutto, ce lo chiede l’Europa.

La Repubblica, 3 novembre 2012

NELLE società libere, la cultura è una funzione sociale, per così dire, democratica. Giustamente si dice che la cultura ha una funzione politica, ma questo vale in senso ampio, come servizio alla vita della pòlis,non nel senso stretto di “politica dei politici”. La cultura è una delle tre “funzioni sociali” sulle quali si reggono le nostre società: economia, politica e, per l’appunto, cultura.
Tutti i bisogni sociali sono ascrivibili a uno degli elementi di quella triade, elementi che, variamente configurati, intrecciati, coordinati o messi in gerarchia connotano il modo d’essere e di reggersi delle nostre società. La dottrina delle tre funzioni, che ha radici antichissime, deve tener conto degli odierni postulati della libertà e dell’uguaglianza. Libertà significa mobilità sociale, dunque la possibilità di passare da una funzione all’altra. L’uguaglianza, a sua volta, esclude che alle tre funzioni possano corrispondere categorie sociali separate, com’era invece nelle società antiche. Il cittadino è potenzialmente attivo nel campo economico, politico e culturale; può passare dall’uno all’altro, all’altro ancora, e può perfino svolgerne più d’una contemporaneamente.

La caduta delle barriere rigide, non esclude affatto, tuttavia, che ciascuna funzione mantenga il suo profilo differenziato; che chi si dedica e quando si dedica a una di esse, operando negli ambiti e nelle istituzioni corrispondenti, sia tenuto a un codice di comportamento specifico, vincolato ai dettami di una vocazione particolare. La confusione dei comportamenti determina situazioni percepite come improprie, inammissibili, corrotte. Le commistioni sono la spia della perdurante vitalità nella nostra coscienza civile di quell’antichissima visione tripartita delle funzioni sociali, in quanto non siano accettate ma siano squalificate come incompatibilità o conflitti d’interesse

agli effetti inquinanti. Non è forse questo uno dei temi politici dominanti nel nostro Paese, dove le connivenze tra finanza e politica, nel silenzio, nei balbettamenti o con la copertura e la connivenza della cultura, hanno avvelenato i pozzi da cui ciascuna di esse dovrebbe attingere le proprie specifiche, non contaminate, risorse?

La cultura, i suoi attori, i beni di cui essi dispongono, vivono, per così dire, assediati. La loro forza materiale è nulla, ma la forza spirituale può essere grande. Si comprende allora che le altre funzioni sociali, l’economia e la politica, la lusinghino per ottenerne i favori, la insidino. Dall’altra parte, poiché la cultura non produce né ricchezza né potere, si spiega la forza d’attrazione che economia e politica esercitano su chi opera nel campo della cultura. Qui, nascono i tradimenti.

C’è un’evidente asimmetria: le seduzioni sono a senso unico. Non si è mai visto che la cultura abbia seriamente tratto a sé uomini dell’economia e della politica, distraendoli dalla ricchezza e dal potere. Non esistono “stati di cultura”, se non nell’immaginario regno platonico dei filosofi. Invece, esistono “Stati di politica”, dove il momento politico pretende il monopolio della legittimità; ed esistono Stati di economia, dove è il momento economico, travestito da tecnico, a pretendere il monopolio della legittimità. Né l’uno né l’altro, tuttavia, potrebbero esistere senza la legittimazione, la copertura, offerta dalla cultura. Ma, quale cultura?

Poiché la ricerca del potere e della ricchezza, come prodotti della libertà e dell’uguaglianza, ha di per sé effetti distruttivi della compagine sociale, la cultura che si limita a seguire pedissequamente gli interessi di chi opera in quegli altri ambiti moltiplica la distruzione e contraddice il suo compito di “terzo” unificatore. Il mondo della cultura ha il diritto al rispetto della sua autonomia e gli uomini di cultura hanno il dovere di difenderla.

Esempi? Non c’è rispetto, quando i beni culturali e i beni ambientali, che sono “culturali” anch’essi, sono usati e abusati, ceduti, cementificati, per ottenere consenso da spendere nella competizione per il potere. I“beni culturali”, conformemente alla loro natura e funzione, hanno da essere collocati in una sfera immunizzata dalla politica. Se esiste un ministero che si occupa di cultura, questo non dovrebbe essere concepito come appannaggio di partiti in funzione di non si sa quali “politiche culturali”, che non spetta loro progettare e mettere in opera. Ma, devono anche essere immuni dagli interessi commerciali. Non c’è rispetto quando sono sfruttati in campagne commerciali, per promuovere marchi e pubblicizzare prodotti. Possono, certamente, procurare e produrre denaro. La cultura – per parafrasare un’espressione triviale – non si mangia, ma può dare da mangiare a molti e in molti modi, soprattutto quando, com’è auspicabile, si rivolge al pubblico dei grandi numeri. Ma, deve trattarsi, per così dire, di una conseguenza, o di un effetto collaterale e indotto, non dell’obiettivo primario, prevalente sul rispetto della cultura. La quale non esiste per dar da mangiare ai corpi, ma per alimentare le forze spirituali dell’auto- coscienza individuale e collettiva.Non c’è rispetto per la cultura quando il Ministero, questa volta dell’istruzione, formula programmi scolastici come quello noto “delle tre I” (inglese, internet, impresa) che esprimono un’idea puramente aziendalistico- esecutiva della scuola, idea resa concreta nella programmazione degli studi

dove una volta si studiava il diritto costituzionale e pubblico e ora si studiano i contratti con la pubblica amministrazione, le opportunità di finanziamento delle imprese, la disciplina degli investimenti finanziari, e altre cose di questa natura (Gazz. Uff. 30.3. 2012, Supplemento),
cose utili ma in ambito diverso.Dall’altra parte, non c’è rispetto per la cultura da parte di chi, per primo, dovrebbe difenderne l’autonomia. Come ho già detto la nostra epoca è sempre più ricca di consiglierie consulenti e sempre meno d’intellettuali. Quella del consigliere sarebbe una sorta di versione odierna “dell’intellettuale organico” gramsciano che si collegava alle forze storiche della società per conquistare “l’egemonia” e per svolgere così un compito certo ambiguo, ma indubbiamente grandioso. Il consigliere di oggi vive tra ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, e si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ottenendo in cambio protezione e favori. La stessa cosa può ripetersi per i consulenti che offrono le proprie conoscenze alle imprese, per testarne, certificarne, magnificarne e pubblicizzarne i prodotti; per testimoniare la qualità del ciclo produttivo, la sua non-nocività, la sostenibilità dell’impatto ambientale, e altre prestazioni di questo genere. Naturalmente, consiglieri e consulenti non sono affatto cosa cattiva, ma solo quando non sono spinti dalla smania di “proporsi” e per questo, inevitabilmente, accettano d’essere reclutati e d’entrare “nell’organico” di questo o quel potente. L’uomo di cultura diventa allora uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudere se stesso d’essere lui a usare il potente come mezzo per realizzaire le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente. La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove nessuno padroneggia anche solo la minima parte dei problemi dalla cui soluzione dipende la vita collettiva; dove il più sapiente nel suo campo è perfettamente ignorante nei campi altrui; dove quindi è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, se l’integrità delle loro “prestazioni” fosse inficiata dal sospetto di compromissione con interessi politici o economici, la cultura, come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza, sarebbe un corpo morto. Il dileggio degli intellettuali non sarebbe immotivato.

La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berlusconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica. it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti, come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’importante è che tranquillizzino », e poi i verbali falsificati…: altro che processo a Galileo! E’ Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana.

Più passano i giorni e più diventa chiara la natura della condanna dell’Aquila. Non è stato un processo alla scienza ma alla propaganda maligna e agli scienziati che ad essa si sono prestati. E innanzitutto perché dipendono dal governo. Sono infatti nominati dal presidente
del Consiglio come i direttori del Tg1 e come gli asserviti comitati scientifici dell’Unione sovietica. In Italia la scienza si è addirittura piegata al sottopotere, al sottosegretario Bertolaso nientemeno, la scienza come parastato, come l’Atac, come la gestione dei cimiteri. Dunque è solo per compiacere Guido Bertolaso, anzi per obbedirgli, che quei sette servizievoli scienziati sono corsi all’Aquila e hanno improvvisato una riunione, fatta apposta per narcotizzare.

Chiunque ha vissuto un terremoto sa che la prima precauzione è uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più di trecento morti, ventinove, secondo il processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica, dalla bugia rassicurante.

Purtroppo il nostro codice penale non prevede il mandante di un omicidio colposo plurimo e Bertolaso non era imputato perché le telefonate più compromettenti sono venute fuori solo adesso. E però noi non siamo giudici e non dobbiamo attenerci al codice. Secondo buon senso Bertolaso è moralmente l’istigatore dei condannati, è lui che li ha costretti a sporcarsi con la menzogna. Tanto più perché noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari. Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono.

Il processo dell’Aquila dunque è stato parodiato. E quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi, lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la Concordia. Il terremoto in Italia è infatti una continua emergenza: giovedì notte ne abbiamo avuto uno in Calabria e ieri pomeriggio un altro più modesto a Siracusa. Ebbene gli scienziati che sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita. Ma diciamo la verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a Roma, forze d’urto, interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale. Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma noncerto perché il giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e persino nel dare spiegazioni.

E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. E’ raro in Italia trovare un magistrato che non ceda alla rabbia, alla vanità, al protagonismo. Ha letto il dispositivo della sentenza, ha inflitto le condanne e se n’è andato a casa sua come dovrebbero fare tutti i magistrati, a Palermo come all’Aquila. Pochi sanno che si chiama Marco Billi. Non è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che è invece imperdonabile al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il quale ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza, che continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al Sole. Il ministro dell’Ambiente è lo stesso che appena eletto si mostrò subito inadeguato annunziando che l’Italia del referendumantinucleare doveva comunque tornare al nucleare. Poi pensammo che aveva dato il peggio di sé minimizzando i terribili guasti ambientali causati dall’Ilva di Taranto. Non lo avevamo ancora visto nell’opera brechtiana ridotta a battuta orecchiata, roba da conversazione al Rotary, da sciocchezzaio da caffè. E sono inadeguatezze praticate sempre con supponenza, a riprova che c’è differenza tra un tecnico e un burocrate. In Italia puoi scoprire che anche il direttore generale di un ministero non è un grand commis di Stato ma un impiegato di mezza manica.
So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di loro, tranne appunto al dimenticabile Bertolaso che intanto si è rintanato nel suo buco, bisognerebbe gridare come a Schettino: «Torni a bordo…

«Melfi per me non è la tappa di un tour elettorale. Nei 21 giorni del 2004 ero qui, ero qui tutte le notti. La mattina andavo alla Camera e poi tornavo, per capire da vicino cos'era la condizione operaia, il bioritmo dei turni continui. Io dichiaro da che parte sto, sto qua». Intercettiamo Nichi Vendola mentre, a Melfi, incassa un endorsement importante, quello dei tre operai reintegrati in fabbrica dopo essere stati ingiustamente accusati, nel 2010, di aver interrotto la produzione. Lei ha invitato i candidati alle primarie a riaccompagnare in fabbrica i reintegrati di Pomigliano. Bersani le ha risposto?

«No. O non ancora. Ma nell'Italia in cui molti anche di sinistra si sono sentiti rappresentati dalla modernità livida di Marchionne, per me la modernità è una lezione che ho imparato dalla povera gente: liberarsi dalla paura, dal ricatto, dalla precarietà.»

Napolitano dice di aver «fiducia nella saggezza degli italiani» e che al momento del voto sarà «salutare tenere conto dell'esperienza del governo Monti». Il capo dello Stato chiede la 'continuità' con i tecnici?

«Tutti abbiamo fiducia negli italiani. Che hanno dato una splendida prova nei referendum che hanno bocciato i progetti di privatizzazione del 'bene comune' acqua e nel seppellire la mafia del nucleare che tornava a danzare, a destra e come a sinistra.

Il capo dello Stato 'consiglia' gli italiani come votare. È un ruolo che gli spetta?

«L'Italia ha bisogno di discontinuità. E anche l'Europa seppellire le superstizioni ideologiche dei monetaristi e liberisti che hanno falcidiato i diritti sociali, mutilato il welfare, e con il rigorismo dell'austerity prodotto uno smottamento sociale tale che perfino i ceti medi sono risucchiati dalla povertà.»

Il suo 'anti-montismo' è sempre più indigeribile per un pezzo del Pd. La coalizione è a rischio?

«Io non dico 'Monti fuori dalla politica', dico che non può rappresentare il centrosinistra e il suo futuro. È una persona che rispetto, ma ha il profilo di un conservatore illuminato. Niente di personale, né di offensivo. Ma l'accordo con Bersani è quello di riorganizzare il campo dei progressisti e di tutti quelli che in Europa guardano a Hollande come alternativa a Merkel. Non a caso per i dotti editoriali del Corriere della sera rappresento il rischio di non far decollare l'Europa dei moderati. È vero, voglio far decollare l'Europa della sinistra. E mi fa piacere produrre l'orticaria negli ambienti altoborghesi.»

Per molti, anche nel Pd, Monti è il successore ideale di Napolitano al Colle. Per lei?

«Per molti l'attività preferita è mettere il carro davanti ai buoi. Si vuole stelirizzare la politica, decidere a tavolino fra pochi e selezionati protagonisti tutto il futuro d'Italia, neutralizzare il voto e picchettare il futuro, imprigionandolo a quest'orribile presente, impedirgli di liberarsi dal passato berlusconiano. Rispondo così: questa è la partita. Per questo i poteri forti del nostro paese hanno scelto di giocarla nel nostro recinto, puntando tutte le loro carte con la stessa febbrile smania militante che mostrarono all'apparire di un altro homo novus nel '93.»

Berlusconi ha annunciato che si ritira.

«Ora è tempo che si ritiri il berlusconismo.

Ma per questo non basta la proposta di Bersani. La sua politica è tutto un vorrei ma non posso. Non basta l'evocazione imbarazzata di un cambiamento radicale che ci viene impedito dalla realpolitik. Se Renzi rappresenta la continuità trasformistica con l'agenda Monti e con un certo berlusconismo, Bersani rappresenta una correzione generosa ma insufficiente.»

Alla fine il Pd voterà la legge di stabilità con qualche correttivo.

«Siamo a 'o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra'. Con questa logica si è consentito a Monti di perseverare nell'austerità a senso unico. La logica per cui è fallito il progetto del Pd di condizionare l'agenda Monti.»

Lei, da Melfi, sa bene che un pezzo del Pd è montiano e ancora marchionnista. Ci faccia capire: Sel punta alla rottura del Pd?

«Il gossip giornalistico è cosa diversa dalla politica. È vero che il Pd ha una natura incerta. Quello che sta accadendo anche nelle primarie è paraddossale. Le contestazioni di Renzi dimostrano che ha un'allergia berlusconiana alle regole. Finita la rottamazione, del vocabolario di Renzi resta poco.»

La contestazione delle regole, appunto, è un salto di qualità. Non vede lo spettro del caos di Napoli? Non c'è il rischio che finisca male?

«La partita delle primarie è aperta. Più gente voterà, meno rischi di inquinamento ci saranno. Io sono Davide che gioca contro due Golia: Renzi è il Golia per il circuito mediatico che lo sostiene, per l'opa che rappresenta da parte della borghesia e per le risorse di cui dispone. Bersani è un Golia perché ha gli apparati del più grande partito italiano.»

Davide ha vinto. Crede davvero di poter vincere?

»Io spero di perdere nei sondaggi, come mi è capitato nel 2005 e nel 2010 (alle primarie della Puglia, ndr). La partita che propongo è non solo la discontinuità, ma l'uscita dal compromesso e la rottura con il liberismo. Sa una cosa? Oggi c'è chi si vanta di aver introdotto la Tobin tax. Ed io ho un moto di rabbia: undici anni fa a Genova noi la proponevamo. Ci hanno massacrati.»

Lo scontro Bersani-Renzi rischia di innescare il mantra del voto utile. Mario Tronti, padre dell'operaismo italiano, sull'Unità chiede 'il balzo della tigre': e sarebbe far vincere Bersani al primo turno. Dica la verità, quanto le dispiace questo ragionamento?

«Tronti è un grande maestro. E purtroppo non sono stato molto fortunato con i miei padri politici. Mi consolo sapendo che ho molti figli politici. Quella di Tronti è un'argomentazione legittima ma politicamente sbagliata. Il balzo di tigre è mettere in discussione senza ambiguità la piattaforma liberista. E Bersani è pur sempre il segretario del partito che ha votato per il fiscal compact e la costituzionalizzazione del pareggio del bilancio.»

Barbara Spinelli La mala rottamazione

ROTTAMAZIONE, dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura. Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia.

I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.

La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni». È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere. Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversario - rivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi. È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.

È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile. Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona. Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani. Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino. Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla. Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica. Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola». Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello» L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornaledel 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni». Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand. Faticheremo anche noi, più di quel che si dica. Il cambiamento è altra cosa. È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy!» («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o – abbondano anche qui truci aggettivi – in esuberi o esodati? Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni. Rottamazione oltre che parola è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa. Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi. Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione. Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo. Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico. Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani.

«Qui se non stiamo più che attenti, ci strappano il territorio da sotto i piedi. L’Italia è il Paese più provvisorio che ci sia. Oggi quel posto è ancora intatto: domani, forse, sarà già lottizzato, saccheggiato,

cintato, insudiciato ...». Antonio Cedema celebra così, con la solita rabbia secca di valligiano irriducibile (milanese di nascita, pavese di studi universitari, è però legatissimo alla Valtellina paterna), i suoi venticinque anni di “j’accuse” contro i distruttori del Bel Paese: il suo primo articolo sul Mondo di Pannunzio comparve infatti nella primavera del ’50, «contro l’oscena via della Conciliazione di Piacentini», in pieno Anno Santo pacelliano, ai tempi dell’Immobiliare Roma tutta vaticana.

E pensare ch’eri calato a Roma, nel ’47, per fare l’archeologo tranquillo.

«Già. pensa. un po’. Di urbanistica sapevo poco, ma la prima campagna, contro il piano fascista che sventrava Roma da Trinità dei Monti a Corso Vittorio, rispolverato pari pari nel ’51, ebbe successo

e continuammo».

Ti occupasti quasi subito di verde pubblico, dell’Appia Antica lottizzata di nascosto ad uso privatissimo,

no?

«Mi telefonò dal Ministero l’ingegner Di Gioia. Stentavo a crederci. Andammo insieme, a piedi, a verificare, il giorno di ferragosto. Di lì nacquero i cento articoli contro i “gangsters dell’Appia”. Ma perché quei 2500 ettari venissero vincolati a parco pubblico dovettero passare altri dodici anni».

Furono gli anni di Città Eternit, di Vandalusia, sempre sul Mondo.

«I titoli più belli li inventava Ennio Flajano, Anni durissimi: contro l’Immobiliare, contro l’immondo piano regolatore fatto su misura per i grandi lottizzatori, contro la giunta clerico-fasçista, sindaco Cioccetti, assessore il liberale Ugo D’Andrea. Gli anni dell’Hilton voluto a tutti i costi, al posto di un parco pubblico, coi voti dei missini. Ad una conferenza stampa sull’Hilton non mi fecero neppure entrare».

Nel tuo ultimo libro sei molto polemico con politici e intellettuali.

«Cosa volevi che fossi, tenero? Non abbiamo una vera legge urbanistica, non abbiamo un vero intervento

pubblico. Il territorio è considerato con disprezzo, cosa vile, res nullius. Non c’è uno straccio di economista che spieghi, cifre alla mano, che il turismo sociale, alla fine, rende anche di più, e a tutti, del turismo da villetta, magari abusiva, da residence, da porticciolo, da ski-lift scassatutto. Questo, mio caro è un Paese di piccoli proprietari dove il suolo dev’essere, tutto quanto, edificabile, la casa una tana di lusso, e gli spazi collettivi, invece uno schifo”

Chi ti conosce sa che sopporti sempre meno il linguaggio degli addetti ai lavori: urbanisti, sociologi,

architetti.

«Ce n’è di bravi, per carità. Ma non capisco perché, in genere, debbano parlare tanto dei massimi

sistemi e, nel concreto, sperimentare, fare così poco. Perché debbano guardare alle esperienze di

Paesi più avanzati con tanta boria: là no perché si suicidano molto, lì nemmeno perché sono ex colonialisti, qua non ne parliamo perché sono pragmatisti. E giù con discorsi “a monte e a valle”,

“impatti”, “approcci” e altre sublimità, direbbe Manzoni. Possibile che da un lato dobbiamo lottare

contro l’abusivismo edilizio di massa e dall’altro contro le fughe ideologiche in avanti?»

Qualcosa, lo scrivi anche tu, é cambiato in Italia.

«Certo, c’è la mobilitazione popolare, ci sono i sindacati, c’è, nelle città, un tessuto democratico nuovo.

Ci sono i giornali, finché reggono. Ma in campagna? In montagna? Beni inestimabili dipendono da piccoli Comuni dove destra e sinistra, purtroppo, si confondono. Tocca alle Regioni intervenire, far capire che solo la pianificazione pubblica, solo l’intervento pubblico creano una vera libertà e una vita migliore, per tutti.»

Non dipende soprattutto dall’ignavia, dall’arretratezza della nostra borghesia? Tu e tua sorella Camilla,

due accusatori di una certa Italia, venite da una famigli molto borghese, ma siete fra le eccezioni.

«Difatti, per anni, prima che nascessero l’lnu, Italia Nostra e il resto, sono stato considerato un matto

isolato, un fissato. Certo, devono cambiare i rapportin di forza politica, ma l’intellettuale faccia il suo mestiere. Senza paure e senza fughe dalla realtà.»

La legge che doveva salvare dal carcere Alessandro Sallusti, e rischia di inguaiare in suo nome tutta la libera stampa, comincia a diventare un affare imbarazzante. I primi firmatari sono i senatori Vannino Chiti e Maurizio Gasparri: doveva essere un impegno bipartisan, quello di eliminare la possibilità del carcere come pena per la diffamazione. Oggi, però, quella legge Chiti non la riconosce più. E Pd e Udc si dicono pronti a frenare qualsiasi strisciante tentativo di censura. «Se verrà fuori un pasticcio sono pronto a togliere la mia firma », dice Chiti. Il senatore pd spiega che il suo primo obiettivo era eliminare il carcere. E che aveva poi previsto, per ragioni motivate, un obbligo di rettifica da parte del giornale con lo stesso spazio e lo stesso rilievo della notizia. Questo però doveva servire a bloccare il procedimento penale. Sulle pene, si era pensato a un massimo di 50mila euro.

E per il web, il tutto avrebbe dovuto riguardare solo i giornali online, non i singoli blog. Nelle mani della commissione giustizia, «a forte maggioranza di centrodestra», le cose sono cambiate. «Si rischia di fare una legge puramente sanzionatoria. Se è così meglio fermarsi, limitarsi a eliminare il carcere, e lasciare che sia un Parlamento più sereno a occuparsi del resto». Chiti non fa parte della commissione Giustizia, dove invece la vicenda è seguita da vicino dall’ex pm Felice Casson. Suo uno degli emendamenti che prevede che il giornalista “recidivo” nella diffamazione sia interdetto per un periodo da uno a tre anni. «Ma il punto di partenza era l’interdizione perpetua — spiega Casson — di questo bisogna tener conto. Poi certo, c’è una tendenza di alcuni senatori, soprattutto del centrodestra ma non solo, a inasprire le sanzioni pecuniarie e quelle accessorie». Rivendica, Casson, di aver proposto di eliminare la possibilità di riparazione pecuniaria in caso ci sia già una multa. Mentre LuigiZanda spiega: «Il sentimento comune del Pd è contro l’arresto, contro le maximulte, contro le esagerazioni che abbiamo letto nel pezzo di Repubblica.Non le faremo passare». E la stessa capogruppo Anna Finocchiaro ricorda che il partito si è battuto perché il testo arrivasse in aula, e non venisse votato direttamente in commissione come aveva previsto il presidente del Senato Schifani: «Ci siamo opposti alla deliberante che abbiamo fatto saltare.

Oltre all’abolizione della pena detentiva, ci vuole un sistema che bilanci la risarcibilità dell’onore e della dignità del diffamato. È una battaglia che il Pd fa da 15 anni». Il relatore della legge per il Pdl, Filippo Berselli, è invece convinto che si stia andando nella direzione giusta: «La storia dell’emendamento anti-Gabanelli non ha senso, nessuno ha mai preso davvero in considerazione l’idea di togliere al giornalista la copertura economica dell’azienda. Il senatore Caliendo lo ritirerà. Quanto alle pene pecuniarie, è ovvio che togliendo il carcere dovevamo aumentarle. Se poi c’è una giusta rettifica, vengono diminuite. E se il direttore responsabilenon vuole farla, il giornalista può chiedere ai giudici di imporgliela ». Roberto Rao, Udc, avverte: «Dobbiamo scongiurare che le norme sulla diffamazione a mezzo stampa riguardino tutti i blog. Quanto all’aumento delle pene, la diffamazione dev’essere duramente sanzionata, ma questa legge non può essere un cavallo di Troia per fare norme intimidatorie contro i giornalisti». Molto preoccupato il presidente della Federazione nazionale della stampa Roberto Natale, che ricorda come sanzioni da 100mila euro rappresentino un problema per le grandi redazioni, e un rischio di sopravvivenza per le altre. E avvisa: «Siamo pronti alla stessa battaglia fatta contro la legge sulle intercettazioni. Se nelle prossime 36 ore non ci sarà un ravvedimento operoso, sarà meglio lasciare in piedi la legge che c’è».

"Arriva la legge-vendetta, per salvare Sallusti un bavaglio alla stampa”

Intervista di Carmelo Lopapa a Gustavo Zagrebelsky

«Neppure il fascismo aveva previsto una disciplina del genere. Il codice penale prevede lo schermo del direttore responsabile e tutto, da allora, è riconducibile a quella figura. Nel momento in cui però si estende la responsabilità all’editore, allora il sistema di garanzie e di diritti, il delicato equilibrio che è alla base del diritto di informare e di essere informati rischia di essere compromesso». Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nutre più di una perplessità sul testo che corre spedito in commissione al Senato e che rischia di trasformarsi in una nuova edizione della legge-bavaglio. E sono tanti i nodi da passare al setaccio.

Tutto parte dal caso Sallusti, Professore. Dal direttore del «Giornale» che rischia la galera per un articolo diffamatorio.

«Lasciamo da parte per un momento la libertà di stampa con la «L» maiuscola. Parliamo del caso specifico. La pena detentiva è prevista dalla legge penale e il problema dell’adeguatezza della pena è annoso, non nuovo. Va detto, però, che nel caso dell’articolo in questione non si tratta di opinioni, ma dell’attribuzione di fatti determinati risultati palesemente falsi. Il reato consiste nell’omessa vigilanza circa un fatto che non riguarda la libertà di opinione. Si può discutere se il carcere sia la misura più appropriata».

Ecco appunto, lo è?

«Siamo di fronte a una valutazione politica, di opportunità: stabilire se il carcere è adeguato, proporzionato o utile. La mia risposta è no. Il carcere non è adeguato. In questo, come in tanti altri casi, non è la misura opportuna. Sulla qualità delle pene adeguate a un paese civile si discute da tempo e poco o nulla è stato fatto. Il carcere, come misura normale, è un fatto d’inciviltà. Discutiamo di questo».

Quali sarebbero le sanzioni adeguate, secondo lei?

«Innanzitutto, quella pecuniaria, come risarcimento del danno morale derivante dalla lesione dell’onorabilità delle persone: un bene importantissimo, quasi un bene sommo. Poi, l’intervento degli ordini professionali, cui spetta la tutela della deontologia, a tutela dell’onorabilità della professione. A me pare che le misure interdittive dell’esercizio della professione siano coerenti con questa esigenza. Poi, occorrerebbe prevedere forme processuali particolarmente celeri, processi immediati. Il diffamato che cosa se ne fa d’una sentenza che interviene dopo anni? Ciò che occorre è il ripristino dell’onore della persona offesa».

Il problema, nella legge in questione, è che l’alternativa al carcere è una sanzione pecuniaria talmente pesante da trasformarsi in un bavaglio per la stampa.

«La questione vera e grande, al di là del folclore di molti emendamenti, è la chiamata in causa dell’editore. Nel momento in cui si estende la responsabilità al proprietario dell’impresa editoriale, è chiaro che questi farebbe di tutto per prevenirla e ciò gli darebbe il diritto d’intervenire nella gestione dell’impresa giornalistica, un’impresa molto particolare, nella quale la libertà della redazionedeve essere preservata dall’intervento diretto della proprietà, cioè del potere economico. L’autonomia dell’informazione, come libera funzione, è messa in pericolo da una norma di questo genere».

Se è per questo, l’editore rischia di perdere anche i contributi pubblici, in caso di condanna.

«È una previsione che, colpendo l’editore, mette a repentaglio, oltre all’azienda, anche il patto che per consuetudine viene stipulato, almeno tacitamente, tra impresa, direttore e giornalisti: la copertura finanziaria da parte dell’editore delle eventuali condanne pecuniarie dei giornalisti che operano nella sua impresa».

Diventa un’aggravante la circostanza che a firmare un articolo, ritenuto diffamatorio, siano ad esempio tre giornalisti. Siamo all’associazione a delinquereinformativa?

«Quanto emerge da proposte di questo tenore è l’insofferenza che parti del mondo politico, indipendentemente dal colore, nutrono nei confronti del giornalismo di inchiesta che è un’attività che non si può svolgere da soli».

Le sue critiche si riferiscono anche all’ipotesi di sospensione del giornalista fino a tre anni, in casi estremi di recidiva nella diffamazione?

«No. Su questo sarei favorevole. Se la diffamazione è provata come fatto doloso, allora è giusta la sanzione proporzionata alla gravità dell’offesa. Per un cittadino, essere colpito nella propria onorabilità è un fatto grave, che può segnare pesantemente una vita, soprattutto delle persone per bene. Agli altri, per definizione, non importa nulla. Oggi, sembra che l’onore delle persone non conti più quasi nulla. Si tratta di ripristinare, innanzitutto nella coscienza civile, l’idea che l’onore, il rispetto, la dignità sono beni primari e la legge deve operare a questo fine. Certo, ci deve essere la prova del dolo, della macchinazione voluta per distruggere moralmente una persona. Stiamo parlando di ciò che voi giornalisti avete chiamato la “macchina del fango”. E non può essere tollerata, lasciata operare senza freni. È cosa deplorata ma, di fatto, tollerata come arma da usare nella polemica politica, nella lotta per il potere. Va contrastata con ogni mezzo, anche con sanzioni molto pesanti».

La nuova disciplina rende più grave la sanzione se l’offeso è «un corpo politico, amministrativo o giudiziario », per stare ai termini della legge. La “casta” da tutelare più degli altri?

«Esistono dei reati che riguardano la tutela dell’onorabilità delle istituzioni. E questa è una cosa. Un’altra cosa sono gli uomini e le donne che operano nelle istituzioni. Questi non sono essi stessi istituzioni. Sono normali cittadini che, pro tempore, svolgono funzioni pubbliche. Bisogna distinguere. In passato, erano previste forme di tutela speciale contro l’oltraggio al pubblico ufficiale, punito in misura più severa di quanto lo fosse l’offesa arrecata al cittadino comune, ma la Corte costituzionale in tempi lontani ha fatto venire meno questa differenza. Il principio di uguaglianza deve valere per tutti e coloro che occupano posti nelle istituzioni non devono essere considerati più uguali degli altri».

Ha proprio ragione Susanna Camusso. La segretaria della Cgil ha detto che per fare una politica come quella che sta impoverendo il paese non c'era bisogno dei professori. E ha aggiunto che questa politica bisogna combatterla. Quali armi ha un sindacato per cercare di ribaltare la logica che impone il primato della finanza e preferisce la tassa sul macinato a una seria patrimoniale per recuperare i soldi necessari a riempire le borse degli esattori europei, meglio sarebbe per dare al paese un futuro di lavoro socialmente e ambientalmente sostenibile?

Da che mondo è mondo, la prima arma è lo sciopero generale. Difficile incidere sulle scelte politiche limitandosi a un happening a S.Giovanni; difficile, senza mettere in moto un movimento di lotta, far entrare in testa a chi si propone alla guida del paese, magari in alternativa a Berlusconi e in «discontinuità» con Monti, lo slogan di ieri: il lavoro prima di tutto.

Forse è ingeneroso, come commentava qualche operaio indispettito, paragonare la piazza di ieri a una «sagra della castagna», o temere che il prossimo appuntamento di lotta contro un governo che colpisce lavoratori e precari, pensionati e giovani, si riduca a un happy hour. Portare in piazza i lavoratori che pagano la crisi e le risposte liberiste per (non) uscirne, è una scelta giusta. Erano impressionanti i mille cartelli con i nomi di aziende a rischio chiusura, e quelli delle tante che hanno già chiuso e i cui operai hanno perso, o rischiano di perdere, persino gli ammortizzatori sociali. La piazza di ieri consegnava, a chi ha occhi per vedere, la carta geografica di un paese allo stremo, privo di una strategia e di una politica industriale. Un paese guidato da chi pensa che per uscire dalla tempesta si debbano ridurre i diritti e allungare gli orari dei pochi che lavorano, e anche a chi è in cassa gli si dice che quando e se tornerà in fabbrica o in ufficio dovrà rinunciare ai «privilegi». Privilegi? È un paese, il nostro, che da troppo tempo pensa che una transazione finanziaria meriti maggior rispetto di un tondino o un pannello solare.

C'è chi lo sciopero generale l'ha già fatto, come i lavoratori di una conoscenza bistrattata, e chi lo sta preparando come i metalmeccanici. Ma chi non insegna o non fa ricerca e chi non costruisce auto o computer, non è altrettanto colpito? Non lo sono i precari, i pensionati, chi pensionato non riesce a diventare nonostante sia stato espulso dal lavoro? E i milioni di vecchi e nuovi poveri a cui vengono ridotti i servizi essenziali? Come mai mezza Europa, per le stesse ragioni, ha già fatto scioperi generali, altri paesi li preparano e alcuni dell'area mediterranea addirittura nello stesso giorno, abbozzando un primo embrione di sciopero europeo, con la benedizione e la copertura della timida Ces, mentre da noi lo sciopero generale è solo minacciato, e per il 14 novembre la Camusso si limita a proporre «una manifestazione»? Possibile che se non c'è più Berlusconi e il governo ha il sostegno anche di chi dovrebbe stare all'opposizione, la Cgil non si senta libera di combattere le battaglie che pure dice necessarie? Uno sciopero non è la panacea, ma almeno fa sentire meno solo chi soffre.

»ROMA — «L'Europa è a un crocevia. Non è la prima e non sarà l'ultima volta. La sua intera storia è un'avventura infinita. Giovedì sono stati fatti piccoli passi verso una sorta di integrazione finanziaria, attraverso la creazione di una vigilanza bancaria comune. È promettente, ma ci sono grossi punti interrogativi: il diavolo si nasconde nei dettagli. E questo è solo l'aspetto economico, che in fondo è quello affrontato con più attenzione. Ma la speranza che l'integrazione politica seguirà quella economica è infondata, potrà farlo come potrà non farlo. Gli interessi delle diverse aree d'Europa sono troppo contrastanti».

Zygmunt Bauman è il teorico della società liquida, il filosofo che ha individuato e descritto l'essenza proteiforme e instabile della modernità, orfana delle grandi narrazioni metafisiche delle ideologie e strutturalmente precaria. Ma per essere filosofo e sociologo, Bauman è anche molto attento ai processi politici concreti e in particolare a quelli dell'Europa, che per lui, ebreo polacco fuggito dall'occupazione sovietica, vissuto in Israele e Inghilterra, è il grande progetto del Ventunesimo secolo.

Bauman è a Roma, dove oggi terrà una «lectio magistralis» in apertura di InNovaCamp, seminario a più voci organizzato dall'Associazione ItaliaCamp, in collaborazione con la Pontificia Università Lateranense, dal titolo «Salvezza o dannazione — proposte e soluzioni anticrisi». All'evento partecipano anche i ministri della Giustizia e del Lavoro, Paola Severino e Elsa Fornero, oltre al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà.

Per Bauman, l'integrazione politica europea è «questione di vita o di morte, di sopravvivenza o disgregazione». A fargli soprattutto paura è la «discrepanza tra l'immensità della sfida e la mediocrità dei mezzi a disposizione». «Quando ero giovane — spiega — la domanda era: che fare? Oggi è chiaro cosa fare, ma la vera domanda è: chi lo farà? Allora tutti pensavano che una volta individuate le cose da fare, il governo onnipotente se ne farà carico. Oggi il governo è l'ultima istituzione che ci aspettiamo le faccia. Fino a quando questo gap non sarà colmato, siamo nei guai».

Perché è così importante l'unificazione politica?

«Perché senza una qualche forma di Confederazione, con organi decisionali comuni che decidono sulla politica economica e finanziaria, estera e di sicurezza, non credo che i vantaggi che l'Europa è in grado di offrire ai suoi membri possano diventare realtà. La casa europea non va a detrimento delle culture nazionali, ma provvede a una sorta di tetto comune a tradizioni, valori, differenze locali. E il paradosso è che ogni singolo Paese è molto più a rischio di perdere la sua identità specifica, se si espone senza protezione, cioè senza questo scudo europeo, alle forze globali, che sono violentemente e spudoratamente sovranazionali, ignorano i temi e le specificità locali».

Come si può colmare il deficit democratico dell'Europa?

«Lo Stato moderno per emergere ha dovuto combattere, spesso anche in modo violento, contro gli interessi locali. Ci sono voluti cento anni perché questo processo venisse a compimento: ma non furono i poteri locali che rinunciarono a pezzi di sovranità, al contrario questa venne loro tolta poco alla volta, spesso contro una resistenza feroce. Sta succedendo di nuovo, abbiamo 27 nazioni e vogliamo organizzare una nuova organizzazione superiore. Ci vuole tempo e temo che andrà così anche con l'unificazione politica dell'Europa. Non sarà semplice ricreare vere istituzioni democratiche a livello europeo».

Ma cosa dire alla gente per averne il consenso?

«Che l'Europa è la sola chance che hanno di difendere e proteggere la loro identità nazionale. Dobbiamo ripensare le istituzioni europee in modo completamente nuovo. Dovranno avere l'abilità a condensare e unificare un volere popolare europeo altrimenti sparso e diversificato. Esattamente ciò che fanno i Parlamenti locali: far emergere un interesse nazionale da spinte diverse. Solo così possiamo colmare il deficit democratico, che nasce dal fatto che le attuali istituzioni politiche non godono più della fiducia popolare. C'è uno scarto tra la natura generale dei nostri problemi e quella individuale delle nostre soluzioni».

La Rete può aiutare a colmare il deficit democratico?

«Non c'è nulla di specifico che ne faccia strumento naturale per la democrazia, potrebbe anche essere strumento di un regime totalitario. Quindi, invece che in favore dell'unificazione dell'Europa, potrebbe lavorare in favore della sua separazione. Non credo nel determinismo tecnologico. Conta ciò che noi facciamo con la tecnologia. Spostare verso la Rete i compiti che sono nostri, quelli di promuovere democrazia e libertà, è molto pericoloso. Perché ci deresponsabilizza».

«Affama la bestia» è lo slogan con cui Ronald Reagan aveva inaugurato il trentennio di liberismo di cui oggi stiamo pagando le conseguenze. La «bestia» per Reagan era il governo: che - è un altro suo celebre detto - «non è la soluzione ma il problema». La bestia da affamare è in realtà la democrazia, l'autogoverno, la possibilità per i cittadini e i lavoratori di decidere il proprio destino. Il programma è di mettere tutto in mano ai privati, che si appropriano così delle funzioni di governo e le gestiscono in base alle leggi del profitto. Quel programma è stato ora tradotto dall'Ue e dai governi dell'eurozona in due strumenti micidiali: il pareggio di bilancio e il fiscal compact. Con queste due misure in Italia verranno prelevati ogni anno dalle tasse, cioè dai bilanci di chi le paga, quasi 100 miliardi di interessi e altri 45-50 di ratei, per versarli ai detentori del debito: in larga parte banche e assicurazioni sull'orlo del fallimento per operazioni avventate e altri grandi speculatori nazionali ed esteri, e solo in minima parte singoli risparmiatori. L'assurdità di queste misure non va sottovalutata: nessun paese al mondo, nemmeno la Germania di Weimar, condannata al pagamento dei danni di guerra, ha mai rimborsato un proprio debito: che è stato sempre ridimensionato o riassorbito dalla «crescita» del Pil - quando c'è stata - o dall'inflazione, o da un condono, o da un default. Sottoporre a un salasso del genere un paese come il nostro, con un debito di oltre il 120 per cento del Pil, vuol dire condannarlo alla rovina. L'esempio della Grecia, a cui pure sono imposte per ora misure assai meno drastiche di quelle previste dal fiscal compact, è sotto gli occhi di tutti. Ma bisogna ricordare che tre anni fa, quando la Grecia ha cominciato a dare attuazione al primo memorandum della Trojka (Bce, Fmi e Commissione europea), Monti aveva salutato il cammino intrapreso come l'alba del risanamento economico del paese. Esattamente quello che ripete ogni giorno, ora che è presidente del consiglio, lodandosi, e lodando le politiche del suo governo, mentre occupazione, redditi da lavoro, produzione, bilanci aziendali, Pil e debito pubblico precipitano verso il baratro.

D'altronde, se non bastassero le misure contro i lavoratori varati dal suo Governo, va ricordato anche che meno di un mese fa il parlamento europeo ha dovuto bloccare un regolamento proposto dalla Commissione, ma redatto e ispirato nel 2010 proprio da Monti, che mira a subordinare alle «convenienze» dell'impresa il diritto di sciopero: «Regolamentazione dell'esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nel contesto della libertà d'impresa e della garanzia dei servizi».

Ecco chi è quello che i partiti che lo sostengono considerano salvatore della patria! «In Portogallo nel 1932 - ricorda l'associazione veneziana Fondamenta - un professore di economia, al secolo António de Oliveira Salazar, fu chiamato a dirigere il Paese per far fronte alla crisi economica e all'enorme deficit di bilancio che attanagliava la terra lusitana. Il suo intento era di creare una struttura super partes capace di riunire in sé tutte le correnti nazionali e di sostituirsi ai partiti. Rimase al potere per 36 anni e 82 giorni, e il suo regime, noto come salazarismo, ebbe termine solo con una rivoluzione, il 25 aprile del 1974». Vogliamo imboccare la stessa strada? O non l'abbiamo forse già imboccata?

Ecco allora un primo passaggio ineludibile: se non vogliamo rinchiuderci nel solco salazariano tracciato da Monti, pareggio di bilancio e fiscal compact devono venir respinti e disattesi e il debito pubblico va affrontato con altri strumenti. L'Italia ha un avanzo primario consistente: consolidando il proprio debito potrebbe evitare di ricorrere al mercato finanziario per parecchi anni. E senza «uscire dall'euro», a meno di venirne cacciata; cosa che porrebbe più problemi che vantaggi anche a tutti gli altri paesi dell'eurozona. D'altronde, che una ristrutturazione del debito italiano sia prima o poi inevitabile lo dicono ormai anche molti economisti mainstream, da Rubini a Savona. Una forte patrimoniale è certo necessaria, ma non basta a risolvere il problema. Ma questo non va affrontato in ordine sparso: con il fiscal compact i paesi che si troveranno nella nostra situazione, o anche peggio, sono destinati a crescere; e le forze sociali disposte a prendere di petto il debito sono sì sparse e per lo più senza rappresentanza, ma sempre più numerose. Dinnanzi a un loro schieramento compatto, le autorità monetarie e il cosiddetto fronte del nord si vedrebbero costretti a imboccare di corsa strade, come la mutualizzazione o la monetizzazione dei debiti pubblici dell'eurozona, che oggi vedono come fumo negli occhi.

La stretta monetaria e fiscale imposta dalle autorità europee - e, per lo meno fino a ieri, dal Fmi, che con queste imposizioni ha mandato in rovina ben più di un paese nel corso del tempo - ha il suo riflesso più vistoso nel patto di stabilità interno: quello che mette alle corde le finanze degli enti locali - e innanzitutto dei Comuni - costringendoli a svendere patrimonio immobiliare, beni comuni e servizi pubblici per far cassa. Così, nonostante che 27 milioni di italiani abbiano abrogato, con il referendum dello scorso anno, l'obbligo di svendere i servizi pubblici, sono ben quattro i decreti e le leggi che da allora prima il Governo Berlusconi e poi quello Monti hanno varato per reintrodurre quell'obbligo; e l'ultimo anche dopo che la Corte Costituzionale aveva decretato l'illegittimità dei primi tre; e tutti prontamente controfirmati dal Presidente della Repubblica, supremo «tutore» della Costituzione, per il quale evidentemente della volontà degli elettori si può e deve far strame. A sostegno di questo scippo viene poi mobilitata anche la Cassa Depositi e Prestiti - un istituto creato oltre 150 anni fa e finanziato dal risparmio postale per sostenere le iniziative dei Comuni, cioè i servizi pubblici locali - che il governo Berlusconi ha privatizzato con un trucco contabile e il governo Monti sta mettendo al servizio dei peggiori scempi perpetrati a danno dei territori e delle loro comunità. Più salazarismo di così ... .

La cosa è tanto più grave perché è solo dai territori e dalle comunità che lo abitano, e proprio facendo leva su un approccio innovativo ai servizi pubblici locali, che possono prendere piede progetti e pratiche di una vera politica industriale orientata alla conversione ecologica. Una politica industriale fondata sul decentramento delle decisioni, sulla partecipazione della cittadinanza attiva, su impianti di piccola taglia, su servizi flessibili diffusi e diversificati in base alle risorse disponibili e alle esigenze locali: nel campo della cultura, dell'educazione, dell'energia, della mobilità, degli approvvigionamenti alimentari (e quindi di un'agricoltura a km0), della gestione delle risorse materiali (oggi chiamata gestione dei rifiuti), dell'edilizia ecologica, della salvaguardia del territorio; e di tutte le produzioni che potrebbero essere avviate, creando un mercato e riconvertendo molte aziende in crisi, per fornire materiali, impianti, attrezzature e supporto tecnico a quei progetti. E' l'unico modo per salvaguardare l'occupazione e promuoverne di nuova, legandola al sostegno attivo della cittadinanza. Invece, tra patto di stabilità e assalto alla finanza locale sferrato dalle banche, che hanno riempito i comuni di debiti e di derivati per finanziare bilanci sempre meno trasparenti e comprensibili, le amministrazioni locali sono state svuotate di ogni funzione, se non quella di fare da paravento a una progressiva cessione di sovranità a favore dei privati, dell'alta finanza e di poteri centralizzati. Questa cessione di funzioni è illegittima, contraria alla volontà espressa dagli elettori con il referendum; e i sindaci delle giunte che vogliono rinnovarsi e assumere le responsabilità che la Costituzione attribuisce loro devono prenderne atto: anche adottando - ed è il secondo passaggio ineludibile - misure di requisizione e di esproprio delle aziende necessarie a rimettere in moto l'economia dei propri territori.

Ma i governi locali, si obietta, sono proprio quelli dove corruzione e malgoverno allignano maggiormente, come mostrano gli episodi più recenti di cronaca politica. Intanto se il malgoverno alligna anche lì è perché a promuoverlo sono i poteri centrali: basta pensare a una legge contro la corruzione che non contiene nulla contro il falso in bilancio e che nonostante ciò fatica a passare - e poi si lamentano che nessuno investe in Italia! Lo è venuto a spiegare l'emiro del Qatar al prof. Monti, il quale «credeva» invece che gli investimenti non arrivassero per via dell'art. 18. Per questo l'art. 18 è stato cancellato e per la corruzione è stato invece votato un salvacondotto. Poi ha ragione chi scrive che la corruzione della politica è una compensazione per la cessione del potere reale all'alta finanza e alle grandi corporation. Ma se il governo del territorio viene affidato a una gestione privata, i poteri pubblici perdono la loro stessa ragion d'essere e non resta loro altra finalità che quella di perpetuarsi a qualunque costo. Per questo l'alternativa tra pubblico e privato ha perso gran parte del suo significato; solo gestendo patrimonio e servizi pubblici come beni comuni, in forme partecipate, si può restituire alla politica il suo significato originario, che è quello di autogoverno

Se gli efficientissimi uffici tedeschi impiegano 97 giorni a dare l'okay per costruire un capannone, può bastare una legge a miracolare le nostre soprintendenze spingendole a dire sì o no a un eventuale abuso entro 45? E questo nonostante gli uffici di tutela abbiano qua e là paurose carenze d'organico? Eppure è questo l'intento della nuova legge sulla semplificazione. Che rischia di essere un pasticcio dalle conseguenze da brividi. In linea di principio, ovvio, è impossibile non essere d'accordo. Anzi, il sogno di tutti i cittadini sarebbe quello di ottenere una risposta alla domanda di una licenza edilizia entro una settimana. O magari il giorno dopo. Ma un conto sono le dichiarazioni di principio, un altro il buon senso.

Immaginate una legge che dica: le ambulanze devono arrivare in ogni luogo d'Italia entro 5 minuti dalla richiesta di soccorso. Evviva. Ma le strade dovrebbero essere in ordine, le piazzole attrezzate, i centralini sempre all'erta, le autolettighe nuove e non vetuste con 22 anni di anzianità media, i volontari e i medici abbondanti, i serbatoi della benzina sempre pieni... Insomma: calare dall'alto un bellissimo principio su una realtà sgangherata non solo non risolve i problemi ma rischia di aggravarli creando aspettative impossibili da accontentare.

Certo, la storia dei permessi edilizi nei luoghi soggetti a qualche forma di tutela paesaggistica, monumentale o archeologica era regolata fino a ieri da due leggi che finivano per andare in conflitto. Una diceva che il silenzio delle sovrintendenze equivaleva al rifiuto, un'altra che equivaleva al consenso. E sul tema da anni si erano aperte infinite baruffe politiche e giudiziarie. È lì che interviene il disegno di legge: «La nuova disciplina del permesso di costruire, oltre a garantire tempi certi per la conclusione dei procedimenti, elimina il silenzio rifiuto previsto per il rilascio del permesso medesimo nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali». D'ora in avanti le novità «consentono una maggiore certezza del rispetto dei termini e una riduzione dei tempi di conclusione del procedimento, in virtù dell'obbligo dell'amministrazione competente, di emanare il provvedimento, una volta decorso il termine per l'espressione del parere da parte del soprintendente, che viene ridotto a 45 giorni».

Sulla carta, benissimo. Ma si può chiedere a una tartaruga di farsi di colpo lepre? Dice Confindustria che per tirar su uno stabilimento in una zona industriale una media azienda deve aspettare 97 giorni in Germania, 184 in Francia e 258 giorni da noi. E parliamo di aree industriali, pezzi di territorio già compromessi. Non delle colline terrazzate del Chianti, dei dintorni di un sito archeologico o di una costa ancora incontaminata. Non bastasse, quella tartaruga è azzoppata da un'antica e progressiva carenza di organici. Solo tra i dirigenti, ne mancano uno su sei. E tra quelli che dovrebbero compiere i sopralluoghi i vuoti in certe aree sono drammatici.

«In Molise abbiamo quattro persone che possono andare a fare le verifiche, coi mezzi pubblici o con l'auto propria ricevendo rimborsi bassissimi e pagati a volte molti mesi dopo», spiega il direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici Gino Famiglietti. «Quattro persone per 4.400 chilometri quadrati: ammesso che passino la vita in giro, e ancora non basterebbero, poi i controlli sulle carte in ufficio chi li fa?».

Tanto per dare un'idea: come ricorda il deputato Roberto Morassut il carico di lavoro a Roma è tale che le 600 mila pratiche dei condoni edilizi craxiani e berlusconiani (l'ultimo 9 anni fa) sono state sbrigate solo per la metà. C'è anzi chi sta perfino peggio: a Messina i fascicoli ancora da smaltire sono circa 11 mila su 16 mila. E il giorno in cui tentarono di chiudere il contenzioso con la «sanatoria delle sanatorie» gli abusivi che scelsero di aderire con un'autodichiarazione furono lo 0,37%.

Perfino nelle realtà mediamente più virtuose come Torino la soprintendenza ammette: «Data l'impossibilità di verificare tutto, la maggior parte delle pratiche vengono sbrigate col silenzio-assenso». Figuratevi nel resto del Paese e soprattutto nelle quattro Regioni meridionali (Sicilia, Calabria, Puglia, Campania) in cui si concentra secondo il Cresme il 59,6% delle abitazioni abusive. Immaginatevi quei 45 giorni di tempo dati ad esempio nello sgangherato hinterland napoletano o a Ischia, dove su 62 mila abitanti sono stati denunciati 28 mila abusi. Sinceramente: davvero c'è chi pensa di potere arginare la devastazione del territorio, continuare a tagliare gli organici e allo stesso tempo raggiungere una produttività e una rapidità dimezzata rispetto agli uffici tedeschi? Ma dai...

Dice una nota di Lorenzo Ornaghi che no, «non c'è nessuna diminuzione del livello di tutela del paesaggio e dei beni culturali poiché la nuova norma, obbedendo a un principio generale di trasparenza della funzione pubblica, ha solo ribadito il diritto del cittadino ad avere in ogni caso una risposta espressa e motivata (negativa o positiva) sulla propria domanda di permesso di costruire o sulle altre istanze che presenti all'amministrazione». Può essere.nEduardo Zanchini di Legambiente spiega però di essere preoccupatissimo: «Oggi le competenze sulla tutela sono in qualche modo contese, di fatto, tra le sovrintendenze e le Regioni. Non vorremmo che, nell'attesa di una risposta fuori tempo massimo dei soprintendenti asfissiati dal lavoro le Regioni e i Comuni consentissero di costruire anche nelle aree più delicate». Conosciamo già la risposta di rito: se succederà si tratterà di case illegali. Bella consolazione: in Italia, stando agli studi di Paolo Berdini, sono già quattro milioni e mezzo. E perfino quelle con decreto di abbattimento vengono poi abbattute nello 0,97% dei casi.

Per non dire, se non arriverà qualche ritocco salvifico, di un rischio ulteriore: ogni cittadino che non riceverà la risposta delle sovrintendenze entro 45 giorni sarà autorizzato a fare causa per danni allo Stato. Accettiamo scommesse: rischia di scatenarsi una baraonda avvocatesca mai vista.

SE il ministro Severino davvero pensa che siamo davanti a una seconda Tangentopoli, e a crimini ancora più devastanti perché "lucrare sul denaro pubblico mentre ai cittadini vengono chiesti sacrifici è di una gravità inaudita", allora bisogna che subito, senza dar tempo al tempo, il governo metta ai voti una legge contro la corruzione: una legge che impedisca questo delinquere che imperversa sfacciatamente, e che non è una seconda Tangentopoli ma un'unica storia criminale, che indisturbata persiste da vent'anni e perfino cresce.

Se gravità inaudita vuol dire qualcosa  -  inaudito è ciò di cui prima non s'era udito parlare, mai esistito  -  serve un'azione che sia all'altezza del responso: anch'essa inaudita, ha da essere un farmaco senza precedenti. Non devono più esistere un Parlamento, un Consiglio regionale, una Provincia nei quali nuotino squali: politici navigati e novizi, anziani e giovani, uomini di partito o d'affari, che si arricchiscono togliendo soldi a un'Italia impoverita. Che addirittura, come a Milano, negoziano con la 'ndrangheta prebende, voti, posti, spartendo con lei i beni e il dominio della pòlis.

Paola Severino ha detto, giorni fa: "Ce lo chiede l'Europa". È una frase che non andrebbe neanche pronunciata, perché questo sì è perdere sovranità e massima umiliazione. Possiamo delegare all'Europa parte della politica economica; non la nostra coscienza, la capacità di distinguere tra bene e male, lecito e illecito. È come se dicessimo che, bambini senz'ancora uso della ragione, non capiamo bene cosa sia il Decalogo (settimo comandamento compreso) e lo depositiamo nel grembo dell'Europa-genitore. A chi tentenna in Parlamento, e mercanteggia per salvare brandelli di impunità, il governo dovrebbe dire che sono gli italiani a esigere quel che già Eraclito riteneva imperativo: combattere per la legge come per le mura della città.

Se il governo avesse dimenticato cosa pensano gli italiani, guardi ai 300.000 cittadini che hanno firmato la petizione di Repubblica, perché giustizia sia fatta: hanno firmato non per una legge abborracciata ma per un nuovo inizio, per una scossa autentica. Osi riconoscere che questa non è Tangentopoli-2. È Tangentopoli mai interrotta; sta travolgendo istituzioni cruciali; è sfociata, a Nord, in un patto fra organi di Stato e mafie che non è più un episodio passato indagato dai giudici, ma un presente che ci avviluppa e uccide lo Stato.

Non è chiaro se l'esecutivo dei tecnici sia consapevole di questa domanda che sale dal basso. Se si renda conto dell'urgenza di una questione morale divenuta nel frattempo antropologica, economica, politica: biografia di una nazione, nauseante per tanti. L'impressione che dà è strana, più ancora della maggioranza che lo sorregge. Da settimane i governanti avanzano, indietreggiano, ogni tanto alzando la voce ma non la mano che intima l'altolà della sentinella. Sono puntigliosamente determinati quando parlano di conti, tasse. Paiono animati da una sorta di divina indifferenza all'immoralità che regna nella cosa pubblica, a una cultura dell'illegalità che in Lombardia secerne antichi connubi fra borghesia imprenditoriale, Stato, poteri pseudoreligiosi come Comunione e Liberazione. Poteri assecondati da una Chiesa che solo in apparenza ha smesso l'ingerenza politica dopo il crollo della Dc; che tollera o sostiene certi affarismi della Compagnia delle opere e certi patteggiamenti con le cooperative rosse. Che tace sull'infiltrazione, nel connubio, della criminalità organizzata. La vera sovranità da resuscitare è questa: lo Stato che riconquisti il territorio, e non permetta che gli sfuggano di mano roccaforti decisive (Lazio, Sicilia, Lombardia). È un secondo Risorgimento e una seconda Liberazione di cui abbiamo bisogno.

Già è stato troppo accontentato, il partito nato come Forza Italia non per superare Tangentopoli, ma per poterla più perfettamente perpetuare. La legge non reintroduce il falso in bilancio, svuotato da Berlusconi nel 2002: eppure il crac del San Raffaele cominciò proprio così. Non contempla un reato essenziale, l'autoriciclaggio: punito in gran parte d'Europa; reclamato, prima che da Bruxelles, dalla Banca d'Italia. Pietro Grasso, Procuratore nazionale antimafia, lo ripete dal 2010: la non punibilità dell'autoriciclaggio "frena le indagini, non consente di indagare su quanti, avendo commesso un reato, utilizzano i proventi del denaro sporco per investirlo in attività lecite e turbare l'economia". Punirlo è "necessità assoluta", ma  -  ha detto nel settembre scorso  -  "di tale necessità non riusciamo a convincere il legislatore".

Lo stesso dicasi per il voto di scambio: nella legge è punibile se il politico lo paga in denaro, non se lo compra con assunzioni, appalti favori. Sul Corriere, Luigi Ferrarella ne deduce che Domenico Zambetti, l'assessore della Regione Lombardia arrestato con l'accusa di aver comprato 4000 voti dalla 'ndrangheta, "non sarebbe neppure indagato per voto di scambio, se non avesse pagato in denaro".

Troppe omissioni, nella legge presente, troppi favori: non è la muraglia di Eraclito. Sono elencati crimini punibili solo in teoria  -  traffico di influenze, concussione  -  visto che i trasgressori rischiano pene talmente ridotte che prestissimo otterranno la prescrizione. C'è poi il divieto di candidarsi, se sei condannato per corruzione con sentenza definitiva. Ma non si sa se il divieto scatti subito, e l'idea stessa della sentenza definitiva ha qualcosa di scandaloso. Perché resti candidabile dopo la prima, la seconda condanna? Un deputato, un assessore, un governatore, un sottosegretario sono presunti innocenti sino al terzo grado di giudizio, come ogni cittadino. Ma non sono cittadini qualsiasi. Dovendo dare l'esempio, hanno più obblighi: lo Stato non può esser affidato a onesti presunti.

La nomina di Monti voleva rappresentare una rottura anche morale, rispetto ai predecessori. Accennando alla lotta anticorruzione, il Presidente del consiglio ha denunciato "l'inerzia, comprensibile ma non scusabile, di alcune parti politiche". Perché comprensibile? Perché questa deferenza verso parti politiche che non ci si azzarda nemmeno a nominare? Il rischio è che così facendo, l'esecutivo faccia il notaio delle stesse inerzie che critica. Che non trovi il coraggio di forzare il varo di una legge seria. Chi non è d'accordo va messo davanti all'opinione pubblica: dica a voce alta che vuole una storia italiana fondata su corruzione e mafie in espansione.

Non basta più essere esperti di spread, davanti a quel che accade. Non basta presentare l'evasione come nuovo discrimine di civiltà, se castigati sono i piccoli negozianti e non gli squali. Occorre lo sguardo tragico e lungo dello storico, non solo sugli ultimi vent'anni. Occorre rileggere quel che Pietro Calamandrei scrisse fin dal 1946, appena un anno dopo la Liberazione: lo spirito della Resistenza già era deperito, se per resistenza s'intende "la ribellione di ciascuno contro la propria cieca e dissennata assenza", e "la sete di verità, di presenza, di fede nell'uomo".

Già allora s'intuiva il disfacimento, e il pericolo non era "nel ritorno del fascismo: era in noi". Era nella rinascita del disgusto della politica che aveva dato le ali a Mussolini; nel "desiderio di appartarsi, di lasciare la politica ai politicanti". Oggi come ieri, è nell'attrazione esercitata da capipopolo dai nomi esoterici: Belzebù, Cavaliere, Celeste, e chissà come designeremo i prossimi. Calamandrei chiamò questo disgusto desistenza, contrapponendola alla tuttora necessaria resistenza. Non più eroica, ma pur sempre resistenza: "resistenza in prosa". È tardi per simile resistenza? Non è tardi mai per divenire adulti, e sovrani nella coscienza. Per difendere le mura della legge e le sue sentinelle, come si difendono le mura della città.

Una gabbia d'acciaio intorno a un corpo piagato, che con la scusa di sorreggerlo in realtà lo tiene prigioniero aggravandone le piaghe: questo oggi è il rapporto in Italia tra la politica e i partiti da un lato, e la compagine sociale dall'altra. Non ci sono cattivi da una parte e buoni dall'altra, no: semplicemente un morto che tiene un vivo che vuole vivere. Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, destinato dalla loro immobilità ad un «presentismo», come lo ha chiamato Roberto Esposito, nel quale ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale. Consumata nel 1991-93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), da allora la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita. Da vent'anni non è più in grado di immaginare alcun futuro per il Paese, di offrirgli una visione.

Il motivo più vero e profondo è principalmente uno: perché la politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti — come del resto in tanta parte del Paese — si è spenta ogni idea d'Italia e della sua storia; di che cosa sia l'Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell'industriosità italiana siano acquisiti dall'estero; consentire che il sistema d'istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d'accatto.

Dobbiamo ricominciare dall'Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l'Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L'unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il Pil o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un'idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa.

Se vuole avere un futuro, l'Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L'alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino.

Postilla

In un clima nel quale la destra italiana ha conquistato il primato della demolizione del paesaggio può stupire ,l’insistere da parte del noto commentatore liberal-conservatore, sull’idea del paesaggio nazionale come metafora del paese, bene culturale che rispecchia e l’identità nazionale, ma l’insieme delle risorse e delle potenzialità future, base per un di sviluppo di lungo termine, stupisce meno chi ricorda che è proprio dala pensiero liberale d’antanche nasce quella concezione del paesaggio come «rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo» , e la convinzione in risiedesse «il presupposto di ogni azione di tutela delle bellezze naturali» (Benedetto Croce). Forse le radici del craxismo-berlusconismo sono state del tutto divelte e riacquistano credito, almeno in Italia, alcune delle verità introdotte nella cultura politica dai liberali come Luigi Einaudi e Benedetto Croce (e dai marxisti come Emilio Sereni e Ranuccio Bianchi Bandinelli)? Sarebbe troppo bello per essere vero. Tuttavia per noi ogni fiammella di speranza va raccolta e alimentata.

SOPRAVVIVERÀ la democrazia italiana alle cinque crisi che la stanno pericolosamente avvolgendo? Mai, nella storia della Repubblica, si erano manifestate insieme, e via via sempre più intrecciate, una crisi istituzionale, una politica, una civile, una economica, una sociale.

 Cogliamo ogni giorno i frutti amari e avvelenati di una cosiddetta Seconda Repubblica nata dall’improvvisazione e dall’imprevidenza, di un dissennato “bipolarismo feroce” (copyright del direttore diAvvenire),di una lotta politica degenerata in rissa continua, del degrado del linguaggio, della fine del rispetto dell’altro, di una regressione culturale senza fine.

La crisi civile e morale ci avvolge. Implacabili, i quotidiani bollettini di guerra ci indicano i protagonisti di una torbida stagione vissuta all’insegna della cancellazione d’ogniconfine tra lecito e illecito, tra privato e pubblico.Ma gli arrestati, gli indagati, gli autori di furti legali non sono soltanto gli occasionali “testimonial” di vicende corruttive, le “pecore nere”, le “mele marce”. Si rivelano ogni giorno di più come l’avanguardia di schiere infinite, gli emuli a ogni livello di chi si è scritto leggi ad personam e ha coltivato conflitti d’interesse. Questa logica si è generalizzata, un numero crescente di persone ha trasferito risorse pubbliche nelle sue disponibilità private, anche sulla base di norme predisposte proprio a questo fine – dalle ordinanze della Protezione civile alle regole a maglie larghissime dei consigli regionali, che consentono ai mariuoli di dire d’aver seguito prassi legittime. Si è costruita una “legalità parallela” per legittimare il malaffare.

Oggi è saltato proprio quello che era stato giustamente definito il “compromesso permanente tra legalità e illegalità”. La politica sembra attonita, balbetta. Che cosa sarebbe accaduto se, all’indomani dell’assassinio del generale Dalla Chiesa, il Parlamento si fosse limitato alle esecrazioni rituali, invece di approvare tempestivamente la legge La Torre-Rognoni? Che cosa sarebbe accaduto se, all’indomani dell’assassinio di Giovanni Falcone, il Parlamento, riunito per l’elezione del Presidente della Repubblica, avesse proseguito nel rito di innumerevoli votazioni, giungendo per sfinimento all’elezione di Giulio Andreotti, invece di rompere l’incantesimo eleggendo subito Oscar Luigi Scalfaro?

Non sono richiami azzardati, di fronte al quotidiano assassinio della credibilità delle istituzioni, della legalità democratica. Non arriva nessun segnale forte, se si fa eccezione per lo scioglimento del consiglio comunale di Reggio Calabria. Il Parlamento, in un sussulto di dignità, avrebbe dovuto approvare subito una vera, seria legge sulla corruzione. E invece rimane prigioniero di ricatti, si sfianca nella ricerca di un nuovo compromesso.

La crisi della politica, allora. Palese nell’altro infinito inseguimento, quello ad una legge elettorale ormai concepita soprattutto come un mezzo per neutralizzare un esito elettorale temuto, per regolare preventivamente conti all’interno del sistema dei partiti. Le elezioni come un intralcio, un problema, e non come il momento in cui la parola torna nella sua pienezza ai cittadini? Non si vuole più correre il “rischio democratico” del voto. Ecco, quindi, l’ossessiva ricerca della continuità, che s’impiglia nell’altro vizio di questi anni, l’estrema personalizzazione della politica.Monti con lasua “agenda”, quindi,chediviene un modo per sfuggire alle responsabilità proprie. Un vero transfert, che rivela la difficoltà della politica di liberarsi dei suoi mali e tornare ad essere davvero tale. Ma i promotori del “giuramento Monti” si sono presto rivelati come degli apprendisti stregoni, aprendo la strada alla nuova scorreria di Berlusconi. Un Monti ostaggio, pedina di manovre interne ai partiti, strumento per trasformare le elezioni in un referendum pro o contro la sua persona? Diciamo, piuttosto, una vicenda che rivela una volta di più le miserie della politica.

Tutto questo avviene all’ombra non dissipata d’una crisi istituzionale. I tre soggetti che negli anni pericolosi del berlusconismo hanno impedito il collasso della legalità e, con essa, della democrazia – Presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, magistratura – si trovano ora divisi, contrapposti. È il lascito di un’estate avvelenata, che ha visto il trasformarsi di una discussione legittima in una furia polemica che sembra inconsapevole del pericolo di una terra bruciata. Ovvio che si potesse discutere intorno alla opportunità politica e alla portata istituzionale delle posizioni assunte dal Presidente della Repubblica nella nota vicenda delle intercettazioni telefoniche conservate presso la Procura di Palermo. Ma che senso ha descrivere le posizioni in campo come un conflitto tra “trombettieri del Quirinale” e difensori della verità, delegittimando preventivamente chi esprime un’opinione diversa dalla propria? Vizi diffusi, e non da una parte sola. E che hanno progressivamente impedito di vedere che un problema esiste, che nasce proprio da controversie intorno alle prerogative presidenziali e che non può essere risolto con un meccanico rinvio a regole della procedura penale. La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica ci indica un orizzonte più largo e va oltre quei soli riferimenti (e non può certo essere strumentalizzata per chiedere salvacondotti per altri soggetti istituzionali o per mendicare la stretta autoritaria sulle intercettazioni). Lo ha ribadito ieri lo stesso Presidente, sottolineando l’improprietà di una personalizzazione della questione e la necessità di non lasciare alcuna ombra sui rapporti tra il Capo dello Stato e altri soggetti istituzionali..

Proprio nella temperie politica e costituzionale che viviamo, una precisazione così importante appare indispensabile (e rischiano di non contribuire al chiarimento alcuni toni della memoria a difesa della Procura di Palermo). E non mi pare che sia stato apprezzato adeguatamente il fatto che Giorgio Napolitano abbia deciso di sottoporsi al giudizio di un organo terzo, la Corte costituzionale appunto. Una mossa democratica, che si è cercato di delegittimare delegittimando la stessa Corte, presentandola come un organo privato di autonomia proprio dall’iniziativa presidenziale, persino con argomenti di tipo berlusconiano, quali sono quelli che richiamano il fatto che alcuni dei giudici della Consulta sono stati nominati da lui.

La verità è che, di fronte ai molti misteri della Repubblica, prorompe quasi sempre un bisogno di giustizia sostanziale, insofferente d’ogni regola. Ecco, allora, la presentazione della posizione del Presidente della Repubblica come un intralcio alle indagini dei magistrati siciliani. Tesi contraddetta dalle stesse dichiarazioni della procura di Palermo sulla non rilevanza delle intercettazioni a questo fine. Ma di cui si è data una versione tutta politica, insistendo su un isolamento dei magistrati siciliani che, se mai, ha le sue origini altrove.

È ancora possibile ricostruire un clima nel quale la decisione della Corte venga intesa come la definizione del quadro costituzionale e non come una pronuncia che dà torto ad una parte e ragione all’altra? Non è questa la logica del giudizio costituzionale. Certo, pieno deve essere il sostegno al lavoro dei magistrati dai quali, se riusciranno a fare finalmente chiarezza sulle violazioni della legalità, verrà un contributo essenziale per la ricerca di quella verità storica e politica che è comunque responsabilità di altri organi costituzionali.

Questo contesto politico e istituzionale non è il più propizio per un governo adeguato della crisi economica e di quella sociale, che non può essere affidato, come sta accadendo, all’erosione dei diritti di cittadinanza, a partire da quelli fondamentali alla salute e all’istruzione, a una rinnovata riduzione del lavoro a merce. La sospensione di fondamentali garanzie, che toccano lo stesso diritto all’esistenza, non può essere giustificato con nessuna emergenza.

Tutto questo determina tensioni sociali sempre più forti, alle quali si accompagna un passaggio dai rischi del populismo a quelli della demagogia. Qui è il pericolo per la democrazia e le sue istituzioni che, se vogliono riconquistare fiducia, devono rimettere in onore i diritti delle persone. Questione, a ben vedere, che riguarda pure le necessarie trasformazioni dell’Unione europea, irriducibili al solo rafforzamento del governo dell’economia. A chi conviene una democrazia senza popolo?

Ripartirei da un fondo di Norma Rangeri (il manifesto, 29 settembre): «La trappola del tecnico», che condivido pressoché interamente. Sono d'accordo con lei che il pericolo più grande per la sinistra - qualsiasi sinistra - è la ripresentazione, dopo le elezioni politiche del 2013, di un Monti-bis. Non sposo gli accenti di esecrazione e di condanna, che sento spesso pronunciare, ovviamente sempre a sinistra, nei confronti dell'Agenda Monti. Lo sforzo compiuto dal Presidente del Consiglio (un po' meno, e talvolta molto meno, dai suoi ministri) di elevare il tono delle attività di governo e di restituire dignità all'Italia nei confronti degli stati stranieri e della comunità internazionale (anche noi facciamo parte della Nazione, o no?), non è da sottovalutare. Tuttavia condivido: se Monti dovesse tornare con una qualsiasi manovra parlamentare alla Presidenza del Consiglio dopo il voto sarebbe una iattura per la sinistra, e per l'Italia. Perché?

Innanzi tutto, perché questo non è il nostro governo, e quindi noi pensiamo che non sia il governo giusto per l'Italia. I suoi valori, i suoi obiettivi, la sua mentalità sono radicalmente altri dai nostri. L'idea che equità e giustizia siano i fondamentali parametri di riferimento, intorno ai quali vada costruita la gabbia economica, e non viceversa, non lo tocca. Di questo passo, oltre tutto, si può ammazzare il cavallo prima di risanarlo.

Ma poiché ci sono altri motivi, che vorrei dire soprattutto rivolgendomi ad alcuni miei autorevoli amici, i quali sono di opinione nettamente contraria. La democrazia è una cosa delicata: se lo stato d'emergenza, di fronte al quale abbiamo chinato il capo, si trasforma nella regola, c'è il rischio che le fragili strutture della nostra rappresentanza collassino per sempre. A che servirebbe più il voto se la soluzione, in un modo o nell'altro, è già data in partenza?

Inoltre: preoccupa anche il profluvio d'indicazioni che in tal senso provengono dall'esterno. Capi di stato, banche centrali, economisti e politici di varie nazionalità e colore politico, sono tutti d'accordo: riconfermate Monti. Il migliorato rapporto dell'Italia con il resto del mondo rischia così di trasformarsi in un boomerang: il resto del mondo, invece di stare a guardare rispettosamente come noi più o meno ce la caviamo, ci indica a gran voce quale debba essere il nostro futuro Presidente del Consiglio. Non è un po' troppo per la nostra dignità nazionale e, ancora una volta, per la nostra fragile democrazia?

Queste però sono soltanto le premesse. Come si può evitare che esse, invece che verso quella giusta, si volgano verso la direzione sbagliata? Qui si torna al voto, al vituperatissimo voto. È in questo ambito che la politica, se c'è, batta un colpo. Per evitare che il Monti-bis prenda corpo non bastano gli anatemi: è necessario che nel voto si manifesti una forza diversa e contraria, talmente significativa per le sue dimensioni e i suoi caratteri, da rendere semplicemente improponibile la ripresentazione del Monti-bis (e, com'è ovvio, di qualsiasi succedaneo pretenda a quel punto di sostituirglisi). Esiste una tale forza nel campo ancora variamente frammentato e scollegato della sinistra?

L'unica che possa aspirare a tale impresa è il Patto Pd-Sel, Bersani-Vendola. Mi appello alla logica prima che alla politica. Per garantirsi che il Monti-bis scompaia effettivamente di scena, occorre con il voto rendere il Patto Pd-Sel così consistente da impedire che si verifichi qualsiasi fuga sulle ali (persino al proprio interno) o verso il Monti-bis oppure verso altre alternative alleanze di stampo moderato. Nell'ambito di quelle che io considero le sciagurate primarie di coalizione vale comunque lo stesso ragionamento. Siccome Bersani ha preso la testa della coalizione, renderlo forte alle primarie significa rendere più forte la coalizione che capeggia. Inoltre: per battere senza incertezze Renzi, bisogna che la coalizione di centrosinistra sia in grado di navigare da sola: ossia dimostrando sin dall'inizio che non c'è bisogno di stampelle moderate perché questo avvenga.

A filo di logica, mi pare, questo ragionamento non teme obiezioni. Ma la logica coincide con la politica? L'obiezione più grossa al mio ragionamento è che il Patto Pd-Sel porta in seno l'Agenda Monti. Non vale votarlo, se non ci sono garanzie che un governo di centro-sinistra di tale natura non sia l'erede, il continuatore, l'alleato di quelle forze cui sarebbe chiamato a subentrare. Mi permetto di dubitare di un giudizio così drastico. Tutti sanno che nel Pd si contrappongono posizioni in materia assai differenziate; molto dipende dalla natura di quel partito, caoticamente stratificatosi nel tempo. Il rischio dunque è reale: ma io preferirei affrontarlo dopo. Dirò le cose nella maniera più semplice (brutale?) possibile: per vedere come stanno davvero le cose, bisogna vincere; se si vincerà bene, l'Agenda Monti sfumerà persino all'interno del centro-sinistra e sfumerà tanto più quanto il centro-sinistra risulterà vincitore. E questa volta c'è solo un modo di vincere (per non parlare dell'argine da apporre all'ondata travolgente dell'antipolitica, dell'astensionismo, del grillismo, della deflagrazione istituzionale: un grosso successo del centro-sinistra rappresenta l'unico modo per fronteggiarla).

Sarebbe semmai auspicabile un ragionato, consapevole premere dall'esterno alle porte del Patto Pd-Sel, presentando proposte, correzioni, aggiunte, formulando progetti più incisivi e avanzati: onde, come si diceva una volta, «spingere a sinistra» il più possibile la coalizione. È possibile questo? Finora nessuno ci ha mai provato; finora nessuno l'ha mai proposto. Questo è un male. Tempo fa proposi al Pd d'indire un'Assemblea nazionale (e magari regionali, provinciali, ecc.) di programma. La proposta è ancora valida. Ci sarebbe il tempo per fare questo e altro.

Invece c'è in giro, a sinistra, una voglia di frammentazione crescente, una sorta di voglia (del resto assai ben nota) di sopravanzare tutti gli altri in purezza, correttezza, squisitezza di programmi e di idee. È la libidine della sconfitta, che tanta prova di sé ha dato in passato nell'impedire il raggiungimento di risultati già quasi certi e nella dilapidazione di risultati già raggiunti. Speriamo che questa volta sia battuta.

La lotta di classe c'è stata in questi anni, peccato che a dichiararla, e a vincerla, siano stati i ricchi contro i poveri. Con il risultato che il 15% della ricchezza nazionale si è spostata dai salari e dalle pensioni ai profitti e alle rendite, più di 250 miliardi volati dal basso all'alto. «Se ci siamo beccati vent'anni di Berlusconi è perché da vent'anni il lavoro in Italia non è più rappresentato», grida Maurizio Landini a un pubblico di 5 mila delegati determinati, in attesa della proposta finale del segretario della Fiom. stesso giorno della mobilitazione nazionale degli studenti. Per riunificare le lotte, per non lasciare solo chi, come noi, è colpito dalle politiche del governo». Un'ovazione, tutti in piedi, chi con gli occhi umidi, chi a chiedere scherzosamente al vicino: «Ma che sostanza usa Maurizio?».

Un Landini scatenato, capace di raccogliere un sentimento condiviso al Palasport di Modena, ha duramente criticato le politiche del governo Monti. Sull'ultima manovra il segretario Fiom è stato netto: «Riduce l'Irpef per aumentare l'Iva, è una truffa. Gli incapienti che non arrivano a 8 mila euro, con l'aumento dell'Iva prenderanno ancora meno. In un paese in cui 9 milioni di cittadini non hanno i soldi per curarsi, tagliano i fondi per la sanità, con il rischio aggiuntivo che questi tagli facciano saltare in aria il settore biomedicale di Mirandola, già duramente colpito dal terremoto. Per il bene di chi, hanno fatto queste scelte? Dicono che il governo Monti fa il bene dell'Italia, ma di quale Italia parlano? Prima se ne va, meglio è».

Da oggi i militanti della Fiom saranno nelle piazze e davanti alle fabbriche a raccogliere firme per i due referendum sul lavoro, per abolire l'art.8 della manovra berlusconiana che rottama il contratto nazionale e per ripristinare nella sua interezza l'art.18, che impediva i licenziamenti individuali senza giusta causa. Sarà un caso, ma le prime vittime del nuovo corso montiano, sono per il 75% iscritti alla Fiom. «A chi ci dice che non ha senso raccogliere queste firme perché tanto prima del 2014 non si potrà votare, rispondo che lo sapevamo anche noi». E allora? Allora attivare le procedure per i referendum serve a costringere chi si candida a guidare il paese a prendere posizione sul lavoro e i diritti, la Fiom non intende fare sconti a nessuno. «Poi, se il governo che uscirà dalle urne ripristinerà l'art.18 violato dal duo Monti-Fornero con Pd, Pdl e Udc nella squadra, se abolirà l'ignominia dell'art.8 berlusconiano, allora dei referendum non ci sarà più bisogno. Se questo non avverrà, è giusto che i cittadini dicano la loro e decidano».

Ad alzare la palla sotto rete a Landini perché la schiacciasse contro il governo liberista di Monti è stato uno dei padri del giuslavorismo italiano, Umberto Romagnoli: «Tra Berlusconi e Monti c'è una discontinuità e una continuità. La discontinuità è mediatica, Monti non balla il bunga-bunga, sa vestire e stare a tavola; la continuità è sostanziale e riguarda le politiche del lavoro. Riguarda quel che Monti ha fatto - la riforma delle pensioni di Fornero sarebbe ridicola se non avesse effetti drammatici per centinaia di migliaia di lavoratori, per non parlare dell'art.18 - e quel che non ha fatto». Romagnoli ha ricordato come l'art.19 dello Statuto sulla rappresentanza e la democrazia sindacale, aveva un senso in un quadro di unità sindacale mentre con la frattura che si è determinata non impedisce «che il sindacato con il più alto profilo storico e culturale, che siete voi in questo palazzetto, venga espulso dalla Fiat». E per ricucire questa ferita, pensano con Romagnoli e Landini tutti i 5 mila delegati Fiom, bisogna muoversi subito. Serve la legge, «serve la politica di cui oggi lamentiamo l'assenza», conclude Romagnoli.

Se salta la democrazia nei posti di lavoro, se a scegliere gli interlocutori sindacali sono i padroni e non i dipendenti, se questi ultimi non possono eleggere i loro rappresentanti e votare sugli accordi e i contratti che li riguardano, allora è a rischio la democrazia. Dovrebbe saperlo, insiste Landini, chi si candida a guidare il paese, e dovrà essere chiaro con gli elettori. Sinistra dove sei? Cosa pensi? Con chi stai? Se lo domandano i delegati di Pomigliano e dell'Ilva di Taranto, della Fincantieri e dell'Alcoa e delle mille fabbriche di ogni dimensione in cui gli operai della Fiom si battono per salvare lavoro, diritti, sistema industriale. Ma quel che più preoccupa la Fiom è l'assenza di una politica industriale e la subalternità del governo alle imprese, al modello Marchionne a cui si riconosce il presunto diritto a fare quel che vuole e fuggire dove vuole. «Adesso in molti criticano Marchionne, all'inizio c'eravamo solo noi e in tanti ci dicevano che dovevamo accettare il ricatto o il lavoro o i diritti e spiegavano agli operai come avrebbero dovuto votare. Persino quel ragazzo che diceva di stare con Marchionne senza se e senza ma ora lo critica. Va tutto bene, ma tutti questi signori dovrebbero avere la decenza di chiedere scusa non alla Fiom, ma agli operai di Pomigliano e Mirafiori che hanno avuto il coraggio e la dignità di rifiutare quel ricatto». E giù altri applausi.

Mentre la Fiom chiede a Fim Uilm e Federmeccanica di fermarsi, di non procedere sulla strada di un nuovo contratto separato; mentre propone un anno di riflessione comune per ristabilire regole democratiche della rappresentanza e propone un impegno comune per il lavoro, l'occupazione, la ricerca e gli investimenti; mentre, sempre la Fiom, chiede di sostenere le imprese che si impegnano a fare contratti di solidarietà, a investire per il futuro, a ridurre l'orario per distribuire tra tutti il lavoro che c'è; mentre di questo si parla a Modena, a Roma la Confindustria con il sostegno del governo Monti che chiede un accordo sulla produttività, vuole dai sindacati un allungamento dell'orario e salari legati alla produttività. Quel tavolo di confronto, dice Landini, con queste premesse, va abbandonato. Lo dice innanzitutto alla Cgil. E la Federmeccanica, da cui se n'è andata la Fiat, ha fatto sua la filosofia di Marchionne e pretende di non pagare i primi tre giorni di malattia, di avere senza contrattazione gli straordinari, di passare al regime di orario settimanale.

No ai ricatti vuol dire no all'alternativa tra lavoro e diritti, come alla Fiat, o tra lavoro e salute, come all'Ilva. La Fiom è pronta a scioperare, ma contro la famiglia Riva che non fa gli investimenti di bonifica e non contro la magistratura. Perché «dobbiamo tornare a dire che la salute non si vende». Ecco la Fiom, più una gazzella che si difende dalle pallottole dei cacciatori che non un dinosauro. «Romiti si limitava a volerci sconfiggere, oggi invece vogliono cancellarci. Ma noi siamo ancora qui». Oltre agli applausi dei suoi delegati Landini meriterebbe rispetto, attenzione, sponde politiche. Sta combattendo una battaglia in difesa della dignità di tutto il paese.

 FU UNA di quelle opere – l’unità fra europei edificata nel dopoguerra – che gli uomini compiono quando sull’orlo dei baratri decidono di conoscere se stessi: quando vedono i disastri di cui sono stati capaci, esplorano le ragioni d’una fallibilità troppo incallita per esser feconda

E tuttavia non si fanno sopraffare dall’indolenza smagata che secondo Paul Valéry fu la malattia dello spirito europeo all’indomani del ’14-18: la «noia di ricominciare il passato», l’inattitudine a riprendersi e ri-apprendere. Il Nobel della pace è stato dato ieri a quel ricominciamento della storia, e alla svolta che fu la riconciliazione tra Francia e Germania, che in soli 70 anni avevano combattuto tre guerre. Dalla messa in comune di risorse vitali per i due paesi – il carbone e l’acciaio, fonti di ricchezza e morte – nacque l’Unione che abbiamo oggi. Mai era apparso così chiaro, nell’attribuzione dei Nobel, il nesso fra pace, democrazia, diritto. Come se l’invenzione d’Europa fosse la conferma vivente che firmare le tregue non è fare la pace. Che per tenere insieme su scala continentale i tre obiettivi – pace, democrazia, diritto – occorre andare oltre i trattati fra Stati, oltre la non belligeranza fra sovrani che non riconoscono potere alcuno, né legge, sopra di sé.

Quando propose e creò la Comunità del carbone e dell’acciaio, Jean Monnet spiegò il ragionamento che lo aveva ispirato: «Quando si guarda al passato e si prende coscienza dell’enorme disastro che gli europei hanno provocato a se stessi negli ultimi due secoli, si rimane letteralmente annichiliti. Il motivo è molto semplice: ciascuno ha cercato di realizzare il suo destino,o quello che credeva essere il suo destino, applicandole proprie regole». Fu grazie a questa consapevolezza che l’unità degli europei divenne un modello, e per gran parte del mondo ancora lo è: dalle stragi etniche o razziali, dagli scontri fra culture o religioni, si esce solo se gli Stati nazione smettono l’illusione di bastare a se stessi – la regola della sovranità assoluta – e creano comuni istituzioni politiche che realizzino il destino di più paesi associati, non di uno soltanto. In Asia, in Medio Oriente, il metodo comunitario resta la via aurea per superare i nazionalismi: molto più della solitaria potenza americana.

Fu una sorta di conversione, quella sperimentata dagli Europei. Al posto dello sguardo nazionale, lo sguardo cosmopolita; al posto dei trattati fra Stati, un’unione sin da principio parzialmente federale, cui le vecchie sovranità assolute venivano delegate. L’Europa è un sogno antico, ma è nel ’900 che diventa progetto pratico, necessità, dando vita a un’istituzione statuale. Un’istituzione che affianca Stati che si riconoscono non solo fallibili ma pericolosi per se stessi, se consegnati alle dismisure nazionaliste. Solo dopo la propria guerra dei trent’anni (quella che dal 1914 va al 1945) il continente scopre che non basta deporre le armi ma che urge capire perché insorgono i conflitti di sangue. «Insorgono a causa della facilità con cui gli Stati rimettono in causa il funzionamento delle loro istituzioni», disse ancora Monnet. Bene saperlo fin d’ora: le guerre divorano le democrazie, ma è il degradare delle democrazie e delle loro istituzioni che getta popoli senza più nocchieri nelle guerre.

Si trattava dunque di cessare i conflitti bellici e al tempo stesso di ridar forza alle istituzioni, di renderle meno discontinue. L’unità nasce dicendo no ai nazionalismi ma anche a quel che li fa impazzire: la povertà, la democrazia corrosa, il rarefarsi dello Stato di diritto prima ancora che dei diritti umani.

Conferito in questi giorni, il premio è singolare. Quasi sembra che faccia dell’ironia, anche se difficilmente immaginiamo una giuria ironica. È come se non suggellasse un progresso, ma indicasse come rischiamo di perderlo. Mostra quel che l’Europa ha voluto essere, e non è ancora o non è più. Gli scontri sull’euro, la Grecia trasformata in capro espiatorio, il peso abnorme di un solo Stato (Germania): non è l’unione cui si è aspirato per decenni, ma una costruzione che si decostruisce e arretra invece di completarsi. È come se la giuria ci dicesse, fra le righe: «Voi europei avete inventato qualcosa di grande, ma non siete all’altezza di quel che oggi premiamo. Siete una terra promessa, ma voi abitate ancora il deserto come gli ebrei fuggiti dall’Egitto». Se l’Europa si compiacerà del premio vorrà dire che dell’evento avrà visto solo la superficie celebrativa, non il caos che ribolle sotto la superficie.

Un premio così non si riceve soltanto. Lo si medita, lo si interroga, come nella Grecia antica s’interpellava l’oracolo di Delfi. Anche perché il responso non muta, nei millenni: conosci te stesso, ripeterà. Conosci il tradimento delle promesse iniziali e il ridicolo delle tue apoteosi. Prova a capire come mai l’Unione non sveglia più speranze ma diffidenza, paura, a volte ribrezzo. Rimasta a metà cammino, l’Europa non è ancora l’istituzione sovranazionale che preserva la democrazia e lo Stato sociale. Viene identificata con uno dei suoi mezzi – l’euro – come se la moneta e le misure fin qui congegnate fossero la sua

finalità, salvataggio finanziario e il rifiuto di ogni via alternativa hanno fatto perdere di vista la democrazia, e la solidarietà, e l’idea di un’Europa che, unita, diventa potenza nel mondo.

L’ideale sarebbe se l’Europa non andasse a prendere il premio, e comunicasse al Comitato Nobel che i propri cittadini (non gli Stati, ben poco meritevoli) verranno a ritirarlo quando l’opera sarà davvero voluta, e di conseguenza compiuta. Quando avremo finalmente una Costituzione che – come nella Federazione americana – cominci con le parole «Noi, cittadini....». Quando ci si rimetterà all’opera, e ci si spoglierà della noia di ricominciare la storia. I sotterfugi tecnici non durano: durano solo le istituzioni. La svolta è politica, mentale, e proprio come nel 1945, è la massima di sant’Agostino che toccherà adottare: Factus eram ipse mihi magna quaestio

– Io stesso ero divenuto per me un grosso problema, e un grosso enigma.

DALLA Calabria alla Lombardia, come vent’anni fa, stiamo vivendo il tracollo rapidissimo di una classe politica che precipita nel vortice di una Nuova Tangentopoli. Con un’incoscienza che misuriamo anche nella prima reazione di Formigoni all’arresto del suo assessore rivelatosi complice della ‘ndrangheta: «È un fatto grave ma ne risponde Zambetti ». Si resta attoniti di fronte a questo tentativo di minimizzare, da parte di un potente aggrappato alla poltrona, l’«inquinamento della democrazia» denunciato ieri da Ilda Boccassini.

È un inutile tentativo di far sopravvivere una giunta già profondamente delegittimata da sistematici episodi di corruzione, per i quali lo stesso Formigoni è indagato.

Come già la Polverini nel Lazio, anche il presidente della giunta regionale lombarda è destinato a uscire presto di scena. I leghisti che l’hanno sorretto finora per meri calcoli di potere andrebbero incontro all’autodistruzione, perseverando in una scelta che contraddice la loro identità. Dopo decenni di rassegnazione a una politica ridotta ad affarismo, il sistema sta collassando. Dal dirigente Pdl che vuole posteggiare nello spazio riservato al disabile, e per questo gli buca le gomme dell’auto, al funzionario che lucra sulle colonie estive dei bambini, dall’assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa, che affitta un suo capannone a venditori di merce contraffatta, ai capigruppo che si appropriano di denaro pubblico, fino al culmine dei voti di preferenza comprati dalla criminalità organizzata, di giorno in giorno la galleria degli orrori supera ogni immaginazione. Di questo passo torneremo al lancio delle monetine e magari al cappio esibito in Parlamento, trucchi buoni solo per allontanare la necessaria riforma della politica. Non a caso, l’apparato mediatico di proprietà dell’uomo che ha allevato questa razza predona, ha ricominciato con spregiudicatezza a cavalcare la sacrosanta indignazione dei cittadini contro la “magna casta” (è il titolo di un giornale berlusconiano che fino a ieri sparava contro le “toghe rosse”). Da Fiorito alla Minetti, i protagonisti del degrado vengono invitati a far mostra di sé nei salotti televisivi per essere sottoposti al dileggio di chi li aveva scritturati, nella speranza che il coro “tutti ladri!” stordisca l’opinione pubblica, manipolando il necessario discernimento delle responsabilità.

Gli stessi che hanno rigonfiato scandalosamente i costi della politica e hanno riempito le istituzioni di farabutti, ora si fingono nauseati in attesa di riproporsi magari come artefici della bonifica. Anche nel corso della prima Tangentopoli si comportarono così, da forcaioli, salvo rivoltarsi all’improvviso contro i giudici non appena emerso l’uomo forte della destra al cui servizio si misero in fila. Basta vedere, oggi, come hanno esaltato fin che possibile il “coraggio” della Polverini nella speranza che resistesse, per poi scaricarla. Faranno lo stesso con Formigoni. L’unica differenza è che l’uomo forte cui si aggrapparono vent’anni fa per resuscitare un sistema di potere ferito, non è più presentabile.

La Nuova Tangentopoli si manifesta in un contesto di emergenza democratica più acuta di quella vissuta nel 1992. Non solo per la recessione economica e l’impoverimento diffuso della popolazione. Ma anche perché l’influenza delle organizzazioni criminali e dei clan affaristici nelle istituzioni è ormai pervasiva, incontrastata da una politica priva di anticorpi, come dimostra l’inchiesta della magistratura lombarda. Qualcuno dovrebbe chiedere scusa a Roberto Saviano, dileggiato quando segnalò che anche in Lombardia la ‘ndrangheta controlla porzioni rilevanti di territorio e prospera con le sue attività di riciclaggio finanziario e imprenditoriale.

Dal cardinale Scola a Comunione e Liberazione, dalla destra pulita di Gabriele Albertini all’Assalombarda, c’è da augurarsi che si levi una sollecitazione univoca per indurre Formigoni a levarsi di mezzo, consentendo il ripristino di una normale dialettica democratica

sulle ceneri della giunta degli indagati e degli arrestati. Lo stesso governo tecnico deve affrettarsi, per esempio, a rimuovere il prefetto di Milano già dispensatore di favori a una delle favorite del Sultano, e ora compromesso in relazione improprie con dei corrotti da cui ha ottenuto a prezzi di favore la casa per il figlio.

La compravendita di voti controllati dalla ‘ndrangheta a favore dell’assessore Zambetti, infine, dovrebbe seppellire il tentativo di reintrodurre nella legge elettorale nazionale quel sistema delle preferenze che già tanti danni produce nella politica locale. O vogliamo forse che dalla Nuova Tangentopoli usciamo inneggiando alle manette e a chissà quale nuovo uomo forte? L’indignazione dei cittadini deve produrre un vero ricambio di classe dirigente, cioè una riforma della politica. La Lombardia che ha già vissuto la pacifica “liberazione” di Milano, ha in sé tutte le risorse per farsene battistrada.

FORSE si muove qualcosa, nella mente della potenza tedesca che da anni comanda in Europa sapendola solo dividere, non guidarla e federarla? Ancora non è chiaro, ma se Angela Merkel ieri è corsa a Atene – dove la sua politica e il suo Paese sono esecrati, dove è stato necessario militarizzare la capitale per domarne la collera – vuol dire che vi sono elementi nuovi, che destano spavento a Berlino. Uno spavento che si è dilatato, dopo l’intervista di Antonis Samaras al quotidianoHandelsblattdi venerdì. Sono parole diverse dal solito: il Premier greco non si sofferma sui debiti, né sul Fiscal Compact, né sul Fondo salva-Stati approvato lunedì a Lussemburgo. La prima visita del Cancelliere, invocata da Samaras, avviene perché si comincia a parlare dell’essenziale: di storia, di memorie rimosse e vendicative, di democrazia minacciata. Estromessa, la politica prende la sua rivincita e fa rientro. Caos è il vocabolo usato nell’intervista, e il caos impaura la Germania da sempre. Anche perché quel che le tocca vedere è una replica: più precisamente, la replica di una storia che Berlino finge di dimenticare, ma che è gemella della sua.Il caos, i tedeschi sanno cos’è: specie quello di Weimar, quando la democrazia, stremata dai debiti di guerra e dalla disoccupazione, cadde preda di Hitler. È lo scenario descritto da Samaras: Weimar è oggi a Atene, e anche qui incombe una formazione nazista, che si ciba di caos e povertà.

Alba dorata ha ottenuto alle elezioni il 6,9 per cento, ma oggi nei sondaggi è il terzo partito. I suoi principali nemici sono l’Unione, e tutto quel che l’Europa ha voluto essere dal dopoguerra: luogo di tolleranza democratica, di assistenza ai deboli attraverso il Welfare. Lo straripare della disoccupazione, spiega Samaras, dà le ali a un partito che non ha eguali in Europa, tanto esplicita è la sua parentela con il nazismo e perfino con i suoi simboli (una variazione della svastica). L’odio ell’immigrante,delgay,deldisabile, è la sua ragion d’essere. Se l’Europa non aiuta la Grecia dandole più tempo, a novembre le casse statali saranno vuote e può succedere di tutto. In parlamento i deputati nazisti si fanno sempre più insolenti, sicuri. L’ex Premier George Papandreou è bollato come «greco al 25 per cento»: la madre è americana. Ogni nuovo emigrato va tenuto lontano, con mine anti-uomo lungo le frontiere.

Non è male che infine si cominci a dire come stanno davvero le cose, e quel che rischiamo: non tanto lo sfaldarsi dell’euro, quanto il tracollo delle mura che l’Europa si diede quando nacque. Mura contro le guerre, contro le diffidenze nazionaliste, contro la logica delle punizioni. Fare l’Europa significava dire No a questo passato mortifero, ed ecco che esso si ripresenta nelle stesse vesti. Per la coscienza tedesca, uno scacco immenso: la storia le si accampa davanti come memento e come Golem, da lei stessa resuscitato. Oltrepassare i calcoli sull’euro e sondare verità sin qui nascoste aiuta a scoprire quel che Atene sta divenendo: un capro espiatorio. Un laboratorio dove si sperimentano ricette costruttiviste e al tempo stesso si collauda la storia che si ripete: non come tragedia, non come farsa, ma come memoria stordita, morta.

Come possono i tedeschi scordare il muro portante del dopoguerra, e cioè la coscienza che la punizione nei rapporti tra Stati è veleno, e che i debiti bellici della Germania andavano perciò condonati? Nell’accordo di Londra sul debito estero, nel ’53, fu deciso di prorogare di 30 anni il rimborso, e di esigerlo solo qualora non avesse impoverito la Repubblica federale. I greci non l’hanno dimenticato: un comitato di esperti sta calcolando quel che Berlino deve a Atene per i disastri dell’occupazione hitleriana (circa 7,5 miliardi di euro). «Le riparazioni non sono più un problema », replica il governo tedesco. Lo saranno di nuovo, se il castigo ridiventa criterio europeo come nel 1918 verso la Germania.

La Grecia certo non è senza colpe. All’indisciplina di bilancio s’accoppiano la corruzione politica, l’enorme evasione fiscale. Il caos è in buona parte endogeno, come sostenne Alexis Tsipras del partito Syriza quando mise al primo punto del programma la lotta ai corrotti. Ma è un caos non più grave dell’italiano, e anche se Syriza ha manifestato ieri contro la Merkel, assieme ai sindacati, è scandaloso che il Cancelliere si rifiuti di incontrare il primo partito d’opposizione, solo perché le ricette anti-crisi sono ritenute fallimentari.

In fondo non c’è bisogno di Samaras, per penetrare la realtà greca ed europea, e ammettere che nessuno può sopportare una recessione quinquennale. Basta leggere blog e libri indipendenti. Bastano i testi di storia, che raccontano di un paese dove la resistenza antinazista non fu artefice della democrazia postbellica come in Italia, ma venne perseguitata ed esiliata dagli anglosassoni: il potere militare fu da loro favorito per decenni (colonnelli compresi).

I romanzi di Petros Markaris sul commissario Kostas Charitos – una specie di Montalbano greco – sono conosciuti in Italia. L’ultimo, pubblicato da Bompiani nel 2012, s’intitola L’Esattore, e narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l’altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa né vuole agire. L’assassino assurge a eroe nazionale, gli indignados diPiazza Sìntagma vogliono candidarlo: «L’Esattore nazionale è un Dio!», gridano. Oggi esce in Francia un film di Ana Dumitrescu, Khaos,

he raffigura il pandemonio ellenico. Dicono nel film: «Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all’azione politica».Il sottotitolo di

Khaos

è «i volti umani della crisi»: volti che la trojka non vede, né la Merkel, né i governi del Sud Europa che trattano Atene come paria, per paura d’esser confusi con essa. Ma il paria parla di noi, e dell’Europa tutta. Habermas probabilmente pensava alla Grecia, nel discorso tenuto il 5 settembre davanti al partito socialdemocratico: i piani di austerità delineano, ovunque, un

percorso post-democratico.

Quel che assottigliano non è tanto la sovranità assoluta degli Stati nazione – oggi anacronistica – quando la sovranità del popolo, che è costitutiva della democrazia e non è affatto obsoleta. I diritti sovrani sottratti tramite Patto fiscale e Fondo salva-stati semplicemente evaporano, «perché non trasferiti verso un autentico, democratico legislatore europeo». Il potere resta nelle mani di trojke e Consigli dei ministri non eletti dai cittadini europei, o di tecnici che possedendo la scienza infusa pretendono di superare gli Stati nazione da soli, e surrettiziamente.

«Credo che questo sia il prezzo che paghiamo alla soluzione tecnocratica della crisi», conclude il filosofo: «In tale configurazione, imbocchiamo un percorso postdemocratico che approderà a unfederalismo esecutivo.

La democrazia si perde per strada, e tutti mancheremo l’occasione di regolare i mercati finanziari (...). Un esecutivo europeo del tutto indipendente da elettorati che possano essere democraticamente mobilitati smarrirà ogni motivazione e ogni forza per azioni di contrasto».

L’ora della verità è quella in cui i numeri non occupano l’intero spazio mentale, e in scena fanno irruzione la storia, le memorie scomode delle guerre europee e dei dopoguerra. Per questo sono importanti l’allarme di Samaras, il disagio che ha suscitato in Germania, l’impervia corsa della Merkel a Atene. Qualcosa si muove: non necessariamente in meglio, ma almeno si è più vicini al vero. Si chiama Alba dorata il pericolo greco, ed è alba tragica. All’orizzonte si staglia la figura dell’Esattore Nazionale,salutato come Apollo vendicatore: che viene e uccide itraditori della democrazia. È così, dai tempi dell’Iliade, che dalle nostre parti iniziano le guerre.

Hanno svalorizzato il lavoro, grazie all'impegno sistematico di più governi che si sono passati il testimone. Hanno svalutato i salari e le pensioni, mentre era in atto una riduzione drastica del welfare. Il futuro di ormai ben più di una generazione di giovani è stato sequestrato. Così la crisi e chi la pilota, oggi, «ha la meglio» persino sui bisogni primari delle persone. Automaticamente le conseguenze del disastro vengono scaricate sui poveracci che non hanno né stock option né suv pagati dalla collettività per sopportare le valanghe di neve della Città Eterna. E sembra a troppi persino normale che in queste condizioni si pretenda da chi ancora un lavoro ce l'ha, magari cassintegrato o precario, di rinunciare ai suoi diritti perché oggi come oggi non ce li possiamo permettere. Il risultato è davanti agli occhi di tutti, persino di De Benedetti che scopre che le promesse di Marchionne erano favole.

Anzi, lui l'ha sempre saputo, ci ha fatto sapere quando l'amministratore delegato Fiat ha tolto la maschera che aveva solo per chi non voleva guardarlo in faccia: peccato che il suo impero editoriale non abbia brillato nello smascheramento della favole e nel sostegno degli operai di Pomigliano e Mirafiori.
Senza investimenti, senza un progetto di politica economica e sociale all'altezza della crisi, il lavoro scompare e l'incertezza domina la vita di decine di milioni di persone. Fiat, Alcoa, Ilva sono solo i titoli del disastro sociale, ambientale e democratico. Dall'isola dei cassintegrati al campanile di San Marco c'è chi tenta di resistere pretendendo un cambiamento delle politiche del governo, non possiamo lasciare soli questi lavoratori.
La manifestazione indetta dalla Cgil e dalla Fiom per il 20 ottobre a Roma dei dipendenti di tutte le aziende in crisi, con la partecipazione di chi non riesce più a vivere con una pensione sterilizzata, è un passo positivo e importante per non lasciare soli i target del montismo, che siano in tuta o in camice, e possiamo aggiungere per non lasciare sola la Fiom che troppo a lungo sola si è trovata, in una lotta durissima contro la filosofia di Marchionne e il marchionnismo dilagante persino tra i candidati alle primarie del Pd e tra troppi sindaci democratici. Piazza San Giovanni è una buona piazza, una piazza che può dare fiducia e rappresentare il primo di una serie di appuntamenti per restituire voce e protagonismo ai lavoratori, ai pensionati, ai precari, ai disoccupati.
L'appuntamento successivo dovrebbe essere lo sciopero generale nazionale, inopportunamente cancellato dall'agenda della Cgil: non si tratta di fare ginnastica, di autoconfermarsi, di agitare bandiere sbiadite ma di togliere il tappo a un paese tramortito e troppo a lungo zittito, ma non ancora piegato alle leggi del dio mercato. Una grande manifestazione in piazza San Giovanni e poi uno sciopero generale per dire che c'è un'altra Italia oltre a quella liberista che ci comanda per interposto governo e oltre a quella dei suv, delle vacanze ai Caraibi, insomma un'altra Italia da quella dei ladroni e dei padroni.
È importante che la Cgil, e non solo la Fiom, abbia deciso di dare un segnale nell'unico paese europeo in cui gli altri sindacati non aderiscono agli scioperi contro il modello economico che uccide lavoro, salari, pensioni e diritti. La Fiom, accerchiata dall'esterno e che qualcuno anche dall'interno vorrebbe far traballare, ha superato due prove importanti nell'arco di sole 48 ore: mercoledì ha eletto una nuova segreteria confermando la fiducia del gruppo dirigente nazionale a Maurizio Landini e alle scelte difficili e radicali di questa stagione e ieri ha raccolto l'ascolto e il consenso degli operai che più di tutti sono sotto l'occhio del ciclone: gli operai dell'Ilva di Taranto, dove pure la Fiom non aveva la maggioranza dei consensi, oggi ascoltano e applaudono Landini che ha «il coraggio» di non scioperare e manifestare insieme al padrone contro la magistratura e ricorda a tutti, in tuta o in veste ministeriale, che chi minaccia il lavoro e attacca la salute è il padrone. Bisogna sapere chi è l'avversario principale e dove si annida. E bisogna riconoscere anche gli altri avversari: il governo Monti e la sua politica economica classista, lo stesso governo assente e ostile chiamato in causa dai lavoratori dell'Alcoa, della Fiat, della Vinyls e di tutte le aziende in crisi. In crisi di lavoro, ma anche

San Giovanni è una prima risposta importante. Aspettando la prossima.

Postilla

C’è un’idea diffusa, di massa, secondo cui non deve andare perduta la discontinuità che questa esperienza ha marcato rispetto al berlusconismo. E c’è invece un’idea di élite che l’appoggia. Ed è il sospetto verso la politica dei poteri forti, che fa pensare come sia meglio lasciare al comando chi ha le “competenze”

Se da vivi, mentre si gode ottima salute, e dopo un’ancor breve esperienza di potere, dal proprio cognome nasce una corrente di pensiero, o una tendenza politica — un “ismo” — significa che si è entrati nella storia. Non si parla di leninismo o di stalinismo, evidentemente, e neppure di andreottismo — per dare vita al quale Andreotti ha però speso quasi tutta una carriera — , ma dell’assai meno inquietante “montismo”: l’ultimo contributo italiano alla storia del pensiero politico — dopo il machiavellismo, il futurismo, il gramscismo, il fascismo — .

Di per sé, il montismo vuol essere la trasformazione dell’eccezione in normalità, e quasi in destino (non solo Montibis, ma Montifor ever);è la prosecuzione di Monti — dello stile di Monti, delle finalità di Monti — con altri mezzi o addirittura con lo stesso mezzo: con Monti stesso, cioè; il quale dopo le elezioni dovrebbe essere a capo, o ricoprirvi una posizione dominante, di un governo non più tecnico ma politico (un esecutivo di larghe intese, oppure di maggioranza più limitata).

Montismo si dice in molti modi. Esiste un montismo maggioritario, di massa, che si fonda sull’idea che non deve andare perduta la discontinuità che esso marca rispetto al berlusconismo. Una discontinuità di stili e di tipi umani: da una parte l’industriale brianzolo divenuto tycoon— conservando i tratti plebei del parvenu— ; dall’altra il rappresentante quasi idealtipico della borghesia lombarda dei buoni studi, dei solidi matrimoni, delle vacanze signorili e poco appariscenti, delle professioni liberali, della cultura comehabitus.

Una discontinuità che è stata accolta in patria e all’estero con stupore e favore, che è divenuta simbolo positivo di un’altra Italia, credibile e non più pittoresca; lontana dalla prima come ilburlesque

da un concerto per pianoforte e archi, come la buona educazione dalla cafonaggine, come il loden dallepaillettes. Una discontinuità fraélitese populismo; non solo fra due stili, quindi, ma fra idee etico-estetiche della politica e della società.

Alla radice di questa discontinuità agisce però una continuità; l’archetipo della politica come autorità, non come mero potere. L’idea, cioè, che la politica sia affare serio, che deve essere gestito da persone serie, autorevoli, che incutono perfino un po’ di soggezione per il loro sapere e per la loro superiorità fondata sulla competenza e sulla saggezza; un’idea elitaria, certo, ma antidemocratica solo se per democrazia si intende la politica che asseconda o provoca la sguaiataggine e la devastazione del costume e del discorso pubblico, che per aderire al “popolo” fa dell’incapacità ad articolare un argomento la propria cifra.

Il montismo è la politica come distanza, come autorevolezza — il contrario del potere populista e carismatico, che si propone come “uguale” alla “gente”, che ne esprime le pulsioni più profonde — ; ed è la soddisfazione per l’arrivo di“quello che mette le cose a posto”, del leader severo che rovescia il mondo rovesciato. E’ insomma la sobrietà che (col relativo mal di testa) succede all’ebbrezza e ai suoi disastri; la medicina propinata, con piglio professorale, all’Italia, il “malato d’Europa”, perché guarisca senza tanti capricci.

Montismo è quindi la rivoluzionaria restaurazione di un’immagine della politica da tempo perduta; dell’idea che è bene essere governati da uno migliore di noi che non da uno come noi o peggiore di noi. E quindi il montismo esprime anche il desiderio diffuso di un vero e credibile “uomo del fare”, dopo che colui che si era presentato come tale si è rivelato invece l’uomo dell’apparire e dell’affabulare.

Ma c’è anche un altro montismo, questa volta d’élite. Per la destra Monti è di sinistra, mentre al contrario si tratta del ritorno della borghesia moderata — da tempo assente dalla politica in senso stretto, perché l’aveva appaltata all’homo novus, Berlusconi, rivelatosi fallimentare — , che ora vuole riprendersi il controllo dei processi economici, delle spese e delle entrate, dei debiti e dei crediti. E lo fa attraverso un suo esponente — un professore d’economia,

grand commiseuropeo — che sa parlare (anche in inglese) ma non sa “comunicare”, e che non vuole “piacere”; e che anzi col suo “fare” procura qualche robusto dispiacere ai cittadini (senza guardare tanto per il sottile).

Una borghesia che però alla politica è ancora riluttante, e cerca di riprendersela, certo, ma sotto la forma della tecnica. Nel montismo quindi non c’è solo la nostalgia per la politica autorevole, e il plauso verso una politica fattiva: c’è anche il sospetto verso la politica da parte dei cosiddetti “poteri forti”. C’è l’idea che dopo tutto sia meglio lasciar governare chi è non politico, ma ha le competenze tecniche per affrontare il problema centrale del nostro tempo, cioè l’economia. E che quindi sia opportuno installare ai posti di comando i tecnici, che rispondono agli input dell’economia internazionale — cose serie — , piuttosto che i politici che rispondono a elezioni politiche nazionali. La politica, come Napoleone diceva dell’intendenza, seguirà. E allora si capisce perché il montismo sia anche la bandiera di modeste forze politiche di centro, che dei “poteri forti” (finanza, imprese, mondo economico cattolico) sono l’espressione, e che appoggiando Monti si collocano alla sua grande ombra, per trarne piccoli vantaggi.

Il montismo contiene quindi speranze e diffidenze, rischi e possibilità. Può essere un sinonimo di buona politica, oppure può essere rubricato come una forma insidiosa di tecnocrazia e di plutocrazia, suscitatrice, per reazione, di un altro “ismo”: il grillismo. E può quindi essere ascrivibile all’eccezione, alla perdurante crisi politica della Seconda repubblica, alle incertezze di un Paese la cui classe politica è ancora una volta tentata di affidarsi a un uomo della provvidenza — liberale e capace, questa volta — ; oppure può fungere da ostetrica nel parto doloroso ma fausto che darà vita alla Terza repubblica, a una politica finalmente normale.

C’è un’idea diffusa, di massa, secondo cui non deve andare perduta la discontinuità che questa esperienza ha marcato rispetto al berlusconismo. E c’è invece un’idea di élite che l’appoggia. Ed è il sospetto verso la politica dei poteri forti, che fa pensare come sia meglio lasciare al comando chi ha le “competenze”

Donne a Paestum, archeologia del futuro

Ida Dominijanni



Il femminismo radicale si incontra a Paestum per rilanciare la sfida delle origini nella crisi di civiltà di oggi. Sessualità, vita, lavoro, politica: la «rivoluzione necessaria» per riscrivere il patto sociale e la convivenza fra donne e uomini.

Le battute sulle streghe che ritornano si sprecheranno, e già volano, autoironicamente, sui siti del movimento. Eppure non è stata la nostalgia del passato, ma al contrario la scommessa sul futuro, a motivare la scelta di Paestum, già sede di uno storico raduno femminista del 1976, per l'incontro nazionale del femminismo radicale convocato per sabato e domenica prossimi. La tuffatrice, citazione femminilizzata del celebre reperto magnogreco conservato a Paestum, si slancia, dice il logo dell'incontro, nel XXI secolo.

Com'è andata lo racconta Lea Melandri in un'intervista sul sito che ha preparato l'iniziativa. L'idea di un incontro nazionale del femminismo radicale maturava da tempo, in controcanto alla piega paritaria, rivendicativa e moraleggiante che il discorso sulle donne (e talvolta delle donne) non smette di prendere sulla scena politica e mediatica mainstream, e si era meglio profilata dopo un seminario sul rapporto fra lavoro e cura di svariati mesi fa a Milano. Ma sono state le giovani dell'associazione Artemide di Paestum a suggerire il ritorno nella loro città, perché del raduno "storico" del '76 avevano sentito parlare le loro madri, e volevano riattraversare in qualche modo il mito dell'origine. Alla faccia dei rottamatori che imperversano ovunque di questi tempi.

Si va a Paestum dunque a discutere di rappresentazione lavoro e sessualità, trentasei anni fa a incontrarsi, in piena esplosione del movimento, erano un migliaio e stavolta, in piena implosione della politica e dell'economia, le prenotazioni ne promettono altrettante.

Tutto è cambiato da allora, il patriarcato allora trionfante oggi morente, la democrazia allora carica di promesse oggi assoggettata al mercato, l'idea di futuro allora trascinante oggi ammaccata dalla crisi, la condizione femminile stessa allora ai margini oggi al centro della sfera pubblica e del mercato del lavoro, e soprattutto la soggettività femminile, allora in piena maturazione oggi ricca di sedimentazione. Ma proprio per questo il ritorno all'origine, alla radicalità dell'origine, ha il senso, contemporaneamente, di una verifica e di una scommessa. Come scrive la lettera di convocazione dell'incontro - titolo Primum vivere anche nella crisi, firme (l'elenco qui sotto) rappresentative di tutto il femminismo radicale - «tante cose sono cambiate ma le istanze radicali del femminismo sono vive e vegete. E sono da rimettere in gioco oggi», per guardare alla crisi della politica, dell'economia, della democrazia con «un orientamento sensato».

Il richiamo alla radicalità dell'origine - Radicalità si intitola non per caso l'ultimo numero di Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano, largamente dedicato a Paestum - per interpretare il presente, rilanciare «la rivoluzione necessaria» e «la sfida femminista nel cuore della politica» è visibilmente tutt'altra cosa dal rivendicare l'inclusione paritaria, «50 e 50», delle donne nel quadro politico e sociale dato. All'inclusione femminile nella sfera pubblica e nel mercato del lavoro Paestum guarda, piuttosto, come a un dato di fatto, tanto dispiegato quanto ambivalente. Non si tratta più di confrontarsi con l'esclusione femminile, ma con una inclusione che si presenta in parte come conquista delle donne, in parte come «risorsa salvifica» di un sistema in crisi. E che produce per un verso protagonismo femminile e desiderio di contare, per l'altro verso nuove forme di assoggettamento e di omologazione.

Si tratta dunque in primo luogo di interrogare la «voglia di esserci» delle donne per piegarla verso la politica della differenza e sottrarla alla neutralizzazione paritaria: non tanto dividendosi ideologicamente sul desiderio di potere, quanto attivando il racconto dell'esperienza di che cosa succede quando una donna si confronta con le regole del potere e della decisione, quali sono i conflitti, i risultati e le perdite che ne derivano, quali sono le misure di giudizio adeguate a questa condizione. In secondo luogo, nel campo del lavoro, bisogna di decodificare opportunità e trappole della "femminilizzazione" oggi richiesta e promossa dal mercato e dai media: qui l'elaborazione femminista sul rapporto fra lavoro e cura, produzione e riproduzione diventa il cuneo per rimettere la vita e l'interdipendenza al centro del discorso sulla crisi economica e di civiltà in cui viviamo. In terzo luogo, nel campo della politica, occorre uscire dalle secche della crisi della rappresentanza, per riportarla al nodo più profondo delle forme di autorappresentazione soggettiva che, come la storia del femminismo insegna, sono «la condizione minima per la pratica della libertà»: qui il cuneo è quello delle pratiche del partire da sé e della relazione, che non da oggi hanno ridisegnato il profilo di ciò che va sotto il nome di "soggetto politico".

Infine, ma primo per importanza, si tratta di aggiornare la sfida femminista delle origini sulla politicità del corpo e della sessualità, in un'epoca in cui «si esibisce lo scambio sesso/denaro/carriera/potere occultando il nesso sessualità/politica; si esalta il sesso mentre muore il desiderio; si idolatra il corpo ma lo si sottrae alle persone consegnandolo nelle mani degli specialisti e del business; si erotizza tutto, dal lavoro ai consumi, ma si cancella la necessità e il piacere dei corpi in relazione". Il tutto mentre «le relazioni fra donne e uomini sono cambiate, ma non abbastanza», e nella sordità della scena pubblica, dove «questo cambiamento non appare perché il rapporto uomo-donna non viene assunto come questione politica di primo piano». Ne sappiamo qualcosa dagli ultimi anni dell'era berlusconiana, e dalla scia tutt'altro che dissolta nel "decoro" montiano che ci hanno lasciato.

La forza e i problemi del femminismo

Norma Rangeri

Ripubblichiamo, con lo stesso titolo di allora, il commento di Norma Rangeri al convegno di Paestum 1976 uscito sul manifesto del 9/12 di quell'anno. Una citazione dalla memoria del femminismo, ma anche uno spunto per misurare tanto i temi ritornanti quanto le distanze, di contenuto e di linguaggio, fra allora e oggi.

Più di mille donne, di provenienze sociali e di età diverse si sono ritrovate e hanno discusso per quattro giorni nel convegno nazionale che il movimento femminista ha tenuto a Paestum. Da questo siamo state colpite; non dalle gonne fiorate, non dagli abbigliamenti eccentrici, non dalla presenza di «streghe», né dalla «rivolta delle giovani». Ed è proprio questa enorme partecipazione che ci sembra il primo stimolante dato su cui tutti dovrebbero riflettere.

Perché questa enorme affluenza nei convegni femministi? Cosa spinge ogni singola donna a mettersi su un treno lasciando figli e marito, o la famiglia, o il lavoro o la scuola? Cosa significa questa enorme crescita quantitativa del movimento che smentisce ogni voce che vede a ogni pié sospinto la sua crisi? Paestum a questo ha risposto con molta evidenza: le donne vogliono partecipare in prima persona, vogliono incontrarsi e capire insieme i problemi e i destini del movimento perché sentono che in discussione sono i problemi e i destini di ciascuna. Ed è per questo che l'incontro di questi giorni ha visto una grande partecipazione di tutte, non solo nelle sedi «specifiche» del dibattito, ma anche in tutti gli altri momenti (a pranzo, nelle stanze dei vari alberghi, per la strada) di queste giornate.

Questa salutare eterogeneità ha però anche significato una enorme difficoltà di comunicazione, anche in ciascuno dei gruppi. Come riportare all'interno di un confronto allargato i modi di parlare e di porsi l'una nei confronti dell'altra sperimentati e vissuti nei singoli collettivi, nelle proprie città, fra realtà cioè conosciute e «familiari»? Come evitare quel che succedeva nelle organizzazioni politiche oppure nella propria famiglia, che cioè a parlare fossero le più «esperte»? Come mantenere aperta la volontà, presente in tutte, di esprimersi? Come eliminare i ruoli?

Il movimento femminista che questi problemi sempre si è posto, ad esempio con la struttura del piccolo gruppo, ha affrontato di petto la questione. Il discorso del linguaggio, della comunicazione fra donne, è stato il filo che ha unito un po' tutti i gruppi in cui il convegno si è articolato; la presenza di realtà diverse per livelli di elaborazione, di pratica, ha creato infatti molto disagio. Chi prendeva la parola, in qualunque modo 1o facesse, (mettendo al primo posto la sua emotività o la volontà di razionalizzare) era scarsamente seguita da tutte le altre e le accuse reciproche di essere o solo «testa» o solo «corpo» rimbalzavano. Finché una compagna si alza e dice: «Siamo lo specchio della realtà che è fuori di qui, siamo diverse l'una dall'altra, prendiamo coscienza delle nostre differenze, non andiamo alla ricerca di linguaggi "taumaturgici", l'espressione verbale è ancora quella che più ci accomuna».

In realtà, affrontare il problema di come comunicare fra donne rimanda, ed è qui che si esprime la massima difficoltà, al rapporto con le donne che il movimento non riesce a raggiungere. Il dibattito ha approfondito il tema del rapporto tra movimento femminista e «esterno», tra emancipazione e liberazione. Cosa vuol dire che le donne che compongono il movimento femminista sono donne già «emancipate», cioè già inserite nel lavoro, nella scuola, nelle strutture pubbliche della società? Significa, come sostiene l'Udi, che vanno fatte battaglie per avere più occupazione femminile? E se a questo il movimento femminista non si associa, quali altri strumenti si dà per coinvolgere, ad esempio, le donne più emarginate, come le casalinghe? Sono i problemi su cui il movimento si confronterà con i suoi tempi nei mesi a venire.

Una riflessione importante si è concentrata sulla «spontaneità» del movimento. «La spontaneità si è trasformata spesso in puro spontaneismo; il Sessantotto prima e la risposta dei gruppi della nuova sinistra poi non hanno offerto alcuna soluzione alternativa», dice una compagna di Milano. «Mi viene in mente l'esperienza del parco Lambro e la nascita dei circoli del proletariato giovanile. Il movimento deve riflettere sulla spinta alla disgregazione dei soggetti sociali e quindi anche di quel particolare soggetto sociale che noi siamo per riconoscere le nostre differenze. E' un contributo alla comprensione profonda delle difficoltà che abbiamo».

ANCORA non è chiaro se il presidente del Consiglio Monti contempli oppure no la possibilità di restare a Palazzo Chigi dopo le elezioni. A New York ha detto di sì, il 27 settembreMa tornato a Roma è stato più vago: «Lascerò il governo ad altri, nei prossimi mesi». Di certo, però, l’idea di un Monti-bis occupa le menti di molti partiti, e anche degli elettori, e il fatto che sia un’idea avvolta di mistero la rende perfino più insinuante. Monti c’è e non c’è, ha bravure tecniche e una ritrosia istintiva a schierarsi che gli dà una forza peculiare. Una forza non necessariamente positiva: mistero, miracolo, autorità refrattaria alla politica sono attributi del cesarismo. L’altro ieri ha specificato che la classica divisione destra-sinistra va sostituita da quella tra evasori e non evasori: l’estraneità alla politica e al suo progettare pare evidente.

È opinione diffusa che la dichiarazione di New York sia una risposta ai mercati, di nuovo innervositi dall’instabilità italiana. È per rassicurarli che Monti ha detto: «State tranquilli, se opportuno riprendo le redini io». Se le cose stanno così, non stupisce che abbia scelto come platea gli Stati Uniti e non l’Italia. Non da oggi infatti sono due, gli uditori e gli àmbiti territoriali (leconstituency) cui gli aspiranti al comando devono rispondere: la constituencydei mercati e quella che democraticamente vota i candidati ai vertici degli Stati. Fin dal 1998, l’ex presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, parlò del «plebiscito permanente» (permanentes Plebiszit),che i mercati esercitano minuto dopo minuto sulle politiche nazionali, disciplinandole. A questo elettorato non nazionale ma transnazionale si è rivolto Monti, giovedì, convinto forse che il plebiscito di investitori planetari sia determinante e prioritario.

È come se il secondo plebiscito, affidato dalle costituzioni alla sovranità popolare, sbiadisse sino a svanire, rimosso dal primo. L’epoca che viviamo è per molti versi postcostituzionale

(è il motivo per cui urge dare all’Unione una Costituzione vera, scritta dai parlamentari europei, non dai governi), e son simili epoche, secondo il filosofo Leo Strauss, che secernono fatalmente il cesarismo. D’altronde Monti lo disse in due occasioni, il 7 agosto e il 16 ottobre 2011 sul Corriere,nell’autunno di Berlusconi. La prima volta annunciò che il governo «aveva accettato, nella sostanza, un ‘governo tecnico’». Formalmente la primazia della politica era intatta, ma «le decisioni principali sono prese da ungoverno tecnico sopranazionale» (un «potestà forestiero»). Due mesi dopo, descrivendo l’ira dei mercati e di Bruxelles, scrisse che l’Italia era «già oggetto di ‘protettorato’». Europa, America, Asia erano persuase che a «far saltare l'eurozona» saremmo stati noi, non Atene. Grazie al proprio governo il pericolo sarebbe oggi sventato. Ogni giorno il ministro Grilli assicura che la nostra sovranità è ripristinata, che non dovremo chiedere aiuti all’Unione (che male ci sarebbe a chiederli, se l’Unione è solidale con Stati che comunque non sono più sovrani e se la sua ricetta è quella di Monti?).

L’indeterminatezza di Monti può nascere da un calcolo o da una ritrosia, come può nascere da calcolo o ritrosia il rifiuto di misurarsi con altri pretendenti nella competizione elettorale. Un rifiuto legittimo – il premier è senatore a vita – ma non del tutto congruo: un senatore a vita che governa deve poter essere giudicato dalle urne oltre che dai mercati. Il problema è che pochi gli ricordano che candidarsi e parlare di programmi e alleati è dovuto, in democrazia. Qui è il pericolo, ma anche il fascino, che il cesarismo postpolitico pare esercitare.

È una delle singolarità italiane su cui vale la pena riflettere. In Grecia, in Spagna, cittadini indignati denunciano con impeto quello che vivono come diktat non tanto esterno, quanto inconfutabile. In Italia le proteste si frammentano, i sindacati gridano, ma le piazze non si riempiono. Non è una sciagura, ma è una passività colma d’ira che ha qualcosa di malato ed è un’anomalia, nella cosiddetta periferia d’Europa. Sembra confermare quello che Luciano Canfora considerava, nel 2010, la questione cruciale dei nostri tempi: i governi europei hanno scelto la strada dell’abdicazione, per quanto attiene a poteri decisionali fondamentali, in favore degli “esperti”. Seguendo alla lettera Tietmeyer, prediligono di fatto il permanente plebiscito dei mercati (un senatore a vita che governa deve poter essere giudicato dalle urne oltre che dai mercati. (Critica della retorica democratica, Laterza).

Ma i primi responsabili del male non sono i mercati. Essi constatano il vuoto di politica, e lo riempiono con loro ansie, esigenze. Responsabili della diserzione sono i partiti, i politici che antepongono la sete di potere alla competenza. E responsabile è il popolo italiano, che a questo andazzo ventennale s’è assuefatto se non affezionato.

L’abdicazione dei partiti è ricorrente, palese. Se davvero volessero governare, se non fossero anch’essi attratti dalla passività, riconoscerebbero che i poteri dei mercati tendono a espandersi nat uralmente (vale anche per i mercati quel che dice Mont esquieu: “Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti. Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere”. Solo il politico può frenare l’abuso, correggere la vista corta di chi giudica solo il minuto, e contrapporre un potere legittimato democraticamente che duri un po’ più lungo di una seduta di borsa).

Ma i partiti vogliono veramente governare? Vogliono essere protagonisti, o preferiscono assegnare il compito a esperti e tecnici, pur di evitare il difficile o l’impopolare? Tutto fa pensare che un potere così rischioso non lo desiderino, né a destra né a sinistra. Se davvero ambissero a governare, e non solo a espugnare un ben remunerato spazietto, predisporrebbero alleanze durature. Ma soprattutto, approverebbero presto una legge elettorale che non distribuisca ai partiti poteri proporzionalmente spezzettati e quindi privi di responsabilità, ma che permetta la nascita di coalizioni dotate sia di potere sia di responsabilità. Difficile rintracciare questa volontà, debole in Bersani e ancor più in Renzi. Quest’ultimo vuol rifondare il Pd, e la volontà è meritoria e popolare, ma anch’egli s’inviluppa nell’indeterminatezza. Non dicendo con chi governerà, e ripetendo che Monti è il suo faro, cade nella trappola come i concorrenti o avversari. Ogni partito ha lo sguardo fisso su se stesso, pur sapendo perfettamente che da soli si naufraga. Se la legge elettorale non produrrà governi forti, ricadremo nellastrana maggioranzadi oggi: non una grande coalizione, ma un’accozzaglia di partiti che in solitudine insuperbiscono e in solitudine si corrompono tanto più facilmente.

Anche il popolo elettore tuttavia ha le sue responsabilità. Non dai tempi di Berlusconi, più volte rieletto, ma da molto prima, nutre sfiducia nella politica, nei propri rappresentanti, nello Stato. Non mancano le ragioni, e Grillo non cade dal cielo. A tal punto inaffidabili si sono rivelati i partiti e la politica italiana, inviluppata non nel mistero soltanto ma nella corruzione. Il Movimento 5 stelle misura le febbri italiane, le diffidenze degli elettori, la sfiducia che essi hanno in se stessi, la delusione accesa da alternanze e alternative mancate. Da questo punto di vista è vero che l’Italia è più debole della Grecia. Anche Atene è appesantita da ruberie e lobby, ma almeno dopo un governo tecnico è tornata alla politica, ha potuto scegliere tra visioni opposte della crisi e delle terapie. In Italia no, tutte le istituzioni vacillano, e nell’inerzia si continua a implorare un Cesare postcostituzionale. È così da quando è finita la prima Repubblica. La seconda non è mai cominciata. Tutti questi anni sono passati nell’inane, fallito tentativo di uscire dalla prima.

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