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Il sindaco di Cagliari Massimo Zedda, quello di Bari Michele Emiliano, quello di Milano Giuliano Pisapia che si è scusato per l'assenza causata dall'inaugurazione dell'anno giudiziario, il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti che ha mandato un testo scritto, il governatore pugliese Nichi Vendola e ovviamente il padrone di casa, Luigi de Magistris, con il suo assessore di punta Alberto Lucarelli. La Rete dei Comuni per i bene comuni inaugura a Napoli una nuova stagione per la sinistra, con inedite alleanze territoriali e un rapporto stretto con i movimenti e le lotte sul lavoro. È l'alternativa «benecomunista» che si è presentata come l'unica opposizione sociale e perfino istituzionale nell'Italia del governo Monti.

AAA. POLITICA CERCASI

«A sinistra ci siamo abituati a dire pochi ma buoni, però poi si vincono le amministrative, poi anche i referendum e allora, come al forum di Napoli 'Comuni per i beni comuni', dobbiamo abituarci a dire buoni e tantissimi». Norma Rangeri apre i lavori dell'appuntamento partenopeo che ieri ha riunito amministrazioni, associazioni, movimenti, cittadini e tutte le realtà del territorio intorno alle possibili declinazioni del benecomunismo. Tocca alla direttrice de il manifesto «perché il nostro giornale dà voce e forma al cambiamento a cominciare dal referendum sull'acqua, su cui abbiamo condotto una battaglia quando erano in pochi a crederci. E poi siamo stati noi a scovare il comma dell'articolo 25, nelle liberalizzazioni di Monti, che avrebbe reso impossibile convertire le Spa in società speciali di diritto pubblico per gestire i servizi idrici», a partire da Abc Napoli - Acqua bene comune. «Ci siamo battuti e abbiamo ottenuto il ritiro della misura».

La sala del teatro Politeama, il più grande di Napoli, è gremita già dalle 11, arrivano anche gli scettici, non si sottraggono al confronto. Nei corridoi i banchetti per le firme per far tornare la Fiom sui luoghi di lavoro ma anche per la petizione popolare per cambiare il Trattato economico europeo. Dalla direttrice del manifesto, due bacchettate: «Come spesso accade, manca una presenza femminile più ampia perché viene disconosciuta l'importanza del contributo delle donne al rinnovamento della politica italiana. Manca l'attenzione all'informazione. I giornali indipendenti, come Liberazione, hanno già cominciato a chiudere, quando resteranno le multinazionali delle news quale sarà la qualità dell'informazione? Anche noi potremmo a breve non esserci più. Vogliamo assistere al funerale o scongiurarlo in nome della stampa Bene comune?».

Appello accolto da Alberto Lucarelli che comincia il suo intervento dalla difesa dei giornali senza padrone ma anche dei No Tav. Un tema, questo, che si rincorre in tutti i tavoli (contemporaneamente, alla stazione i movimenti occupavano in solidarietà i binari dell'alta velocità) perché ragionare di nuove forme di democrazia a partire dai Beni comuni è l'esatto opposto del delirio 'sviluppista' imposto con la forza. «Quando facevo parte della Commissione Rodotà - racconta Lucarelli - provammo a fare un elenco dei beni comuni, oggi non lo farei più perché è una categoria dell'essere e non dell'avere e si può declinare all'infinito». Ridefinizione dei parametri intorno a cui organizzare la democrazia attraverso la partecipazione ma, dice l'assessore, anche «strumenti concreti di azione a partire dal locale; rivendicare il diritto alla disobbedienza verso atti dello stato illegittimi e incostituzionali; un patto federativo tra amministrazioni per un modello pubblico e partecipato nella gestione dei servizi». E ancora: «Ci vogliono laboratori permanenti con capacità deliberativa per uscire dalla morsa della dittatura della delega da un lato e la proprietà privata dall'altro. Utilizziamo il Trattato di Lisbona per portare in Europa la Carta dei Beni comuni, rigettiamo unanimismo e pratichiamo la contaminazione permanente dei diversi».

La sala si svuota rapidamente perché ci sono i tavoli tematici al Maschio Angioino. Quello sull'Ambiente è talmente partecipato che viene spostato a Palazzo San Giacomo, sede del comune. Tra gli iscritti a parlare Marco Sirotti del centro sociale Tpo di Bologna: «Sono qui per capire cosa fanno Lucarelli e de Magistris. Il sindaco è andato all'inaugurazione dell'anno giudiziario, cioè di quella parte di stato che ha arrestato 30 No Tav, incluso mio fratello. Sono qui per capire se ci possono essere dei punti comuni per uscire a sinistra dalla crisi». Sala gremita anche per welfare e lavoro, a calamitare l'attenzione è la Fiom: Francesca Re David racconta cosa è successo alla Iveco, lavoratori dentro e Landini fuori col megafono. Antonio Di Luca ce l'ha con Ichino: «Parla di catena di montaggio lenta. La verità è che una Panda viene prodotta in un minuto e cinque secondi, 56 macchine all'ora, senza pause e senza mensa». L'assessore al Welfare, Sergio D'Angelo, è impegnato in una battaglia per impedire il taglio dei fondi: «Siamo sicuri che convenga eliminare i servizi per i cittadini in difficoltà?». Il patto di stabilità è l'arma per strangolare il benecomunismo. Dal tavolo sull'economia il titolare partenopeo al Bilancio lancia «la disobbedienza civile contro la legge di stabilità a patto che lo facciano tutti i comuni». Ribattono i movimenti: «Tra tutti e nessuno, comincino le aree metropolitane».

A portare il suo contributo sui Beni comuni Emiliano Viccaro del centro sociale romano Astra: «Cambiamo ragione d'essere all'esproprio, le amministrazioni lo usino per edifici pubblici vuoti rispondendo alla necessità della casa». Il gruppo ha riempito del tutto la Sala dei Baroni. L'esperienza del teatro Valle e del Cinema Palazzo è richiamata da Ugo Mattei. E ci sono anche loro. Non erano attesi, ma la democrazia partecipata non prevede limiti.

PAUL GINSBORG

«MONTI È LA VERA DESTRA STORICA»

Tra i relatori seduti al tavolo sui Beni comuni il professor Paul Ginsburg: inglese, insegna Storia dell'Europa contemporanea all'Università di Firenze. «Vedo che in Italia tutti dicono 'com'è sobrio Monti, com'è british'. Ma io sono quello genuino!». La sua relazione sulla democrazia partecipata comincia con un saggio di humour made in Uk, strappando una sonora risata alla sala gremita. Più tardi, una nuova provocazione sul filo dell'ironia: «Chi avrebbe mai pensato che a Napoli potesse succedere una cosa così?»

Sono passati dieci anni dal movimento dei professori, di cui lei faceva parte, sorto contro la scesa in campo di Berlusconi. Come è cambiato l'impegno di quella parte di mondo accademico?

«Eravamo un gruppo eterogeneo, c'erano moderati accanto a persone di sinistra, quel mix - in sé - era una bella cosa. Solo che la maggior parte di noi interpretava l'impegno politico in chiave difensiva, proteggere la democrazia contro l'attacco rappresentato dal signor B. Un gruppo minoritario, in cui c'ero anch'io, avrebbe voluto andare oltre, arricchire la democrazia. Credo che questo ci riconnetta ai professori di Napoli presenti al Forum. È raro trovare in Italia una tale passione civica, competenza e informazione come traspare, ad esempio, nella relazione introduttiva di Alberto Lucarelli».

I professori sono anche al governo...

«Forse Monti è un novello Cavour, sicuramente è il rappresentante della destra storica. I primi atti di governo sono molto lontani dall'equità sociale, ma comunque hanno un'idea molto precisa dell'Italia. Ad esempio la battaglia sulla semplificazione delle procedure burocratiche fatta in questo modo - non alla Brunetta, per intenderci - può portare un vasto consenso, nel paese europeo in cui i cittadini sono afflitti dalla burocrazia più farraginosa. È Monti che ha costruito in poco tempo una vera destra classica».

Il potere di attrazione del premier, il suo profilo di tecnico, può arrivare al punto di far coagulare il centro con i Democrat quando si andrà a votare?

«Non lo so, sono uno storico e non ho la sfera di cristallo, ma mi pare difficile che il Pd possa andare con il Pdl e Casini. Prima o poi capiranno che dovranno entrare in uno schieramento compatto di centrosinistra».

Come si può costruire la democrazia partecipata?

«Sul tema c'è una retorica insopportabile. La democrazia partecipata piace a tutti, tranne a D'Alema. La qualità della prima dipende da come si coinvolge il secondo termine nel processo decisionale. Ma non come fa a Firenze il Matteo Renzi che convoca assemblee dove se ne dicono di tutti i colori e poi il sindaco dice 'è stato molto proficuo' e non succede niente. Non basta votare o coinvolgere la base con meccanismi a scelta casuale e non ripetibile (come per le giurie) o, all'estremo opposto, attraverso assemblee fiume che finiscono alle tre di notte, perché non è socialmente sostenibile. Il mio modello ideale è Porto Alegre: il cittadino ha la sensazione reale di decidere e verificare che le decisioni vengano accolte e non, come per i referendum, cancellate attraverso vie 'misteriose'».

Devono cambiare solo le istituzioni o anche i cittadini?

«La democrazia partecipata presuppone, prima di tutto, un diverso modo di stare tra di noi. Bisogna lavorare su comportamenti e passioni. Rifiutare il neoliberismo nella nostra testa. Praticare passioni radicalmente diverse dalle forme politiche che assomigliano alla guerra. Restiamo a sinistra».

VENT'ANNI DI STORIA E UN BLITZ

di Pierluigi Sullo

«Blitz contro i No Tav!», gridano i siti dei grandi giornali. Finalmente il progresso avanza, si direbbe. Qualche giorno fa è stata pubblicata la lettera con cui alcune persone di un certo rilievo - Luca Mercalli, Ivan Cicconi, Sergio Ulgiati e Marco Ponti - rispettosamente si rivolgono al presidente del consiglio, Mario Monti, per fargli notare che da ogni punto di vista - compreso quello liberista che anima il governo dei "tecnici" - il tunnel Tav in Val di Susa è una follia, proprio come gli abitanti della Valle e i loro numerosi amici sostengono ormai dal 1992.

1992? Caspita, giusto vent'anni. Chi se lo ricorda più il mondo del 1992? Eppure, in quell'anno capitarono molte cose. Ne ricordo alcune, forse istruttive a chi abbia la pazienza di leggere.

Il 6 gennaio una bomba viene fatta esplodere sulla linea ferroviaria poco prima del passaggio dell'espresso Lecce-Milano-Stoccarda all'altezza di Surbo. Si evita una strage per un pelo. Purtroppo i No Tav avrebbero preso ad esistere qualche mese dopo, non potevano essere loro i colpevoli. Il 13 gennaio iniziano i telegiornali Fininvest: primo il Tg5, diretto da Enrico Mentana. L'anno dopo Berlusconi sarebbe "sceso" in politica. Il 7 febbraio i 12 stati della Cee firmano il Trattato sull'Unione Europea, noto come Trattato di Maastricht. Il 17 febbraio a Milano il socialista Mario Chiesa, direttore del Pio Albergo Trivulzio, viene arrestato per una tangente di 7 milioni di lire. È il primo atto di Mani pulite. Il 5 aprile le elezioni politiche: Dc 29,7%; Pds 16,1%; Psi 13,6%; Lega Nord 8,7%; Prc 5,6%. Il 23 di maggio sull'autostrada che collega Palermo all'aeroporto di Punta Raisi il tritolo uccide il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta. Il 26 Oscar Luigi Scalfaro diviene Presidente della Repubblica. Il 28 giugno Giuliano Amato forma il nuovo governo: farà la manovra da 100 mila miliardi che "salverà" l'Italia. Il 9 luglio un decreto autorizza infatti il governo al prelievo forzoso sui conti correnti bancari del 6 per mille. La misura è giustificata dal bisogno di fronteggiare le forti speculazioni internazionali che stanno colpendo la lira. Inoltre, il governo decide la privatizzazione di quattro imprese statali: Eni, Iri, Ina ed Enel. Il 19 luglio a Palermo vengono uccisi da un'autobomba il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Il 18 luglio, nella sala consiliare di Bussoleno nasce nell'indifferenza di politici e media il primo comitato No Tav. Più o meno nello stesso periodo Nomisma, società legata a Romano Prodi, si aggiudica consulenze varie sull'Alta velocità ferroviaria. Il 31 luglio, accordo tra Confindustria e sindacati: viene soppressa la scala mobile a partire dal gennaio 1993. Il 12 agosto l'ente Ferrovie dello Stato viene trasformato in società per azioni. Ma facciamola breve. Il 3 novembre il democratico Bill Clinton è eletto presidente degli Stati Uniti. Il 3 dicembre l'Italia decide l'invio di un contingente per partecipare all'operazione Restore Hope in Somalia.

Se siete arrivati fin qui, noterete quanto lontano sia il 1992 e allo stesso tempo quanto vicino. Certo i presidenti americani e i nomi dei corrotti, o i paesi in cui soldati italiani vanno in «missione di pace», cambiano. Ma c'è qualcosa di duro, di coriaceo, che resta. Le «manovre», le privatizzazioni, in nome della modernità e dell'Europa, per esempio. E i No Tav della Valsusa.

La magistratura di Torino ha firmato 26 ordinanze di custodia cautelare in carcere, messo una persona ai domiciliari, prescritto 15 obblighi di dimora. Il «blitz» ha interessato quindici province in tutta Italia. E Marco Imarisio, giornalista del Corriere della Sera specializzato in "movimenti", oltre a far sapere che «i reati contestati sono resistenza, violenza, lesioni, danneggiamento aggravati in concorso», scrive che l'operazione ha «colpito i vertici del movimento in Valle e a Torino...», e che è stato «colpito il centro sociale torinese Askatasuna, considerato il braccio operativo del movimento No Tav». Imarisio, autore anche di un libro su Genova 2001, si deve essere specializzato in qualche altro movimento, visto che i No Tav non hanno notoriamente alcun «vertice», e non delegano a nessuno il ruolo di «braccio operativo». Tanto è vero che lo stesso procuratore di Torino, Giancarlo Caselli, ha detto che gli arresti non sono diretti contro la Valle di Susa o il movimento No Tav: «I soggetti che abbiamo individuato - ha dichiarato - sono autori, a nostro avviso, di specifici episodi di reato. È un'operazione che riguarda 41 persone e solo tre sono della Valle».

Ma quali sono, gli episodi di «resistenza» ecc.? Inizio luglio 2011: poliziotti e carabinieri - seguiranno gli alpini - occupano un'area della Valle di Susa, alla Maddalena di Chiomonte, poco dopo dichiarata «area di interesse strategico», cioè militarizzata, quindi sottratta alla normale gestione dei comuni, dei cittadini. Questa area viene chiamata «cantiere» perché vi dovrebbero lavorare le imprese (della Lega Coop) che hanno l'appalto per lo scavo di un tunnel esplorativo, propedeutico al tunnel di 52 chilometri. Ma in effetti nessuno vi sta lavorando, occupare manu militari la zona è un'azione dimostrativa, serve a dire ai cittadini della Valle che hanno perso la battaglia e all'Unione europea che ora si possono versare i milioni di euro promessi per l'opera (che ne costerebbe miliardi). La gente si oppone, cerca di divellere le reti, organizza una serie di manifestazioni che, in un clima sempre più minaccioso, sono sostanzialmente pacifiche, sebbene determinate (e per forza: i No Tav accumulano sapere e capacità di azione dal 1992).

Passano i mesi, ed ecco il "blitz". Proprio mentre i camionisti fanno i blocchi, i siciliani impugnano i forconi, il movimento dell'acqua fa quadrato attorno al referendum, i pescatori si fanno picchiare dalla polizia, e insomma i sondaggi sempre più rosei, l'unanimità o quasi dei partiti (come dimostra il testo votato dal Senato sul nuovo Trattato europeo) e il coro di elogi dei media non impediscono che le ferite e le fratture provocate dalla cura liberista del governo alla società italiana si traducano in proteste diffuse. I No Tav, come spesso è capitato loro negli ultimi anni, servono da cavia.

Ci vorrà ben altro, per farli finalmente tacere, quei valligiani riottosi. Intanto, Monti non risponde a chi contesta con fatti e cifre l'Alta velocità in Val di Susa (e a Firenze, per dirne un'altra). Forse il professore non ha argomenti?

CITTADINI ATTIVI, NON TERRORISTI

di Ugo Mattei

C'ero anch'io sui sentieri di Ramats lo scorso tre luglio e la sera sono rientrato incredulo di fronte all' aggressione irresponsabile delle forze dell'ordine ai manifestanti, saliti in montagna per una sacrosanta protesta in risposta allo sgombero della Libera Comunità della Maddalena, avvenuto solo pochi giorni prima. Salendo in fila e respirando quell'inebriante aria di montagna e di resistenza nei confronti di un potere arrogante e irrazionale, guardavo quei ragazzi, dell'età delle mie figlie e dei miei studenti. Ero fiero, come cittadino attivo, di vedere la loro partecipazione indignata da cittadini, agli antipodi di quella trasformazione in consumatori docili ed in carrieristi pronti ad ogni compromesso in cui da anni le riforme della scuola e dell'università tentano di trasformare i giovani occidentali, vittime designate del crollo della società opulenta. Attraversando le stradine del piccolo borgo e soffermandoci a bere ad una fontana che, a causa del traforo autostradale, offre acqua meno buona di un tempo, mi avevano colpito le signore che, sporgendosi sui balconi, ci ringraziavano per il nostro impegno per quella loro valle che da sempre è stata anche la mia valle.

Poi, in serata, la visita all'ospedale di Susa, il ritorno a Torino e il lavoro politico insieme alla Fiom per una grande fiaccolata, che per la prima volta era aperta da un cartello a me carissimo: No Tav Bene Comune. Venticinquemila persone, in massima parte torinesi, la solidarietà di tanti movimenti in lotta, da quello per l'acqua pubblica agli occupanti del Teatro Valle di Roma, a dimostrazione che il No Tav non è un movimento Nimby ma che invece sa far parte, a tutti gli effetti, di quella grande rete per i beni comuni che sta riuscendo ad organizzarsi (tappa importante domani a Napoli) per salvare il nostro paese dallo schianto cui lo condannano le politiche prone ai diktat del potere finanziario globale. Pochissimo dopo quel 25 luglio si scatenava la reazione contro la "primavera italiana" e contro il tentativo di ricominciare dai beni comuni: un tentativo di cui il movimento No Tav, con il suo rispetto certosino per il territorio è e resta parte integrante.

L'attacco alla legalità e il tentativo di obliare il senso politico delle lotte di primavera iniziava ad agosto con un susseguirsi di provvedimenti di pseudo-urgenza che ancora in troppo pochi ci sgoliamo per denunciare e per chiamare con il loro nome: emergenza democratica! La militarizzazione del cantiere Tav ci ha consegnato un messaggio forte e chiaro: per spartirsi quel bottino si è pronti a tutto. Ieri mattina la retata, volta a criminalizzare e intimorire non certo il solo movimento No Tav, che subisce questa sorte da vent'anni, ma proprio quel dissenso, quella solidarietà, quella cittadinanza attiva che lega in una sola lotta per i beni comuni le tantissime vertenze aperte sul territorio da chi rifiuta la logica dello stato di eccezione. Pratiche autoritarie che ci fanno piombare in un'emergenza democratica ancor più preoccupante ogni volta che la magistratura tiene bordone all' esecutivo.

Un'inedita e clamorosa polemica minaccia di dividere il movimento ambientalista e di spaccare la galassia delle associazioni. Pomo della discordia, la riforma dei Parchi nazionali all'esame del Parlamento, a vent'anni di distanza dall'introduzione della legge 394. E la "querelle" rischia di coinvolgere anche i senatori eco-dem, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, che stanno seguendo l'iter del provvedimento a palazzo Madama.

Con una pagina pubblicitaria, apparsa ieri sul nostro giornale, il Fondo per l'ambiente italiano (FAI), Italia Nostra, Mountain wilderness, la Lega per la protezione degli uccelli (Lipu)e il Wwf, hanno lanciato un "appello per fermare una riforma inutilee dannosa":a loro giudizio, stravolgerebbe il sistema dei Parchi compromettendone la funzione primaria di tutela ambientale e quindi l'attrattiva turistica. Secondo questo fronte, le modifiche alla legge 394 intendono alterare il delicato equilibrio della "governance" fra i ministeri dell'Ambiente e dell'Agricoltura, del mondo scientifico, delle associazioni e degli enti locali, spostandolo "a vantaggio dei rappresentanti di interessi locali e di settore". E ciò non farebbe che "aumentare la politicizzazione degli Enti Parchi". Le associazioni che hanno lanciato l'appello contro la riforma denunciano poi la "possibilità di cacciare nelle aree protette con la scusa del controllo delle specie aliene". E infine, contestano il "meccanismo di finanziamento degli Enti Parchi con l'introduzione di una royalty o di canoni su alcune attività a elevato impatto ambientale" (la coltivazione di idrocarburi, gli impianti idroelettrici o a biomasse).

Sul fronte opposto, insieme a Federparchi e a Legambiente, si schiera anche la Coldiretti, la principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo, presieduta da Sergio Marini, con un milione e mezzo di associati. In comune, questi tre soggetti manifestano una maggiore attenzione alle esigenze di carattere economico e in particolare a quelle dell'agricoltura.

In difesa della riforma, interviene il presidente di Federparchi, Giampiero Sammuri: «Le modifiche che si stanno delineando sono da giudicare utili e positive». E aggiunge che «i limitati e parziali interventi previsti non sono certo una mannaia sui parchi e sulla loro efficacia gestionale: in alcuni casi possono produrre una maggiore capacità d'azione, in altri migliore chiarezza su strumenti e opportunità, in altri ancora la riaffermazione, rafforzata ed estesa, di competenze e prerogative, come quelle sulla gestione della fauna».

Ancora più dura la replica di Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, in polemica aperta con le cinque associazioni firmatarie dell'appello: «È un ambientalismo alla Walt Disney, più da giovani marmotte che da moderni ambientalisti. Agricoltori ed enti locali non sono il lupo cattivo. Noi non abbiamo nessuna paura di modificare la legge 394/91 sui parchi per rilanciarne la funzione e renderli più efficienti». A suo parere, l'iter parlamentare della riforma «va nella giusta direzione prevedendo provvedimenti che velocizzano le nomine, semplificano la governance degli Enti Parchi, liberano dalle pastoie della cattiva politica e sburocratizzano organismi che rischiano, così restando, di apparire inutili carrozzoni». Di rincalzo, la Coldiretti ribatte che nella legge 394 l'agricoltura ha "uno spazio residuale", mentre le attività del settore rispondono a "logiche di investimento e di sviluppo". Da qui, appunto, la necessità di essere «più coraggiosi al fine di costruire un più deciso collegamento tra sviluppo dell'agricoltura e salvaguardia della natura». Per l'associazione guidata da Marini, insomma, «si tratta di mettere a punto una strategia di valorizzazione del territorio, in cui è possibile inserire la serie delle aree naturali protette che identificano e circoscrivono particolari habitat con tutti i connessi valori naturali e culturali».

Titolo originale: Settlers who went too far - even for Netanyahu - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Itai Harel scruta il deserto roccioso dei Monti di Giuda e ci invita a “guardare questa meravigliosa terra libera sino a Gerusalemme, che aspetta i suoi figli che la vengano a costruire e ad abitare”. Uno dei rari momenti in cui Harel, trentottenne operatore sociale, si fa poetico mentre spiega perché è venuto a stare, insieme alla moglie, ai sei figli, e altre cinquanta famiglie, in questo avamposto recintato in cima a una collina della West Bank a est di Ramallah. Stando qui di fianco alle stalle che Harel utilizza efficacemente come centro per la terapia ippica, è davvero difficile pensare che la Corte Suprema di Israele ha ordinato l’evacuazione e demolizione di tutto entro circa due mesi. E che questo avamposto si è trasformato nel crogiolo di una nuova prova di forza politica e legale, tale da determinare la posizione del governo israeliano sui limiti aglio insediamenti ebrei illegali nella West Bank.

In una pacifica mattinata d’inverno i bambini si arrampicano sugli scivoli nel campo giochi di un asilo. La torre dell’acquedotto, i pali della corrente elettrica, la strada che arriva serpeggiando fino in cima alla collina, tutto sta a testimoniare la generosità dei sostegni governativi alla comunità, cinque milioni di euro circa, per stabilirsi qui dieci anni or sono. Ci vengono anche in pattuglia i militari dell’esercito. Ma è il paradosso di Migron: non c’è nulla di legale. Nessuna norma internazionale, di quelle che la maggior parte dei governi democratici accusa Israele di violare sistematicamente con gli insediamenti nei territori occupati. Così come avvenuto con un altro centinaio di complessi illegali, spuntati a partire dagli anni ‘90 aggirando l’impegno dello stato a non realizzarne più, non hanno alcuna base nel diritto. Anche i ministeri, e la Corte Suprema, confermano come Migron sia costruita su terreni di proprietà privata di famiglie palestinesi dei vicini villaggi di Burqa e Deir Dibwan, quindi doppiamente illegale.

Nella sentenza, emessa dopo infinite promesse non mantenute di evacuare gli abitanti di Migron, il giudice Dorit Beinisch, dichiara inequivocabilmente che “speriamo gli abitanti [di Migron] accettino la necessità di evitare comportamenti violenti, ristabilendosi altrove, in luoghi dove ciò è consentito”. Harel ha un aspetto che è proprio difficile classificare come “da violento”, e ribadisce la volontà di cercare una soluzione pacifica. Ma non vacilla per un attimo la sua fede ideologica nel diritto di potersi stabilire dove vuole nella West Bank. “Sa, mio padre è sopravvissuto all’Olocausto, suo fratello minore è stato ucciso. Ha cercato dopo la guerra di venire in Israele insieme alla famiglia, quando aveva sei anni, gli inglesi li hanno mandati a Cipro. Ha combattuto alla liberazione di Gerusalemme [nella Guerra dei Sei Giorni del 1967]”. Harel crede che siano i cittadini, non i tribunali, a dover decidere il destino della terra: “Rappresenta la mia storia. É la terra dei miei padri, oppure un territorio occupato? Gli israeliani sanno già la risposta”.

La sentenza della Corte Suprema evoca lo spettro dell’evacuazione, forse con più violenza di quanto successo nel 2006, quando furono sgomberate nove abitazioni in un altro avamposto illegale, Amona, verso cui si diressero migliaia di coloni di destra. Qui dopo la demolizione di tre case ci sono state una serie di “ritorsioni” da parte dei coloni, ovvero attacchi vandalici e incendi nelle moschee di villaggi palestinesi (gli abitanti di Migron ribadiscono di essere totalmente estranei a queste cose). Il governo Netanyahu ora propone un “compromesso”, secondo il quale l’avamposto si dovrebbe spostare di circa due chilometri. Ovviamente ancora in territorio occupato, ma su terreni che ufficialmente sono di “proprietà statale. Hagit Ofran, dell’associazione Peace Now, crede che lo spostamento sia solo un modo per guadagnare tempo. E spiega: “I pratica il governo israeliano così ufficializza un nuovo insediamento, e manda un messaggio, se rubi terra ai palestinesi senza autorizzazione, e minacci di usare la violenza, noi ti costruiamo un villaggio a spese del contribuente. É una vergogna”.

Vergogna o no, i coloni non hanno ancora accettato l’offerta, sostenuti dall’ala di destra della coalizione che sostiene Netanyahu, e che chiede invece di legalizzare gli insediamenti: secondo Peace Now così “spingendo i coloni a continuare nella costruzione di insediamenti senza permesso, a creare fatti compiuti”. A pochi chilometri di distanza, nel villaggio di Burqa, Abdel Khader Mohammed Samarin, 72 anni, esponente dei proprietari di terra palestinesi che hanno presentato istanza alla Corte Suprema, osserva la bella valle che divide l’insediamento palestinese da Migron. Samarin ci ha rimesso circa otto ettari, dei 200 complessivi occupati dall’avamposto: “Voglio rivolgermi a Tony Blair in quanto presidente del Quartet, perché obblighi Israele a restituirci quella terra. Faccio appello al mondo intero. Ma non ho molte speranze. Credo che non lo faranno mai”. Almeno su questo punto, è d’accordo anche Harel. “Torni qui quest’estate quando fa più caldo, la porterò a fare un giro a cavallo. A Migron”.

La battaglia per la terra

Gli insediamenti sono fonte di continui scontri fra Israele e i palestinesi, un problema che tocca aspetti politici, religiosi, territoriali. Sono più di mezzo milione i coloni ebrei che – sostenuti da vari governi israeliani – si sono stabiliti fra West Bank e Gerusalemme Est, occupati con la Guerra dei Sei giorni del 1967. Insieme a Gaza, queste zone sono considerate la base del futuro Stato di Palestina, e la comunità internazionale considera illegali gli insediamenti, un ostacolo per la pace. La loro rapida espansione ha portato molti a disperare nelle possibilità della soluzione due popoli due stati. Israele vorrebbe che i più grandi restassero comunque territorio israeliano, idea criticata perché così secondo molti si creerebbero dei “bantustan” palestinesi, spazi isolati di autogoverno, nella West Bank.

I coloni, determinati a sostenere le pretese israeliane sulla West Bank, sono spinti da motivazioni economiche così come religiose. Molti considerano la West Bank parte del diritto storico. Ancora più intricata la questione di Gerusalemme Est, che i palestinesi vorrebbero capitale del futuro stato. Israele rivendica sovranità su Gerusalemme, e sono 250.000 i coloni che vivono nella sua fascia orientale dominata dalle popolazioni di origine araba. Gli avamposti – villaggi abbastanza improvvisati realizzati senza autorizzazione ufficiale israeliana – si sono dimostrati una spina nel fianco per lo stato di Israele. Migron, costruito su terreni di proprietà privata palestinese, è il principale. Secondo la road map approvata con gli auspici dell’amministrazione Bush nel 2003, Israele si impegna a demolire tutto quanto costruito dopo il 2001. Fra cui appunto Migron, ma tutti i tentativi sono stati sinora contrastati dalla destra, coi coloni schierati contro lo stato che vorrebbe smantellare gli insediamenti.

Vi sono due punti nel decreto sulle liberalizzazioni che meritano d'essere sottolineati per il loro notevole significato di principio.

Il primo riguarda l'eliminazione della norma che, vietando ai Comuni di costituire aziende speciali per la gestione del servizio idrico, contrastava visibilmente con il risultato del referendum sull'acqua come bene comune. Abbandonando questa via pericolosa e illegittima, il governo non ha ceduto ad alcuna pressione corporativa ma ha fatto il suo dovere, rispettando la volontà di 27 milioni di cittadini. Certo, la costruzione degli strumenti istituzionali necessari per dare concretezza alla categoria dei beni comuni incontrerà altri ostacoli nel modo in cui lo stesso decreto disciplina nel loro insieme i servizi pubblici. Ma il disconoscimento di una volontà formalmente manifestata con un voto avrebbe gravemente pregiudicato il già precario rapporto tra cittadini e istituzioni, inducendo ancor di più le persone a dubitare dell'utilità di impegnarsi nella politica usando tutti i mezzi costituzionalmente legittimi.

Vale la pena di aggiungere che questa scelta può essere valutata considerando anche l'annuncio del ministro Passera relativo all'assegnazione delle frequenze, da lui definite nella conferenza stampa come “beni pubblici” di cui, dunque, non si può disporre nell'interesse esclusivo di ben individuati interessi privati. Senza voler sopravvalutare segnali ancora deboli, si può dire che il ricco, variegato e combattivo movimento per i beni comuni non solo ha riportato una piccola, importante vittoria, ma ha trovato una legittimazione ulteriore per proseguire nella sua azione.

Questa associazione tra acqua e frequenze non è arbitraria, poiché la ritroviamo nelle proposte della Commissione ministeriale sulla riforma dei beni pubblici. Si dovrebbe sperare che i partiti non continuino soltanto a fare da spettatori alle gesta del governo, ma comincino a rendersi conto delle loro specifiche responsabilità. Tra queste, oggi, vi è proprio quella che riguarda una nuova disciplina dei beni, per la quale già sono state presentate proposte in Parlamento, e che è indispensabile perché le categorie dei beni corrispondano a una realtà economica e sociale lontanissima da quella che, sessant'anni fa, costituiva il riferimento del codice civile. Se questa riforma fosse stata già realizzata, non sarebbe stata possibile la vergogna del “beauty contest” sulle frequenze. E ci risparmieremmo molte delle approssimazioni su una via italiana al risanamento che contempli massicce dismissioni di beni pubblici, quasi che la loro vocazione sia solo quella di far cassa e non la realizzazione di specifiche finalità che le istituzioni pubbliche non possono abbandonare.

Tutt'altra aria si respira quando si considera l'articolo 1 del decreto. Qui non si trova uno dei soliti inutili e fumosi prologhi in cielo che caratterizzano molte leggi. Si fanno, invece, tre inquietanti operazioni: si prevede l'abrogazione di una serie indeterminata di norme, affidandosi a indicazioni assai generiche, che attribuiscono al governo una ampiezza di poteri tale da poter sconfinare quasi nell'arbitrio; si impongono criteri interpretativi altrettanto indeterminati e arbitrari; soprattutto si reinterpreta l'articolo 41 della Costituzione in modo da negare gli equilibri costituzionali lì nitidamente definiti. L'obiettivo dichiarato è quello di liberalizzare le attività economiche e ridurre gli oneri amministrativi sulle imprese. Ma la via imboccata è quella di una strisciante revisione costituzionale, secondo una logica assai vicina a quella di tremontiana memoria, poi affidata a uno sciagurato disegno di legge costituzionale sulla modifica dell'articolo 41, ora fortunatamente fermo in Parlamento.

Indico sinteticamente le ragioni del mio giudizio critico. Le norme da abrogare vengono individuate parlando di limiti all'attività economica “non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità”; e di divieti che, tra l'altro, “pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate”. Tutte le altre norme devono essere “interpretate e applicate in senso tassativo, restrittivo e ragionevolmente proporzionato rispetto alle perseguite finalità di interesse pubblico generale”.

Non v'è bisogno d'essere giurista per rendersi conto di quanti siano i problemi legati a questo modo di scrivere le norme. Non è ammissibile che l'”interesse pubblico generale” sia identificato con il solo principio di concorrenza, in palese contrasto con quanto è scritto nell'articolo 41.

Il sovrapporsi di diversi soggetti nella definizione complessiva delle nuove regole può creare situazioni di incertezza e di conflitto. Il bisogno di semplificazione e di cancellazione di inutili appesantimenti burocratici non può giustificare il riduzionismo economico, che rischia di sacrificare diritti fondamentali considerati dalla Costituzione irriducibili alla logica di mercato. Si pretende di imporre i criteri da seguire nell'interpretazione di tutte le norme in materia: ma le leggi si interpretano per quello che sono, per il modo in cui si collocano in un complessivo sistema giuridico, che non può essere destabilizzato da mosse autoritarie, dall'inammissibile pretesa di un governo di obbligare gli interpreti a conformarsi alle sue valutazioni o preferenze. In anni recenti, si è dovuta respingere più d'una volta questa pretesa, che altera gli equilibri tra i poteri dello Stato.

L'operazione, di chiara impronta ideologica, è dunque tecnicamente mal costruita dal governo dei tecnici. Ma, soprattutto, deve essere rifiutata perché vuole imporre una modifica dell'articolo 41 della Costituzione, attribuendo valore assolutamente preminente all'iniziativa economica privata e degradando a meri criteri interpretativi i riferimenti costituzionali alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

Questo capovolgimento della scala dei valori è inammissibile. Un mutamento così radicale non è nella disponibilità del legislatore ordinario, e dubito che possa essere oggetto della stessa revisione costituzionale. Quando sono implicate libertà e dignità, siamo di fronte a quei “principi supremi” dell'ordinamento che, fin dal 1988, la Corte costituzionale ha detto che non possono “essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale”. Certo, invocando una qualsiasi emergenza, questo può concretamente avvenire. Allora, però, si è di fronte ad un mutamento di regime. Se ancora sopravvive un po' di spirito costituzionale, su questo inizio del decreto, e non nella difesa di questa o quella corporazione, dovrebbe esercitarsi il potere emendativo del Parlamento.

RICCHI sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. In Italia l'ascensore sociale si è rotto, le categorie di reddito sono sempre più chiuse e il divario fra classi - invece di diminuire - aumenta. La tendenza accomuna quasi tutte le economie sviluppate, ma da noi la distanza è superiore rispetto alla media dei Paesi Ocse. Uomini e donne non salgono più i gradini della scala sociale e restano aggrappati alla ringhiera anche al momento delle nozze: il matrimonio tende a «polarizzare» i redditi. Il medico sposa quasi sempre il medico, l'avvocato dice «sì» solo all'avvocatessa, l'operaio all'operaia.

Ricchi con ricchi, poveri con poveri: una dura legge che nemmeno la favola bella di Cenerentola riesce a contrastare. Oggi i principi azzurri e le ricche ereditiere non rappresentano più la soluzione del problema: ce lo dice l'Ocse nel suo rapporto« Divided we stand», una spietata analisi sulla crescita delle ineguaglianze sociali presentata ieri all'Istat.

UNO A DIECI Le cifre indicate dallo studio dettano una tendenza netta: nel 2008, anno degli ultimi dati disponibili (e periodo comunque antecedente alla fase più pesante della crisi), il reddito medio del 10 per cento di popolazione più ricco del Paese era di oltre dieci volte superiore a quello del 10 per cento più povero (49.300 euro contro 4.887). A metà degli anni Ottanta il rapporto era di 8 a 1: il gap sta quindi peggiorando. Non è un fenomeno solo italiano, sia chiaro: il divario fra più e meno abbienti, sottolinea l'Ocse, sta aumentano in quasi tutti i paesi europei. Francia a parte dove - come in Giappone - il quadro è rimasto più o meno stabile, il differenziale è salito anche nella ricca Germania e nell'evoluta penisola Scandinava (passando dall'1 a 5 degli anni Ottanta all'attuale 1 a 6). Imbarazzante l'1 a 17 degli Stati Uniti, drammatico - pur se in netto miglioramento - il dato del Brasile dove i più ricchi hanno redditi cinquanta volte superiori a quelli dei più poveri.

I MEGLIO E I PEGGIO PAGATI Più sei pagato, più lavori, più ti arricchisci: a guardare le tabelle dello studio Ocse par di capire che le occupazioni di basso livello difficilmente evolvono e permettono il riscatto. Secondo gli studi dell'Ocse in Italia (ma la tendenza è confermata anche negli altri paesi) quantità e qualità del lavoro vanno di pari passo. Dalla metà degli anni Ottanta ad oggi il numero annuale di ore di lavoro effettuate dai dipendenti meno pagati è passato dalla 1580 alle 1440 ore. Anche fra i lavoratori meglio pagati la quantità è diminuita, ma in minor misura, passando dalle 2170 alle 2080 ore. Faticare, quindi, non basta. Ed essere lavoratore dipendente non aiuta: a differenza di molti paesi Ocse in Italia la diseguaglianza sociale va di pari passo con l'aumento dei redditi dei lavoratori autonomi.

La loro quota sul totale della ricchezza è aumenta, negli ultimi trenta anni, del 10 per cento.

CENERENTOLA E ALTRI RIMEDI Cos'è che fa aumentare la diseguaglianza? Il livello minimo di istruzione, certo, la bassa percentuale di lavoro femminile, lo storico divario fra Nord e Sud.

Ma non basta. Il gap di casa nostra è causato anche dalla tendenza degli italiani a celebrare unioni fra caste: i principi azzurri non vanno più in cerca della loro Cenerentola e questa mancanza di fantasia ha contribuito per un terzo dell'aumento delle diseguaglianze di reddito. Cosa fare per invertire la tendenza? L'estensione dei servizi pubblici non basta più: istruzione, sanità e welfare riducono il gap, ma in modo meno incisivo rispetto al passato (di un quarto nel 2000, di un quinto oggi). La svolta, suggerisce l'Ocse, per l'Italia passa attraverso una riforma del fisco e della previdenza, il potenziamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche di sostegno al reddito.

Ci viene spesso dalle esperienze di mare, perché il mare ha baratri imprevisti e quindi ferree leggi, la sapienza del comando. Quest'arte ruvida, che in democrazia è sempre guardata con un po' di diffidenza, quasi fosse arte legale ma non del tutto legittima. C'è diffidenza perché l'immaginario democratico è colmo di miraggi: là dove governa il popolo ognuno è idealmente padrone di sé, e fantastica di poter fare a meno del comando. Nella migliore delle ipotesi parliamo di responsabilità, che del comando è la logica conseguenza, in qualche modo l'ornamento. Ma la responsabilità è obbligo di ciascuno, governanti e governati. Il comando ha un ingrediente in più, un occhio in più: indispensabile. Ancora una volta dal mare, dunque, ci giunge in questi giorni un esempio di cosa sia questo mestiere che impaura ed è al contempo profondamente anelato: il mestiere di guidare gli uomini nelle situazioni-limite, quando tutto, salvezza o disastro, dipende da chi è al comando, sempre che qualcuno ci sia. L'esempio lo conosciamo ormai: ce l'ha dato Gregorio De Falco, capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno. Nella notte del 13 gennaio fu lui a intimare, al comandante Schettino, di tornare subito a bordo anziché cincischiare frasi sull'inaudita trasgressione appena commessa: l'abbandono del posto di comando sulla nave, prima del salvataggio di passeggeri e equipaggio. Un peccato imperdonabile in mare.

Difficile dimenticare il tono di quell'ingiunzione a rispettare le regole: incaponito, incorruttibile. Una voce analoga s'era udita a Capodanno, inattesa, quando le Guardie di finanza diedero la caccia agli evasori fiscali di Cortina, ricordando che la legge non solo esiste ma può essere applicata, per castigare chi vitupera lo Stato esattore e al tempo stesso ne profitta - le parole sono di Mario Monti - «mettendo le mani nelle tasche degli italiani onesti, che pagano le tasse». È come se da tempi immemorabili non avessimo ascoltato voci simili. Come se la chiamata che intima, stronca imperiosamente egoismi, tergiversazioni, fosse la cosa che più ci manca.

Manca d'altronde non solo da noi ma anche fuori, in Europa, dove un marasma senza precedenti incancrenisce perché è assente, ai vertici dell'Unione, l'occhio in più che dia l'ordine di trasformare il coordinamento dei singoli soccorsi in salvataggio di tutti.

Ma in Italia la questione è incandescente, perché sono in tanti a reagire alla nuova severità dello Stato con la fuga o lo scompiglio. Non che sia mancata, per anni, la voce dei padroni. Ma non era intimazione, la loro: era intimidazione, al tempo stesso strillata e sterile. Abbiamo udito l'urlo di chi s'indigna e l'urlo di chi dall'alto dei propri scranni insulta, lancia ukase, grida menzogne per difendere gli interessi propri o dei propri clan. Per oltre un decennio abbiamo vissuto in mezzo a indistinte cacofonie: e vediamo in questi giorni, con le rivolte antistataliste che straripano, la potenza accumulata dalla cultura dell'urlo. L'intimazione stentorea di autorità emblematiche come il comandante di Livorno o le Guardie di finanza è di natura differente, ci sorprende come ladro di notte, come bisturi che ricuce ma resta pur sempre lama che offende. Abbiamo visto in de Falco un eroe ma non è un eroe.

Il suo modo d'essere dovrebbe essere la normalità: è contro un muro di norme indiscusse che dovrebbero sbattere i battelli ebbri senza comando né legge che metaforicamente ci rappresentano. Che impazzano addosso alle coste per fare inchini a amici complici in irresponsabilità, e impunemente s'avvolgono nella propria incuria come in un manto.

Chi ha letto Joseph Conrad sa le grandezze e i segreti fardelli del comando. Quasi tutti i suoi romanzi ruotano attorno a questa vocazione, che mette alla prova e decide chi sei, se vali oppure no. Anche qui, niente di eroico. Ecco il protagonista di Tifone: «Il capitano MacWhirr, del piroscafo Nan-Shan, aveva, per quanto concerne l'aspetto esteriore, una fisionomia che rispecchiava fedelmente l'animo suo: non presentava alcuna distinta caratteristica di fermezza o di stupidità; non aveva caratteristiche pronunciate d'alcun tipo; era soltanto comune, insensibilee imperturbabile». Il comando non è solo imperio della legge, rule of law. C'è un elemento aggiuntivo, che nasce dal carisma (la gravitas degli antichi latini) che il comandante possiede o non possiede. In democrazia è dura arte anche per questo, perché la gravitas ha qualcosa di aristocratico, di insensibile: la schiviamo, se possibile. Invece ce n'è bisogno, perché sempre possiamo incrociare una crisi, un'emergenza, ed è qui che servono le forze congiunte del comando, dell'imperio della legge e del carisma. Torniamo ancora a Conrad, quando narra la nostra Linea d'ombra: d'un colpo scorgiamo innanzi a noi «una linea d'ombra che ci avverte che la regione della prima giovinezza, anch'essa, la dobbiamo lasciare addietro». Il protagonista del racconto affronta a quel punto la massima prova esistenziale: l'esercizio del comando. Alcuni soccombono: è il caso di Lord Jim, che tutta la vita pagherà il prezzo - in dolore, rimpianto, vita d'angoscia - del peccato originale commesso quando abbandonò la nave. La linea d'ombra, in Italia, è come se non la scorgessimo mai. C'è qualcosa di ostinatamente minorenne, nel nostro rapporto con l'autorità, la legge, lo Stato.

Stentiamo a capire una cosa, dell'ordine dato in nome del bene pubblico: il comando è quello che ci protegge dall'esplosione dell'urlo scomposto, dal caos propizio allo Stato d'eccezione. Fu con l'urlo che Hitler s'affacciò al mondo: la democrazia di Weimar non era stata capace di comando. Kurt Tucholsky, scrittore veggente, descrisse fin dal '31 quel che nel futuro dittatore più spaventava: «Non l'uomo in sé, che non esiste. Ma il rumore, che egli scatena».

Stentiamo a capire soprattutto in Italia, perché siamo da poco una nazione e ogni comune, ogni corporazione, usa urlare più che dirigere. Fellini descrisse questa cacofonia anarcoide - era il '79, dilagava il terrorismo - nell'apologo Prova d'Orchestra. Il tema cruciale era il comando: in che condizioni è esercitato, come degenera in urlo, e perché degenera.

L'Italia benpensante accolse il film con enorme diffidenza, sospettò nell'autore buie propensioni fascistoidi. Fellini le aveva messo davanti uno specchio, perché contemplasse i suoi vizi, e gli italiani voltarono la faccia sdegnati. Il film non perse mai da noi un odore di zolfo che altrove non ebbe. «Tutto è prova d'orchestra», disse il regista. E sulla pellicola capimmo perché la prova falliva: ogni violinista, flautista, clarinettista, pensava agli affari suoi, alcuni addirittura erano armati e ciascuno aveva a fianco un sindacalista tutore.

Qualcosa di simile accade a Monti, assalito da proteste quando si sforza di ammansire l'ego di corporazioni, lobby, clan semimafiosi (le grandi mafie suppongo siano in attesa: non ancora toccate, fanno quadrato attorno ai propri referenti, ne cercano di nuovi, sfruttano alla meglio i malcontenti di chi si sente ferito dal bisturi). Nonostante questo clima di sbandamento il Premier resta popolare, nell'Italia smarrita e infine conscia della crisi. Lo aiutano le virtù del comando: la gravitas, il rispetto meticoloso delle istituzioni, l'autorevolezza che accresce l'autorità dandole sostanza. Lo aiuta la vocazione a tenere i conti, e a chieder conto.

Non dimentichiamo la fine del film di Fellini: il direttore d'orchestra che non ha saputo comandare esplode in urla scomposte, mescolando vocaboli italianie parole d'ordine naziste. «Estrema pazienza e estrema cura», questo il comando secondo Conrad: oltrepassata la linea d'ombra, sempre possiamo mancare la prova, sottrarci al dovere di portare la nave sana e salva in porto. Ecco perché la via di Monti è così stretta.

All’origine del sisma c’è l’indebolimento della democrazia Lo scacco del modello liberista getta luce sulle radici materiali della crisi
dei sistemi rappresentativi. Non se ne esce rivolgendosi ai buoni sentimenti

È vero: nel dibattito politico italiano c’è un elemento di grave provincialismo. Non so se questo dipenda, come pensa Donald Sassoon, dalla fine del Pci che si muoveva in un orizzonte internazionale e abituava i suoi militanti a guardare a ciò che accadeva nel mondo. Non c’è però dubbio che ciò pesi profondamente sia nell’analisi della situazione attuale che nella individuazione di nuove prospettive strategiche.

Basta pensare al modo con cui è stato, in generale, interpretato il fenomeno berlusconiano: come un fatto tipicamente italiano, caratteristico del «populismo» nostrano o, addirittura, come una rinascita, in forme diverse, del fascismo. Mentre è stato la forma specifica assunta in Italia dalla egemonia, a livello europeo, della destre, e si è inserito in un generale processo di crisi e di degenerazione delle forme democratiche.

In questi giorni si è osservato che in Italia, «per governare non è più necessario essere “rappresentanti del popolo”, cioè passati attraverso il filtro del voto». È una tesi discutibile; ma se così fosse, sarebbe, precisamente, l’effetto diretto della crisi della democrazia che si è avuta in Italia negli ultimi due decenni. Non lo sottolineo della generica «crisi della politica» di cui oggi tanto si parla, a proposito e a sproposito; così come, in termini altrettanto generici, e spesso retorici, si parla della necessità di una sua «rigenerazione». Quasi si trattasse di una questione di buona volontà o di un impulso di carattere morale; e non invece di un problema strettamente materiale, che su questo piano deve essere affrontato.

La «crisi» del capitalismo liberista (o finanziario) di cui si parla finalmente in modo aperto getta luce sulle radici materiali della crisi attuale della democrazia e della politica democratica (e sulle stesse ragioni dell’avvento e della fine del berlusconismo), spingendo a guardare oltre i confini nazionali e ad afferrare l’“intero” in cui va situata la vicenda italiana, senza illudersi che essa possa essere risolta adeguandosi al «rigore» di Bruxelles o limitandosi ad avviare una politica certo importante di liberalizzazioni.

Oggi ed è questo il punto centrale c’è un indebolimento generale delle democrazie, una perdita di credibilità delle istituzioni democratiche che viene da molto lontano e che si manifesta anche nella tendenza sempre più diffusa a risolvere direttamente, cioè senza intermediazioni politiche o parlamentari, problemi sia personali che collettivi.

Ma questa crisi ha matrici materiali assai precise e concrete: nei Paesi dell’Ocse per citare un solo, e drammatico, esempio fatto da Sapelli ci sono 250 milioni di disoccupati, e di questi una buona parte sono destinati a restare disoccupati per sempre. Né si intravede, a livello europeo, una presa d’atto di questa situazione; mentre le società diventano, giorno per giorno, più disuguali, più divise, più lacerate e le democrazie perdono sempre più credito, come avviene quando gli individui, volenti o nolenti, sono sospinti nella difesa del cerchio ristretto del proprio interesse particolare.

In una crisi di questo tipo non serve rivolgersi ai buoni sentimenti o indossare i panni di Menenio Agrippa, appellandosi ai valori dell’«ordine sociale». La democrazia vive e si sviluppa se ha solide basi materiali; altrimenti entra in crisi, decade, può morire. Si è sviluppata e diffusa dal 1945 agli anni 70 del secolo corso perché era basata su un organico e conflittuale compromesso tra capitale e lavoro. Oggi è come sospesa per aria, senza fondamento materiale.

Se oggi il problema centrale è quello di «rimotivare» la democrazia, la prima cosa da fare è perciò lavorare per darle nuove basi materiali, ridefinendo i termini di un nuovo «compromesso». E per far ciò le forze riformatrici devono far sentire senza timore la loro voce scegliendo se necessario anche il terreno del conflitto. Fino a poco tempo fa era di moda dire che Marx era morto e sepolto; ora se ne ricomincia a fare il nome.

Certo, i rapporti fra capitale e lavoro oggi si pongono in forme del tutto inedite rispetto al XX secolo; ma come si vede anche dalla crisi attuale, il nesso fra democrazia e lavoro è centrale, strutturale: simul stabunt, simul cadent. È da qui che bisogna perciò ripartire ma ed è un punto altrettanto importante oltrepassando gli orizzonti tradizionali del movimento operaio e costruendo legami materiali, culturali, etici, politici di tipo nuovo che consentano all’Europa di imboccare strade originali, svolgendo il compito che le spetta nel millennio che si è aperto.

Che Berlusco Magnus abbia condotto l´Italia a due dita dalla fossa, lo dicono i numeri. Sembrava onnipotente e in tre anni dilapida il capitale: due mesi fa era un relitto, politicamente parlando, scaricato persino dall´apologetica pseudoequidistante; non capitolerà mai, ripete fino all´ultimo; e come Dio vuole, toglie l´ormai insostenibile disturbo, dimissionario coatto.

Qui lo scenario muta. Nell´anomala maggioranza a due anime su cui campa il gabinetto professorale chiamato a salvare l´Italia dal default, sta meglio che a Palazzo Chigi: ha un potere d´interdizione; i peones temevano lo scioglimento delle Camere; rassicurati, fanno quadrato. Gli resta uno zoccolo duro elettorale sotto ipnosi televisiva, e sa dove cercare sostegni (ad esempio, dalla gerarchia ecclesiastica, pagandoli in favori inauditi sulla pelle dello Stato).

Passiamo alle congetture prognostiche. Il solo punto sicuro è che, rebus sic stantibus, non revochi la fiducia ai professori: istigato dai leghisti in furioso rigurgito tribale («stacchi la spina», cos´aspetta?), ogni tanto ventila propositi minacciosi, da non prendere sul serio; staccandola morrebbe col paziente; e resta da vedere se riesca a staccarla; in una congiuntura simile è prevedibile che dei gregari passino al campo governativo salvando indennità, rimborsi, pensione. Molto dipende dalle lune economiche. Qualora l´Italia esca stremata ma viva, grazie alla terapia eroica, ha partita elettorale scomoda chi vendeva illusioni: sfumata la sbornia, lo vedono dal vero, un pifferaio; istupidendo poveri diavoli s´arricchiva a dismisura, con largo beneficio degli adepti malaffaristi.

Nella seconda ipotesi la primavera 2013 trova l´economia europea in sesto e l´effetto traumatico pesa meno: dirà (il verbo puntuale è «sbraitare») d´avere visto giusto, mentre dei terroristi seminavano paure gratuite in odio al governo amato dal popolo; era un complotto; stampa eversiva, giustizia deviata, tenebrosi poteri forti, ecc.; e riprende fiato il partito della vita facile (lassismo fiscale, al diavolo la concorrenza, favori venali, mercati neri, logge, trionfi omertosi).

Terza, sciaguratissima eventualità, quam Deus avertat, che, fallite le terapie, l´Italia affoghi: Stato insolvente significa tensioni crude; saltano i circuiti legali; nello status naturae immaginato da Thomas Hobbes «homo homini lupus» ma il Caimano Leviathan s´impone ai lupi. È la sua ora: il denaro gli scorre nelle mani; ha castelli, ville, lanterne magiche, trombe; schiera cappellani, maghi, sgherri; assolda compagnie di ventura.

Fantasie apocalittiche? Non direi. S´era fondato l´impero mediante frode, corruzione, plagio: è organicamente incapace d´autocontrollo; gli mancano categorie elementari, dalla morale al gusto. Confermano tale natura nove anni d´un malgoverno funesto: crede che tutto gli sia lecito; pretende poteri assoluti; lo stesso delirio sfoga sul palco internazionale. Supponiamo che l´Italia sia benestante e sull´onda del trionfalismo populistico Sua Maestà riconfiguri lo Stato a modo suo. Quante volte l´ha detto, lamentando d´avere le mani legate, lui, «uomo del fare». Ecco quadri verosimili: abita al Quirinale, penalmente immune, quindi niente da obiettare alle soirées; da Monte Cavallo governa pro domo sua mediante docili ministri; presiede un Consiglio superiore della magistratura addomesticato; il pubblico ministero cambia nome, avvocato dell´accusa, e piglia ordini dall´esecutivo; fioriscono P5, P6 e via seguitando nella schiuma d´affari loschi.

L´unico inconveniente è che, non essendo inesauribili le mammelle collettive, succhiate da boiardi, corruttori, corrotti e varia malavita, prima o poi sopravvenga la bancarotta. Che l´antietica berlusconiana portasse lì, era ovvio: nessun organismo sociale resiste al salasso sistematico; lo sviluppo economico richiede tensioni morali incompatibili con oppio televisivo, saturnali permanenti, furbizie gaglioffe. I caimani non leggono, quindi Re Lanterna non sa chi sia Max Weber, né cos´abbia scritto sull´etica calvinista nella cultura del capitalismo (ma un panegirista, forse burlone, gli attribuiva letture latine, niente meno che Erasmo).

Le prognosi non allargano i cuori. Il berlusconismo sopravvive, non foss´altro come potente lobby, dalle televisioni alla banca, con tante possibili cabale tattiche (fa testo l´infausta Bicamerale), né sono uomini della penitenza i dignitari d´Arcore. E i cantori sedicenti neutrali? Lo proclamavano condottiero neoliberale, salvo ammettere tra i denti che tale non sia un nemico del mercato: servizi simili segnano le persone, chi li ha resi probabilmente continua. Dopo 18 anni d´egemonia brutale o strisciante, quando non stava al governo, è trucco d´esorcista rimuoverlo dalla storia come non vi fosse mai entrato (così Benedetto Croce liquidava vent´anni fascisti, un brutto sogno). Rincresce dirlo ma i fatti parlano: aveva radici etniche e lascia impronte; dettava modelli accettati ex adverso; chiudendo gli occhi sulla colossale anomalia, professionisti della politica lo considerano ancora interlocutore valido. Iscriviamola nei caratteri meno lodevoli dell´anima italiana, una socievole indifferenza morale: è caduto sotto il peso d´errori suoi, sconfitto dai mercati; non che gli oppositori l´abbiano combattuto e vinto in termini d´idee e scelte etiche.

In proposito, dovendo indicare una lettura istruttiva, nominerei Kafka, Il processo, secondo capitolo. Una domenica mattina Josef K., misteriosamente imputato, va in tribunale. Scenario onirico: il pubblico in galleria sta curvo toccando il soffitto con testa e spalle; qualcuno le appoggia al cuscino che s´è portato; aria greve, fumo, polvere, rumori confusi; la platea appare divisa tra due partiti. Nell´arringa K. sentiva in empatia metà del pubblico. Lo interrompono degli strilli. Parlava stando su una predella. Sceso nella calca, vede i distintivi sotto le barbe: erano finti partiti; non fanno caldo né freddo le furenti invettive con cui li apostrofa. Gl´italiani hanno gravi doléances verso una classe politica connivente o inerte davanti al predone, fin dagli anni della resistibile ascesa.

ACQUA CASSATA

La volontà popolare è salva Per ora

di Alberto Lucarelli

Appena il manifesto mercoledi scorso mi ha avvertito della norma truffa contenuta nel decreto Monti bis sulle liberalizzazioni, che all'art. 20 vietava alle aziende speciali di gestire i servizi di interesse economico generale, non ho esitato a confermare il mio giudizio in merito ad un progetto eversivo, incostituzionale: una barbarie giuridica.

Ancora una volta l'immediata reattività del manifesto e del Forum dei movimenti per l'acqua consentiva di tutelare ed affermare principi elementari di convivenza e di civiltà giuridica: l'art. 20 veniva stralciato. Una vittoria dunque, la cittadinanza attiva ha resistito.

Il decreto approvato nel suo complesso è devastante e qualcuno potrebbe dire che la nostra è stata una vittoria di Pirro. Non è così! Certo, esso inasprisce quanto introdotto dalla manovra di ferragosto, ovvero il progetto di privatizzazione forzata dei servizi pubblici locali, disattendendo l'esito referendario. Tuttavia l'aver bloccato quella norma ha un forte significato. La democrazia partecipativa ha impedito alla democrazia tecnocratica di commissariare definitivamente la democrazia locale, negando ai comuni di scegliere i propri modelli organizzativi, ma soprattutto ha impedito che fosse decretato il de profundis dei soggetti di diritto pubblico, quali appunto l'azienda speciale, ente pubblico superstite nell'ordinamento giuridico italiano.

Il governo stralciando l'art. 20 dal decreto ha avuto paura di approvare un "papocchio" e soprattutto paura di 27 milioni di cittadini pronti questa volta a trasformare i voti in "spade". Ci proveranno ancora? Gli intrecci affaristici sono belli e pronti e attendono soltanto il «la» per depredare e saccheggiare i beni comuni. Per questo motivo i movimenti dovranno essere sempre più compatti e l'obiettivo finale dovrà essere il governo pubblico democratico e partecipato di tutto il ciclo integrato delle acque: dalle sorgenti, alla captazione, agli oneri di concessione, agli ambiti territoriali, alla difesa del suolo e dei bacini idrografici, alle tariffe, ai modi di gestione e finanziamento, alla trasparenza nelle gare di appalto, alla dimensione sociale.

L'azienda speciale Abc Napoli, voluta fortemente da de Magistris, e ancora avversata, nella sua prima realizzazione, da poteri oscuri e trasversali, si è, per il momento, salvata, ma forse abbiamo contribuito anche a salvare un "pezzettino" della democrazia locale, che, fino a quando i comuni non decideranno di reagire con forza alla dittatura del patto di stabilità, rischia, giorno dopo giorno, di divenire un simulacro. Ma di questo e altro se ne parlerà il 28 gennaio a Napoli nel primo Forum della rete dei comuni per i beni comuni, con l'obiettivo di smettere di scrutare il pagliaio e con la consapevolezza che è arrivata l'ora di trovare l'ago. Alcuni comuni l'ago lo stanno trovando e la novità è che lo stanno trovando trasformando in azione politico-amministrativa quanto emerso e dettato dal basso, dalle pratiche sociali: dal conflitto e dalla proposta. All'orizzonte, ma neanche tanto, nuovi modelli di democrazia e nuove soggettività con l'ambizione di esprimere alternative al dominio di una sovranità autoritaria da disincagliare dagli istituti della rappresentanza, della delega e dalle logiche proprietarie egoistiche ed escludenti.

GRANDI OPERE

Ponte sullo Stretto, lo stop definitivo

(red.)

È sicuramente una buona notizia lo stop del Cipe al Ponte sulla Stretto di Messina. E infatti esultano comitati e associazioni ambientaliste che hanno combattuto battaglie pluriennali contro la grande opera. Il Cipe, che ha sbloccato venerdì interventi infrastrutturali per 6,2 miliardi, ha bloccato il Ponte e finanziato invece piani di opere medio-piccole immediatamente cantierabili per l'ammodernamento delle scuole (556 milioni), la difesa del suolo (750 milioni), la manutenzione della rete ferroviaria (840 milioni all'interno del Contratto Rfi). Secondo il Sole24ore, che ieri ha riportato la notizia, «c'è un doppio cambio di filosofia rispetto ai tre anni gestiti dal ministro Tremonti. Si favoriscono da una parte interventi diffusi sul territorio piuttosto che mega opere dai tempi lunghi; e dall'altra si definiscono piani dettagliati e già concordati con il territorio allo scopo di far partire prima possibile le ruspe». Ora andrebbe sciolta la società che avrebbe dovuto gestire il Ponte.

La trivella non si ferma nelle aree protette

di Andrea Palladino

Giallo sulle perforazioni. L'articolo 17 del decreto «Cresci Italia» consente le ricerche petrolifere nelle «nuove aree protette». I Verdi attaccano, Clini smentisce

È un corpo fluido il decreto Monti, una sorta di ectoplasma che si aggira tra i corridoi dei palazzi romani, pronto a cambiare colore, odore, consistenza. Impossibile avere un testo certo, che possa fugare i tanti dubbi sulle scelte dell'esecutivo. Ed è un vero giallo la questione della trivella libera, ovvero della norma contenuta nell'articolo 17 dell'unico documento arrivato informalmente nelle redazioni dopo le otto ore di discussione a Palazzo Chigi. Non è roba da poco: se quel testo fosse confermato le parole del ministro dell'ambiente Corrado Clini - che assicurava tutti sul rispetto delle aree protette - sarebbero clamorosamente smentite, aprendo le porte alle piattaforme offshore nelle zone più pregiate del nostro mare.

A lanciare l'allarme ieri mattina, quando tutti i giornali riportavano quell'unico testo conosciuto, è stato il presidente dei Verdi Angelo Bonelli: «Sulle trivellazioni petrolifere avevamo ragione noi: confermiamo quello che abbiamo denunciato ieri e le smentite che sono arrivate suonano come delle prese in giro». Venerdì sera, subito dopo la chiusura del consiglio dei ministri, Corrado Clini aveva assicurato che «il decreto liberalizzazioni non contiene alcuna norma relativa alle trivellazioni in mare». Una smentita che però non toglie il legittimo dubbio. Il ministero dell'ambiente, contattato ieri da il manifesto, non ha voluto divulgare il testo definitivo approvato dal consiglio dei ministri, limitandosi a ribadire le dichiarazioni di Clini: «Mandarvi il testo di sabato pomeriggio? Impossibile. Lo renderà noto Palazzo Chigi», hanno spiegato i collaboratori di Corrado Clini. C'è di più: il documento pubblicato sui siti dei principali giornali italiani - che porta la data del 21 gennaio, ore 9.37 - non è stato mai smentito da Palazzo Chigi o dal ministro Passera, autore di gran parte del decreto. E su quel documento l'articolo 17 è presente.

Il testo, se confermato, renderebbe di fatto possibile aggirare il divieto di estrarre il petrolio nelle aree protette, compresi i santuari marittimi. Fino ad oggi il testo unico sull'ambiente del 2006 vietava la trivellazione «all'interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale». L'articolo 17 del decreto Monti - o almeno del testo divulgato venerdì pomeriggio - cambia sostanzialmente questo passaggio. Primo punto: «Nel caso di istituzione di nuova area protetta restano efficaci i titoli abilitativi già rilasciati». Le zone marine in attesa di completamento dell'istruttoria - in carico al dicastero di Corrado Clini - per essere dichiarate protette sono ben dodici: Costa del Piceno, l'isola di Gallinara, l'arcipelago toscano, la costa del Monte Conero, capo Testa, il Golfo di Orosei, capo Monte Santu, le Isole Eolie, l'isola di Pantelleria, la Penisola salentina, Pantani di Vindicari in Sicilia, l'arcipelago della Maddalena. Zone che in molti casi - come nel canale di Sicilia e nella zona della Penisola salentina - coincidono con aree di possibili estrazioni di petrolio attraverso le piattaforme offshore.

Secondo i dati pubblicati dal ministero dello sviluppo economico - il dicastero che rilascia le concessioni petrolifere - ad oggi sono state autorizzate 25 attività di ricerca di idrocarburi in mare e 91 in terra ferma. Altre 45 richieste per attività al largo delle nostre coste sono in attesa di essere analizzate. In molti casi le aree interessate coincidono o sfiorano quelle zone che dovrebbero un giorno essere dichiarate protette. È il caso, ad esempio, della vasta area richiesta dalla società inglese Spectrum, che attraversa buona parte del mare Adriatico, dal Golfo di Manfredonia fino alla punta del Salento, zona candidata a divenire protetta. In questa stessa zona del mare della Puglia potrebbero iniziare a breve le prospezioni della Northern Petroleum, altra società del Regno Unito, specializzata in ricerche petrolifere. Questa stessa società ha chiesto al governo italiano la concessione per altre aree nel canale di Sicilia, comprese tra il mare di Agrigento e l'isola di Pantelleria, zona inclusa nell'elenco delle aree protette ancora da approvare.

Con la nuova norma, qualora fosse confermata, le ricerche petrolifere in queste aree del Mediterraneo meridionale potrebbero continuare anche dopo il decreto di delimitazione delle zone protette. Mentre il Costa Concordia rischia di uccidere il mare dell'isola del Giglio, spargendo più di 2000 litri di gasolio, e in attesa che qualcuno inizi a cercare i 200 fusti di solventi sparsi nel santuario dei Cetacei nell'arcipelago toscano, il ministro Passera ha tentato di trasformare il Tirreno e l'Adriatico in un novello golfo del Messico. Corrado Clini assicura che alla fine il buon senso è prevalso e che quell'articolo ammazza mare non è passato. Di fronte ad un testo fantasma il dubbio resta, fino alla firma di Napolitano.

10 mila No-Triv in piazza contro i pozzi nell'Adriatico

(red.)

Circa 10 mila persone (8 mila per la Questura) hanno manifestato ieri a Monopoli, in provincia di Bari, contro le prospezioni geosismiche alla ricerca di petrolio nel Mare Adriatico. Al corteo, indetto dal Comitato No petrolio, Sì energie rinnovabili, hanno partecipato anche il presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, il presidente del Consiglio regionale Onofrio Introna e diversi sindaci, compreso il primo cittadino di Monopoli Emilio Romani, che ha chiesto una moratoria delle trivellazioni. Per Stefano Ciafani e Francesco Tarantino, presidente nazionale e vicepresidente regionale pugliese di Legambiente, «se estraessimo gli 11 milioni di tonnellate di riserve petrolifere stimate nei fondali marini del nostro Paese, li esauriremmo in soli 55 giorni. Perciò basta con le menzogne: le trivellazioni non servono a ridurre i costi delle bollette». Per il senatore del Pd Salvatore Tomaselli, anche lui in piazza, il messaggio della manifestazione è che «nessuna scelta che porti con sè rischi gravi per l'ambiente può essere più imposta alle comunità locali, come spesso è avvenuto in passato».

I POZZI DELL'ENI NEL MARE DI CROTONE

Quelle trivelle a Capo Colonna, lo scempio nella Magna Grecia

di Filippo Sestito

La norma presente all'interno della bozza del decreto sulle liberalizzazioni prevede la possibilità di facilitare la ricerca di idrocarburi nelle acque territoriali italiane. Di fatto il governo Monti concede alle multinazionali del petrolio e dell'energia di trivellare i fondali marini anche in aree preziose dal punto di vista ambientale e protette.

Nello specifico, per quanto riguarda la città di Crotone, questo provvedimento si inserisce in una politica che ha visto da decenni l'Eni estrarre nel tratto di mare a ridosso della costa crotonese e del promontorio di Capo Colonna circa il 15% del fabbisogno nazionale di gas metano, in una logica di costante sfruttamento del territorio, senza alcuna adeguata garanzia per i danni ambientali prodotti alla flora ed alla fauna marina e che provocano inoltre il fenomeno della subsidenza - sprofondamento ed erosione del territorio - senza nessuna tutela e con scarsa ricaduta economica per la comunità del crotonese.

Numerosi pozzi per l'estrazione del gas metano e tre piattaforme di proprietà dell'Eni, collocate a qualche miglio dal litorale crotonese, svettano nell'immediata prossimità dell'area marina protetta più grande d'Europa e di uno dei più importanti siti archeologici della Magna Grecia, il promontorio di Capo Colonna. A più riprese l'Eni ha realizzato interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria dei pozzi estrattivi a poche decine di metri dall'unica colonna dorica del tempio di Hera Lacinia rimasta in piedi. Va ricordato che in quell'area è impedita la realizzazione di qualunque opera che possa compromettere la stabilità stessa della colonna e la conservazione dell'area archeologica.

Crotone aspetta da circa quindici anni la bonifica dell'ex area industriale da parte dell'Eni. Le industrie del polo chimico dismesso, infatti, hanno provocato un inquinamento fortissimo a danno dei lavoratori, di tutto il suolo ed il sottosuolo interessato dagli impianti, dello specchio di mare adiacente, delle falde acquifere e dell'aria che respiriamo. Oggi, inoltre, a seguito dell'inchiesta della magistratura crotonese, si scopre che i materiali di risulta di quelle produzioni chimiche sono stati utilizzati per costruire edifici pubblici e privati. Il danno ambientale è quantificato, secondo una perizia di parte commissionata all'Apat dal ministero dell'Ambiente, in 1.920 milioni di euro che, sommati alla richiesta di risarcimento della Regione Calabria, fa un totale di 2.720 milioni di euro che l'Eni deve pagare per la bonifica dei siti indebitamente inquinati.

Ci sono due strade per creare occupazione. Una è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L´altra vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro. Rientrano palesemente nella prima le misure predisposte dal governo che sono entrate in vigore a gennaio.

La più rilevante sta nell´articolo 2: prevede, per le imprese che assumono a tempo indeterminato giovani sotto i 35 anni, una deduzione Irap di 10.600 euro per ogni neo assunto, aumentata della metà per le imprese del Meridione.

C´è una obiezione di fondo alle misure del governo: le politiche fiscali presentano una serie di inconvenienti che ne limitano molto la capacità di creare occupazione. Anzitutto esse offrono incentivi a pioggia, ossia non distinguono tra i settori di attività economica in cui appare più utile creare occupazione. Un nuovo assunto è un disoccupato in meno, però sarebbe meglio per l´economia se l´assunzione riguardasse un centro di ricerca invece che un fast food, scelta che non si può fare con incentivi del genere. In secondo luogo bisognerà vedere se le imprese aumentano realmente il personale grazie alle assunzioni incentivate dagli sgravi fiscali, oppure se ne approfittano licenziando appena possono un numero ancora maggiore di quarantenni. Infine le politiche fiscali hanno un effetto incerto. Un´impresa che sa di fruire entro l´anno fiscale di uno sgravio di imposta per ogni assunzione non è detto si precipiti ad assumere tot operai o impiegati il 2 gennaio. È possibile che aspetti di vedere come andranno i futuri ordinativi, i crediti che ha richiesto, i pagamenti dei clienti in ritardo di un anno; con il risultato che, ove decida di assumere, lo fa magari a novembre. Uno sfasamento troppo lungo a fronte di 7 milioni di disoccupati e male occupati in attesa.

Veniamo alla seconda strada. Dagli Usa provengono due casi che attestano, da un lato, la scarsa efficacia delle politiche fiscali per creare occupazione; dall´altro, il ritorno dell´idea che il modo migliore per farlo consiste nel creare direttamente posti di lavoro. A febbraio 2009 il governo Obama varò una legge sulla ripresa (acronimo Arra) comprendente un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere. Secondo uno studio di due consiglieri del presidente, grazie a tale intervento si sarebbe evitato che la perdita di posti di lavoro toccasse i 5 milioni, mentre entro fine 2010 se ne sarebbero creati 3.675.000 di nuovi. E la disoccupazione avrebbe toccato al massimo l´8% a metà 2009 per scendere presto al 7. In realtà i posti di lavoro persi dopo l´entrata in vigore della legge hanno superato gli 8 milioni, quelli creati ex novo erano soltanto un milione e mezzo a metà 2011 e il tasso di disoccupazione ha toccato il 10%.

Forse scottato dall´insuccesso di Arra, a ottobre 2011 il presidente Obama ha presentato al Congresso un altro piano in cui le politiche fiscali hanno ancora un certo peso, però accanto ad esse propone lo stanziamento di 140 miliardi di dollari per mantenere in servizio 280.000 insegnanti; modernizzare oltre 35.000 scuole; effettuare investimenti immediati per riattare strade, ferrovie, trasporti locali e aeroporti e ridare così un lavoro a centinaia di migliaia di operai delle costruzioni. In sostanza, il governo Usa ha deciso di puntare meno sui tagli di tasse e assai più su interventi diretti "per creare posti di lavoro adesso" (così dice la copertina del piano). È un passo significativo verso un recupero da parte dello Stato del ruolo di datore di lavoro di ultima istanza, quello che durante il New Deal creò in pochi mesi milioni di posti di lavoro.

Uno Stato che voglia oggi rivestire tale ruolo assume il maggior numero possibile di disoccupati a un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l´anno), e li destina a settori di urgente utilità pubblica; tali, altresì, da comportare un´alta intensità di lavoro. Quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. Tra i settori che in Italia presentano dette caratteristiche si possono collocare in prima fila il riassetto idrogeologico, la ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), la ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60%). Significa questo che lo Stato dovrebbe mettersi a fare l´idraulico o il muratore, come un tempo fece panettoni e conserve? Certo che no. Lo Stato dovrebbe semplicemente istituire un´Agenzia per l´occupazione, che determina i criteri di assunzione e il sistema di pagamento. Dopodiché questa si mette in contatto con enti territoriali, servizi per l´impiego, organizzazioni del volontariato, che provvedono localmente alle pratiche di assunzione delle persone interessate e le avvìano al lavoro. È probabile che non vi sarebbero difficoltà eccessive a farlo, visto le tante Pmi, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze idonee in uno dei settori indicati, le quali potrebbero aver interesse a impiegare stabilmente personale il cui costo è sopportato per la maggior parte dallo Stato.

La domanda cruciale è come finanzia le assunzioni il datore di lavoro di ultima istanza. Si può tentare qualche indicazione, partendo da una cifra-obiettivo: un milione di assunzioni (di disoccupati) entro pochi mesi. A 15.000 euro l´uno, la spesa sarebbe (a parte il problema di tasse e contributi) di 15 miliardi l´anno. Le fonti potrebbero essere molteplici. Si va dalla soppressione delle spese del bilancio statale che a paragone di quelle necessarie appaiono inutili, a una piccola patrimoniale di scopo; dal contributo delle aziende coinvolte, che potrebbero trovare allettante l´idea di pagare, supponiamo, un terzo della spesa pro capite, a una riforma degli ammortizzatori sociali fondata sull´idea che, in presenza di lunghi periodi di cassa integrazione, proponga agli interessati la libera scelta tra 750 euro al mese o meno per stare a casa, e 1.200 per svolgere un lavoro decente. Altri contributi potrebbero venire da enti territoriali e ministeri interessati dalle attività di ristrutturazione di numerosi spazi e beni pubblici. Non va infine trascurato che disoccupazione e sotto-occupazione sottraggono all´economia decine di miliardi l´anno. John M. Keynes - al quale risale l´idea di un simile intervento - diceva che l´essenziale per un governo è decidere quali scelte vuol fare; poi, aguzzando l´ingegno, i mezzi li trova.

«Legge elettorale? Queste camere non moralmente all'altezza» Trivelle, acqua pubblica, «Bersani vigili bene. Se nei decreti si cancella il voto dei referendum mandi sotto il governo». «Innanzitutto: altro che "quarto polo". Ambisco a costruire il "primo polo", per vincere le elezioni e portare il paese a sinistra». Nichi Vendola risponde così alla domanda se vuole costruire un polo alternativo Sel-Idv, se se i rapporti con il Pd dovessero precipitare».

Ma nel Pd in molti spingono per rompere con voi e allearsi con il centro.

«C'è da compiere l'opera immane della deberlusconizzazione del paese. Il berlusconismo non era una condizione di costume, un'idea di società. Ora, con il governo tecnico, c'è una messa in stand by della contesa fra programmi e valori alternativi. Ma quella di una grande sinistra di governo che rimescoli culture, radicale senza estremismi né tentazioni minoritarie, riformista e non genuflessa al mercato, non è esigenza di un ceto politico.»

Si può deberlusconizzare insieme al Pd che oggi vota con Berlusconi?

«Il nostro riferimento è il popolo del centrosinistra e la sua ben orientata domanda di cambiamento, che si è espressa nelle amministrative e nei referendum che hanno colpito al cuore le culture liberiste ovunque collocate. Mettevano al centro un'idea alternativa al modello berlusconiano: la pratica dei beni comuni. Il Pd ha subito queste vittorie. Ma io resto alle parole di Bersani, alla battaglia tentata per marcare con contenuti sociali il governo. Generosa, ma con scarsi risultati. In queste ore c'è una seria compromissione della credibilità dei tecnici sul terreno della sostenibilità ambientale, nominata ma poi violata nel concreto.»

Il decreto liberalizzazioni dà il via libera alla trivellazione delle coste. Il ministro Clini smentisce, ma così c'era scritto sul testo, fino a ieri.

«Per noi pugliesi il vero petrolio è il mare, la bellezza, i valori d'uso di un paesaggio incantato. Se servirà, daremo battaglia fino alle estreme conseguenze. Non è la prima volta che il governo fa girare notizie e poi smentisce, per vedere l'effetto. Se è vero quello che dice il ministro, vuol dire che la mobilitazione immediata ha pagato.»

Il Pd è un fan delle liberalizzazioni.

«Tutti i parlamentari pugliesi hanno aderito alla manifestazione di sabato contro le trivelle. Chiediamo coerenza.»

Chiedereste di non votarlo?

«Chiederemmo di mandare sotto il governo. E ugualmente sulle privatizzazioni, se ci fosse un aggiramento dei referendum sull'acqua. Torno alle trivelle: se fosse, sarebbe in sintonia con la liberalizzazione della trivellazione dei fondali dei mari per la ricerca di greggio che vuole la Commissione europea. L'Europa che c'è oggi è schifosa, senz'anima, corrotta. È la piccola meschina Europa di Merkel e Sarkozy.»

E ora anche di Monti.

«Monti è una variante colta e illuminata. Ma fa difficoltà a capire che non esiste crescita che non assuma l'ambiente come contenuto anziché limite. È inadeguato, a prescindere dai meriti dei singoli, dentro un europeismo che salva l'euro e uccide l'Europa. Abbiamo chiamato l'assemblea di domenica a Roma 'per la giustizia sociale, una nuova sinistra per salvare l'Italia e l'Europa'. Oggi la sinistra deve prendere la bandiera degli Stati uniti d'Europa, rinnovando quel patto con i cittadini che ha fatto di noi dopo il nazi-fascismo il continente del progresso e dei diritti. »

Sta pensando a portare Sel fra i socialisti europei, dov'è il Pd?

«Apro una riflessione esplicita e senza sotterfugi sulla necessità di rimescolare le famiglie europee di ispirazione progressista. Se potessi, prenderei tre tessere in Europa: quella della Sinistra, che ho contribuito a costruire, quella del socialismo che oggi gioca una partita rilevante - in Francia, in Germania - per cambiare il segno al continente, e dei Verdi che su alcune questioni hanno colto in anticipo i nodi di fondo.»

Napolitano chiede ai partiti la legge elettorale. Bocciato il referendum, voi quale sistema proponete?

«Se devo essere sincero, penso che le camere che hanno salvato Cosentino non abbia la legittimazione morale per fare una nuova legge elettorale. Meglio le elezioni anticipate. Ma tutto il paese chiede di cambiare il Porcellum. E i partiti così vorrebbero dar un segno di 'autoriforma'. A qualunque parlamento si può chiedere una buona legge elettorale. Ma stiamo parlando di questo parlamento. Di un percorso che deve passare per il consenso di Berlusconi e delle sue truppe. Per lui - l'ha detto - il Porcellum è il miglior sistema possibile. Chi può pensare che questo parlamento faccia una buona legge? »

Nel caso, quale sistema preferisce?

«Una buona legge deve salvaguardare il pluralismo e le coalizioni. Domenica a Roma, insomma non nascerà il Quarto Polo.»

Allora perché alla vostra assemblea nazionale avete invitato Emiliano, Borsellino, De Magistris, Zedda e Landini?

«Un'alternativa di governo non può che essere la costruzione di una rete di relazioni fra politica e società. Un'alternativa solo movimentista o solo politicista nascerebbe con la vocazione alla sconfitta. La sinistra non può rinascere per rese dei conti ideologiche ma come capacità di ricostruire un disegno per l'Italia e per l'Europa.»

Per D'Alema le alleanze si fonderanno sul giudizio positivo su Monti.

«Ma ne è sicura? Persino gli apologeti di Monti cominciano a ridimensionarsi. Certo, non c'è paragone con Berlusconi che in Europa faceva cucù e le corna. Ma siamo sicuri che questo governo ci porterà fuori dalla crisi?»

Con il viaggio di oggi, 21 gennaio 2012, del presidente del Consiglio Mario Monti a Tripoli, si riattiva il trattato di amicizia e cooperazione firmato a Bengasi nel 2008 da Berlusconi e Gheddafi. In tre anni la situazione è completamente cambiata: Berlusconi è stato costretto a dimettersi, il colonnello Gheddafi è stato linciato e barbaramente assassinato perché non parlasse. Nel ripristinare il trattato di amicizia è necessario che si prenda atto della nuova situazione. In Italia c'è un governo nuovo, serio, capace, diretto da Mario Monti. In Libia, alla dittatura di Gheddafi è subentrato un governo provvisorio gestito da Mustafa Abdel Jalil, che ha promesso elezioni democratiche entro pochi mesi.

Ai libici interessa il Trattato non fosse altro che per la cifra veramente consistente del risarcimento: 5 miliardi di dollari. Per gli italiani, di rimando, il Trattato è importante poiché chiude una vertenza quasi secolare sul passato coloniale e in cambio conta di ottenere più petrolio e metano e meno immigrati clandestini. Tutto, però, non fila liscio. Come c'era da attendersi, i libici chiedono di rivedere il Trattato, non fosse altro perché quello di Bengasi porta la firma di Gheddafi. Ma anche l'Italia di Monti ha tutto il diritto di rivedere il Trattato del 2008, di apportarvi delle modifiche, soprattutto in quella misera parte politica del documento nella quale si ignora del tutto il rispetto dei diritti umani.

È su questo punto invece che si deve basare la nuova cooperazione, perché ci sono dei segnali a Tripoli per nulla positivi. A cominciare dalla dichiarazione dello stesso capo del Cnt, Abdel Jalil, che la nuova Libia «adotterà la sharia come legge essenziale». E per gli strepitosi onori tributati il 7 gennaio 2012 a Tripoli al presidente sudanese Omar Al Bashir, ricercato dalla corte penale internazionale dell'Aia per «genocidio» e «crimini contro l'umanità», crimini nettamente più gravi di quelli attribuiti a Gheddafi. E infine, secondo un rapporto dell'Onu, abusi e torture sono praticate ancora oggi sui 7.000 seguaci dell'ex rais, o presunti tali, che si ammassano nelle prigioni.

Purtroppo anche l'Italia ha preso parte a quella guerra illegale, ingiustamente definita unified protector (protettore unificato) dopo aver causato 35 miliardi di danni, anche l'Italia viene ora chiamata a ricostruire il paese. Noi vogliamo sperare che il presidente del consiglio Monti, che sa il valore e il peso delle parole, non citi le 1.182 missioni sul territorio libico compiute dall'aeronautica italiana e le 1.921 ore eseguite dai trenta elicotteri della marina. È stato commesso un grandissimo errore, cerchiamo almeno di non esserne fieri.

Va anche detto che la situazione in Libia è tutto meno che normale. Ancora pochi giorni fa ci sono stati scontri a Tripoli tra miliziani delle katibas e truppe governative con sei morti e diciotto feriti. Ci sono ancora in armi 50mila miliziani che si rifiutano di consegnare il loro armamento, leggero e pesante, e lo stesso Jalil ha confessato che non è ancora scongiurata l'ipotesi di una guerra civile. Un altro segnale poco rassicurante è quello fornito dal governatore della banca centrale libica, Saddeq Omar Elkaber. Ieri ha comunicato all'Unicredit che ridurrà il suo contributo dal 4,9% al 2,8%. Anche il fondo sovrano Lia diminuirà il suo apporto dal 2,7% all'1,5%.

Vorremmo inoltre ricordare a Mario Monti il «silenzio assordante» della Francia dinanzi alla visita a Tripoli di Omar Al Bashir. Le Monde ha scritto che per queste incoerenze la Francia presta il fianco alle accuse di praticare due pesi e due misure. Quello che è certo è che la Francia non ha scatenato la guerra in Libia soltanto perché le stava antipatico il colonnello. Abbiamo il sospetto che la lista delle pretese del presidente Sarkozy sia molto lunga e verrà presentata a giorni, ora che la campagna elettorale per le presidenziali si sta facendo più intensa e brutale.

Dev'essere «il vecchio che è in noi», in questo caso in me, a farmi sussultare alla lettura dell'articolo del mio assai stimato amico Alberto Asor Rosa sul manifesto di ieri. Egli vede nel formarsi extra o postparlamentare del governo Monti, voluto dal Presidente della Repubblica e accettato più o meno obtorto collo dalle intere Camere, esclusa la Lega, un passaggio salvifico che ci ha estratti dalla palude del berlusconismo. E in questa ammirazione non è certo il solo. Ma, rispetto agli altri estimatori, sottolinea nell'emergere di Monti una superiore saggezza e oggettività, le cui radici attribuisce all'Europa di Bruxelles, esclusion fatta degli ineleganti Sarkozy e Merkel, augurabilmente sulla via d'uscita. Qui la sua argomentazione fa un salto, perché è impervio trovare nelle misure prese da Monti farina diversa da quella che sta nel sacco franco-tedesco. Ma Asor Rosa ne vede la necessità anche nella mancanza di alternative. Chiunque ne voglia avanzare deve godere di altrettanta saggezza e consenso, nonché del rispettoso silenzio dei partiti in deliquescenza e di una opinione sfatta sulla quale galleggiano pochi residui di classe.

Di tanta saggezza non mi sento, ahimé, portatrice. Ma di consensi ne ho conosciuti troppi perché mi persuadano. Nulla di quanto è avvenuto in Italia mi piace. Non la lunga berlusconata, assai consensuale, seguita allo spegnersi del partito comunista più grosso e intelligente del continente. Non la linea di un governo la cui «tecnica» sta nel seguire fedelmente le direttive europee. Non l'improvviso decisionismo del Presidente della Repubblica, che la stampa vorrebbe già fornito dei poteri relativi e dunque di una costituzione presidenziale che con le inedite attuali convergenze non sarebbe inattuabile. Non la decisione del suddetto Presidente di non chiedere una destituzione del precedente Premier per recidivo assalto alle istituzioni repubblicane, anziché lasciarlo con la sua maggioranza alle Camere, da dove potrebbe riemergere fra un anno e, unendo il suo populismo a quello della Lega, attrarre chissamai di nuovo le masse disorientate e afflitte dalle misure di rigore.

Le quali non sono né oggettive né obbligate, affatto. Non mi richiamerò agli Stiglitz, Krugman, Mary Kaldor, Fitoussi eccetera, che lo predicano da testate più autorevoli della nostra, ma al lavoro svolto da noi e da "Sbilanciamoci" fin da quest'estate.

Esso non lascia dubbi sulla natura di parte liberista di Monti e del suo governo, appoggiato senza sorprese dal moderatismo della Chiesa di Roma - mica siamo più all'irrequieto Vaticano II. La liberazione da ogni vincolo che esige la proprietà, a cominciare dai lacci e lacciuoli che si era conquistato il lavoro dipendente, non ha nulla di oggettivo. E all'opporle da parte della Cgil la difesa dell'art.18 si può applaudire, non senza ricordare che, rispetto al 1970, esso non è in grado di difendere la massa imponente degli occupati nelle piccole aziende, dei precari, dei disoccupati, ormai quasi pari a quella degli ex garantiti. Né vedo che cosa ci sia di necessitato nel dire no alla modesta TobinTax. È forse super partes la differenza scandalosa fra l'imposizione sul lavoro e quella sull'impresa? E l'attuale franchigia delle transazioni finanziarie per miliardi? E poi che c'è di oggettivo nell'azzerare i referendum per l'acqua pubblica? E nell'assegnare altri servizi pubblici ai privati?

Il governo Monti non è né tecnico né oggettivo, è onesto e di parte. Meglio di parte che corrotto? Sì, non fosse per il fatto che il sistema berlusconiano ha indotto gran parte dell'opinione già progressista a non distinguere più fra destra e sinistra, sfruttatori e sfruttati, fra chi ha e chi non ha, chi si è arricchito e chi si è impoverito da vent'anni a questa parte, rovesciando la proporzione prima consueta fra redditi da capitale e redditi da lavoro - concetti vecchi ma realtà corpose lussureggianti.

Meglio ricordare che siamo tutti di parte, anche davanti al debito pubblico e alla sua formazione, che è precedente al governo Berlusconi, né può essere attribuita alla multinazionale dei tassisti e dei notai. E d'altra parte, la mancanza di "oggettività" di Monti non si deve a una sua malvagità, sono certa che oltre che impeccabile sia caritatevole; viene dalla persuasione, non solo sua, che a tassare i grandi patrimoni o i grandi profitti o le finanze questi si butterebbero di colpo all'estero invece che far valere i propri talenti, materiali e immateriali, nella nostra Italia. Non è vero affatto, se no perché non hanno fatto altro che questo anche con il Cavaliere? Perché da trenta anni in qua ci siamo deindustrializzati e ha prevalso l'investimento sulle finanze, ormai superiore a ogni Pil in giro per il pianeta?

Basta scorrere i materiali e le statistiche, ormai trovabili dovunque, sulle fusioni, sulle delocalizzazioni, su come emergono gli emergenti, sul mutato rapporto tra regioni del mondo. Sarà un caso che nove paesi d'Europa siano più che mai nei guai e degradati tutti dalle agenzie di rating, salvo la Germania e, credo, la Finlandia? Sarà un caso che non c'è crescita da nessuna parte del continente? Sarà un caso che le agenzie suddette non si siano accorte che i subprimes erano una truffa e la Grecia lasciava montare da anni il suo debito? Sarà un caso che le grandi famiglie già industriali, vedi gli Agnelli, siano passati alle rendite? Che nel conflitto fra Marchionne e i lavoratori né l'Europa né Monti hanno niente da dire? Che la disoccupazione cresca, e anche la povertà? Perfino in Germania c'è chi è pagato un euro all'ora. E che tutti i paesi siano indebitati, perché alla crescita dei disoccupati consegue il calo delle entrate pubbliche? Le politiche di rigore sono non solo crudeli, sono inefficaci.

Così stanno le cose, e su questo rifiorisce la destra estrema. Vorrei che Asor Rosa mi smentisse sui fatti. Può solo obiettarmi: ma tu chi sei? Chi rappresenti? Se parli per il mondo del lavoro, com'è che questo non vi sta a sentire? Tu, voi, davanti alla splendida schiera degli onesti non siete niente. Sta' zitta, insolente. Insolente forse sì, zitta no.

Il decreto sulle liberalizzazioni proposto dal governo contiene un articolo 22 che affida il territorio nazionale - e il mare attorno - alle multinazionali del petrolio e del gas. Esse potranno fare le ricerche che ritengono necessarie e sfruttare i giacimenti ritrovati per un numero di anni indefinito (20+5+5+ ecc.) salvo poi, una volta esaurito il luogo, rimettere ordinatamente tutto a posto. Come dubitarne?

È tutto scritto con precisione. È perfino adombrata, al punto 8 comma c del suddetto articolo, la necessità di indicare «...l'entità e la destinazione delle compensazioni previste per la fase di ricerca e sviluppo». Insomma è fatto balenare fin da subito un possibile guadagno da parte di proprietari delle aree, enti locali, regioni; anzi l'opportunità di un'equa spartizione, regolata magari da qualche organo dello stato, appositamente delegato. Tutto fatto bene, sia chiaro, come in una banda degna di rispetto. Il massimo per dei veri liberali.

I vari lotti, una volta individuati saranno messi a gara "europea". Non tutti potranno partecipare, ma solo le imprese dotate di sufficiente credibilità. Una volta partita la gara e superate le specificità che il decreto indica sommariamente, l'attribuzione dovrà avvenire nei successivi otto anni, pena la revoca della concessione. Possiamo immaginare che verso la fine dei primi otto anni il nostro amatissimo territorio nazionale avrà frequenti trivelle e scavi dappertutto; poco tempo dopo ci saranno più buchi per chilometro quadrato che in una fetta di formaggio svizzero. Siccome la malignità è il nostro forte, possiamo anche dare per certo che le multinazionali di qui sopra si spartiranno l'intero Stivale, ma senza pestarsi i piedi. Le gare saranno pro forma, con buona pace di tutti e spesa minore per ciascuno. Come è del tutto legittimo, il senatore Monti chiamerà tutto questo liberalizzazione, mentre sarebbe più opportuno parlare di un cartello. Ma i cartelli fanno parte del mercato, o no?

L'incombere delle compagnie petrolifere non è nominativo nell'articolo 22 ma piuttosto nel precedente articolo 21, o, meglio ancora, nella relazione che l'accompagna, nella quale si può leggere che se non si introducono minori limiti alla ricerca in mare al largo delle zone di rispetto, il risultato sarebbe una «riduzione degli investimenti in tecnologie e servizi forniti dalle imprese italiane con un crollo dei progetti in corso, stimabile in circa 3-4 miliardi di euro nei prossimi anni, con abbandono degli investimenti in corso sul territorio italiano da parte delle imprese italiane ed estere operanti nel settore (recente esempio la Exxon)».

Siccome non si può scontentare la Exxon e le sue beneamate sorelle, allora si può sacrificare terra e mare, ambiente e paesaggio. Si distrugga pure tutto, si buchi e si sporchi, ma finalmente avremo una vera libertà, da vantare a Bruxelles e a Berlino.

Naomi Klein - Una delle cose più misteriose riguardo a questo momento è: “perché adesso?” La gente ha lottato contro le misure di austerità e ha urlato per un paio di anni contro gli abusi delle banche, facendo essenzialmente la stessa analisi: “Non saremo noi a pagare per la vostra crisi”. Ma non sembrava proprio che acquistasse popolarità, almeno negli Stati Uniti. C’erano dimostrazioni e c’erano progetti politici e c’erano proteste come a Bloombergville. Ma, erano in gran parte ignorate. Non c’era davvero nulla su vastissima scala, nulla che realmente avesse un impatto significativo. E adesso, improvvisamente, questo gruppo di persone in un parco ha fatto esplodere qualche cosa di straordinario. Come lo spieghi, allora, dato che sei stato impegnato in OWS dall’inizio, ma anche nelle precedenti azioni contro l’austerità?

Yotam Marom – Ebbene, la prima risposta è: non ho idea , nessuno ne ha. Ma posso fare delle congetture. Penso che ci siano delle cose che si devono considerare con attenzione quando ci sono momenti come questi. Una sono le condizioni: disoccupazione, debito, sfratti, i molti altri problemi che deve affrontare la gente. Le condizioni sono vere e sono brutte, e non si possono simulare. Un altro tipo di base per questo tipo di cosa è quello che fa la gente che organizza per preparare momenti come questi. Ci piace fantasticare su queste insurrezioni e sugli importanti momenti politici – ci piace immaginare che vengano fuori dal nulla e che sia necessario solo questo – ma queste cose accadono se c’è dietro uno sforzo organizzativo enorme che viene fatto ogni giorno, in tutto il mondo, in comunità che sono realmente emarginate e che affrontano attacchi bruttissimi.

Quelli quindi sono i due prerequisiti perché si verifichino questi momenti. Ci si deve poi chiedere: quale è il terzo elemento che fa sì che tutto si realizzi, quale è ‘ il grilletto, la polverina magica? Beh, non sono sicuro della risposta, ma so che sensazione dà. La sensazione che qualche cosa è che si è aperto, una specie di spazio che nessuno sapeva esistesse, e quindi tutte le cose che prima erano impossibili, ora sono possibili. Qualche cosa che è stato come disintasato. Persone di tutti i tipi hanno proprio iniziato a vedere le loro lotte in questo qualche cosa, hanno iniziato a identificarsi con questo, hanno cominciato a sentire che era possibile vincere, che c’è un’alternativa, che le cose non devono essere sempre così. Penso che in questo caso questo sia l’elemento speciale.

NK – Pensi che ci sia una discussione organica riguardo al cambiare fondamentalmente il sistema economico? Cioè, sappiamo che esiste una forte, rabbiosa critica della corruzione e della conquista dal processo politico da parte delle grosse imprese commerciali. E’ in corso davvero un richiamo ad agire. Ciò che è meno chiaro è la misura in cui al gente si sta preparando a costruire davvero qualche altra cosa.

YM – Sì, certamente penso che siamo in un momento unico per lo sviluppo di un movimento che non è soltanto un movimento di protesta contro qualche cosa, ma anche un tentativo di costruire qualche cosa al suo posto. Potenzialmente è una versione molto precoce di quello che chiamerei un movimento di potere duale, cioè un movimento che da una parte sta cercando di formare i valori e le istituzioni che vogliamo vedere in una società libera, e che allo stesso tempo, però, sta creando lo spazio per quel mondo resistendo e smantellando le istituzioni che ci impediscono di averlo. In generale la tattica di occupare, è una forma davvero fantastica di lotta di potere duale perché l’occupazione è sia una casa dove possiamo praticare l’alternativa – praticando una democrazia partecipativa, avendo le biblioteche radicali, avendo una tenda sanitaria dove chiunque può farsi curare, tutte cose cosa su piccola scala – ed è anche un terreno di prova per le lotte all’esterno. E’ il luogo dove creiamo la nostra lotta contro le istituzioni che ci tengono lontano dalle cose di cui abbiamo bisogno, contro le banche in quanto rappresentanti del capitalismo della finanza, contro lo stato che protegge e incentiva quegli interessi.

E’ sorprendente e davvero incoraggiante perché è un qualche cosa che è mancato molto in tante lotte del passato. Di solito o c’è una cosa o un’altra.

Ci sono le istituzioni alternative, come gli eco-villaggi e le cooperative alimentari e così via – e poi ci sono i movimenti di protesta e altre contro-istituzioni, come i gruppi pacifisti o i sindacati. Essi però raramente si mettono insieme o considerano le loro come lotte da condividere. Molto raramente ci sono movimenti che vogliono fare entrambe le cose, che le considerano inseparabili, che comprendono che le alternative debbono essere una lotta e che la lotta deve essere fatta in un modo che rappresenti i valori del mondo che vogliamo creare. Penso davvero, quindi, che ci sia qualche cosa di realmente radicale e fondamentale in questo, e tantissima potenzialità.

NK – Io sono assolutamente d’accordo che la chiave è nel mettere insieme la resistenza e le alternative. Un mio amico, l’attivista britannico per l’ecologia e per le arti, John Jordan, dice che l’utopia e la resistenza sono come la doppia elica del DNA dei militanti, e quando la gente e cercano soltanto di costruire la loro utopia e non si impegnano nei sistemi di potere, allora diventano irrilevanti e anche estremamente vulnerabili al potere dello stato e spesso saranno schiacciati. Allo stesso tempo se ci si limita a protestare, a resistere senza avere quelle alternative, allora penso che questo diventi un veleno per i movimenti.

Penso però ancora al problema della politica – di fare il salto da alternative su piccola scala ai grossi cambiamenti politici che permettano di cambiare la cultura. Un sacco di persone sono riuscite a capire che il sistema è così rovinato che non si tratta di chi va al potere. Però uno dei modi di rispondere a questo è dire: “Va bene, non formeremo un partito politico e non tenteremo di prendere il potere, ma guarderemo questo sistema e tenteremo di identificare le barriere strutturali che impediscono il cambiamento e di promuovere gli obiettivi politici che potrebbero iniziare a riparare quei difetti strutturali.” E queste sono, per esempio, i modi in cui le grosse imprese commerciali sono capaci di finanziare le elezioni e il ruolo dei mezzi di informazione pagati dalle grosse aziende e tutto il problema della personalità delle grosse imprese commerciali in questo paese. E’ possibile trovare poche lotte politiche ci importanza cruciale, che potrebbero creare una situazione in cui, tra dieci anni, la gente potrebbe non sentirsi così completamente cinica riguardo all’idea di cambiamento all’interno del sistema politico. Che cosa ne pensi?

YM – Ebbene, hai ragione a dire che dobbiamo trovare dei modi di farlo, ma modi che non compromettano quello che finora è riuscito così bene per il movimento e per questo momento, cioè che è così ampio che così tante persone diverse ci si possono ritrovare.

Penso che all’interno del movimento più ampio, abbiamo ruoli diversi e che c’è un ruolo particolare per Occupiamo Wall Street. Personalmente non voglio avere nulla a che fare con la gente che fa pressioni o che si mette in lizza proprio adesso, né voglio concentrarmi tutto il tempo per conseguire piccoli cambiamenti politici e non credo che questo sia il ruolo di Occupiamo Wall Street. Ma spero senza alcun dubbio che la gente il cui terreno è questo vada e lo faccia. Spero che possano riconoscere che quanto accade ora è la creazione di un clima dove è possibile che essi spingano verso sinistra e ottengano di più. Non sarò contento di tutti i compromessi che quella gente dovrà fare, ma abbiamo bisogno anche di quello. Se vogliamo una vera trasformazione sociale significativa, abbiamo bisogno di ottenere delle cose lungo il percorso, perché in questo modo forniamo alla gente le fondamenta sopra le quali possono continuare a lottare a lungo termine e in questo modo cresciamo per diventare una massa critica che alla fine potrà creare una spaccatura fondamentale con questo sistema.

E nel frattempo, il nostro ruolo in quanto OWS dovrebbe essere di avere sogni ancora più grandi. Penso che sia nostro compito guardare molto avanti, sostenere le nostre idee, creare alternative e intervenire nei processi politici ed economici che governano la vita delle persone. E’ necessario riconoscere che le istituzioni che governano le nostre vite hanno davvero potere, ma che non necessariamente dobbiamo parteciparvi seguendo le loro regole. Penso che il ruolo di OWS sia di ostacolare quei processi per impedire loro di usare quel potere e di creare aperture per le alternative che stiamo cercando di costruire. E poi se i politici o gli altri che si considerano solidali con questo movimento vogliono continuare a farlo, allora dovrebbero usare questo momento per ottenere le cose che ci aiuteranno a diventare più forti nel tempo; ora hanno un’occasione di farlo.

NK – Sono dilaniata riguardo a questo. Da una parte, OWS è così ampia che un enorme varietà di persone ha trovato un posto nella tenda. E c’è certamente un valore soltanto nell’avere un movimento molto ampio che è in grado di intervenire nei discorsi politici quando ci sono congiunture cruciali particolarmente perché, guardando a quello che accade in Europa in questo momento, penso che dobbiamo tenerci pronti per il prossimo colpo economico. E’ molto importante che quando il prossimo “giro” di austerità colpirà gli Stati Uniti, ci sarà un movimento di massa pronto a dire: “Impossibile. Non pagheremo – se avete bisogno di soldi, tassate l’1% ricco e tagliate le spese militari, non tagliate l’istruzione, e i tagliandi per il cibo.”

Dovremmo, però, essere chiari: questo non vuol dire migliorare le cose, significa soltanto tentare di impedire che le cose vadano molto peggio. Per migliorare la situazione, ci deve essere una richiesta positiva.

Guardate per esempio le proteste degli studenti cileni. E’ un movimento notevole, e storicamente è enormemente significativo, perché è realmente la fine della dittatura cilena più di venti anni dopo che è di fatto finita. Pinochet è stato al potere così a lungo e tante delle sue politiche sono state bloccate durante la transizione negoziata, che la sinistra in Cile non si è ripresa fino a quando questa generazione di giovani è scesa nelle strade. E lo hanno fatto provocati dalle misure di austerità che colpivano duramente l’istruzione. Invece di dire soltanto: “Va bene, siamo contro questi recenti tagli”, hanno detto: “siamo per l’istruzione pubblica gratuita e vogliamo capovolgere tutto il programma della privatizzazione.” Può sembrare una richiesta limitata, ma sono stati capaci trattare della disuguaglianza in modo molto più ampio. Lo hanno fatto mostrando come la privatizzazione dell’istruzione in Cile e la creazione di un brutale sistema di educazione squilibrata aumentava e bloccava la disuguaglianza, non fornendo agli studenti poveri alcuna via di uscita dalla povertà. Le proteste hanno acceso il paese ed ora non è più soltanto un movimento di studenti. E’ quindi una situazione completamente diversa rispetto ad OWS perché è iniziata con una richiesta. Mostra però come, se la richiesta è abbastanza radicale, può aprire un dibattito molto più ampio riguardo al tipo di società che vogliamo.

Penso che riguardi più le idee che le richieste. La mia preoccupazione è che ci sono così tanti gruppi che tentano di cooptare questo movimento e di fare soldi grazie ai suoi sforzi, che il movimento rischia di definirsi per quello che non è, invece che per quello che è, o, soprattutto per che cosa potrebbe diventare. Se il movimento viene messo costantemente nella posizione di dire: “No, non siamo la vostra pedina. Non siamo questo, non siamo quello,” il pericolo è di essere bloccati in una identità difensiva che è stata di fatto imposta dal di fuori. Penso che parzialmente sia accaduto quasto al movimento che si è opposto alla globalizzazione delle grosse imprese commerciali dopo Seattle, e non vorrei affatto vedere che quegli errori vengono ripetuti.

YM -Penso che tu abbia ragione riguardo a questo. E anche riguardo al problema delle richieste in opposizione alle idee. Non abbiamo richieste da fare del tipo che le altre persone vogliono sentire. Abbiamo però delle richieste, naturalmente vogliamo delle cose. Quando chiediamo la restituzione di case pignorate per le famiglie a cui viene impedito di riscattarla dall’ipoteca, oppure organizziamo gli studenti a fare flash-mob davanti alle banche che continuano a tenerli in debito, o i militanti ambientalisti che si sdraiano per terra fingendosi morti davanti alle banche che investono nel carbone: questi sono modi di esprimere le nostre richieste con un nuovo linguaggio della resistenza. OWS è davvero un’enorme tenda che non ha una sola voce, ma questo non significa che tutti gli altri raggruppamenti debbano sparire quando noi ci entriamo. Ci sono ancora gruppi che lottano per il diritto agli alloggi che chiedono di porre fine ai pignoramenti, o i sindacati che chiedono buoni posti di lavoro, ecc. Stiamo cercando di costruire un movimento dove gli individui e i gruppi abbiano l’autonomia di fare ciò di cui hanno bisogno di fare e di scegliere le battaglie che hanno bisogno di scegliere, essendo allo stesso tempo solidali con un qualche cosa di più ampio e di vasta portata qualche cosa di radicale e visionario. E questo è in parte il motivo per cui la visione è così importante, perché collega tutte le lotte.

Penso però che dobbiamo ottenere le cose, hai assolutamente ragione riguardo a questo. Suppongo che il modo in cui considero questo argomento è che noi adesso stiamo per passare, speriamo, dal simbolico al reale, sia nel campo di creare le alternative che nelle azioni di reazione. Dobbiamo chiedere la restituzione delle case, non soltanto come simboli, ma per le persone che ci vivono. Riaprire gli ospedali che sono stati chiusi e farci andare i medici. E lo stesso vale per la lotta: per sconvolgere le cose, come al solito, spostarci dalla protesta alla resistenza. Avremo un impatto reale quando il Congresso non farà approvare quelle leggi perché c’è troppa resistenza, perché ci sono persone che dimostrano nelle strade. Avremo un impatto reale quando non solo danzeremo attorno alle lobby bancarie ma quando abbiamo bloccato le porte dei loro quartieri generali dove organizzano la loro politica. Dobbiamo costringere chi prende le decisioni politiche valutare di nuovo le loro decisioni, e dobbiamo creare il potere di cambiarle completamente non soltanto nei contenuti, ma anche nella forma. Se ci limitiamo a cambiare i discorsi e basta, allora finiremo per perdere un’occasione incredibile di influenzare realmente la vita delle persone in modi significativi. Questo non è un gioco. Una società dove ci sono case vuote ma gente che non ha una casa, è fondamentalmente disgustosa ed è inaccettabile, non deve essere permessa. E si può dire lo stesso per altre realtà: per la guerra, o per il regime patriarcale esistente o per il razzismo. Abbiamo una responsabilità incredibile.

NK – E nessuno sa come fare ciò che tentiamo di fare. Si può indicare l’Islanda o qualche cosa che è successa in Argentina. Queste però sono lotte nazionali, qualche cosa alla periferia economica. Nessun movimento ha mai sfidato con successo il capitale globale iper-mobile alla sua fonte e quindi ciò di cui parliamo è così nuovo che fa paura. Penso che le persone dovrebbero ammettere di essere terrorizzati e che non sanno come fare ciò che sognano di fare, perché se non lo fanno, allora la loro paura – o piuttosto la nostra paura darà inconsciamente forma alla nostra politica e si può finire in una situazione nella quale si dice:”No, non voglio alcuna struttura,” o, “No, non voglio fare nessun tipo di richiesta politica, non voglio nulla a che fare con la politica,” mentre invece vuol dire che siete estremamente spaventati del fatto che non avete idea di come si fa. Forse se ammettiamo tutti che siamo in un territorio sconosciuto, quella paura perde un po’ della sua forza.

YM – Sì, questo è davvero importante. Tutti noi lo stiamo facendo. Quello che avete appena detto mi ha in un certo modo ricordato di un momento che c’è stato e che ha costituito veramente un punto di svolta per me. Per circa tre settimane, seduti a parlare con un gruppo di persone che avevo appena conosciuto, pensavamo al movimento e a dove poteva dirigersi e ricordo questo momento folle quando questo pensiero mi colpì:” Oh, stiamo vincendo.” Era surreale. E poi quel pensiero è stato immediatamente seguito dalla domanda: “Che cosa vogliamo, allora?”. Non avevamo ottenuto molto e non lo abbiamo ancora ottenuto, e non siamo per niente vicino alla società in cui vogliamo vivere, ma è stata però quella sensazione, che i discorsi si stavano spostando, che il mondo intero stava osservando, che avevamo un sacco di possibilità in vista. E’ stata la prima volta che ho mai sperimentato questo e penso la prima volta che tantissima gente che è viva oggi ha provato. E’ stato un momento che mi ha fatto sentire padrone del miodestino, ha davvero cambiato la mia vita, ma è stato anche un momento incredibilmente terrificante, perché, merda, significa che è reale, che la posta è alta, che non è uno scherzo.

Allora, seguendo il filone di ciò che è possibile: tutto questo era impossibile pochi mesi fa. Tutto questo era inconcepibile. Lo sentivo in modo molto personale ed ero cinico e ho imparato molto da quello. Si scopre che sappiamo pochissimo riguardo a ciò che è possibile. E questo ti rende realmente umile ed è e importante e apre un sacco di porte. Che cosa pensi che sia possibile?

NK – Prima di tutto, è un momento di possibilità di azione che non ho mai visto perché non abbiamo mai avuto tanta gente dalla nostra parte come in questo momento. Cioè, non c’era così tanta gente con noi nel momento di Seattle, per esempio. Eravamo ai margini e lo siamo sempre stati perché eravamo in un momento di grossa crescita economica. Adesso il sistema ha cominciato a infrangere le regole in modo così provocatorio che la sua credibilità è rovinata. E c’è un vuoto. C’è un vuoto che altre voci credibili possono riempire e questo è molto eccitante.

Personalmente penso che la possibilità più grande sia nel mettere insieme la crisi ecologica e la crisi economica. Considero il cambiamento del clima come l’ espressione estrema della violenza del capitalismo: questo modello economico che è devoto all’avidità più che a tutto il resto, non soltanto rende misere le nostre vite a breve termine, ma si sta avviando a rendere inabitabile il pianeta a medio termine. E sappiamo, scientificamente, che se continuiamo a fare come al solito, questo è il futuro verso il quale stiamo andando. Penso che il cambiamento del clima sia l’argomento più forte che abbiamo mai avuto contro il capitalismo delle grosse imprese commerciali, e anche l’argomento più forte che abbiamo mai avuto per il bisogno di alternative ad esso. E la scienza ci impone una scadenza: dobbiamo aver già iniziato a ridurre radicalmente le emissioni prima la fine del decennio, e questo significa cominciare da adesso. Penso che la scadenza basata su principi scientifici debba far parte di ogni discussione su quello che dobbiamo fare prossimamente, perché di fatto non abbiamo a disposizione un tempo illimitato.

Dovremmo anche renderci conto che questo tipo di urgenza esistenziale potrebbe essere una forza regressiva se la utilizzano le persone . E’ facile immaginare dei despoti che usano l’emergenza climatica per dire:”Non abbiamo tempo per la democrazia o per la partecipazione, dobbiamo imporre tutto dall’alto.” Proprio adesso il modo in cui l’urgenza è usata all’interno del movimento ambientalista tradizionale per dire: ”Questo problema è così urgente che possiamo soltanto domandare questi accordi di compromesso “cap-and-trade” perché è tutto quello che possiamo sperare di ottenere politicamente.” L’abitudine di parlare di collegamenti tra la crescita economica e il cambiamento di clima, è stata piuttosto accantonata perché, presumibilmente, non abbiamo tempo di fare quel tipo di rapidi cambiamenti.

NK - Questo, però, era un calcolo politico prima di OWS. Come hai fatto notare, OWS sta cercando di cambiare quello che è possibile. Quindi quello che ho detto sempre quando parlo ai gruppi ambientalisti è: cominciate a immaginare che cosa serbe possibile fare se il movimento a favore del clima non se ne stessero per conto loro ma fossero parte di una rivolta politica più ampia che lotta contro un modello economico basato sull’avidità. In quel contesto è molto più pratico parlare di cambiamento di quel sistema. E’ molto più pratico, infatti che promuovere piani corrotti come quelli di cap-and-trade che sappiamo non avere la possibilità di portarci dove le scienza ci dice che è necessario andare.

Sono anche eccitata per il fatto che, negli ultimi dieci anni, da quando era al culmine il cosiddetto movimento anti-globalizzazione, è stato fatto un grandissimo lavoro che dimostra che la rilocalizzazione economica e e la democrazia economica sono sia fattibili che auspicabili. Guardate l’esplosione del movimento per il cibo locale, dell’agricoltura sostenuta dalle comunità, e dai mercati degli agricoltori. Oppure il movimento cooperativo verde. O i progetti di energia eolica e solare basati sulla comunità. E ci sono poi le città come Detroit, Portland o Bellingham, che lavorano su molteplici fronti per rilocalizzare le loro economie. Il fatto è che ci sono esempi reali che possiamo indicare ora, di comunità che hanno superato la crisi economica meglio di quei posti che dipendono ancora da poche grosse imprese multinazionali, e che potrebbero scomparire in una notte dopo che quelle imprese hanno chiuso le porte. Soprattutto però: molti di questi modelli si occupano contemporaneamente sia della crisi economica che di quella ecologica, creando lavoro, ricostruendo le comunità, mentre abbassano le emissioni e riducono la dipendenza dai combustibili fossili.

Tornando all’idea della resistenza e alle alternative che sono i rami gemelli dell’elica del DNA, vedo un futuro possibile dove il gruppo resistente di OWS potrebbe appoggiare le linee politiche di cui queste alternative economiche hanno bisogno per arrivare al livello successivo.

Allora, sì, è lì che vedo un grande potenziale –sia forza potenziale che perdita potenziale, occasioni perdute. E tu?

YM – Penso che ora ci siano più possibilità di quante ci siamo mai immaginati. Penso che in un futuro non così lontano potremo ottenere un sacco di cose che veramente servono a migliorare la vita della gente, possiamo continuare a cambiare il panorama politico e possiamo diventare un movimento di massa che avrà la forza di proporre un altro tipo di mondo e anche di combattere per esso. Siamo solo all’inizio e penso che ci sia un potenziale enorme. E vedo anche quel tipo di possibilità durare nel tempo. Penso che possiamo ottenere una società davvero libera. Penso che sia assolutamente possibile avere un sistema politico ed economico in cui possiamo dare il nostro parere sincero, che noi controlliamo in modo democratico, al quale partecipiamo, che è equo e liberatorio, dove possiamo avere autonomia per noi stessi e le nostre comunità e le nostre famiglie, ma che siano anche reciprocamente solidali. Penso che sia possibile e necessario. Questo fa parte della cosa meravigliosa che è questo momento e questo movimento. Proprio adesso, seduto qui, non riesco neanche a immaginare i limiti delle possibilità future.

NOTA.

Naomi Klein è una giornalista, attivista e autrice del libro The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism e di No Logo. Ha una rubrica su The Nation e su The Guardian. Yotam Marom è un organizzatore politico, educatore e scrittore con base a New York. Ha partecipato attivamente al Movimento Occupiamo Wall Street ed è membro della Organization for a Free Society.

Fonte:
www.zcommunications.org Originale: The Nation, Traduzione di Maria Chiara Starace
The Nation, Traduzione di Maria Chiara Starace

Qui Desio, piccola capitale lombarda della ‘ndrangheta, fiera della sua basilica dei Santissimi Siro e Materno, con la cupola miracolosamente costruita senza il sostegno di colonne portanti, e orgogliosa del suo concerto di campane. La basilica è ben solida in piedi anche senza colonne e lo sarà ancora per secoli.

Ma il concerto di campane che risuona a Milano annuncia che è proprio qui che invece sta per venire giù rovinosamente la cupola che da un ventennio il celeste Roberto Formigoni ha edificato su Milano e sulla Lombardia. Con un cemento marcio, fatto di devozione al braccio affaristico di Comunione e Liberazione e di sottomissione a quello criminale della ‘ndrangheta calabrese.

Fatto di assessori regionali corrotti, di faccendieri, di tangenti, di appalti truccati, di disastri ambientali, di finanziamenti illeciti, nell’orgia di una nuova classe di politici lombardi senza scrupoli. Alcuni dei quali all’inseguimento soltanto di beni terreni, denaro, yacht, ville, viaggi, Porsche Cayenne nere e cocaina a fiumi. La specialità è di Massimo Ponzoni, membro dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale, ex assessore e pupillo del governatore, arrestato ieri.

Padre fattorino, il geometra Ponzoni a diciott’anni fonda uno dei primi club di Forza Italia e assurge al Consiglio comunale di Desio per approdare dopo pochi anni alla Regione, spinto dal braccio destro di Formigoni, Giancarlo Abelli, e da Mariastella Gelmini, indimenticabile ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo (si spera) governo Berlusconi. Ma soprattutto spinto dai boss calabresi di Desio, Natale e Saverio Moscato, nipote di Natale Iamonte, boss della ‘ndrina di Melito Porto San Salvo.

Ai pubblici ministeri occorrono oggi poche parole per inquadrare la personalità del pupillo di Formigoni, anche perché le sue gesta sono note da anni. Ma non sono bastate al governatore per scaricare l’uomo da ventimila preferenze in Consiglio regionale. A Desio, per dirne una, c’è una cava trasformata in discarica dove è stato versato di tutto. Una bomba ecologica. Ne parla al telefono Domenico Cannarrozzo, capo di una «famiglia», col latitante Fortunato Stellitano, il quale spiega: «Martedì vado a trovare Massimo e mi faccio fare lo svincolo, che è l’assessore all’Ambiente. Poi se vogliono che bonifichiamo anche sotto, ancora meglio». Massimo, naturalmente, è il pupillo di Formigoni, allora assessore all’Ambiente.

La Lombardia in quanto a rapporti mafiosi è come una provincia di Reggio Calabria, sostengono Gianni Barbacetto e Davide Milosa, che nel libro Le mani sulla città riportano un’intercettazione proprio del boss di Desio, Moscato: «A questo punto a Ponzoni - comunica il boss - dobbiamo dargli rilievo, lui è cazzo e culo con Formigoni e via dicendo, ci sono soldi anche per Ponzoni e pago. Quanto vuole, il 10 per cento? To’». E il mafioso interlocutore, previdente: «E ora che iniziano i lavori per l’Expo?» Il boss di Desio detta anche l’epitaffio - così almeno si spera - della politica lombarda degli ultimi lustri e dell’era Formigoni: «Ma che cazzo vuoi che capiscano destra o sinistra e via dicendo, basta che togli i soldi e, mannaggia la Madonna, fai il cazzo che vuoi».

Ponzoni è stato tradito da una mera questione di liquidità, il crac di alcune società, tra cui «Il Pellicano», in cui era socio dell’ex assessore regionale Giorgio Pozzi, di Rosanna Gariboldi, moglie di Giancarlo Abelli, già coinvolto nello scandalo Montecity e Massimo Buscemi, attuale assessore regionale alla Cultura.

Ironia della sorte, è proprio il ras brianzolo Ponzoni a prefigurare per sé e forse per Formigoni un destino simile a quello della Costa Concordia, affondata in un bicchier d’acqua di fronte al Giglio per la follia del suo comandante: «Caro Massimo - scrive in una metaforica mail al presidente di un gruppo immobiliare bergamasco che sta facendo una speculazione a Seregno - ti scrivo dopo aver fatto serie considerazioni a proposito di tre navi che stanno per affondare portandosi con sé 4/5 marinai di pregio. Potrebbe essere interessante per te salvare quel gruppo di marinai? ». Compreso il comandante Formigoni, che non ha tardato a smentire le utilità goduriose che avrebbe ricevuto tramite il suo pupillo oggi misconosciuto, ma che ormai è assediato dagli scandali della sua amministrazione.

È un po’ difficile nascondere le crepe della cupola lombarda persino per uno che per vent’anni è riuscito ad ammantare la più clientelare e scandalosa delle politiche con gli usurpati panni dello statista, in attesa di chiamata in riserva della Repubblica come delfino di Berlusconi e per il bene nazionale. Le firme false alle ultime elezioni, l’asilo alla maitresse pettoruta del Bunga Bunga onorata nel suo listino, la sanità e i finanziamenti a don Verzè e al sistema del San Raffaele, che ha prodotto un buco di almeno un miliardo e mezzo in corruzione, gli orrori della clinica Santa Rita, la teoria infinita di scandali e di tangenti, ultimo dei quali quello di Franco Nicoli Cristiani, arrestato pochi giorni fa per una vicenda corruttiva di rifiuti ordinatamente sistemati sotto l’autostrada Brebemi. Ora i palesi accordi ‘ndranghetisti e le gesta del pupillo che viene da Desio.

Tanto che persino nella Curia milanese e in Vaticano la pratica lombarda è ormai quotidianamente all’attenzione.

La maledizione del Pirellone ha falcidiato l’ufficio di presidenza della Regione formigoniana: prima Filippo Penati, la pecora nera del Partito Democratico, poi Nicoli Cristiani, per finire - ma chissà? - con Ponzoni, che Formigoni aveva imposto nonostante quasi tutto fosse noto sulla scalata senza freni etici di un piccolo politico di provincia sponsorizzato, con la forza delle sue debolezze, dalla ‘ndrangheta.

E adesso che comincia il censimento delle nefandezze speculative della banda lombarda non solo a Monza e in Brianza, ma in tutta la Lombardia, quanto potrà reggere senza più colonne, come la cupola con le campane di Desio, la cupola regionale del malaffare? Poco? Nessuno all’opposizione sembra avere il coraggio di dirlo con forza, forse per il timore degli sviluppi del caso Penati. Come se lo scandalo di Sesto San Giovanni, che ha impiombato il Partito democratico, avesse paralizzato l’opposizione. Un po’ timidamente, Luca Gaffuri e Maurizio Martina invocano una nuova legge elettorale regionale senza più listini bloccati pieni di Minetti e mascalzoni vari, e di andare al voto il più presto possibile. E la Lega? Annaspa tra le beghe familiste del Cerchio magico.

Difficile. Ma chissà che stavolta, per salvare la cupola della Basilica dei santissimi Siro e Materno, non sia la Chiesa milanese ad annunciare che la festa celeste della cupola affaristica formigoniana è finalmente finita.

Non è del tutto chiaro come mai Monti, che tanto ha insistito sullo sguardo lungo e l’Europa, abbia deciso di frenare lo scatto iniziale per dire d’un tratto ai tedeschi, in un’intervista alla Welt dell’11 gennaio: «Gli Stati Uniti d’Europa non li avremo mai. Non foss’altro perché non ne abbiamo bisogno». Forse è la prudenza a produrre un’affermazione così perentoria, che chiude orizzonti possibili. La battaglia contro gli egoismi di Berlino reclama compromessi. Forse è quella deferenza che lui stesso aveva stigmatizzato, il 26 giugno sul Financial Times: una sorta di virus che affligge i capi europei quando si compiacciono di sé per custodire apparenti sovranità. Nell’immediato e a casa i governi ne profittano - il potere degli esecutivi aumenta - ma in Europa quel che accampano è un diritto all’impotenza. O forse Monti non è un federalista, cosa senz’altro legittima se al diniego non aggiungesse la glossa un po’ stupefacente: della federazione «non c’è bisogno».

Non ce n’è bisogno, spiega, perché l’utopia di Ventotene è già realizzata, grazie alla sussidiarietà (quel che gli Stati non sanno fare da soli è delegato all’Unione sovranazionale, e viceversa). La sussidiarietà tuttavia dà risultati negli Stati compiutamente federali, non nell’Europa di oggi: se uno Stato affida incarichi a un’Unione senza statualità e di continuo paralizzata da 27 governi con diritto di veto, quando mai l’impresa funzionerà? Monti dice che il rimedio già c’è, ma nega la necessità dei mezzi per renderlo operante. Giunge addirittura ad annunciare che non ci saranno mai: per un Premier che nell’Unione è tra i più europeisti, e col coraggio dell’impolitico sta reinventando la politica, presumere con certezza un futuro ignoto è scommessa quantomeno azzardata.

Quel che è stupefacente, è l’ora storica in cui il federalismo viene sconfessato. I tempi bui sono sempre momenti di verità, e la verità la vediamo: l’alternativa alla federazione è una confederazione, che esclude un governo politico europeo, che dà il primato a finti Stati sovrani - limitandosi a migliorare coordinamento e reciproca sorveglianza - e che sta franando penosamente. La sorveglianza fa dell’Europa un panopticon, un Controllore: non prelude a un’azione comune, e di conseguenza non presuppone nuove competenze attive, non solo ispettive, degli organi sovranazionali (Commissione, Parlamento europeo). Non implica neppure la tutela delle democrazie: la prevalenza della concertazione economica, in nome dell’euro, aiuta paradossalmente gli autoritarismi - quello di Berlusconi ieri, quello ungherese oggi - a sopravvivere. Non così prima dell’euro: le terribili crisi dei cambi sempre provocavano cadute di governi. Non vorremmo che l’euro divenisse il garante di una Europa fondata sul doppio sacrificio del welfare e della democrazia.

Ernesto Rossi scriveva sin dal ‘52: «Federazione è l’arrosto; Confederazione è soltanto il fumo dell’arrosto. Coloro che dicono di volere un’unione confederale, in verità non vogliono niente; vogliono lasciare le cose come stanno, perché non sono disposti ad accettare alcuna limitazione delle sovranità nazionali». Il nome che Monti dà alla confederazione, denunciando il duopolio franco-tedesco, è «un’Europa dai molti centri (tra cui l’Italia)». L’arrosto ancora non c’è. C’è il fumo che avvolge i brancolanti superstiti degli Stati-nazione, consegnandoli alle furie dei mercati.

La tesi di Monti è la seguente: alcune economie europee vacillano, ma non l’euro. Basta dunque che ci si coordini meglio, e la solidarietà verrà. In parte il ragionamento tiene: oppressi dalla crisi, gli europei hanno sempre finito col fare qualche progresso, tanto grande in tutti è la paura dello sfascio. Quel che tiene di meno è l’analisi della crisi: venendo dagli Usa, essa «non è in alcun modo legata a un difetto del modello europeo (...) In Europa questa crisi non sarebbe mai potuta succedere. L’Europa è virtualmente in ottima posizione». Anche qui, la sicurezza è tanta. Sia l’Europa sia l’euro sono nati con imperfezioni gravi. La Banca custode della moneta è federale, ma ha le mani spesso legate (Monti l’ha detto a chiare lettere, ieri sul Financial Times). Le manca il rapporto dialettico con un governo egualmente sovranazionale, che le consenta di divenire prestatore di ultima istanza, come negli Usa, condividendo i rischi con il potere politico.

Questi non sono piccoli, ma grandissimi difetti di costruzione. Lo pensarono coloro che sin dall’inizio ammonirono contro l’«euro senza Stato». Lo afferma un rapporto sulla moneta unica, appena pubblicato per il Peterson Institute for International Economics: «Crediamo che la crisi europea sia politica, e in larga misura di presentazione», scrivono Fred Bergsten e Jacob Funk Kirkegaard. I due economisti americani appoggiano l’euro e l’unione fiscale decisa il 9 dicembre, ma aggiungono: «Fin dalla sua creazione negli anni ‘90, quel che è mancato nella moneta unica sono le istituzioni cruciali per assicurare il ripristino della stabilità finanziaria in tempi di incertezza acuta e di volatilità del mercato. Per questo il compito dei leader dell’eurozona va ben oltre i salvataggi (...) Essi devono riscrivere le regole dell’eurozona e completare una casa fatta solo a metà. Devono combinare misure finanziarie creative, per risolvere la crisi immediata, con un’ondata di nuove istituzioni».

Il federalismo non è subito attuabile, ma come orizzonte resta: «La maggiore sfida consiste nell’usare l’opportunità politica offerta dalla crisi per creare le basilari istituzioni (comuni), e completare nel lungo termine la casa lasciata a metà». Questo comporta, per Bergsten e Kirkegaard (anche per i federalisti europei), «revisioni aggiuntive e sostanziali dei trattati e delle istituzioni». L’Europa va ripensata sapendo che la via multicentrica-confederale non funziona. Quale via davvero alternativa tentare, se non quella federale?

Se il difetto di costruzione è l’euro senza Stato, lo stesso vale per le misure di rigore nazionali: anch’esse difettose, perché non compensate da un’Europa politica che generi crescita comune quando gli Stati non possono farlo. Domenica, su La Stampa, Enzo Bianchi ha detto una cosa illuminante: «Mi chiedo se uno dei motivi della progressiva disaffezione verso l’Europa non abbia anche a che fare con il fatto che non paghiamo direttamente alcuna tassa per il fatto di essere cittadini europei: cosa ho a che fare con quest’entità superiore che non ha una cassa comune alla quale io contribuisco? Si è infatti disposti a pagare di tasca propria solo per una realtà che ci supera ma che sentiamo nostra». Pagare un po’ meno tasse agli Stati e un po’ più tasse all’Europa, perché essa abbia un bilancio forte e investa in una crescita diversa (energie alternative, ricerca, trasporti, difesa, politiche mediterranee indipendenti dagli Usa). Questo è spendere meno e meglio, e dare una prospettiva al nostro mondo divenuto angosciosamente bidimensionale.

Molti ritengono che l’Europa federale abbia perso senso, ora che non è più questione di pace e guerra. Ma non meno drammatiche sono le crisi d’oggi: il welfare rattrappito, l’ineguaglianza, la miseria (dalla primavera scorsa negli ospedali greci mancano medicine). Per chi suona la campana della solidarietà, degli eurobond, dei debiti sovrani smorzati in comune, se non per noi che paghiamo il prezzo dell’Europa incompiuta? Non rischiamo più guerre fra Stati, ma il movente degli anni ‘40 rimane.

L’Europa non si edifica per creare il Bene (l’Identità e la Prosperità, secondo Monti): del Bene ognuno ha una sua idea, personale o identitaria. L’Europa serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri la guerra, oggi la contrazione economica, la povertà, il clima, le possibili guerre civili. Compito nostro è evitare che naufraghi come la nave Concordia, con tutti i comandanti che fuggono per salvare solo se stessi, alla maniera del capitano Schettino, dopo aver condotto il bastimento alla rovina.

Fuori un centinaio fra ecologisti e agricoltori con fischietti e striscioni, dentro i sindaci di poco più della metà dei Comuni dell´area del Parco Sud. Dentro e fuori dall´aula di Palazzo Isimbardi comunque al centro del dibattito il futuro dell’area agricola, ancora una volta messo in pericolo dai piani urbanistici che, poco alla volta, intaccano il progetto originario che tutelava il verde a sud di Milano. Due le varianti approvate dall’assemblea dei sindaco di Parco Sud convocati dal presidente della Provincia - e anche del parco - Guido Podestà, proprio per sottoporre all’attenzione dei primi cittadini le due modifiche del piano territoriale di coordinamento che riguardano circa 44mila metri quadri di verde nei comuni di Rosate e Vignate. Molto discusso soprattutto il provvedimento che consente l’ampliamento dell’nsediamento produttivo dell´azienda Schattdecor di Rosate, multinazionale che produce film plastici. A Vignate invece è stato autorizzato un polo di interscambio merci fra ferrovia e camion.

Le due varianti sono passate perché su 61 comuni convocati, solo 31 erano presenti in consiglio e di questi quattro si sono astenuti, mentre il solo sindaco di Opera, il leghista Ettore Fusco, ha bocciato le due varianti. Furibondi i manifestanti fuori dal palazzo. Dario Olivero, vicepresidente della Cia (confederazione italiana agricoltori) di Milano, Lodi e Brianza, ipotizza un ricorso al Tar e parla di «una vera violazione delle norme del parco per tre ragioni: non è stato rispettato l’iter previsto dalla legge per l’approvazione delle varianti, è stata diminuita la quota destinata a suolo agricolo e non è nemmeno stato avviato un confronto preventivo con tutte le parti interessate a quest’area». Replica il presidente della Provincia, Guido Podestà: «La Schattdecor dà oggi lavoro a 140 persone, grazie a questo intervento ne saranno assunte 20 e in futuro altre. È importante fare in modo che le aziende straniere continuino ad investire».

L’approvazione delle due varianti è duramente criticata dai manifestanti fuori dalla Provincia, in prima fila il Fai (Fondo italiano per l’ambiente) e Legambiente. «No al cemento e ogni forma di consumo del territorio che non tenga in considerazione la vocazione agricola che caratterizza i territori del Parco Sud - tuona il sindaco di Opera Fusco - Condivido la necessità di salvaguardare l’occupazione, ma non che si eroda suolo fertile per tutelare gli imprenditori». Pietro Mezzi, capogruppo dei vendoliani in Provincia di Milano, teme che «rischi più grandi siano nascosti nella futura variante al Piano territoriale, di cui si è fatta promotrice la Provincia, ente gestore del parco stesso. Così facendo, si rischia di perdere, un po’ alla volta, il progetto di parco agricolo metropolitano, polmone verde per tutto il territorio milanese». Oggi l’argomento parchi torna in Regione con un’interrogazione del Pd.

Il business delle maxi-crociere non ha avuto soste nel decennio 2000-2010 balzando nel mondo da 10 a 19 milioni di passeggeri. Nei porti italiani la crescita è stata addirittura del 397%, è continuata, malgrado la crisi, nel 2011 (+ 16%), prevedendo per il 2012 traffico stabile o in leggero aumento. Sino al tragico incidente del Giglio. Che pone una chiara esigenza di regole. Il gigantismo navale galoppa: la Costa Concordia con 112.000 tonnellate di stazza, 3.800 crocieristi a bordo e 290 metri di lunghezza passa in seconda fila dinanzi a colossi come la Allure of the Seas o la Oasis of the Seas dal tonnellaggio doppio, che possono portare l’una 5.400 e l’altra 6.360 passeggeri (più circa 2.000 uomini di equipaggio). Del resto, poco meno della metà delle supernavi commissionate ai cantieri offrirà più di 3.000 posti letto.

E il Mediterraneo sta salendo: era al 12, ora è al 18, presto potrebbe giungere al 20 % del business mondiale. Civitavecchia, il porto di Roma (da dove vanno e vengono i crocieristi per visite mordi-e-fuggi), coi suoi 2 milioni e mezzo di passeggeri “vede” ormai Barcellona fino a ieri primatista in Europa, ed è fra i top 10 del mondo con Venezia che, arrivata a 1,8 milioni di imbarchi e sbarchi, è il principale “home port” europeo. Tutto per bene? Per le società di navigazione certamente sì e anche per porti e cantieri. Meno bene per un Paese dagli equilibri ambientali e paesaggistici delicatissimi. Le proteste per l’ingresso di questi mastodonti fino al bacino di San Marco sono sempre più diffuse e vibrate. Per seri problemi di inquinamento: visivo, atmosferico e lagunare. Finché sono in navigazione, infatti, questi colossi non inquinano molto, ma quando rallentano e si avvicinano alle rive il loro contributo allo smog ha punte altissime: si calcola che a Los Angeles concorrano per un quarto alla grigia cappa sopra la città. Più l’inquinamento delle acque, ovviamente.

Si deve dunque parlare – come ha già fatto il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini – di rotte da proibire e da rettificare. Non più maxi-navi dentro la Giudecca e il bacino di San Marco. Non più fra le isole che formano il Parco dell’Arcipelago Toscano, né alle Bocche di Bonifacio come nelle acque del Santuario dei cetacei (messi in seria crisi dai sonar delle navi). Non più nelle vicinanze di arcipelaghi come le Eolie o come le Tremiti, e nell’attraversamento dello stesso Stretto di Messina dove le correnti (e lo scirocco, per un terzo dell’anno) sono assai forti. Tutto ciò per rispettare acque e paesaggi che si potranno continuare ad ammirare di lontano o navigando su più modesti traghetti e aliscafi, oppure sulle totalmente ecologiche barche da diporto a vela (quest’ultime formano una economia interessante, ben più incardinata localmente dei fuggevoli passaggi turistici di massa).

Insomma, senza sottovalutare il fatto che l’industria delle crociere – fra cantieri, porti, trasporti, soste a terra, ecc. - ha sull’Europa un impatto di 14 miliardi e mezzo di euro, dei quali 4 e mezzo sull’Italia, occorre evitare che essa debordi, schiacciando altri settori dello stesso turismo e minacciando l’ambiente, il paesaggio, i beni culturali. Non dobbiamo dimenticare infatti che questo business, cresciuto prepotentemente dai 500.000 crocieristi del 1970 ai 20 milioni di oggi, si giova dell’uso di beni primari come il mare, le coste, i paesaggi, le città storiche, cioè di beni pubblici, collettivi. La cui consunzione o il cui danneggiamento e/o inquinamento rappresentano una perdita secca. Irrimediabile per l’intero Paese.

Il titolo di questo dossier - E lle chiamano navi - riprende quello di un volumetto della preziosa collana "Occhi aperti su Venezia", dell'editore veneziano Corte del Fontego.

Nuove regole per quei colossi

Salvatore Settis – la Repubblica

E la nave non va. Templi del consumismo, le super-navi entrate in scena negli ultimi anni somigliano più a uno dei colossali alberghi di Las Vegas che a una nave. Come a Las Vegas, navi con migliaia di posti-letto vengono spacciate per lusso "esclusivo", ma sono macchine per vacanze, che macinano i piaceri standardizzati di una finta opulenza.

Vendono illusioni, spacciando per altamente personalizzato il più banale e commercializzato turismo di massa. Dare l’illusione del lusso tenendo bassi i costi: di qui la corsa al personale non specializzato, che all’occasione, si scopre, non solo non sa calare una scialuppa in mare ma nemmeno balbettare qualche parola d’inglese (così, pare, sulla Costa Concordia, affondata a pochi metri dal porto dell’isola del Giglio).

Il rito salutista del viaggio per mare miete vittime, solo qualche volta (per fortuna) in senso letterale come al Giglio. Altre volte, vittime sono i clienti, ma anche il paesaggio e l’ambiente. Come per contrappasso, queste navi "da crociera" fanno di tutto per somigliare a una città, anzi a una neo-città addensata in un grattacielo, con dentro shopping center e ristoranti, discoteche e cinema, negozi, palestre, teatri, casinò, piste di pattinaggio su ghiaccio, percorsi jogging, campi sportivi. Nulla, insomma, di più innaturale. Forse per questo il momento di gloria di queste navi-monstre è quando possono esibire il più vicino possibile a una città di terra la loro pomposa arroganza di città-artificio. Non c’è da stupirsi che il capitano della Concordia volesse avvicinarsi il più possibile all’abitato del Giglio: è quello che accade, più volte al giorno, con identiche navi che entrano nel bacino di San Marco sfidando con la loro mole pacchiana la millenaria basilica, i cavalli di bronzo strappati dai dogi a Bisanzio, il Palazzo Ducale. Anzi, allineandosi su campi e calli, e dando ai passeggeri l’insulso piacere di guardare Venezia dall’alto in basso. E le chiamano navi, così s’intitola un pamphlet di Silvio Testa della serie bemenerita "Occhi aperti su Venezia".

Alte fino a 60 metri e oltre, molto di più dei nobili palazzi del Canal Grande, le navi penetrano nel cuore di Venezia per osservarne la bellezza, ma la oscurano e la offendono, alterandone la percezione anche per chi di noi è a terra, o in gondola, o su un vaporetto di linea. Per esempio, la Voyager of the seas è alta 63 metri, lunga 311, larga 47, con 47 ponti; la Costa Favolosa, di poco più piccola, gareggia apertamente con Las Vegas proponendo repliche del palazzo imperiale di Pechino, del Circo Massimo di Roma, di Versailles. Intanto si alterano secolari equilibri portando la profondità delle bocche di porto da 9 a 17 metri (Malamocco), da 7 a 12 metri (Lido).

Viene allora il sospetto che le dighe mobili alle bocche di porto (MoSe) servano a incrementare questa stolta escalation anziché a salvare la città dall’acqua alta.

Un gruppo di Facebook Fuori le maxinavi dal bacino di San Marco raccoglie crescenti adesioni ma non smuove le autorità; invano Massimo Cacciari, da sindaco, aveva provato almeno ad escludere le navi più grandi. Invano lo Spiegel denunciò il problema in un duro articolo di Fiona Ehlers (21 febbraio 2011), premiato dall’Istituto Veneto. Invano Italia Nostra, in un appello poi accolto dall’Unesco, ha protestato contro queste degenerazioni che annientano la forma caratteristica della città e la sua vita civile. Paolo Costa, ex sindaco e ora presidente dell’autorità portuale, propugna invece il senso unico a San Marco per incrementare il traffico delle super-navi.

Un milione e mezzo di turisti l’anno, dopo aver gettato su Venezia un distratto sguardo dall’alto, scendono e si aggirano comprando qualcosa sulle bancarelle, pagando una qualche tassa d’accesso. Di fronte a tanto beneficio, pazienza se Venezia muore. Il denaro prima di tutto, in luogo di tutto.

E la nave (una di queste navi) non va, a Venezia. Lo hanno gridato ieri i manifestanti alle Zattere, accogliendo la Magnifica con striscioni come Big Ship You Kill Venice, e urlando «Sei troppo grande per questa città». All’orribile impatto visivo si unisce infatti un significativo incremento della torbidità delle acque, ma anche il rischio di collisioni e di sversamento di idrocarburi nel cuore della città, un rischio che cresce col numero delle mega-navi che vi sono ammesse (2000 transiti nel 2011).

Nessuno ha calcolato gli effetti della pressione di migliaia di tonnellate d’acqua sulle fragili rive di Venezia. Nessuno ha offerto dati sull’inquinamento da polveri sottili (500 tonnellate scaricate dalle navi a Venezia nel 2010); o sulla presenza in laguna di benzopirene, altamente tossico. Nessuno sa dire se l’incidenza di malattie tumorali che potrebbe avere questa causa sta crescendo in questi anni, anche se il Registro dei tumori segnala a Venezia un «eccesso significativo di neoplasia del polmone» ( i dati nell’opuscolo di Silvio Testa).

Il terribile incidente del Giglio sta attirando molta attenzione, ma a Venezia un simile incidente fu sfiorato il 23 giugno 2011, quando la nave tedesca Mona Lisa, lunga "solo" 200 metri, per un errore di manovra si incagliò a pochi metri dalla Riva degli Schiavoni. Dobbiamo aspettare qualcos´altro, perché le autorità del porto e del Comune pongano fine alla chiassosa sarabanda di navi "magnifiche" e "favolose", ma nocive alla più preziosa e fragile città del mondo?

Navi sempre più grandi per profitti sempre più grandi

Vittorio Emiliani – l’Unità

La vita non è mai un film. Tantomeno un film della levità visionaria di “Amarcord”. Ricordate la scena del passaggio del leggendario Rex appena al largo del Grand Hotel di Rimini, fra le barche dei concittadini di Fellini accorsi a remi per godersi lo spettacolo? Qualcosa di analogo succedeva sovente – come ha documentato ieri questo giornale con raccapriccio – in prossimità degli scogli dell’Isola del Giglio. Coi comandanti che salutavano azionando gioiosamente la sirena dall’alto di queste navi sempre più gigantesche, ricche di luci, di passeggeri e di profitti. Una gioiosità incosciente che ora ha il suono cupo della tragedia. Sono le stesse navi colossali, a più piani, che hanno fatto di Civitavecchia il primo porto passeggeri italiano, con quasi 2 milioni di transiti nel 2010, e che entrano persino nel bacino di San Marco, nonostante le vive proteste alzate dal sindaco Giorgio Orsoni.

Maxi-navi da 112-114.000 tonnellate di stazza, alte 70 metri, che possono trasportare circa 3.800 crocieristi, più un migliaio di uomini di equipaggio. Navi sempre più kolossal. Evidentemente per attrarre su questi enormi “alberghi galleggianti” quanti sognano di ritrovarvi le luci e i colori dei centri commerciali. I porti italiani attrezzati per questo traffico relativamente nuovo sono balzati da 18 a 38 nel primo decennio del terzo millennio. Anche se i rapporti turistici dicono che soltanto una parte di essi può accogliere mastodonti da 350 metri di lunghezza e la Costa Concordia, varata nel 2006 ed ora rovesciata come una gigantesca balena, al Giglio ne misura poco meno di 300. Il valore dei ricavi da crociere sul venduto complessivo delle agenzie di viaggio è montato, secondo Italian Cruise Watch 2011, dal 22 del 2000 al 31% del 2010, con punte del 50 %.

Una attività economica dalle ricadute anche territoriali assai ampie, che esigerebbe di venire gestita con meno faciloneria o leggerezza. Ora si punta l’indice accusatore sul comandante, sul suo ritardo nel segnalare dell’incidente, sull’abbandono del bastimento. Ma le falle nell’organizzazione del salvataggio paiono molteplici. Del resto, è davvero possibile assicurare, in caso di emergenza, l’evacuazione rapida e senza problemi per 3-4.000 persone con equipaggi che non sembrano dotati di alta professionalità, formati da marittimi per lo più non italiani, con scarsa conoscenza delle lingue, remunerati con salari che non attraggono un personale qualificato? Temo di no. Questo sembra dirci il tragico naufragio del Giglio. Malgrado una notte fredda ma serena e senza mare mosso. Malgrado il pronto accorrere degli isolani con le barche e il lavoro, al solito encomiabile, dei Vigili del Fuoco. Evidentemente maxi-navi del genere non vanno in alcun modo arrischiate laddove non ci siano fondali e altre condizioni di navigabilità di assoluta sicurezza. Evidentemente l’illusione di potere tutto dall’alto di questi colossi del mare può giocare tragici scherzi.

Assieme al dramma umano di vite spezzate, di persone gravemente ferite, di altre sotto choc, si profila il rischio ambientale delle 3.800 tonnellate di gasolio denso nei serbatoi del gigante riverso sugli scogli. Purtroppo, a quanto si sa, tali navi colossali non hanno scafi col doppio fondo. Del resto esso è stato imposto alle petroliere soltanto una decina di anni or sono dal governo Amato, ministro dell’Ambiente, Willer Bordon. Occorre quindi approfittare delle prossime giornate - di clima sereno, secondo le previsioni meteo – per svuotare i serbatoi della Costa Concordia. Cerchiamo di non aggiungere tragedia a tragedia.

Questa dell'Isola del Giglio sta diventando, di ora in ora, una autentica tragedia del mare. Soltanto per una "leggerezza"? Cioè per aver voluto rispettare la rischiosa tradizione di salutare da vicino, all'ora di cena o poco più, gli amici dell'isola, affascinati dal passaggio di quel colosso marino costellato di luci, con tanta gente a bordo quanti sono tutti gli abitanti del vicino Comune di Capalbio? Vedremo cosa diranno la scatola nera e le carte dell'inchiesta.

Ma il disastro - umano anzitutto ma con possibili risvolti ecologici - è figlio di molti padri. La rotta troppo ravvicinata ad una costa ricca di scogli e di isolotti è certamente la prima delle possibili cause. Aggiungiamoci anche un'idea troppo facile del gigantismo navale. Si pensava che la corsa verso navi da crociera sempre più grandi non potesse fermarsi e, con essa, la corsa a profitti sempre maggiori. E invece la dura legge dell'ambiente marittimo ha dato uno stop. Costato vite umane e sofferenze crudeli. In quella tal corsa è stato evidentemente sottovalutato il problema della sicurezza in caso di emergenza. Ma quale sicurezza può essere organizzata con pronta efficienza su di un mastodonte del genere, nottetempo, in modo tale da garantire una evacuazione sicura per oltre 3.200 passeggeri? Credo cioè che, per poterla assicurare, occorrerebbe un equipaggio non soltanto superiore ai 1.023 componenti della Costa Concordia, ma ben più preparato di quello in servizio. Coi riflessi sui bilanci della società di navigazione facilmente immaginabili.

In realtà ci si è illusi che una emergenza del genere non fosse possibile, che il "sogno" di questa colossale love-boat non potesse conoscere ombre. Pensate cosa sarebbe successo se la notte non fosse stata di queste che stiamo avendo, rigide e però serene e senza vento, ma una notte con mare mosso, da libeccio per esempio. E se non fossero accorsi, generosamente (o non fossero potuti accorrere) con le barche gli isolani. Il bilancio sarebbe stato ancor più doloroso di quanto già non sia. Fra i rilievi critici si aggiunge il fatto che l'equipaggio non fosse di livello adeguato anche perché formato da extra-comunitari con scarse nozioni di italiano. Da anni ormai i salari offerti dalla nostra marineria sono così poco invitanti da aver allontanato dalla navigazione i giovani italiani delle zone di mare, anche quelli, non numerosi, che a bordo salirebbero ancora a lavorare, e non soltanto come camerieri. Sin dalle prime ore l'indice accusatore è stato puntato sul comandante della maxi-nave che avrebbe dato con un'ora di ritardo il segnale d'allarme a terra e che a mezzanotte risultava già sbarcato sul molo di Porto Santo Stefano e non più a bordo a dirigere le operazioni di salvataggio. Vedremo se tutto ciò sarà confermato.

L'altro problema angoscioso che sta emergendo, nel momento in cui i Vigili del Fuoco, al solito esemplari, stanno completando il loro duro lavoro, è quello ambientale. Sono cioè le 2.380 tonnellate di gasolio contenute nei serbatoi di questa nave che, al pari delle consorelle, non è dotata di doppio fondo. Come non lo erano, fino a qualche anno fa (se non erro fino al governo Amato del 2000, con Willer Bordon titolare dell'Ambiente), petroliere e superpetroliere che pure vedevamo transitare nello stesso bacino di San Marco a Venezia. Dove questi mastodonti da crociera - nonostante le vibrate proteste del sindaco Orsoni - continuano ad entrare, scaricando sulla fragile Venezia fiumane di turisti mordi-e-fuggi. E così leggerezza e sfruttamento formano una perversa alleanza. Fino a quando?

A tre anni dai primi rinvii a giudizio, l'inchiesta che svelò la criminosa gestione dell'emergenza monnezza, non ha mai visto la luce. Tutto bloccato tra eccezioni di competenza territoriale e pronunce di Cassazione che tardano ad arrivare. Mentre l’orologio della prescrizione continua a ticchettare

E’ stata l’indagine più dirompente e clamorosa sull’immondizia napoletana. Ha messo sotto accusa chi avrebbe dovuto ripulire la Campania e invece ne ha aggravato lo scempio ambientale. E’ stata chiamata ‘Rompiballe’, dal contenuto di un’intercettazione telefonica in cui si parlava di ecoballe di monnezza pressata “che se le rompevi, usciva fuori di tutto, anzi apriamole e utilizziamo ciò che esce come scarto”. In una gragnuola di arresti, svelò l’amministrazione pasticciata e scriteriata dell’emergenza rifiuti e gli sversamenti improvvisati e illegali senza rispettare le norme di prevenzione, rivelò inquietanti conversazioni telefoniche di funzionari pubblici consapevoli che si stava giocando sulla pelle dei cittadini, mise sotto inchiesta uno degli uomini più potenti dell’epoca, Guido Bertolaso, il commissario straordinario di tutte le crisi, compresa quella eterna della spazzatura in Campania. Proprio sui reati da contestare all’ex sottosegretario ai rifiuti la procura di Napoli si spaccò in due, con il capo dell’ufficio, Giandomenico Lepore, fautore di una linea morbida verso Bertolaso (prosciolto per le accuse più gravi e rinviato a giudizio solo per alcuni reati contravvenzionali) e i sostituti titolari del fascicolo, Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo, che per protesta dismisero le indagini, tolsero la firma dalla richiesta di rinvio a giudizio e in seguito hanno chiesto e ottenuto il trasferimento ad altri uffici giudiziari.

Molto rumore per nulla. Carte seppellite in trenta faldoni che viaggiano tra Napoli e Roma. Non c’è un Tribunale che avvii il processo. A tre anni e mezzo dai provvedimenti cautelari, a tre anni dai primi rinvii a giudizio (avvenuti il 29 gennaio 2009), l’accertamento della verità sui fatti contestati ha preso la piega di un romanzo kafkiano. In pratica non è stata mai celebrata un’udienza vera. Tutto bloccato tra eccezioni di competenza territoriale e pronunce di Cassazione che tardano ad arrivare. Mentre l’orologio della prescrizione continua a ticchettare (le prime scatteranno nel 2014) ‘Rompiballe’ marcia spedita a conquistare un posto in cima tra gli esempi di malagiustizia e inefficienza. Fino a scontentare tutti: magistrati, imputati, avvocati e parti lese, ovvero i cittadini campani vittime, secondo le parole scritte dal Gip Rosanna Saraceno, di “una colossale opera di inquinamento del territorio”.

La storia del processo ‘Rompiballe’ è un gomitolo di nodi. Proviamo a riassumerla. L’inchiesta, su decisione di Lepore, viene divisa in due tronconi. Nel primo c’è la ex vice di Bertolaso, Marta di Gennaro, e altri 24 indagati. Finiscono tutti alla sbarra con accuse pesantissime: smaltimento illecito di rifiuti, truffa, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio. Nel secondo troncone c’è Bertolaso insieme ad altri ex commissari straordinari e consulenti della struttura commissariale, la cui posizione viene stralciata per un supplemento d’indagini. Alla fine questi vengono tutti prosciolti per i reati più gravi, ma Bertolaso viene rinviato a giudizio con decreto di citazione diretta per il reato minore di “gestione dei rifiuti in assenza delle necessarie autorizzazioni”: è di competenza del giudice unico e non necessita del vaglio del Gup. Tra le archiviazioni, spicca quella del pm di Napoli Giovanni Corona, per un periodo consulente al commissariato per l’emergenza. Il suo proscioglimento è la palla di neve che poco alla volta diventerà la valanga che ha travolto il processo. Ma andiamo con ordine.

Il processo a De Gennaro&C. inizia davanti al Tribunale di Napoli. I legali degli imputati sollevano un’eccezione. L’inchiesta – sostengono – andava trasferita a Roma per ‘connessione funzionale’ – per la presenza tra gli indagati di un magistrato di Napoli (Corona, ndr), che radicherebbe la competenza presso l’ufficio giudiziario assegnatario dei procedimenti sui colleghi napoletani: Roma, per l’appunto. La Procura napoletana si oppone. Inutilmente. Il 16 dicembre 2009 il Tribunale accoglie l’eccezione e spedisce tutto a Roma. Come nel gioco dell’oca, si torna al punto di partenza. La Procura capitolina deve ricominciare da capo: richiesta di rinvio a giudizio, notifiche, udienza preliminare, seconda udienza preliminare per perfezionare le notifiche (al primo tentativo ce n’è sempre qualcuna che non va a buon fine). Altri mesi e mesi gettati nell’infernale meccanismo della burocrazia giudiziaria. Intanto a Napoli anche il giudice unico che dovrebbe processare Bertolaso si adegua all’ordinanza del Tribunale e si spoglia del fascicolo, inviandolo nella Capitale.

A Roma il colpo di scena. Il pm Barbara Sargenti, ex sostituto della Dda di Napoli, va in udienza preliminare e difende le ragioni dei colleghi inquirenti napoletani: il processo va celebrato a Napoli perché a suo dire la ‘connessione funzionale’ non esiste più con il proscioglimento del magistrato coinvolto. Il Gup ritiene non infondate le ragioni della dottoressa Sargenti e passa la palla alla Cassazione, l’unico ufficio che in questi casi può dirimere il conflitto. E ovviamente anche il processo-bis a Bertolaso si ferma di nuovo. Tutti col fiato sospeso. La sezione di Cassazione investita del caso fissa un paio di udienze, poi congela la decisione. Motivo? Le Sezioni unite della Cassazione, per un’altra vicenda, stanno per emettere una sentenza che farà giurisprudenza sulle controverse questioni della ‘connessione funzionale’. Peccato che questa sentenza debba arrivare, sta per arrivare, ma non è ancora arrivata. E intanto la sezione competente sull’eccezione ‘Rompiballe’ ha fissato una nuova udienza per il 2 marzo 2012. Tre anni e due mesi dopo i rinvii a giudizio. In un paese normale sarebbe un tempo più che sufficiente per emettere una sentenza definitiva di colpevolezza o di innocenza su una vicenda di notevole interesse pubblico. In questo caso forse non basteranno nemmeno a sapere dove e quando iniziare il processo.

«Io non lancio aut aut, sono molto rispettoso verso il Pd, ma se la prospettiva di un nuovo Ulivo di cui ha parlato Bersani non c’è più perché c’è una svolta a destra, noi saremo competitivi con il Pd in maniera virulenta. Parleremo al suo popolo dal momento che gli stati maggiori si possono anche dividere, ma il popolo di centrosinistra è uno soltanto e ha più volte dimostrato che vuole un cambiamento». Non è un aut aut ma ci somiglia moltissimo e Nichi Vendola non ci tiene neanche troppo a smorzare i toni perché questa storia della Federazione tra Pd e Terzo Polo a cui lavora Fioroni, o quell’altra secondo cui la legge elettorale devono studiarsela a tavolino Pdl, Pd e Terzo Polo, come auspica Letta, per il leader di Sel è davvero troppo. E niente sconti alla politica europea, di destra, di cui il governo Monti è soltanto «una variabile colta e illuminata».

Vendola, la S&P declassa mezza Europa e l’Italia scende in serie «B». Che sta succedendo?


«Ormai siamo di fronte ad una situazione insostenibile e paradossale. L’Europa si sta sgretolando e il male oscuro che la divora è quel clamoroso deficit di politica e democrazia che la rende priva di soggettività reale nella scena del mondo. Un’Europa inesistente, priva di narrazione, che non assomiglia per nulla alla grande utopia europeista che l’ha ispirata, alla Altiero Spinelli o alla Willy Brandt. È ormai prigioniera della mediocrità della destra europea, della più incapace classe dirigente ben incarnata dalla coppia Merkel-Sarkozy».

Condivide il monito del Capo dello Stato che esorta gli stati ad una vera unità politica e economica?


«Prima bisognerebbe chiedersi perché è finita così: è nel fatto che l’Europa oggi è quasi interamente governata dalla destra e la sinistra, folgorata sulla strada del liberalismo, con le sue mille torsioni moderate ha regalato l’Europa all’egemonia culturale, politica e economica della destra».

Lei dice: Europa responsabile del suo fallimento. Ma sulle agenzie di rating non ha nulla da dire?
«Il fatto che i luoghi opachi privi di credibilità come le agenzie di rating, possano avere un peso nello spianare la strada all’assalto speculativo dei loro proprietari, visto che operano per conto di soggetti economici importanti, non mi stupisce. Piuttosto è la mancanza di un’agenzia di rating europea un’altra prova del carattere fiacco dell’Unione».

Intanto nel centrodestra c’è chi inizia a dire che non era colpa di Berlusconi, come spread dimostra.

«Di questa Europa così spettrale e priva di visione il governo Monti rappresenta una variante colta e illuminata ma non un’alternativa. L’unica alternativa possibile è l’Europa sociale che solo le forze socialiste, socialdemocratiche ed ecologiste del vecchio Continente possono ricostruire. Anche perché si sta dimostrando che le politiche tecnocratiche a cui anche l’Italia partecipa, non solo sono socialmente inique ma anche inefficaci».

Dunque, meglio le elezioni anticipate come auspicano Berlusconi e Bossi?

«Non credo che sia nelle intenzioni di Berlusconi andare al voto. Ha tutto l’interesse ad aspettare per smarcarsi il più possibile dalla crisi, per apparire estraneo alle ragioni del disastro che sta vivendo l’Italia. In questo modo può caricare il governo Monti di una responsabilità che in realtà appartiene tutta al ventennio berlusconiano. La Lega poi, non mi sembra sia in condizione da affrontare le elezioni, si sta squagliando. Il fatto che si sia salvato Cosentino in Parlamento dimostra che hanno bisogno di guadagnare tempo per recuperare terreno e organizzare, contro la quaresima tecnocratica che vive il Paese, una riscossa del populismo».

Però anche il Pdl inizia a minacciare il governo Monti.


«Fa impressione vederli oggi come avversari dei poteri forti, proprio loro che hanno sempre garantito gli evasori, la ricchezza, anche quella criminale... Attenzione, lo dico soprattutto al Pd».

Cosa rimprovera a Bersani?

«Non rimprovero alcunché, dico che la questione oggi, sia in Italia sia in Europa, è la giustizia sociale. Il Pd non può avere un’azione incisiva sulle politiche di Monti perché la sua capacità è stata annientata a monte, dalla parte più moderata del partito. I gruppi dirigenti, alcuni, hanno impedito un negoziato più stringente sulla direzione del governo Monti che finora ha evocato scenari, ma non sciolto i nodi, dalla patrimoniale alla tobin tax. Sel ha organizzato il 22 gennaio a Roma un’assemblea nazionale con un titolo chiaro: “Per la giustizia sociale. Una nuova sinistra per salvare l’Italia”. Ci saranno Pisapia, Landini, De Magistris, Michele Emiliano... esperienze di governo fatte di riformismo radicale».

Vendola, tra l’Idv e il Pd i rapporti sono al lumicino, Vasto un ricordo lontano. Come ci arriva il centrosinistra alle elezioni?

«Sarebbe un errore imperdonabile immaginare che l’Idv rappresenti un impiccio o un fardello di cui liberarsi».

Perché il Pd dovrebbe dialogare con un partito che lo attacca ogni giorno?

«Il nostro alleato principale, il mio e di Di Pietro, non può pensare di non sciogliere mai i nodi della prospettiva, per cui ogni giorno leggiamo che Enrico Letta la legge elettorale la vuole fare in modo che definire autoritario è un eufemismo, oppure che Fioroni vuole fare la Federazione con il Terzo Polo. Ma se quello è il destino io e Di Pietro non abbiamo paura a metterci a capo di un altro polo di governo, alternativo al Pd. Non intendo più immaginare che per la sinistra ci sia soltanto un destino di testimonianza democratica».

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