Davvero qualcuno pensa di salvare l´Europa così, spezzando le reni alla Grecia? Proprio a ciò stiamo assistendo, con disagio: l´illusione nefasta di restituire unione al Vecchio Continente con il bastone dell´austerità. estando la rivolta di piazza Syntagma e contrapponendo un Parlamento prigioniero al suo popolo affamato. La sequenza di provvedimenti dettati dalla Troika al governo di Atene ricorda l´indifferenza del boia piuttosto che non l´abilità del chirurgo. Questa entità burocratica, composta dalla Commissione di Bruxelles, dalla Banca centrale di Francoforte e dal Fondo monetario di Washington si propone di erigere un firewall, cioè un muro antincendio, come estrema difesa dell´euro. E pazienza se al di là di quel muro sono i greci a bruciare.
Dietro la Troika che ogni giorno inasprisce le sue richieste di sacrifici – non basta, non basta, non basta – si riconosce inconfondibile la sagoma dominatrice della Germania. «Non dobbiamo dare l´impressione che non debbano sforzarsi», ha dichiarato ieri il ministro tedesco dell´economia, Wolfgang Schaeuble. Aggiungendo che la Grecia rimarrebbe in Europa anche se ritornasse alla dracma. Prospettiva, questa, che ormai gli avvoltoi della finanza internazionale sembrano auspicare. Sono gli stessi gnomi che tre mesi fa posero il veto al referendum indetto dal primo ministro socialista Papandreou, allora con buone chances di vincerlo, nella speranza che la difficile scelta di restare nell´eurozona venisse cementata dal suffragio popolare. Come è noto Papandreou fu costretto a cedere il posto al tecnocrate Papademos, uomo di fiducia di Francoforte. Ma ora neanche questo basta più. La Troika non vede di buon occhio la scadenza del prossimo mese d´aprile, quando i greci dovrebbero eleggere democraticamente un nuovo Parlamento e un nuovo governo. Teme che la volontà popolare contraddica il piano di lacrime e sangue cui ha vincolato la concessione di ulteriori prestiti. Esige un commissariamento della sovranità nazionale che non è previsto da alcun trattato, e quindi delinea una nuova forma di colonialismo il cui dominio si fonda non più sugli eserciti ma sul debito.
L´europeismo rigoroso e solidale che mira a una vera unione politica e fiscale, esce umiliato da questa tragedia greca che i governi di destra, a Berlino come a Parigi, hanno lasciato degenerare, temo, per fini pedagogici: colpiscine uno per educarne cento.
La stessa ragionevole constatazione del presidente Napolitano – «l´Italia non è la Grecia» – suona come un´estrema autodifesa. Perché è vero che disponiamo di risorse ben maggiori in confronto al vicino ellenico, la nostra società sta sopportando meglio la cura del risanamento, e le forze politiche garantiscono una maggioranza irrequieta ma solida all´azione del governo Monti. Ma la bancarotta che sta accelerando l´uscita della Grecia dall´eurozona rende meno probabile la tenuta della coesione sociale in casa nostra. L´Italia non è la Grecia, d´accordo. Come reprimere però il disagio provocato dallo spettacolo di una nazione costretta a licenziare, tagliare gli stipendi, rinunciare a prestazioni sociali essenziali, il tutto per pagare gli interessi sul debito, ma sapendo che ciò non comporterà alcun rilancio della sua economia? Finora ha prevalso fra noi un atteggiamento di distacco nei confronti delle sofferenze dei greci: in fondo se la sono voluta, avevano truccato i conti, vivevano al di sopra delle loro possibilità… Ma di fronte allo strangolamento in atto, non occorre richiamare gli antichi sentimenti filo-ellenici del romanticismo e della carboneria – da Lord Byron a Santorre di Santarosa – per sentirsi coinvolti nel destino di un Paese a noi così prossimo. Se questo è l´esito ultimo delle politiche d´austerità che privilegiano il pagamento del debito, coloro i quali hanno davvero a cuore la prospettiva europeista, non devono forse correre ai ripari?
L’incertezza rischia di uccidere le aziende, esattamente come la decisione di tagliare loro in modo indiscriminato il finanziamento diretto. Quello che resta certo e incontrovertibile sono i tagli retroattivi applicati agli stanziamenti relativi al 2010 su importi già messi a bilancio e spesi dalle aziende. Resta l’incertezza sui finanziamenti relativi al 2011, praticamente già anticipati dalle banche e spesi. E su quelli relativi all’anno in corso.
Una situazione ingestibile per qualsiasi azienda. Tanto più per un settore da tempo in crisi. Lo attesta la sequela drammatica delle testate che annunciano la loro chiusura: la liquidazione coatta de il manifesto e prima ancora sospensione delle pubblicazioni di Liberazione e di Terra e di tante altre testate cooperative e locali. Per non parlare delle emittenti locali. Lo stesso destino de l’Unità è appeso ad un filo. Per non parlare del Riformista, del Secolo d’Italia, di Europa, della Padania, di Avvenire. È il pluralismo dell’informazione ad essere minacciato.
Non erano allarmistici gli appelli lanciati nei mesi scorsi dal Comitato per la libertà d’informazione e la difesa del pluralismo, l’organismo unitario che raccoglie voci e sensibilità politiche e culturali diverse (dalla Fnsi a Mediacoop e Federcoop, dalla Cgil alla Federazione dei settimanali cattolici, dalla Cisl all’Associazione art.21 per la libertà d’informazione) sulle oltre 100 testate a rischio chiusura e sui quattromila lavoratori che rischiavano di perdere il posto di lavoro. Una situazione drammatica denunciata con chiarezza già lo scorso anno dai direttori di cento testate al presidente del consiglio, Mario Monti, ai presidenti di Camera e Senato, Fini e Schifani e ai segretari dei partiti rappresentati in Parlamento. E ancora prima nella lettera inviata al capo dello Stato, Giorgio Napolitano che ha fatto propria questa preoccupazione, raccomandando al governo attenzione alla tutela del pluralismo nel rigore.
Una linea condivisa da tutti. Anche dal premier Monti e ribadita dal sottosegretario con delega all’Editoria, Carlo Malinconico che si era impegnato a definire ai primi di gennaio di quest’anno i nuovi criteri, più rigorosi, legati alla vendita in edicola e al numero dei dipendenti assunti a tempo indeterminato. Bonifica, rigore e risorse: questo era l’impegno. Compresa una disponibiltà ad integrare i tagli al Fondo editoria voluti dal ministro Tremonti. Il settore non chiedeva una cifra straordinaria: 180 milioni di euro. Sarebbe costato di più far fronte ai prezzi della crisi del settore.
Ma dalla Finanziaria di Monti non vi è stato alcuna integrazione ai finanziamenti «diretti». Solo l’apertura di una finestra: l’utilizzo del «Fondo Letta», quello a disposizione della presidenza del Consiglio per fronteggiare le emergenze e le calamità naturali, per integrare il Fondo per l’editoria e far fronte alle situazioni di crisi del settore. È rimasta una «finestra» vuota. Non per Radio radicale che si è vista rinnovare la sua convenzione milionaria. Si è atteso il Milleproroghe, ma malgrado gli emendamenti presentati in Parlamento, la risposta non è arrivata. Sino ad oggi non vi è alcuna integrazione ai 53 milioni del Fondo editoria e nessuna indicazione sui nuovi criteri per accedervi.
Vi sarà un decreto ad hoc della presidenza del Consiglio? I tempi sono strettissimi, servono indicazioni precise. Le proposte sono da tempo sul tavolo. Le ha presentate la Federazione della Stampa, con il segretario Franco Siddi, Mediacoop e gli altri soggetti. Il confronto avviato con il sottosegretario Malinconico, è stato ripreso con il successore Paolo Peluffo. Cosa si aspetta? Siamo a metà febbraio. La situazione per il settore si fa sempre più drammatico. Il premier Monti, suo malgrado, rischia di portare a termine quello che non è riuscito a Berlusconi: la chiusura delle voci critiche e autonome, che non rispondono ai grandi potentati economico-finanziari. Se l’obiettivo di questo governo «tecnico» è quello di coniugare equità e sviluppo, può perseguirlo rinunciando a tutelare il pluralismo e quelle voci che alla domanda di equità danno voce.
«Più determinato che mai» sulla strada delle riforme, Mario Monti torna dalla sua visita negli Stati uniti con un surplus di legittimazione politica che nemmeno cento voti di fiducia del parlamento italiano avrebbero potuto assicurargli. È un indice significativo di quanto stiano cambiando, sotto il combinato disposto della globalizzazione e della crisi economica, le regole del gioco della politica nelle democrazie occidentali, un cambiamento di cui il caso italiano, nella sua apparente eccentricità e anomalia, si rivela ancora una volta laboratorio di frontiera. Dove infatti le contraddizioni del gioco, lungi dal chiudersi, si riaprono.
Sul successo del viaggio americano del premier «tecnico» italiano c'è poco da dubitare. Accompagnato da un'investitura mediatica che rende ancor più patetici, retrospettivamente, i rovinosi tentativi di Berlusconi di accreditarsi sulla scena internazionale a suon di battute e barzellette, l'endorsement di Obama risponde certo a ragioni geo-politiche e geo-economiche stringenti - al primo posto il ritrovamento, sotto i colpi della crisi, dell'importanza dell'asse transatlantico nella politica americana, e la necessità di una sponda europea nel conflitto più o meno dichiarato con la gestione della crisi di Angela Merkel. Ma corona anche il lungo lavorio diplomatico del Quirinale - cominciato con l'accoglienza di Obama alla vigilia del G8 dell'Aquila nell'estate del 2009, e proseguito con la visita di Napolitano alla Casa Bianca nel maggio successivo - volto a «salvare» l'immagine nazionale dal discredito berlusconiano. Quelle fotografie del 2009, con i grandi della terra accolti fra le macerie dell'Aquila da un premier sommerso dagli «scandali sessuali» su tutti i media del mondo, sono archiviate. Italy is back, con tutt'altra faccia, sobria e competente, rispettabile e affidabile. Per chiunque si sia trovato negli ultimi anni a render conto a un tassista o a un giornalista, a un amico o a un'università di dove fosse precipitata l'Italia, non c'è che da rallegrarsi.
Da qui a parlare di un nuovo De Gasperi, come fa l'ex ambasciatore Gardner salendo a ritroso sulla macchina del tempo, o del Salvatore dell'Europa, come ha fatto il Time facendola partire in quarta, ce ne corre. Non siamo nel secondo dopoguerra ma nel pieno della guerra economica in corso, e il discreto ottimismo di Monti sull'eurozona e sull'Italia può servire a rassicurare Wall Street e i think tank, ma non i greci oltre l'orlo del crack, né gli italiani provati dalla sua ricetta pedagogica fatta di competizione e concorrenza e piegati dal debito a rispondere «con soli tre giorni di sciopero» alla riforma della previdenza.
Non solo: Angela Merkel è sempre lì e delle politiche keynesiane adombrate da Obama non vuol saperne, l'Europa monetaria manca sempre di un governo politico, l'euro è tutt'altro che in salvo. Di più: alla legittima incredulità di Obama sulla capacità delle politiche del rigore di rilanciare la crescita Monti non dà risposta, né si allinea al presidente americano nel giudizio sulla finanza emesso nel recente discorso sullo stato dell'Unione.
Ce ne corre anche a voler dedurre dalle stellette americane la consacrazione garantita di Monti a un futuro politico tutto in discesa, e la morte volontaria e certificata, per inutilità, della politica nazionale. È il teorema automatico prospettato ieri dal quotidiano della Confindustria (e già vagheggiato da Casini), un bell'accordo pre-elettorale che trasformi l'appoggio temporaneo al governo tecnico in una Grande Coalizione montiana blindata per la prossima legislatura: tanto i partiti non sanno fare niente, a governare ci pensano i tecnici, e le elezioni, com'è noto, sono diventate un rito superfluo. C'era una volta l'Europa, culla della politica antica e moderna. È davvero la tecnica che può salvarla?
L’Unità
Mani Pulite? D’Ambrosio:
«Il Paese perse la grande occasione per battere la corruzione»
di Rinaldo Gianola
«Abbiamo perso una grandissima occasione»: le amare parole di Gerardo D’Ambrosio, per una vita magistrato a Milano indagando da Piazza Fontana a Tangentopoli e oggi senatore Pd, raccontano la delusione per il fallimento di una stagione che avrebbe potuto cambiare profondamente il Paese.
Dottor D’Ambrosio, che cosa abbiamo perso?
«Abbiamo smarrito l’occasione di sconfiggere la corruzione, il cancro che avvelena la politica e l’ economia. Siamo ancora qui a invocare la cultura della legalità, altrimenti non c’è possibilità di risanamento, di rinascita, di sviluppo».
Vent’anni fa, invece, la speranza di cambiare c’era davvero?
«Sì. Mani Pulite raccolse un consenso enorme nell’opinione pubblica perchè le nostre inchieste svelavano quanto fosse grave e profonda la questione morale. Spadolini e Berlinguer avevano già denunciato il degrado dei partiti, la gestione corrotta della cosa pubblica. Ma nel 1992 l’Italia comprese come la corruzione stava distruggendo l’economia. Avevamo un debito pubblico enorme, pari al 120% del Pil, eravamo in condizioni terribili, simili a quelle di oggi, con Giuliano Amato costretto ad adottare misure straordinarie».
Qual era la malattia della Prima Repubblica?
«La corsa al finanziamento illecito da parte dei partiti era massiccia, sfuggiva a qualsiasi valutazione. La corruzione si era infiltrata nella burocrazia, nell’amministrazione, i partiti decidevano chi doveva vincere gli appalti. I corrotti facevano carriera, gli onesti no».
Come reagirono i cittadini?
«All’inizio l’inchiesta ebbe un grande successo. L’opinione pubblica rimase indignata dallo sperpero di denaro pubblico. Il potere politico non reagì, anzi in molti approvarono la nostra azione e forse ci illudemmo che la classe politica avrebbe cercato di cambiare, di emarginare i corrotti, di avviare il rinnovamento. Ma non successe nulla».
Perchè?
«Il clima cambiò presto, soprattutto tra i partiti. Ci fu un episodio che segnò questo passaggio. Per errore la Guardia di Finanza si presentò alla Camera per chiedere i bilanci che avrebbe potuto acquisire dalla Gazzetta Ufficiale. Fu un chiaro incidente, un equivoco, noi chiedemmo subito scusa, ma la frittata era stata fatta. Il fatto scatenò la prima forte reazione della politica contro la magistratura. Da quel momento partì una campagna di delegittimazione dei giudici che, per la verità, non si è più spenta. Iniziarono a piovere le accuse contro la Procura di Milano. Secondo alcuni facevamo troppi arresti, ma tutti i nostri provvedimenti erano accettati e firmati dal Gip. Noi perseguivamo i responsabili di gravi reati».
Le Istituzioni compresero la gravità degli episodi che emergevano da Mani Pulite?
«Il presidente Scalfaro intervenne per raccomandare che venissero allontanati dalla politica tutti coloro che erano implicati nelle inchieste. Poi ci fu il tentativo di mettere tutto a tacere, con il pacchetto Conso che venne ritirato per la nostra reazione, ma l’obiettivo era chiaro. Successe di peggio, dopo la vittoria elettorale di Forza Italia, con il decreto Biondi che voleva scarcerare gli imputati di corruzione e concussione e di fatto impedire che si perseguissero i corrotti».
Voi giudici di Mani Pulite siete stati accusati di aver avuto un occhio di riguardo per la sinistra. Anche Carlo De Benedetti, recentemente, ha detto che l’inchiesta salvò i comunisti...
«Pensi che nella mia carriera di magistrato sono stato accusato di essere fascista, comunista e persino di aver protetto l’ingegner De Benedetti... Non scherziamo, sono tutte balle. Le parole di De Benedetti sono gravi perchè puntano a delegittimare la magistratura. Esponenti di rilievo del Pci finirono in carcere, le inchieste andarono avanti senza riguardo per nessuno. Magistrati come Davigo e Di Pietro, poi, non potevano nemmeno essere sospettati di essere di sinistra».
Perchè Mani Pulite a un certo punto smarrì la sua forza propulsiva?
«Questo, forse, è il capolavoro di Silvio Berlusconi. Se la ricorda Retequattro? Trasmetteva in diretta da palazzo di Giustizia, con Paolo Brosio che elencava gli arresti tra gli applausi dei passanti. Forza Italia vince le elezioni del 1994 sull'onda dell’antipolitica, contro i partiti che rubano. La mistificazione mediatica e politica fu enorme perchè il creatore, il leader di Forza Italia era indagato e imputato. E quando Berlusconi arriva al governo le sue misure sono coerenti con le sue responsabilità e mirano a frenare l’azione della magistratura. Ho ricordato il decreto Biondi. Quindi c’è il tentativo di cambiare il codice di procedura penale annullando le confessioni rese al pm o alla polizia, poi la ex Cirielli con il taglio dei termini della prescrizione. E siamo alla legge ad personam per eccellenza, quella per alleggerire il falso in bilancio. È una legge propedeutica alla corruzione, favorisce la creazione di fondi neri». E la sinistra? Ha commesso errori? «Dal mio punto di vista la sinistra poteva fare di più, nel Paese e in Parlamento, per la difesa della legalità. Penso che qualche volta abbia rinunciato a dare battaglia, si è adeguata per comodità, per evitare tensioni. Negli ultimi vent’anni le due brevi stagioni dei governi Prodi non hanno lasciato alla sinistra la possibilità di incidere su questi temi».
Qual è oggi la priorità del Paese?
«La legalità. Dobbiamo essere crudeli con noi stessi: il Paese ha rifiutato la legalità. Anche oggi chi pratica la corruzione, chi evade le tasse non è considerato come un ladro che danneggia l’intera collettività. Eppure la corruzione vale 60 miliardi di euro e secondo la Banca d’Italia pregiudica la possibilità di investire, di creare sviluppo, occupazione. È una battaglia politica e culturale, bisogna ripartire dal basso, dalla scuola, insegnare e difendere il valore della legalità».
La cronaca offre i casi di parlamentari che abusano ancora di denaro pubblico o che guadagnano milioni su mediazioni immobiliari. Che impressione ricava da questi fatti?
«Un’impressione terribile. Il politico che ruba soldi pubblici va subito emarginato, denunciato. Senza esitazione, senza timidezze».
Com’è la sua esperienza di parlamentare?
«Non sono molto a mio agio. Conduco le mie battaglie, faccio proposte, ma c’è un grosso problema, inutile nasconderlo. Il sistema maggioritario, questa legge elettorale limitano la democrazia. Il deputato sa che sarà rieletto solo se si comporterà bene con i suoi dirigenti».
Corriere della Sera
Anni perduti, scelte urgenti
di Ferruccio De Bortoli
Vent'anni dopo, il ricordo di Mani Pulite è un insieme di immagini sbiadite. Colpisce l'ammissione dell'ex giudice Gherardo Colombo sui magri risultati delle inchieste contro la corruzione e il finanziamento illecito dei partiti. I protagonisti di allora sono critici severi dell'eredità civile, e non solo giudiziaria. Gli eccessi e gli errori non furono pochi. Con i partiti fu spazzata via un'intera classe politica. Troppe le sentenze mediatiche; non sempre adeguata la tutela delle garanzie individuali. Eppure quella stagione ebbe il merito di sollevare un velo sull'Italia del malaffare. Più di tremila gli imputati. Ogni dieci di loro, calcola Luigi Ferrarella, quattro i condannati, quattro i prescritti, due gli assolti.
Quel velo, rumorosamente alzato, è tornato a coprire, negli anni successivi, pratiche illecite diffuse in tutta la società. Le denunce sono crollate. Un fatalismo pernicioso è diventato sentimento comune. «Tanto non cambia nulla». «Anzi, oggi è peggio». La corruzione ha mutato pelle ed è penetrata in profondità nella nostra società. Ha un carattere più individuale, trasversale, minuto e non genera — amara considerazione — lo sdegno e l'istinto di ribellione che mossero l'opinione pubblica ai tempi di Mani Pulite. Il costo per l'Erario è stimato dalla Corte dei Conti fra i 50 e 60 miliardi l'anno. L'Italia è al 69° posto nella classifica Transparency International. La corruzione è una tassa occulta, frena gli investimenti esteri, distorce i mercati, umilia il merito e calpesta la cittadinanza.
Rileggere gli avvenimenti del '92 con spirito critico è necessario e costruttivo. Ma al di là del dibattito storico, sarebbe opportuno rispondere a una domanda. Che cosa è indispensabile fare per combattere efficacemente il fenomeno? Il governo Monti, che non disdegna una certa inclinazione pedagogica, ha davanti a sé una grande occasione. Agire senza indugi contro un morbo che frena la crescita più di tante liberalizzazioni mancate. Una commissione ministeriale ha già formulato delle proposte. Ne aggiungiamo alcune. Il reato di corruzione fra privati in Italia non esiste. Nemmeno quello di autoriciclaggio dei proventi illeciti. Dopo la riforma del 2001, il falso in bilancio non è di fatto più perseguito. Non si capisce perché l'Italia, unico fra i Paesi aderenti, non abbia mai ratificato la convenzione internazionale sulla corruzione del '99. L'evasione è fenomeno connesso. Ma l'Agenzia delle Entrate trasmette le informazioni alla magistratura dopo cinque anni. E la prescrizione è certa. La Banca d'Italia non comunica alla stessa Agenzia i movimenti anomali dei capitali ma solo alla Guardia di Finanza.
La risposta non può essere esclusivamente di carattere penale o di contrasto all'evasione o premiando (curioso) chi si comporta bene. Se la società non infligge anche un costo di reputazione a chi infrange le sue regole, se trascura istruzione e formazione, se banalizza le virtù civiche ed elegge i furbi simpatici a modelli di vita, non c'è norma che tenga. L'Italia ne ha persino troppe. All'apparenza severe. Ma solo sulla carta. Straccia.
Sull'indagine Mani pulite e sul quadro che rivelò vedi il libro di P. Della Seta ed E. Salzano, L'Italia a sacco. Come nei terribili anni 80 è nata e si è diffusa Tangentopoli, prefazione di D. Novelli, editori riuniti, Roma 1993. Il libro, esaurito in libreria, è raggiungibile qui in eddyburg.it
In Italia la subalternità all’egemonia liberale si è tradotta in posizioni liberiste in economia e in una cultura istituzionale tutta incentrata su governabilità e legittimazione diretta
I lunghi anni Ottanta, racchiusi tra l’offensiva craxiana per la rottura dei consolidati equilibri partitici del Paese e lo choc del crollo del Muro di Berlino, hanno segnato un punto di svolta per le strategie politiche e per la cultura delle forze che, oggi, compongono il centrosinistra (aprendo una vicenda che ha esibito tratti peculiari, in parte diversi da quelli che hanno caratterizzato altre esperienze europee dei medesimi anni).
È comprensibile che la discussione si sia concentrata soprattutto sulla questione delle strategie, che aveva un’urgenza irresistibile e reclamava decisioni immediate e operative, ma gli effetti più profondi e di più lungo periodo si sono prodotti sul terreno della cultura – o, se si preferisce, della cultura politica – delle forze che furono sottoposte al duplice stress del protagonismo craxiano e della dissoluzione degli equilibri postbellici.
Già il solidarismo cattolico-sociale sembrava cominciare a conoscere, a partire da quegli anni, una fase di ripensamento e pareva subire la spinta ad accreditare più i punti di contatto che quelli di differenziazione rispetto al liberalismo e allo stesso liberismo. Ma era soprattutto nella cultura politica comunista, che pure poteva contare su un grande patrimonio, che giacevano elementi critici che rendevano difficoltoso raccogliere la sfida delle novità: almeno a un livello intermedio, la grande tradizione culturale liberale non sempre era conosciuta appieno e chi la conosceva non sempre vi si confrontava a viso aperto, senza pregiudiziali ideologiche e senza ricorrere all’argumentum ex auctoritate (che voleva che certe tesi fossero sbagliate solo perché non avevano trovato accoglienza in qualche vulgata di facile successo).
Era fatale che questi elementi di debolezza, uniti a un’ingiustificabile spinta all’abbandono del patrimonio posseduto, a torto stimato quasi interamente “vecchio” e inutile per la comprensione del “nuovo” avanzante, generassero una grave subalternità culturale, che per un verso si traduceva nell’acritica accettazione di tutto quanto si era ignorato o avversato, e per l’altro incideva sulle stesse strategie politiche, che, prive di un robusto basamento di convincimenti teorici, subivano oscillazioni, tanto più pericolose quanto più spregiudicata si faceva l’iniziativa politica di molte forze politiche avversarie.
I segni di questa subalternità culturale sono stati e in qualche caso sono ancora evidenti, e basta ricordarne alcuni. Sul piano della cultura istituzionale, ad esempio, si è a lungo dimenticata la complessità strutturale e funzionale delle democrazie rappresentative, concentrando l’attenzione sulla sola questione della governabilità e della legittimazione (pretesamente) diretta degli esecutivi, trascurando la lezione impartita dalla stessa Costituzione, nella quale era stato disegnato un complesso meccanismo di produzione della decisione pubblica, che doveva muovere dai cittadini (titolari di diritti qualificabili come frammenti di vera sovranità), passare attraverso i partiti (intesi come strumenti di partecipazione e di emancipazione democratica), delinearsi nelle assemblee rappresentative (come luogo del confronto, non solo dello scontro), definirsi compiutamente in sede di governo.
Il distorto bipolarismo italiano non è frutto soltanto del caso o delle scelte del centrodestra, ma anche di un’ideologia maggioritaria che della tradizione politica liberale sembra conoscere Schumpeter, ma non Locke o Tocqueville.
Né le cose vanno diversamente sul piano della cultura economica. Anche qui sembra che si sia abbracciato Hayek senza passare per Smith o Ricardo o, men che meno, Keynes. Anche qui la lezione della Costituzione appare dimenticata. Il suo articolo 41 garantisce, certo, la libertà dell’iniziativa economica privata, ma allo stesso tempo ne subordina l’esercizio al rispetto dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Quali sono, nelle posizioni dell’attuale centrosinistra, i segni che si ritiene prioritario impegnarsi per definire cosa sia oggi, in questo momento storico, l’utilità sociale? Quali i segni che non ci si accontenta di farla coincidere con il risultato della competizione retta dai meccanismi della libera concorrenza? Eppure già i classici dell’economia politica sapevano che l’interesse generale non è la sommatoria di quelli individuali e nemmeno il risultato automatico del loro libero confronto. L’utilità sociale dovrebbe essere definita politicamente, ma chi ne è ancora consapevole?
Le parole hanno spesso una grande forza evocativa e quando si parla di concorrenza “libera” o di “liberalizzazioni” si ha l’impressione che un giogo sia stato rimosso, che l’arroganza del potere sia stata battuta. Ma non è sempre così.
Certe scelte economiche e normative implicano significative conseguenze sociali, che andrebbero considerate. Acquistare una maglietta a qualsiasi ora del giorno e della notte, certo, è una bella comodità. Ed è anche un bel vantaggio pagarla meno del solito, se si può comprarla in un grande esercizio commerciale che ha forti economie di scala. Ma tutto questo ha un costo. In termini di alterazione degli stili di vita, di deterioramento dei processi di socializzazione, di lacerazione della trama del tessuto produttivo, di riduzione delle reali opportunità di scelta, di incisione nelle garanzie effettive e concrete (quelle che contano davvero) dei lavoratori.
La retorica della sovranità dei consumatori è penetrata a fondo nella cultura del centrosinistra e ha fatto grandi guasti. Quella del consumatore è per definizione una figura apolitica o tutt’al più prepolitica. È al cittadino, al soggetto politico, che spetta la sovranità.
Anche questo è un insegnamento della Costituzione. E le forze politiche che, giustamente, continuano a difenderla hanno un dovere di coerenza, perché la Costituzione non è solo una bandiera da agitare per evitare il peggio o per evocare le ragioni unificanti della comunità politica, ma è anche e soprattutto un grande progetto di trasformazione sociale, di emancipazione della persona umana, di conciliazione delle ragioni della libertà con quelle dell’eguaglianza.
Credo che di questo si debba tornare a discutere.
L’Italia è tra i Paesi industriali dove la concentrazione della ricchezza, le diseguaglianze sociali, la mobilità geografica e l’immobilità sociale sono ai livelli massimi. Milioni vivono questa realtà sulla loro pelle, molti la conoscono, tranne, sembra, alcuni professori molto bravi nei rispettivi campi. Solo in Italia, il 45% della ricchezza privata è posseduta dal 10% delle famiglie mentre il 50% possiede meno del 10%, un amministratore delegato come Marchionne può arrivare a guadagnare 500 volte il suo operaio (il prof. Valletta, capo della Fiat negli anni Sessanta guadagnava 50 volte il suo operaio), il legame tra i redditi di papà e quelli del figlio è così stretto che quasi metà dei figli dei professionisti, avvocati, architetti, medici, hanno successo nella stessa professione del padre mentre meno del 10% dei figli di operai ha speranza di fare un salto di classe (dati Censis), dal 1990 al 2005 il passaggio dal Sud al Nord ha coinvolto 2 milioni di persone, di cui la metà diplomati e laureati, mobilità record nell’eurozona.
Luigi Einaudi ricordava che «per governare occorre anzitutto conoscere». A sentire le uscite di alcuni nostri ministri sui giovani descritti come bamboccioni, mammoni o sfigati, c’è da dubitare sulle loro conoscenze. Proprio ieri il Censis ha illustrato i risultati di una ricerca sulla «mobilità sociale», partendo dai dati Istat sull’istruzione e le professioni: «Rispetto alle generazioni precedenti oggi c’è un blocco nel passaggio da un livello sociale ad un altro». A distanza di anni sembra di sentire le parole di un altro grande, Achille Campanile, secondo cui «nascere povero in Italia equivale ad una condanna ai lavori forzati a vita».
Purtroppo la situazione sembra peggiorata negli anni. Perché le diseguaglianze sociali sono aumentate dai tempi di Campanile, come testimoniano tutti i dati, da Eurostat ad Ocse, che mostrano l’Italia seconda per diseguaglianza in Europa solo alla Grecia patria di evasori fiscali e alla Gran Bretagna impoverita dalle politiche liberiste e classiste della Thatcher. L’indice di Gini misura le diseguaglianze di reddito tra ricchi e poveri, con valori che vanno da zero, perfetta eguaglianza di redditi tra le persone, ed uno, massima diseguaglianza di reddito. Tutti i Paesi con indice di Gini inferiore a 0,3 sono a minor diseguaglianza sociale e si dà il caso che questi siano anche i Paesi che meglio di altri stanno superando la crisi occidentale.
I principali Paesi europei ad alta eguaglianza sociale, con indice di Gini inferiore a 0,3 sono Germania, Francia, Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Norvegia e Finlandia e questi Paesi sono anche quelli che hanno salari più alti, sindacati forti, lavoro tutelato, sono attrattivi di investimenti esteri e sono diventati anche tra i più ricchi per reddito procapite. Oggi che si comincia a parlare anche di crescita, spero che i nostri professoriministri, oltre a fare bene i loro compiti settoriali, sappiano essere più attenti ai dati generali, su mobilità geografica e sociale, diseguaglianze, etc., tutti dati che in Italia confliggono con le caratteristiche della società della conoscenza centrata sulla risorsa umana, la sua formazione continua e i suoi diritti. Altro che andare lancia in resta contro l’art. 18, «che impedirebbe gli investimenti esteri». Il Paese europeo con i salari più alti e i diritti sindacali più rigorosi, la Svezia, ha il record europeo ed occidentale degli investimenti diretti esteri in entrata, sino al 30% degli investimenti fissi contro il nostro 2%. L’augurio che facciamo ai professori che ci governano è che ricordino sempre le parole di Luigi Einaudi sull’importanza di «conoscere per governare», risparmiandoci uscite politicamente improvvide e tecnicamente sbagliate.
Contrarie, ovviamente, alla loro abolizione totale, le Province italiane vanno al contrattacco con un testo che stabilisce l'autoriduzione da 108 a 60. È la proposta di legge lanciata ieri dall'associazione che le rappresenta, l'Upi, e che prevede anche l'istituzione di aree metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari e Reggio Calabria) così come previsto dalle legge delega sul Federalismo fiscale, l'accorpamento degli enti territoriali dello Stato (come provveditorati e prefetture), oltre alla cancellazione di enti, agenzie e consorzi con la ridefinizione precisa delle funzioni, evitando sovrapposizioni. Il tutto da realizzare al massimo in un anno, con un risparmio di 5 miliardi di euro contro quanto previsto dal governo nella relazione che accompagna «i commi 14-21 dell'art.23 del decreto "Salva Italia" di 65 milioni di euro».
La «controproposta» dell'Upi, presentata dal presidente Giuseppe Castiglione insieme a cinque presidenti di Provincia (Napoli, Venezia, Firenze, Bologna e Torino), entro 90 giorni dovrà essere elaborata dalla Commissione paritetica governo-regioni-enti locali. Ma sarà anche posta all'attenzione dei gruppi parlamentari perché trovino la strada per portarla avanti. «Questa nostra proposta — ha detto Castiglione — è stata pensata nel rispetto del dettato costituzionale e a legislatura vigente. Noi vogliamo che l'assetto del territorio sia più efficiente e comporti un risparmio vero. Per questi motivi crediamo che il governo non possa ignorarla».
«Dobbiamo dire basta alla miriade di enti che costituiscono il vero costo della politica — ha detto Antonio Saitta, vice presidente dell'Upi e presidente della provincia di Torino — affidando alle Province funzioni che possono sostenere. Molti di questi enti sono sorti per esigenze di consenso delle forze politiche e ormai non hanno ragione d'essere. Bisogna anche giungere a una riforma dello Stato».
SENZA FINE
(editoriale della direzione)
Siamo alla prova cruciale, al corpo a corpo con la nostra stessa vita materiale e politica. Il manifesto andrà in liquidazione coatta amministrativa. Verranno funzionari di governo, che si sostituiranno al nostro consiglio di amministrazione. È una procedura cui siamo stati costretti dai tagli alla legge dell’editoria. Noi, come altre cento testate, nazionali e locali, non potremo chiudere il bilancio del 2011.
Mario Monti e il ministro Passera potrebbero riuscire dove Berlusconi e Tremonti hanno fallito. Usiamo il condizionale perché non abbandoniamo il campo di battaglia e siamo ancora più determinati a combattere contro le leggi di un mercato che della libertà d’informazione farebbe volentieri un grande falò. La fine del manifesto sarebbe la vittoria senza prigionieri di un sistema che considera la libertà di stampa non un diritto costituzionale ma una concessione per un popolo di sudditi. La fisionomia della nostra testata, il suo carattere di editore puro, il nostro essere una cooperativa di giornalisti, hanno sempre costituito una felice anomalia, un’eresia, la testimonianza in carne e ossa che il mercato non è il monarca assoluto e le sue leggi non sono le nostre.
Il compito che ci assumiamo e a cui vi chiediamo di partecipare è tutto politico. I tagli ai finanziamenti per l’editoria cooperativa e politica non sono misurabili «solo» in euro, in bilanci in rosso, in disoccupazione. Naturalmente, se avessimo la testa di un Marchionne sapremmo cosa fare per far quadrare i bilanci. Così come un vero mercato della pubblicità ci aiuterebbe a far quadrare i conti, e un aumento dei lettori nel nostro paese ci farebbe vivere in una buona democrazia. Ma è altrettanto evidente che le nostre difficoltà sono lo specchio della profonda crisi della politica, l’effetto di quella controrivoluzione che ha coltivato i semi dell’antipolitica, del «sono tutti uguali» fino a una sorta di pulizia etnica delle idee e dell’informazione.
Care lettrici e cari lettori, siamo chiamati, noi e voi, a una sfida difficile e avvincente. Dovremo superare nemici visibili e trappole insidiose. Sappiamo come replicare alle politiche di questo governo, ma siamo profeti disarmati contro il successo del populismo, che urla contro il potere assumendone modi e fattezze. State con noi, comprateci tutti i giorni, abbiamo bisogno di ognuno di voi. Adesso che tutti hanno imparato lo slogan dei beni comuni, lasciateci la presunzione di avere rappresentato una delle sue radici, antica e disinteressata. Ed è per questo che nell’origine della nostra storia crediamo di vedere ancora una vita futura.
SIAMO QUI
QUARANT'ANNI DALLA VOSTRA PARTE
di Matteo Bartocci
Nonostante una ristrutturazione durissima e sacrifici senza precedenti il giornale resta in edicola. Oggi alle 14 conferenza stampa in redazione Il ministero dello Sviluppo ha avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa. Un passo inevitabile dopo i tagli del governo. Ecco quello che abbiamo fatto e quello che dobbiamo fare
È il momento più difficile della storia quarantennale del manifesto. Chi ci segue sa che l'allarme l'avevamo lanciato da tempo. Che non era un «al lupo, al lupo» né una delle infinite crisi che con l'aiuto di decine di migliaia di sostenitori siamo riusciti a superare dal 1971 a oggi.
Il ministero per lo sviluppo economico ha ufficialmente avviato la procedura di liquidazione coatta amministrativa della cooperativa editrice del manifesto. Ma il giornale resta in edicola e rilancia. Perché non è finita finché non è finita.
Questa procedura particolare alternativa alla liquidazione volontaria cautela la cooperativa da eventuali rischi di fallimento. E' una procedura estrema, riservata a soggetti per loro natura fragili come le cooperative, che non hanno «padroni» che ogni anno ripianino i debiti o raccolgano i profitti.
Da oggi il manifesto entra in una terra sconosciuta. I casi di cooperative editoriali che hanno attraversato questa procedura sono rarissimi, forse è addirittura un inedito. Una delle tante «prime volte» che il manifesto, giornale quotidiano e forma originale della politica, ha sperimentato sulla sua pelle nei suoi primi 40 anni. I dettagli «tecnici» di quello che accadrà li daremo oggi in una conferenza stampa (alle 14 qui in redazione, via Angelo Bargoni 8, Roma). Per adesso però non sono la cosa più importante.
Banalmente: oggi il manifesto spende più di quanto incassa. E' una debolezza cronica e strutturale, aggravata dal taglio drastico e retroattivo dei contributi pubblici per l'editoria non profit. Il manifesto ha lanciato sottoscrizioni e campagne di sostegno ancora prima di nascere. Non è «piagnisteo»: è nel suo Dna. Senza non potrebbe vivere. E' un'impresa comune costruita senza padroni. Né occulti né palesi. I «padroni» del manifesto sono chi ci lavora e chi lo legge.
Per questo stavolta alla procedura indicata dal ministero non potevamo più opporci. Dal 2008 cala la pubblicità, le vendite vanno e vengono (incoraggianti a novembre e dicembre, in lieve calo a gennaio) e senza il contributo pubblico (che era previsto) il bilancio del 2011 non si può chiudere. E' l'aritmetica perversa dei fondi editoria, che vengono erogati nel 2012 come rimborso del 2011. Nonostante le promesse di intervento fatte dal presidente del consiglio Mario Monti e l'esplicita richiesta in tal senso del presidente della Repubblica, a oggi nessuna soluzione è stata trovata.
Restiamo noi e voi. Siamo la stessa cosa, ma noi abbiamo il dovere di spiegarvi quello che abbiamo fatto. Sul manifesto circolano moltissime leggende metropolitane e qualche lacrima di coccodrillo. Sono tempi brutali per tutti e non c'è da stupirsi.
Però sfatiamo alcuni luoghi comuni. I sacrifici che abbiamo fatto in questi anni sono senza precedenti. Abbiamo ridotto tiratura e distribuzione all'osso (p.s. le edicole sono 30mila e più di tanto non si può tagliare, già adesso il giornale si trova poco e male). Siamo l'unico quotidiano nazionale non full color: questo ci fa risparmiare in tipografia ma ci rende meno appetibili per la pubblicità. Di recente abbiamo aumentato il prezzo, ridotto la foliazione e portato Alias e la TalpaLibri dentro il quotidiano. In questi anni durissimi abbiamo messo a punto tutto. Siamo in ristrutturazione industriale più o meno dal 2006 e il sacrificio più grande lo stanno facendo soprattutto i lavoratori (che sono anche gli editori di se stessi).
Parlano i bilanci. Nel 2006 il manifesto aveva 107 dipendenti. A febbraio sono 74 (52 giornalisti e 22 poligrafici). Di questi 74, però, la metà è in cassa integrazione a rotazione. Per cui il giornale che leggete (dal 2010 a oggi) è fatto, materialmente, da circa 35 persone. Troppe? Troppo poche? Scarse? Brave? In numeri: dal 2006 al 2010 il costo del lavoro è diminuito del 26%, con un risparmio annuo di 1,1 milioni di euro. Nel triennio 2008-2010 i costi industriali si sono ridotti di 2 milioni e mezzo. I costi generali del 20 per cento. E visto che parliamo di soldi e di mercato, tra noi tutti riceviamo più o meno lo stesso salario, dalla direttrice alla centralinista: circa 1.300 euro netti al mese.
Il manifesto però è innanzitutto un progetto politico. Questo giornale può migliorare e cambiare molto ma non può mutare natura. Non potrebbe esistere senza il contributo di chi, da anni, lavora e scrive gratuitamente, dai fondatori al più giovane dei collaboratori. Più che ai nostri stipendi (che pure contano e non arrivano) il primo pensiero di ogni giorno è il nostro/vostro giornale. Da oggi lo sarà ancora di più.
SOCIAL NETWORK
NON FATE TROPPO I COATTI
di Alberto Piccinini
Alle otto di sera scoprirsi tra i «top trend» di Twitter Anna Paola @ Roberto Saviano: «Ti ricordi?» «I Maya avevano ragione», «Noi lettori faremo da megafono»
In quarant'anni è forse la prima volta che osserviamo una delle nostre crisi attraverso i social media. Speriamo che non sia l'ultima. Ma soprattutto, come twitta miki «non fate troppo i coatti e niente scherzi mi raccomando!». Il riferimento è alla «liquidazione coatta». Tanto per dire, la parola compare in Rete prima che qui in redazione si riesca a scrivere persino uno straccio di comunicato. Il sito si chiama Globalist. Dagospia riprende quello («Non manifesto più» aggiunge di suo pugno D'Agostino), poi arrivano L'Unità (grazie per aver postato il video con la risposta di Monti al nostro Matteo Bartocci sull'aiuto ai giornali), poi il sito di Repubblica e subito dopo le agenzie di stampa. Infine Il Fatto quotidiano. Grazie.
È così che alle otto di sera restiamo per una decina di minuti tra i trends della giornata su twitter. «Non compro giornali di solito, il manifesto è una storia a parte e domani lo comprerò» (Yamunin). «Da domani lo compro: tutti i giorni per un mese». «Manifesto per il manifesto». «Clickactivism non basta, domani compra il manifesto». La nostra amica Janet posta a breve distanza: «Un caffè di meno al giorno ci lascia il manifesto intorno». E poi: «Toglietemi tutto ma non il manifesto». Incontriamo qualche sorriso in giro, per fortuna. Dominus: «I Maya avevano ragione, cazzo». Qualcuno fa l'antipatico, ma pazienza: «Il manifesto è in liquidazione. Proteste dei 10 lettori sparsi in tutta Italia».
Da un lettore de Il Fatto: «A tutti i giornalisti mantenuti nel lusso per disinformare con soldi pubblici: BAMBOCCIONIII!!! AAAH Mi sento meglio!», si firma Miolgu. Di seguito, affiorano vecchie divisioni a sinistra: «Conservo fieramente la ricevuta di 5 euro per Lotta comunista Sottoscrizione per la stampa leninista, altro che Il manifesto» (Emanuele). Ma infine si fa strada la mozione degli affetti: «Lettore venticinquenne del manifesto da quando ho 16 anni» (Federico). «Un pezzo della mia vita, un compagno, una guida nella mia crescita!!!», con tre punti esclamativi. «Lo compravo già vent'anni fa (e pure ora, anche se saltuariamente). Da domani si ricomincia». «Con Pintor ho capito un po' di vita. Forza ragazzi». Romina, da Siena: «Lo compravo all'Università, all'arco di Porta Tufi. Lo comprerò domattina». Anna Paola @ Roberto Saviano: «Chiude Il Manifesto. Anni fa c'erano dei ragazzi che lo vendevano sempre davanti palazzo Giusso, ricordi?» Palazzo Giusso è l'Università Orientale, a Napoli.
Ancora su Twitter sbirciamo il minidibattito tra uno scrittore amico, Sandrone Dazieri e alcuni suoi followers. «Il Manifesto è stato il "posto" dove ho cominciato a scrivere. scrive Sandrone Non lo leggo più come prima, ma voglio che rimanga». E poi: «O mi sbaglio a difendere il Manifesto? Ha ancora senso nell'epoca della rete? Comunque fatela un app, ce l'ha anche il Giornale cazzo». Già. E nel frattempo abbiamo tentato timidamente di far circolare come hashtag «Zittinò», il grido finale di un recente pezzo di Rossanda Rossanda. Invece ci siamo ritrovati dentro il solito #Il Manifesto. Mica ce ne dispiace, anzi. Confusi però con il manifesto dei ciclisti sul Times di ieri, che sottoscriviamo, e altre decine di manifesti da tutto il mondo, pure condivisibili. Persino un'anteprima del manifesto per la prossima tournee di Lady Gaga.
#noncirestachepiangere era invece l'hashtag di Valeria per il suo tweet dedicato a noi. No vabbè, c'è ancora tanto da fare. Per esempio su Facebook c'è chi passa alle cose pratiche: «Io sono abbonato coupon, che faccio, lo compro anche in edicola poi lo regalo? Possiamo fare, una volta tanto, un intervento strutturato tra proprietà e lettori al fine di evitare azioni estemporanee?», ci chiede Riccardo. Rispondiamo: «è esattamente quello che andrebbe fatto. Abbonamenti, sottoscrizioni ma soprattutto vendita in edicola». In fondo è questo il senso della nostra presenza su Facebook da una settimana a questa parte. Siamo più di 30.000 «mi piace» laggiù. Ci risponde ancora Riccardo: «Mi raccomando: ordini precisi e chiari. Poi noi lettori faremo da megafono». Ci proveremo.
Ancora da Facebook recuperiamo il grido di Anna Maria, che ha due figli disoccupati e «non può prometterci che domani ci comprerà di carta». Scrive: «Chi siete adesso voi del collettivo del Manifesto, a chi vi rivolgete, qual è il vostro target. Sinceramente, con il cuore, siete sicuri che il "messaggio" sia efficace? Se "sì" allora lo dovete rendere efficiente, con le regole evolute del mercato, con intelligenza, senza baluardi di vetero-marxismo».
APPELLO
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Al ritrovamento del linguaggio della verità non ha fatto seguito la necessaria coerenza Con tanto dogmatismo sull’articolo 18 si complica molto il lavoro della ricostruzione
C’era bisogno dei tecnici, così è stato detto, per far respirare una politica in affanno e restituirle credibilità, dopo la irreparabile caduta di autorevolezza determinata da un Cavaliere dormiente dinanzi alla crisi. Ad una politica impigliata nella trama di una competizione senza tregua, doveva subentrare una più pragmatica azione di governo. Ebbene, questo recupero di prestigio delle istituzioni grazie alla buona amministrazione viene sovente ostacolato da una abitudine a chiudere in battute e in immagini caricaturali dei problemi assai complessi.
Il ritrovamento del linguaggio della verità, pur sollecitato come condizione per il ripristino del rendimento della politica, non si è sempre verificato con la necessaria coerenza. Non c’è più la fuga dal reale dei tempi di Berlusconi, che scambiava il governo per uno spot pubblicitario senza tempo. Ma è comparsa una inclinazione surreale a risolvere le aspre condizioni di vita delle persone con annunci del tutto inverosimili. Le timide politiche di liberalizzazione? Porteranno almeno dieci punti in più del Pil. L’abbattimento dell’articolo 18? Una autentica manna: investimenti esteri a palate e in breve tempo almeno altri 8 punti in più di crescita. Questo modo di argomentare (un Pil che cresce di 18 punti!) non è tollerabile.
Dai competenti ci si attenderebbe un piglio manageriale, con poche narrazioni e con delle realizzazioni puntuali in agenda, sempre verificabili. Così non è. I tecnici amano fare gli ideologi complicando molto il lavoro della ricostruzione. Il problema, purtroppo, non è di infortuni nella comunicazione. No, i tecnici, con le loro simbologie ardite, rivelano una lettura troppo semplicistica e deformata della società. Senza una analisi rigorosa è da temere il peggio nell’azione di governo. Come si fa a ricondurre il declino italiano al troppo buon cuore delle vecchie classi politiche incapaci di imporre misura, rigore? E come si fa a invocare la riforma dello statuto dei lavoratori perché, in caso contrario, gli investitori si manterranno per sempre lontani dal bel paese?
Qualcuno svegli i tecnici e li ridesti finalmente dal loro sonno dogmatico. Le norme sul mercato del lavoro non sono una priorità per la crescita. La neve precipitata in questi giorni disvela un paese che non dispone di mezzi, di strutture, di cultura di gestione del rischio. Quando in una città piove o nevica si crea una prolungata situazione di emergenza. C’entra davvero l’illusione del posto fisso in questa estrema vulnerabilità di un paese che a stento può ancora essere annoverato tra le nazioni civili? La domanda vera è semmai che cosa è il pubblico dopo anni di ideologia liberista per cui la ricchezza privata soltanto conta e il cimitero dei beni comuni può riposare in pace.
Nel deserto arido di beni pubblici, cadono anche gli investimenti perché l’eutanasia della statualità rende il paese debole, arcaico, non competitivo. Gli investitori in Calabria non arrivano, ma non certo perché si tema la morsa dell’articolo 18 ma perché il treno più veloce che collega la regione alla capitale impiega quasi dieci ore. Invece di incontinenze verbali, il governo dovrebbe con urgenza riprogettare la dimensione territoriale delle politiche per lo sviluppo. Dinanzi alla rispazializzazione negativa e asimmetrica, che consegna molte aree del paese al sottosviluppo, occorrono politiche attive, non leggende.
A spaventare i capitali è il mitico articolo 18 o il tempo biblico della giustizia civile? E davvero le bandiere dei sindacalisti fanno più paura delle bocche di fuoco delle ecomafie? Agli apostoli della concorrenza crea fastidio il sindacato e non preoccupa il fatto che in molte regioni le merci sono prodotte e scambiate in forme del tutto illegali. Non è affatto vero che la contrattazione collettiva spaventi i capitali più della presenza di contratti evanescenti e sprovvisti di una qualsiasi garanzia giuridica efficace ed esigibile. Quando le mafie con i loro governi privati hanno il monopolio territoriale delle attività illecite, i diritti di proprietà sono molto sbiaditi, i costi della transazione diventano più cospicui, le sanzioni degli inadempimenti appaiono del tutto improbabili.
Invece di scherzare sulla mammà dei disoccupati, il ministro degli interni dovrebbe forse cominciare a rimuovere lo spaventoso onere di queste esternalità negative che, non solo al sud ormai, determinano una possente disincentivazione degli investimenti produttivi. Le imprese si mostrano del tutto irretite dinanzi alla spettacolare accumulazione dei capitali avvenuta grazie alla simbiosi di coercizione e affari, pubblico e privato. Senza politiche per i beni collettivi (giustizia, sanità, istruzione, infrastrutture) evapora la dimensione locale dello sviluppo. Ci sono questioni colossali da affrontare per una effettiva politica di “cresci Italia” e invece i tecnici preferiscono fare cattiva ideologia sul mercato del lavoro. Peccato.
Nelle emergenze nazionali l´evento storico più frequentemente evocato dai commenti è forse l´8 settembre del ´43 (immediatamente seguito da Caporetto), e non è del tutto sbagliato. Richiama incapacità – o non volontà – di previsione e di decisione, vergogne dei pubblici poteri, dissolvimento delle istituzioni, affannarsi generoso ma impotente di alcune parti, almeno, della società civile.
È parte anch´esso di una storia nazionale, e meno di tre anni fa a L’Aquila abbiamo fatto i conti di nuovo con la nostra difficoltà ad imparare dalle esperienze del passato: sia da quelle positive che da quelle negative. Furono allora ignorati e osteggiati quel decentramento e quella capacità di preservare identità e memoria collettiva che erano stati centrali nel Friuli del 1976, e poi nelle Marche e nell´Umbria del 1997. E "scoprimmo" allora che era stata invece riproposta negli anni una scelta già compiuta in precedenza con conseguenze pesantissime: la Protezione civile di Guido Bertolaso aveva infatti ampliato il proprio raggio d´azione ben al di là delle emergenze. Si era fatta carico dei più diversi "grandi eventi", e sin di quelli più estranei alla propria ragion d´essere. Esattamente come era successo con esiti disastrosi nella ricostruzione dell´Irpina, con l´allargarsi degli interventi (e degli sperperi, e degli intrecci fra corruzione, politica e cosche) sino ad aree e a questioni che con il sisma non avevano nulla a che fare. Quella deformazione stava per esser resa definitiva, estendendo a dismisura l´assenza di controlli e vincoli: quell´esito fu impedito all´ultimo istante non da un ripensamento del governo ma dalla provvidenziale pubblicazione di intercettazioni che rivelavano verminai.
Di scelte, di decisioni soggettive stiamo dunque parlando. Non di un’eterna indole degli italiani ma di responsabilità politiche: o meglio, di una irresponsabilità della politica che ha lasciato segni profondi.
Talora anche denunce di altissimo profilo rimasero inascoltate. Così fu proprio all´indomani del dramma irpino, quando il Presidente della Repubblica Pertini irruppe dai teleschermi nelle case degli italiani per denunciare carenze gravi dei soccorsi e per condannare al tempo stesso vergogne del passato. Disse con forza che non avrebbe dovuto ripetersi un altro Belice ma non ebbe ascolto. Pochi mesi dopo si svolse ancora sotto i suoi occhi, davanti al pozzo di Vermicino e nell´agonia di Alfredino Rampi, una rappresentazione della nostra impreparazione, inefficienza e improvvisazione. Era al tempo stesso l´annuncio di quanto i media stavano invadendo e trasformando il nostro vivere anche su questo terreno. La Protezione civile ebbe origine allora: era l´impegno ad un mutamento radicale, non più rinviabile.
Certo, nel paralizzarsi delle città e delle vie di comunicazione dopo nevicate molto meno drammatiche che in altri Paesi tutto sembra ripetersi negli anni, con poche variazioni. Nel gennaio del 1985, ad esempio, non si erano ancora spente le polemiche sull´imprevidenza di Roma che Milano veniva bloccata dalla "nevicata del secolo" (termine già coniato in precedenti occasioni, per la verità): e l´immagine inquietante di un´efficienza perduta veniva a turbare per un attimo il frenetico ottimismo della "Milano da bere".
In realtà da noi sarebbero molto più necessarie che altrove misure di prevenzione, cure costanti e interventi metodici nei confronti dei territori a rischio: basti pensare allo "sfasciume pendulo sul mare" di cui parlava Giustino Fortunato più di un secolo fa per certe parti del Mezzogiorno. O alle basse terre gravitanti sul Delta del Po, bonificate da un lavoro plurisecolare ma inevitabilmente esposte alle insidie del grande fiume: dalle alluvioni ottocentesche raccontate da Riccardo Bacchelli ne Il Mulino del Po a quella del 1951, che diede una potente spinta all´esodo. Sino alla piena del 1994, ancora nella memoria. E naturalmente si pensi, per altri versi, alle aree devastate dalla speculazione o a quelle degradate dallo spopolamento. Eppure l´incuria è diventata col tempo quasi la regola: e troppo tardi e fugacemente ci interroghiamo su quel che avremmo potuto e dovuto fare. Come nella Sarno del 1998 o nella Valtellina del 1987 e molte altre volte ancora. L´elenco sarebbe davvero lungo e in molti casi il disastro, ben lungi dall´essere dovuto solo alla natura, è stato favorito o provocato da responsabilità dirette e gravissime, come nel Vajont del 1963.
Spesso, va aggiunto, le carenze istituzionali sono state parzialmente compensate grazie a un volontariato appassionato e generoso: è un termometro del Paese e c´è da allarmarsi se si allenta, se ci appare meno diffuso e vigile. E certo ha dato il meglio di sé quando ha potuto incontrarsi con istituzioni all´altezza dei loro compiti e con una più ampia partecipazione delle popolazioni. Non è accaduto spesso ma è accaduto: dalla Firenze invasa dalle acque del 1966 al Friuli di dieci anni dopo, e sino a tempi recenti.
La nostra storia ha dunque molti volti ma ci dice anche che la "sindrome dell´8 settembre" può essere sconfitta. La capacità o l’incapacità del Paese di attrezzarsi per far fronte alle emergenze è dunque un aspetto centrale. O meglio: è un elemento decisivo per una rifondazione della politica che abbia nel suo orizzonte non le prossime elezioni ma le prossime generazioni.
C´è una parte di verità, in quel che Mario Monti ha detto – a RepubblicaTv – sul modo in cui è stata interpretata la sua idea del lavoro fisso («Diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!»). Citato fuori dal contesto, quel che ha aggiunto subito dopo è finito in un buco nero: «È più bello cambiare e accettare nuove sfide, purché in condizioni accettabili. Questo vuol dire che bisogna tutelare un po´ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po´ più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci».
Resta tuttavia l´inadeguatezza del vocabolario, e non può stupire il disagio profondo che esso suscita in chi nulla sa del lavoro sicuro, durevole, e vive un´esistenza arrabattata, esposta alle durezze del mercato, difficilmente conciliabile col proposito di far figli, guardata con sistematica diffidenza da banche che non fanno credito se non a redditi solidi, e costanti. Non meno malessere suscitano gli argomenti con cui il Premier ha tentato di spiegare il suo punto di vista: per troppo tempo, «i governi politici hanno avuto troppo cuore», accogliendo le più varie rivendicazioni sociali e accumulando debiti pubblici rovinosi per tutti. Ripetuto tre volte, anche il vocabolo cuore - «esuberante», contaminato da «buonismo sociale» - è apparso moralmente pernicioso.
Sono tutte frasi che feriscono perché citate fuori contesto? Direi il contrario, anche se il Premier ne sembra persuaso (ieri ha chiesto ai ministri di evitare ogni dichiarazione equivocabile, specie sull´articolo 18). In effetti quel che mortifica è precisamente il contesto in cui le frasi vengono dette: è il Primo ministro a parlare - disinvoltamente, quasi fosse in un salotto o in famiglia anziché nella pubblica agorà - fuori contesto. Il contesto è una società che da almeno vent´anni ha interiorizzato la fine del posto fisso. Non c´è giovane (e meno giovane, visto che il precariato colpisce ormai più generazioni) che non sappia perfettamente come stanno le cose. Quel che reclama, nelle condizioni attuali, potremmo riassumerlo così: "Parlateci di queste ‘condizioni accettabili´, saltando il preambolo pedagogico di cui non abbiamo più bisogno! Diteci come e quando saranno tutelati i lavori non fissi".
Se Monti o il ministro Cancellieri si concentrassero solo sulle tutele, senza pontificare su cosa sia il vivere autentico (monotono o affetto da tedio, due stati d´animo che non concernono lo Stato) sarebbero ascoltati con più interesse. Se il governo ci dicesse qualcosa sulla manutenzione disastrosa delle infrastrutture (o sui centralini Acea sordi alle chiamate) e sull´impreparazione a fronteggiare emergenze come la neve, sarebbe più d´aiuto. Milioni di cittadini hanno messo le parole di Monti nell´unico contesto che conta (il loro vissuto), e si sono sentiti trattati come minorenni. Una cosa è criticare il familismo degli italiani (i bamboccioni), altra è vituperare il loro rapporto col mondo esterno (il lavoro).
È come se Monti, più o meno consapevolmente, "si sbagliasse d´epoca", e non sempre sapesse le persone cui si rivolge. Come se con una politica sentimentale (e un lessico farcito di intimismi: cuore, vita monotona, tedio, bontà) riempisse il vuoto di misure tangibili, che diano a precari e disoccupati se non il posto di lavoro, almeno quello di cittadini adulti. La dura legge del contrappasso conosce queste peripezie fatali: dopo anni di retorica affettiva (il partito dell´amore), si è passati all´algida offensiva contro i cuori esuberanti, contro la psiche inadatta al mutamento. L´impronta è radicalmente diversa (oggi governano persone perbene) ma in ambedue i casi c´è un ingrediente che manca: la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche.
Quel che manca, Ulrich Beck lo spiega a chiare lettere quando parla del «dramma pedagogico» che i politici dovrebbero imparare a mettere in scena, affinché la crisi non sia vissuta come rovina ma come trasformazione, nuovo inizio (Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011). Il governante che ricorda la scomparsa del lavoro fisso fotografa l´esistente. Somiglia un po´ a quel monarca assoluto del Piccolo Principe, assai gentile e fiero d´esser re, che ordina al sole d´alzarsi o tramontare quando sta per arrivare l´alba o avvicinarsi il tramonto. Afflitto da monotonia non è il lavoro fisso, ma il discorso sulla fine del lavoro fisso. È il dopo che interessa, e il dopo resta nell´ombra. È il che fare, e del che fare poco sappiamo.
Ci sono gaffe che inquietano, perché non sempre sono veramente tali. La gaffe per definizione vien commessa per goffaggine, distrazione: imbarazza, tuttalpiù. Se le parole di Monti provocano collera è perché si inseriscono in una collana di disattenzioni, e allora ecco che c´è del metodo, nella gaffe. Altrimenti non è chiaro come mai il viceministro Martone se l´è presa con gli studenti che finiscono tardi l´università, chiamandoli sfigati (l´aggettivo evoca sgradevolezza): e non perché costretti a più lavori per mantenersi, non perché privi delle raccomandazioni di cui ha goduto il giovane e apparentemente non geniale viceministro.
Dietro le quinte della gaffe sembra quindi nascondersi dell´altro: una sorta di sfasamento storico, una vecchia dottrina che riaffiora, sullo Stato e le sue funzioni in tempi di crisi. Non manca a tale dottrina la veduta lunga, anzi. Ma c´è in essa un che di torbido: chi sta male, chi anela non al posto fisso ma a un´attività stabile, qualche colpa deve averla. Deve essere uno sfigato, un disgraziato (solo nella lingua italiana il disgraziato è un fallito). È una convinzione antica, che ritroviamo nei saggi del demografo-economista Malthus. Il mondo era invivibile, perché sovrappopolato e assillato da troppe rivendicazioni? Ascoltiamo quel che nel 1798 Malthus scriveva a proposito del buonismo sociale, dell´utilità di scaricare la povertà sulle spalle dei poveri perché l´istinto riproduttivo s´attenuasse: «Ciascun uomo si sottometterà con aggraziata pazienza a mali che immagina provengano dalle leggi generali della natura; ma se la vanità e l´errata benevolenza di governi e classi alte si sforzano - intervenendo di continuo negli affanni delle classi basse - di persuadere queste ultime che ogni bene è loro conferito da governanti e ricchi benefattori, è molto naturale che esse che attribuiranno ogni male alle stesse fonti. In queste circostanze, non ci si può ragionevolmente aspettare alcuna pazienza. Sicché, per evitare mali ancora maggiori, saremo fondati a reprimere con la forza l´impazienza, qualora s´esprimesse con atti criminosi».
Malthus bussa alle porte d´Europa, lo vediamo in questi giorni in Grecia. Lo si vide anche in passato: quando alla Germania fu imposta un´austerità punitiva, nel primo dopoguerra. Qui è la vera monotonia che incombe: una storia che si ripete, un cambiamento senza cambiamento, proprio quando urge spezzare la monotonia con discorsi nuovi. Con discorsi sulla fragilità dei deboli, fonte del declino demografico europeo. Sui magistrati chiamati a combattere la corruzione senza esser penalmente perseguibili. Sull´Europa da edificare perché la trasformazione sia preparata senza castigare i perdenti come negli anni ´20-30. Sull´«ondata mondiale di rinazionalizzazioni», che secondo Beck dilaga. Non per ultimo, sulla politica degli immigrati, che faccia di loro i nostri futuri concittadini. In un ottimo articolo su Italianieuropei, Beda Romano racconta come la Germania sia forte perché esattamente su questo ha scommesso: introducendo il diritto del suolo fin dal 2000, e «trasformando lo Stato in un progetto politico più che etnico o religioso»
In tanti modi si può rompere la monotonia. Purché si rompa la monotonia autentica, e si scongiuri il cambiamento senza cambiamento.
Nella frenetica ricerca di nuovi "prodotti finanziari", con i quali continuare ad intossicare il mercato, la riverita Deutsche Bank ha superato ogni limite, facendo diventare la vita stessa delle persone oggetto di speculazione. Il caso si può così riassumere. Si individua negli Stati Uniti un gruppo di cinquecento persone tra i 72 e gli 85 anni, si raccolgono con il loro consenso le informazioni sulle condizioni di salute, e si propone di investire sulla durata delle loro vite. Più rapidi sono i decessi, maggiore è il guadagno dell´investitore, mentre il profitto della banca cresce con la sopravvivenza delle persone appartenenti al campione. Sono così nati quelli che qualcuno ha definito i "bond morte".
Molte sono state le reazioni: la stessa Associazione delle banche tedesche ha detto che «il modello finanziario di questo fondo è contrario alla nostra morale e alla dignità umana». Ma il fatto rimane, segno inquietante di che cosa stiano diventando i nostri tempi. La vita entra senza riserve a far parte del mercato, è puro oggetto di calcolo probabilistico, è consegnata a uno dei tanti algoritmi che ormai regolano la nostra esistenza. E tutto diventa ancor più inquietante se si guarda alla composizione del campione. Si scommette sugli anziani, un gruppo che già conosce forme crescenti di discriminazione, con l´esclusione della gratuità di taluni farmaci e con il divieto di accesso ad una serie di trattamenti sanitari.
Non più produttiva, la vita degli anziani diventa "vita di scarto", la loro dotazione di diritti si impoverisce, appare incompatibile con la logica dell´economia. Si scivola verso un "grado zero" dell´esistenza, con il trascorrere degli anni si entra in un´area nella quale si è sempre meno "persone", disponibili come di uno dei tanti oggetti con i quali si costruiscono i prodotti finanziari. Tra il mondo delle persone e quello delle cose non vi sono più confini, si stabilisce un perverso continuum.
Non voglio evocare con colpevole superficialità tragedie del passato. Ma la decisa reazione dell´Associazione delle banche tedesche non si comprende se si ignora che proprio lì, negli anni del nazismo, la formalizzazione giuridica delle "non persone", gli ebrei in primo luogo, portò a considerare vita e corpi come oggetti disponibili per il potere politico e medico. Oggi il potere sommo della finanza pensa di avere titolo per impadronirsene, in un modo immediatamente meno distruttivo, ma che porta con sé l´insidia della vita come merce.
Non a caso i banchieri tedeschi evocano la dignità, la barriera che si volle levare contro la perversione giuridica del nazismo, scrivendo in apertura della costituzione tedesca che "la dignità umana è inviolabile". È ragionevole ritenere, allora, che i giudici tedeschi sapranno intervenire in maniera adeguata se quel prodotto finanziario continuerà a circolare. La questione è della massima rilevanza, perché tocca il tema attualissimo del rapporto tra libertà economica e diritti fondamentali. Nel 2004, la Corte di giustizia europea pronunciò una importante sentenza, indicando proprio nel rispetto della dignità umana un limite insuperabile nell´esercizio dell´iniziativa economia privata. Sentenza giustamente citata, ma che non può far dimenticare che la Costituzione italiana quel limite lo ha già esplicitamente segnato.
Nell´articolo 41, infatti, si afferma che l´iniziativa privata è libera, ma non può svolgersi "in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana". Questa non è la rivendicazione di una primogenitura, dell´abituale lungimiranza dei nostri colti costituenti. È la sottolineatura di un rischio che stiamo correndo, visto che decreti di ieri e di oggi si aprono proprio con forzature interpretative che vogliono imporre letture dell´articolo 41 tutte centrate sulla preminenza della libertà economica. Queste letture riduzioniste e "revisioniste" sono costituzionalmente inammissibili, e sarebbe bene che ne avessero memoria tutti coloro i quali invocano un ritorno della politica, che non è possibile se vengono recise le radici dell´ordinamento repubblicano.
La dignità umana non è violata solo in casi limite come quello dei "bond morte". È violata quando si capovolge il rapporto tra principio di dignità e iniziativa economica, attribuendo a quest´ultima un valore prevalente, come si cerca di fare oggi in Italia. L´esistenza "libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, viene negata quando una considerazione tutta efficientistica del lavoro affida la vita delle persone al potere dell´economia, consegnandola alla logica della merce. Indigniamoci per le cose tedesche, ma diamo uno sguardo anche in casa nostra.
Nel decreto prevista la vendita dei terreni demaniali. La protesta degli agricoltori Si ricaverebbero 6 miliardi: «Introiti maggiori e più strutturali dandoli in affitto»
Il freddo gelido che ancora ieri mattina avvolgeva Roma per loro non è un problema: conoscono la fatica di lavorare la terra, di alzarsi e andare fuori con qualsiasi temperature. Fare il contadino è una professione dura, a tratti ci raccontano che sta tornando di moda, ma secondo Cesare Fabbretti - che ieri era in piazza Montecitorio insieme a molti altri agricoltori come lui - «l'età media in agricoltura è di 50 anni, e perché dovrebbe all'improvviso arrivare un gran ricambio di giovani, non si capisce». Tanto per dare a intendere che ai contadini italiani non piace neanche quel comma dell'articolo 66 del decreto sulle liberalizzazioni che nel prevedere l'alienazione dei territori demaniali a vocazione agricola, specifica il "diritto di prelazione" dei giovani.
E' un vero allarme questo. Quello che sono andati a segnalare ieri mattina gli agricoltori, con una lettera e una proposta di emendamento insieme a diverse associazioni - Aiab, Libera, Legambiente, Slow food - cooperative e realtà di coltivatori grandi e piccole. Il decreto sulle liberalizzazioni - il primo dell'anno, che sta per essere convertito in legge - per fare cassa prevede la vendita dei terreni demaniali dello Stato. Per valori inferiori ai 100 mila euro senza asta. Per quelli superiori ai 100 mila euro con asta pubblica. Il ricavo? Esistono solo stime. Le più favorevoli calcolano un introito pari a circa 6 miliardi di euro, considerando gli attuali prezzi di vendita. Ma è chiaro che quando sul mercato arriveranno i 324 mila ettari di terreno demaniale - per quanto l'articolo 66 del decreto non stabilisca una immediata e totale dismissione, ma non specifica neanche un limite annuale - i prezzi potrebbero crollare. Il professor Monti e tutti gli altri professori dell'esecutivo lo sanno certamente. E, comunque, fossero anche 6 miliardi, vale la pena vendere il terreno demaniale? E chi lo compra, per fare cosa? Il decreto prevede una via preferenziale per i giovani che decideranno di acquistare, sia come diritto di prelazione che sotto forma di agevolazioni. Ma gli agricoltori ieri erano molto scettici circa la possibilità di acquistare terreni. E propongono al governo, piuttosto, di poterle prendere in affitto: «Non basta acquistare la terra - dicevano - ci vogliono gli attrezzi, il know how e soprattutto il mercato: l'agricoltura non è redditizia, e in questo momento di crisi economica ancora di meno». E poi, c'è l'altro grande problema: chi può permettersi di acquistare terra, ora che accedere al credito è proibitivo?
Ma di certo chi è interessato ad acquistare grandi appezzamenti di terreno c'è, non sarà difficile trovare clienti: «Le grandi corporation e le multinazionali stanno acquistando terreni nel sud del mondo, è un business interessante con la popolazione mondiale in continuo aumento. Sia per la produzione di cibo, ma anche per produrre biodisel o altro - spiega il presidente dell'Aiab, Alessandro Triantafyllidis - E' il cosiddetto land grabbing, a cui anche noi siamo esposti. Ma l'acquisto di terreni può essere un grosso affare anche per la criminalità organizzata che così può riciclare denaro sporco».
Aldilà dei peggiori interessi, è un fatto che in Italia sta tornando il latifondo: negli ultimi 10 anni c'è stata una perdita della superficie agricola utilizzata pari a 300 mila ettari, accompagnata da una riduzione del numero di aziende di circa un terzo. Il che significa anche terreno meno curato, e comunità indifese di fronte alle alluvioni. La proposta dei manifestanti, che ieri hanno inviato una lettera ai senatori, è che sia previsto di dare in locazione a equo canone le terre demaniali agli agricoltori, privilegiando giovani singoli o associati e l'agricoltura sociale. «L'avvio di attività di produzione agricola porterebbe immediato beneficio alla casse pubbliche - scrivono - tramite le risorse provenienti dai contratti di locazione, le vendita di beni e servizi delle attività avviate che determinano versamenti di Iva, il pagamento degli oneri previdenziali per i nuovi lavoratori». Ricordano che queste entrate non sarebbero occasionali, bensì «strutturali» e si manterrebbe «intatto il patrimonio dei beni comuni» che così «assumerebbero un maggiore valore come strumenti di garanzia patrimoniale per l'eventuale accesso al credito da parte dell'amministrazione pubblica, e come ulteriore riserva di liquidità da iniettare per investimenti pubblici». Invece di svendere i gioielli di famiglia.
Singolari analogie tra l’immobile ex Grandi Stazioni al terminal Santa Lucia e la vicenda romana di via della Stamperia
L’unità d’Italia è fatta anche di palazzi storici venduti al primo merlo che passa per strada, per un prezzo doppio di quello d’acquisto. Venezia e Roma non sono lontane 600 chilometri: il palazzone di via della Stamperia, vicino alla Fontana di Trevi, comprato a 26,5 milioni di euro dal senatore del Pdl Riccardo Conti e venduto per 44,5 milioni poche ore dopo all’Enpap, l’ente di previdenza degli psicologi italiani, con un surplus di 18 milioni di euro, ha un precedente nel palazzo delle Ferrovie di Venezia, che oggi ospita 600 dipendenti della Regione, comprato dalla giunta Galan nel 2007 per 70 milioni di euro dopo che era stato valutato 70 miliardi di lire, ovvero 35 milioni di euro, da dirigenti della stessa Regione nel 2001.
Al netto del tempo passato e di lavori di ripristino, la plusvalenza è stimata in 24 milioni di euro: Venezia batte Roma 3-1. A vendere entrambi i palazzi è la stessa persona, Massimo Caputi, il Fregoli dell’immobiliarismo italiano: a Venezia indossava la giacca di amministratore delegato di Grandi Stazioni, a Roma è il titolare di “Idea Fimit”, la società che gestisce il patrimonio immobiliare del fondo “Omega”, di cui fa parte il palazzo romano. Questo fondo è posseduto al 30% di Intesa San Paolo ma la banca si dissocia dall’accaduto. I vertici nulla sapevano. Chi invece vuol sapere qualcosa, può leggere la ricostruzione sul sito Liberosinfub.com, gestito da sindacati del personale del credito.
Stante che nel campo immobiliare i merli sono sempre quelli che comprano, mai quelli che vendono, nel caso di Roma bisogna credere che i merli siano passati dall’altra parte: Caputi sostiene di aver fatto «un affarone» vendendo a 24,5 milioni di euro. Dice che il prezzo supera del 52% quello di acquisto. Figurarsi il guadagno incamerato dal senatore Conti, che compra e rivende in poche ore: aveva un destino scritto nel cognome, evidentemente. Ma anche L’Enpap, l’ente che becca la stangata pagando 44,5 milioni più Iva, totale 52,8 milioni, è contento.
E anche questo è un classico: a Venezia il 20 marzo 2007 alla firma del contratto con Grandi Stazioni, il presidente Galan parlò di «grande risultato per la Regione». La compravendita parte col piede sbagliato nel 2001, quando Caputi, che conosce personalmente Galan, avvia contatti. La Regione non si schioda dalla valutazione di 70 miliardi di lire che le Ferrovie avevano fatto cedendo gli immobili di Venezia, Bologna e Firenze, un pacchetto unico, a Grandi Stazioni (40% Benetton, Pirelli e Caltagirone). Glielo vanno a dire due dirigenti regionali, Umberto Bocus e Loris Costantini. Caputi non vende, preferisce accordarsi per l’affitto, ma paga lo stesso la prima tranche di consulenza a Gian Michele Gambato che gli ha agevolato la trattativa. I due si conoscono perfettamente: Caputi è il titolare di Proger spa, la società di ingegneria dove Gambato era responsabile commerciale, prima di trasferirsi nel Veneto e diventare presidente di Sistemi Territoriali, società della Regione. La seconda tranche viene pagata a Gambato nel 2007 dal nuovo a.d. di Grandi Stazioni, Ennio Aliotti, quando il palazzo di Venezia viene acquistato dalla giunta Galan per 70 milioni di euro. Totale della provvigione a Gambato 1,6 milioni. Tre anni dopo, nel 2010, scoppia lo scandalo: la procura di Roma mette sotto inchiesta Gambato e gli ex amministratori di Grandi Stazioni per truffa, quella di Venezia per concussione. Procedimenti di cui non si sa più nulla. Ciliegina sulla torta: l’ultima delibera del Cipe si accolla i lavori in Fondamenta Santa Lucia. Non dovevano essere in capo a Grandi Stazioni?
Il Fatto Quotidiano on-line
Riflessioni attorno alla nevicata
di Giulietto Chiesa
Ho visto, e sperimentato di persona, cosa può produrre una, tutto sommato banale, nevicata, in un tutto sommato ancora (per poco), paese industriale “avanzato”. Al di là dei soliti lai dei mass media, che lasciano il tempo che trovano, mi sono trovato a riflettere, in un treno ad alta velocità fermo in mezzo alla neve, sulla fragilità delle nostre società. Riflessione stimolata da un articolo sul Fatto, di quel giorno, a firma Massimo Fini, che a sua volta rifletteva su un elemento correlato: la perdita progressiva della nostra manualità umana.
Non siamo più capaci di fare niente con le nostre mani. Non siamo più capaci di praticare l’agricoltura. Il pollice è diventato dominante, quanto a trepestare sui tasti del cellulare, ma la mano non riceve più dal cervello ordini sensati che non siano quelli di usare coltello e forchetta.
Ho pensato che le nostre società sono diventate così complesse e costose, che se dovessimo essere costretti, da qualche imprevisto, a rinunciare collettivamente all’energia elettrica per più di tre giorni le nostre società cadrebbero nel panico e i morti si conterebbero non più a decine ma a centinaia di migliaia.
Complesse e costose. Abbiamo scelto l’alta velocità (lasciamo pure perdere la Val di Susa, dove la scelta è talmente insensata che non varrebbe nemmeno più la pena di parlarne se non fosse che il governo ha militarizzato, per farla, trenta comuni) senza nemmeno renderci conto che, più veloci andiamo, più quelle stesse macchine (e tutto il complicatissimo e costoso meccanismo che le fa muovere) diventano fragili come il vetro. Treni e scambi e rotaie, che potrebbero benissimo funzionare in condizioni di velocità tradizionali, diventano improvvisamente inabili a fronteggiare situazioni di emergenza, con il risultato che, invece di andare più veloci, restiamo fermi.
Il tutto di fronte alla prospettiva, serissima, che proprio ciò aumenta la probabilità di accadere nell’arco breve delle nostre vite. La crisi energetica, che facciamo tutti finta di non vedere, è appena dietro l’angolo. Le implicazioni che comporterà – sottolineo: nell’arco della vita nostra e dei nostri figli – saranno gigantesche.
Ma noi continuiamo a andare avanti, come dei dementi senza destino, a costruire complessità, facendo terra bruciata dietro le nostre spalle. Cioè facendo terra bruciata davanti al futuro dei nostri figli. Quando parli di “decrescita” sorgono rabbiose le urla degli sviluppisti a tutti i costi. E il governo dei tecnici, che ci sgoverna come il precedente governo dei puttanieri e dei ladri, ci promette ancora “crescita”.
Prima ancora di dire a Mario Monti che è un bugiardo, perché promette una crescita che non ci sarà, gli darei dell’irresponsabile. Gli direi: caro Monti, lei ci sta minacciando, con la sua crescita. Non la vogliamo la sua crescita. Vorremmo re-imparare a fare crescere i pomodori e le patate, perché sta venendo il tempo in cui non le troveremo più nel negozio sotto casa.
La Repubblica
Il paese sconfitto
di Giovanni Valentini
Non c´era bisogno di un´altra triste metafora, dopo i rifiuti di Napoli, i crolli di Pompei e il naufragio del Giglio, per rappresentare la crisi del nostro Paese sul piano mediatico planetario. Ma la disfatta di Roma, sotto una nevicata di poche ore e di pochi centimetri, è piuttosto un esplicito atto d´accusa contro un apparato pubblico palesemente inadeguato. "Capitale inetta, Nazione sconfitta", si potrebbe dire parafrasando uno storico slogan del settimanale L´Espresso.
Quando il maltempo si combina con il malgoverno, non c´è scampo per i cittadini. Allora la forza della natura s´incarica di mettere a nudo tutta la debolezza dell´uomo: per dire l´incapacità di prevenire e affrontare un´emergenza ambientale già ampiamente annunciata. Per l´occasione, il sindaco Alemanno avrebbe potuto almeno risparmiarsi (e risparmiarci) il consueto scaricabarile con la Protezione civile sulla puntualità delle previsioni meteorologiche: bastava ascoltare nei giorni scorsi un qualsiasi giornale radio o telegiornale, per informarsi e provvedere di conseguenza.
La "Città eterna", dunque, degna Capitale del Malpaese. Centro nevralgico di un intero sistema – ferroviario, aereo, stradale e autostradale – obsoleto e inefficiente. Ma anche simbolo di un cattivo governo del territorio, del suo assetto idro-geologico, del suo contesto ambientale. Non a caso, fin dai tempi del boom economico, Antonio Cederna denunciava il "sacco di Roma" come paradigma di un malcostume nazionale, alimentato dalla speculazione edilizia e dalla cementificazione selvaggia.
Di questa cultura o incultura collettiva, fa parte integrante la mancanza o insufficienza cronica dell´ordinaria manutenzione. Cioè di quei "piccoli lavori" quotidiani che, a differenza delle mitiche "grandi opere", si possono (e si devono) realizzare con minori costi e rischi. È proprio questa, in realtà, la forma di prevenzione più efficace per arginare e contenere l´impatto delle fenomeni o delle calamità naturali.
Basta allora una nevicata, neppure tanto catastrofica, per mettere in ginocchio una Capitale e mandare in tilt mezzo Paese. A parte, poi, le vittime e i danni che un evento del genere riesce in queste condizioni a provocare. Danni materiali, economici e comunque anche d´immagine, se è vero che quella del turismo resta tuttora la prima industria nazionale.
Il fatto è che il nostro appare oggi un Paese a rischio permanente. E a dispetto del suo incomparabile patrimonio storico, artistico e culturale, come della sua antica tradizione di accoglienza e civiltà, non offre un´ospitalità adeguata ai visitatori e ai turisti italiani o stranieri. C´è uno spreco intollerabile di risorse che pure appartengono al patrimonio pubblico e non influiscono quanto potrebbero sul Prodotto interno lordo, né in termini finanziari né tantomeno di occupazione.
Qualsiasi politica di rilancio e di crescita, invece, non può che fondarsi sulla sicurezza ambientale e civile. E questo vale in particolare per il Mezzogiorno, afflitto dal degrado e dall´abusivismo edilizio oltre che dalla criminalità organizzata. Senza sicurezza non c´è turismo e senza turismo per noi non c´è sviluppo.
È tanto paradossale quanto inaccettabile, perciò, che una nevicata spacchi il Paese in due, paralizzando la Capitale, i collegamenti stradali e ferroviari. Che centinaia di passeggeri rimangano bloccati per un giorno intero in stazioni gelate, che intere zone rimangano isolate, che quasi duecentomila famiglie rimangano senza elettricità. Mentre cerchiamo faticosamente di risalire la china della credibilità internazionale e di ridurre finalmente lo spread, per pagare meno interessi sul finanziamento del debito pubblico, nello stesso momento mostriamo al mondo intero il nostro volto peggiore: quello di un popolo arruffone, disorganizzato, inefficiente. Un´Italia occupata in gran parte da catene montuose, le Alpi in tutto l´arco settentrionale e gli Appennini come spina dorsale da nord a sud, ma senza spazzaneve e camion spargi-sale a sufficienza.
A Roma e dintorni, nei prossimi giorni il ghiaccio si scioglierà. La circolazione stradale tornerà più o meno regolare. I treni e gli aerei riprenderanno a viaggiare più male che bene. Ma, prima che arrivi un´altra nevicata, un´altra alluvione o un´altra frana, dovremmo imparare una buona volta la lezione che di tanto in tanto la natura severamente impartisce.
Cronache di un disastro annunciato. Dopo giorni di avvertimenti sull'avvicinarsi di una perturbazione, il sistema paese è andato in frantumi. Autostrade bloccate. Interi comprensori senza elettricità per ore e ore. Comuni colpiti dalle politiche del rigore monetarista che non hanno i mezzi per riaprire la viabilità secondaria. Treni fermi per guasti a Carsoli o per problemi di linea a Cesano, comune di Roma, capitale di un paese disgregato dal neoliberismo.
La rete ferroviaria costruita nell'Italia post-unitaria aveva alla base l'obiettivo di unificare fisicamente il paese. Attraverso l'uso della spesa pubblica si perseguì l'obiettivo di mettere in rete ogni angolo, anche il più remoto, dell'Italia. I treni avevano all'epoca tre classi. C'era dunque una concezione molto gerarchica della società e non mancarono scandali. Ma c'era anche il pensiero che il paese intero dovesse beneficiare del miglioramento economico e sociale. Con il trionfo della cultura neoliberista sono state spese decine di miliardi di euro (Ivan Cicconi li ha contati uno ad uno) per costruire la linea di alta velocità tra Napoli e Torino. Il resto è stato abbandonato a se stesso. Non è conveniente dal punto di vista economico, ci dicono i grandi strateghi del fallimento. Città e regioni del sud e delle aree interne sono stati abbandonati a se stessi. Milioni di persone non contano nulla: la competitività si gioca tra le aree forti e lo Stato ha abdicato alla funzione principale sancita dalla Costituzione, quella di rendere più uguale e giusta la società e gli individui.
Il pilastro ideologico che ha reso possibile questa devastante involuzione è la cultura delle privatizzazioni. Ferrovie dello Stato, come tutte le società pubbliche, è stata privatizzata e disarticolata in tante società, ognuna delle quali ha perseguito l'unico obiettivo del fare cassa. Licenziando, diminuendo le tutele ai lavoratori e alla stessa rete. La tragedia di Viareggio è inscritta in questa logica. Non paghi di quanto hanno provocato, i super stipendiati strateghi del liberismo stanno completando il disegno. Da qualche settimana le sale d'aspetto, ad eccezione di Roma e Bologna sono state chiuse. Chiuse e basta. Uno dei paesi più ricchi del mondo non può permettersi di "sprecare" metri quadrati senza valorizzarli. Lunedì scorso, in un dibattito sulla prima rete radiofonica, un dirigente di Grandi stazioni (uno dei pezzi dell'ex FS) nascondendo a stento il fastidio per le mie argomentazioni, ha affermato che non c'è nessuna necessità di sedersi: meglio camminare tra negozi e gadget.
Questo disprezzo delle persone in carne ed ossa, degli anziani, di chi viaggia per motivi di salute, o per le tante vicissitudini della vita, mi è tornato in mente ieri sera nell'apprendere che in ogni angolo del paese - ad eccezione della tratta dell'alta velocità, naturalmente - i treni si erano fermati. Potevano seguire il consiglio del nostro intrepido manager di cartone. Potevano scendere e camminare nel buio di una notte senza fine cui ci sta condannando la troppo lunga stagione del liberismo.
«Chi scoraggia gli investimenti è Monti suggerendo con le sue affermazioni ai capitali di non investire». La Cgil è sul piede di guerra, ma anche Cisl e Uil sono in fibrillazione. Monti ritiene che in Italia siano troppe le tutele sul lavoro e che tutto ciò renda il mercato stagnate, anzi scoraggi gli investimenti? «Al presidente del Consiglio piacciono gli esempi estremi - contrattacca il sindacato di Susanna Camusso - ma parlare di troppe tutele per chi è "blindato nella sua cittadella", è non solo sbagliato, non vero, ma anche un po´ offensivo verso quei lavoratori». Un atto d´accusa che Fulvio Fammoni, segretario confederale traduce in una domanda diretta: «Monti conosce la condizione reale del lavoro? In tre anni abbiamo perso centinaia di migliaia di posti».
Le parole del premier sono benzina sul fuoco di scioperi già indetti dalla Fiom (Landini: «L´articolo 18 esca dal tavolo della trattativa»), mentre la minoranza interna della Cgil pensa a uno sciopero generale. Però la piattaforma unitaria del sindacato per ora regge, e mercoledì prossimo i segretari di Cgil, Cisl e Uil, Camusso, Bonanni e Angeletti hanno in programma un incontro, poco prima del tavolo con le imprese. Il tam tam di Fornero e Passera ha preparato il terreno alla svolta sul mercato del lavoro, che Monti ha ormai lanciato. Il clima sociale e politico si surriscalda.
Il Pd frena e avverte che così non va. Bersani ha ribadito che si può essere innovativi sul lavoro senza cancellare l´articolo 18, anche se ritiene sia meglio per il momento lasciare che esca una proposta dal confronto tra governo e parti sociali. Teme l´effetto domino. I partiti insomma facciano un passo indietro.
Di Pietro invece accusa: «Le dichiarazioni di Monti sembrano un´intimidazione e una truffa mediatica. Le ragioni della crisi economica e occupazionale in Italia non sono certo causate dall´articolo 18, ma dal fatto che lo Stato ha accumulato quasi duemila miliardi di debito e da una classe politica allo sbando». Casomai le tutele vanno estese - secondo il leader di Idv - non certo tolte. Altolà da Vendola: «Il governo è guidato da un conservatore di destra». E anche il responsabile economico del Pd, Stefano Fassina taglia corto: «Quelle di Monti sono affermazioni sorprendenti perché infondate». Nelle file democratiche ci sono opinioni divergenti. Cesare Damiano afferma che se il governo non trovasse un accordo con i sindacati, allora si aprirebbe un problema politico in Parlamento, e a Monti: «Sull´articolo 18 sbaglia». Al contrario Piero Ichino è convinto che, se anche non ci fosse condivisione, il governo non debba rinunciare alla riforma del lavoro. I Radicali propongono di procedere pragmaticamente, varando ad esempio una moratoria triennale sull´articolo 18. «Nelle imprese fino a 30 dipendenti», suggeriscono Pannella e De Lucia. Nel centrodestra tutt´altra musica. Brunetta entusiasticamente dichiara: «Togliamo questo tabù che ingessa». Quagliariello rincara: necessarie riforme coraggiose.
I due principali candidati alle presidenziali francesi, il socialista François Hollande e Nicolas Sarkozy, che non ha ancora ufficializzato la sua partecipazione alla corsa all'Eliseo del 22 aprile e 6 maggio, si scontrano sulle «classi medie» e si accusano a vicenda di non volerle proteggere. I due principali candidati mascherano, con l'espressione «classi medie», che il sociologo Louis Chauvel descrive «alla deriva», un reale imbarazzo nei confronti della classi popolari.
Sarkozy, che nel 2007 aveva vinto grazie al voto di operai e impiegati, convincendoli con la promessa di un aumento del potere d'acquisto grazie al «lavorare di più per guadagnare di più», ha ormai consumato il divorzio con questa parte della popolazione. Dice Jérôme Fourquet dell'istituto di sondaggi Ifop: «Oggi, soltanto il 10% degli operai sarebbe pronto a votare Sarkozy al primo turno e tra il 30 e il 35% al secondo, contro il 50% del 2007».
Il Ps, secondo l'economista Bruno Amable, dalla svolta del rigore dell'83, ha girato le spalle alle classi popolari: «La scelta di abbandonare una politica di rilancio contro la disoccupazione a vantaggio della deflazione competitiva non è stata solo l'espressione del vincolo esterno o della volontà di restare in Europa. È stata una scelta politica che ha privilegiato le attese delle classi medie e superiori a detrimento di quelle delle classi popolari». Oggi, i sondaggi indicano che le intenzioni di voto degli operai sono al 40% per Marine Le Pen, seguite da Hollande al 35%. Sarkozy sarebbe alla pari con il candidato del Front de Gauche, Jean-Luc Mélénchon, per attirare il 10% del voto delle classi popolari.
Come è cambiata la situazione della società francese negli ultimi anni? Come ha influito la mondializzazione, in un paese che nel 2005 aveva stupito l'Europa votando «no» al Trattato costituzionale europeo, affossato da quel rifiuto (che si era aggiunto al «no» olandese)? Lo abbiamo chiesto al ricercatore di geografia sociale Christophe Guilluy, autore, tra l'altro, dell'Atlas des nouvelles fractures sociales en France (Autrement, 2004) e di Fractures françaises (Bourin, 2010).
L'organizzazione sociale del XXI secolo, che vediamo in Francia, ma anche in altri paesi, Usa compresi, ci mette di fronte a grandi città mondializzate, aperte, che accolgono dall'alto la ricchezza e dal basso l'immigrazione. Da una quindicina di anni c'è stato un rinnovamento della sociologia delle grandi metropoli, che votano per i socialisti o per i Verdi. Questa situazione pone la questione sul cosa sia la sinistra oggi e ci mostra il divorzio tra sinistra e classe operaia, classi popolari. Si tratta di un divorzio geografico e culturale. La sinistra è universalista, aperta al mondo, ha dimenticato la questione sociale: questo ha favorito che fosse mangiata dalla logica neoliberista. È uno choc culturale gigantesco rispetto al passato. La questione sociale è stata dimenticata e sostituita dai dibattiti di società. C'è una dimensione geografica: la sinistra non è più in contatto con le classi popolari. Mélenchon, certo, riporta nel discorso politico la questione sociale, ma lo fa con una visione che era quella del Pcf degli anni '70, come se in trent'anni non fosse successo nulla.
È la mondializzazione che ha cambiato tutto, nel senso che le classi popolari sono le perdenti di questa trasformazione, con le delocalizzazioni e la disoccupazione, mentre l'élite delle grandi città ha solo i vantaggi di questo mondo dove tutto è a portata di mano?
Dopo vent'anni di mondializzazione, la divisione dominante non è più destra/sinistra, ma tra classi popolari e classi dominanti. Non c'è la stessa percezione culturale della mondializzazione. Gli abitanti delle grandi città che votano a sinistra, anche se nei discorsi non lo dicono, erigono di fatto delle barriere, delle frontiere culturali: lo si vede nella scelta delle scuole per i figli, dei condomini dove abitare. Gli operai non hanno i mezzi per erigere queste frontiere e chiedono allo stato di farlo. La gente, confusa dalla perturbazione dell'identità, ha bisogno di ritrovarsi. Tutti pensano del resto che l'identità sia importante, che i valori siano importanti. Ma in alto si sa cosa non si deve dire. Vengono fatti discorsi moralizzatori a sinistra su coloro che sono confusi dal multiculturalismo, ma questa è più una questione sociale che filosofica: la percezione de multiculturalismo è diversa se si guadagnano 800 o 10mile euro al mese. Da vent'anni, le classi popolari votano più o meno uguale, No all'Europa di Maastricht, Le Pen nel 2002, Sarkozy nel 2007, oggi Marine Le Pen, e dicono sempre la stessa cosa, servendosi dei partiti. Negli anni '80, il Fronte nazionale era liberista, era votato dalla vecchia borghesia cattolica, quando negli anni '90 gli operai hanno cominciato a votarlo non appartenevano alla sua cultura che non aveva nulla a che vedere con la lotta di classe. Poi il Fn ha adattato il discorso, così come la sinistra adatta il discorso al suo elettorato.
Ma i due partiti dominanti, Ump e Ps, si rivolgono soprattutto alle classi medie. Come mai?
È un concetto legato al periodo dei Trenta gloriosi, quando nel momento della crescita sociale tutti erano destinati a diventare classe media. A ciascun periodo di mutazione economica corrisponde un paesaggio sociale e una classe sociale. Dopo il periodo della Francia rurale, con i contadini al centro, fece seguito quello della rivoluzione industriale, con la classe operaia, i quartieri operai e il Pcf. Nei trenta gloriosi emerge la classe media, che abita nei pavillon, nelle villette, creando un paesaggio urbano diffuso. Dalla fine degli anni '80 emergono i quartieri etnici, i ghetti che si contrappongono ai pavillon delle classi medie. Oggi, dopo vent'anni di mondializzazione, c'è stata una ricomposizione del territorio. Le classi medie sono esplose. Le classi popolari sono composte non solo da operai, ma anche da impiegati, dal terziario, dai precari: rappresentano il 60% della popolazione.
I grandi partiti hanno capito che queste categorie soffrono enormemente a causa della mondializzazione, ne sono i perdenti. Hanno bassi salari, sono precari, vivono in territori non ben definiti, sono stati cacciati dalle grandi città, vivono ai margini delle zone dove si produce ricchezza, a differenza degli operai di una volta. Vivono una una no man's land culturale e non è un caso se emergono qui i partiti populisti. Da vent'anni le classi popolari hanno un'immagine culturale deteriorata, svalorizzata. Si tratta della Francia periferica, sia dal punto di vista della logica geografica che culturale. In queste zone vivono molti giovani, ma nessuno li vede: secondo un sondaggio Ifop, il 28% di questi giovani tra i 18 e i 24 anni vota Fronte nazionale. Questo vuol dire che, mentre lo zoccolo elettorale dell'Ump sono i pensionati, del Ps i funzionari, la popolazione attiva lo è del Fronte nazionale. È un immenso problema.
La sinistra, il Ps in particolare, come mai ha voltato le spalle alle classi popolari?
Negli anni '80, la sinistra è andata verso il liberismo. Ha abbandonato la questione sociale, sostituendola con l'antirazzismo. Il Pcf è scomparso, è rimasto il Ps che è sempre stato borghese e ha scelto delle tematiche che potenzialmente possono venire difese anche dalla destra, le questioni di società, la scelta della bicicletta invece dell'auto ecc..
Lei parla di Francia divisa in tre: città mondializzate, Francia di provincia e banlieues. Come si situano oggi le banlieues, dove vive una parte della classe popolare?
La figura dell'immigrato ha sostituito a sinistra la figura dell'operaio. Ma la maggior parte degli operai in Francia non sono immigrati. La carta della povertà ci rivela che l'80% dei poveri non vivono nelle banlieues, ma nei pavillon e nelle zone rurali. Le banlieues sono state molto mediatizzate, a causa delle cattiva coscienza coloniale. Le banlieues sono però territori molto mobili, dive si entra e si esce con grande frequenza. Quindi la fotografia che si fa a un momento dato delle banlieues è sempre sfasata: l'immigrato precario arriva, mentre il francese di origine immigrata se ne va. La disoccupazione resta forte, ma non sono le stesse persone a essere senza lavoro. Chi riesce, e sono in molti, se ne va, diventa classe media. Nelle banlieues si riproduce la storia delle classi popolari, si parte dal basso, una maggioranza ci resta, mentre una minoranza riesce e prende l'ascensore sociale. Finora, il modello assimilazionista era basato sul fatto che l'altro diventa sé. In una generazione, italiani, spagnoli ecc. si sono assimilati.
Ma, senza dirlo, dagli anni '80 l'assimilazione è stata abbandonata. Pensavamo di essere più furbi degli americani o degli inglesi, ma l'altro è rimasto l'altro. Siamo entrati in un mondo multiculturale. Ma chi è stato proiettato in questo nuovo mondo senza le istruzioni per l'uso? Le classi popolari. Ai tempi del Pcf, c'era un'integrazione culturale, oggi questo non esiste più e per questo il Fn recupera terreno. Prima, gli immigrati abitavano negli stessi quartieri degli operai francesi, oggi non è più così. L'immigrazione recente vive nelle grandi città, nelle banlieues, mentre l'immigrazione anziana e i bianchi non vivono più negli stessi luoghi. Hanno subito uno choc culturale enorme, quando sono diventati minoranza sul loro territorio.
C'è un effetto-specchio, tra la rivendicazione identitaria dei giovani di origine immigrata e quella dei giovani bianchi di estrazione popolare. C'è un comportamento razionale delle classi popolari, rispetto a quello che hanno vissuto negli ultimi vent'anni, non bisogna disprezzarle. Ho l'impressione che i grandi partiti, che si limitano a fare proposte tecniche, tendano a fare in modo che le classi popolari non votino più neppure alla presidenziale. Del resto, già disertano le urne per gli altri appuntamenti elettorali.
L´occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3 milioni. Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l´intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative.
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le "nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro", richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l´occupazione e ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l´Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d´accordo, che l´articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l´articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c´è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari.
Si prenda il caso della "flessibilità buona", un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà che questo è appunto l´intento del governo. Ma è proprio qui che sta l´errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch´esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.
Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per creare occupazione la ricetta è un´altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.
In tutta Italia stanno nascendo sale di lettura organizzate "dal basso" grazie al modello della studiosa Agnoli -Sono posti pubblici dove si forniscono servizi multipli: si trovano i volumi e si tengono corsi - Sono nuovi spazi che vanno avanti grazie ai cittadini diventando "rifugi" per anziani e bimbi
«Mi piace, perché leggendo posso addormentarmi senza che nessuna guardia mi svegli», ha scritto su un post-it un lettore della bolognese Sala Borsa. Sala Borsa è la biblioteca multimediale di piazza Nettuno, pieno centro della città. Un tempo, alla fine dell´Ottocento, qui si scambiavano merci, bestiame e titoli. Ora alle cinquemila persone che tutti i giorni vi transitano hanno chiesto di completare la frase «Sala Borsa mi piace perché... ». E quella era una delle risposte. Un´altra recitava: «Perché "io barbone" quando piove o fa freddo ho un riparo ma soprattutto perché "posso" acculturarmi leggendo un buon libro il che non è poco, grazie».
Antonella Agnoli ha raccolto i post-it nel suo iPad e li porta sempre con sé. Da alcuni anni si fa promotrice in Italia di quelle che nel mondo anglosassone chiamano le public library e che lì si sa benissimo cosa sono. Non sono le biblioteche di conservazione, con gli scaffali grigi, i libri in ordine, le lampade liberty e le sale manoscritti riservate agli studiosi. Patrimonio indispensabile alla cultura di una nazione, eppure in Italia costrette a combattere per sopravvivere. Quelle alle quali lei pensa sono "piazze del sapere" (si intitolava così il libro che ha pubblicato da Laterza alcuni anni fa), luoghi in cui si fornisce un servizio multiplo: libri, certamente, e poi giornali, studio, collegamenti a internet, musica, caffè, poltrone, spazi per bambini, per le riunioni di associazioni e comitati, per i corsi più vari, dall´informatica all´ikebana, dal lavoro a maglia alla lingua cinese o all´italiano per stranieri. Luoghi di socialità. Tenuti in vita da bibliotecari di professione e da volontari. Servizio culturale e welfare. «Infrastrutture democratiche», le chiama, spazi essenziali soprattutto laddove si raggrumano vecchie e nuove povertà, solitudini e fatica di vivere.
La Agnoli, cadorina di nascita e di lingua, ha diretto la biblioteca di Spinea (vicino a Venezia) e inventato quella di San Giovanni di Pesaro, per tanti aspetti esemplare, di cui è stata direttrice fino al 2008. Ha appena scritto Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica, pagg. 140, euro 12). E da qualche tempo è diventata una specie di consulente itinerante di gruppi di cittadini, di volontari e anche di amministratori locali che la lezione anglosassone vogliono metterla in pratica. Anglosassone, poi, fino a un certo punto. Nei quartieri più difficili di Londra, come Tower Hamlets, funzionano gli Idea Store, di cui è responsabile anche un bibliotecario italiano, Sergio Dogliani. Ma per trovare un paese che vanta un trend vorticosamente positivo occorre andare in Colombia: a Bogotà le biblioteche non sono tantissime, 52, ma sono frequentate ogni anno da 5 dei 7 milioni di abitanti. Il che ha indotto l´Unesco a proclamare la città "Capitale mondiale del libro" nel 2007.
Tre giorni fa Antonella Agnoli ha girato fra Caivano, Cardito, Crispano e Frattaminore, paesi a nord di Napoli, verso Caserta. Realtà difficile, al limite della disperazione (discariche, abusivismo, caos edilizio, camorra). Eppure amministratori e soprattutto un gruppo di giovani si sono detti convinti che «una biblioteca con i suoi nuovi spazi e laboratori diviene un´istituzione fondamentale in una società democratica». «Lo hanno scritto in un documento intitolato La città che vogliamo, con il quale si sono presentati alle elezioni amministrative», racconta Antonella Agnoli. «Alla biblioteca chiedono ambienti di lavoro e di studio armoniosi, luoghi di accesso a internet, spazi autogestiti. Chiedono inoltre che contribuisca all´educazione permanente degli adulti: una serie di servizi che un´amministrazione pubblica intelligente non può ritenere superflui in un´area tanto mortificata, certamente più sensati di certe sagre, festival o premi letterari».
È spesa sociale, insiste la Agnoli. La sola parola welfare evoca l´idea dello spreco in chi pensa che bastino gli accomodamenti del mercato ad alleviare povertà e incultura. «Ma studi americani dimostrano che un welfare culturale riduce le malattie da depressione, dunque più soldi per la cultura sono meno soldi per la sanità. E ancora: nel 2010 il 68 per cento di chi cercava lavoro negli Stati Uniti ha inviato il suo curriculum da una biblioteca. Significa che le biblioteche, anziché sparire perché c´è il web, come profetizza qualcuno, sono un passaggio essenziale anche per accedere alla rete: molti di quel 68 per cento prima aprivano internet da casa, poi, perso il lavoro, hanno tagliato le spese di connessione».
In Italia solo il 10 per cento degli ultrasessantacinquenni ha familiarità con internet. E nel 2015 avranno oltre sessantacinque anni 13 milioni di italiani. Dice Antonella Agnoli: «Non esiste luogo migliore di una biblioteca per offrire agli anziani un´elementare alfabetizzazione informatica: vogliamo che vadano in un internet caffè?». Sono molte le cause che allontanano i lettori dai libri. «Ma quante di quelle settecentomila persone che, secondo l´Istat, l´anno scorso rispetto al 2010 si sono tenute alla larga da una libreria lo hanno fatto perché con tre figli e 1.200 o 1.400 euro al mese non ne hanno potuto spendere 20 per un romanzo? Questi lettori può recuperarli la biblioteca. Ma quale biblioteca?».
Non è un compito che possono assolvere le gloriose Marciana di Venezia o Nazionale di Firenze. Ma la biblioteca delle Balate del quartiere Albergheria, centro storico depresso di Palermo, sì. È una delle iniziative virtuose che segnala la Agnoli, molte delle quali spuntano al Sud. Biblioteca per bambini e adolescenti, le Balate è l´unica del capoluogo siciliano. È retta da volontari, con un contributo della Fondazione Unipolis, e da Donatella Natoli, una vita spesa nelle zone più degradate della città, prima come medico e ora come guida per una quarantina di piccoli lettori ogni giorno.
Piccoli lettori difficili, oltre a lettori grandi, frequentano anche il Centro Hurtado diretto dal gesuita Fabrizio Valletti e la biblioteca Le Nuvole a Scampìa, Napoli. La Fondazione Unipolis ha aiutato Bibliocasa, la biblioteca sistemata in un prefabbricato dell´Aquila, a Piazza d´Arti, e animata da Nicoletta Bardi e da un gruppo di volontari (ora c´è anche un autobus che distribuisce libri nella martoriata e dispersa città). «I volontari sono indispensabili», spiega Antonella Agnoli, «i bibliotecari dipendenti dagli enti locali sono sempre meno e sempre più anziani. Sono generosi e competenti, senza di loro una biblioteca non funziona, ma ce ne sono anche di demotivati. Assunzioni non se ne fanno. Subentrano le cooperative, ma alcune pagano 5 euro l´ora, un compenso da sfruttamento che non induce a un atteggiamento cordiale e garbato, essenziale invece in una biblioteca: molto meglio i volontari». A Torino sono impegnati in tantissimi servizi, fra musei e siti storico-artistici. Poi c´è il caso di Giovanni Galeazzi, un pensionato che tutte le mattine da Mestre va all´Archivio di Stato di Venezia (lo ha raccontato Carlo Mazzacurati nel film Sei Venezia). «Ad Avellino un gruppo di persone aderente ai Presìdi del libro ha raccolto soldi in città, comprato scaffali, donato giornali e riviste, allestito tre postazioni internet e colorato gli arredi della biblioteca Nunzia Festa. Ma soprattutto ha consentito che le sale fossero aperte anche il pomeriggio. Una biblioteca accessibile dalle 9 alle 13 non è una biblioteca».
Certo, questo governo dei tecnici dovrebbe essere più misurato nel linguaggio. Va bene che i sottosegretari sono stati indicati da quei partiti i cui dirigenti – maschi e femmine – spesso parlano (nel senso di straparlare) “fuori dal vaso”. Per questo, uno/una potrebbe anche scusare il sottosegretario Polillo che vede il ministro Fornero come “icona della fontana che piange” e il sottosegretario Martone che considera “sfigati” gli studenti non laureati a 28 anni. Ma se ci si mette pure il sobrio, contenuto, controllato Mario Monti, allora non c’è speranza. Significa che le derive del linguaggio sono inarrestabili.
Per il premier “i giovani devono abituarsi a non avere un posto fisso nella vita”. Turbocapitalismo e flessibilità: do you remember? Con un modello del lavoro scivolato dalla fabbrica al postindustriale; dalle vecchie “classi”, direbbe André Gorz, ovvero dalle antiche aggregazioni sociali alle nuove élites iperattive (basta pensare al ministro Passera) e alla massa del “lavoro servile”.
Certo, starebbe ai giovani essere autonomi e dimostrarsi responsabili del proprio destino. Solo che il destino non cammina sulle gambe del creativo o del manager bensì di chi staziona in un call-center a un migliaio di euro (se va bene) al mese. La banconista, il commesso, l’addetta al confezionamento, il contabile, centralinista, sportellista, receptionist (tutti magari con laurea e master) non ci provano nemmeno a trovare nobili motivazioni (tipo “il far bene”) per ciò che fanno in cambio di modestissima paga.
Quanto al posto fisso “diciamo anche, che monotonia averlo per tutta la vita. E’ bello cambiare…” suggerisce ancora il premier. Meglio spostarsi di qua e di là, scegliere una dimora piccola ma accogliente, incontrare nuovi amici. Ma lo sa Monti che se il parasubordinato deve firmare per l’affitto di una casa, senza busta paga nemmeno lo prendono in considerazione? E sa che se vuole acquistare un frigorifero a rate, accendere un mutuo per la macchina, senza la garanzia di uno stipendio fisso, serve l’avallo del padre o della madre?
Il meraviglioso appello a una rivoluzione mentale dei giovani avrebbe bisogno di un po’ più di umiltà. Credere in se stessi è possibile però bisogna che qualcuno cominci con il dare il buon esempio. Fin tanto che i ricchi non saranno tassati, il capitalismo continuerà a mostrare la sua faccia più irresponsabile. Fin tanto che i potenti non avranno uno sguardo meno strabico su ciò che avviene intorno a loro, fallirà il tentativo di disegnare delle alternative. E non sarà facile convincere le ragazze “indignate” bolognesi e quella romana del centro sociale Esc – invitate all’“Infedele” di Gad Lerner (lunedì 30) per valutare il governo Monti – che la fine del posto fisso è una vera fortuna.
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È difficile essere cittadini. In ogni tempo sono stati molti, e assai diversi fra loro, gli ostacoli che sbarrano l'accesso alla cittadinanza o che ne condizionano e vanificano l'esercizio. Pare che non si possa includere alcuni nello spazio politico senza escludere o discriminare altri. In Grecia, infatti, la cittadinanza era ristretta a una sola parte del corpo sociale, ai maschi liberi figli di liberi, e - se si trattava di una democrazia - consisteva nella partecipazione diretta agli affari della città attraverso la pubblica deliberazione in assemblea. L'esclusione, o meglio l'inclusione subalterna e differenziata, di classi, ceti e generi (gli schiavi, le donne, i meteci, ossia gli stranieri residenti) era netta. Invece Roma si differenzia dal mondo greco perché concepisce la cittadinanza come uno spazio non etnico ma giuridico e istituzionale, all'interno del quale possono essere accolti (naturalmente, dopo dure lotte civili) ceti subalterni e genti diverse, politicamente sottomesse; certo, anche questa cittadinanza riguarda solo i maschi liberi, e perde progressivamente il significato di partecipazione politica via via che Roma si trasforma in un impero mondiale. Il mondo cristiano medievale predica la cittadinanza universale del regno dei cieli ma in questo mondo conosce cittadinanze plurime, particolari, gerarchizzate. La sua cifra è la differenza (fra nobili, clerici, plebei); solo nelle città si aprono spazi di conflitto e di lotta per l'accesso alla cittadinanza di larghe fette di popolo, a sua volta diviso fra ricchi e poveri. Che la cittadinanza sia un'inclusione che implica un'esclusione,o una discriminazione, resta confermato (si pensi non solo alle donne, ma anche agli eretici, o agli ebrei).
È la modernità che si incarica di affermare la cittadinanza universale, l'uguaglianza civile e politica, senza esclusioni. Più che di lotte, ora, si deve parlare di autentiche rivoluzioni che azzerano le discriminazioni; il cittadino dei tempi nuovi vive un'universale appartenenza alla repubblica. Eppure, quel cittadino è al tempo stesso un borghese; ovvero, dal godimento di quella cittadinanza sono per lungo tempo esclusi i non-proprietari, i poveri, ancora e sempre le donne, e tutto il mondo coloniale. Sono state ancora necessarie lotte durissime perché i diritti di cittadinanza diventassero effettivi, perché la cittadinanza fosse davvero inclusiva, perché ai diritti civili e politici si affiancassero i diritti sociali.
Ma anche quest'ultima fase della storia della cittadinanza, che coincide con la democrazia e con lo Stato sociale, ha i suoi problemi e le sue contraddizioni. Prima di tutto all'esercizio della cittadinanza: ciò che il mondo d'oggi produce è più un apatico consumatore che un cittadino. Ma un altro rischio sovrasta la cittadinanza moderna. L'attuale crisi dello Stato sociale è di fatto crisi della cittadinanza: la frammentazione della società, la marginalità, la precarietà, sono infatti espulsioni dalla sfera pubblica; la cittadinanza non è più appartenenza ma si rovescia in rancore, in frustrazione; e, ancora una volta, in esclusione.
A ciò si aggiunge il fatto che la cittadinanza moderna è sì universale, ma è determinata dallo Stato, che prescrive le modalità con cui si diventa cittadini; se prevale l'elemento della nascita, della cittadinanza dei genitori, vige lo ius sanguinis, mentre se prevale il territorio in cui si nasce o in cui si vive, vale lo ius soli. In Italia il primo è assai più importante del secondo: lo straniero residente può chiedere la cittadinanza solo dopo molti anni di permanenza e di lavoro. E i figli degli stranieri non diventano italiani neppure se nascono e vivono in Italia.
Quando la società era omogenea, quando lo Stato coincideva con la nazione, i problemi erano relativamente pochi: di solito, si nasceva in Italia, da genitori italiani. Ma oggi l'età globale implica la coesistenza, in dosi massicce, su un medesimo territorio di diverse culture, etnie, lingue, religioni. E la prevalenza dello ius sanguinis fa sì che nel medesimo spazio si creino differenze rilevantissime fra residenti cittadini e quantità sempre maggiori di residenti non-cittadini, molti dei quali nati in Italia, che come nuovi meteci condividono la nostra vita quotidiana ma non la nostra cittadinanza. Nasce così un'assurda società postmoderna, in cui la diversità culturale è disuguaglianza civile e politica; una società che non fa convivere le differenze ma le stratifica, le gerarchizza. Ritorna, insomma, la difficoltà della cittadinanza, secondo una modalità che sembrava superata; non si tratta più del suo cattivo esercizio, ma di uno sbarramento all'accesso.
L'argomento che allargando i casi di acquisizione della cittadinanza tramite lo ius soli si snaturerebbe l'identità italianaè del tutto erroneo: non c'è in Costituzione alcun accenno a una necessaria base naturale o culturale della repubblica, che è fondata solo sul lavoro e sui principi della democrazia. La cittadinanza esige non uniformità né omogeneità, ma uguaglianza e pari dignità. In realtà, chi chiede oggi la cittadinanza non universale ma selettiva e diseguale, propugna una sorta di uscita a ritroso dalla modernità, verso un nuovo feudalesimo delle disuguaglianze, verso nuove servitù. E, al contrario, la lotta per la cittadinanza degli stranieri residenti, può essere un'occasione per riaprire una stagione di partecipazione politica anche per chi la cittadinanza già ce l'ha, ma non ne fa buon uso. Non sono solo gli stranieri, ma tutto il Paese, ad averne bisogno.
PARIGI — L'autobus della linea 52 ferma a pochi metri dalla sbarra e dai divieti di ingresso, e a due passi c'è la fermata del métro. La città intorno vive a un ritmo un po' più rallentato rispetto ai quartieri turistici (la Tour Eiffel non è lontana) o a quelli multietnici come Barbès, ma ci sono pur sempre i soliti tabacchini e supermercati. Villa Montmorency, la più insospettabile delle gated community (comunità chiusa) europee, si è ricavata uno spazio inviolabile proprio qui, all'interno della Parigi già malinconica e alto borghese del XVI arrondissement, quella fotografata con maestria e benevolenza da Vittorio Storaro in «Ultimo Tango», e bollata dai parigini più inclini all'invidia sociale come «il quartiere dei ricchi»: ambasciate, consolati, sedi di rappresentanza delle grandi società (Eads, per esempio), condomini per famiglie molto benestanti, scarsa diversità sociale e zero vita notturna. Un mortorio, insomma.
Ma all'interno del mortorio del «XVI» c'è una zona ancora più riparata e protetta, sorvegliata 24 ore su 24 da tre turni di due guardiani all'ingresso, e poi guardie private di notte, e telecamere, cancelli e — sembra un cliché ma è vero — anche un po' di filo spinato. «La Villa Montmorency non è pubblica», si legge sui cartelli, anche se le sei avenue che la compongono sono regolarmente indicate nelle cartine della città e fanno parte a tutti gli effetti del comune di Parigi. Nella Francia che da sempre vede la ricchezza con sospetto, che ha cominciato a crocifiggere Dominique Strauss-Kahn quando salì su una Porsche Panamera (ben prima dello scandalo del Sofitel) e che ancora non perdona a Nicolas Sarkozy le vacanze sullo yacht di Vincent Bolloré nel 2007, c'è una «città proibita» nel cuore della capitale che è fisicamente inaccessibile ai cittadini comuni, e che si batte contro il progetto del sindaco Delanoë di costruire, dall'altra parte del boulevard, le case popolari imposte dalla legge, che darebbero ospitalità a 200 persone meno abbienti. I residenti di Villa Montmorency, poco propensi al protagonismo, hanno fondato una specie di associazione di copertura — «Porte d'Auteuil environnement» — per impedire con petizioni e proteste la costruzione di «Hlm» (abitazioni ad affitto moderato) che finirebbero per snaturare la natura esclusiva — è il caso di dirlo, visto che esclude gli altri — della zona.
Lontanissima dal clima politico ed economico di questi giorni, tutto «aumento dell'Iva» e «Tobin Tax» a destra come a sinistra, non sfiorata dal vento di sobrietà obbligata che soffia in tutta Europa, Villa Montmorency esibisce i cartelli «divieto di accesso» e «proprietà privata» arroccandosi nella sua fortuna. Sembra impossibile perché le strade in teoria sarebbero spazio pubblico, eppure i due guardiani sono irremovibili e non fanno entrare nessuno che non sia stato invitato dall'interno.
Qui si trova forse la più impressionante densità di miliardari di Francia. Il più ricco è Vincent Bolloré (la decima fortuna del Paese, 3,8 miliardi di euro) che ha comprato due case anche per due dei suoi figli, e ha conosciuto a Villa Montmorency il vicino di casa Tarak Ben Ammar, produttore; poi Arnaud Lagardère, presidente del consiglio di amministrazione di Eads, Antoine Arnault (figlio di Bernard e capo della comunicazione di Louis Vuitton), il fondatore di Free e proprietario (con Pierre Bergé e Mathieu Pigasse ) di Le Monde, Xavier Niel. Ha casa dentro Villa Montmorency anche Dominique Desseigne, patron dell'impero di alberghi e casinò Barrière e amico intimo del presidente Nicolas Sarkozy, che preferì farsi ospitare qui da lui nei momenti più duri della separazione con Cécilia. Davanti ai confini della residenza, nella via privata Pierre Guérin, c'è anche la casa di Carla Bruni-Sarkozy, che spesso tralascia l'Eliseo per passare qualche serata domestica in compagnia del marito. E poi i personaggi dello spettacolo Sylvie Vartan e Céline Dion (casa da 47 milioni di dollari), il presidente del Festival di Cannes, Gilles Jacob, e (fino a qualche anno fa) Gérard Depardieu e Carole Bouquet.
Il regolamento condominiale prevede che ogni albero morto o tagliato debba essere immediatamente sostituito, proibisce i barbecue e i tagliaerba troppo rumorosi, limita a due le automobili concesse a ogni famiglia, e piccoli veicoli elettrici portano la spazzatura fino all'entrata per evitare il rumore del camion della nettezza urbana. Nato in America Latina perché la classe media potesse proteggersi dalla violenza delle favelas, il fenomeno urbanistico delle gated community ha prosperato negli Stati Uniti e nel resto del mondo anglosassone ma trova qui a Parigi, nella Francia dell'égalité, la sua applicazione più contraddittoria. E dire che la nascita della «città proibita» dei ricchi si deve alla Rivoluzione francese. Rovinata dal 1789, la figlia della marchesa Marie-Charlotte de Boufflers vendette nel 1822 il suo parco alla famiglia di Montmorency che, trent'anni dopo, lo passò a sua volta alla compagnia della ferrovia Parigi-Saint Germain. Usata una parte del terreno per costruire i binari, la compagnia si mise d'accordo con lo Stato per permettere la costruzione di «case di campagna e ornamentali» negli ettari restanti, in base a una disciplina giuridica speciale che ha resistito da metà Ottocento fino a oggi.
«Si tratta di una sorta di confisca dello spazio pubblico», dice lo storico Claude Quétel che a Villa Montmorency dedica un capitolo del libro appena uscito Murs - Une autre histoire des hommes. Domenica sera, in onda su nove reti televisive, il presidente Nicolas Sarkozy ha denunciato il persistente problema degli alloggi come una delle maggiori difficoltà dei francesi, annunciando misure urgenti per la costruzione di case accessibili, nuova priorità del governo di centrodestra. A Villa Montmorency, dove gli appartamenti più modesti in affitto costano 4.000 euro al mese, e le ville con giardino sono in vendita per non meno di 15 milioni di euro, non la pensano così.
Il presidente della Commissione europea Barroso striglia il governatore Enrico Rossi per i ritardi dei permessi al nuovo negozio del colosso svedese. Ma da Firenze arriva una risposta per le rime
«Non consento a nessuno di denigrare la Toscana. Neanche al presidente Barroso». Il Governatore della Toscana, Enrico Rossi, ha lanciato il suo "non ci sto". E difende le decisioni e i tempi amministrativi per la nuova prossima licenza che Ikea sta per avere nel territorio di Pisa per un nuovo negozio.
Ma cosa ha combinato il presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso per stuzzicare la replica di Rossi?
In un recente intervento ha detto che i tempi dell'insediamento Ikea in Toscana «sono stati negativi» e l'ha portato come cattivo esempio sul rilascio dei permessi per nuovi insediamenti produttivi. Ma Rossi da un lato tiene a dire che Ikea per anni ha insistito per costruire un nuovo negozio nel Comune di Vecchiano, dove non era possibile per problemi di salvaguardia ambientale di una zona prossima al parco di San Rossore-Migliarino-Massaciuccoli.
Dall'altro il presidente toscano spiega che quando Ikea ha cambiato idea e si è trovata la soluzione verso Pisa, la Regione e il Comune hanno dato avvio alla procedura: a febbraio Pisa approverà la variante al piano urbanistico e in primavera sarà aperto il cantiere per la costruzione del nuovo negozio Ikea. «Da febbraio a luglio», ha affermato Rossi «sono i rapidi tempi cinesi che il presidente Barroso sostiene l'Italia dovrebbe cominciare a impegare per far ripartire la crescita delle imprese che vogliono investire nel nostro Paese.
Lo stesso amministratore delegato di Ikea ha riconosciuto la serietà e l'affidabilità del comportamento della Regione Toscana, della città di Pisa e delle istituzioni locali. Potrei inviare al presidente Barroso tante lettere di ringraziamento che riceviamo da imprese che desiderano insediarsi in Toscana e che possono farlo in tempi brevi». Insomma: non si macchia così il buon nome di Pisa e della Toscana. E Rossi insiste: «Come insegna il presidente del Consiglio Mario Monti, l'Europa deve imparare a rispettarci".