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La mole immane della Costa Concordia coricata a ridosso del Giglio, quasi appoggiata all´isola in un estremo tentativo di sostenersi, è una delle immagini più impressionanti degli ultimi tempi. È come se solamente il naufragio, e l´adagiarsi in mare, restituisse a quel palazzo galleggiante la sua natura di nave. Una nave, come tutte le navi, sospesa sul mare.

È un mare domestico, quello smagliante di luce dell´arcipelago toscano. Un mare prossimo, che a noi italiani dà un´idea rassicurante e conosciuta, niente affatto esotica, per nulla disorientante. Ma è pur sempre mare: e dunque natura, non solo tecnologia; e caos, non solo economia. Le megastrutture che solcano i sette mari dando ai loro abitanti l´impressione (fallace) di annullare il moto ondoso e il clima, e a qualunque latitudine e longitudine replicano l´orgogliosa sicurezza dell´uomo che ha domato per sempre gli elementi, sono esposte anch´esse - come tutto, come tutti - alla potenza della natura, all´arbitrio del caso e soprattutto agli errori dell´uomo.

Quello del Giglio è un disvelamento tragico: costa morti, dispersi, panico, polemiche, strascichi legali. Ma può avere una sua utilità, perfino una sua severa moralità, se aiuta a capire che la convivenza tra uomini e natura rimane pur sempre soggetta a regole, e avvenimenti, non tutti pacifici, non tutti compresi nel prezzo del biglietto. Basta uno scoglio quasi affiorante, a un miglio appena da un´isola, a squarciare uno scafo costruito da macchine formidabili e da operai sapienti, e progettato da un´orchestra di computer. Basta una distrazione o una sciatteria o un azzardo malcalcolato a portare una città semovente (cinquemila persone!) esattamente sopra quello scoglio e fuori dalla sua rotta, sprofondando nella sciagura e nell´ansia chi era partito per ballare, mangiare e giocare: e in un batter d´occhio si passa dalla luce eterna della crociera al buio invernale, da un dentro ospitale e allegro a un fuori gelido e nero come è il mare d´inverno.

Molto si vocifera, e forse si sa, delle colpe del comandante della nave, che è in stato di fermo con accuse molto gravi; dell´impreparazione dell´equipaggio; del caotico e sregolato sovrapporsi dei soccorritori, forse non sorretti da un coordinamento impeccabile. Ma in attesa di fare i doverosi conti con le responsabilità, le omissioni, perfino le viltà (che in mare sono terribili colpe), quello che vediamo è lo spietato ribaltamento di migliaia di tonnellate di acciaio (pare che la Concordia sia la più grande nave affondata di ogni tempo, e di ogni mare), saloni immensi che perdono l´asse fino a trovarsi con le pareti mutate in pavimento, scialuppe che cozzano l´una con l´altra come birilli, persone sparite da cercare forse nelle cabine sommerse, come nei film catastrofisti e nelle memorie delle grandi tragedie di mare, il Titanic, l´Andrea Doria, l´euforia del viaggio che muta in disperazione, gelo, morte.

I tribunali, i periti, le assicurazioni, le carte bollate: ci sarà tempo per tutto. E il dolore delle vittime e dei loro parenti, appena leggibile nelle interviste concitate, nelle dichiarazioni furenti. Ma prima e dopo tutto questo, al di sopra e al di sotto, le grandi tragedie dei trasporti (di terra, di mare, d´aria) ci ricordano che la grandezza della tecnologia non appaia ancora, e forse non appaierà mai, la grandezza della natura, che va dalla potenza deiforme degli uragani, delle eruzioni, dei terremoti, alla minuta ferocia di uno scoglio invisibile, e alla ancor più minuta imprevedibilità degli errori e delle colpe degli esseri umani.

Proprio in questi giorni, in queste ore, va in onda sulla tivù satellitare un documentario sulla catastrofe (dimenticata) del Concorde, il supersonico francese che nel luglio del 2000, per un dettaglio quasi assurdo - un frammento metallico perduto da un altro aereo di linea, e dimenticato sulla pista - prese fuoco durante il decollo, e precipitò su un albergo. L´eccellenza tecnologica aiuta a diminuire i pericoli, ad accorciare le distanze, ad alleviare i disagi. Non a cancellare i rischi, non a sfrattare l´errore dal novero delle facoltà umane. La quasi omonimia tra l´aereo Concorde e la nave Concordia è ovviamente casuale, e però suggestiva. Li apparenta un destino da fenomeni tecnologici, da meraviglie della cantieristica, poi affossati da una fine cruenta. L´orgoglio umano è legittimo, se si pensa che da Icaro si è passati al volo supersonico e dalle piroghe alle odierne navi da crociera. Ma capita che l´orgoglio accechi, e qualora lo avessimo dimenticato basta uno scoglio a ricordarcelo.

L'Europa è in balia del rating. E a ogni minimo sussurro di un'agenzia, l'euro compie un passo in più verso l'abisso. Lo si è visto ieri quando Standard & Poors' (S & P') ha annunciato di aver degradato la Francia (e l'Austria) dalla tripla A (AAA) ad AA+: retrocessione anche per Italia, Spagna e Portogallo. I francesi, colpiti al cuore nella loro grandeur, non l'hanno presa bene. Per il consigliere di Nicholas Sarkozy, Alain Minc, queste agenzie «non sono più nemmeno 'pompieri piromani', sono peggio». L'annuncio ha mandato a picco le borse. Non solo: ha innescato una mina micidiale sotto la valuta europea: tutte le speranze di salvataggio erano riposte nel duumvirato franco-tedesco, ma ora la Francia è indebolita, il club dei paesi «virtuosi» si restringe e il «fondo salvastati» non può più rastrellare fondi a basso tasso d'interesse. (E intanto le trattative con la Grecia venivano sospese.)

È l'ultima, ridondante riprova dello strapotere di queste agenzie private possedute dai più potenti capitalisti Usa: Moody's è controllata da Warren Buffett attraverso il suo fondo Berkshire Hathaway, S & P' dalla famiglia Lovelace attraverso il fondo Capital World Investors di Los Angeles; e questi fondi speculano sulle stesse valute su cui le agenzie di rating da loro possedute esprimono i propri giudizi: è poco giudicarlo un «conflitto d'interessi».

Queste agenzie agiscono come monarchi assoluti: il loro verdetto è insindacabile; decidono a proprio piacimento quando e come emettere i loro «oracoli» che sono vere e proprie lettres de cachet senza possibilità di appello; e lo loro profezie hanno il magico potere di autorealizzarsi, visto che spingono sulla china del declino economico quei paesi che diagnosticano in discesa.

Sono monarchi assoluti perché delle costituzioni dei vari paesi fanno carta igienica, perché ogni loro verdetto abroga un aspetto dopo l'altro della democrazia.

Ma i monarchi sono assoluti perché i loro sudditi non si ribellano. E il potere delle agenzie di rating è dovuto per buona parte all'imbelle, velleitaria gestione franco-tedesca di questa crisi ormai da quasi due anni.

L'Europa avrebbe potuto evitare questo avvilente spettacolo se si fosse vista almeno una parvenza di democrazia europea. Ma invece costituzioni sono state revocate, democrazie sospese e il potere affidato direttamente a banchieri o a tecnici consulenti di banchieri.

Ribadiamo: senza una politica economica comune l'euro non è sostenibile. Ma una politica comune non è neanche pensabile senza una struttura di governo comune democraticamente eletta (altrimenti avremmo una tirannia europea). Solo una struttura simile sarebbe in grado di ridurre a più miti consigli l'arroganza delle agenzie di rating, di cui ormai ci si può cominciare a chiedere a che gioco stanno giocando e chi inziga chi (e quale ruolo ambiguo ha il Tesoro degli Stati uniti). Lo sappiamo che è una speranza quasi vana, ma altro non ci resta.

P.S. Va detto che nomen omen: l'agenzia fissa arbitrariamente lo Standard e a noi ci lascia Poors'.

La crisi: istruzioni per l'uso. Da "credit crunch" a default, dai bond ai Btp, dalle capitalizzazioni ai "credit default swaps", un glossario, chiaro e articolato, per capire i termini dell'economia e il suo funzionamento

Il premio Nobel Paul Krugman, ha scritto sul New York Times un articolo intitolato "Nessuno capisce cos'è il debito". Intendeva nessun economista della scuola preferita dai conservatori, e il debito cui si riferiva è quello pubblico generato dal disavanzo della spesa statale. Per dimostrarlo ha fatto il seguente esempio. Coloro che aborriscono i disavanzi statali ritengono che possano causare un futuro in cui i cittadini saranno impoveriti dal dover rimborsare il denaro preso a prestito. Quindi paragonano gli Stati Uniti a una famiglia che abbia contratto un mutuo tanto oneroso da condannarla a soffrire gravi difficoltà nel pagamento delle rate mensili. Ma, dice Krugman, si tratta di una analogia falsa per due motivi.

Il primo: le famiglie devono rimborsare il debito contratto ma non i governi, ai quali si impone solo che il debito cresca meno della base fiscale. L'enorme debito contratto durante la seconda guerra mondiale non è mai stato rimborsato ma è diventato progressivamente irrilevante man mano che l'economia Usa cresceva e con essa i redditi soggetti a tassazione.

Il secondo: una famiglia oberata dai debiti deve del denaro a qualcun'altro, mentre il debito degli Usa è in larga parte denaro che è dovuto ai suoi stessi cittadini. È vero che a causa del debito contratto per vincere la seconda guerra mondiale i contribuenti sono stati colpiti da un onere che, in rapporto al reddito nazionale, era assai maggiore di quello attuale. Ma quel debito era anche posseduto dai contribuenti che avevano acquistato i titoli del Tesoro americano e quindi non rese più poveri gli americani del dopoguerra i quali, anzi, godettero del più marcato aumento dei redditi e degli standard di vita mai avvenuto nella storia degli Stati Uniti. Krugman sostiene dunque che, in determinate situazioni, politiche governative dirette a stimolare la crescita e l'occupazione possono rendere sopportabili aumenti del debito assai superiori a quelli che la saggezza convenzionale ritiene accettabili.

Le argomentazioni di Krugman contro la miope visione degli economisti e dei politici che avversano l'indebitamento statale sono convincenti ma non forniscono di quella miopia una ragione logica. Che invece emerge chiaramente da una diversa teoria che sostiene, al contrario di ciò che si pensa comunemente, che il sistema capitalista per sua natura è perpetuamente costituito dalla stretta connessione fra la dimensione privata-individuale e quella pubblica-statale, ma altresì che l'intreccio fra quelle due dimensioni non lo si può cogliere a prima vista. Perché (proprio come nel caso delle due facce di una moneta) la percezione di una nasconde l'altra e perciò la visione individuale nell'economia – cioè il punto di vista della famiglia che si indebita - occulta la visione dell'intervento statale – cioè il punto di vista delle sue conseguenze sull'insieme dei cittadini. Esistono, in altre parole, effetti delle azioni dei singoli individui sul complesso dell'economia di cui essi sono inconsapevoli, come è altrettanto vero che vi sono azioni pubbliche che producono effetti sui singoli di cui lo Stato non è conscio.

Per superare questa oscura dicotomia occorre collocarsi al di fuori di entrambe le dimensioni sia individuale che statale, e situarsi invece in un'altra che si può definire "collettiva", capace di rivelarle simultaneamente. È difatti la dimensione collettiva che rende evidente la duplice interconnessione pubblico-privato ignorando la quale si incorre in errori gravi nell'analisi teorica ma anche nelle concrete politiche economiche. A cominciare da quelle che invocano ossessivamente le regole dell'"austerità", magari buone per le famiglie ma non per i governi. Un solo caso può bastare a illustrare questo problematico carattere duale del capitalismo.

È il caso del "reddito nazionale" che, essendo uguale alla somma dei profitti e dei salari, misura l'economia nel suo complesso e nel quale perciò non sono affatto distinguibili gli obiettivi delle famiglie (il salario) da quelli delle imprese (i profitti). E tuttavia è proprio a questo livello complessivo dell'economia che un aumento della quota dei profitti nel reddito nazionale ai danni dei salari (auspicato dalle imprese) produrrà una riduzione della quota dei consumi, e quindi anche una riduzione del prodotto interno lordo (il Pil) mentre, all'opposto, si otterrà un aumento del Pil dall'aumento della quota dei salari a danno dei profitti (deprecato dalle imprese). Se invece da quello complessivo si passa al livello dei singoli agenti sia produttori che consumatori, si scopre che essi, nelle loro rispettive azioni sul mercato tese a incrementare i propri profitti o i propri consumi, sono all'oscuro degli effetti positivi o negativi che quelle azioni produrranno sul Pil e, quindi, al loro livello decisionale non possono esserne direttamente la causa.

Ecco dunque che questo famoso Pil non dipende né dai comportamenti individuali, come sostiene la scienza economica prevalente, né da autonome azioni pubbliche, ma da comportamenti politici, sindacali e/o lobbistici che influiscono in larga misura proprio sulle politiche economiche e di distribuzione dei redditi da parte degli Stati, e quindi sul tipo di spesa pubblica che essi attuano.

Se mettono in atto politiche di austerità quando la crisi è di domanda, seguendo l'istinto individuale che nella crisi spinge per il risparmio, allora la crisi non è battuta. Se invece aumentano la spesa pubblica, che nelle circostanze è causa inevitabilmente di nuovo indebitamento possono, a determinate condizioni, come nel pensiero di Krugman, provocare non un impoverimento ma un arricchimento della collettività, come è avvenuto nell'ultimo dopoguerra. Fra quelle condizioni c'è ovviamente la destinazione del maggiore debito non allo spreco, alla corruzione, o al sollievo diretto dei margini di profitto, ma all'aumento della domanda per le attività produttive e agli incrementi della produttività. E, attraverso ciò, al Pil, ai salari e ai profitti.

Ma è ovviamente necessario un adeguato lasso di tempo perché questi effetti si realizzino. E proprio qui sorge il problema dei mercati finanziari e del loro predominio a livello globale. Perché se anche, al contrario di quanto oggi avviene, invece di ridurre la spesa pubblica la si accrescesse per stimolare la produzione e l'occupazione, potrebbe succedere che il maggiore indebitamento che ne deriverebbe non avrebbe come effetto immediato l'aumento del Pil ma dovrebbe misurarsi con la speculazione finanziaria che, incapace di prevederne gli effetti positivi nel periodo più lungo, ne farebbe salire il costo (lo spread) tanto da vanificarne gli effetti positivi.

Questa è la trappola in cui si trovano oggi tutti i Paesi, compreso il nostro, nei quali la sovranità è stata svuotata da poteri metanazionali e da una cultura economica e politica incapace di sollevare lo sguardo a livello collettivo e di dominare il rischio di una prolungata recessione, assai pericolosa per le nostre democrazie.

Sono accecati dall'ideologia, intrisi di liberismo fino al midollo. Oppure cercano la guerra? La guerra no, pensano di poterla evitare perché sono stati nominati salvatori dell'Italia dalla più alta carica dello Stato, benedetti da un voto bipartisan inedito, forti della paura istillata nella testa della gente che è svegliata di notte dall'incubo del default. Dunque pensano di poter infrangere ogni tabù senza doverne pagare le conseguenze.

Fatto sta che hanno messo non solo le mani ma anche i piedi nel padre di tutti i tabù, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Secondo la bozza di decreto sulle liberalizzazioni di cui il manifesto è entrato in possesso, la copertura dell'articolo 18 che garantisce al lavoratore ingiustamente licenziato il reintegro e non una mancia non riguarda più chi è occupato in aziende con oltre 15 dipendenti ma soltanto quelli che lavorano in società con più di 50 dipendenti. Basta che due o più padroncini si fondano ed ecco fatto il miracolo.

La motivazione dà il senso del modello sociale che questo governo ha in mente: mica si tratta di un attacco ai diritti, spiegano nelle motivazioni, è solo un incentivo per ridurre la frammentazione del nostro sistema produttivo. Morale: quel che a noi interessa è la produttività e l'efficienza del sistema produttivo italiano. La soggettività del lavoratore, la sua sicurezza, la sua dignità non sono argomento di interesse e di legiferazione. Non cambia niente, dicono ancora nelle motivazioni con una frase evidenziata da chi ha la coscienza sporca, è solo una razionalizzazione, un incentivo alla crescita. Peccato chi chi ha scritto il "18 bis" non è lo stesso che scrive le motivazioni, e infatti c'è un errore: il secondo parla di aziende che, sommate tra di loro, occupino più di 30, e non 50, dipendenti. Non sarà che, fatta una bozza di decreto, hanno già definito il punto di mediazione possibile con i sindacati?

Se sull'articolo 18 non è passato Berlusconi, travolto da tre milioni di persone al Circo Massimo, perché dovremmo far passare il professore?

Insistere nell'obiettivo della crescita economica è voler perseverare in una direzione ingannevole, perversa e catastrofica. La vera risposta alla crisi della crescita sarebbe quella di fare a meno della crescita: realizzare il benessere economico senza dover sottostare alle logiche incrementali imposte dal mercato finanziario attraverso il debito

Ci mancava "Crescitalia", il nuovo slogan coniato dal professor Monti per la "fase due" del suo governo. Forse persino un nuovo brand destinato a prendere il posto nel mercato della politica di quello consunto di Forza Italia.

Ma crescita di che? Ovviamente del "denominatore" - come familiarmente viene chiamato il Pil da chi si intende di economia debitoria. Visto che il "numeratore", cioè il deficit pubblico annuale (che forma il montante dello stock del "debito sovrano"), nessuno crede che possa realisticamente scendere (solo per interessi lo stato italiano ha pagato lo scorso anno 75 miliardi, cento se va bene il prossimo), è indispensabile credere e far credere che sia possibile accrescere il volume monetario delle merci e dei servizi comprati e venduti in Italia. Non importa sapere quali siano queste merci, di cosa siano fatte e come siano state fabbricate, chi ne faccia uso e per soddisfare quali necessità.

L'importante è che aumentino. In cima alle preoccupazioni dei tecnocrati che governano l'economia (quindi, come sempre, anche la politica, che ne è la fidata ancella) c'è il miraggio del "pareggio di bilancio". Che venga raggiunto producendo cacciabombardieri o grano biologico non fa differenza. La moneta, si sa, è uno strumento tecnico neutro, indifferente all'uso che ne viene fatto. Ai banchieri interessa solo che ne giri di più. Sempre di più. I banchieri non sono né preti, né filosofi: non spetta a loro indicare alla gente che uso fare dei soldi. Essi sono solo i chierici del magico rito dell'autoaccrescimento del denaro: ne comprano l'uso dai risparmiatori ad un prezzo basso (tassi di interesse) e lo rivendono agli "investitori" (imprenditori, speculatori, enti pubblici... a loro fa lo stesso) ad uno più alto. Punto. Sono il lubrificante del motore dell'economia. Dove ci porti, non gli interessa. Anche i politici amano definirsi "laici" (oltre che moderni e democratici) e non vogliono interferire sulle libere preferenze espresse dai cittadini in veste di consumatori: l'importante è che spendano il più possibile, che lavorino di più per procurarsi il denaro necessario, che diano fondo ai loro risparmi, che si indebitino. Il "consumatore imperfetto" è il cittadino peggiore, colui che fa andare a rotoli l'economia e che mette a rischio la coesione e anche l'unità del Paese. Ma in questo ragionamento - che ci martella come un mantra dalla mattina alla sera, ogni santo giorno - ci sono varie incongruenze. Ne indico cinque.

1) Per comprare e vendere di più serve produrre di più. In un'economia globalizzata e liberalizzata la concorrenza tra imprese e aree economiche è selvaggia. Vince chi fa prezzi più bassi. Uno sterminato esercito di riserva (mobilitato da capitali occidentali tramite joint venture e delocalizzazioni ed organizzato da governi non sempre propriamente democratici) preme sui cancelli delle officine del mondo in Asia, Sud America, ma anche in Turchia, Nigeria, Sud Africa ecc.. I differenziali salariali con i paesi di più vecchia industrializzazione è incolmabile, almeno da qui a dieci, vent'anni.

2) Ma sappiamo che il costo del lavoro è solo una parte (la più piccola nei prodotti più evoluti) del costo delle merci. Un modo per vincere la concorrenza sul versante della produttività sarebbe quindi quello di posizionare il sistema delle imprese italiane nella parte alta della divisione internazionale del lavoro, ovvero inventare prodotti e sistemi produttivi, materiali e applicazioni tecnologiche sempre nuovi. Facile a dirsi ma sarebbero necessari enormi investimenti in ricerca, proibitivi per le piccole e medie imprese ed anche per stati periferici come il nostro. La capacità di produrre ed applicare brevetti è concentrata in poche decine compagnie hi-tech e bio-tec statunitensi, tedesche, giapponesi. Ci stanno brevettando anche il broccolo!

3) Comunque, anche lì dove cresce l'innovazione (vedi gli Stati Uniti) scendono i salari e l'occupazione. La quota del reddito nazionale degli Stati uniti che va al lavoro (secondo il Financial Times) è stata lo scorso anno la più bassa dal dopoguerra (58%) rispetto alla quota andata ai profitti (37%), massimo storico. Non mancano al lavoro solo i denari sottratti dall'avidità dei ricchi e dalla criminalità finanziaria. È proprio la tecnologia ad essere finalizzata a "risparmiare" lavoro.

4) Ma all'Italia non basterebbe nemmeno produrre di più. Per un paese che importa materie prime e semilavorati, per un sistema industriale che trasforma e assembla, bisognerebbe guardare con più attenzione alla bilancia commerciale dei conti con l'estero (549 miliardi di posizione debitoria lo scorso anno): se il prezzo di ciò che importiamo è troppo alto rispetto al valore che l'attività lavorativa nazionale riesce ad aggiungere, c'è il rischio che il gioco non valga la candela. Se per alimentare le nostre imprese adoperiamo troppo petrolio, ferro, rame, fosfati, soia... rischiamo di dover "uscire dai mercati d'esportazione".

5) Un trucco per fare "più fatturato" c'è: il dumping ambientale. Produrre male, "risparmiare" sui costi di smaltimento dei residui tossici, infischiarsene delle polveri sottili inalabili che appestano la Pianura padana, costruire sull'alveo dei fiumi... continuare a fare, insomma, ciò che l'Italia già fa.

Come si vede, insistere nell'obiettivo della crescita economica (cioè del Pil) in questi contesti è voler perseverare in una direzione ingannevole, perversa socialmente ed ambientalmente catastrofica. La vera sfida, la vera risposta alla crisi della crescita sarebbe quella di fare a meno della crescita: realizzare il benessere economico senza dover sottostare alle logiche incrementali imposte dal mercato finanziario attraverso il debito. Il debito asservisce, costringe l'economia a produrre sempre di più per pagare gli interessi a prescindere da qualsiasi considerazione di merito sull'utilità e sulla qualità effettiva dei prodotti immessi nel mercato. Liberarci dalla morsa dell'economia debitoria è quindi una precondizione per uscire dalla crisi. Riformare alla radice il sistema finanziario e monetario partendo dal semplice principio etico che è immorale fare soldi con i soldi.

Poi è necessario riconvertire le basi produttive economiche orientandole non alla competizione globale, ma ai bisogni genuini delle popolazioni. Fare quel che serve con ciò che si ha a disposizione. A questo scopo dovrebbe servire l'ingegno e la scienza. La prima necessità che hanno le comunità in ogni parte del mondo è offrire un lavoro degno a tutte e a tutti. La priorità dell'azione di politica economica di ogni autentica democrazia dovrebbe essere creare opportunità di lavoro. Per contro, il primo, scandaloso spreco su cui i decisori politici dovrebbero impegnarsi è quello di milioni di giovani inoperosi a fronte di necessità sociali di tutti i tipi: cura delle persone, preservazione del territorio, recupero immobiliare e del patrimonio culturale.

Se il mercato non sa riconoscere queste necessità e questi valori, allora è giunto il momento di fare a meno del mercato.

Da quando siamo rinchiusi come morti viventi nella recessione, è soprattutto sulle sciagure passate che riflettiamo, illuminati da economisti e raramente purtroppo da storici. È un rammemorare prezioso, perché delle depressioni di ieri apprendiamo i tempi lunghi, gli errori, gli esiti politici fatali, specie nella prima metà del secolo scorso. Anche sulle grandi riprese tuttavia conviene meditare: sulle rivoluzioni economiche che hanno aumentato e diffuso il benessere. In particolare, vale la pena ripensare la scintilla da cui partì la Rivoluzione industriale del XVIII secolo. È allora infatti che l´Europa comincia a crescere a raggiera, con impeto. Anche se costellata di iniziali fatiche, ingiustizie, ricordiamo quella rivoluzione come un´epoca d´oro, e forse proprio per questo l´evochiamo di rado. Dai tempi di Dante lo sappiamo: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria, e ciò sa ‘l tuo dottore».

Il perché di quella scintilla, i fattori che la resero possibile, il nuovo vocabolario che ne scaturì, concernente in special modo la questione sociale: tutti questi elementi possono aiutarci a capire non solo la genesi di una crescita accelerata, ma a vedere nella crisi odierna una sfida, una trasformazione possibile. Se la ricchezza sta spostandosi dall´ovest all´est del mondo, se l´Occidente paga questo dislocamento con una Grande Contrazione (non solo del prodotto interno, anche di diritti accumulati negli anni del benessere) vuol dire che siamo davanti a un incrocio simile dei sentieri.

Che urge in chi analizza il presente – i politici e anche gli economisti, intrappolati spesso nei loro modelli matematici – una prospettiva più lunga, un´attitudine a alzare l´occhio perché veda l´orizzonte, oltre che il proprio naso. La memoria storica e delle passioni umane sarà lievito di tanta impresa.

Chi voglia avventurarsi su questo sentiero apprenderà molte cose dall´ultimo libro di Deirdre McCloskey, storica ed economista all´Università dell´Illinois di Chicago (Bourgeois Dignity: Why Economics Can´t Explain the Modern World(, 2011). Come dice il titolo, la Rivoluzione Industriale – il Grande Fatto, lo chiama l´autrice – non è dovuta a fattori solo economici: le garanzie date ai diritti di proprietà, la scienza in espansione, la drastica riduzione dei costi dei trasporti, utile al commercio. I fattori tecnici sono cruciali, ma la scintilla decisiva non fu tecnica: fu una conversione di atteggiamenti verso le passioni della borghesia, e di due classi in prima linea, i commercianti e gli industriali delle manifatture. Fu perché venne loro data una dignità sociale mai posseduta, che la produzione industriale ricevette quella formidabile spinta. La rivoluzione francese aveva fatto della borghesia un protagonista politico, non ancora morale.

La ricchezza non era più un imbarazzo per il commerciante e l´industriale – l´Olanda del ´600 fu precursore, basta vedere i dipinti del suo Secolo d´oro – e conquistarsela con le proprie mani cessò di essere un´attività non onorata. La rivoluzione della dignità borghese comincia in Nord Europa (McCloskey parla di «rendimento della dignità», dignity return), e quest´onore reso a manifatturieri e bottegai spinse a produrre e scommettere sul futuro. Se parliamo di rivoluzione, è perché in concomitanza declina – fino a svanire – il rendimento economico di classi non borghesi (le corporazioni di allora) che fin qui erano le sole a essere nobilitate moralmente: i guerrieri, gli aristocratici che vivevano di rendita, il clero.

Il problema, oggi, è sapere quali siano le classi, le attività, le passioni che devono ottenere dignità, affinché un nuovo Grande Fatto possa non solo prodursi ma radicarsi, contando sugli espedienti tecnici ma anche (come faceva Adam Smith) sullo studio delle passioni morali. Porsi questa domanda significa non solo dare spazio e voce a persone e occupazioni non sufficientemente onorate, ma decidere quale crescita vogliamo, diversa da quella iniziata con la Rivoluzione Industriale.

All´Europa, conviene investire nel suo nuovo e nel suo futuro, non in industrie migranti verso Asia o Sud America. L´industria dell´auto probabilmente tramonterà, da noi. Si parla in proposito di crescita sostenibile, ma questo sostenibile va raccontato, spiegato: se «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni» (Rapporto Brundtland, 1987, Commissione Mondiale sull´Ambiente e lo Sviluppo) l´Unione deve scegliere produzioni che domani saranno d´avanguardia: energie alternative, trasporti cittadini comuni più che individuali, conoscenza, e in genere quello che viene detto «capitale umano» e più semplicemente possiamo chiamare persona umana. Deve investire prioritariamente su istruzione, ricerca, cultura, convivialità cittadina.

Per una svolta così importante, gli Stati europei non bastano: sono i superstiti stanchi della vecchia rivoluzione. Troppo enorme è lo sforzo che stanno facendo per mettere a posto i propri conti, e neanche sanno bene se servirà. Il nuovo Grande Fatto, solo l´Unione può generarlo, e per questo il dogma tedesco che predilige la «casa (nazionale) in ordine» ha un respiro così corto. Ma per riuscire, l´Europa va rivoluzionata. Per investire nel nuovo ha bisogno di poter spendere, dunque di un bilancio più forte. Per contare deve saper decidere senza che il liberum veto di Stati fatiscenti la blocchi.

Quali sono oggi le persone e le classi cui va restituita dignità, e una cittadinanza vera? Gli immigrati, senza i quali finanziare il Welfare è impossibile. I precari, che non riescono a mettere a frutto l´istruzione ricevuta e tribolano come apolidi in patria. I professori e ricercatori, che erano una classe nobile nell´800 (non dimentichiamo che in Francia, dopo la scuola obbligatoria e la separazione Stato-Chiesa, Charles Péguy li chiamò gli ussari neri della Repubblica) e sono oggi poco stimati, vessati, demotivati.

In sostanza, è al futuro che occorre dare dignità, preparandolo ora. Lo stesso dramma dei debiti sovrani muta di natura, in quest´ottica. In un saggio uscito sul suo blog, un giovane studioso di bolle finanziarie dell´università di Michigan, Noah Smith, ragiona così: il debito di uno Stato, di per sé non malvagio, lo diventa se lo scarichiamo sulle generazioni future per poter consumare adesso quel che desideriamo (http://noahpinionblog.blogspot.com). Quel che Smith propone è di grande interesse: «Nel mondo reale (non nei modelli matematici) la questione essenziale non è il debito, ma la scelta fra due ordini temporali ((intertemporal choice(). Importante non è quanto debito accumuliamo, ma se vogliamo spostare il consumo dal futuro al presente, anziché (come dovremmo, potremmo) dal presente al futuro».

Tutto dipende da come spendono i governi, e dagli investimenti che possibilmente insieme, in Europa, privilegeranno: spenderanno per consumare più oggi, o più domani? Lasciare che i consumi si spostino dal futuro al presente (dunque pesare sulle generazioni a venire) significa ridurre gli investimenti e consumare oggi. È il percorso contrario che va imboccato: investendo sulle produzioni utili nel futuro, consumabili in modi nuovi da figli e nipoti.

Anche questa è rivoluzione della dignità. È onorare chi viene, e non ha ancora voce né rappresentanza. È meno remunerativo nell´immediato, non porta voti ai partiti che vivono solo per il breve termine (cioè per i mercati) e ignorano il nuovo spazio pubblico che è l´Europa; ma nel lungo periodo apre speranze. È giudicare quello che abbiamo e facciamo – terra, clima, politica – alla luce delle parole di Alce Nero, il capo Sioux: "La terra non l´ereditiamo dai nostri padri, ma l´abbiamo in prestito dai nostri figli".

È necessaria una grande battaglia di civiltà contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali. E per dire al governo «tecnico» che l'acqua non si tocca. Un grande appuntamento a Napoli il 28 gennaio, con amministrazioni locali e movimenti

Un governo "politico" in agosto ha violato la Costituzione reintroducendo, in contrasto con l'esito referendario del 12 e 13 giugno 2011, meccanismi concorrenziali e logiche di mercato per l'affidamento dei servizi pubblici locali (ad eccezione dei servizi idrici), determinando un preoccupante scollamento tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa. Un governo "tecnico", nella cosiddetta fase due della sua azione politica, vuole accelerare tale processo, con l'obiettivo di reintrodurre privatizzazioni forzate anche nel settore all'acqua.

È bene allora ricordare che l'art. 4 d.l. n. 138/2011, convertito con la L. n. 148/2011 riproduce l'abrogato art. 23 bis del Decreto Ronchi, che trovava applicazione per tutti i servizi pubblici locali (spl), prevalendo sulle discipline di settore con esso incompatibili, salvo quanto previsto in materia di distribuzione di gas naturale e di energia elettrica, gestione delle farmacie comunali, trasporto ferroviario regionale. Attraverso procedure competitive ad evidenza pubblica, da svolgersi nel rispetto della relativa normativa comunitaria, gli spl potevano essere affidati ad imprenditori o a società in qualunque forma costituite oppure a società a partecipazione mista pubblica e privata (mediante il ricorso alla gara cosiddetta a doppio oggetto), con l'attribuzione al socio privato di una partecipazione non inferiore al 40%. L'affidamento in house veniva ammesso come deroga al regime ordinario, a patto che fossero presenti «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato» e che si rispettasse la procedura indicata (svolgimento di un'analisi del mercato per motivare la scelta dell'in house, consultazione dell'Agcm). In ultimo, la norma abrogata prevedeva un regime transitorio per gli affidamenti già in essere all'entrata in vigore della disciplina, fissandone la scadenza ed una data certa per la messa a gara, a seconda del tipo di affidamento e della natura dell'ente gestore. La norma trovava applicazione per tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, come del resto era stato riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 24 del 2011, la quale, proprio in forza dell'applicazione estesa a tutti i servizi, aveva ritenuto il primo quesito rispettoso del requisito di omogeneità, richiesto ai fini dell'ammissibilità dalla giurisprudenza della Consulta.

L'abrogazione referendaria dell'art. 23 bis, come indicato dalla stessa Corte Costituzionale, non determinava né la reviviscenza dell'art. 113 T.u.e.l. né tanto meno creava una lacuna normativa, giacché la disciplina comunitaria poteva infatti trovare diretta applicazione nel nostro ordinamento, anche in assenza di una intervento nazionale di adeguamento.

Tale cornice giuridica ha avuto una assai breve vigenza: l'articolo 4 è stato infatti introdotto dal legislatore solo due mesi dopo l'avvenuta abrogazione dell'art. 23 bis, ignorando di fatto la volontà referendaria. La consultazione di giugno avrebbe reso prioritaria una discussione profonda in materia di spl, al fine di intervenire in maniera razionale e sistematica in un settore da sempre oggetto di continui ritocchi normativi. Ciò tuttavia non è avvenuto: il decreto legge n. 138/3011 è stato votato in una situazione di asserita emergenza, per rispondere al mercato.

Il risultato, per quel che concerne i servizi pubblici locali, è stato - come si è detto - la riproposizione della norma abrogata solo due mesi prima, con una scelta che ha definitivamente segnato l'incapacità di una classe politica di saper cogliere le novità politiche ed istituzionali generate dal processo referendario. Ancora una volta, il legislatore ha posto le basi per un processo di dismissione, segnato da uno sbilanciamento dell'assetto delle gestioni a favore del privato, contribuendo alla svalutazione degli stessi assets che saranno messi a gara, essendo indiscutibile che una contestuale immissione sul mercato di numerosi beni e servizi è idonea a determinare il crollo del loro prezzo. In questo modo, il legislatore ha anche ignorato la maggiore autonomia che il diritto comunitario assicura agli enti locali in materia di definizione delle procedure di affidamento.

Attualmente la situazione è la seguente: l'art. 4 d.l. 138/2011 disciplina la gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ad eccezione del servizio idrico e dei settori già esclusi dal Decreto Ronchi, «liberalizzando tutte le attività economiche e limitando, negli altri casi, l'attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad un'analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità». L'affidamento dei servizi avviene «in favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità» (comma 8); inoltre, per quel che concerne gli affidamenti a società miste, al partner privato selezionato con gara a doppio oggetto dovrà detenere «una partecipazione non inferiore al 40 per cento» (comma 12). L'affidamento in house, possibile ma solo in via derogatoria rispetto al regime ordinario, è ammesso «a favore di società a capitale interamente pubblico che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento europeo per la gestione cosiddetta in house», a patto che «il valore economico del servizio oggetto dell'affidamento sia pari o inferiore alla somma complessiva di 900.000 euro annui». Infine, è definito un regime transitorio per gli affidamenti già in essere all'entrata in vigore della nuova disciplina, determinandone la scadenza e la relativa messa a gara (comma 32, lett. a, b, c, d). Se all'esistenza del regime transitorio e del meccanismo delle gare a data certa si aggiunge da una parte il "premio" che i Comuni riceveranno una volta effettuate le dismissioni (l'art. 5 prevede infatti l'assegnazione di una somma non sottoposta ai vincoli di spesa propri del patto di stabilità), dall'altra la sanzione del commissariamento per gli enti che invece risulteranno inadempienti alla data del 31 marzo 2012, non è certamente infondato parlare di una violazione dei principi comunitari e costituzionali dell'autonomia decisionale dell'ente locale.

Occorre reagire, e subito, a questa situazione di illegalità diffusa, di attentato alla Costituzione e di vulnus alla democrazia partecipativa; occorre reagire agli ulteriori e attuali progetti politici dell'attuale governo "tecnico" (fase 2) che intendono estendere gli effetti di tali provvedimenti anche all'acqua. La reazione deve partire non "soltanto" dal Forum dei movimenti per l'acqua pubblica e dai ventisette milioni di cittadini che hanno votato contro le privatizzazioni "forzate", ma anche da parte di tutte quelle amministrazioni locali che rivendicano il rispetto della Costituzione e della loro dignità ed autonomia decisionale. Democrazia partecipativa e democrazia locale, in una dimensione nazionale, devono unirsi in una grande battaglia di civiltà, una grande battaglia per i diritti.

Una prima e importante occasione per discutere di questi temi sarà il 28 gennaio a Napoli, giorno in cui de Magistris ha invitato, nell'ambito del I forum dei comuni per i beni comuni, le amministrazioni e i movimenti a discutere di tali temi e a produrre un documento unitario.

Sono i principi giuridici a doverci guidare. E se gli elettori chiedono di abrogare una nuova legge, è perché preferiscono la vecchia - Un ‘no´ suonerebbe come frustrazione delle energie politiche in cui si è manifestata la voglia di contare dei cittadini-elettori

ROMA - «Una decisione negativa della Corte suonerebbe come frustrazione. E le frustrazioni politiche, in democrazia, sono molto pericolose. Ma la questione è prima di tutto giuridica». Alla vigilia dell´atteso pronunciamento sul referendum, Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Consulta, anticipa il suo punto di vista: consultazione sul Porcellum ammissibile sotto il profilo tecnico-giuridico, necessaria sotto l´aspetto dell´opportunità.

Professore, il tam tam, le indiscrezioni di questi giorni possono turbare il giudizio della Corte?

«Sulla base della mia esperienza, rispondo no. Anche perché la Corte giustamente tende a proteggersi dal clamore della politica. Le sue decisioni sono prese nell´elaborazione della camera di consiglio. Soprattutto su decisioni così complesse, spesso i giudici vi entrano avendo certe idee e ne escono convinti di altre, in base alla discussione. Penso che anche questa volta sia così. Questa è la fisiologia, per un organo come la Consulta. Solo così se ne difende l´autonomia e il prestigio».

Lei cosa si augura?

«È stato detto di tutto. Le opinioni sono nettamente divise tra sì e no. Mi auguro solo che, data la pregnanza politico-costituzionale della domanda alla quale la Corte dovrà dare risposta, gli argomenti siano all´altezza».

Quali sono secondo lei gli argomenti "all´altezza"?

«L´unico è la necessità di una legge pienamente capace di operare. Niente vuoti, quindi. Una democrazia rappresentativa senza legge elettorale sarebbe un azzardo, un fatto di eccezionale gravità».

Appunto, secondo alcuni se il sistema in vigore venisse abrogato, si creerebbe un vuoto. Ed ecco perché il referendum dovrebbe dichiararsi inammissibile. È così?

«Qui, sopravvengono gli argomenti che io considero "non all´altezza"».

Quali sono?

«Entriamo in un territorio che appare pregiudicato da una visione biologica del diritto».

Biologica?

«Sì. Reviviscenza o non reviviscenza di una legge, come se si trattasse di corpi vivi, morti, resuscitabili o non resuscitabili. Si dice: la vecchia legge (il Mattarellum) è stata definitivamente uccisa dalla nuova (il Porcellum). Se viene eliminata questa, non rinasce quella. Ma la vita o la morte di una legge non sono fenomeni biologici. Siamo noi a dover stabilire cosa accade. Nulla ci è imposto biologicamente. Sono i principi giuridici a doverci guidare».

E quindi?

«Davvero l´abrogazione del "Porcellum" creerebbe un vuoto? Davvero non sarebbe a quel punto applicabile il Mattarellum? Questa è la tesi della non "reviviscenza" che porta alla inammissibilità del referendum».

Lei ragiona così?

«No».

Spieghi perché.

«Perché le leggi elettorali sono leggi molto particolari. Non solo devono esserci, ma definiscono, modificandolo, uno status degli elettori acquisito. Sono leggi sugli elettori. Qui si tratterebbe per la Corte di considerare argomenti nuovi, su cui non ha avuto modo di pronunciarsi finora. Questa particolare natura delle leggi elettorali comporta che quando gli elettori chiedono l´abrogazione di una nuova legge, lo fanno perché vogliono rimanere com´erano: preferiscono la vecchia alla nuova».

Sembra ovvio. Ma perché tante discussioni tra costituzionalisti?

«Perché in generale, nella giurisprudenza della Corte Costituzionale è prevalsa l´idea del referendum come legislazione negativa».

Che significa? Non è la stessa cosa?

«No, perché in quanto legislazione negativa il referendum può servire a modificare le leggi in vigore attraverso l´eliminazione di frasi, parole, commi. Non è mai accaduto finora che il referendum sia stato presentato al puro scopo di eliminare una legge elettorale, cioè, dicono i giuristi, come contrarius actus, atto di resistenza. Quindi, siamo di fronte a una novità da valutare come tale, anche alla luce di ciò che volle il Costituente, quando respinse la possibilità di una legislazione tramite referendum».

Quindi lei si augura una decisione a favore del referendum?

«Mi auguro che la Corte sappia decidere considerando la particolarità del caso, traendone le conseguenze. Se così non fosse, i referendum elettorali sarebbero o impossibili o necessariamente quell´insulso ritaglio dalla legge vigente di parole, parolette, frasi, frasette, congiunzioni, avverbi».

Cosa accadrà se la Consulta dovesse bocciare il referendum? Davvero i partiti sarebbero in grado di approvare una nuova legge elettorale?

«Il Parlamento è libero di modificare la legislazione elettorale. Referendum o non referendum. Che sia in grado di farlo politicamente è tutto da vedere. E le ragioni per dubitarne sono molte. In materia elettorale, ogni partito opera in causa propria. Calcoli di utilità particolare rendono molto difficile l´accordo. La mia preoccupazione è su un altro piano».

Quale?

«Il referendum di cui discutiamo viene da una fase di mobilitazione politica di cittadini che chiedono di contare. Una decisione negativa della Corte suonerebbe come frustrazione e le frustrazioni politiche, in democrazia, sono molto pericolose. Pericolose per la fiducia che deve esistere tra cittadini e loro rappresentanti. Non pensa che la prospettiva di essere chiamati a votare nel 2013 con qualcosa che a buon diritto si chiama Porcellum susciti il giustificato e pressoché unanime orrore da parte dei cittadini-elettori?».

Qualcuno sostiene anche che il referendum potrebbe far vacillare il governo Monti.

«La materia elettorale non spetta al governo, ma al Parlamento. Lo stesso presidente Monti lo ha precisato. Che i partiti riescano o no a mettersi d´accordo su questa materia, non dovrebbe influire sull´esecutivo. Se dovesse accadere il contrario, saremmo di fronte a una grave prova di irresponsabilità delle forze politiche. Superata solo se decidessero di farci votare ancora con quella legge, sciogliendo anticipatamente le Camere e mandando a monte il referendum».

Come sono cambiati gli atteggiamenti degli italiani verso lo Stato e le istituzioni? Per rispondere possiamo utilizzare i dati dell’indagine di Demos - la Repubblica, giunta alla 14a edizione. Suggeriscono un’immagine nota, quanto consumata: il declino. Oggi è considerato un "fatto" indiscutibile, sotto il profilo economico. Ma lo è anche sul piano del civismo e del rapporto con lo Stato e le istituzioni.

1) La fiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni sociali, infatti, scende in modo generalizzato, nell’ultimo anno, con poche eccezioni (fra cui la "scuola", che però perde credito rispetto a dieci anni fa).

2) In particolare, colpisce il livello - davvero basso - raggiunto dai principali attori su cui si fonda la democrazia rappresentativa. Per primi, i partiti, a cui crede meno del 4% dei cittadini. Mentre la fiducia nel Parlamento viene espressa da circa il 9% degli intervistati. Oltre quattro punti meno di un anno fa.

3) Si tratta di una tendenza simile a quella che coinvolge - e travolge - gli organismi del sistema economico e finanziario. Per prime le banche, verso cui manifesta "stima" il 15% dei cittadini; 7 punti meno di un anno fa. Ma la metà rispetto al 2001. Non molto più alta - intorno al 20% - risulta la considerazione verso le istituzioni economiche europee e internazionali: la Bce e il Fmi.

Appare basso anche il grado di consenso verso le rappresentanze delle categorie socioeconomiche: associazioni imprenditoriali (24%) e sindacato. Soprattutto la Cisl e la Uil, ben sotto il 20%.

4) Il sistema politico e quello economico appaiono, dunque, privi di riferimenti credibili fra i cittadini. Perfino le istituzioni di garanzia mostrano segni di debolezza. La "Magistratura", soprattutto, perde 8 punti di fiducia, nell’ultimo anno. Un altro segno della fine di un ciclo. Visto che il "consenso" verso i magistrati è sempre stato in stretta relazione con il "dissenso" verso Berlusconi.

5) Fra gli orientamenti che emergono da questa indagine, il più netto e appariscente è, forse, il crollo di fiducia nei confronti della Ue. Verso cui esprime (molta-moltissima) fiducia il 37% dei cittadini: oltre 13 punti meno di un anno fa, ma 16 rispetto al 2001. All’indomani dell’introduzione dell’euro. Quando la maggioranza assoluta degli italiani si diceva euro-convinta.

6) Ciò sottolinea la crisi di governabilità di cui soffre la società italiana. Che - da sempre - non crede nello Stato (di cui si fida meno del 30% dei cittadini), tanto meno nei partiti (quasi metà degli italiani ritiene che non siano necessari alla democrazia) e, quindi, nel Parlamento ("presidiato" dai partiti). Ma oggi diffida - molto - anche dell’Unione Europea. Mentre, in passato, i due orientamenti procedevano in modo simmetrico. Perché gli italiani compensavano la (e reagivano alla) sfiducia nello Stato e nel governo italiano con la fiducia nella Ue. E con una crescente identità locale Ma la speranza nei governi locali e nel federalismo appare, anch’essa, molto raffreddata, rispetto al passato.

7) Alla Bussola pubblica degli italiani restano, così, pochi punti cardinali. Le "forze dell’ordine", che riflettono il senso di insicurezza sociale. Oltre al Presidente della Repubblica, che è divenuto - negli ultimi dieci anni - il principale appiglio della domanda di identità nazionale degli italiani. Un sentimento rafforzato, nel 2011, dalle celebrazioni del 150enario. In questa indagine, il Presidente conferma la credibilità conquistata in questi anni. Ottiene, infatti, (molta-moltissima) fiducia da parte del 65% della popolazione. Eppure anch’egli arretra in misura sensibile rispetto al 2010: quasi 6 punti. Risente, probabilmente, dell’insoddisfazione sollevata presso alcuni settori sociali dalla manovra finanziaria del governo Monti. Un sentimento che si "scarica", in qualche misura, anche sul Presidente. Percepito, a ragione, come il principale sostegno (politico) a favore del governo (tecnico). Tanto più di fronte alla debolezza che affligge i partiti e il Parlamento. Ma anche le organizzazioni di mobilitazione e di integrazione sociale.

8) D’altronde, anche la fiducia verso la più importante istituzione religiosa, la Chiesa, appare in sensibile calo. Oggi si attesta al 45%: 2 punti meno di un anno fa, ma 14 rispetto al 2001.

Tutto ciò ripropone l’immagine del "declino" che ha coinvolto i principali riferimenti istituzionali e dell’identità sociale degli italiani. Non solo lo Stato, ma anche l’Europa, la Chiesa; e ancora, il mercato e le organizzazioni di rappresentanza.

L’indice di fiducia complessivo nelle istituzioni politiche e di governo, dal 2005 ad oggi, è sceso infatti, dal 42% al 33%. Mentre, nello stesso periodo, la fiducia nelle istituzioni sociali ed economiche, nell’insieme, cala dal 35% al 26%.

Più che di declino, forse, converrebbe parlare di "recessione".

9) Ciò marca una differenza profonda rispetto agli anni Novanta, quando la sfiducia nello Stato e nelle forme di partecipazione collettiva si accompagnò all’affermarsi del mito del mercato, del privato, dell’individuo, della concorrenza, dell’imprenditore. Oggi, al contrario, l’insoddisfazione verso i servizi privati è cresciuta molto più di quella verso i servizi pubblici. E la domanda di ridurre la presenza dello Stato nei servizi - scuola e sanità - si è ridotta al punto di apparire ormai residuale. Mentre il grado di partecipazione sociale non è "declinato", ma, negli ultimi anni, si è, anzi, allargato sensibilmente. In particolare, hanno conquistato ampio spazio le nuove forme di partecipazione sociale: il consumo critico, i movimenti di protesta, le mobilitazioni che si sviluppano, sempre più, attraverso la rete.

Comportamenti particolarmente diffusi fra i giovani e fra gli studenti. I più colpiti dalla crisi, ma anche dalla sfiducia.

10) Da ciò l’immagine di una "società senza Stato", (come recita il titolo di un libretto pubblicato di recente dal "Mulino"). Che, però, ha paura di restare senza Stato. E reagisce. Seguendo molte diverse vie. E vie molto diverse. La "sfiducia" - ma anche la "protesta" e la mobilitazione. Emerge, nel complesso, una diffusa resistenza alla "privatizzazione" dei servizi, all’individualizzazione dei riferimenti di valore e degli stili di comportamento, all’affermarsi delle logiche finanziarie e di mercato in ogni sfera della vita: a livello pubblico e privato. Sfiducia politica e partecipazione, dunque, coesistono presso le componenti sociali più vulnerabili. I ceti periferici, ma soprattutto i giovani, che manifestano incertezza e paura verso il presente, oltre che verso il futuro. E reagiscono insieme. Non solo per cercare soluzioni e per cambiare le cose. Ma per superare la solitudine e la frustrazione che li affliggono La partecipazione e la protesta agiscono, quindi, come una sorta di terapia. Contro la sfiducia e contro l’isolamento.

Si delinea, così, una stagione incerta. Un ciclo politico si è chiuso, dopo quasi vent’anni. Lasciandoci spaesati. Privi di riferimenti istituzionali e politici. Insoddisfatti del pubblico e delusi dal privato. Senza fiducia. Ma quel che verrà dopo non è chiaro - e un nuovo ciclo ancora non si vede. Tuttavia, la scelta di Monti di investire nel "civismo" - attraverso la centralità "mediatica" attribuita alla lotta all’evasione fiscale - appare una risposta poco "tecnica" e, invece, molto "politica" al problema sollevato da questa indagine. Restituire i cittadini allo Stato. Per restituire lo Stato ai cittadini.

Sostiene il filosofo Emanuele Severino che la crisi vera, «la Grande Crisi che incombe e ci sovrasta», è la crisi dell'Occidente, che si manifesta nella progressiva e sistematica auto-distruzione degli stessi valori occidentali. Tra i quali, è facile chiosare, risalta in primo luogo quello della democrazia. Vale la pena di osservare però che se dieci anni fa, dopo l'11 Settembre, era l'America "marziana" di Bush a essere accusata dall'Europa "venusiana" di distruggere la democrazia esportandola con le bombe all'estero e erodendola con l'emergenza antiterrorismo all'interno, oggi l'epicentro della crisi occidentale si è spostato in Europa, dove la democrazia si autodistrugge con minore dispiegamento militare all'esterno (ma la guerra in Libia non è stata un caso, né era stato un caso il precedente dei Balcani) ma con pari foga emergenziale all'interno, contro lo spettro dello spread al posto di quello di bin Laden.

«Democrazia» diventa di giorno in giorno una parola anch'essa spettrale, un'invocazione svuotata di forma e di sostanza sotto l'attacco di fuochi incrociati. Prendiamo il caso dell'Ungheria. Qui il fuoco era partito da dentro, con il varo della riforma costituzionale liberticida del premier nazionalista Viktor Orbán, uno schiaffo ai principi ispiratori della Ue che avrebbe dovuto allarmare la società e la politica continentali ben più di quanto non sia accaduto; debito pubblico e crollo del fiorino stanno facendo il resto. Ma i manifestanti di Budapest sono soli, e a Bruxelles la Commissione europea è più preoccupata dei vincoli che quella riforma pone alla banca centrale ungherese che di quelli con cui soffoca l'informazione, i sindacati e il dissenso; e subordina gli aiuti al paese magiaro più alla rimozione dei primi che dei secondi. Mentre dal parlamento di Strasburgo voci impotenti reclamano l'impugnazione del Trattato di Lisbona contro la Costituzione di Orbán e la sospensione del suo partito dal Ppe.

Ha ragione dunque chi sottolinea la necessità di saldare le politiche di salvataggio dell'euro a quelle di salvaguardia della democrazia costituzionale, l'«anima» della civiltà continentale, nei paesi membri e nell'Unione. Non c'è corpo senz'anima infatti. Però tantomeno c'è anima senza corpo. E come può un'Unione che sta sistematicamente distruggendo con la politica monetaria il proprio corpo sociale farsi garante della propria anima costituzionale?

Il nodo democratico viene al pettine qui con una urgenza e una drammaticità che non consentono ulteriori rinvii, né ulteriori imbrogli. L'imbroglio neoliberale, che per trent'anni ha predicato l'indipendenza della forma liberaldemocratica dalla sostanza delle politiche sociali, ovvero l'assoluta congruità fra libero mercato e liberaldemocrazia, con la crisi dell'euro è arrivato al capolinea: la favola è finita, e senza happy end. Il vecchio continente, che a buon diritto poteva vantare la superiorità di un modello di convivenza basato sull'innesto fra istituzioni politiche, libertà costituzionali e diritti sociali, adesso è in preda a una convulsione in cui la volontà di potenza dei mercati fa tutt'uno con l'impotenza della politica, la crisi finanziaria disfa il legame sociale, nazionalismi di varia risma, da quello impresentabile di Orban alle tentazioni sovraniste dei paesi forti, disfano l'Unione. E il salvataggio sempre più aleatorio dell'euro, malinteso sostituto d'anima di un'Europa che la sta perdendo, comporta la devastazione cinica e deliberata del corpo sociale. A quel punto, le costituzioni saranno carta straccia e la democrazia una scatola vuota, e non soltanto in Ungheria.

postilla

“Occidente”, che significa? Occidente rispetto a che? Bruxelles è “occidente” rispetto a Vladivostock, ma è “oriente” rispetto a Seattle. Quando si parla di Occidente nel senso un cui usa il termine la brava e rigorosa Dominijanni (che prendiamo a pretesto di una precisazione che vorremmo fare da tempo) si intende esprimere quel mondo culturale, caratterizzato da un sistema economico-spciale capitalistico-borghese, che è nato e si è consolidato (trascendendo sue più lontane radici) in quella parte del pianeta che si chiama Europa, e che più tardi si è espansa e sviluppata sull’altra sponda dell’Oceano atlantico, l’America del nord.

E’ un mondo culturale che è stato denominato “Occidente” in una determinata fase della nostra storia recente, in opposizione a quell’altra parte del mondo che aveva deciso di seguire, nel campo dell’organizzazione economica e sociale, una strada opposta a quella che – sul terreno dell’economia e della società – aveva caratterizzato la parte occidentale dell’Europa e la sua espansione americana.


A mio parere è rischioso, e comunque impreciso, definire i grandi orientamenti storico-geografici delle civiltà in termini di opposizioni tra i punti cardinali (Nord e Sud, Est e Ovest, Oriente e Occidente). O meglio, è opportuno tener presente che cosa c’è dietro quella parola: quale storia, quali idee, quali avanzamenti e quai regressi, quali doni e quali saccheggi. Riflettere sule parole e sulla storia è sempre utile per comprendere.

E comunque, come m’insegnò un amico più riflessivo di me, Luigi Scano, cerco di adoperare, invece della locuzione “occidente” quella, altrettanto geografica, di “nord-atlantico”, che rappresenta meno schematicamente il bacino che lega i due subcontinenti nei quali quel sistema economico-sociale dell'"Occidente", e i suoi valori e disvalori, si sono formati e deformati.


L´Europa manca di leadership. Le parole del presidente Napolitano sono state come una sferzata. Parole giuste e sacrosante. Vale la pena di mettere a confronto questa Unione Europea con le ambizioni dei suoi fondatori per comprendere pienamente questa deficienza. Che è nella leadership perché è negli obiettivi che l´attuale Unione ha. L´Europa ridisegnata dalla crisi finanziaria attuale è a metà strada tra un´Unione solo monetaria e un´Unione fiscale; centrata soprattutto sui vincoli. Il mantra è quello noto: per salvare l´Euro, non per dare ossigeno a una politica progettuale. La povertà di leadership viene dal dominio della finanza sulla politica. Non è casuale.

L´Europa che lanciava al mondo la sfida di una democrazia sociale avanzata, improntata sui due pilastri della crescita e dell´equa distribuzione della ricchezza sembra l´utopia di un passato remoto. Eppure era moneta ideologica corrente solo fino a due anni fa. Nessuno sa come sarà l´Europa di domani. Per ora solo questo sembra certo: i Paesi europei vogliono, o non possono non volere, una moneta comune. Ciò li costringe a volere anche vincoli comuni di spesa. Per necessità un passo avanti e due indietro, come si dice delle scelte strategiche in tempi di imponderabile incertezza. Un´altra Europa questa dei vincoli alla progettualità, diversa da quella pensata dai suoi visionari fondatori. Eppure questa Europa di povertà di leadership è una controprova di quel che Altiero Spinelli aveva sostenuto per tutta la sua vita: senza un´Europa politica nessuna Europa può reggere all´urto delle sfide mondiali, sia quando si tratta di militarismo e guerra (come negli anni in cui scriveva Spinelli) sia quando si tratta di impoverimento e arretramento economico, come oggi.

Il confronto tra questi mesi drammatici e l´ottimismo aleggiante solo qualche anno vale a rendere la grande trasformazione dell´idea di Unione europea che è sotto i nostri occhi. Nel 1999, celebrando il decimo anniversario della Banca centrale europea, Carlo Azeglio Ciampi, allora ministro del Tesoro e del bilancio, ricordò la riunione di Basilea dell´aprile del 1989, che siglò l´avvio dell´Unione monetaria, come «pietra angolare» di un percorso «ambizioso» per il cui successo c´erano "tutte le condizioni". Oggi quell´obiettivo è molto lontano dall´essere percepito come un successo. Per molti osservatori è anzi un penoso fallimento. Alla base della moneta unica c´era la visione lungimirante di Jean Monnet fatta propria dai fondatori politici dell´Unione Europea: Schuman, De Gasperi e Adenauer. All´origine vi era la convizione che, come scrisse Luigi Einaudi, per estirpare alla radice la malapianta del nazionalismo fosse necessaria: «L´abolizione della sovranità dei singoli Stati in materia monetaria» poiché a preparare le condizioni della Seconda guerra mondiale, e prima ancora delle dittature, vi la «svalutazione della lira italiana e del marco tedesco». Ma con una moneta e una politica monetaria capaci di fronteggiare gli shock interni ed esterni, l´Europa sarebbe stata in grado non soltanto di assicurare la pace al mondo e al continente, ma anche di perseguire una politica di prosperità e giustizia sociale che il mondo le avrebbe invidiato.

Quindi, l´Europa nacque con l´ambizione di domare i nazionalismi europei. La sua crisi, oggi, rimette invece in moto quei nazionalismi, anche se non si servono di carri armati ma di denaro. E infatti, perché l´unità monetaria diventasse una storia di successo, europea e non nazionalista, è mancato qualcosa, lo ricordava lo stesso Ciampi nel suo discorso: «La costruzione istituzionale dell´Unione europea deve arrivare a disporre dell´intera panoplia degli strumenti di governo dell´economia: di bilancio, dei redditi, delle strutture materiali e immateriali». La moneta unica doveva poter contare su un governo europeo per incastonare una «banca centrale autonoma». Diversamente sarebbe stata l´espressione di accordi nazionali, una politica continentale tenuta in mano dagli stati più forti. L´autonomia della Banca centrale europea richiedeva un´autonomia politica dell´Unione europea. Quello che oggi manca e che è alla base della carenza di leadership politica. La crisi della moneta unica europea, che è poi crisi delle società nazionali, è come una profezia realizzata dell´intuizione di Spinelli. In questa contingenza, l´utopismo del Manifesto di Ventotene acquista un significato di realismo visionario, di pragmatismo delle grandi idee che sanno vedere meglio perché riescono a guardare lontano.

Spinelli scrisse il Manifesto per un´Europa libera e unita mentre era confinato antifascista a Ventotene. Il documento, una vera e propria costituzione spirituale, metteva in pratica il tema centrale del pensiero illuminista: la correlazione tra costituzione repubblicana degli stati e ordine internazionale pacifico e libero. Nel Manifesto le ragioni della guerra erano identificate con gli arcana imperii e la ragion di stato, ovvero l´uso arbitario delle istituzioni e la segretezza. La conclusione era che la pace sarebbe stata duratura solo allorché tutti gli Stati nazionali si fossero dati costituzioni repubblicane e federali: questa sarebbe stata la condizione per creare una corrente ascendente di sovranità che unificasse il continente.

Un´utopia pragmatica. Un segno di lungimirante realismo che riposava sulla conoscenza della storia del continente, delle guerre mondiali e delle rivoluzioni, delle crisi economiche, delle carestie, delle emigrazioni bibliche. Senza l´Europa politica nessuna Europa sarebbe stata realistica. Questo era lo spirito di Ventotene. E tra i rischi più subdoli che il Manifesto indicava vi era il seguente: nell´evenienza di crisi economiche, sembrerà a qualcuno conveniente cercare di far leva sul sentimento patriottico per attuare la «restaurazione dello Stato nazionale». Avere Stati democratici non avrebbe reso il nazionalismo meno problematico, perché i politici eletti, «desiderosi di rappresentare la volontà popolare, facilmente finirebbero per diventare, nelle loro varie tendenze, strumenti di questo o quel gruppo particolare, mirante a conquistare la direzione dello Stato e ad impiegarne la forza per far valere i propri particolari interessi». Ecco perché tra gli scopi prioritari del Manifesto figurava l´impegno a indirizzare l´Europa del dopo totalitarismo verso obiettivi politici: la costruzione di un´ossatura istituzionale con lo scopo di dare vita a una democrazia sociale. Pace nella libertà perché pace nella giustizia e nell´equità. Non pace soltanto. Perché nessun´alleanza avrebbe potuto funzionare se gli Stati europei non si fossero dati obiettivi ambiziosi come questo.

C´è una realtà sotto gli occhi di milioni di italiani, che essi vedono e patiscono ogni giorno. L´industria italiana sta perdendo i pezzi. Lo dicono, più ancora che i media nazionali, che si debbono per forza concentrare sui casi più eclatanti, la miriade di Tg regionali e di giornali locali. Non ce n´è uno, da settimane, che non rechi in prima pagina l´allarme per un´impresa del luogo che sta per chiudere. Da Varese a Palermo, dal Cuneese al Friuli, da Ancona a Cagliari. Per tal via sono già scomparsi centinaia di migliaia di posti di lavoro; altrettanti rischiano di seguirli nel prossimo anno. Nessun settore sembra salvarsi. Sono in crisi l´auto (ovviamente Fiat: 550.000 vetture prodotte in Italia nel 2010, un quarto rispetto a vent´anni fa) e l´aerospazio (vari siti di Alenia); la costruzione di grandi navi, di cui l´Italia fu leader mondiale (almeno sei siti di Fincantieri) e gli elettrodomestici (Merloni di Fabriano e Nocera Umbra); la microelettronica (ST-Microelectronics a Catania) e il trasporto navale di container (Mct di Gioia Tauro); la siderurgia (Ilva a Taranto) e la chimica (Montefibre a Venezia, Petrolchimico e Vinyls a Porto Torres). Si potrebbe continuare per un paio di pagine. Sono anche crisi, tutte, accompagnate da forti perdite di posti di lavoro nell´indotto e nei servizi, poiché è pur sempre l´industria il settore da cui proviene la maggior domanda di essi.

Di fronte a una simile realtà, ed alla inettitudine dimostrata al riguardo dal precedente governo, ci si poteva aspettare che il governo nuovo aprisse una robusta discussione con sindacati, industriali, manager, esperti del settore, per vedere se si trova il modo o di rilanciare rapidamente le industrie in crisi, o di svilupparne di nuove affinché assorbano il maggior numero di disoccupati presenti e futuri. Invece no. Il governo apre un tavolo di discussione per decidere quali riforme introdurre sul mercato del lavoro al fine di renderlo più flessibile. Ed i sindacati, anziché ribattere che il problema primo e vitale è quello di creare lavoro, accettano di discutere sul come riformare le norme d´ingresso e di uscita da un mercato che intanto rischia una contrazione senza precedenti. Il che equivale a chiedere all´orchestra, tutti insieme, di suonare il valzer preferito mentre la nave è in vista dell´iceberg che la porterà a fondo. Fondo che in questo caso si chiama una durissima recessione, con milioni di disoccupati di lunga durata.

Dinanzi a una simile disconnessione dalla realtà di ambedue le controparti non restano che due strade. Una è arcibattuta: se mai c´è stato in passato un frammento di evidenza empirica comprovante che una maggior flessibilità in uscita accresce il numero degli occupati, a causa della crisi economica in atto tale affermazione è ancora più illusoria. Le imprese non assumono perché non ricevono ordinativi. In molti casi è chiaro che è colpa loro. La grande cantieristica, per citare un caso paradigmatico, conta ancora nel mondo numerose società che producono ogni anno decine di navi d´ogni genere, dalle petroliere ecologiche ai trasporti adatti alle autostrade del mare. Non avendo saputo riconvertirsi, i cantieri di Fincantieri si ritrovano ora con zero commesse. Davvero si può pensare che se gli facilitassero i licenziamenti individuali essi assumerebbero folle di lavoratori?

Un altro argomento che occorre pur ripetere è che il proposito di far assumere come lavoratori dipendenti un buon numero di precari è decisamente apprezzabile. Ma se il contratto di breve durata che caratterizza le occupazioni atipiche si riproduce nell´area dei nuovi contratti perché questi implicano la possibilità di licenziare il nuovo assunto, anche senza giusta causa, per un periodo che addirittura supera di molto l´attuale durata media dei contratti atipici, la precarietà cambierà di pelle giuridica, ma resterà tal quale nella realtà. Le imprese che in questi anni sono ricorse a milioni di contratti di breve durata in forza della legge 30/2003, allo scopo precipuo di adattare la forza lavoro in carico all´andamento degli ordinativi, useranno il periodo di prova, di apprendistato o come si voglia chiamarlo, lungo addirittura tre anni e più, per perseguire il medesimo scopo.

Duole dire che anche le proposte di un potenziamento degli ammortizzatori sociali, sponsorizzato in specie dal Pd, appare arretrato di fronte alla realtà della disoccupazione ed alle sue cause. Certo, se si ritiene che non ci siano alternative, come diceva la signora Thatcher, meglio un sussidio che non la miseria. Ma creare nuovi posti di lavoro in realtà non costerebbe molto di più, immaginazione politica ed economica aiutando. E un lavoro stabile e remunerato intorno o poco sotto alla media salariale è una soluzione che molti preferirebbero rispetto a sette od ottocento euro di sussidio percepito magari per anni, ma senza la possibilità di ritrovare un lavoro. Oltre ad essere, in tema di difesa delle competenze professionali e della coesione sociale, assai più efficace.

Il presidente Giorgio Napolitano conosce bene i problemi del lavoro ed ha un'antica frequentazione con le persone in carne ed ossa che l'hanno trasformato da schiavitù in occasione di socialità, solidarietà ed emancipazione. La sua tradizione, comunista e migliorista, ha saputo individuare nei rapporti di lavoro e nel loro cambiamento attraverso l'azione sindacale e il conflitto, linfa vitale per la battaglia politica democratica. Dunque, quando nel discorso di fine anno oppure ieri a Napoli ne parla, riesce a entrare in medias res .

Le sue parole indicano come riferimenti il Piano del lavoro di «Peppino» Di Vittorio e la svolta dell'Eur di Luciano Lama. Il primo nasceva dall'analisi di una sconfitta alla Fiat negli anni Cinquanta, dentro una prospettiva di straordinario sviluppo, con il boom economico che si profilava all'orizzonte. La seconda, a cavallo tra il '77 e il '78, arrivava verso la conclusione (e finalizzata alla conclusione) di uno straordinario ciclo di lotta segnato da un'inedità autonomia del movimento operaio italiano. I suoi richiami sono interessanti e utili, vanno presi sul serio. Meritano dunque di essere valutati criticamente, proprio per il rispetto dovuto alla storia e alla cultura del presidente. Il riferimento al Piano del lavoro rimanda a una scelta strategica e a un'analisi dei cambiamenti in atto tese a riportare il sindacato - la Fiom e la Cgil - dentro le fabbriche e nei posti di lavoro. I primi anni del Dopoguerra erano stati segnati dalla prevalenza del ruolo politico della Cgil: solo per fare un esempio, ricordiamo gli scioperi contro l'aggressione nordamericana alla Corea. La Fiom era stata sconfitta al rinnovo delle commissioni interne, vittima dell'epurazione dei comunisti ordinata al ragionier Vittorio Valletta dall'ambasciatrice americana Clare Luce, ma anche di una perdita di rapporto con le condizioni materiali dei lavoratori. Oggi al posto di Valletta c'è Sergio Marchionne, anch'egli impegnato nell'epurazione del dissenso dalle fabbriche Fiat, ma la Fiom ora è fortissimamente radicata nelle fabbriche e la sua azione sindacale è incentrata sulla difesa delle condizioni materiali e della dignità dei lavoratori.

Più consono è invece il richiamo di Napolitano alla politica dei sacrifici cara al Lama dell'Eur. Luoghi comuni del tipo «siamo tutti sulla stessa barca», o la riduzione del conflitto da risorsa per la crescita collettiva - anche dell'economia, anche della democrazia - a problema, possono legittimare il richiamo presidenziale. Lama voleva chiudere la stagione di lotta degli anni Settanta, Napolitano («oggettivamente», si sarebbe detto ai tempi della Terza internazionale) entra nel cuore delle differenze interne alla Cgil, proprio alla vigilia di un importante direttivo nazionale: attraverso i suoi appelli alla «coesione» sociale e all'unità sindacale punta i riflettori, per chi voglia intendere, sulle anomalie. La Fiom che non accetta il ricatto «lavoro in cambio dei diritti», non firma il contratto Fiat e si batte contro la cancellazione del contratto nazionale di lavoro, è l'anomalia.

Anche se il discorso potrebbe essere allargato all'intera Cgil che forse merita, nella visione del Colle, un richiamo a una maggiore disponibilità nei confronti degli «sforzi» di un governo che non sarà unto dal Signore, ma certo fortemente voluto e protetto dal Gotha della finanza e dal Quirinale stesso. Vorremmo rispettosamente esprimere alcune perplessità al presidente Giorgio Napolitano.

1) Lei chiede «coesione sociale» e vede nell'accordo tra capitale e lavoro la conditio sine qua non per uscire dalla crisi e far ripartire il Paese. Ma come si può chiedere «coesione» a un operaio della Fiat, che guadagna 500 volte meno del suo amministratore delegato? Ai tempi di Di Vittorio da lei richiamati, il feroce Valletta guadagnava 20 volte di più dei suoi operai. Oltre che alle forze del lavoro e alla loro «etica», forse presidente dovrebbe rivolgere la sua moral suasion all'«etica» dell'impesa.

2) Lei chiede di ripartire dall'accordo confederale del 28 giugno 2011, siglato con la Confindustria oltre che da Cisl e Uil anche dalla Cgil, ma contestato dalla Fiom. Quell'accordo apre la strada delle deroghe al contratto nazionale, poi spianata dall'articolo 8 della manovra ferragostana di Tremonti. Lei sa meglio di chiunque altro il valore generale del contratto nazionale che è lo strumento della solidarietà generale, così come non le sfugge la conquista democratica rappresentata dallo Statuto dei lavoratori, sempre più oggetto di attacchi strumentali.

3) Il richiamo alla «responsabilità» di chi lavora dovrebbe forse essere accompagnato da un richiamo ai diritti e alle pratiche democratiche. È o non è ingiusto che ai lavoratori sia impedito di votare accordi e contratti che riguardino la loro vita e il loro lavoro? È o non è ingiusto che non venga democraticamente certificato il consenso che i singoli sindacati raccolgono nei posti di lavoro? È o non è ingiusto che senza mandati e senza verifiche alcune organizzazioni sindacali possano decidere per tutti, persino quando rappresentano una minoranza di lavoratori? È o non è inaccettabile che un sindacato non firmatario di un accordo o di un contratto venga «espulso», cancellato, impedito di svolgere attività nelle fabbriche e negli uffici? Secondo la magistratura, che a Torino si espressa in modo chiaro, si tratta di un comportamento antisindacale. Secondo lei, e secondo il governo Monti, che per il Quirinale sarebbe meritorio del sostegno di tutti?

4) Gli accordi separati sicuramente non piacciono a Napolitano, che ha buona memoria dei citati anni Cinquanta. Ma è possibile che l'unico modo per evitarli sia l'obbligo a firmare qualsiasi accordo, magari ritenuto lesivo dei principi della Costituzione? Vorremmo capire meglio il pensiero di Giorgio Napolitano, che certo non può essere banalizzato o strumentalizzato, ma che pure ci lascia perplessi.

Dire il vero: sulla gravità della crisi italiana, sulla nostra seconda cosa pubblica che è l´Europa, sui sacrifici, sul guastarsi dei partiti. Sembra essere una delle principali ambizioni di Monti, da quando è Presidente del Consiglio. Basta questo, per smentire chi decreta – con l´aria di saperla lunga – che il Premier non è che un tecnico, ammesso a sostituire fugacemente il politico detronizzato. La deturpazione funesta delle parole, lo stratagemma d´illudere il popolo imbellendo la realtà e inventandosi, per decerebrarci, un´attualità del tutto sfasata rispetto a ciò che davvero è attuale, cioè urgente, emergente: per decenni ci eravamo assuefatti a questo, e abbiamo finito col chiamarlo «politica». È ora di restituire, a quest´ultima, il severo verbo vero che le si addice.

Ogni volta che Monti viene descritto come un tecnico, entrato per effrazione in un teatro non suo, c´è da avere i brividi. Vuol dire che i politici di ieri ritengono il Premier un impolitico, e il suo sapere scientifico qualcosa di superfluo, se non dannoso, nell´arte di governo. Che giudicano impolitica anche la vocazione a non nascondere quel che è doloroso, dunque profondamente attuale, nell´oggi che viviamo. Da poche settimane sentiamo parlare di Italia e Europa con accenti inediti (un primo assaggio, ma breve, si ebbe nell´ultimo governo Prodi). I cittadini per ora approvano, conoscono una sorta di sollievo.

Si sentono anche confortati, nel loro rigetto cupo della politica? Può darsi, ma c´è un che di nefasto in questa visione duale: da una parte i politici, dall´altra un Premier che ha tutte le doti dello statista, che interiorizza al massimo la rappresentanza democratica, e tuttavia è percepito come tecnico, estraneo ai giochi nazionali. Essere impolitici in una democrazia smagliata ha le sue virtù: impolitico è chi non possiede le furbizie del professionista politico. Ma prima o poi le due figure vanno congiunte (già si congiungono nel Premier) per depurare la politica ed evitare che senza soluzione di continuità, senza memoria di quest´intermezzo, ci venga restituita domani la politica di ieri.

Le parole dette con franchezza, che Monti usa con metodo nelle conferenze stampa, hanno una lunga storia nella democrazia. Ne discussero i filosofi dell´antichità greca, e diedero al dire-tutto il nome di parresia: un vocabolo che torna negli Atti degli apostoli (Pietro e Giovanni rischiano la morte, pur di testimoniare il vero e la libera coscienza del cristiano). Chi parlava senza blandire o mimetizzarsi era chiamato parresiasta. Senza parresia, scrive Foucault, «siamo sottomessi alla follia e all´idiozia dei padroni»: la pòlis ha bisogno di verità, per esistere e salvarsi.

Monti è all´altezza di tale compito? Per come tratta i giornalisti, per come li considera messaggeri dei cittadini – quasi il coro di antiche tragedie – si direbbe di sì. Non tutti i suoi ministri sono parresiasti: l´apprendimento del parlare-vero è lento, sempre scabroso. Si perdono privilegi, ci si espone alle critiche dei sofisti (gli economisti). Nella democrazia ateniese, secondo Socrate e Demostene, si rischiava la vita. Ha parlato-vero il ministro Fornero, quando tremò, il 4 dicembre in sala stampa, nell´annunciare i sacrifici: non perché volesse celarli, ma perché tremando li confermava penosamente veri.

Anche in Europa il Premier è parresiasta, come nessun collega dell´Unione: ai suoi pari come alla stampa, fa capire che c´è emergenza per tutti, che questa è l´attualità dentro cui i leader non guardano. In due occasioni ha osato bandire le deferenze – che già condannava da mesi. Prima è accaduto a Strasburgo, nel vertice del 24 novembre con la Merkel e Sarkozy, quando ha ricordato i peccati di chi oggi vitupera i dilapidatori del Sud: «Una buona parte della perduta credibilità del Patto di stabilità è stata dovuta al fatto che, quando Germania e Francia nel 2003 entrarono in conflitto col patto, i due governi dell´epoca, francese e tedesco, con la complicità del governo italiano che presiedeva il consiglio Ecofin (il governo Berlusconi, ndr), sono passati sopra queste deviazioni. Credo sia stato un grosso errore». Non solo: ha ricordato che fu proprio lui, commissario a Bruxelles, a battersi perché la Commissione denunciasse il Consiglio dei ministri di fronte alla Corte di giustizia, e a ottenerlo.

La seconda occasione è stata la conferenza stampa di fine anno. Aprendo un dialogo con Tobias Piller, corrispondente a Roma della Frankfurter allgemeine Zeitung, il Premier ha fatto una piccola lezione sui tempi lunghi e corti in politica, biasimando l´incapacità tedesca di ritrovare la veduta lunga del passato.

Ci vuole coraggio per firmare le proprie parole, parlando-vero. Chi lo possiede non ha la vita facile, deve esser cauto se non vuol ricadere nel parlar-falso. Alcuni barcollano, tra chi sta accanto a Monti. Per esempio il potente ministro Passera (responsabile dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture, dei Trasporti). Nei giorni scorsi è inciampato malamente, su un caso rievocato dalla stampa: segno che la parresia latita nei partiti, ma un po´ anche nel governo.

Il caso è la mancata vendita di Alitalia e il suo presunto salvataggio: è una delle grandi menzogne dell´era Berlusconi, e su questa pietra Passera ha incespicato. Criticato da Milena Gabanelli e Giovanna Boursier (Corriere della Sera, 30-12) ha replicato: «L´operazione Nuova Alitalia fu del tutto trasparente e rispettosa delle regole, comprese quelle della concorrenza. Con capitali privati si sono salvati almeno 15 mila posti di lavoro ed è stato drasticamente ridotto l´onere che lo Stato avrebbe dovuto sostenere se fosse avvenuto l´inevitabile fallimento dell´intera vecchia Alitalia».

Ricordare è forse difficile per Passera, ma Monti certo sa come andarono le cose. È vero che l´operazione Fenice salvò posti di lavoro e ridusse, per lo Stato, i costi di una bancarotta. Ma il fallimento non era affatto inevitabile. Il governo Prodi aveva stretto un accordo con Air France, che fu sabotato – complici i sindacati – dall´alleanza fra Berlusconi e l´odierno ministro dello Sviluppo (allora amministratore delegato di Banca Intesa). Formalmente è vero che furono rispettate le regole della concorrenza. Ma solo perché il governo Berlusconi modificò con un decreto ad hoc le norme antitrust relative alla tratta Milano-Roma, consentendo a Alitalia-Air One di ottenere il monopolio su tale rotta.

Le cifre parlano chiaro, e un governo che dice il vero non può occultarle. Il piano francese prevedeva 2.120 licenziamenti. Nuova Alitalia, assorbendo la fallimentare Air One di cui Banca Intesa era creditrice, ne licenziò 7.000. L´integrazione con Air France sarebbe stata ben più benefica: minori costi per lo Stato (per i contribuenti), minori costi per azionisti e obbligazionisti Alitalia, nessun cambiamento "in corsa" delle regole per favorire cordate italiane, inserimento di Alitalia in una promettente rete internazionale.

In tempi di crisi, la parola del parresiasta si accosta a quella profetica, o del saggio. I tempi s´allungano, il futuro lontano è incorporato come compito nel presente, la scadenza elettorale non è il cannello d´imbuto che inchioda i governanti alla veduta corta ma è un uscire all´aperto di cittadini bene informati.

Milena Gabanelli e Giovanna Boursier hanno chiesto a Passera di liberarsi dei suoi ingombri. Ma alla domanda viene da aggiungere: guardi al Presidente del Consiglio, signor Ministro, al suo linguaggio. Esca non solo dai conflitti d´interesse, ma dalle tante bugie dette ai cittadini: la bugia su Alitalia l´hanno pagata gli italiani, come contribuenti e lavoratori. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. La pòlis ha bisogno di verità, sugli sbagli di ieri. Un ministro del governo Prodi parlò-vero, all´inizio del 2008, quando disse che avevano «ripreso sopravvento gli impulsi di autodistruzione presenti nella società italiana e nella classe politica», e criticò proprio l´offensiva pregiudiziale di Passera contro l´accordo Air France. Passera è un tecnico, non meno di Monti. Non basta esser tecnici per liberarci della malapolitica che ci ha portati nella fossa.

L'Italia ha imboccato la stessa strada della Grecia. L'unica possibilità che abbiamo per un'alternativa è quella di condizionare il governo con la mobilitazione sociale. L'importante è cominciare. Al più presto

Il decreto "Salvaitalia" non salverà l'Italia e il decreto "Crescitalia" non la farà crescere. Sembra - quest'ultimo - il nome di un formaggio. Il sobrio Monti ha ereditato da Tremonti il gusto di sostituire espressioni consolatorie alla dura osticità delle cose; com'era la famigerata "Robinhood tax", nome che Tremonti aveva dato a due o tre cose diverse e mai realizzate; o «i conti sono stati messi in sicurezza» (e non lo sono): giaculatoria che Monti ha ripreso tal quale dal precedente ministro. È più probabile invece che da quei due decreti l'Italia esca ulteriormente depressa. Il paese non sta andando a nord-ovest (verso Bruxelles) come sostiene Monti; ma, per usare i suoi riferimenti logistici, a sud-est (verso la Grecia). Le misure adottate dal governo greco, prima e dopo il cambio della guardia, non l'hanno salvata da un primo default - anche se nessuno lo ha chiamato con il suo vero nome - e non la salveranno dal prossimo. E nessun economista serio vede come l'economia della Grecia, sottoposta a quella cura da cavallo, possa risollevarsi nel giro dei prossimi dieci e più anni. Ma l'Italia ha imboccato la stessa strada; che è poi quella "suggerita", cioè imposta, dalla Bce. Quanto all'equità, questa sì, verrà realizzata: equiparando al livello più basso lavoro fisso e precario e superando così «l'apartheid» che li divide (bella espressione, «apartheid»: come se i lavoratori a tempo indeterminato - e non i padroni, che in questi mesi li stanno mettendo entrambi sul lastrico a bizzeffe - avessero rinchiuso i precari dietro una cortina di filo spinato).

Anche le "riforme" si faranno, dato che sia questo termine che "modernizzazione" vengono ormai usati solo per indicare la sottomissione totale dei lavoratori alle imprese; e di queste alle banche; e delle banche - con i buoni uffici dei governi e della Bce - alla finanza ombra che domina l'economia globale. Quanto al "rigore" tanto caro al governo, non è che il rigor mortis di una compagine che al carnevale berlusconiano ha sostituito la "sobrietà", per continuare l'aggressione spietata contro chi lavora, chi è disoccupato, e chi lavora senza guadagnare; senza molto discostarsi da chi li ha preceduti. «Non ci occupiamo solo di questo», ha aggiunto Monti durante la conferenza stampa di fine anno, dato che aveva parlato solo di tassi, spread , debito, conti, bilanci, tagli, tasse. E ha precisato: «Sappiamo che gli uomini sono fatti di carne, ossa e...("anima", avrebbe detto qualcuno di voi; "spirito", o "mente", avrebbe pensato qualcun altro. No)... e denaro» ha concluso il premier.

Ecco: per Monti siamo fatti di denaro ("carne e ossa" sono incidenti di percorso); e, ovviamente, ciascuno conta per il denaro che ha; di cui "è fatto". Scava e scava: tutta la filosofia del liberismo, e soprattutto la sua "prassi", finiscono lì. Prendete Draghi, che lavora in tandem con Monti - e con molti altri - alla salvezza dell'Italia e dell'euro; cioè di chi gli euro li detiene. Ne sta distribuendo miliardi alle banche a man bassa (come Ben Bernanke ha distribuito e continua a distribuire alle banche, anche europee, miliardi di dollari; spiegando che se fosse necessario glieli farebbe anche piovere addosso - alle banche; non ai comuni mortali - gettandoli da un elicottero).

E perché? Per «metterle in salvo». E da chi? Da se stesse: dal fatto che hanno assunto, speculando, troppi rischi; sono piene di titoli tossici (in Italia, più provinciali, di immobili: di Ligresti, Zunino, don Verzé e compagnia); sono ingrassate con i titoli di Stato più redditizi, che ora perdono valore, e di cui non riescono a sbarazzarsi in tempo. E poi? Devono ancora decidere se piazzare quei miliardi in titoli di stato (magari al 7 per cento), o in crediti alle imprese (in Italia al 12-15 per cento), o prestandoli a chi specula in azioni, valute, materie prime o derrate alimentari (con guadagni ancora maggiori), avendoli presi in prestito all'1 per cento (con garanzia dei rispettivi Stati, a cui la Bce però non presta un euro perché sono "inaffidabili"). Nel frattempo quei miliardi se li tengono: anzi, li lasciano - in prestito, allo 0,25 per cento - alla Bce che glieli ha dati. Così le imprese soffocano, chiudono e licenziano; i governi annaspano sotto il peso degli spread e non possono spendere per sostenere redditi, servizi, riconversioni, ricerca, istruzione (o anche solo per offrire alle imprese in difficoltà quelle "garanzie" che concedono alle banche, senza averle nemmeno per se stessi); e le banche possono continuare a nascondere il loro stato comatoso; e la "finanza ombra" ingrassa in attesa di sferrare i prossimi colpi.

Queste vicende hanno qualcosa di surreale, ma alla generalità degli economisti sembrano normali, o addirittura sagge. Perché c'è una logica in tutto questo: quella di "non disturbare il manovratore": cioè l'alta finanza; perché si è accettato di essere completamente nelle sue mani: che non sono quelle di un demiurgo, né buono né malvagio; ma quelle di un meccanismo cieco e sordo che produrrà un disastro: che in prospettiva - ma forse anche in tempi brevi - può essere il crollo dell'euro; e con esso dell'intera costruzione europea e forse dell'economia del pianeta.

C'è un'alternativa a tutto questo? Certamente c'è; ma, per ora, non a livello di governo; né dalle elezioni potrebbe sortirne uno molto di diverso. Per ora l'alternativa c'è solo nella capacità di condizionarne le scelte con una piattaforma condivisa e una adeguata mobilitazione sociale. Ma si deve partire da molto lontano. Innanzitutto dalla capacità di mettere al centro le donne e gli uomini in "carne e ossa"; i nostri bisogni e le nostre aspirazioni; e, soprattutto, il rapporto costitutivo con il nostro prossimo - la solidarietà non è un lusso né un optional - e con l'ambiente fisico in cui viviamo. E non, invece, il denaro - e chi lo possiede o lo controlla - come arbitro insindacabile delle nostre vite.

Non è certo un caso che nella presentazione del suo governo Monti non abbia mai nominato l'ambiente; né la comunità (a parte la "comunità atlantica"). Come non è un caso che l'informazione e la discussione sulla crisi finanziaria abbiano completamente oscurato - per non dire azzerato - informazione e consapevolezza della crisi ambientale, ben più grave, e più carica di pericoli per noi e per le generazioni future, di quella finanziaria. Ma anche ciò che fornisce un filo conduttore: per affrontare i problemi economici a partire dai bisogni umani che l'economia non sa soddisfare; e, soprattutto, per non disperdere in produzioni e progetti senza prospettive, in castelli di carte, in "grandi opere" e nuovi disastri ambientali la dotazione e il potenziale di esperienze, di professionalità, di conoscenze, di impianti, di infrastrutture e di relazioni che questo scorcio di secolo ci lascia ancora a disposizione, prima che sopravvenga la grande notte delle tempeste climatiche.

Costruire un'alternativa significa dunque mettere al centro la conversione ecologica dei nostri consumi, dei sistemi produttivi e del modo in cui gestiamo e amministriamo entrambi. Il che significa certamente declinarli entro la gamma di possibilità che di volta in volta si dischiudono, rispettando - non se ne può fare a meno - i rapporti di forza esistenti. Ma senza sottostare aprioristicamente ai vincoli che l'attuale quadro economico e finanziario - che definisce anche il profilo politico e gli assetti sociali - sembra imporre. Guai a pensare che le attuali politiche adottate a livello nazionale ed europeo siano solo il frutto di una concezione errata dell'economia; e che un più corretto impianto teorico permetterebbe di correggerle.

Certamente il liberismo è arrivato a una resa dei conti, a un suo disvelamento come estrema versione della patafisica : quella disciplina che il suo inventore, Alfred Jarry, aveva denominato «scienza delle soluzioni immaginarie». Il liberismo fornisce un quadro falsato e mitologico del mercato, dove quello che nella realtà è l'incontro tra una formica e un elefante che "negoziano" su chi debba schiacciare l'altro sotto le proprie zampe viene spacciato per una libera contrattazione tra eguali. È incapace di auto-correggersi, perché per quanto evidenti siano i disastri provocati dalle privatizzazioni, li imputa sempre al fatto che non ne sono state fatte ancora abbastanza; e che bisogna privatizzare di più; magari vendendo la mamma o i propri organi. Propugna ricette per rimettere in pista la "crescita" che si riducono sempre e solo a tagli di reddito e occupazione per chi lavora; e mai di profitti. Ma dietro il velo di questa dottrina ormai screditata si nasconde la sostanza corposa di una subalternità totale ai poteri della finanza. E non, o non solo, per comunanza di interessi, o per appartenenza sociale, o per connivenza con chi detiene le leve del potere (cose che certo non mancano; e a volte sono vistose). Ma per un vincolo culturale, che è ormai diventato mentale e costitutivo della vita quotidiana di tutti: quello secondo cui all'attuale assetto di potere e alle scadenze e alle soluzioni che esso impone "non c'è alternativa". Questa tesi, di cui Margaret Thatcher è stata l'emblema, oggi si ripresenta come terrore della parola default . Che può voler dire tante cose: da una ristrutturazione del debito, come quello che Angela Merkel ha imposto alla Grecia, senza alcun beneficio, ahimé, per la sua popolazione, al ritorno a valute nazionali, se reso inevitabile dalla scomparsa dell'euro o da una crisi bancaria globale; passando ovviamente per cento soluzioni intermedie.

Eventualità del genere possono farci rabbrividire e paralizzarci. Oppure spingerci a costruire una via di uscita, facendo appello a esperienze e risorse cognitive oggi completamente escluse dal dibattito e dalla possibilità di influire sulle decisioni. Tanto che per discutere proprio di queste cose molti hanno ritenuto necessario occupare le piazze, in Spagna come in America. Come faranno anche in Russia e in Nordafrica, non appena le condizioni lo renderanno possibile (in Italia per ora ci è andata male per via dell'esito funesto del 15 ottobre); o affiancare quel dibattito agli scontri quotidiani con la polizia, come in Grecia; o farne una rivoluzione pacifica, come in Irlanda.. L'importante è cominciare. E se non ora, quando?

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