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Un'opposizione politica alla politiche dei tecnici, della Bce e del Fmi viene per ora soprattutto espressa dalla destra populista europea: un insieme di partiti già saldamente insediati nelle istituzioni politiche, che hanno un accesso privilegiato al dibattito pubblico e ai media

La crisi economica avviata con il collasso finanziario del 2008-2009 sta rapidamente cambiando gli scenari della democrazia in Europa. Per fronteggiare gli effetti della crisi si attribuiscono sempre più funzioni di governo ai "tecnici", che inevitabilmente ridimensionano non solo il ruolo e la visibilità dei partiti, ma anche i poteri e i diritti politici dei cittadini. Governi guidati da tecnici sono al lavoro in Italia e in Grecia, sostenuti da coalizioni politiche trasversali. Ma ancora più importante è il ruolo della "troika" formata da Commissione europea, Bce e Fmi che svolge un ruolo da "supergoverno", commissariando di fatto le politiche economiche e sociali dei paesi più in difficoltà dell'Eurozona. L'intervento del "tecnico" Mario Draghi ha poi esplicitato un progetto di trasformazione epocale del Vecchio continente, con l'archiviazione del "modello europeo" soprattutto per le protezioni sociali e i diritti del lavoro. Tutto questo avviene mentre, al di là dell'atlantico, il "politico" Obama è accusato di voler trasformare gli Stati Uniti imitando il modello europeo.

Da dove nasce il potere dei tecnici? Il loro punto di forza è quello di poter imporre anche politiche impopolari, perché non hanno la necessità di conquistare il consenso elettorale. Possono d'altra parte contare sulle debolezze e la poca credibilità dei partiti: per affrontare i problemi posti dalla crisi economica l'opinione pubblica sembra più disposta ad affidarsi a una élite di tecnici piuttosto che alle tradizionali élite politiche. Si sta anche affermando un "retorica dei tecnici", ripetuta come un mantra da Monti, da Draghi e dalla Fornero: l'idea di agire nell'interesse delle future generazioni, soprattutto dei giovani che sperimentano sempre più la disoccupazione e il precariato. Una retorica che non solo è smentita da tutti gli economisti più seri, ma che ha scarsissima credibilità presso i giovani. In Italia il consenso per il governo dei tecnici è elevato soprattutto fra gli anziani e i pensionati, mentre è molto più limitato nelle giovani generazioni; è molto forte fra gli imprenditori e i liberi professionisti mentre si riduce drasticamente tra i disoccupati.

Come ci si può opporre al potere dei "tecnici" e al rigido paradigma neoliberista di cui diventano esecutori? Il dissenso si manifesta soprattutto nella "piazza", come dimostrano le ripetute mobilitazioni che si sono registrare in Grecia, Spagna, Portogallo e (in misura per ora limitata) in Italia. Le mobilitazioni hanno però molte difficoltà ad incidere sui processi in corso perché prive di una rappresentanza politica. Emerge così un diffuso senso di impotenza dei cittadini, una percezione di espropriazione della sovranità popolare, che si lega spesso con la perdita delle sovranità nazionale. Una opposizione politica alla politiche dei tecnici, della Bce e del Fmi viene per ora soprattutto espressa dalla destra populista europea: un insieme di partiti già saldamente insediati nelle istituzioni politiche, che hanno un accesso privilegiato al dibattito pubblico e ai media. Queste formazioni hanno avuto successo negli ultimi venti anni soprattutto gestendo l'antipolitica e denunciando le minacce ai diritti e al benessere delle comunità nazionali attribuite agli immigrati. Oggi appare ancora più facile una gestione politica populista della proteste perché da una parte viene messa in discussione la sovranità popolare e dall'altra si ridimensionano i sistemi di welfare locali, chiedendo allo stesso "popolo" di pagare i costi per risanare i bilanci statali e fronteggiare i collassi delle banche.

La destra populista europea gestisce le tensioni sociali contrapponendosi non solo al ceto politico nazionale ma anche alle oligarchie economiche e finanziarie che dominano a livello internazionale. La polemica contro gli effetti della globalizzazione e della crisi economica è strettamente intrecciata a quella contro l'Unione Europea: si rifiuta ogni tipo di solidarietà per gli stati in difficoltà, e si sottolineano i vantaggi di un possibile abbandono dell'Euro. In alternativa alle pratiche della democrazia partecipativa, le formazioni populiste valorizzano una sorta di democrazia plebiscitaria, di fatto realizzata chiedendo un pronunciamento con il voto per i loro leader come interpreti dell'autentica volontà popolare.

I principali partiti di centrosinistra europei appaiono oggi in gravi difficoltà: non sono più in grado di gestire i problemi e le nuove domande prodotte dalla crisi perché dovrebbero rimettere in discussione il paradigma di "neoliberismo temperato" su cui si sono posizionati negli ultimi venti anni.

I partiti europei di centrodestra si muovono in modo molto diverso: di fronte alle scadenza elettorali cercano di recuperare alcune idee e soprattutto la retorica della destra populista. Viene in parte rimessa in discussione la divisione del lavoro che si era realizzata di fatto in diversi paesi europei: i partiti di centrodestra gestivano le politiche neoliberiste mentre i partiti populisti davano espressione alle insicurezze e alle domande di protezione dei ceti popolari. In Francia Sarkozy cerca di presentarsi come "presidente del popolo" prendendo le distanze dalle élite economiche che erano state favorite dalla sua politica fiscale. Chiede un affidamento plebiscitario alla sua persona per salvare la nazione dalla "catastrofe" e al tempo stesso manda precisi segnali all'elettorato del Front National con la promessa di frenare l'immigrazione, di escludere i matrimoni omosessuali e di riformare la politica riducendo il numero dei parlamentari.

In Germania, per riconquistare popolarità, la Merkel cerca di presentarsi come la paladina del "popolo tedesco" riducendo al minimo la solidarietà nell'ambito dell'Unione. La Grecia e gli stati in difficoltà vengono offerti ai cittadini tedeschi come possibili capri espiatori per l'indignazione e la rabbia popolare. Una strategia nel contesto dell'Eurozona molto simile a quella che la Lega ha praticato in Italia. Il Carroccio ha cercato di gestire il malcontento crescente delle regioni del Nord rilanciando le polemiche contro le responsabilità delle popolazioni del mezzogiorno, presentando la secessione come l'unica via per portare la Padania fuori dalle difficoltà economiche.

Ho iniziato a scrivere sul manifesto nel dicembre dell'88 con una riflessione sull'illusione della via giudiziaria alla sconfitta di Cosa nostra, indotta dalle condanne in primo grado del maxiprocesso ma sfatata dalla costante espansione del potere delle varie mafie dalle tradizionali regioni di insediamento all'intero Paese. Oggi, a distanza di tanto tempo e a venti anni dalle stragi del '92, quel giudizio è riconfermato da una miriade di inchieste giudiziarie.

A dispetto dei tanti trionfalismi sparsi a piene mani, specie in questi ultimi anni, dalla propaganda della destra berlusconiana e dai suoi principali cantori, gli ex ministri dell'interno e della giustizia Maroni e Alfano. Cade quest'anno anche il ventennale di Mani pulite con un'analoga similitudine sulla mancata rivoluzione legalitaria e sul peggioramento dello stato di corruzione politico-istituzionale. Sarebbe, però, sbagliato e profondamente ingiusto spingere queste constatazioni fino al paradosso di giudicare inutili o addirittura controproducenti quelle due stagioni, dell'antimafia e dell'anticorruzione, dato che proprio da esse discende un insegnamento che molti condividono: se si è fatto allora, si può fare anche oggi.

Avvicinandosi le celebrazioni in memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e dei tanti uomini e donne delle scorte, è bene mettere un argine al probabile fiume di retorica che si abbatterà su di noi e, alla luce degli insegnamenti del passato, cercare di ragionare con più serietà sul presente. Nell'opera di contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione, sia i metodi di indagine di Falcone e dei giudici milanesi che la legge Rognoni-La Torre per la confisca dei patrimoni illeciti, hanno fatto scuola in Italia e all'estero: basta leggersi la convenzione Onu sul crimine transazionale e corruzione sottoscritta a Palermo nel dicembre 2000. Qui da noi nei campi della giustizia e delle forze dell'ordine oggi possiamo contare, nonostante qualche inevitabile area grigia, sull'impegno indiscusso di questi settori della repressione.

Qualsiasi persona di buon senso si chiede però, e dovrebbero chiederselo anche Maroni e Alfano, come mai, a fronte dei tanti latitanti catturati, delle tante condanne, dei tanti patrimoni confiscati, dai tanti 41-bis, le mafie continuino a spadroneggiare e ad espandersi in modo impressionante nel resto del Paese, di pari passo all'espandersi della corruzione politica-istituzionale e dei latrocini di stato che, statisticamente parlando, hanno ricacciato nell'angolo le stagioni esaltanti dell'antimafia e di "mani pulite". Valgono per tutte le chiare considerazioni di Gherardo Colombo sulla adesione "culturale" di larghi strati della nostra società ad un sistema di illiceità diffusa che la repressione penale da sola non potrà mai sconfiggere. Repressione dovuta, senza dubbio, ma alla lunga inefficace se non si combatte con la dovuta determinazione questa deriva "culturale" che è la vera palla al piede del Paese e che il potere berlusconiano ha reso sempre più pesante con pensieri, legislazione e opere, proponendo un modello accattivante e, purtroppo, trasversalmente imitato.

Almeno sul piano della praticabilità, c'è però differenza tra i due tipi di repressione. Il vero contrasto alla mafia ebbe inizio nel luglio del 1982 con il rapporto di polizia giudiziaria contro Michele Greco più 160, mentre quello contro la corruzione è del 1992, con l'arresto di Mario Chiesa. Con una differenza non da poco: quest'ultimo "confessò" per poi, uscito dal carcere, andarsene come tutti i suoi simili tranquillamente in giro per la città, mentre i testimoni e i collaboratori di mafia venivano, e vengono, ammazzati a decine, per non parlare della mattanza di giudici, carabinieri, poliziotti, politici, religiosi, militanti antimafia, imprenditori ed altri della specie.

In questo intreccio tra mafie e corruzione la politica ha avuto e continua ad avere un ruolo "pedagogico" devastante, scaricando il contrasto all'illegalità su reati minori o inventati e, quindi, sulle fasce più deboli ed emarginate della società ed aiutando i potenti a continuare indisturbati nei loro affari di mafia e corruzione. Il carcere come tortura, la Bossi-Fini, la Giovanardi, la ex Cirielli, i reati di clandestinità da una parte, la impunità da prescrizione abbreviata, la corruzione agevolata con le opere pubbliche o i servizi nelle amministrazioni a qualunque livello, lo scudo per un riciclaggio più facile, l'evasione fiscale lodata dall'altra. Certo, per i mafiosi e i corrotti arrestati è prudente non muovere un dito (come dimostra la stabilizzazione del 41bis), ma per quelli rimasti fuori la piena operatività è assicurata proprio da un sistema di illiceità diffusa dentro il quale guazzano politica e malaffare: chi è dentro è dentro, ma chi è fuori può continuare ad agire indisturbato.

Il problema torna ad essere quello di una immoralità politica che è refrattaria all'opinione pubblica e non riesce a trovare sanzione nelle leggi. Molti i quesiti. È mai possibile che nei tanti casi di corruzione, finanziamento illecito o reati vari contro la pubblica amministrazione il problema sia solo quello della prescrizione del reato e che, cancellato il processo, si riacquisti la verginità politica? È ammissibile un sistema di controlli che consente a due amministrazioni regionali, in bilico per presunti brogli nella presentazione delle liste, di durare fino ad un giudizio che potrebbe arrivare a legislatura conclusa? È così difficile, per un governo seppur tecnico-bancario, ripristinare il falso in bilancio o abrogare la ex Cirielli e la prescrizione abbreviata, il reato di clandestinità o la Giovanardi, introdurre il reato di tortura che ci impone una convenzione internazionale e che lo stato surrettiziamente consuma in danno dei detenuti costretti ad una vita disumana? Uno stato di diritto dovrebbe modificare le leggi che riempiono le carceri di emarginati e svuotarli di detenuti che non riesce ad ospitare con un minimo di decenza, magari con provvedimenti di clemenza previsti dalla Costituzione.

Speriamo che questo governo non vada in giro a celebrare ricorrenze con le solite giaculatorie sul sacrificio dei giudici, sulla vittoriosa lotta alle mafie e alla illegalità e ciarpame simile, mentre mafiosi e corrotti impazzano su tutto il territorio: sarebbe un buon segno di discontinuità con il ventennio berlusconiano.

Dipende da noi. Si chiama così la nuova campagna di Libertà e Giustizia, l'associazione di cultura politica, presieduta da Sandra Bonsanti, che da dieci anni si impegna per dare voce alla società civile. Il manifesto, che pubblicato su Repubblica.it e sul sito di LeG 1porta la firma di Gustavo Zagrebelsky, il costituzionalista che firma, per la terza volta, un appello dell'associazione. E lo fa in un momento in cui il fondersi della crisi economica con quella istituzionale, potrebbe essere fatale al Paese.

Punto di partenza la riforma della legge elettorale che deve essere fatta "nell'interesse primario dei cittadini". E certamente non da un parlamento "screditato". Perché "non c'è speranza di avere buoni frutti se l'albero è malato". "Il nostro è un appello ultimativo ai partiti, alle tante brave persone che ne fanno parte - dice Sandra Bonsanti - Sappiamo che la strada è stretta, non facile e non vogliamo che si disperdano energie in sterili tentativi di fare nuovi partiti".

Dipende da noi fare in modo che la politica sia più dignitosa e rispettata.

Anche e soprattutto in questi giorni in cui la sua credibilità è ai minimi. Giorni in cui il concetto di "casta" è diventato un mantra. Giorni in cui alla guida del paese c'è un governo "tecnico" alle prese con un risanamento difficile e carico di sacrifici. In questa fase carica di incognite sarebbe sbagliato delegare. Piuttosto è il momento di darsi da fare. Perché il rischio che l'Italia non regga una crisi economica e una istituzionale è reale.

Se non ora quando, si potrebbe dire. Sono "tempi nuovi e incerti" in cui "speranza e preoccupazione s'intrecciano". La posta in gioco è alta. C'è un governo tecnico, "segno di tempi di debolezza della politica e d'inettitudine dei partiti politici". Non si tratta, dice l'associazione, di fare di tutt'erba un fascio. Ma di dire, con chiarezza, che "il sistema politico e la sua classe dirigente hanno fallito, arretrando di fronte alle loro responsabilità". A un passo dal baratro la cura Monti è apparsa l'unica possibile. Ma questo non significa adesione fideistica alle mosse dei Professori. "Perché la medicina che guarisce può diventare il veleno che uccide - si legge nel manifesto di LeG - Il nostro governo è tecnico-esecutivo per le decisioni rese necessarie dal malgoverno del passato e dalla pressione di eventi maturati altrove, in sedi democraticamente incontrollabili, ma è altamente politico per l'incidenza delle sue misure sulla vita dei cittadini. Dire "tecnico", significa privare la politica della libertà. LeG non può ignorare che la tecnica esercita anch'essa una forza ideologica che può diventare anti-politica. Allora, quello che inizialmente è farmaco diventa veleno: senza politica, non ci può essere libertà e democrazia; senza democrazia, alla fine ci aspettano soluzioni basate non sul libero consenso ma sull'imposizione".

Medica o veleno, dunque? La risposta non è affidata al destino, ma, continua LeG "dipende da noi". Per questo serve "un'opera di riconciliazione nazionale con la politica". Soprattutto dopo aver assistito al "tradimento" di una classe dirigente "che ha reso la politica un'attività non solo non attrattiva ma addirittura repulsiva e di aver respinto nell'apatia soprattutto le generazioni più giovani, proprio quelle dove si trova la riserva potenziale di moralità e impegno politico di cui il nostro stanco Paese ha bisogno". Dipende da noi. E se da un punto si deve partire è quello della lotta alla corruzione. Anche in questo caso non lasciandosi andare alla facile generalizzazione sui politici che rubano tutti ma dando libero sfogo alla "dissociazione e alla denuncia". "Le tante persone che, nei partiti e nella pubblica amministrazione avvertono la nobiltà della loro attività, escano allo scoperto, ripuliscano le loro stanze, si rifiutino di avallare, anche solo col silenzio, il degrado della politica. La legge sui partiti è una necessità di cui si parla da troppo tempo. Oggi, gli scandali quotidiani, l'hanno resa urgente. "Subito la legge ecc.", si è detto. Ma possiamo crederci, se prima non cambiano coloro che la legge dovrebbero farla?"

Ed è questo l'altro punto fermo. A dispetto dei propositi riformatori delle istituzioni, "l'auto-riforma si è dimostrata finora un'auto-illusione". Servono i fatti. Per questo LeG chiede di conoscere "se i contatti e gli accordi preliminari che si vanno stringendo tra partiti mirano a corazzare il sistema politico esistente, chiudendolo su se stesso, oppure se finalmente si avverte l'esigenza di aprirlo alle istanze diffuse dei cittadini, d'ogni ceto e d'ogni orientamento politico". Ed ancora: "Se la "società politica" ritiene di fare a meno della tanto disprezzata "società civile", oppure se ritiene di dover mettersi in discussione; se pensa che sia legittima la sua pretesa di difendersi dai controlli, oppure se sia disposta alla trasparenza e alla responsabilità; se il governo sia un problema di mera efficienza decisionale, oppure se la questione sia come, che cosa decidere e con quale consenso; se si vuole una democrazia decidente a scapito d'una democrazia partecipativa". Domande che attendono risposte.

Infine la riforma elettorale. Priorità assoluta. Una nuova legge che deve essere pensata non nell'interesse dei partiti ma dei cittadini "che possano controllare com'è utilizzato il loro voto ed entrare in rapporto con i loro rappresentanti, senza interessate distorsioni". Per questo, LeG chiede che il giudizio sulle riforme passi attraverso un referendum "come difesa d'una democrazia aperta contro i possibili tentativi d'ulteriore involuzione autoreferenziale dell'attuale sistema politico".

ROMA — Troppi partiti in lizza a livello locale: così i tecnici del Viminale addolciscono il ridimensionamento previsto per i Consigli provinciali dal decreto salva Italia che, prima di Natale, aveva inventato l'elezione di secondo grado e, forse un po' frettolosamente, aveva anche limitato a dieci il numero massimo degli eletti in questi organismi. Per cui, ora, le assemblee provinciali elette non più dai cittadini — ma dai sindaci e dai consiglieri comunali di quel territorio — vengono agganciate a tre categorie territoriali, a seconda delle rispettive popolazioni: «Quelle con più di 700 mila abitanti, aventi 16 consiglieri; quelle con popolazione da 300 mila a 700 mila abitanti, con 12 consiglieri; quelle sotto i 300 mila abitanti con 10 consiglieri».

È questa la novità sostanziale del disegno di legge del ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri, che oggi entra in Consiglio dei ministri per l'esame preliminare. I tempi di approvazione in Parlamento saranno comunque stretti perché a maggio, qualora la legge non fosse ancora approvata, ben sei Consigli provinciali in scadenza saranno commissariati dai prefetti. Non si poteva cancellare le Province senza mettere mano alla Costituzione e così si è pensato di «sterilizzarle» con il voto di secondo grado: dopo tanti anni di competizioni territoriali anche appassionate, i cittadini-elettori verranno sostituiti dai sindaci-elettori e dai consiglieri comunali-elettori. Solo a questi ultimi, infatti, spetterà il diritto di voto attivo per le assemblee provinciali.

La cura dimagrante prevista dal governo Monti, dunque, è più leggera. Si continua comunque sulla strada aperta l'estate scorsa dal governo Berlusconi — i consigli grandi passarono da 45 a 18 eletti, i piccoli da 36 a 10 — tuttavia i tecnici del ministero dell'Interno si sono resi conto che più di tanto non si poteva tagliare. Al Viminale — dove l'ufficio elettorale conosce bene lo sviluppo storico delle dinamiche politiche territoriali — si sono accorti che la quota massima della rappresentanza provinciale fissata a dieci consiglieri rischiava di compromettere quei delicati equilibri a livello locale.

Tanto da far scrivere nella relazione tecnica di accompagno del disegno di legge Cancellieri che oggi entra in Consiglio dei ministri per l'esame «in via preliminare: «Il limite massimo di dieci consiglieri già fissato per il Consiglio provinciale dall'articolo 23, comma 16, decreto legge 8 dicembre 2011 numero 201, risulta oggettivamente esiguo e, per tale motivo, in alcuni casi potrebbe addirittura comportare la mancata presenza di numerose forze politiche all'interno del Consiglio provinciale, ivi comprese le (diverse) minoranze».

La nuova legge, tuttavia, si riferisce solo alle Regioni a Statuto ordinario perché per quelle a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Province autonome di Trento e Bolzano, Valle d'Aosta) è riconosciuta la «potestà legislativa esclusiva in materia di autonomie locali». Quindi, si tratta di 86 Consigli provinciali in via di ridimensionamento: 22 grandi (per un totale di 352 consiglieri), 37 medi (444 consiglieri), 27 piccoli (270 consiglieri). In totale gli eletti saranno, con il meccanismo di secondo grado, 1.066 ed è confermato che presteranno un servizio civico a titolo gratuito fatto salvo il rimborso spese.

Il ddl Cancellieri, nelle intenzioni del governo, dovrebbe essere approvato in Parlamento entro i primi di maggio perché, per il 6 e il 20 di quel mese, sono già state sospese le elezioni per il rinnovo dei Consigli provinciali di Vicenza, Ancona, Como, Belluno, Genova e La Spezia. Così, se la nuova normativa («Modalità di elezione del Consiglio provinciale e del presidente della Provincia...») non sarà vigente a fine primavera, in quei capoluoghi arriverà un commissario prefettizio: «E non sarebbe un bel segnale per la democrazia dato dal governo Monti», commenta il presidente dell'Upi (Unione delle Province italiane) Giuseppe Castiglione. C'è da aggiungere che l'annunciato commissariamento è stato impugnato, perché incostituzionale, da quattro Regioni (Piemonte, Lazio, Veneto e Molise).

Invece, con il ddl Cancellieri, anche nei 6 Consigli provinciali in scadenza a maggio la parola passerebbe ai consiglieri comunali e ai sindaci del territorio, che eleggerebbero con il sistema proporzionale e due preferenze il Consiglio provinciale. A sua volta, gli eletti sarebbero chiamati a votare, con il metodo del ballottaggio, il presidente della Provincia.

In realtà, l'Upi ha tentato fino all'ultimo di frenare il corso del decreto perché, conferma Castiglione — che poi è presidente della Provincia di Catania ed anche esponente del Pdl molto vicino ad Angelino Alfano — «qui si sta stravolgendo uno strumento della democrazia». Si spiega meglio il presidente dell'Upi: «I prefetti che hanno scritto la norma non considerano un fatto importante, perché oggi i consiglieri provinciali vengono eletti dal popolo e domani saranno chiamati a comporre una piccola casta. Invece l'Upi ha elaborato una vera proposta di riforma che immagina un nuovo assetto istituzionale dei territori con la nascita delle città metropolitane, la riduzione delle Province, la conseguente riduzione degli uffici periferici dello Stato e l'eliminazione degli enti strumentali. Una riforma che produrrebbe risparmi per 5 miliardi».

postilla

Da quel poco che si riesce a capire, paiono concretizzarsi i peggiori rischi anticipati dal tono delle urla piuttosto scomposte di certa “pubblica opinione” qualche mese fa: ovvero una sedicente riforma contabile, che taglia subito sul versante democratico, promette di tagliare su quello economico, e punta tutto su una improbabile riconquistata efficienza aziendalista per il resto. Possibile che nessuno si ricordi dei comprensori? Usciti da un dibattito smisuratamente lungo nel tempo, parevano avere tutte le caratteristiche territoriali di equilibrio geografico, socioeconomico, di rappresentanza. Si scelse (sciaguratamente) una forma di elezione di secondo grado, e quella fu in pratica la loro sentenza di morte: nel giro di una manciata di anni, questi organismi nati da un dibattito durato generazioni furono spazzati via, lasciando campo libero alla stravaganti rivendicazioni localistiche e clientelari che ci hanno portato al sistema delle province attuale. Ma forse, citando il solito Giulio Andreotti, a pensar male si indovina sempre, e il simil-comprensorio attuale è progettato esattamente per dissolversi come il suo antenato anni ’70, lasciando il campo a un bell’organismo “tecnico” con un consiglio di amministrazione al posto di un consiglio provinciale. Per il nostro bene, naturalmente (f.b.)

Lo spartiacque della Fiom

di Valentino Parlato

Le crisi sono una cosa seria e costringono a prove di verità. Il 9 di marzo ci sarà lo sciopero generale dei metalmeccanici della Fiom. Uno sciopero contro la crisi e l’offensiva sui licenziamenti. Bene. Nel Pd c’è discussione sul che fare: sostenere e farsi parte attiva di questo sciopero o stare a guardare? Questo dilemma (diciamo dilemma, ma è importante scelta politica) pare che divida il Partito democratico, che non vorrebbe cancellare o ridurre il suo sostegno al governo Monti. Ma, c’è da chiedersi, sostenere e partecipare allo sciopero della Fiom sarebbe un tradire l’impegno assunto con il governo Monti?

Certamente la situazione è difficile, ma se si sostiene il governo Monti per uscire dalla crisi, bisognerebbe anche sostenere lo sciopero dei metalmeccanici investiti dalla crisi. Lo sciopero del 9 marzo della Fiom è diventato un serio discrimine della politica del Pd, il quale per liberarsi di Berlusconi ha ben accettato il governo Monti, ma non potrebbe consentire a Monti di fare quel che Berlusconi non è riuscito a fare.

Insomma la questione è fortemente politica e non solo sociale. Il Pd deve assumere una posizione chiara a sostegno dello sciopero dei metalmeccanici, che sono stati, storicamente, un’avanguardia del nostro movimento operaio. Il Pd non può fare finta di niente o dire: io non c’ero.

L’attesa di una posizione chiara e forte interessa i democratici italiani, che per esperienza sanno che sempre nel passato la Fiom è stata un’avanguardia non solo del movimento operaio, ma della democrazia. Nella grave e difficile situazione del nostro paese non solo i lavoratori, ma tutti i cittadini si aspettano (hanno il diritto di aspettarsi) una risposta forte da parte del gruppo dirigente del Pd. Far finta di niente ridurrebbe al niente che resta della democrazia italiana.

Fornero va avanti e il Pd è nei guai

di Daniela Preziosi

La ministra: farò una buona riforma con l'art. 18, e comunque la farò. Bersani: serve l'accordo. Nuovo caso Fassina: chiede alla segreteria se deve andare al corteo Fiom «Non è un problema solo mio» Se il partito autorizza il dirigente, c'è il rischio di una reazione a catena che porta dritta al congresso

Contro un pezzo del suo partito e contro i 'tecnici': è un doppio braccio di ferro, quello del segretario Pd Bersani. Sulla riforma del mercato del lavoro, il governo va avanti come un caterpillar e rischia di schiacciare il Pd. Ieri la ministra Fornero ha risposto a quel «vedremo» che il leader democratico aveva pronunciato sul voto a un'eventuale riforma non condivisa da tutte parti sociali (leggasi sindacati, leggasi Cgil). «Penso che anche il Pd possa votare una buona riforma», ha detto, «ma se ci sarà accordo solo su una riforma che il governo non giudica buona, il governo si assumerà la responsabilità di andare avanti e il parlamento si assumerà la responsabilità di appoggiarlo o meno». Una minaccia, neanche tanto sobria.

Bersani, che domani presenterà il suo tour nei distretti «del lavoro e dell'impresa», finge gesuiticamente di non capire, ma in pratica restituisce la pariglia: «Dice bene Fornero: il Pd appoggerà una buona riforma. Naturalmente la valuteremo confrontandola con le nostre proposte. Quel che ci vuole è un buon accordo perché i mesi difficili che abbiamo davanti devono essere affrontati con il cambiamento, con l'innovazione e con la coesione sociale».

Ma il buon accordo sembra inarrivabile. Il governo, pressato dall'Europa, dal Pdl, da Confindustria, vuole portare a casa una riforma a qualsiasi costo. Toccando «il santuario» dell'art.18, non foss'altro per un fatto simbolico. L'uscita di Veltroni e compagni, che dall'interno del Pd si sono detti d'accordo, è servita a segnalare che il partito non è compatto. L'ala dei sì ad ogni costo, alla Camera, comincia a contarsi.

Nel Pd del resto ormai lo show down difficilmente potrà essere rimandato a lungo. Ieri Stefano Fassina, messo di nuovo sulla graticola per l'annuncio della sua partecipazione alla manifestazione della Fiom il 9 marzo, ha fatto una contromossa arditissima. Ha chiesto alla segreteria di decidere sulla sua partecipazione al corteo. Respingendo tutte le accuse: la manifestazione, «contrariamente a quanto affermato da tanti poco informati, non ha come obiettivo il governo Monti» ma Marchionne. « Il punto fondamentale è la negazione della democrazia negli stabilimenti Fiat e, aspetto altrettanto grave, la discriminazione degli iscritti Fiom dalle ri-assunzioni a Pomigliano». Quindi «partecipare, senza aderire in coerenza con il principio di autonomia tra partiti politici e forze sociali, non vuole dire sottoscrivere le singole rivendicazioni proposte dagli organizzatori. Vuol dire dimostrare sensibilità politica verso le drammatiche condizioni di milioni di lavoratori e lavoratrici e verso i problemi acuti di democrazia nel nostro Paese». Ma dato il «delicatissimo» passaggio e la polemica delle minoranze interne, meglio che la segreteria si assuma la responsabilità.

Gli è subito planato accanto Matteo Orfini, altro giovane della segreteria abituato, come Fassina, a partecipare ai cortei Fiom. Che rincara la dose: «Non si può non vedere come questo sciopero cada in un momento molto particolare della vicenda Fiat: il piano Fabbrica Italia, con i suoi 20 miliardi di investimenti promessi, è scomparso dai radar. La sfida di Marchionne si rivela ogni giorno di più per quello che è: un tentativo, peraltro fallimentare, di competere sulla riduzione dei costi e dei diritti». «Oggi siamo alla rappresaglia, con il rifiuto di assumere chi ha la tessera Fiom. A dividerci non è il giudizio sul governo Monti. Il punto è quale collocazione abbiamo in mente per l'Italia nella competizione internazionale, se sotto sotto non crediamo invece di dovere accettare come un destino ineluttabile una sorta di retrocessione dell'Italia nel mondo».

I liberal Pd di Enzo Bianco, che già qualche mese fa avevano chiesto le dimissioni di Fassina tornano alla carica. Ma Fassina stavolta vuole mettere un punto. «Voglio capire se il rapporto con i lavoratori, e quindi la presenza alle loro manifestazioni, sono un problema personale o del partito». Ma è domanda ad altissimo rischio. Una risposta netta è tutto quello che il segretario ha evitato di fare fin qui. Per scongiurare una reazione a catena nel partito che porta dritti a un congresso anticipato.

In molti, anche dell'ex maggioranza bersaniana, sono sbilanciati verso un 'montismo' senza se e senza ma. I veltroniani, i cattolici di Fioroni, ma Enrico Letta, vicesegretario. E D'Alema. Che da giorni dice che «contro questo governo non si prepara il dopo», intendendo le alleanze. Figuriamoci il prima, cioè figuriamoci se è in discussione l'appoggio a Monti. d.p.

Maurizio Landini

«Questi sono toni autoritari»

intervista di Francesco Piccioni

La sensazione – tra le sortite dei ministri e l’irruzione di Marchionne su Confindustria – è che si stia stringendo un cappio intorno alla condizione del lavoro e anche alla democrazia. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, sta preparando uno sciopero generale dei metalmeccanici che ha in piattaforma anche le scelte del governo, a partire dall’art. 18.

Hai sentito le parole di Fornero?

Penso che queste affermazioni del ministro del lavoro e di Monti, che indicano la volontà di fare una riforma del mercato del lavoro anche senza il consenso delle parti sociali, o addirittura dei partiti che sostengono il governo, assumono preoccupanti toni autoritari. Riforme che vogliono durare nel tempo debbono essere costruite con il consenso dei soggetti che sono coinvolti. Non c’è coesione sociale senza un vero processo democratico. Nel merito: in questa fase, il problema è creare nuovi posti di lavoro. Trovo non accettabile e sbagliata l’idea di cancellare la cassa integrazione straordinaria (cigs) che è, e rimane, l’istituto utile per favorire processi di riorganizzione industriale senza aprire ai licenziamenti collettivi.

Chi finanzia la Cig?

In generale è pagata con i contributi di lavoratori e imprese, non dallo stato. La possibilità di estendere gli ammortizzatori sociali – una nostra richiesta importante – si realizza se tutte le imprese e i loro dipendenti, di qualsiasi dimensione e settore, pagano un contributo per averla. Questa ossessione di considerare come problema ineludibile la modifica del diritto a essere reintegrati nel lavoro quando si è ingiustamente licenziati, è un altro tema che non c’entra nulla con la riduzione della precarietà e il creare nuovi posti di lavoro.

L’art. 18 divide anche Confindustria: Bombassei con Marchionne contro Squinzi.

Penso di non sbagliarmi se dico che la maggioranza degli imprenditori ritiene che il problema non sia l’art. 18. È una bugia pura dire che in Italia non c’è la possibilità di riorganizzare le imprese perché non si può ridurre in modo concordato il personale. La imprese non assumono perché non hanno da lavorare. Come si superano i ritardi del paese? C’è un problema di infrastrutture, un livello di corruzione altissimo, di illegalità e di evasione fiscale senza paragoni, un atteggiamento delle banche che non aiuta chi vuol fare impresa. È questo che sconsiglia gli investitori dal venire in Italia, non l’art. 18. Chi vuole abolirlo, non solo punta a licenziamenti individuali facili, ma soprattutto vuole modificare il sistema di relazioni sindacale. L’idea è cancellare la contrattazione collettiva come mediazione sociale tra impresa e lavoro.

Perché un Presidente di Confindustria dovrebbe dire «vogliamo licenziare solo ladri e fannulloni»?

Le trovo sinceramente affermazioni inaccettabili e irrispettose per la persone al lavoro. Descrivono un’idea piuttosto sballata delle relazioni sindacali e del lavoro.

Com’è il clima in cui state preparando lo sciopero del 9 marzo?

Tra i metalmeccanici stiamo riscontrando un consenso diffuso. Contro le scelte della Fiat, certo. Ma c’è anche un crescente dissenso sulle scelte di politica economica del governo. A partire dalla riforma delle pensioni, che viene percepita come una cosa contro l’occupazione giovanile, e che non tiene conto della diversità tra i vari lavori. E si pone un problema di democrazia. Chiediamo che il governo cancelli l’art. 8 della «manovra Sacconi» (che permette accordi ind eroga a contratti e leggi, ndr) e faccia una riforma che riduca davvero la precarietà, estendendo tutele e regole a tutti. C’è bisogno di un piano straordinario di investimenti, pubblici e privati, per cambiare il modello di svluppo. Non solo Fiat non sta più investendo in Italia. Grandi gruppi, persino pubblici come Finmeccanica, dicono di voler dismettere produzioni nell’energia civile o nei trasporti. Su questo c’è un vuoto preoccupante di iniziativa da parte del governo.

C’è una relazione col tipo di ricchezze denunciate da tutti i ministri attuali?

Da una lettura dei loro redditi mi colpisce il fatto che ci siano investimenti solo in operazioni immobiliari o finanziarie. Dà l’idea che in questi anni si è imposta una scarsa attenzione a investire su attività «reali». Dimostrano la necessità di un cambiamento culturale: svalorizzazione del lavoro e forza della finanza hanno portato molte persone a svalorizzare il ruolo dell’attività manifatturiera. Questo influisce sul tipo di logica con cui si guarda al «bene comune» del paese.

C’è consenso anche fuori dalle tute blu?

La difesa di un lavoro con diritti, la democrazia sui posti di lavoro, il superamento della precarietà, parlano a tutti, non solo a noi, Ci sono riscontri molto positivi con studenti, precari e movimenti costruiti in questi anni su una diversa idea di uscita dalla crisi. Da quello per l’acqua a molti altri soggett. Prevedo una grande manifestazione, il 9. Trovo invece preoccupante che un governo – eletto in Parlamento, ma non con un voto popolare – possa avere un atteggiamento vero il Parlamento o i partiti tipo «o fate come dico io, o ve ne assumete la responsabilità». C’è un problema anche per il governo, di rispetto delle regole della democrazia nel nostro paese.

Il welfare del Quirinale

di Antonio Di Stasi

L’ultimo intervento del Presidente della Repubblica sulla necessità di «mettere in piedi un sistema di welfare e sicurezza sociale diverso» fa sorgere una domanda: l’attivismo e il contenuto delle affermazioni del Presidente della Repubblica sono rispettose del ruolo che la Costituzione prevede per il capo dello Stato?
Anche chi non ha una cultura giuridica da costituzionalista avverte l’originalità del comportamento di Napolitano rispetto a consolidati precedenti di astensione dall’intervento diretto nelle questioni politiche e di governo, tanto che, nell’ultimo anno, hanno lasciato quantomeno perplessi sia i suoi interventi a favore della guerra in Libia, sia la nomina di Monti a Senatore a vita prima di dargli l’incarico di Capo del Governo.

Di fronte al «fragore» degli episodi appena richiamati sembrerebbero poca cosa le ultime affermazioni relative al welfare. In realtà, con esse Napolitano asseconda chi vuol colpire il cuore dello Stato sociale e distruggere il valore primo della Legge fondamentale della Repubblica che connota in senso sociale il nostro Stato (come quelli tedesco, francese, portoghese, et altri). Il «lavoro» è valore fondante della Costituzione (artt. 1, 2, 3, 4, 35, 36, 37, 38 della Costituzione) ed è posto, nello stesso momento, quale elemento di inclusione sociale, di dignità e architrave del sistema di sicurezza sociale. Toccare i diritti del lavoro significa tradire il principio cardine dell’intera architettura costituzionale e, dunque, della civiltà democratica e sociale che la Repubblica ha espresso dalla Resistenza ad oggi.

Se infatti la priorità, come afferma la ministra Fornero e come riecheggia il Presidente Napolitano – in un concerto di dichiarazioni in cui non sfugge certamente la «paternità» – è sostituire il sistema di sicurezza sociale precedente (costruito intorno alla difesa e al mantenimento del lavoro) con un sistema «nuovo», «moderno», è evidente come questo sistema non abbia più il proprio baricentro nel lavoro, ma in qualcosa di altro.

E allora Napolitano quando parla di «sistema di welfare e di sicurezza sociale diverso» cosa ci vuole dire? Ancora una volta lo capiamo bene sia dagli ultimi provvedimenti in materia di innalzamento dell’età pensionabile, di abbassamento dei diritti previdenziali, di totale abolizione della pensioni di anzianità, di blocco della rivalutazione delle pensioni, e sia dalle dichiarazioni della ministra Fornero che vuole rendere i lavoratori giovani più precari toccando l’art. 18 ed eliminare la Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria. Ecco cosa si prospetta con la riforma del welfare e la riforma degli ammortizzatori sociali: la tutela del lavoro non è più una priorità e il lavoro non è più diritto esso stesso; si preferisce tornare alla liberale assicurazione contro la disoccupazione involontaria piuttosto che utilizzare la molto più recente Cigs per mantenere intatta la capacità di un gruppo di lavoratori e non disperdere la loro professionalità.

In questa furia restauratrice non c’è nulla di nuovo ed i diritti dovrebbero lasciare il posto ad ottocentesce (altro che moderne) «gentili concessioni». Un’idea già contenuta nel Libro Bianco del 2001, ad opera dell’allora ministro Maroni, secondo cui le tutele andrebbero spostate dal rapporto di lavoro al «mercato» e con il passaggio da diritti soggettivi a mere aspettative rimesse a unilaterali vincoli economici. Intendere l’equità secondo il principio che «chi già più ha più deve continuare ad avere» e non attraverso il principio della pari dignità sociale attraverso l’essere lavoratore significa tradire nel più profondo la Carta costituzionale. Di questo il Presidente della Repubblica deve rendersi conto.

Caro direttore, bene, adesso sappiamo che se il prodotto Fiat non vende bene è anche colpa di Annozero, di Corrado Formigli e della Rai, condannati dal tribunale di Torino a pagare un risarcimento danni esemplare: 5 milioni di euro oltre rivalutazione monetaria dal dicembre 2010 ed interessi. L'oggetto del contendere è la valutazione di velocità di tre modelli di automobili, uno dei quali Fiat, che viene dalla stessa pubblicizzato con la frase «born to race».

Ci siamo occupati anche noi dell'industria automobilistica torinese, le testimonianze più importanti non sono state raccolte a Torino, perché Torino «è» la Fiat. Non entro nel merito della sentenza, se il giudice ha condannato, avrà le sue ragioni. Se la Rai e Formigli faranno appello, in quella sede potranno senz'altro chiedere la rivisitazione integrale della questione. Mi limito a considerare due aspetti. Il primo: la perizia affidata dal tribunale ad un collegio di esperti composto dal professor Francesco Profumo, dal professor Federico Cheli e dal professor Salvatore Vicari. Profumo, oggi ministro, al momento del conferimento dell'incarico era rettore del Politecnico di Torino. La difesa di Formigli ha obiettato che il Politecnico di Torino viene finanziato dalla Fiat (nel 2011 Fiat e Politecnico hanno rinnovato fino al 2014 l'accordo di collaborazione che ha permesso, alla fine degli anni Novanta, di istituire il corso di laurea in ingegneria dell'autoveicolo). Dal curriculum del professor Cheli emerge che: «Da anni è responsabile di una serie di contratti di ricerca tra il Politecnico di Milano e, tra le altre, le società Pirelli Pneumatici, Bridgestone, Centro Ricerche Fiat, Ferrari Auto, Fiat Auto». Salvatore Vicari, docente alla Bocconi, è stato nel consiglio d'amministrazione della Valdani-Vicari & Associati. Dentro la Valdani-Vicari troviamo l'ex direttore generale di Teksid France (gruppo siderurgico fondato da Fiat). Dalla Valdani Vicari invece proviene l'attuale tax senior specialist di Fiat Services. È possibile domandarsi se nella loro valutazione ci sia imparzialità?

Secondo aspetto: la quantificazione del danno. Per il tribunale il servizio di Formigli ha compromesso la reputazione progettuale e commerciale dell'automobile in questione. Tradotto in euro: 1.750.000 danni patrimoniali, 3.250.000 per l'offesa arrecata a una società composta da un assai rilevante numero di persone. Pochi giorni fa, sempre a Torino, nella sentenza Eternit il tribunale condanna due dirigenti a 16 anni di reclusione per disastro doloso e omissioni di misure infortunistiche, e ai responsabili civili impone il risarcimento di 30 mila euro ad ogni famiglia che ha avuto un morto in casa per amianto. Il tribunale civile di Milano, nel 2011, ha aggiornato le tabelle che fissano i danni per perdita parentale. La morte di un figlio, di un genitore, della moglie o di un marito viene liquidata con tetto massimo di 308.700 euro. Per la perdita di un fratello o di un nipote il tetto massimo è di 134.040. Ben altra cifra dovranno pagare la Rai e Formigli per aver accusato una vettura di essere meno veloce di un'altra. Un'informazione considerata incompleta. Va ricordato inoltre che Formigli aveva invitato, invano, i vertici al confronto.

La sentenza del tribunale di Torino costituisce un monito molto duro verso il diritto di critica (che in questo caso non è stato preso in considerazione), e che lascerà il segno, poiché difficilmente un editore si assumerà il rischio di sostenere simili cifre. Non risulta invece che sia mai stata emessa condanna esemplare nei confronti di coloro che ti portano in tribunale senza motivo. Per loro il rischio massimo, oltre la doverosa condanna alle spese, è solo una piccola multa, mille euro, per aver disturbato il giudice.

Non è possibile prospettare una via d'uscita in un quadro nazionale o continentale privo dei riferimenti ai vincoli e alle opportunità offerte dalla crisi ambientale

L'orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi ambientale: non solo dai mutamenti climatici, che rappresentano ovviamente la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell'inquinamento e della devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall'esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che sono anch'essi "risorse naturali", anche se utilizzate per devastare la natura); dall'esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che alimentari (il nostro "pane quotidiano"); dall'inquinamento degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della vita e delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c'è chi pensa di poter fare argine con l'innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove tecnologie. È in gran parte un'illusione, ma anche se fosse possibile farlo su una o alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro interconnessione in un sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di crescita economica, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, senza fare riferimento a questo quadro, è un discorso vuoto.

La crisi ambientale offre all'economia delle opportunità e impone dei vincoli: le opportunità sono note (a chi ha interesse per la questione): sono le potenzialità di una conversione ecologica di produzioni e consumi verso beni e servizi meno dipendenti dai combustibili fossili, meno devastanti per la biodiversità, e verso la qualità e la disponibilità di risorse primarie; le potenzialità di una occupazione maggiore e diversa, caratterizzata a una più estesa valorizzazione delle facoltà personali e della cooperazione; le potenzialità legate alle caratteristiche fisiche, storiche e sociali di ogni territorio; i territori sono diversi uno dall'altro e la loro ricchezza dipende dalla conservazione di questa diversità.

Ma i vincoli sono altrettanto rilevanti: il consumo di suolo e di risorse non può procedere al ritmo seguito finora; molte delle produzioni che hanno guidato lo sviluppo industriale dell'ultimo secolo - dall'edilizia all'automobile, dagli armamenti all'utilizzo dei combustibili fossili, dal turismo di massa alle monocolture alimentari - non potranno continuare per molto sulla stessa strada: non solo per mancanza di risorse e per eccesso di rilasci inquinanti, ma anche per saturazione dei mercati: della domanda solvibile.

Vincoli e opportunità indotti dalla crisi ambientale dovrebbero essere i criteri informatori di qualsiasi politica industriale: cioè delle scelte che determinano o orientano le decisioni su che cosa, quanto, con che cosa, come e dove produrre. Sono scelte che non possono essere lasciate al mercato, cioè al libero gioco della domanda e dell'offerta; perché nessun mercato è in grado di cogliere tutti i segnali che provengono dalla complessità del contesto ambientale, da cui non si può più prescindere.

In secondo luogo, la globalizzazione ha trasformato alcune aree geografiche del pianeta in manifatture del mondo. A questo è dovuta la contrazione della domanda di lavoro - qualificato e no - che ha colpito i paesi di più antica industrializzazione, imponendo alle relative classi lavoratrici un drammatico deterioramento delle condizioni di lavoro e di vita: precarizzazione, disoccupazione, contrazione dei redditi, compressione del welfare. Questo processo ha investito tutti i settori e tutta - o quasi - la gamma delle produzioni e, in misura maggiore, i beni consumati dalle classi lavoratrici: i cosiddetti beni-salario. Mentre nelle cittadelle di più antica industrializzazione sono rimaste quasi solo alcune produzioni di beni di investimento di maggiore complessità, molte delle attività di coordinamento e gestione delle attività delocalizzate e alcuni segmenti di produzioni più o meno tradizionali di beni suntuari (ormai riuniti in un'unica categoria merceologica onnicomprensiva, denominata per l'appunto "lusso").

Tutto ciò ha profondamente alterato l'efficacia delle politiche economiche. Gli Stati ne hanno perso alcune (la determinazione del tasso di sconto, la politica dei cambi, la creazione di moneta, la politica doganale) o per averle cedute a enti sovranazionali (è il caso dell'Unione europea e soprattutto dell'eurozona); o perché esse sono state di fatto requisite dalla finanza internazionale: cioè da organismi di diritto privato detentori - e anche creatori - di una massa monetaria sufficiente a condizionare le decisioni di ogni Stato: anche di quelli più potenti. Ma, soprattutto, le misure economiche adottate in una parte del pianeta possono distribuire i loro effetti (diluendoli o moltiplicandoli) su tutto il resto del mondo (lo si è visto con la crisi dei mutui subprime) e magari non avere alcun effetto, né positivo né negativo, nel paese dove sono state prese. Ciò ha minato molte delle misure di sostegno della domanda di matrice keynesiana con cui di recente si è cercato di stimolare la produzione e, con essa, l'occupazione. Raramente oggi gli incrementi di produzione si traducono in aumenti dell'occupazione - a volte innescano salti tecnologici o organizzativi che addirittura la riducono - ma sempre meno la produzione aggiuntiva messa in moto da una politica di sostegno della domanda riguarda lo stesso paese in cui è stata adottata. Lo si è visto con gli incentivi alla rottamazione con cui quasi tutti i paesi occidentali hanno cercato di fare fronte alla crisi del 2008-2009: in molti casi il sostegno all'occupazione nazionale è stato insignificante. Ma questo è particolarmente vero per la maggioranza dei beni-salario il cui consumo potrebbe essere alimentato da un sostegno ai redditi più bassi. Gli effetti riguarderebbero soprattutto beni di importazione a basso costo; il che si traduce solo in maggiori squilibri della bilancia commerciale da finanziare con l'indebitamento.

Le politiche keynesiane che hanno sorretto lo sviluppo dei cosiddetti "trenta (anni) gloriosi" erano tarate sul contesto di uno Stato nazionale ancora in gran parte in possesso delle principali leve della politica economica (e che non per questo aveva rinunciato a sviluppare anche una robusta politica industriale adatta alle condizioni dell'epoca: per esempio nel campo della siderurgia, degli approvvigionamenti energetici, della navigazione, della infrastrutturazione e, ovviamente, degli armamenti; per sconfinare magari in campi, come l'alimentare o l'automobile, da cui avrebbe forse potuto esentarsi). Ma oggi un ragionamento sulle "vie di uscita" dalla crisi sviluppato in un quadro nazionale (come quello al cui interno hanno funzionato per alcuni decenni le politiche keynesiane), o anche continentale, ma privo di riferimenti ai vincoli e alle opportunità indotti dalla crisi ambientale non è più plausibile. Non ha più molto senso ragionare su meri aggregati economici espressi in termini monetari, senza tener conto che nessuna politica economica è più praticabile senza una contestuale politica industriale che orienti e condizioni l'oggetto delle produzioni e le modalità (individuali o condivise) del consumo di molti beni e servizi. Questo, a mio avviso, è un limite inemendabile delle analisi e delle proposte correnti di stampo keynesiano, come quelle peraltro esemplari di Giorgio Lunghini sul manifesto del 16 febbraio («Riscopriamo Keynes per uscire dalla crisi»).

Non solo; una politica industriale che faccia riferimento alla crisi ambientale, cioè orientata a produzioni e consumi sostenibili - la "conversione ecologica" - non è concepibile se non in un contesto di progressiva riterritorializzazione: con un ridimensionamento e una rilocalizzazione delle produzioni in prossimità (relativa) dei mercati di smercio; o in un rapporto diretto - o comunque meno esposto alle alee di un interscambio non programmato - tra produzione e consumo.

Questo indirizzo, che non è protezionismo né abolizione, della competitività (l'idolo del nostro tempo) ma una sua moderazione certamente sì, rimette al centro delle politiche economiche e industriali il governo del territorio. Ed è anche, a mio avviso, l'unica alternativa plausibile al progressivo deterioramento dell'occupazione, dei redditi e delle condizioni di vita delle classi lavoratrici dell'occidente industrializzato, ormai trascinate in una corsa al ribasso per allinearle a quelle dei paesi emergenti; la politica salariale della Grecia (salari minimi quasi al livello di quelli cinesi) ne rappresenta oggi la manifestazione più lampante.

Che fine ha fatto la nuova legge elettorale? S'è persa, gettata nel pozzo della revisione costituzionale. L'accordo tra le maggiori forze politiche su un complessivo pacchetto di modifiche istituzionali, infatti, fa temere che alla fine si andrà a votare conservando l'attuale sistema elettorale. Sarebbe un atto suicida: la delegittimazione dell'attuale Parlamento supererebbe ogni limite e la forza dell'antipolitica finirebbe per travolgere gli stessi partiti. L'unica fonte di legittimazione del potere, a quel punto, non potrebbe che essere quella tecnocratica. La nostra democrazia, sofferente ormai da troppo tempo, avrebbe concluso la propria epopea, trascinando il paese verso la deriva di una tecnocrazia neoliberista. Il governo Monti perderebbe il carattere dell'eccezione e rappresenterebbe il prototipo dei governi prossimi futuri.

I partiti politici - le vittime predestinate in questo scenario - non sembrano essere consapevoli o non sanno reagire. È certo comunque che s'illude chi pensa veramente di poter riformare il bicameralismo, ridurre il numero dei parlamentari e rafforzare il governo approvando una legge costituzionale, per poi modificare i regolamenti parlamentari per introdurre corsie preferenziali ai provvedimenti del Governo. Ed infine modificare la legge elettorale secondo un modello ritagliato sulle attuali esigenze dei tre partiti maggiori. Non importa considerare il merito delle proposte, quel che appare determinante è che non ci sono le condizioni, né il tempo per realizzare così velleitari propositi. Tutte le misure dovrebbero essere sostanzialmente decise entro l'estate. In autunno il Parlamento sarà impegnato a discutere le leggi finanziarie di fine anno, per poi gettarsi, con l'inizio del nuovo anno, in una lunga campagna elettorale per le politiche del 2013. Chi può credere che tutto possa essere definito nel giro di sei mesi?

Apparentemente ragionevole l'argomento utilizzato per fermare la richiesta di una immediata riforma della legge elettorale, ma che alla fine appare solo pretestuoso. Si spiega l'ovvio: la scelta di un sistema elettorale si collega all'assetto costituzionale complessivo. Vero, ma è anche vero che l'ordine logico non coincide mai con l'ordine storico nella ridefinizione degli equilibri tra i poteri (neppure nell'ipotesi estrema dell'instaurazione di un ordinamento costituzionale del tutto nuovo). Basta guardare indietro. In fondo anche l'imposizione in Italia della cosiddetta democrazia maggioritaria ha avuto origine da una legge elettorale che ha anticipato la modifica dei regolamenti parlamentari, mentre nulla ha potuto di fronte alla rigidità del sistema bicamerale. Può, ovviamente, auspicarsi che la riforma della legge elettorale innesti un progressivo riassetto degli equilibri tra i poteri e che ciò possa esigere ulteriori modifiche dei regolamenti parlamentari o anche adeguate misure che richiedano revisioni costituzionali. Ma questo - bene che vada - può essere un compito per la prossima legislatura, non certo per l'oggi. Impensabile che simile impresa possa essere assolta da partiti compromessi nel vecchio assetto dei poteri, in una fase di delegittimazione politica e sociale, nonché di ridefinizione complessiva del sistema politico. A voler seguire la stessa logica sistemica che presiede alla «grande riforma» proposta (riforma costituzionale, più riforma dei regolamenti, più riforma elettorale) dovrebbe coerentemente affermarsi che un altro tassello appare essenziale per il successo: prima di ogni cosa si riformino i partiti. Non risulta che questo, però, rientri tra gli accordi raggiunti tra le maggiori forze politiche, le quali sembrano voler cambiar tutto salvo se stessi.

D'altronde, neppure quando si discute di cambiare la legge elettorale emerge una netta consapevolezza della gravità del momento. Più che voler risalire la china, riacciuffando una legittimazione e una capacità rappresentativa ormai perduta, i partiti politici sembrano interessati a difendere ciascuno le proprie rendite di posizione. Come se non fossero coscienti che un terremoto li travolgerà, come se credessero veramente che modificata la legge elettorale tutto possa tornare com'è stato sin qui. Il tentativo di accordo ventilato (il cosiddetto modello ispano-tedesco), ma anche i discorsi che si susseguono tra le forze politiche, comprese quelle minoritarie, paiono esclusivamente improntate a individuare il punto di maggiore vantaggio per gli attuali assetti e strategie politiche.

Un ritorno al proporzionale che però avvantaggi solo i primi tre partiti, ritagliando i collegi e innalzando lo sbarramento oltre la soglia che - si presume - possono raggiungere gli altri; definire un sistema che imponga l'accordo preventivo di coalizione, per assicurare alle forze minori uno spazio decisivo, rendendoli determinati ancor prima della verifica elettorale.

In tal modo, ciascuno crede di pensare al proprio futuro e dare ancora una possibilità alle proprie - certamente legittime - pretese politiche, ma non si avvede che la fotografia che oggi si vuole scattare per mantenere lo status quo diventerà ben presto sfuocata. Ancor prima della prossima tornata elettorale.

Avremmo grande bisogno di politici lungimiranti che comprendano come la propria sopravvivenza sia legata a un filo sottile: quel filo che dovrebbe ricondurre i partiti a esercitare il ruolo loro assegnato dalla nostra costituzione, tornando a essere uno strumento dei cittadini affinché questi possano concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Ciò che potrà salvare i partiti, e con essa quel che rimane della democrazia costituzionale, non sarà l'alchimia elettorale, ma solo un sistema che riscopra le virtualità della rappresentanza politica reale.

Con molta, troppa facilità ci stiamo abituando a dire che la bancarotta greca non sarebbe poi la catastrofe paventata da anni. Il male, incurabile, basterebbe allontanarlo, asportando Atene dall´Eurozona come si fa con un´appendicectomia. Quel che conta è evitare il contagio, e non a caso il Fondo salva Stati si chiama d´un tratto Firewall, muro parafuoco che serve a proteggere i sistemi informatici dalle intrusioni: che salverà chi è ancora dentro (l´Italia, per esempio) da chi, nell´ignominia, sta cadendo fuori.

Come la linea Maginot che i francesi eressero per proteggersi dagli assalti tedeschi negli anni ‘20-´30, Firewall evoca gli universi chiusi della clinica e della guerra: il miraggio d´un muro inviolabile rassicura, anche se sappiamo bene come finì il fortilizio francese. Cadde d´un colpo. Lo storico Marc Bloch parlò di strana disfatta perché il tracollo era avvenuto negli animi, prima che lungo la Maginot: «nelle retroguardie della società civile e politica», prima che al fronte.

In realtà nessuno ci crede, al chimerico Firewall che abita le fantasie e fiacca la ragione. Altrimenti l´Unione non avrebbe deciso, ieri, un ennesimo importante prestito alla Grecia. Altrimenti non ci sarebbe chi pensa, allarmato, a una nuova architettura dell´Unione: più federale, dotata di un governo europeo cui gli Stati delegheranno sovranità crescenti. Ci stanno pensando Berlino e forse Roma, anche se Monti ha appena firmato una lettera con Cameron e altri europei in cui non si parla affatto di nuova Unione, ma di completare il mercato unico. Così le cose procedono lente, e il problema cruciale (le risorse di cui disporrà l´Unione, per un possente piano di investimenti) nessuno l´affronta. In parte la lentezza è dovuta a corti calcoli prudenziali: ogni leader ha le sue elezioni. In parte si vuol vedere l´esito del dramma ellenico, e qui comincia la parte più torbida della storia europea che si sta facendo.

Ci sono momenti in cui sembra che i governi forti aspettino la bancarotta greca, per costruire l´Unione che dicono di volere. È la tesi dell´economista Usa Kenneth Rogoff, intervistato da Spiegel: una volta espulsa Atene, gli Stati Uniti d´Europa si faranno prima del previsto, grazie alla crisi. C´è, nell´aria, odore di capri espiatori. Ma è proprio vero che l´autodafé della Grecia genererebbe la nuova Unione? E quale Europa nascerebbe, se svanirà la pressione della crisi greca? Per ora, una cosa pare certa: Atene è in tumulto, e a forza di piani a breve termine mina l´eurozona e l´idea stessa di un´Europa solidale nelle sciagure. Difficile che quest´ultima si costituisca in federazione, se il primo atto consisterà nel gettare a mare i Paesi che non ce la fanno. L´operazione Firewall non è indolore per la Grecia, ma neppure per l´Europa.

È quello che hanno scritto sull´Economist Mario Blejer e Guillermo Ortiz, ex banchieri centrali dell´Argentina e del Messico, in un appello in cui si ricorda agli europei il costo della bancarotta di Buenos Aires nel 2002, e la diversità tra quel fallimento e quello temuto in Grecia. L´Argentina conobbe in effetti sei anni di crescita dopo la svalutazione del peso e lo sganciamento dal dollaro, ma nel mondo non c´era la recessione odierna, il risanamento fu distribuito lungo una decina d´anni, e il peso esisteva ancora. Invece la dracma non c´è più, e ricrearla sarebbe un salasso terribile (i debiti greci sono in euro: come ripagarli con dracme svalutate?). Infine, aggiungono i banchieri centrali, s´è persa memoria della veduta breve del Fondo Monetario, e di un tracollo che fu «straziante» per gli argentini. La loro bancarotta era obbligata mentre non lo è per la Grecia, che è pur sempre nell´Unione: «Chi propone l´uscita di Atene dall´eurozona sottovaluta le conseguenze devastanti che avrebbe. L´esperienza argentina dovrebbe servire non come esempio, ma come deterrente contro ogni idea di fuoriuscita».

Un avvertimento simile viene in questi giorni da Lorenzo Bini Smaghi. Sul sito del Financial Times, il 16 febbraio, l´ex membro dell´esecutivo Bce fa capire, senza dirlo chiaramente, che così come l´Europa oggi è fatta, così come fa sgocciolare le sue imperfette misure, il male non sarà curato. Esiziale, comunque, è la falsa sicurezza che si ostenta di fronte a un possibile fallimento, simile a quella esibita ottusamente nel 2008 quando fallì la società Lehman Brothers: «Il contagio finanziario opera in modi inaspettati, specie dopo gravi traumi come il fallimento d´una grande istituzione finanziaria o d´un Paese».

Il trauma colpirebbe la Grecia, ma anche le istituzioni europee: esse dimostrerebbero infatti una strutturale «incapacità di risolvere i problemi». Di qui la convinzione che il modello Fondo Monetario sia migliore: la sua assistenza è egualmente condizionale, ma almeno è prevedibile e prolungata. Non così l´Europa, che tiene Atene sotto la minaccia di continuo fallimento: una minaccia che «sfinisce il sostegno politico di cui (la disciplina richiesta) ha bisogno, e alimenta l´instabilità sui mercati finanziari». Forse è tardi per cambiar metodo, ma «se si vuol evitare un disastro non è mai troppo tardi».

Il piano europeo non può essere solo tecnico, mi dice Bini Smaghi: «Cosa succederà della Grecia se c´è un default? Una crisi sociale e politica nel cuore dell´Europa, con la democrazia di quel Paese a rischio. Il fallimento non sarebbe solo tecnico ma anche politico, perché se c´è la povertà e un regime autoritario il fallimento dell´Europa diventerebbe ovvio. Quale modello potrebbe rappresentare l´Europa agli occhi del mondo se uno dei suoi membri torna indietro nella storia?».

Ma com´è fatta esattamente l´Europa, per stare così male? È l´economia che vacilla, o sono malate le sue classi politiche, la sua cultura? Tutte e tre le cose in realtà barcollano, e l´Europa che uscirà da questa prova sarà forte o degenererà a seconda del modo in cui i tre mali insieme - economia, cultura, politica - saranno curati.

Culturalmente, stiamo ricadendo indietro di novant´anni, nei rapporti fra europei. Ad ascoltare i cittadini, tornano in mente le chiusure nazionali degli anni ´20-´30, più che la ripresa cosmopolitica del ´45. Sta mettendo radici un risentimento, tra Stati europei, colmo di aggressività. Le prime pagine dei giornali greci, da mesi, dipingono i governanti tedeschi come nazisti. Intanto Atene riesuma le riparazioni belliche che Berlino deve ancora pagare all´Europa occupata da Hitler. Dimenticata è la tappa del ´45, quando si ridiede fiducia alla nazione tedesca e ci si accinse a unire l´Europa. Quella fiducia aveva un preciso significato, anche finanziario: la Germania non doveva più risarcire nella sua totalità le distruzioni naziste. La politica delle riparazioni, che era stata la sua maledizione nel primo dopoguerra e l´aveva gettata nella dittatura, non doveva più esistere (Israele costituì un caso a parte).

Proprio questo si rimette in discussione, ed è la ragione per cui assistiamo a un formidabile arretramento. Quel che si fece nel ´45 verso la Germania, per motivi strategici e perché era mutata la cultura politica, non si è in grado di farlo con la Grecia. Gli errori commessi da Atene non sono crimini, e tuttavia urge espiare oltre che pagare. Son guardate con fastidio perfino le sue elezioni. La politica di riparazioni che le si infligge è feroce, crea ira, risentimento. E questo perché? Evidentemente non si vedono motivi strategici perché la Grecia resti in Europa: manca ogni visione del mondo, e la cultura non è più quella del ´45-´50.

La regressione ha effetti rovinosi sulla politica. Come può nascere l´Europa federale, se vince una cultura che ha poco a vedere con quello che gli europei appresero da due guerre? La scelta di un Presidente come Joachim Gauck, in Germania, è una buona notizia, perché la popolazione tedesca ha contribuito a questo clima di sospetti, anche se non sempre immotivati (perché assistere Paesi del Sud prigionieri volontari di una corruzione che a Nord si combatte?). L´Europa ha bisogno di popolazioni illuminate, non di capri espiatori, e Gauck che usa parlar-vero potrà aiutare. L´Europa ha bisogno di una crescita diversa, comune, non di anni e anni di recessione, di odi interni, di sospensioni della democrazia. Altrimenti la sua disfatta sarà di nuovo strana: nata nelle retroguardie civili, prima che nell´armata schierata lungo i muri anti-contagio.

Chi si occupa di normativa ambientale sa bene che i problemi di fondo sono due: la pessima qualità delle leggi e la mancanza di controlli.

Si tratta, peraltro, di problematiche in qualche modo connesse perché proprio la pessima qualità delle leggi condiziona la qualità e la quantità dei controlli, sempre più spesso demandati a strutture inadeguate e carenti per mancanza di mezzi, di personale e di professionalità; di modo che troppo spesso i (pochi) controlli che vengono effettuati, in presenza di norme complicate, confuse e contraddittorie, si limitano a riscontrare solo eventuali situazioni macroscopiche di illegalità, senza prendere neppure in considerazione settori che richiedono un approfondimento di indagini. Basta pensare a quello che è successo per il trasporto di rifiuti dopo l’allucinante tira e molla sul SISTRI.

Del resto, basta guardarsi attorno o leggere i giornali per capire che nel settore della tutela ambientale, i controlli vanno potenziati con grande determinazione: come è possibile, tanto per fare due esempi su illegalità “facili facili” da controllare, che nel 2012, 36 anni dopo la legge Merli, vi siano ancora numerosi scarichi fognari pubblici immessi nell’ambiente allo stato bruto, senza alcuna depurazione e autorizzazione; oppure che esistano centinaia di discariche abusive ?

Purtroppo, invece del potenziamento, con il governo dei Professori è arrivata la “semplificazione” dei controlli. Nel decreto legge n. 5 del 9 febbraio 2012, entrato in vigore il 10 febbraio, -oltre a 2 articoli (23 e 24) di semplificazione della normativa ambientale su cui ci riserviamo un intervento più approfondito-, esiste un ineffabile art. 14, intitolato “Semplificazione dei controlli sulle imprese”, la cui ratio dichiarata è di limitare al massimo i controlli sulle imprese al fine di recare alle stesse “il minore intralcio” possibile.

L’apice, a mio sommesso avviso, si raggiunge quando si stabilisce che i controllori devono adeguarsi al principio di “collaborazione amichevole con i soggetti controllati al fine di prevenire rischi e situazioni di irregolarità”.

Se con questo si voleva dire che i controlli devono essere effettuati con educazione e senza vessare e intimidire i poveri industriali, trattasi, ovviamente, di norma del tutto superflua.

Ma questo non vuol dire “collaborazione amichevole”. I controlli sono controlli e non si può imporre alcuna “collaborazione amichevole” tra controllori e controllati. Né spetta ai controllori dare amichevoli consigli all’industriale su quello che deve fare al fine di prevenire rischi e situazioni di irregolarità. L’industriale, se ha dei dubbi, ha tutti i diritti di pagarsi una consulenza privata o rivolgersi in modo formale e diretto alle istituzioni competenti e di ricevere risposta.

Ma il pubblico controllore, se riscontra reati, deve farne denuncia all’A.G. e non può essere invischiato nei problemi del controllato.

Se, a questo punto, ci focalizziamo sul settore dei controlli ambientali (dalle disposizioni dell’art. 14 sono esenti solo i controlli in materia fiscale e finanziaria), appare ancora più evidente la pericolosità di questo stravagante principio.

E’ noto, infatti, che l’organo deputato al controllo tecnico delle violazioni ambientali è l’ARPA.

In proposito, recentemente la Cassazione ha evidenziato che “i funzionari dell’ARPA, preposti al controllo e alla vigilanza ambientale, sono titolari di una posizione di garanzia in relazione all' impedimento dei reati commessi dai terzi e, pertanto, qualora, venuti a conoscenza dell'effettuazione irregolare di operazioni di gestione di rifìuti, omettano di intervenire, sono responsabili ex art. 40, 2°comma, c.p. dell 'illecito smaltimento del rifìuto” (Cass. Pen, sez. 3, c.c. 15 dicembre 2010, n. 3634, Zanello).

Oggi si dice agli stessi funzionari che devono collaborare amichevolmente con i soggetti controllati.

Se, in questo quadro, aggiungiamo che già esiste un altro scellerato principio legislativo in base al quale, per fare cassa, l’ARPA può accettare consulenze a pagamento anche dai soggetti che dovrebbe controllare (ed eventualmente denunciare), diventa ancor più concreto il rischio che la collaborazione “amichevole” possa talvolta essere intesa come collaborazione a pagamento, dove chi paga si assicura l’amichevole collaborazione del controllore ora e per il futuro. E chi vuole capire capisca!

A sentire i protagonisti di ieri, che calcano le scene di oggi, sembra che nulla sia accaduto. Invece tutto è già successo. Senza una trascinata agonia, come accadde nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica, e con una velocità che non ha precedenti nella storia recente. Un’accelerazione che ha imprigionato i partiti in una terra di mezzo, dove ciò che era prima non c’è più e dove ancora manca un indizio che parli al futuro.

Come voterebbero gli italiani oggi? La tabella

E’ vero che, in termini relativi, il Pd si conferma prima forza politica con il 27% e il Pdl scende al 23%, con una perdita di oltre 14 punti rispetto alle politiche del 2008. Ma è un dettaglio rispetto a quanto sta accadendo nelle dinamiche più generali che riguardano la struttura del sistema politico nel suo complesso. In termini assoluti (cioè considerando tutti gli elettori) sta prendendo corpo qualcosa di più profondo rispetto alle dinamiche osservabili in superficie, testimoniato proprio dai dati dell’indagine realizzata da Tecné

Innanzitutto, i due principali partiti hanno perso, rispetto a quattro anni fa, il 30% dei consensi. Oggi, la somma dei voti che otterrebbero insieme è pari al 27,7% degli aventi diritto, rispetto al 54,7% del 2008. In secondo luogo la perdita di consenso dei due principali partiti non si compensa all’interno dello stesso schieramento, né si orienta verso il campo opposto, ma si dispone verso l’area dell’astensione. Se si votasse oggi, infatti, sceglierebbero un partito di centrodestra o uno di centrosinistra, solo il 42,6% degli elettori, mentre, nel 2008, l’area del consenso, polarizzato all’interno delle due principali coalizioni, riguardava 7 elettori su dieci.

Terzo aspetto: l’area del non voto è salita al 44,6%, superando, per la prima volta, l’insieme dei consensi convergenti su opzioni alternative rispetto al governo del Paese. Un rovesciamento dei rapporti che indica che si è fortemente ridotta la capacità attrattiva dei due principali partiti e, conseguentemente, delle due principali opzioni politiche. Una forza di gravità che, fino a qualche anno fa, i partiti erano in grado di esercitare nei confronti degli elettori, orientandoli e attivando consensi rispetto a ipotesi alternative di governo.

Ma se è sbagliato pensare di interpretare i sondaggi, come una bocciatura o una promozione, altrettanto sbagliato è interpretare il calo della partecipazione come il manifestarsi di un diffuso sentimento di antipolitica. Sembra emergere, invece, una forma di apatia verso le tradizionali espressioni della politica, dovuta non tanto alla distanza dai luoghi istituzionali ma al declino di una cultura dell’impegno che aveva segnato profondamente il secolo scorso.

Nel calo della partecipazione tradizionale non c’è, infatti, il segnale di un rifiuto, quanto di una trasformazione delle modalità che danno corpo ad atteggiamenti e comportamenti nuovi. Un processo che corrisponde a un cambio di prospettiva, che non parla solo italiano: i cittadini delle società contemporanee sono sempre meno favorevoli a sostenere le gerarchie istituzionali e le grandi organizzazioni come i partiti di massa, perché vogliono incidere direttamente nella cosa pubblica. E vogliono farlo in forme non tradizionali. Questa spinta ha portato verso un cambio dei paradigmi riconducibili all’impegno politico tradizionale, particolarmente visibile nelle nuove generazioni, più esposte ai processi di cambiamento valoriale e al post-materialismo.

I cittadini non sono distaccati dai valori civili e democratici, non sono disimpegnati. Al contrario, diventano sempre più competenti, interessati, e si mobilitano prevalentemente in forme non convenzionali, all’interno di piccole organizzazioni e gruppi, spesso informali. La partecipazione oscilla da forme più impegnate a forme più leggere, con modalità di mobilitazione più discrete, dove manca un carattere ideologico strutturato, tanto che i cittadini faticano a definirsi “politicamente attivi”. Un impegno che corrisponde a un’articolazione multi-dimensionale della società e della politica, dove le attività sono ispirate da motivazioni differenti e persino divergenti all’interno dello stesso ambito. Se si assiste a un progressivo indebolimento della fedeltà di partito è perché il focus dell’impegno si è spostato progressivamente da azioni partecipative dentro i partiti, ad azioni auto-dirette all’interno dei nuovi ambiti in cui si articola la società.

Per ricucire il legame con i nuovi cittadini, meno sensibili al richiamo ideologico, occorre rovesciare i paradigmi che hanno ispirato le scelte dei partiti negli ultimi anni, puntando sulla realizzazione di reti orizzontali piuttosto che su intelaiature verticali, portando la politica nei luoghi, anziché i luoghi alla politica. Non è sufficiente utilizzare i social network per essere al passo con i tempi. I tentativi, anzi, appaiono persino goffi. C’è un’inflazione di partiti e di politici che occupano la rete in modo improprio e con linguaggi inadeguati, che ritengono internet un nuovo “strumento” per raccogliere adesioni da contabilizzare con i vecchi metodi, quando, invece, internet è un “luogo”, dove le idee e i progetti possono prendere forma e maturare in una dimensione politica veramente nuova, senza per questo sovrapporsi o necessariamente intrecciarsi con il vecchio. Innovare usando facebook e gli altri social come fossero sedi di partito virtuali, o twitter come un ufficio stampa più fashion, è solo il segno dell’incapacità di leggere il mondo e i suoi fenomeni.

Occorre esplorare strade nuove. Questo è l’obiettivo che il sistema politico deve porsi per frenare l’erosione della partecipazione e per trasformare un’azione, come quella del voto, in partecipazione piena e consapevole. E per farlo deve ritornare a pensare dal basso perché, per quanto paradossale possa sembrare, le grandi sfide trovano risposte soltanto in un sistema diffuso di governo della società, dove la Polis ha una dimensione politica e non solo amministrativa. Le riforme istituzionali, comprese quelle elettorali, possono fare molto ma non sono sufficienti se non s’innestano positivamente con una cultura capace di recuperare una dimensione partecipativa che non si è indebolita, ma ha assunto soltanto nuove forme di espressione.

Cosa sarebbe dell'Italia senza la democrazia? Per capirlo è sufficiente vedere cosa sta succedendo a Pomigliano, in una fabbrica chiusa e riaperta da Marchionne sotto altro nome per cancellare il sistema di garanzie e diritti sindacali e individuali conquistati in più di un secolo di lotte.

Sotto il Vesuvio, lungo le linee della nuova Fiat Panda, la Fiom non ha accesso, è stata messa fuori da un accordo separato che getta alle ortiche il contratto nazionale di lavoro e riconosce qualche sparuto diritto sindacale solo alle organizzazioni che hanno firmato la resa loro e la morte di un altro sindacato che invece non si è arreso. Qui, su duemila «nuovi» assunti non ce n'è uno iscritto alla Fiom. Forse uno o due ce l'aveva quella tessera extraparlamentare, ma per essere assunto l'ha dovuta strappare. Allora, a Pomigliano senza Fiom succede che se un operaio selezionato (politicamente e sindacalmente) non ce la fa a reggere i ritmi infernali del nuovo modello produttivo Fiat, se ritarda di qualche secondo o se monta male un pezzo, non solo viene sanzionato ma a fine turno e senza poter andare in mensa a mangiare è costretto a presentarsi nell'«acquario», un open space dove al disgraziato viene consegnato un microfono e davanti a una folla di capi, capetti e sottocapi deve dire «song n'omm e mmerda». Meglio ancora se accusa il suo vicino alla catena di montaggio per quel ritardo o quell'errore. Così, con meno pause, con la mensa spostata a fine turno, con i ritmi da far paura all'operaio Charlie Chaplin, con il divieto di scioperare e di eleggersi liberamente i propri rappresentanti, con i pubblici atti di dolore e di autoflaggellazione, ci raccontano che la locomotiva Italia riconquisterà la competitività sul mercato globale. E quasi nessuno, tra i monti e i colli di Roma, trova da ridire.

Se così stanno diventando le fabbriche e tutti i posti di lavoro - perché la Fiat fa scuola in Italia, da Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo, all'indotto meccanico, chimico e via costruendo e trasportando, e via egemonizzando in Federmeccanica, in Confindustria, al governo dei tecnici, persino dentro il centrosinistra e negli altri sindacati - cosa ne sarà della nostra democrazia? Una democrazia sospesa, e dormiente, una politica che si è consegnata ai tecnici illuminati dalla finanza.

Inutile chiedersi se e quando si risveglierà la nostra democrazia, raccontandoci che saranno gli stessi anestetisti, un giorno, a decidere di aprire le finestre.

Quelle finestre resteranno chiuse, se non ci penseremo noi a spalancarle. Dove il noi comprende tanti pezzi di società non pacificati che stentano a mettersi in comunicazione tra di loro. Bisogna capire, come si ostina a fare la Fiom, che la condizione precaria riguarda l'intero mondo del lavoro e del non lavoro, che non c'è contrapposizione tra difesa dell'articolo 18 che andrebbe semmai esteso a tutti insieme agli ammortizzatori sociali, e battaglia per un reddito di cittadinanza.

Il 9 marzo sarà un'occasione per tutte le voci fuori dal coro del pensiero unico dominante. Lo sciopero generale della Fiom deve diventare un embrione di alternativa allo stato di cose presente, un primo momento di ricostruzione di un progetto comune con cui uscire dalla difensiva.

Ieri a Roma la parte viva del sindacato italiano ha lanciato un appello generale. Con uno slogan - la democrazia al lavoro - e la convinzione che è il lavoro a creare la ricchezza mentre la finanza lo distrugge. I delegati e le delegate metalmeccaniche hanno raccontato un paese in crisi, fabbriche occupate e in cassa integrazione, interi distretti industriali desertificati, regioni come la Sardegna a cui hanno tolto il tappo e adesso rischia di affondare. Ma anche fabbriche salvate dalla lotta coraggiosa della Fiom, come il cantiere navale di Sestri, o prima ancora la Innse. Dunque, è di lavoro e investimenti per un nuovo modello di mobilità e di sviluppo che bisogna parlare, di come creare occupazione qualificata, di come lo stato deve intervenire nell'economia, e non di come rendere ancor più facili i licenziamenti. Invece il centrosinistra si limita a dire che sul mercato del lavoro va bene quel che decidono i sindacati naturalmente uniti e le parti sociali. Di quale unità vanno cianciando, nella stagione degli accordi separati?

La sinistra parlamentare non ha niente da dire sul mercato del lavoro, e neanche vuole vedere quel che succede a Pomigliano. Il dio mercato è diventato anche per loro il regolatore generale che non ammette variabili indipendenti. La sinistra parlamentare non guarda nei call center, o all'università, o nel mondo giovanile a cui è interdetta la possibilità di crearsi un futuro e di accedere a un lavoro se non a condizioni schiavistiche e ricattatorie. Non guarda al trasporto che è diventato un bene di lusso per pochi, perché solo i capitali e i capitalisti possono muoversi liberamente. Gli altri restino a terra. Viva la Tav e abbasso i treni dei pendolari. L'Italia pagherà le multe all'Unione europea perché gli autobus che girano nelle nostre città sono i più vecchi e inquinanti del continente, e la politica non ha nulla da dire quando la Fiat decide di chiudere l'unica fabbrica di autobus italiana per andare a costruire altrove.

Inutile far finta di non sapere per chi suona la campana. Ieri a Roma hanno parlato operai, tecnici, ricercatori, studenti, precari, il popolo No-Tav rappresentato da una sindaca della Valsusa e tanti altri. Quel che succede a Pomigliano non è diverso da quel che sta per succedere o già succede in tutta la società italiana. Bisogna tagliare il filo spinato che stanno stringendo intorno alla Fiom come ai cantieri dell'Alta Velocità.

Come ha detto Maurizio Landini, sbaglia chi si riscalda per i tre delegati persi dalla Fiom a Melfi e non va ad abbracciare gli altri duecento delegati Fiat che non hanno gettato la spugna e ancora stringono in pugno orgogliosamente la loro tessera. Sono quelli che scelgono di abbassare gli occhi al cospetto della moglie e dei figli a cui non riescono più a garantire una vita decente, pur di non abbassare la testa di fronte a Marchionne. Sono quelli che hanno imparato l'insegnamento di Giuseppe Di Vittorio, quando diceva ai lavoratori di non togliersi il cappello al cospetto del padrone. Dopo gli anni Cinquanta sono arrivati i Sessanta, non per grazia ricevuta ma grazie alla tenacia e alle lotte dei lavoratori che più volte salvando la propria dignità hanno salvato la democrazia. Il 9 febbraio la campana suona anche per noi. La lotta che stanno facendo i compagni del manifesto, è stato detto ieri dal palco dell'Atlantico gremito fino all'inverosimile, è la nostra stessa lotta. Questo fa sentire la Fiom e il manifesto meno soli, e un po' più forti.

Architetto e teorico dell’architettura e della città, Mirko Zardini dirige dal 2006 il Centre Canadien d’Architecture (Cca), un’istituzione sui generis nel panorama internazionale composta da archivi preziosissimi, una grande biblioteca, il centro studi e il museo, con un’agenda culturale molto forte che ne ha fatto uno dei punti di riferimento internazionali per la cultura urbana e di progetto. Insieme a Giovanna Borasi, Zardini ha curato negli ultimi anni una serie di mostre inusuali, supportate da una ricerca incredibilmente rigorosa e da una ossessiva volontà di portare alla luce le crepe paradigmatiche, i limiti e le contraddizioni dell’architettura.

Da Sorry, Out of Gas, la mostra sulla crisi energetica degli anni Settanta, a Sense of the City o Imperfect Health, ancora in corso, emerge una forma di pensiero critico insolitamente chiaro e lontano dalla semplificazione comunicativa diffusa negli ambienti dell’architettura. Quali sono gli obiettivi di questo scarto curatoriale?

Il tentativo del Cca è stato quello di costruire mostre che fossero in grado di aprire un discorso, piuttosto che di chiuderlo. Abbiamo selezionato problematiche legate alla realtà quotidiana, come l’energia o la medicina, allo scopo di restituire all’architettura e all’urbanistica una cornice meno angusta di quella strettamente disciplinare, che rischia di confinarle nell’irrilevanza. Volevamo indagare i lati oscuri dell’architettura, ma non nello stile del manifesto politico, come ad esempio alcune mostre del Nai di Ole Bauman. Noi abbiamo cercato di mettere in questione i presupposti su cui operano gli architetti, che spesso ripropongono in modo completamente acritico idee e meccanismi prodotti in altre discipline, senza alcun filtro. In Imperfect Health abbiamo mostrato molti progetti diversi, che per lo più riproducono l’agenda moralistica e neoliberale propria della trasformazione del ruolo della medicina nella nostra società dagli anni settanta a oggi, della fine del welfare.

Per esempio, quarant’anni fa l’obesità non era considerata una malattia: si sarebbe parlato di prevenzione, di condizioni socioeconomiche, di educazione, mentre oggi è un problema di responsabilità individuale nei confronti di una società che non è più in grado di sostenere le spese mediche generalizzate. Un edificio come il celebre Cooper Union di Morphosis a New York «risolve» il problema reintroducendo l’attività fisica attraverso dei percorsi antifluidi, inserendo scale al posto degli ascensori e così via. Dispositivi che vanno anche bene, però pensare che l’obesità si riduca a questo e che l’architettura possa avere in questo modo un ruolo determinante è assolutamente superficiale.

D’accordo, ma allora con quali strumenti gli architetti possono influire sulla realtà cui in minima parte sono deputati a dare forma?

In primo luogo attraverso lo spirito critico. Prendiamo il discorso sull’ambiente: oggi il mantra della sostenibilità è diventato un meccanismo tecnocratico, un greenwashing dell’architettura che, riducendo il problema alla performance energetica di una costruzione, ha eliminato le componenti complesse, tutto ciò che viene prima e dopo l’edificio. Negli anni Settanta, durante la prima vera crisi energetica, moltissimi architetti avevano collegato il problema dell’energia al riciclo, all’uso delle risorse, alle reti sociali, a una critica dello stile di vita e dei modi di produzione. Per la prima volta era crollata la fiducia incondizionata nella tecnologia, nelle sorti progressive. Ma all’epoca prevalse una miope politica di sviluppo dei pannelli solari, che poi venivano usati per riscaldare le piscine dei sobborghi. Oggi abbiamo lo stesso problema: una riscoperta naive della tecnologia, come negli anni Cinquanta. Possiamo risparmiare tutta l’energia del mondo, ma per farne cosa? Se e per reimmetterla in un sistema di consumo identico a quello in cui abbiamo vissuto non ne vale la pena, è l’equivalente del caffè decaffeinato, della guerra umanitaria, della politica senza politica di cui parlava Zizek in Benvenuti nel deserto del reale.

Esistono indizi di un’inversione di rotta?

In generale la crisi che la nostra società sta attraversando oggi definisce l’esigenza di elaborare nuove piattaforme di pensiero, e il fenomeno riguarda anche l’architettura e l’urbanistica. Sono molto contento che la bolla iconica che ha afflitto l’architettura degli ultimi trent’anni si sia conclusa, lasciando spazio a nuove problematiche. Le aree più ricche restano conservatrici, ma le cose interessanti avvengono altrove, in una sorta di terzo paesaggio dell’architettura: non nelle aree forti di intervento, ma in quelle marginali, nel lavoro delle Ong, nei progetti di intervento sociale, in quelli che utilizzano un sistema di partecipazione. Oppure in casi più tradizionali come le abitazioni per homeless di Michael Maltzan a Los Angeles e l’Olympic Sculpture Park di Weiss Manfredi a Seattle, che dissolve l’edificio in una struttura paesaggio, o ancora nei progetti di riparazione ambientale che agiscono in direzione opposta all’eccesso di estetizzazione del paesaggio operato dai progettisti negli ultimi anni.

Nel non vitalissimo scenario europeo uno dei discorsi più produttivi, in grado di unire la riappropriazione della sovranità popolare, la partecipazione, a una serie di ripensamenti sulle politiche spaziali ed energetiche, è quello dei beni comuni.

È vero, anche se non mi piace l’idea di comunità che affiora nel discorso. In architettura era stata elaborata soprattutto da Solà-Morales un’idea molto efficace di spazio collettivo che individuava caratteristiche alternative al binomio pubblico-privato, senza cadere in nostalgie comunitarie. Ma qualunque sia il punto di vista adottato, bisogna tenere a mente i limiti del progetto: pensare che l’architettura possa risolvere tutti i problemi dell’ambiente e del territorio era un’idea modernista. Ne paghiamo ancora i danni, come nel caso dell’eternit. L’architettura era intesa come cura, mentre secondo me dovrebbe prendersi cura delle cose. È necessario approfondire le dinamiche della crisi in atto, ma mettendo sempre in evidenza le conseguenze che le nostre azioni producono.

L’apparente rozzezza delle prescrizioni d’igiene moderniste, però, rivela forse anche una maggiore libertà rispetto alla manipolazione occulta del contemporaneo: era un’assunzione di responsabilità che conduceva a errori drammatici se si vuole, ma era meno intellettualmente subordinata agli interessi altrui. Se lo compariamo a Le Corbusier, Koolhaas è molto più consapevole dei limiti, ma non ha rinunciato alla postura di guru e attraverso una grande mole di argomentazioni ambigue continua a porsi come il risolutore ideale dei problemi del mondo attraverso i suoi masterplan.

Koolhaas ha segnato un periodo, ma il dibattito non può essere egemonizzato dalle stesse persone che hanno dominato la comunicazione negli ultimi vent’anni. Non si può andare avanti nei modi ancora di recente utilizzati da Winy Maas degli Mvrdv: a ogni problema corrisponde una soluzione che, naturalmente, si incarna in un progetto di architettura. Molto spesso la soluzione è non fare niente. Il progetto più bello degli ultimi anni forse è stato quello di Lacaton e Vassalle per il concorso di «abbellimento» di place Léon Aucoc a Bordeaux. Dopo avere frequentato il posto e parlato con i passanti e gli abitanti, proposero di lasciare tutto così com’era, al di là di qualche intervento di manutenzione, perché la piazza non aveva bisogno di miglioramenti.

Uno dei fattori che più incoraggiano il conformismo, almeno qui in Italia, sono le scuole. Nella sua esperienza di insegnamento ha conosciuto università migliori da questo punto di vista?

Negli Stati Uniti emergono sempre più diffusamente all’interno delle scuole temi come l’ecological urbanism o le favelas, ma non so quanto possano giovare: quanto questa è realmente l’occasione di ripensare i problemi e quanto è riproposizione degli stessi metodi in un contesto differente? Nel frattempo sta avvenendo una rivoluzione nei meccanismi di produzione dell’architettura: urge una riflessione sulle nuove regole sulla responsabilità civile e la proprietà intellettuale del progetto. Oppure sul digitale e i modi in cui viene incorporato nell’architettura, sui rendering che vengono per lo più prodotti in Cina o in India. Insomma è un periodo interessante, ma non saprei dire dove andiamo. Noi cerchiamo solo di costruire prospettive diverse.

Il fatto che il Cca sia un centro di ricerca oltre che un museo ha favorito questo tipo di approfondimento?

Non tanto, perché la ricerca è ancora parecchio convenzionale, basata sui phd programs, sugli scholars, mentre il nuovo approccio è dovuto soprattutto a un’idea diversa del ruolo curatoriale e della responsabilità intellettuale di un’istituzione. La posizione periferica di Montreal permette di sperimentare delle cose senza la pressione che avremmo a New York. Sarebbe bello che anche le istituzioni di qui approfittassero della condizione marginale italiana per sviluppare una strategia analoga: se si pensa alla filosofia, c’è una delle scene più interessanti a livello mondiale – anche se sembra che gli architetti non se ne siano accorti.

La mia impressione è che, esaurito l’entusiasmo per l’architettura iconica, sui nostri media l’architettura e il discorso sulla città sono spariti o banalizzati. In questo momento ad esempio in Italia è stata montata una improbabile campagna mediatica contro l’Ex Enel, uno tra i mille brutti progetti milanesi, e su blog e giornali non si parla d’altro che di bellezza e scempio.

Quando sento parlare di bellezza mi preoccupo sempre. È fondamentale impostare il discorso del territorio e dell’urbano su altri presupposti: il consumo di suolo, la mobilità, le infrastrutture, i servizi sociali, l’accesso ai servizi, il diritto all’abitare. Nessuno è ovviamente a favore dei brutti progetti, ma il discorso estetico sull’architettura è deviante e dannoso. Tanto per fare un esempio, il progetto abortito dell’orto planetario per l’Expo (premesso che le Expo sono inutili, a mio parere), non era significativo in quanto bello o brutto, ma perché simbolicamente era importantissimo come progetto a volume zero – o quasi.

L’ultima esperienza che ebbi a Milano furono i Giardini di Porta Nuova: il progetto originale incorporava il giardino in un discorso sullo spazio pubblico, tentando di inserire gli edifici in un sistema di relazioni urbane con l’intera area, che comprendeva la stazione, le strade, le piazze, tenendo in gran conto l’interesse dei cittadini. Invece si è parcellizzato il problema, i privati hanno fatto quel che hanno voluto, poi quanto è rimasto è diventato un giardino. Si è sempre parlato di contrattazione, ma la contrattazione di fatto non c’è stata. In Italia non ci sono neppure i luoghi deputati alla discussione: data per persa l’accademia, il Maxxi o la Triennale dovrebbero diventare i luoghi del dibattito, ma non mi pare che le scelte recenti nelle nomine vadano in questa direzione.

Dal 2005 cresciuti del 50% gli acquisti dall´estero Marche e Puglia le nuove mete

Va di moda la casa in Italia: se gli immobili commerciarli non attirano più i capitali esteri, le famiglie straniere fanno a gara per comperare una casa in un borgo toscano o una villetta di fronte al mare pugliese. Ad acquistare sono soprattutto i tedeschi e gli inglesi, ma è in netta crescita il mercato del Nord America ed aumentano in modo esponenziale le vendite a clienti russi.

Uno studio di Scenari Immobiliari fa notare che se nel 2005 sono state tremila le famiglie straniere che hanno acquistato un immobile residenziale nel nostro Paese, quest´anno il tetto dovrebbe arrivare a quota 4500, con una crescita del 50 per cento. È in aumento anche l´importo medio investito, passato da 245.000 euro a 445.000 euro. Lo scorso anno, la quota maggiore degli investitori proveniva dalla Germania (il 36 per cento) e dalla Gran Bretagna (21 per cento), ma sono stati gli acquisti effettuati da famiglie russe a registrare un vero e proprio boom: dal 2 per cento del 2005 sono passati al 12 per cento del 2011. «La maggior parte degli acquisti – spiega Paola Gianasso, responsabile mercati esteri di Scenari Immobiliari – è stata realizzata da famiglie che si sono arricchite negli ultimi quindici anni. L´investimento in Italia è motivato dalla volontà di diversificazione, ma rappresenta anche uno status symbol». L´attenzione degli acquirenti russi si concentra sugli immobili di lusso nelle località turistiche più prestigiose - Liguria, Toscana e Sardegna o zone dei laghi - ma sono state acquistate anche case storiche nel centro delle principali città, in particolare a Milano. In aumento anche gli acquirenti provenienti dagli Stati Uniti e dal Canada: dal 6 per cento del 2005 all´11 del 2011.

Lazio e Toscana sono le regioni più gettonate, ma nel corso degli anni la quota del mercato toscano - un tempo destinazione per eccellenza degli acquisti di seconde case da parte degli stranieri - si è ridotta passando dal 30 per cento del 2005 al 16 dello scorso anno. Una caduta causata soprattutto dell´alto livello delle quotazioni che ha spinto gli acquirenti a scegliere regioni limitrofe, come le Marche e il Lazio settentrionale, considerate più convenienti. Il mercato veneto e quello nordico in generale è dominato dai tedeschi che comprano ville in campagna, case sul lago di Garda o di fronte al mare di Lignano Sabbiadoro e Grado. Cresce anche il mercato pugliese, passato dal 7 per cento del 2005 al 20 del 2011.

Tutt´altra tendenza nel mercato degli immobili commerciali: la società di consulenza immobiliare CB Richard Ellis segnala che lo scorso anno, gli investitori internazionali hanno acquistato immobili per 1,1 miliardi di euro, in diminuzione del 22 per cento rispetto all´anno precedente e del 76 rispetto al picco del 2007. L´emoraggia di capitali stranieri dovrebbe proseguire nel 2012. Per Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari, il trend negativo è dovuto alla "stangata" fiscale applicata ai partecipanti non istituzionali nei fondi immobiliari e alla carenza di prodotti di qualità.

Conviene non dimenticare come nacque la candidatura di Christian Wulff, nel 2010. Nacque molto male, perché Angela Merkel s´era incaponita sul suo nome.Lo preferì a quello di un personaggio di ben altra statura. Se i tedeschi avessero potuto eleggere direttamente il capo dello Stato, senz´altro avrebbero scelto Joachim Gauck, non il grigio uomo d´apparato democristiano. Gauck era l´uomo del momento giusto, per la successione di Horst Köhler alla massima carica dello Stato. Per aver conosciuto la paura quando era un pastore dissidente nella Germania comunista, sapeva quel che significa pensare con la propria testa, resistere, affrontare tempi difficili come i nostri.

Assieme a Havel, era stato uno dei rari dissidenti che non solo aveva combattuto il totalitarismo ma era stato capace di guardare dentro se stesso, di intuire quello che può fare, di ogni uomo, un conformista o un ideologo, a seconda delle necessità e delle convenienze. Per dieci anni, fra il 1990 e il 2000, aveva diretto un´istituzione essenziale per l´unificazione tedesca e la rinascita democratica in Germania Est: l´autorità che archivia e mette a disposizione del pubblico gli atti della Stasi (servizi di sicurezza dell´Est). L´ex pastore era il candidato proposto da socialdemocratici e verdi, la sua popolarità nei sondaggi era immensa.

Angela Merkel predilesse Wulff, per mediocri calcoli di partito e probabilmente perché Gauck era figura troppo imponente per lei. L´outsider amato dai tedeschi l´avrebbe messa in ombra. Più segretamente, forse, contava anche la vita diversa che ciascuno dei due aveva avuto nella Germania comunista: dissidente lui, non comunista ma certamente conformista lei. Di Wulff non si conoscevano disonestà, quando fu designato. Ma era un personaggio senza spessore, senza grande passato. Ora che sono venuti alla luce tante macchie, e un intreccio così importante fra interessi pubblici e privati, la scelta del Cancelliere appare ancora più incongrua, e ottusa.

Wulff è il figlio della meschinità politica, del pensare corto e piccolo che ha prevalso in questi anni ai vertici tedeschi, specialmente democristiani. Roland Nessel, editorialista dello Spiegel, gli ha affibbiato un nomignolo: il Presidente altro non era che un Gernegroß, un «vorrei esser grande». In Italia diremmo: un «vorrei ma non posso». In Germania i capi di Stato non hanno poteri vasti come in Francia e America; non sono neanche paragonabili ai colleghi italiani. Da loro ci si aspetta tuttavia un senso acuto dell´etica pubblica, un´attitudine leggermente aristocratica a volare alto: a dire - nei momenti critici - parole possenti e decisive. Cruciali furono nel dopoguerra, e poi tra gli anni ´70 e ´90, presidenti come Theodor Heuss, Gustav Heinemann, Richard Von Weizsäcker, Roman Herzog, Johannes Rau. Il declino della carica comincia nel 2004, con il predecessore di Wulff che fu Horst Köhler. Tutti e due sono stati uomini della Merkel, costretti a dimettersi prima del tempo.

Detto questo, la caduta di Wulff è un giorno memorabile per la democrazia tedesca. I legami del Presidente con finanzieri poco fidati, la maniera in cui aveva ottenuto crediti agevolati grazie ai favori dell´industriale Geerkens, ai tempi in cui era presidente della Bassa Sassonia, i piccoli favori ottenuti dal magnate dell´industria cinematografica David Groenewold: simili reati non reggono il paragone con la corruzione che mina la politica italiana, ma sono insopportabili per i tedeschi. Sono il segno che i partiti nelle loro chiuse cucine possono sbagliare e deviare dall´etica pubblica, ma che nella società esistono fortissimi anticorpi, pronti a reagire a ogni sorta di malaffare, di bugia detta dal potere. E tutto questo, prima che comincino i processi veri e propri. Un caso Cosentino è impensabile in Germania. L´ultimo scandalo fu quello del ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto a dimettersi nel marzo 2011, quando si scoprì che la sua tesi di dottorato era frutto di plagio. Anche Guttenberg era uomo della Merkel.

Non ci sono grandi personalità a guidare la Germania, ma il controllo sociale sulla politica è intenso, e le campagne stampa godono dell´appoggio della popolazione. L´uguaglianza di tutti davanti alla legge è una regola aurea cui la nazione e le sue classi dirigenti non rinunciano. L´una e le altre non indietreggiano davanti ai capi di Stato. Non lasciano soli i magistrati e i giornalisti, a fare le loro inchieste. Per questo i risultati di tali battaglie sono tangibili, e tempestivi.

Non così in Italia. Sono stati necessari la crisi economica e lo spread impazzito, perché Berlusconi venisse spinto fuori dall´arena politica. E ancor oggi la corruzione dilaga, ancor oggi l´operazione Mani Pulite è ricordata con sospetto, rancore: per alcuni il malcostume ha toccato le vette odierne non malgrado, ma a causa dei procedimenti contro Tangentopoli. C´è perfino chi ritiene non irrealizzabile il sogno di Berlusconi di salire un giorno al Quirinale. Speriamo che la Germania diventi un esempio per il funzionamento della sua democrazia, e non solo per la disciplina finanziaria che sta imponendo all´Unione europea.

A due anni dalla denuncia dello stato comatoso delle sue finanze (ma gli interessati, in Germania e alla Bce, lo sapevano da tempo: erano stati loro a nasconderlo) la Grecia, sotto la cura imposta dalla cosiddetta Troika (Bce, Commissione europea e Fmi) presenta l'aspetto di un paese bombardato: un'economia in dissesto; aziende chiuse; salari da fame; disoccupazione dilagante; file interminabili al collocamento e alle mense dei poveri; gente che fruga nei cassonetti; ospedali senza farmaci; altri licenziamenti in arrivo; tasse iperboliche sulla casa e sfratti; beni comuni in svendita. E ora anche una città in fiamme. Ma a bombardare il paese non è stata la Luftwaffe, bensì il debito contratto e confermato dai suoi governanti di ieri e di oggi nell'interesse della finanza internazionale. Con la conseguenza che, a differenza di un paese uscito da una guerra, in Grecia non c'è in vista alcuna "ricostruzione", o "rinascita", "ripresa"; ma solo un fallimento ormai certo - e dato per certo da tutti gli economisti che l'avevano negato fino a pochi giorni o mesi fa - procrastinato solo per portare a termine il saccheggio del paese e, se possibile, il salvataggio delle banche che detengono quel debito; o di quelle che lo hanno assicurato. Le armi però c'entrano eccome. All'origine di quel debito, oltre alla corruzione e all'evasione fiscale, ci sono le Olimpiadi del 2004 (costate oltre un decimo del Pil) e l'acquisto di armi, che la Grecia è costretta a comprare e pagare a Francia e Germania come contropartita della "benevolenza" europea, per importi annui che arrivano al 3 per cento del Pil. Quattro fattori, armi (come F135), Grandi eventi (Olimpiadi o Expò, o Mondiali, o G8), evasione fiscale e corruzione che accomunano strettamente Grecia e Italia. Ma non solo.

Nel pacchetto, il quinto in due anni, delle misure imposte alla Grecia - liberalizzazioni di tariffe, mercati e lavoro, privatizzazioni dei servizi pubblici, blocco delle assunzioni, definanziamento di scuole, ospedali, Università, servizi sociali - c'è pari pari il programma del governo Monti (anch'esso cucinato da Bce e Commissione europea). La Grecia è solo un anno più avanti di noi sulla strada del disastro e Monti è il Papademos italico incaricato di accompagnarvi l'Italia spacciandosi per il suo salvatore e garantendone il saccheggio.

Aggiungi il patto di stabilità (Fiscal Compact) che impone di riportare il debito di entrambi i paesi, ormai chiaramente in recessione, al 60 per cento del PIL in regime di parità di bilancio, e avrete i termini di una politica senza ritorno imposta da una classe al potere senza un'idea di futuro che non sia la propria perpetuazione. Per loro contano solo i bilanci: tutto il resto crepi! Quando l'Unione europea avrà tagliato gli ormeggi alla Grecia per abbandonarla alla deriva, avrà messo il vascello in condizioni di non poter più navigare per decine di anni.

Nessuno degli economisti entusiasti degli "sforzi" di Monti ha la minima idea di come si possano raggiungere gli obiettivi del Fiscal Compact. E allora? Il fatto è che per loro "non c'è alternativa"; perché non sanno immaginare un futuro diverso dal presente: all'Università non lo hanno studiato e non si sono dotati di strumenti per concepirlo (tranne che per le loro carriere). "Non esiste un piano B per la Grecia, ha detto Draghi. Ma nemmeno per l'Italia. Per questo Monti non è la soluzione, ma il problema.

Ma un "piano B" per l'Europa va messo a punto, e in fretta; perché quello "A" è un strada senza uscita; e non si fa politica, né opposizione, senza un'idea sul da farsi appena il contesto la renda plausibile. E quel momento potrebbe essere vicino, perché il mondo sta cambiando in fretta. Ma l'Italia non è la Grecia, ripetono i supporter di Monti. E perché mai? Perché l'Italia ha un tessuto industriale robusto e perché è "troppo grande per fallire". Due tesi per lo meno parziali. Neanche la Grecia era priva di un tessuto industriale, anche se fragile, che le manovre deflattive imposte dalla Troika hanno mandato in pezzi. Una vicenda attraverso cui erano già passati anni fa - e per decenni - molti paesi dell'America Latina presi per la gola dal FMI. Quanto all'Italia, un inventario dei danni prodotti dal ventennio berlusconiano, non solo sullo "spirito pubblico" - e non è poco - ma anche sul tessuto industriale non è ancora stato fatto. Ma accanto ad alcune medie imprese che si sono ristrutturate ed esportano, tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e Fincantieri) sono alle corde e nel tessuto industriale residuo chiude una fabbrica al giorno. "Non si produce più niente" ripetono coloro che guardano la realtà senza lenti deformanti. Ma non è che tra un mese o tra un anno (o anche due) quelle fabbriche riapriranno, gli operai ritorneranno al loro posto di lavoro e le aziende riprenderanno a produrre come prima. Un enorme patrimonio di esperienze, di professionalità, di knowhow, di attitudine all'innovazione e al lavoro di gruppo viene disperso e scompare per sempre. Né ci sono in vista iniziative imprenditoriali in grado di mettere al lavoro, avviandole dal nulla, nuove produzioni, nuovi addetti e risorse gestionali in grado di riempire quei vuoti. E quanto agli investimenti stranieri, sono bloccati dall'articolo 18, dalla mancanza di infrastrutture come il Tav Torino Lione, dalle tasse troppo alte che nessuno paga, o dalla corruzione e dalla burocrazia che il governo Monti si è tirato in casa? BCE e governo Monti sono destinati a imprimere una accelerazione decisiva al lungo declino dell'economia italiana.

In secondo luogo, se l'Italia è troppo grande per fallire, è anche - come ci viene ripetuto spesso - "troppo grande per essere salvata". Qui sta la sua forza e la sua debolezza. La debolezza è quel continuo richiamo a fare "i compiti a casa" (un'espressione da deficienti) e a "cavarsela da sola" (sulla base, però, dei diktat di altri). Un compito impossibile, che i governi greci hanno già provato a svolgere nonostante la sua palese assurdità. La forza sta nel fatto che se il governo Italiano non sarà in grado di azzerare il deficit e dimezzare il debito, o anche solo di rifinanziarlo, perché il suo PIL precipita, "salta" anche l'euro - il che, forse, è già stato messo in conto. O verrà messo in conto tra poco - ma salta anche, probabilmente, l'Unione europea e con essa l'economia di mezzo mondo. E forse anche quella dell'altra metà. Non siamo più negli anni '30, quando la partita si giocava tra cinque o sei Stati. Il circuito finanziario ha ormai coperto e avviluppato l'intero pianeta.

Un piano B per l'Europa deve innanzitutto evitare un default disordinato (come ormai viene chiamata la prossima bancarotta degli Stati a rischio di insolvenza; e non sono pochi) e promuovere un "concordato preventivo": cioè un accordo che dimezzi in modo selettivo i debiti pubblici che non possono essere ripagati o che ne sterilizzi (con una moratoria delle scadenze) una buona metà. Il che trasferirebbe l'insolvenza sulle banche, costringendo anche la BCE e gli Stati più forti e arroganti a correre in loro soccorso: con nazionalizzazioni, "bad bank" e separando finalmente il credito commerciale dal pozzo senza fondo degli investimenti speculativi. Quanti più saranno gli Stati a rischio che si impegnano su questa strada, tanta maggiore sarà la forza per imporla.

Certamente, sia che l'euro venga conservato, sia che si torni alle vecchie divise, il caos economico che incombe sul paese e sull'Europa è spaventoso; ma non minore di quello in cui ci sta trascinando il tentativo di rinviare giorno per giorno una resa dei conti. In tempi di crisi valutaria, ciò con cui bisognerà fare i conti, a livello nazionale e locale, saranno gli approvvigionamenti: innanzitutto quelli energetici e alimentari. L'unica risorsa a cui attingere a piene mani nel giro di pochi mesi e pochi anni sono risparmio ed efficienza energetica. La condizione di paese bombardato apparirà allora in tutta evidenza: spente le luminarie che non servono per vedere ma per farsi vedere; auto ferme e mezzi pubblici strapieni (scarseggerà il carburante); orari cambiati per garantire il pieno utilizzo dei mezzi durante tutto l'arco della giornata; conversione in tempi rapidi - come all'inizio di una guerra - delle fabbriche compatibili con la produzione di impianti per le fonti rinnovabili o di cogenerazione, di mezzi di trasporto collettivi o condivisi a basso consumo; interventi sugli edifici per eliminarne la dispersione energetica. ecc. Giusto quello che si sarebbe dovuto fare - e ancora potrebbe essere fatto - in questi anni, con esiti economici certo migliori.

Lo stesso vale per l'approvvigionamento alimentare: occorrerà restituire a ogni territorio la sovranità alimentare con un'agricoltura meno dipendente dal petrolio e un'alimentazione meno dipendente da derrate importate: una operazione da mettere in cantiere con una nuova leva di giovani da avviare a un'attività ad alta intensità di innovazione e di lavoro che potrebbe cambiare l'aspetto del paese. Analogamente occorrerà intervenire sul patrimonio edilizio inutilizzato, sul ciclo di vita dei materiali (risorse e rifiuti), su scuola, università, sanità con interventi che riducono gli sprechi e producono occupazione di qualità.

Ma soprattutto ci vorrà una revisione generale degli acquisti quotidiani: spesa condivisa, rapporti diretti con il produttore e Km0 (i GAS), riduzione degli imballaggi e del superfluo, ricorso all'usato e alla riparazione e alla condivisione dei beni: tutti campi in cui il sostegno di un'amministrazione locale conta molto. E tante altre cose simili su cui occorre riflettere: sono tutti interventi da concepire, programmare e gestire a livello locale - con la partecipazione diretta della cittadinanza attiva - che potranno essere agevolati anche da un circuito parallelo di monete garantite dalle autorità locali, come era avvenuto con successo in molti paesi occidentali - compresa la Germania nazista - durante la grande crisi degli anni '30. Fantascienza? Forse; comunque un programma meno irrealistico dell'idea di affidare alla liberalizzazione dei servizi e dei rapporti di lavoro la ripresa di una crescita che sottragga l'Italia al cappio del debito; e magari anche alla crisi ambientale - ah! questa sconosciuta! - che investe il pianeta.

Sono ancora da digerire le conseguenze della speculazione immobiliare dei primi anni 2000. Come ha scritto Robert Shiller, si è trattato di un aumento dei prezzi delle case ingiustificato in un paese – gli Stati Uniti – dove l'area edificabile procapite è potenzialmente illimitata.

Diverso è il caso dell'Italia, dove la bolla immobiliare è stata minore e in molti casi l'aumento di valore ha riguardato più le aree (l'edificabilità) che gli edifici costruiti (l'attività edilizia). Da questo punto di vista, non abbiamo neppure avuto il beneficio del sostegno al reddito dato da nuove costruzioni. Solo le conseguenze negative - anche in termini di legalità ed onestà - rappresentate dalla rendita immobiliare, che delle tante rendite di cui si occupa il Governo Monti, con le sue misure di liberalizzazione, meriterebbe qualche attenzione in più.

Anzitutto, una riflessione di metodo e poi alcune proposte. Il primo aspetto riguarda il concetto stesso di "rendita", che misura la remunerazione di una scarsità, che può essere naturale (come nel caso dell'area del centro storico) o dovuta ad un provvedimento amministrativo (come una concessione, data solo ad alcuni). La filosofia del Governo Monti è che tutte le rendite, a cominciare da quelle date da provvedimenti amministrativi, devono essere ridotte: meno rendite significa maggior reddito distribuito a salari e profitti, quindi maggior sviluppo.

Nel caso delle aree edificabili, siamo in un campo di cui ormai ci si occupa solo quando emergono scandali dovuti ad abusi, corruzione e così via. Il legislatore in teoria ha sistemato tutto molti anni fa: le competenze in campo urbanistico sono ripartite tra Regioni, Province e Comuni, in una serie di rapporti tra organi eletti dai cittadini e quindi con il massimo del controllo democratico. Questo in teoria.

Ma se facciamo un po' di ricerca, utilizzando il campione rappresentato dalla voce "scandali urbanistici" delle pagine (saranno una cinquantina) di Google, si vede subito che quel modello produce più corruzione e scandali di quando i Piani Regolatori erano approvati a Roma dal Ministero. Con amministrazioni di ogni colore politico, ogni tanto (con una qualche prevalenza nei periodi in cui ci sono campagne elettorali da finanziare) partono strumenti urbanistici nuovi o varianti che mutano destinazioni d'uso e quindi valori edificabili in modo significativo.

La competenza del Comune è soggetta a parere della Provincia, ma quando questo parere - che è solo di legittimità e non di merito - è negativo, basta che il Consiglio Comunale poi replichi, sostenendo che la Provincia non sa quel che dice, perchè la cosa si concluda così. Confermando l'opinione che se le Province sono più oneste, cioè meno coinvolte in scandali, è solo perchè... sono inutili. Una volta che si accerta che tanti diversi scandali presentano alcune fondamentali analogie, quali sono i rimedi possibili? Ovviamente, la prevenzione è necessaria e si vede che richiede molta più trasparenza. Occorre che anche in Italia, come avviene nei paesi civili, l'intero procedimento sia reso del tutto trasparente. Ad esempio, nel caso di varianti urbanistiche si pubblica, sul sito del Comune, la domanda dell'interessato, la successiva fase istruttoria, le varie delibere, le loro motivazioni, tutte le norme utilizzate, le ragioni del credito bancario, e così via.

Idem per il successivo parere della Provincia e per le eventuali controdeduzioni del Consiglio Comunale. Le moderne tecnologie rendono estremamente facile tutto ciò. Ma se esaminate i casi più clamorosi che compaiono sulle pagine Google e risalite ai siti degli enti locali coinvolti, non trovate nulla della documentazione che da qualche parte deve pur esistere; neppure i verbali dei Consigli Comunali che hanno discusso e votato quelle pratiche spesso milionarie. Già rendere integralmente pubblici (con le norme rilevanti e non solo i loro numeri) sia i pareri delle Province sia le successive controdeduzioni dei Consigli Comunali porrebbe un limite all'estrema privacy che oggi circonda varianti che regalano milioni di euro a pochi.... fortunati.

Si aiuterebbero anche le comunità coinvolte ad essere un po' più attente, fin dall'inizio, in queste pratiche. E non dovrebbe succedere ciò che si è visto nella mia città - Piacenza - dove una scuola già dell'Enel è stata venduta per 5 milioni e dopo tre mesi rivenduta per il doppio, sulla base di una promessa variante di destinazione d'uso, da scuola ad abitazione. Mentre nelle scuole pubbliche che distano pochi metri mancano laboratori, mancano palestre, e si fa lezione in aule poste nei seminterrati. Una variante che regala milioni di euro a pochi fortunati, mentre migliaia di ragazzi e le loro famiglie neppure ritengono che la cosa li riguardi. Come dire che se gli scandali urbanistici sono di casa nei Consigli Comunali, è anche vero che ogni città ha il Consiglio Comunale che si merita.

postilla

Singolare l’intervento di Giacomo Vaciago. Almeno per tre ragioni: una positiva, due negative.

Positivo il fatto che un economista di forte spessore accademico, e vicino ai luoghi della pratica economica (Confindustria), denunci il peso della rendita fondiaria in Italia e giunga a riconoscere una realtà dimenticata dai più, a destra come a sinistra: che «meno rendite significa maggior reddito distribuito a salari e profitti». Tanto più positivo poiché la rendita cui indirizza la sua critica è quella fondiaria urbana, che il pensiero dominante ritiene invece essere un inoppugnabile “motore dello sviluppo” (si veda in proposito il saggio di Walter Tocci).

Negativa a nostro parere (ma nel campo in cui Vaciago eccelle il nostro spessore è modestissimo) l’approssimazione con la quale l’illustre economista rappresenta il fenomeno della rendita fondiaria urbana e la superficialità che rivela (pur avendo avuto un’importante esperienza di amministratore locale) a proposito delle vicende dell’urbanistica italiana. Mentre sul primo aspetto (la rendita) rinviamo il lettore a scritti antichi e recenti pubblicati in questo sito, vogliamo spendere due parole sul secondo aspetto.

Vaciago coglie nel giusto quando afferma che «il legislatore in teoria ha sistemato tutto molti anni fa: le competenze in campo urbanistico sono ripartite tra Regioni, Province e Comuni, in una serie di rapporti tra organi eletti dai cittadini e quindi con il massimo del controllo democratico». Ma dimentica poi di dire che quella “sistemazione” (avvenuta grosso modo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso), e il “modello” che ne risultava, sono stati gradualmente distrutti con atti legislativi, amministrativi, politici e culturali che si sono succeduti con impressionante frequenza dagli anni Ottanta in poi, con uno scardinamento progressivo dei principi e dei metodi sottesi a quella “sistemazione” via via più veloce. Parole ed espressioni come “deroga”, “condono”, “emergenza”, “governabilità”, “urbanistica contrattata”, “perequazione”, “diritti edificatori” meriterebbero di essere approfondite nei loro significati e ruoli, sinistri per la città e il territorio.

Se il professor Vaciago approfondisse il suo ragionamento si accorgerebbe che le ricette che propone sono, più che modeste, inadeguate ai fini. Il materiale su cui ragionare più ampiamente, comprendere e proporre è molto, anche nel magazzino costituito da questo sito. (e.s)

Alcuni scritti sulla rendita urbana in eddyburg: La normalizzazione dei mercati delle aree e degli alloggi, di Siro Lombardini, L'insostenibile ascesa della rendita urbana, di Walter Tocci, Parole per ragionare sulla rendita urbana, di Edoardo Salzano

In conclusione del suo commento al no del governo alle Olimpiadi di Roma, Paolo Berdini, sul manifesto di ieri, ricorda opportunamente che - se tanto mi dà tanto - lo stesso criterio di prudenza finanziaria dovrebbe essere applicato a grandi opere come il Mose di Venezia o la Tav in Val di Susa (e a Firenze, ecc.). Eppure, due settimane fa il viceministro alle infrastrutture Ciaccia, già a capo della società di Banca Intesa che trafficava sulle infrastrutture, vice di Corrado Passera allora e oggi, ha firmato con il ministro dei trasporti francese, Thiérry Mariani, un accordo che darebbe definitivamente il via alla costruzione della Torino-Lione. Questo accordo, datato 30 gennaio, era rimasto più o meno segreto.

Come scrive il Movimento No Tav in un suo comunicato, ogni tentativo di vederlo (e i valsusini sono assai tenaci), era stato frustrato dal ministero: «Non sappiamo dove sia stato archiviato», era stata la risposta. Ma il diavolo fa le pentole e dimentica i coperchi, per cui i No Tav sono venuti in possesso del documento. «Si tratta - scrivono i valsusini - di un testo di 24 pagine e 28 articoliredatto allo scopo di convincere la Commissione europea che Italia e Francia sono d'accordo a realizzare la nuova linea ferroviaria Torino-Lione. Ricordiamo che tale accordo dovrà prima di tutto essere ratificato dai rispettivi parlamenti nazionali.

Secondo le aspettative dei due Stati membri, l'Europa dovrà sborsare il 40 per cento di un'opera che costerebbe 8,5 miliardi (ma per la Francia la stessa opera costerebbe 8,2 miliardi)». In sostanza, il governo italiano cerca di mettere le cose in modo tale che i 4,92 miliardi previsti dal lato italiano (ma come documenta Ivan Cicconi da anni i costi iniziali crescono poi in modo esponenziale) divengano 2,7 (secondo i francesi più di 3).

Ma il problema è che, dice sempre il testo dei No Tav, non solo i ritardi sono ormai enormi, il rapporto costi-benefici (cui Monti dovrebbe essere sensibile) lontanissimo dall'essere convincente, ma in più «il processo di co-decisione in corso a Bruxelles tra la Commissione europea e il Parlamento europeo per l'approvazione di un nuovo regolamento relativo ai finanziamenti a fondo perduto dei progetti Ten-T terminerà - se non vi saranno ritardi - non prima dell'inizio del 2013, per entrare in vigore nel 2014». L'accordo italo-francese al contrario annuncia «già alla fine dell'anno» l'apertura dei cantieri per il "mega-tunnel". Senza alcuna garanzia che l'Europa versi quel 40 per cento.

Con il no alle Olimpiadi di Roma siamo arrivati all'osso della questione. Negli ultimi decenni l'economia italiana è stata drogata con grandi opere, con "emergenze" alla Bertolaso e con grandi eventi con le Olimpiadi invernali di Torino. Il debito pubblico si spiega così: per la sola Tav sono stati spesi in un ventennio 100 mila miliardi di euro. Denaro pubblico e profitti privati. Ricavati con mezzi alla «shock economy», come dice Naomi Klein. Ma se Monti ammette che le Olimpiadi romane sono un costo eccessivo, perché non dovrebbe dire lo stesso per la Tav in Val di Susa? Come potrà continuare a sostenere che il problema sono le pensioni e l'articolo 18?

Stavolta Monti ha detto no, ma il Tav Torino-Lione segue la stessa logica

Mario Monti ha detto no alla candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020. Eppure i sostenitori della gloriosa e patriottica iniziativa avevano presentato conti da cui si deduce infallibilmente che l’operazione non sarebbe costata praticamente nulla alle nostre esangui casse pubbliche, così come è stato ampiamente dimostrato anche per l’Expo 2015 di Milano e, prima, per le Olimpiadi di Torino. Vediamo come sono organizzati questi luminosi conti sulla convenienza pubblica di questa faccenda (e delle altre citate, con approccio analogo). Tale convenienza è evidente dai numeri: 8,2 miliardi era la spesa pubblica necessaria, 3,5 miliardi i ricavi diretti previsti (biglietti e sponsorizzazioni, valorizzazioni immobiliari, ricavi dagli impianti in tempi successivi ecc.). Altri 4,6 miliardi i maggiori ricavi dell’Erario, dalle tasse generate da tutte le infinite attività economiche indotte dall’evento. Alla fine il costo pubblico netto sarebbe stato di soli 100 milioni di euro, quisquilie.

Peccato che i costi pubblici previsti siano certi (anzi, in generale i consuntivi tendono a essere molto più alti dei preventivi), e i ricavi assolutamente no. E il problema non è tanto che spesso arriva meno gente, o ci sono meno attività indotte, o gli impianti non servano più a nulla, e anzi generano alti costi di manutenzione o di demolizione, come a Torino. Il problema è che nessuno fa dei conti ex-post, cioè i risultati economici veri non si sanno mai. A chi interessa infatti fare i conti? L’evento è sempre e comunque dichiarato “un grande successo”; a quale dei soggetti promotori piacerebbe che emergesse che si è trattato di uno spreco di soldi pubblici?

Per stare sugli aspetti tecnici poi, si badi che qualsiasi spesa pubblica genera attività e ritorni fiscali indotti. Ma non è legittimo considerarli come dei “benefici”, se non confrontandoli con i risultati che si otterrebbero spandendo quei soldi pubblici diversamente (o lasciandoli nelle tasche dei contribuenti). I precedenti notoriamente catastrofici di questi grandi eventi sono però numerosi, e ben documentati: si è già detto degli impianti deserti di Torino (che apparentemente ha generato solo un piccolo passivo, ma al netto di 2 miliardi di soldi pubblici a fondo perduto). Anche le Olimpiadi di Vancouver sono andate male, come i Giochi del Commonwealth indiani, e le Olimpiadi di Londra presentano già adesso una crescita dei costi del 50%, che preoccupa molto gli inglesi. C’è poi il celebre caso di Atene: le spese pubbliche per le olimpiadi sono giudicate uno dei fattori del dissesto finanziario dello Stato greco (circa il 6% del Pil, e i costi finali sono stati il doppio di quelli previsti). Ma anche la Spagna (che ora ha qualche problema di buco di bilancio...) non ha scherzato: l’esposizione di Siviglia oggi è un deserto di rovine, e quella di Saragozza è stata un celebre flop: il sindaco intervistato in proposito, dichiarò candidamente: “Flop? Quale flop, sono arrivati un sacco di soldi pubblici alla città!”.

Sono invece andate molto bene le olimpiadi americane, di Los Angeles e di Atlanta, per le casse pubbliche: le hanno pagate quasi interamente i privati, ma lì non si fidano dei conti fantasiosi dei promotori, se non accompagnati da denaro sonante, e tanto. Certo, gli stadi erano brutti, a volte addirittura fatti coi “tubi Innocenti”. Mai e poi mai dal ricco Stato italiano (e ancor meno dai costruttori interessati) sarebbe accettata una simile volgarità, che dia-mine! In Italia di solito i grandi eventi di dubbia utilità sono un’ulteriore riprova dell’irrilevanza attribuita da molti politici al denaro pubblico. Così come le grandi opere: la governatrice del Piemonte, quando le chiesero alla radio, un paio di anni fa, se l’aumentato costo della linea Torino-Lione di due miliardi di euro la preoccupasse, rispose che la cosa non era assolutamente un problema. E purtroppo dal governo Monti finora non sono giunti segnali di volere fare con urgenza una spending review sulle grandi opere berlusconiane, basata su analisi costi-benefici comparative, come aveva fortemente raccomandato il Governatore uscente della Banca d’Italia Draghi presentando una ricerca sul tema fatta dalla banca solo l’anno scorso.

Non era mai capitato che un comitato promotore guidato nientemeno da Gianni Letta e formato tra gli altri da Cesare Geronzi, Giovanni Malagò, Emma Marcegaglia, John Elkann, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e Azzurra Caltagirone [e il BAC: Bersani-Alfano-Casini – n.d.r.], ricevesse un no così sonoro. Il presidente Monti ha negato il consenso all'avventura delle Olimpiadi romane del 2020. Ha fatto bene e godiamoci almeno per un giorno la rabbiosa ritirata dell'esercito dei cacciatori di appalti - rigorosamente bipartisan - che erano già pronti a mettere le mani sui 5 miliardi iniziali che sarebbero stati spesi in tante opere inutili.

Il governo non ha creduto ai paludati studi che parlavano di un aumento del Pil tra il 2013 e il 2025 di 17,7 miliardi, accompagnato da un aumento di occupazione stratosferico: 14.000 nuovi posti di lavoro a partire dal 2015 con un picco di 29.000 nel 2020. Balle. Ma il parterre del comitato promotore controlla molti giornali e come a Milano per l'Expo 2015 era iniziata la favola dell'Olimpiade sostenibile e verde, austera. Maestri nel camuffare il cemento e l'asfalto. Maestri nel camuffare la verità.

Solo tre esempi. Il bacino remiero era previsto a Settebagni, nelle aree in cui sorge il Salaria Sport Village di Anemone, Bertolaso e Balducci.

È un'opera sotto giudizio penale e avevano pensato di renderla eterna con altro denaro pubblico. Le gare di nuoto erano previste a Tor Vergata nell'edificio disegnato da Calatrava che doveva già ospitare i mondiali del nuoto del 2009. Anche qui, visto che erano stati già gettati al vento circa 400 milioni di euro si sfruttavano le Olimpiadi per spenderne altri 500. Il velodromo, infine, doveva essere costruito ex novo perché il gioiello costruito nel 1960 era stato fatto saltare con la dinamite proprio per permettere l'ennesima speculazione edilizia sponsorizzata dall'Ente Eur.

Il colpo assestato alla famelica banda dei cacciatori di soldi pubblici può significare una svolta nel modo di pensare il futuro delle nostre città, a iniziare da Roma. Basta con il mito dei grandi eventi e delle grandi opere. In tempi di crisi dobbiamo cambiare paradigma e pensare alle migliaia di opere piccole e intelligenti che possono migliorare la vita delle periferie urbane che lottano per avere trasporti moderni o scuole in sicurezza e senza amianto, aria pulita. La prospettiva di una vita migliore invece del pessimismo in cui ci ha cacciato l'economia liberista.

E dato che anche i professori di governo hanno per una volta sobriamente ingrossato le file oceaniche dei signornò, proponiamo un piccolo passo avanti. Per essere coerenti con il diniego alle Olimpiadi del 2020 devono ora cancellare il folle ampliamento dell'aeroporto di Fiumicino pensato proprio per l'evento Olimpico, 1.200 ettari di aree agricole cancellate per costruire altre piste, alberghi, ipermercati. E poi, alzando lo sguardo da Roma, blocchino per sempre l'inutile opera della val di Susa e il Mose di Venezia. Solo così il no alle Olimpiadi sarebbe coerente e aprirebbe una prospettiva nuova alle nostre città.

Nel momento in cui il governo mette mano alla riforma del lavoro – cioè all´atto politicamente più significativo del suo mandato emergenziale – i recenti lapsus comunicativi di alcuni suoi importanti esponenti sono preziosi non tanto per intentare processi alle intenzioni, quanto perché permettono di inquadrare la dimensione reale dei problemi in gioco.

In primo luogo, c´è un problema cognitivo: le élites sociali, economiche, intellettuali del Paese, oggi investite della diretta responsabilità di governo, conoscono l´Italia attraverso stereotipi (la colpa delle nostre condizioni è nel buonismo sociale) oppure attraverso le privilegiate esperienze di familiari e di amici (da cui apprendono che la mobilità è benefica, e che il lavoro gratificante si trova a Washington o a Wall Street o nella Silicon Valley, e non a casa di papà e mamma dove lo cercano, senza trovarlo, i giovani e illusi fannulloni). Questo cortocircuito è il segno che le élites oggi sono distanti dalla massa dei cittadini; la contrazione del ceto medio – già ampia e articolata riserva di energie culturali, sociali e anche politiche – lascia il campo a una società frammentata fra le élites sempre meno numerose, e sempre più separate, e i cittadini "normali", sempre più anonimi, passivi, incompresi. Non è questione di buona volontà o di sensibilità individuale. È una nuova struttura della società ciò che si profila dietro quelle parole.

Da qui un ulteriore problema politico. Le élites hanno sempre maggiore difficoltà a dirigere un Paese attraverso un´egemonia di tipo tradizionale: cioè attraverso un discorso che sia, com´è inevitabile, di parte, ma che al tempo stesso sappia aprire un orizzonte in cui c´è spazio per tutti, e non solo per pochi privilegiati. Ciò non significa che il governo non farà nulla per modificare il contesto in cui il lavoro manca per giovani e meno giovani, e, quando c´è, è sempre più spesso precario, sottopagato, non in linea con gli studi effettuati, e poco tutelato; significa però che oggi le élites muovono, per default, da una posizione, da una ideologia, che vede gli imperativi sistemici dell´economia non solo come privi di alternative ma anche scarsamente governabili. Significa che sostituiscono l´oggettività alla persuasione e al consenso – la tecnica alla politica, si direbbe, se non fosse politico anche l´agire che si presenta come tecnico –.

Le élites hanno in mente un futuro poco condiviso da chi lo deve vivere, cioè soprattutto dai giovani (che del futuro sono i naturali abitatori). E lo propongono senza farsene troppi problemi, senza sforzarsi neppure di nascondere il fastidio per la riluttanza dei diretti interessati davanti all´immagine, presentata come gratificante, di un lavoro perennemente mobile – cioè, in realtà, perennemente mancante –. Tanto che li trattano con qualche durezza, con qualche impazienza, poiché li vedono collocati prevalentemente nel "passato". Ma in realtà quei giovani, e anche i meno giovani, hanno i piedi ben piantati nel presente; e conoscono già, da qualche decennio, la realtà del lavoro che scarseggia; ma la vivono come una perdita, come un vulnus, rispetto sia alle aspettative individuali (tutte illusorie?) Sia allo stesso impianto categoriale e valoriale della Costituzione.

E questo è un ulteriore problema politico. Come conciliare la previsione programmatica e valoriale di una repubblica democratica fondata sul lavoro – ovvero l´idea di una civile convivenza che al lavoro affida la funzione di socializzazione, di promozione della persona umana, e che ne fa lo strumento privilegiato perché il cittadino determini in autonomia il proprio avvenire –, con la realtà di segno opposto del recente passato, del presente e anche dell´avvenire? Questo è un problema che deve interpellare chiunque faccia politica (a qualunque titolo), e spingerlo a interpretare con buon senso e con radicalità (cioè senza ideologie e senza superficialità) l´esperienza presente, ma anche a ricondurla nell´alveo, della nostra Costituzione, della nostra democrazia.

L´ultimo, e più grave, problema politico a cui rimandano le difficoltà comunicative del governo è infatti la crisi del capitalismo (o almeno della interpretazione che ne dà la dominante cultura neoliberista). È una crisi che ha almeno due volti: dal punto di vista istituzionale, implica un conflitto tra finanza e democrazie indebitate che apre contraddizioni laceranti fra i politici (sia i "tecnici" al governo, sia i partiti in Parlamento) che si devono fare carico di misure decise fuori dagli spazi della sovranità democratica, e i cittadini che le subiscono. Da un punto di vista materiale, poi, il capitalismo sta perdendo la sua capacità di realizzare crescita attraverso il lavoro sociale, che è stata la sua giustificazione storica, la sua legittimazione democratica. Se è vero che è più facile, oggi, creare ricchezza che creare lavoro, e che il lavoro sarà sempre più spesso scarso, dequalificato e sottopagato, che ne è del significato progressivo del capitalismo, della sua promessa di futuro?

Almeno alla questione del lavoro – della sua difesa, della sua centralità politica, del suo sviluppo – anche un governo "tecnico" non può non impegnarsi a dare risposte all´altezza della questione democratica che vi è implicita. Una risposta linguisticamente, concettualmente, operativamente, adeguata alla fiducia non solo tecnica che riscuote dentro e fuori d´Italia.

Sembrano passati cinquant´anni e invece ne sono passati solo cinque, da quando i capi d´Europa, riuniti a Berlino per commemorare i Trattati di Roma, firmarono una dichiarazione in cui è scritto che «noi, cittadini dell´Unione siamo, per la nostra felicità, uniti». E ancora: «L´unificazione europea ci ha permesso di raggiungere pace e benessere... È stata fondamento di condivisione e superamento di contrasti... Aspiriamo al benessere e alla sicurezza, alla tolleranza e alla partecipazione, alla giustizia e alla solidarietà... L´Unione si fonda sulla parità, sull´unione solidale... sul giusto equilibrio di interessi tra Stati membri».

Era bello, pensare positivo e non prevedere nulla. È la stoffa di cui è fatta la crisi odierna. Ben altro campeggia davanti ai nostri occhi, con Atene che s´incendia e precipita nella punizione dell´impoverimento: non la felicità ma il sospetto reciproco, il bruto squilibrio d´interessi, l´intolleranza che dilaga in Italia, Ungheria, Danimarca, Olanda. E in Grecia non la pace ma la guerra civile, che non turba l´Europa ma è pur sempre ritorno della guerra, dei suoi vocabolari minatori. Nel difendere un´ennesima contrazione dei redditi, il premier Papademos ha brandito l´arma della paura, non della speranza: «Una bancarotta disordinata provocherebbe caos e esplosioni sociali. Lo Stato sarebbe incapace di pagare salari, pensioni, ospedali, scuole. L´importazione di beni basilari come medicine, petrolio, macchinari sarebbe problematica». Parafrasando Joyce: ecco Europa, un incubo dal quale non sappiamo svegliarci.

Potrebbero andare in altro modo le cose, se i responsabili europei riconoscessero che il male non è l´inadempienza ellenica. Se capissero, come scrive l´economista greco Yanis Varoufakis, che malata è l´eurozona, con o senza Atene. Certo Atene è stata «un paziente recalcitrante»: ma è stata usata per velare il vizio d´origine, che è il modo in cui l´eurozona «ha aggravato gli squilibri, non ha assorbito il collasso finanziario del 2008».

In Grecia e altrove la Germania è descritta come cerbero, istupidito dai propri trionfi: quasi avesse dimenticato la disastrosa politica di riparazione che le inflissero i vincitori dopo il ´14-18. La sofferenza sociale dei tedeschi fu tale, che s´aggrapparono a Hitler. C´è del vero in quest´analisi – difesa nel ´19 da Keynes – ma le menti tedesche sono più complesse e incorporano anche il ricordo del ´45. Il ´45 seppellì l´era delle punizioni e aprì quella della fiducia, della cooperazione, creando Bretton Woods e l´Europa unita.

Angela Merkel deve essersi accorta che qualcosa sta andando molto storto se il 7 febbraio, in un incontro con gli studenti, ha confessato, in sostanza, che senza rifare l´Europa via d´uscita non c´è e il tesoro di fiducia svanisce. Non ha menzionato gli Stati uniti d´Europa, ma il suo progetto ha gli elementi tutti di una Federazione. L´Unione – ha detto – deve cambiar pelle. Gli Stati per primi dovranno farlo, e decidersi a un abbandono ben più vasto di sovranità: anche se per ciascuno, Berlino compresa, la scelta è «molto difficile». Così come difficili, ma non più rinviabili, sono l´abolizione del diritto di veto e l´estensione del voto a maggioranza. La Commissione di Bruxelles dovrà trasformarsi in autentico governo, con i nuovi poteri delegati, e «rispondere a un forte Parlamento europeo».

Ridimensionato, il Consiglio dei ministri sarebbe «una seconda Camera legislativa» – simile al Senato americano – e massima autorità diverrebbe la Corte di giustizia: «Vivremo meglio insieme se saremo pronti a trasferire le nostre competenze, per gradi, all´Europa». Che altro si prospetta, se non quegli Stati Uniti che Monti aveva escluso, nell´intervista alla Welt dell´11 gennaio? E come parlare di una Germania despota d´Europa, se vuol abbandonare le prevaricazioni del liberum veto?

Non solo. Senza esplicitamente nominarlo, il Cancelliere ha ricordato che Kohl vide subito i pericoli di una moneta senza Stato: «Oggi tocca creare l´unione politica che non fu fatta quando venne introdotto l´euro», senza curarsi delle «molte dispute» che torneranno a galla. Ci sono dispute più istruttive delle favole sulla felicità, perché non menzognere. Kohl, allora, chiese l´unione politica e la difesa comune: Mitterrand rispose no.

Può darsi che la Merkel parli al vento, un po´ per volubilità un po´ perché tutti tacciono. Comunque l´ostacolo oggi non è Berlino. Come ai tempi di Maastricht, chi blocca è la Francia, di destra e sinistra. È accaduto tante volte: nel ´54 per la Comunità di difesa, nel 2005 per la Costituzione Ue. Tanto più essenziale sarà l´appoggio di Monti a questo timido, ma cocciuto ritorno del federalismo tedesco.

Creare un´Europa davvero sovranazionale non è un diversivo istituzionale. Già Monnet diceva che le istituzioni, più durevoli dei governi, sono indispensabili all´azione. Oggi lo sono più che mai, perché solo prevalendo sui veti nazionali l´Europa potrà fare quel che Berlino ancora respinge: affiancare alla cultura della stabilità, che pure è prezioso insegnamento tedesco, una sorta di piano Marshall intra-europeo, incentrato sulla crescita. Il patimento greco lo esige.

Ma lo esige ciascuno di noi, assieme ai greci. La loro sciagura infatti non è solo l´indisciplina: è un accanimento terapeutico che diventa unica strategia europea, indifferente all´ira e alle speranze dei popoli. I dati ellenici, terribili, sono così riassunti da Philomila Tsoukala, di origine greca, professore a Washington: l´aggiustamento fiscale è già avvenuto (6 punti di Pil in meno di un anno, in piena recessione). Salari e pensioni sono già ai minimi, e le entrate aumentano ma colpendo i salariati, non gli evasori. Centinaia di migliaia di piccole imprese sono naufragate, la disoccupazione giovanile è salita al 48%, una persona su tre è a rischio di povertà. I senzatetto sono 20.000 nel centro di Atene. «La pauperizzazione delle classi medie è tale, che aumenta il numero di chi non teme più il default, non avendo nulla da perdere». A ciò si aggiungano losche pressioni esercitate ultimamente su Atene, perché in cambio di aiuto comprasse armi tedesche e francesi. È vero, la sovranità è oggi fittizia. Ma non può risolversi nel ricatto dei forti, e nell´umiliazione dei declassati.

È il motivo per cui l´Europa deve farsi, con istituzioni rinnovate, promotrice di crescita. E ai cittadini va detta la verità: se siamo immersi in una guerra del debito (in Europa, Usa, Giappone) è perché i paesi in ascesa (Asia, America Latina) non sopportano più un Occidente che domina il mondo indebitandosi. Alla loro sfida urge rispondere con conti in ordine, ma anche con uno sviluppo diverso, senza il quale la concorrenza asiatica ci schiaccerà. È lo sviluppo cui pensava Jacques Delors, con il suo Piano del ´93. Napolitano l´ha riproposto, venerdì a Helsinki: «Abbiamo bisogno di decisioni e iniziative comuni per la produttività e la competitività».

L´Europa può farlo, se oltre agli eurobond introdurrà una tassa sull´energia che emette biossido di carbonio (carbon tax), una tassa sulle transazioni finanziarie, un´Iva europea: purché i proventi vadano all´Unione, non agli Stati. È stato calcolato che i nuovi investimenti comuni – in energie alternative, ricerca, educazione, trasporti – genererebbero milioni di occupati e risparmi formidabili di spesa.

Divenire Stati Uniti d´Europa significa non copiare l´America, ma imparare da essa. Lo ricorda l´economista Marco Leonardi sul sito La Voce: subito dopo la guerre di indipendenza, e prima di avere una sola Banca centrale e un´unica moneta, il ministro del Tesoro Alexander Hamilton prese la decisione cruciale: l´assunzione dei debiti dei singoli stati da parte del governo nazionale.

Di un Hamilton ha bisogno l´Europa, che sommi più persone spavalde. Il loro contributo può essere grande e l´impresa vale la pena: perché solo nella pena riconosciamo l´inconsistenza, i costi, la catastrofe delle finte sovranità nazionali.

Nessuno restituirà la vita alle migliaia di persone uccise dall'amianto, operai e cittadini colpevoli solo di aver lavorato nelle fabbriche della morte, oppure di aver lavato le tute impregnate di veleno dei loro compagni, o di aver respirato in casa o al bar quelle maledette fibre. Una strage, a Casale Monferrato e nelle città di tutto il mondo in cui il miliardario svizzero Schmidheiny e il barone belga de Cartier hanno ucciso e intossicato in nome di un profitto che sapevano fondarsi sul sangue di tanta povera gente. Nessuno restituirà il sorriso a chi ha perso il marito o il figlio, o l'uno e l'altro, in base al principio criminale per cui la salute e la vita di chi lavora sono variabili dipendenti del plusvalore, architrave dell'impresa capitalistica.

Eppure, la sentenza di condanna a 16 anni per disastro doloso e omissione dolosa di misure antinfortunistiche emessa ieri dal tribunale di Torino, ha un grandissimo merito: restituisce a intere comunità vittime dell'amianto il rispetto che meritano e, insieme, la fiducia se non in un futuro ormai intimamente compromesso, almeno nella giustizia. Questa volta gli assassini non l'hanno fatta franca, uccidevano sapendo di uccidere e per questo sono stati condannati. Le lacrime di commozione di chi per anni ha lottato per avere non quel che aveva perso - e nessuna sentenza potrà restituirgli - ma verità e giustizia, mostrano la riappropriazione da parte di migliaia di persone del diritto a vivere ed elaborare il lutto più grande, sapendo però che la loro battaglia civile non è stata inutile. Il Comitato familiari delle vittime dell'amianto ne aveva appena vinta un'altra di battaglia, costringendo il sindaco e l'amministrazione comunale di Casale a tornare sulla sua decisione intollerabile di accettare i soldi del carnefice, mister Eternit, il magnate Schmidheiny, a condizione di rinunciare alla costituzione di parte civile. Uno schiaffo che la comunità delle vittime non poteva accettare. Quel sindaco di destra, oltre che cinico e disumano, neanche sapeva fare i conti, dato che la giustizia ha deciso un risarcimento al comune superiore a quello «offerto» dal miliardario in cambio dell'uscita di scena.

Chissà se qualche mascalzone verrà a spiegarci che sentenze come queste allontanano gli investimenti stranieri in Italia. Chissà se Schmidheiny interverrà a qualche congresso di Confindustria per protestare contro la sentenza, come avevano fatto i suoi colleghi della ThyssenKrupp. CONTINUA|PAGINA3 DALLA PRIMA

Sarebbe bello, al contrario, se la condanna di Torino istillasse almeno un dubbio nella testa di chi, in fabbrica come in Parlamento, a palazzo Chigi come nelle redazioni dei grandi giornali, cavalcando la crisi si batte per cancellare diritti e dignità di chi lavora. La cui sicurezza, oggi, viene in secon'ordine rispetto al profitto. La sentenza interroga chi in nome della crisi sta cancellando il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, le norme sulla sicurezza. Sono quelli per cui i profitti vengono prima dell'ambiente.

Della conclusione del processo di Torino dobbiamo ringraziare una magistratura che ha avuto il coraggio di formulare una sentenza che farà giurisprudenza in tutto il mondo. Dobbiamo ringraziare per primo il pm Raffaele Guariniello che ha istruito il processo, un uomo giusto, tenace, puntiglioso. Non un eroe, gli eroi non servono. Un magistrato.

Elettori trascurati pensando soltanto agli equilibri interni

di Marco Imarisio

Genova è un caso di scuola. Come farsi male da soli, da predestinati alla sofferenza, e riuscirci benissimo. Missione compiuta. Naturalmente è del Partito democratico che stiamo parlando, ancora una volta colpito e affondato dall'esito delle «sue» primarie. Senza mai fare tesoro delle legnate subite in precedenza, lezioni che sarebbero state facilmente comprensibili per chiunque. Se le vicende di Cagliari e soprattutto Milano hanno le loro peculiarità, la disfatta ligure, con i suoi profili netti, autorizza qualche domanda sulla capacità del maggiore partito di centrosinistra di capire le realtà che amministra, compresi i desideri e le frustrazioni dei propri potenziali elettori, determinati a non seguire incomprensibili equilibrismi sempre anteposti alla necessità.

E alla propria convenienza. Eppure, fin dall'inizio, i segnali c'erano tutti. Quali sentimenti, se non noia e irritazione, potrà mai evocare nel cittadino una sfida all'arma bianca tra due contendenti che rappresentano al meglio le due anime presenti nel corpo di un solo partito, per altro lanciata con un anno e mezzo di anticipo sulla data delle amministrative? Quella rivalità interna era garanzia di un insuccesso annunciato, ma nessuno ha potuto o voluto fermare il treno lanciato a pieno velocità contro il muro.

L'ormai sindaco uscente Marta Vincenzi è diretta discendente della tradizione Pci e poi Ds, in tutto e per tutto esponente della tendenza socialdemocratica del Pd. Roberta Pinotti, che non merita di diventare un capro espiatorio, si è prestata in buona fede a recitare da candidata di un altro pezzo del suo partito, da lei ben rappresentato. È una boy scout, cattolica osservante, lanciata allo sbaraglio nella città più laica d'Italia. A farla breve, una ex esponente della Margherita che nella corsa alla segreteria si era spesa per sostenere Dario Franceschini. Le primarie fratricide di Genova sono nate dalla decisione pilatesca dei vertici nazionali, che hanno così scelto di non scegliere, rimettendo agli elettori ogni scelta sulle risse del Pd locale. Ma se due galli continuano a beccarsi nel pollaio, spetta al padrone della fattoria scegliere il capo del proprio allevamento.

A Genova, e altrove, questo non è mai avvenuto. Il Pd si è ben guardato dall'esprimere un giudizio sul suo sindaco, se aveva fatto bene o male, se meritava la riconferma. E sempre nel nome degli equilibri interni, Roberta Pinotti ha corso con una mano legata dietro alla schiena, costretta dalla ragion di partito a urlare ai quattro venti di non volere alcuna discontinuità con la sua «amica», come no, Marta Vincenzi. Domenica sera un dirigente locale del Pd, padre di bimbi piccoli, paragonava il suo partito a Buzz, il giocattolo astronauta del film Toy Story, potenzialmente fortissimo ma sempre frenato dalla sua monolitica incapacità di capire la situazione che ha di fronte. In questo caso Genova, città in crisi, dove l'insoddisfazione si taglia a fette, e la richiesta di una vera discontinuità che veniva dalla società civile era visibile come la lanterna all'orizzonte.

Il professor Marco Doria ha raccolto queste esigenze di cambiamento, e ha stravinto anche nei quartieri roccaforte del Pd. Corre da indipendente, non è portatore di alcuna rivoluzione, arancione o di qualunque colore essa sia. Ha fatto poche promesse, molte meno di quelle spese dalle sue rivali. Non si sogna neppure di abbassare le tasse, si limita a giurare che non taglierà mai i servizi essenziali. Ha semplicemente ascoltato i suoi cittadini, rivolgendosi a loro libero da lacci e lacciuoli, da alambicchi che cercano di mantenere un delicato equilibrio nazionale, magari tutelando future alleanze. Era proprio questo che chiedeva Genova. La soluzione era semplice, sotto agli occhi di tutti. Invece, il Pd ha fatto finta di non vedere, ancora una volta. E ha perso, come spesso succede al prode astronauta Buzz. Avanti così, verso l'infinito e oltre.

Ma sul sostegno all'uomo di Vendola il partito è già diviso

di Maria Teresa Meli

ROMA — Era inevitabile: la crisi della politica non poteva lasciare indenne il solo Pd. E le primarie di Genova sono lì a testimoniarlo. Per dirla con il senatore Stefano Ceccanti, «basta che si presenti un outsider, qualcuno che non appare come espressione di partiti o di correnti, e vince». Era già successo, d'altra parte. A Milano e a Napoli. Perché la crisi ha raggiunto ora il suo picco massimo, ma data a ben prima. Pier Luigi Bersani preferisce minimizzare ufficialmente, ma che il Pd abbia qualche problema è innegabile. Walter Veltroni e i suoi ne hanno ragionato a lungo ieri. Questo il succo delle riflessioni dell'ex segretario: non è una vittoria della sinistra, perché Sel non cresce mai più di tanto, quel che sta accadendo è ancora più pericoloso, c'è una rivolta dal basso del nostro elettorato che ci vede come una casta, un partito d'apparato.

Parole amare, quelle di Veltroni, che riecheggiano nei tanti discorsi dei parlamentari del Pd. «L'attuale classe dirigente — osserva Salvatore Vassallo — non è in grado di corrispondere alle esigenze dei nostri elettori che chiedono di essere rappresentati da gente credibile». «Paghiamo la mancanza di coraggio e di innovazione, siamo visti come qualcosa di vecchio e di conservatore», spiega il senatore Roberto Della Seta. «Le primarie di Genova fotografano il distacco dei cittadini dalla politica», ammette la vicecapogruppo alla Camera Marina Sereni.

E ora? Ora Bersani non si dà per vinto, sostiene di essere «orgoglioso» del suo partito e medita di cambiare le regole delle primarie: «Del resto — spiega il segretario ad alcuni compagni di partito — avremmo dovuto occuparci proprio di questo nella conferenza organizzativa che abbiamo rinviato. Non possiamo scontrarci tra di noi. Dobbiamo selezionare il candidato del Pd con una consultazione interna e poi andare alle primarie del centrosinistra con un solo nome». Altrimenti, avverte il deputato Dario Ginefra, «rischiamo il suicidio».

Ma tra gli stessi bersaniani serpeggia il dubbio che non sia «solo una questione di regole», che ci sia qualcosa da registrare nel partito. Tra l'altro il risultato di Genova sta creando anche altri problemi. L'ex ppi Beppe Fioroni parla senza peli sulla lingua: «Come possiamo appoggiare Doria, che è uno che ha fatto tutta la campagna elettorale per le primarie contro Monti e il suo governo? Non possiamo comportarci come degli schizofrenici, che a livello nazionale facciamo una cosa e nelle realtà locali il suo opposto». Fioroni dà voce ai dubbi degli ex popolari, che si sono raddoppiati dopo la decisione dell'Udc di non sostenere il candidato del centrosinistra. Si profila un accordo tra centristi e Pdl che potrebbe far perdere al Pd Genova.

Enrico Letta prova a vestire i panni del pompiere e a circoscrivere il significato di quello che è successo. Secondo il vicesegretario la sconfitta dipende da due elementi: dalla divisione che ha portato a due candidature e dal fatto di non essersi concentrati sui bisogni della città di Genova. Però nel partito sono in molti a pensarla come Sergio Cofferati: «Quello delle primarie è stato un voto contro il Pd». E ora c'è chi teme che per recuperare consensi il gruppo dirigente si butti all'inseguimento di Vendola e Di Pietro, tirando fuori dal cassetto la foto di Vasto. In realtà Bersani è sempre rimasto in buoni rapporti con il leader di Sel e, anche nei momenti di maggior tensione, ha mantenuto i contatti con il leader dell'Idv. In vista delle elezioni, e non solo. Il segretario del Pd ha cercato un'intesa pure sulle primarie che verranno (se mai verranno) perché punta ancora a presentarsi come candidato premier.

Ma ormai in politica è pressoché impossibile fare piani a lungo termine. Come prova quel che è accaduto a Palermo. Lì Bersani, per evitare che le primarie finissero con una sconfitta del suo partito, ha candidato Rita Borsellino, con l'appoggio di Nichi Vendola e Antonio Di Pietro. La maggioranza del Pd locale, legata a filo doppio con il governatore Raffaele Lombardo, ha sconfessato questa scelta e ieri ha sfiduciato il segretario regionale Lupo, reo di seguire le indicazioni di Roma.

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