Finalmente Monna Lisa arriva a Firenze. È questo, infatti, il nome dell´enorme fresa d´acciaio che scaverà sotto la città per realizzare sei chilometri di passante Tav e una nuova stazione ferroviaria. Lo dice il sito di Coopsette, il raggruppamento di imprese che si è aggiudicato l´appalto: l´arrivo della fresa in cantiere è previsto per ottobre. La "talpa" avanzerà di 15 metri al giorno alla profondità di 25 metri, insinuandosi tra l´altro sotto la Fortezza da Basso di Antonio da Sangallo.
Arrivando invece del quadro di Leonardo vanamente reclamato da incauti assessori, questa Monna Lisa meno sorridente e più ingombrante farà egualmente felici Provincia, Comune e Regione, che il 3 agosto hanno firmato a Roma, con le Ferrovie e il ministro Matteoli, l´accordo per il via ai lavori. Il progetto della stazione è di Norman Foster, ma il suo prestigio non basta a garantire la bontà dell´operazione, visto che a lui si deve anche il progetto del quartiere di Santa Giulia a Milano, i cui cantieri sono stati sequestrati perché posti sopra un gigantesco deposito illegale di scorie cancerogene provenienti da stabilimenti dismessi (viene in mente l´amara riflessione di Giancarlo De Carlo sul «fenomeno della copertura professionale» di grandi architetti in occasione di operazioni speculative).
A Coopsette si devono anche i lavori della stazione Tav di Roma-Tiburtina, che verrà inaugurata in ritardo dopo il devastante incendio di cantiere del 24 luglio. Fra le partecipate di Coopsette c´è Milano Logistica Spa, partecipata al 50% da Argo, società del gruppo Gavio, uno degli azionisti principali (con Ligresti e Benetton) di Impregilo. L´ad di Impregilo è stato appena assolto in appello dalle gravissime accuse di disastro ambientale sulla tratta Bologna-Firenze (dove l´impresa partecipava al 75%): nel 2009 il tribunale di Firenze lo condannò, con altri 26 imputati, per aver inquinato con sostanze tossiche 24 corsi d´acqua e prosciugato 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi e 5 acquedotti. Anche sul tunnel di Firenze pesano gravi dubbi, come risulta da un esposto di Italia Nostra. Il Genio Civile di Firenze ha contestato il 19 luglio l´adeguatezza delle indagini sul rischio sismico, che «non sembrano possedere i requisiti richiesti dalle Nct 2008», cioè dalla normativa antisismica in vigore. Inoltre, prosegue Italia Nostra, i materiali risultanti dallo scavo (tre milioni di metri cubi) sono destinati alla miniera abbandonata di Santa Barbara in comune di Cavriglia (Arezzo), che però non è una discarica autorizzata. Per di più, i due terzi del materiale sono "rifiuti di perforazione", classificati col codice Arpat 010599, che non esclude la presenza di sostanze inquinanti o tossiche, che metterebbero a rischio in particolare il lago di Castelnuovo, adiacente alla miniera di Cavriglia.
Di rifiuti, Impregilo se ne intende. Oltre a cospicue opere pubbliche, fra cui il Ponte sullo Stretto, questa impresa ha infatti la concessione in toto della gestione dei rifiuti in Campania, coi metodi e i risultati a tutti noti e ben esposti nel libro Ecoballe (2008) di Paolo Rabitti, perito della Procura di Napoli, e ora anche da Antonio Polichetti, nell´ottimo Quo vadis, Italia? (La scuola di Pitagora, Napoli 2011); per non dire del "sistema Commissariato-Impregilo-Camorra" bollato da Adriano Sofri in questo giornale (28 giugno). Rischio sismico malcalcolato e dubbia gestione dei rifiuti dovrebbero essere ragioni sufficienti per qualche prudenza sul "passante fiorentino" e sulla stazione di Foster: ma questa non è la stagione della prudenza e delle attese. Al contrario, la tempesta dei mercati e le incapacità del governo concorrono a creare un´aria di crollo imminente che non solo mette fretta alle istituzioni, ma incrementa il peggior cinismo speculativo, e non solo in borsa ma nei territori. Qualche esempio, come in un bollettino di guerra che vede ogni giorno nuove devastazioni del paesaggio, nuovi crimini contro l´ambiente in nome del profitto d´impresa. Con un blitz estivo, la giunta leghista di Treviso ha raddoppiato il territorio agricolo cementificabile, portandolo a 338 mila metri quadrati: mossa irresponsabile in una città in cui il 40% del costruito negli ultimi anni risulta invenduto. A Milano continuano indisturbati gli scavi per un parcheggio sotto la basilica di Sant´Ambrogio, dato che (pare) il Comune teme di dover pagare una qualche penale alle ditte interessate: ma oltre ai soldi, ci sono anche moralità, dignità, decenza. Più alto di qualsiasi penale (ammesso che una ve ne sia) è il prezzo che Milano pagherebbe danneggiando uno dei massimi santuari della cristianità e l´immagine della città. Nel mirabile sito archeologico di Sepino in Molise si vuol collocare un vasto parco eolico calpestando il vincolo paesaggistico e il provvedimento cautelare del tribunale di Campobasso; singolarmente anzi, in presenza di un´azione penale, il Consiglio di Stato sembra voler dare una mano all´impresa contro la Soprintendenza. A Cecina in Toscana, su una costa già funestata da cementificazioni, si minaccia di cancellare dune e pinete per aggiungere un nuovo "porto turistico" a quelli che sorgono, semivuoti, a pochi chilometri di distanza. Dalle Alpi alla Sicilia, tutto è ridotto a terreno di caccia per i professionisti della razzia, mentre le pubbliche istituzioni che dovrebbero tutelare il bene comune e l´interesse della collettività somigliano sempre più spesso a comitati d´affari, intenti ad aggirare le leggi per favorire chi divora il paesaggio.
In questa corsa al saccheggio, il confine fra le parti politiche si attenua talvolta fino a sparire. Il pessimo "piano casa" della regione Lazio, approvato in questi giorni con la complicità di frange di "sinistra", è stato subito accusato dal ministro Galan di palese incostituzionalità (illecito condono edilizio, raddoppio della cubatura nelle aree vincolate, sgangherate deroghe alla pianificazione paesaggistica): possiamo sperare che dai Beni culturali arriveranno sanzioni altrettanto severe agli altri "piani casa" regionali, dal Veneto alla Sardegna? Sarebbe una degna risposta alla proposta di Confculture di chiudere il ministero, passando i Beni Culturali fra le competenze del ministero dello Sviluppo (V. Emiliani, L´Unità, 11 luglio), cioè monetizzando patrimonio culturale e paesaggio in dispregio non solo di ogni competenza specifica, ma della Costituzione.
L´assalto alla diligenza a cui stiamo assistendo è senza precedenti, anche se insiste nell´abusata retorica degli ultimi trent´anni: i "giacimenti culturali", l´espansione edilizia senza regole e senza fine come cura della crisi. Eppure dovremmo esserci accorti che perseguire (a destra come a "sinistra") questo modello ha contribuito a portarci nel vicolo cieco in cui siamo. Secondo la Cnn (5 agosto) «l´economia italiana cresce allo 0,3% annuo, e così sarà nei prossimi anni: un tasso fra i più bassi al mondo, che si unisce all´enorme debito pubblico, fra i più alti al mondo. Perciò l´economia italiana non è in grado di generare risorse sufficienti a ripianare il debito». A questo siamo giunti inseguendo l´idea perdente dell´edilizia come motore primario dell´economia, incoraggiandola con un´ondata di piani-casa, col "silenzio-assenso", con condoni e sanatorie in materia urbanistica, paesaggistica e ambientale. Sarebbe tempo di capire che ogni degno progetto per l´Italia dovrà far perno sul rigoroso rispetto della nostra massima risorsa, patrimonio e paesaggio, per investire sul futuro anziché cannibalizzare il presente.
Ecco l'immagine della fresa Monnalisa, il tarlo che minerà le fondamenta di Firenze, nota nel passato come "città d'arte":
Qualche anno fa Romano Prodi si è felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta. Se avessimo cominciato dalla politica – è stato il suo argomento – non ci saremmo arrivati mai data la storica rissosità dei singoli stati. Mi domando se lo ripeterebbe oggi. È vero che la moneta unica, l’euro, c’è ed è diventata la seconda moneta internazionale del mondo, ma lui medesimo, che aveva a lungo diretto la Commissione, Jacques Delors, che l’aveva preceduto – nonché Felipe Gonzales, presidente all’epoca del governo spagnolo ed altri minori responsabili di quegli anni – hanno scritto sabato su Le Monde un preoccupato testo sul suo destino. Quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono indebitati fino agli occhi e sono entrati in una zona di turbolenza pericolosa per tutto il continente. Soprattutto i padri dell’euro riconoscono che “certe misure” che si sarebbero dovute prendere a suo tempo, “come un coordinamento delle politiche economiche”, non sono state prese e “si stanno elaborando oggi" e “nel dolore”. Di furia, perché siamo alle strette. Se ho capito bene, si tratta di alleggerire il debito greco con l’emissione di Eurobonds che se ne assumono una parte a lunga scadenza (e senza specularci sopra come hanno fatto le banche tedesche e francesi) e poi andare a un programma economico di tutti i paesi europei che cessi di lasciare ciascuno a cavarsela da sé. E non getti sui cittadini greci tutto il “dolore” e il peso del rientro del debito e della ricostruzione di una economia. Paghino una parte del conto “i grossi investitori istituzionali”, cioè le banche estere hanno investito a rischio, e il rischio è il loro mestiere.
Parole prudenti, ma sufficienti, penso, a non trovare l’accordo dei paesi che si riuniranno giovedì 21 a Bruxelles – per cui la Germania sarebbe stata incline a prendere più tempo. Un suo illustre economista sostiene, una pagina più in là, che bisogna invece mettere la Grecia temporaneamente fuori dall’euro a spicciarsela con le sue dracme, una loro energica svalutazione e senza l’aiuto degli Eurobonds. È la linea liberista. Che si incrocia, in tutt’altra prospettiva, con quella di Amartya Sen, di alcuni economisti e sociologi francesi come Jacques Sapir e Emmanuel Todd e di politici di sinistra come Mélenchon e una parte dell’amletico Partito socialista, e dell’estrema destra di Marine Le Pen – via dall’euro e per sempre.
Non so – non trovando traccia delle procedure di abbandono dell’euro nelle varie bozze di trattati – se sia fattibile né ho capito in che cosa migliorerebbe le condizioni della Grecia un ripescaggio della dracma; la poderosa svalutazione si accompagnerebbe, certo, a una maggiore possibilità di esportare i suoi prodotti (ammesso che ne abbia di appetibili oltre il turismo) ma anche a un aumento, di proporzioni pari, del debito con le banche tedesche. O sbaglio?
Sta di fatto che alla vigilia del ventesimo compleanno della moneta europea, il giudizio su che fare è una cacofonia. Non a caso l’appello di cui sopra chiama prima di tutto ad avere “una visione chiara” e condivisa dello stato dell’Europa. Sarebbe stato utile arrivarci prima e non con il coltello alla gola. Oltre alla Grecia infatti, Portogallo, Spagna e Italia hanno accumulato un indebitamento pubblico mostruoso e vacillano sotto l’occhio spietato e non disinteressato delle agenzie di rating. Per il patto di stabilità non si dovrebbe superare il 60 per cento del Pil mentre noi, per esempio, siamo al 120. Ma la nostra economia appare in stato ben migliore di quella greca e, cosa che conta, il nostro indebitamento è soprattutto all’interno, non ci sono banche tedesche che ci ringhiano addosso.
Per cui anche se Moody ci abbassa la pagella, la Commissione si limita a ordinarci cure da cavallo, tipo la manovra votata a velocità supersonica qualche giorno fa, per “rientrare”. La cui filosofia è uguale per tutti: tagli alla spesa pubblica (scuole ospedali e amministrazioni locali in testa), vendita di tutto il vendibile (perché la Grecia non cederebbe il Partenone a Las Vegas?), privatizzare il privatizzabile, cancellazione dello stesso concetto di “bene pubblico”. Il governo greco, naturalmente di unità nazionale come tutti quelli delle catastrofi, è andato già a un taglio del 10 per cento dei salari e delle pensioni, e la collera e le manifestazioni della gente vengono dalla disperazione. E già per l’euro è un sisma.
Forse non è inutile ricordare che fra pochi giorni, il 2 agosto, gli Stati Uniti si troveranno, mutatis i molti mutandis, nella situazione greca di non poter pagare i salari né onorare le proprie fatture, perché il debito pubblico ha superato il tetto imposto dalla legge. Se non ché a innalzare quel tetto basta un accordo fra i democratici e i repubblicani, che finora lo hanno negato. Nessuno stato europeo può invece spostare da solo il patto di stabilità. Più che consolarsi sulle vaghe analogie sarà meglio chiedersi se questi indebitamenti dell’ex ricco occidente non abbiano qualche radice comune.
Mi rivolgo a chi ne sa più di me, cioè agli amici economisti e ai padri e ai padrini (di battesimo, in senso cattolico) della Ue, nella speranza che rispondano ad alcune altre domande che a una cittadina di media cultura si presentano ormai impietosamente. Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?
La prima domanda è come mai i padri dell’euro si erano convinti che un’unificazione della moneta sarebbe stata di per sé unificatrice di un’area vasta di paesi dalla struttura economica così diversa per qualità e robustezza. Tanto convinti da non avere previsto misure di recupero per chi non riuscisse a stare nel patto di stabilità. Non è forse che consideravano impensabile che la mano invisibile del mercato non riuscisse ad allineare a medio termine le economie di questi paesi? Per cui bastava affidarsi a una politica monetaria e attentamente deflazionista – linea che la Bce ha fedelmente seguito – per garantirne il successo? L’euro e la Ue sono nati in quella fede nel liberismo, che von Hajek aveva ripreso, proprio prima della guerra, contro la politica rooseveltiana seguita al 1929 e le proposte di Beveridge e di Keynes di trarre da quella crisi la consapevolezza del pericolo che rappresenta una frattura economica e sociale profonda, trovarsi di fronte una destra populista come quella che negli anni ’30 si sviluppò, oltre il fascismo, nel Terzo Reich di Hitler, nella Grecia di Metaxas e nella Spagna di Franco? Non era necessario evitarla andando a un vero compromesso fra le parti sociali, costringendo i governi a (mi sia premesso il gioco di parole) costringere il capitale a cedere una parte meno iniqua del profitto alla monodopera, in modo da: a) garantirsi una certa pace sociale (c’era ancora di fronte l’Urss che aveva fatto arretrare i tedeschi a Stalingrado); b) garantire un potere d’acquisto di massa per una produzione di massa (fordista)? Le costituzioni e le politche dei governi europei del secondo dopoguerra andarono, più o meno, tutte in questa direzione.
Dalla quale la Ue svoltava decisamente.Tre anni prima era caduto il Muro di Berlino, e i partiti di sinistra e i sindacati avrebbero seguito, più o meno convinti, la strada. I conti della scelta liberista ci sono oggi davanti agli occhi. Al di là degli effettivi successi in campo giuridico in tema di diritti umani, non è forse vero che, malgrado le enfatiche dichiarazioni, i vari trattati, quello di Nizza incluso, registrano un arretramento dei diritti sociali rispetto ai Trenta Gloriosi? Probabilmente si riteneva che costassero troppo: nessuno è stato eloquente su questo punto come il New Labour di Tony Blair. Sta di fatto che, dichiarando nobilmente la piena libertà di circolazione delle persone, delle imprese e dei capitali, messi sullo stesso piano, la Ue dava libero corso alla finanza, alle delocalizzazioni e assestava ai lavoratori una botta epocale.
Cittadini, imprese e capitali non sono infatti soggetti della stessa natura, e non hanno la stessa libertà di movimento. Altra cosa è spostarsi in Lituania per il salariato di una impresa lombarda ed altra per la sua impresa andarvi in cerca di dipendenti da pagare di meno. E ancora altra lo spostarsi virtuale di un quotato in borsa da Milano a Tokyo. Ma non stiamo a fare filosofia. Con la Ue cessava infatti ogni controllo sul movimento dei capitali in entrata e in uscita, non solo da parte di ogni singolo stato ma del continente; e siccome in Europa i lavoratori avevano raggiunto collettivamente un salario più alto e una normativa migliore che nel resto del mondo, i capitali scoprivano presto che potevano ottenere dalle operazioni finanziarie un profitto assai più ingente di quello che si poteva ottenere dagli investimenti nella produzione, materiale o immateriale che fosse. La finanza ha preso un ritmo di crescita senza precedenti, le sue figure si sono moltiplicate inanellandosi su se stesse fino a perdere ogni base effettiva, abbiamo scoperto parole suggestive, come i fondi sovrani, i trader, gli asset, i futures, e capito meglio a che e a chi servisse un paradiso fiscale, la Ue liberista apriva insomma il varco a manipolazioni non illegali ma mai conosciute prima, le stesse che gonfiandosi hanno formato la grandiosa bolla finanziaria scoppiata nel 2008. Nella quale gli stati sono dovuti intervenire con i soldi pubblici per evitare il crollo delle banche (una, la Lehman Brothers, è colata a picco) e dei relativi e ignari depositari. Coloro che erano stati consigliati di comperare una casa dall’allegria finanziaria delle banche stesse si sono trovati per strada. Un trader più esperto dei suoi superiori ha fatto perdere cinquecento milioni di euro alla antica Sociéte Générale, per amore della mirabolante professione, senza mettersi in tasca un quattrino. Alcuni imbroglioni hanno fatto miliardi, uno di loro, Madoff, s’è fatto pescare. Il G20 e il G21, riuniti in fretta, hanno innalzato lamenti, denunciato la finanza, inneggiato all’intervento dello Stato, denigrato fino un mese prima, deprecato l’esistenza dei paradisi fiscali e si sono fin giurati di ridare “moralità” al capitale. Ma tutto è tornato come prima, neppure l’obiettivo più semplice, chiudere con i paradisi fiscali, è stato realizzato. L’investimento nella finanza resta golosissimo.
Sulla stessa linea, i capitali che restavano nella produzione scoprivano che avrebbero realizzato ben altri profitti se avessero spostato le loro imprese fuori dall’Europa occidentale, dove imperversano ancora, sebbene assai allentati, i “lacci e lacciuoli” e la “rigidità” del lavoro. Così succede, per offrire qualche esempio, che un gruppetto bresciano si sia acquistato in Francia una vecchia e gloriosa marca di piccoli elettrodomestici per portarla in Tunisia (prima della rivolta). Che un miliardario indiano si sia acquistato le residue acciaierie d’Europa per chiuderle, restando solo sul mercato con l’azienda paterna. I governi non si permettono più di intervenire sulle parti sociali, correndo dietro ai capitali e mettendogli il sale sulla coda con agevolazioni e detassazioni. Chi non sa che una impresa paga meno tasse di quanto debba pagare un salariaro? Se poi è una multinazionale del petrolio, come la Total, che è insediata in diversi paesi, può succedere che in Francia non paghi nulla.
Infine, il capitale ha avuto più intelligenza delle sinistre nel puntare sul trasferimento del lavoro in tecnologia. Poteva essere un enorme risparmio di fatica e un enorme aumento della produttività della manodopera, ma è solo servito a ridurla. Può sorprendere che in tutta Europa i disoccupati superino oggi i cento milioni? Che il 21 per cento dei giovani non trovi lavoro? I governi pensano poi a demolire, per facilitare le imprese, le difese restanti del salario e della normativa nel lavoro dipendente. L’invenzione del precariato è stata geniale. Certo resta ancora da fare per raggiungere l’inesistenza di diritti e contratti collettivi dell’Egitto e della Cina, ma si direbbe che l’obiettivo sia quello.
Come si faccia a tener alte le entrate e modificare la crescita e in direzione compatibile con un impoverimento diretto e indiretto, attraverso i tagli nel welfare della grande maggioranza delle nostre societa è per me un mistero. Come si possa stupirsi che gli operai, occupati o disoccupati, scombussolati dalle scelte dei partiti di sinistra e dei sindacati, non amino questa Europa? E crescano dovunque in voti le destre?
Vorrei essere smentita. E che mi si dimostrasse che l’Europa non c’entra, che non può, e non solo non ha voluto, far altro.
Dalla guerra del capitale contro il lavoro si può uscire soltanto restituendo ai lavoratori reddito, risorse e diritti. Tutto il resto non fa che rafforzare la crisi, semplicemente perché è la crisi. Ma c'è qualcuno, tra i politici, che intenda davvero combatterla? Probabilmente no
Bisogna resistere alla tentazione di risolvere tutto con la comoda spiegazione della follia. Dio acceca chi vuol perdere, si dice. Così si pretende di spiegare quanto sta accadendo in questi giorni, a cominciare dai principali snodi della crisi finanziaria mondiale. Ma ci si inganna.
Indubbiamente lo scenario è a dir poco paradossale. La ricchezza reale aumenta di anno in anno a dismisura. Mai come oggi il mondo è stato un «gigantesco ammasso di merci». La produttività dei mezzi di produzione è alle stelle. Mai la tecnologia è stata altrettanto sviluppata. Ma, invece di godere i frutti di questo progresso, il mondo «avanzato» si dibatte nella crisi. Registra il dilagare della disoccupazione e il drammatico impoverimento di masse crescenti. E sperimenta il panico, la rivolta, la depressione economica e psichica. Questo film corre sullo schermo globale da tre anni a questa parte, per limitarci a quest'ultima Grande crisi, esplosa negli Stati Uniti a seguito dell'insolvenza dei titolari di mutui e dei crediti facili al consumo. Ma nemmeno l'esperienza di questi tre anni pare avere aperto gli occhi alle classi dirigenti. Il nuovo picco della crisi è la diretta conseguenza delle risposte «sbagliate» opposte all'esplosione della bolla speculativa nel 2008. Da allora e sino all'anno scorso gli Stati si sono incaricati di sanare con soldi pubblici (cioè nostri) le voragini dei bilanci privati, di banche, assicurazioni, finanziarie e grandi gruppi industriali a rischio di bancarotta per gli azzardi speculativi. Oggi - naturalmente - a rischiare il fallimento sono gli Stati stessi, dissanguati da quel generoso soccorso. Ci si aspetterebbe finalmente una risposta conseguente, visto che sbagliare una volta (si fa per dire) è umano, ma perseverare è diabolico. Invece che si fa?
Si ripete l'«errore». Non si pretende dai privati la restituzione dei prestiti, con tanto di interessi, né, tanto meno, la cessione degli enormi profitti accumulati in tre decenni di baldoria neoliberista. Al contrario: per ridurre l'indebitamento degli Stati si tornano a chiedere soldi alla collettività, cioè al lavoro. Sotto forma di tagli alle retribuzioni, alle pensioni, al welfare, ai posti di lavoro e alla spesa pubblica. E a mezzo della mercificazione di beni e servizi vitali e della svendita di quanto resta del patrimonio pubblico. La grande bouffe continua. Anzi, per timore che domani possa saltare in mente a qualcuno di cambiare rotta, nel nome della cosiddetta «stabilità» si progetta di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, cioè l'autoimposizione di politiche recessive, assoluta garanzia di crisi croniche. E si immagina (ultima trovata del governo tedesco, principale responsabile della spirale in cui tutta l'Europa - Germania compresa - si sta avvitando) di commissariare i Paesi ad alto debito, al preciso scopo di impedire tassativamente il varo di eventuali politiche espansive.
Di fronte a questo scenario la tentazione di parlare di follia è comprensibilmente forte. Ma è necessario resistere, perché le cose non affatto stanno così. Hanno una loro logica e una loro razionalità, non per caso accuratamente occultata dal giornalismo mainstream. Torniamo all'inizio. Il mondo che oggi trema vedendo avvicinarsi a grandi falcate lo spettro di un crack di inedite proporzioni non è diventato improvvisamente povero. La ricchezza reale è immensa e così la capacità di produrre. Vi è una enorme disponibilità di forza-lavoro qualificata e giganteschi bisogni sociali insoddisfatti (abitazioni e servizi alla persona, formazione e conoscenza, cura dell'ambiente e del territorio ecc.). Ma allora che cos'è questa «crisi»? C'è un modo di raccontarla che spieghi questi giorni tumultuosi scartando dagli schemi ideologici utili agli interessi dominanti?
C'è. E siccome le idee importanti non si inventano ogni giorno, basteranno due citazioni. Bertolt Brecht, che al Congresso internazionale degli scrittori (Parigi, 1935) fece incazzare tutti chiedendo che, oltre che di difesa della cultura, si parlasse anche dei rapporti di proprietà. E Karl Marx, che centocinquant'anni fa mise in rilievo la funzione cruciale dei rapporti di produzione, struttura giuridica a presidio dei rapporti di forza tra le classi. Ebbene, la cosiddetta crisi non è che un dispositivo economico, politico e mediatico funzionale allo spostamento di ricchezza (di titoli di proprietà) a vantaggio delle oligarchie possidenti. Negli anni Settanta e Ottanta questo spostamento è avvenuto soprattutto colpendo il lavoro direttamente nel conflitto sociale. Dagli anni Novanta ha luogo principalmente attraverso lo strumento monetario e la speculazione finanziaria. Il che non significa che la deflazione salariale e l'attacco ai diritti del lavoro non restino il punto di caduta dell'operazione, come non toglie che da quarant'anni a questa parte la guerra è stabilmente parte integrante di questa grande operazione di ingegneria sociale. Che questo gigantesco spostamento di ricchezza comporti anche dure contrapposizioni in seno alle oligarchie e aspri conflitti tra le borghesie nazionali (con buona pace di chi teorizza l'irrilevanza della dimensione statuale nell'era della globalizzazione) è del tutto ovvio e normale. E lo è anche quanto ne consegue: la concreta possibilità che i conflitti economici, politici e sociali tracimino in nuovi conflitti bellici. Fare previsioni su questo terreno è difficile, ma è bene sapere che non è possibile escludere nulla. Letteralmente nulla.
Questa e soltanto questa è la sostanza, che però va accuratamente celata. Di qui la grande narrazione del «debito». Tutti (anche noi) ne parliamo, come se fosse ovvio e indiscutibile che qualcuno (lo Stato per conto della società) ha ottenuto un «prestito» da qualcun altro (il «creditore»). Ma se un governo decidesse di finanziare la spesa pubblica con i profitti delle imprese private, con le rendite speculative e con gli introiti di un fisco equo ed efficiente, il debito dove andrebbe a finire? Scomparirebbe. Il che dimostra che «debito» è soltanto il nome di una politica economica finalizzata all'incremento dei redditi da capitale.
Ora, siccome questa operazione funziona alla grande, procurando enormi benefici alle oligarchie dominanti, parlare di follia è insulso e impedisce di capire cosa sta succedendo. Esattamente come non serve a nulla - anzi è sbagliato e fuorviante - favoleggiare di una presunta impotenza della politica a fronte delle sentenze dei «mercati» e delle agenzie di rating. Se a Bretton Woods si imposero regole che oggi non esistono più è perché chi ha il potere di decidere (a cominciare dai governi e dai parlamenti) non vuole né regole né vincoli, o meglio, vuole solo quelle regole e quei vincoli (a cominciare dal Patto di Stabilità e dagli accordi in sede di Wto) che rafforzano il processo in atto.
Così stando le cose, se ne può trarre un'unica conclusione. Ci sarebbe un solo modo per contrastare la dinamica della crisi: prendere il toro per le corna e imporre misure draconiane, sì, ma di segno specularmente opposto: misure redistributive in senso proprio. Da una cosiddetta crisi finanziaria che altro non è se non l'ennesimo capitolo della guerra del capitale contro il lavoro si può uscire soltanto restituendo al lavoro (al proletariato e alle classi medie in via di proletarizzazione) reddito, risorse e diritti. Tutto il resto non fa che rafforzare la «crisi», semplicemente perché è la crisi. Ma c'è qualcuno - tra i politici - che intenda davvero combatterla? Non si direbbe. Ha ragione Giorgio Ruffolo: la sinistra non esiste più. Si è suicidata una trentina di anni fa in Italia come in Europa, come in tutto l'occidente capitalistico. Ma anche qui: non per follia, sia pure lucida, bensì per un accorto calcolo. Perché diciamoci la verità: partecipare alla grande bouffe, sia pure come «oppositori», non è affatto spiacevole. Anzi, è alquanto gratificante.
Titolo originale:Them and us: the young Londoners who we can't afford to alienate – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Si volatilizzano i servizi essenziali per mantenere i giovani senza fissa dimora con cui lavoro nell’ambito della società civile. Per chi fra noi opera in quella terra di frontiera, era chiaro da tempo che qualcosa, in qualche modo, sarebbe arrivato a sconvolgerci.
E lunedì si è capito che era cominciato. Nel pomeriggio, mi entravano in ufficio ragazzi gridando “Sta cominciando a Lewisham. Accendi il notiziario, accendi”. Nel giro di mezz’ora, si è capito che avevano ragione. Durante la giornata, continuavano a chiedere cosa dicevano i notiziari, se sapevo qualcosa io, cosa si vedeva sugli schermi TV. É la prima volta, dopo un anno di tentativi per interessarli al mondo che li circonda, che qualcuno di loro manifesta un po’ di interesse per quello che dicono i media. Uno mi ha chiesto “Cosa dicono di noi?”
Mi ha colpito quel “noi”, l’identificazione immediata coi ragazzi di Lewisham. Nessuno di loro aveva mai messo piede nei quartieri in rivolta, ma non c’era alcun dubbio sul fatto che si ritenessero parte di quella vicenda. Martedì mattina una ragazza mi ha detto che quelli dei Cherry Boys, famigerata banda del sud-est londinese, lunedì pomeriggio spingevano le persone in entrata e uscita dal negozio JD Sports di Charlton: “ Muovetevi. Muovetevi. Prendete la roba e lasciate posto al prossimo”.
Sono anche riuscita a cavare da un altro ragazzo qualche notizia a proposito della sua spedizione a Woolwich con gli “amici”. Lo conosco da quasi due anni e so bene quanto abbia subito dalle bande di Woolwich. L’ultima volta che era stato in quella zona, più di un anno fa, l’avevano preso a coltellate, quasi ammazzato. Ma la rivalità, che gli era quasi costata la vita, adesso non contava più: “Sai, capo – mi ha detto – Ieri sera Londra era libera”.
Ma è evidente che mentre le cose continuano ad accadere nessuno ascolta le storie di chi partecipa alla rivolta. Se ascoltassimo, riusciremmo a capire che esistono spiegazioni molto migliori di quella della “pura e semplice criminalità” proposta da David Cameron.
Negli ultimi giorni la gente ha paura a uscire di casa, ma i giovani si sentono per la prima volta liberi di muoversi nei quartieri, dopo dieci anni. Gli abitanti sono infuriati perché si sono colpite al cuore le comunità, ma quei giovani parlano di “noi”. I negozianti hanno combattuto per difendere ciò che possiedono, contro chi cercava di appropriarsi di quanto non può avere. Si sono invertite le parti; la città e la società ribaltate. Sorprende, che vogliano ciò che vogliamo anche noi, ovvero la possibilità di muoversi liberamente, di esprimere comunità, identità, e naturalmente possesso materiale? Ed è questo il modo in cui ce lo dicono quei giovani insoddisfatti, di solito privi di voce.
Abbiamo chiuso i loro centri di aggregazione, eliminato i fondi per la formazione. Eroso le loro aspettative nella società. Possiamo solo ascoltare, perché ci stanno dicendo qualcosa, magari in modo non del tutto efficace, senza giustificazioni, distruttivo. Capire non vuol certo dire perdonare. Ma liquidare le rivolte come azioni sconsideratamente criminali significa negare le gravi carenze del sistema, ed emarginarli ulteriormente da una società che non sentono più loro.
Ogni nuova prospettiva di governance europea che pure sarebbe necessaria, non riesce neppure a essere sperimentata perché va subito a infrangersi contro l'inevitabile "logica del mercato"
Nelle vicende dell’Unione europea ci sono molti passaggi su cui ha senso interrogarsi. Rilevanti, ovviamente, non solo per leggere come si è arrivati alla situazione in cui ci troviamo adesso: soprattutto per guardare avanti. Appunto per guardare avanti riprendo la sollecitazione che viene dalle analisi e domande – soprattutto dalle domande – che Rossana Rossanda ripetutamente pone (“a chi ne sa più di me”). Nel dibattito e negli interventi si porta l’attenzione principalmente sui temi dell’economia, dunque comincio così: mi è capitato di riprendere in mano un piccolo libro, Idee per la programmazione economica (di Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini, pubblicato nel 1963 da Laterza). Rileggerlo oggi è illuminante. Cosa significa “programmare”, con quali “idee”. Altre parole: “indirizzi”, “strumenti”, “politiche” -al plurale-; e “analisi critica”, fondamentale. Riguardano gli economisti, ma certo anche gli “specialisti” di altre discipline; e noi “cittadini”.
Farò riferimento, guardando in termini necessariamente aggiornati alle questioni di cui discutiamo, alla chiave di lettura che ha messo a fuoco i processi europei proponendo alcuni termini che negli scorsi decenni sono stati al centro di contributi e dibattiti: governance, Europa post-nazionale, Europa cosmopolita. E democrazia, ovviamente. Anche le chiavi di lettura sono molteplici: in alcuni casi l’attenzione va alle caratteristiche e alla storia del contesto europeo; si mettono a confronto i differenti dati a livello nazionale; nel portare l’analisi sui processi di trasformazione in atto si mettono a fuoco anche resistenze ai cambiamenti e tendenze che li contrastano, legate a vicende proprie della nostra parte del mondo. E c’è piena consapevolezza delle dimensioni di complessità e di pluralità del sociale. Alcuni dei numerosi studiosi che di questi temi si sono occupati sono Daniele Archibugi, Ulrich Beck, James Bohman, Edgar Grande, Claus Offe, e in contributi più recenti, Owen Parker.
Mi sembra utile riprendere brevemente due linee di riflessione: cosa significhi e cosa implichi il passaggio (terminologico, ma evidentemente non solo) alla parola “governance”, rivedendo quella che era scontata ma ormai inadeguata, “governo”. Si è trattato di assumere consapevolezza, e realizzare e valorizzare, strutture e meccanismi nuovi (anche, ritenuti auspicabili: così nei riferimenti alla “società civile”, alla “democrazia deliberativa”). L’altra linea di riflessione riguarda le scelte e le pratiche messe in atto con questa “svolta” (così è stato detto) nelle istituzioni europee: appunto, con l’obiettivo di una gestione della politica articolata e plurale. E, questo ci si era proposti, tendente a realizzare strutture di connessione e collaborazione, nei processi decisionali, tra diversi “attori” e ai diversi livelli.
I riferimenti al concetto di governance sono stati al centro di dibattiti e analisi a partire dagli anni novanta, in una prospettiva che si voleva riuscisse a essere “post-nazionale” e anche “globale”. Si sono proposti modelli considerati appropriati per definire un sistema “a molti livelli e molti attori”, con attenzione alle istituzioni pubbliche ma anche ai soggetti del privato, allargando lo sguardo al settore no profit e agli ”attori sociali”. Moltissimi sono stati i contributi, in sedi “europee” di ricerca e riflessione (di politologi, sociologi della politica, studiosi dei processi di trasformazione), sugli assetti istituzionali che andavano prendendo corpo nell’ambito dell’Unione. A questo è soprattutto utile portare l’attenzione.
Sintetizzando la lettura che ne fanno alcuni degli studiosi che prima ho ricordato, c’è stato un progressivo passaggio: dal mettere al centro i nuovi attori e i molteplici livelli, a un “annacquamento” (così è stato descritto), via via, di attenzione e riconoscimento. In particolare due fasi vanno considerate. Ci sono stati i lavori di un gruppo di studio, il Forward Studies Unit, un think tank europeo che nel 1997 ha reso disponibili alcuni importanti rapporti. Si mettevano in luce in termini problematici la dimensione dell’incertezza nel fare previsioni per il futuro, la complessità dei meccanismi e la necessità di monitorarli. Sul piano metodologico si proponevano letture della società europea articolate in una pluralità di prospettive. Si suggerivano pratiche di comunicazione che valorizzassero partecipazione e meccanismi di feedback da parte dei diversi “attori”. In contributi degli anni successivi si segnala che di questi documenti (ripresi da Prodi nel 1999 durante la sua presidenza) e degli stimoli che se ne potevano trarre, si è tenuto poco conto.
Si arriva poi a una fase successiva, (definita con la sigla Omc, “open method of coordination” ) e al White Paper on Governance. In numerosi studi – appunto nella fase che viene dopo il Libro bianco del 2001 – sono state analizzate le procedure, la visibilità data alle politiche, le connessioni tra i diversi livelli della governance europea. Secondo queste letture, a fronte delle proposte di apertura, degli obiettivi di inclusività dei diversi attori e livelli, di impegni a misure e iniziative coordinate ha prevalso, al contrario, la “logica del mercato”. Riprendo la conclusione a cui si arriva in un testo recente (Owen Parker, “The Limits of a Deliberative Cosmopolitanism: the Case of New Governance in the EU”). Si afferma che “coloro che sostengono la prospettiva di una ‘deliberative post-national governance’ non hanno portato l’attenzione sui meccanismi per cui il principale attore, la società civile, risulta strettamente condizionato dai criteri dominanti, i criteri che privilegiano il mercato”.
Dunque, scarsa consapevolezza di questi meccanismi; meglio, la scelta di non portarli pienamente alla luce. Ma non possiamo non vedere le inadempienze e le difficoltà della “nuova governance”. Pensiamo alla fase che stiamo vivendo: di fronte ai movimenti e alle vicende nel Nord Africa, e in particolare a quello che sta ancora succedendo in Libia, nessuna capacità - peggio, nessuna volontà e impegno - per realizzare una politica di “coordinamento europeo”. Sul problema dei profughi e degli arrivi a Lampedusa, immediata chiusura “nazionale” da parte dei governi (Italia e Francia, ma non solo). E ancora: nel difficile percorso che ha portato, tra contrasti e rinvii, alle politiche messe in atto per affrontare la “crisi greca” è emerso in piena evidenza che non c’erano né volontà né capacità di coordinamento: ma neppure ci si è mostrati disposti a vedere questa prospettiva, o modello, o riferimento, come cruciale per il futuro.
Molte le domande che rimangono aperte, certo rilevanti per la “rotta europea”. La mancanza di risposte (peggio ancora, di attenzione e consapevolezza) nella prospettiva di guardare avanti non soltanto preoccupa: equivale a un rifiuto della “nuova governance”. Guardiamolo, questo passaggio, nelle sue molte dimensioni. Vorremmo arrivare a sperimentarle, forme di “democrazia partecipata”. E vorremmo un’Europa capace di reagire alla logica dei “criteri dominanti, i criteri che privilegiano il mercato”.
1/8/2011
Nella storia di questo disgraziato paese (l'Italia, intendo, per chi non ami le metafore), c'è una sindrome spesso ricorrente: si chiama la linea del Piave. Funziona così. Per anni, talvolta per decenni, gli alti comandi, i Governi, le classi dirigenti in genere, prendono decisioni inique, sbagliate, avventurose, persino ciniche e anche delinquenziali: l'incredibile mediocrità degli alti comandi medesimi, la strategia irresponsabile dell'attacco frontale, il mostruoso disavanzo di bilancio, l'incapacità del ricambio, la stralunata soggezione dell'interesse pubblico agli interessi privati o di gruppo, ne rappresentano le manifestazioni più significative ed esemplari. Poi, ad un certo punto, dai e dai, si verifica la catastrofe: le linee cedono, il bilancio crolla, l'economia va in pezzi, le classi dirigenti, d'ogni razza e colore - ripeto: d'ogni razza e colore - annaspano nel vuoto che loro stesse hanno creato. È a quel punto che a qualcuno viene in mente la linea del Piave: gli interessi non sono più diversi, separati e magari contrapposti, diventano "unico". La catastrofe si può affrontare solo tutti insieme, senza più differenze né di razza, né di colore, né di collocazione sociale, né di orientamento politico. E questo, a pensarci bene, è anche giusto: chi, infatti, vorrebbe vedere gli austriaci a Milano o a Venezia?
Se poi, come nel caso di oggi, la linea del Piave assume dimensioni planetarie, la solidarietà di tutti intorno a un modello unico di soluzione assume un'evidenza ancor più eloquente: o ci si salva tutti oppure non si salva nessuno. E anche questo potrebbe essere giusto. Ma vediamo fino a che punto il discorso del Piave regge e, ammesso che regga, quali diverse impostazioni gli si possono dare.
Facciamo (almeno noi) un passo indietro e torniamo in Italia. Negli ultimi tre-quattro mesi è accaduto nel nostro paese qualcosa che in precedenza sarebbe stato inimmaginabile: e cioè un cambiamento vistoso della costituzione materiale, un aggiustamento invisibile dei meccanismi decisionali. Tutte le più importanti scelte in materia politica ed economica sono state, non certo prese, ma indotte con forza e con, appunto, autorevolezza "dall'alto". E quale esempio più lampante di "Camere congelate" di quelle che, nel giro di quarantotto ore, hanno votato un bilancio dello Stato strangolatorio e, nel caso di certi partiti, addirittura apertamente non condiviso? Non sto dicendo né che sia stato un bene né che sia stato un male: mi limito per ora a constatare che è accaduto. Ricordate il mio articolo sul manifesto del 13 aprile? «Ciò cui io penso è una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instauri quello che io definirei un normale "stato di emergenza", eccetera eccetera». L'unico auspicio di quell'appello che non sia stato per ora praticato è il ricorso all'Arma dei carabinieri e alla polizia di Stato: non ce n'è stato bisogno, e comunque la magistratura e le forze dell'ordine erano impegnate in altro (sempre però nei dintorni: Papa, Milanese, Penati, Bisignani eccetera eccetera).
Ma in generale la linea più volte adottata è andata puntualmente in quella direzione, tacciata allora dai pulpiti più diversi d'imbecillità, provocazione, golpismo, ecc. ecc. Oggi tutti i dubbi e le riserve sono svaniti nel nulla: la linea estrema di difesa delle istituzioni repubblicane e dell'economia e coesione sociale nazionali è diventata il Governo del Presidente (non quello del Consiglio, naturalmente), universalmente invocato dalle forze, partitiche e d'opinione, che si collocano all'opposizione dell'attuale maggioranza parlamentare.
Restiamo anche noi all'interno del ragionamento, ma al tempo stesso prendiamoci la libertà di porci - di porre - alcune domande decisive: a favore di chi? Con quali mezzi? Con quale, non solo istituzionale, ma anche politica autorevolezza? Le linee del Piave, in sé e per sé considerate, non servono a scardinare i sistemi, servono a confermarli e a renderli ancora più inattaccabili. La difesa del "bene comune" è pagata sempre da una sola parte. Sul Piave (storicamente, non metaforicamente inteso) la linea fu tenuta dalla leva dei '99, giovani diciottenni gettati in massa nel rogo a difendere l'integrità e l'unità nazionale. Oggi nel tritacarne dell'unità nazionale sono destinati ad essere macinati - alfieri del tutto involontari d'un patriottismo a senso unico - gli anziani e le famiglie deboli, i pensionati, gli operai, i giovani (soprattutto i giovani), i piccoli e medi borghesi, impiegati e professionisti, gli uni e gli altri ovviamente senza rendite parassitarie alle spalle. Sull'atteggiamento da tenere nei confronti di questa situazione si è già sfarinato il fronte delle opposizioni: il Terzo Polo ha subito adottato la linea della massimizzazione dei "sacrifici popolari" (davvero singolare in questo quadro - mi sia permesso di osservarlo - l'atteggiamento della formazione che recentemente ha scelto di chiamarsi "Futuro e Libertà": non dovevano essere la forza di rinnovamento del quadro politico italiano e sono finiti alleati in tutto e per tutto subalterni dei moderati più moderati?). Ma lo sfarinamento ha già raggiunto vertici e settori anch'essi in precedenza inimmaginabili: vedere la Camusso, leader di un'organizzazione operaia e popolare come la Cgil, collocarsi anche fisicamente, quasi a segnare il rapporto gerarchico nuovo testé costituitosi, alle spalle della Marcegaglia, leader delle organizzazioni padronali, ha avuto la portata e il valore di un manifesto, ben comprensibile ai più.
La linea del Piave, per essere minimamente condivisa prima che accettata e praticata, avrebbe bisogno di molte condizioni, di cui per ora non si vede traccia, anzi, per essere più esatti, quasi nessuno parla. A scopo puramente provocatorio, come di consueto (poi fra qualche mese si vedrà meglio), ne elenco due, una di carattere economico-sociale, l'altra di carattere politico, la seconda, ovviamente, condizione sine qua non perché la prima diventi credibile.
La condizione economico-sociale è la conservazione integrale dello Stato sociale, e cioè, per essere più precisi, di quell'insieme di statuti, regole, leggi e abitudini, che garantiscono la libertà e il benessere ai cittadini più deboli. Quanto al pareggio di bilancio, bisognerebbe chiedersi se le cure prospettate, in dimensioni e rapidità di tempi, non siano destinate ad ammazzare il cavallo invece di rimetterlo in piedi. La distribuzione dei pesi e delle misure, e le loro conseguenze effettive, devono perciò fin d'ora essere elencate con estrema precisione: l'obiettivo, infatti, è garantire con assoluta certezza - e la cosa è tutt'altro che impossibile - che dalla crisi ci si proponga di uscire con uno stato più giusto, non con uno più infame.
La condizione politica è che dalla crisi si esca con un riassetto del sistema di potere che almeno garantisca la riapertura di una nuova fase. Dobbiamo invece prendere atto che finora si è andati nella direzione esattamente contraria: e cioè - nella più pura tradizione delle linee del Piave nazionali (ma almeno Cadorna nel '17 perse il posto) - la crisi ha paradossalmente rafforzato, o almeno lasciato più tranquillo, il Governo Berlusconi: è entrato a far parte anch'esso, infatti, della "soluzione unica nazionale" della crisi. Ma questo è intollerabile, e quindi inaccettabile: significherebbe far pagare al paese, come prezzo per uscire dalla crisi, la perpetuazione delle ragioni più profonde della crisi medesima, l'inaffidabilità, il discredito, interno ed internazionale, l'assoluta mancanza del senso dell'interesse pubblico da parte dei suoi goverrnanti.
Perché la linea del Piave sia almeno decentemente compresa e condivisa, occorre che il governo del Presidente metta in programma questa apertura di una nuova fase in netta, inequivocabile discontinuità con quella precedente: anche ricorrendo, in tempi ragionevoli, ad un nuovo responso elettorale. Ai costituzionali - notoriamente ce ne sono molti e di molto eccellenti - va richiesta con urgenza una rilettura del primo comma dell'art. 88 della Costituzione, il quale recita (com'è universalmente noto): «Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti; sciogliere le Camere o anche una sola di esse». Le interpretazioni correnti, che depotenziano in genere la facoltà del Capo dello Stato di assumere autonomamente tale decisione, mi sembrano estremamente discutibili, e perciò andrebbero ridiscusse, in una situazione come questa in cui si potrebbe da un momento all'altro avere bisogno di disporre tranquillamente di tale estrema risorsa.
Insomma: il Governo del Presidente comporterebbe una netta e puntuale individuazione dei pesi e delle misure da adottare, una equa distribuzione dei sacrifici, una preliminare scelta di campo a favore delle classi e dei ceti più deboli e, preliminarmente e contestualmente, la ricostituzione d'un quadro politico in grado di giocare la partita nella piena dignità ed efficacia dei suoi possibili mezzi (e uomini). Altrimenti, sarà un confuso, inane e un po' disperato tentativo di tenere in piedi il sistema a favore dei soliti "amici". Non sarebbe una bella cosa, e non funzionerebbe.
Queste non sono rivolte del pane o della fame. Queste sono rivolte di consumatori deprivati ed esclusi dal mercato. Le rivoluzioni non sono la conseguenza inevitabile delle ineguaglianze sociali, lo sono invece i terreni minati.
I terreni minati sono quelle aree disseminate a caso di ordigni esplosivi: si può star certi che alcuni di essi, a un certo punto, salteranno in aria, ma nessuno è in grado di affermare esattamente quali e quando. Se le rivoluzioni sociali sono invece fenomeni mirati, ecco che è possibile intervenire per identificarle e disinnescarle in tempo. Ma non le esplosioni da terreno minato. Nel caso dei terreni minati per mano di soldati di un esercito, si possono inviare soldati di qualche altro esercito a rintracciare le mine per disarmarle. Un compito rischiosissimo, come dice l'adagio dei militari: «Lo sminatore può sbagliare una sola volta». Ma nel caso di terreni minati predisposti dalle diseguaglianze sociali persino un simile rimedio, per quanto pericoloso, è fuori della nostra portata: il compito di interrare le mine e quello di dissotterrarle deve essere eseguito dal medesimo esercito, che non può tuttavia smettere di aggiungere nuovi ordigni, né evitare di camminarci sopra — all'infinito. Disseminare le mine e cadere vittima delle esplosioni diventa allora un circolo inevitabile e inarrestabile.
Le diseguaglianze sociali, di qualunque genere esse siano, derivano dalla divisione tra coloro che hanno e coloro che non hanno, come fece notare Miguel Cervantes de Saavedra cinquecento anni or sono. Ma a seconda delle epoche, l'avere o non avere certi oggetti rappresenta, rispettivamente, la condizione più ardentemente ambita o più ferocemente risentita. Due secoli fa in Europa, e ancora pochi decenni fa in molti luoghi lontani dall'Europa, e oggigiorno nei teatri bellici dove si combattono guerre tribali o dove dettano legge i tiranni, il principale oggetto del contendere tra i ricchi e i poveri era la pagnotta, o la ciotola di riso. Grazie a Dio, alla scienza, alla tecnologia e ad alcuni espedienti politici di buon senso, abbiamo superato queste emergenze. Il che non vuol dire, tuttavia, che l'antico divario sia morto e sepolto. Al contrario... Gli oggetti del desiderio, la cui assenza provoca una reazione scomposta e rabbiosa, sono oggi sempre più numerosi e variegati — il loro numero, anzi, aumenta di giorno in giorno, assieme alla tentazione di impadronirsene. Così crescono di pari passo il malumore, la rabbia, l'umiliazione, il risentimento rinfocolato dal non averli, come pure l'impulso di distruggere tutto ciò che non si può ottenere. Il saccheggio e l'incendio dei negozi sono la conseguenza di quello stesso impulso e soddisfano quello stesso desiderio.
Oggi siamo tutti consumatori, innanzitutto e soprattutto consumatori, consumatori per diritto e per dovere. Il giorno dopo la tragedia dell'11 settembre, nel suo appello lanciato agli americani per incoraggiarli a superare il trauma e tornare alla normalità, il presidente Bush non trovò niente di meglio da dire che «ricominciate a comprare». È il livello della nostra attività di acquirenti e la facilità con cui ci sbarazziamo di un oggetto di consumo per sostituirlo con una versione più «nuova e aggiornata» a fissare i parametri fondamentali del nostro status sociale e il nostro punteggio nella corsa al successo. A tutti i problemi che incontriamo sul nostro cammino, noi cerchiamo la soluzione nei negozi.
Dalla culla alla bara, siamo stati istruiti e addestrati a considerare i negozi come farmacie traboccanti di medicamenti per curare o almeno alleviare ogni malattia e afflizione della nostra vita individuale e collettiva. I negozi e lo shopping acquisiscono pertanto una vera e piena dimensione escatologica. I supermercati, nella celebre citazione di George Ritzer, sono diventati le nostre cattedrali; e di conseguenza, mi sia consentito di aggiungere, la lista della spesa è diventata il nostro breviario, le processioni nei centri commerciali i nostri pellegrinaggi. Nulla ci emoziona e ci riempie di entusiasmo come acquistare per impulso e scartare oggetti che non ci piacciono più per sostituirli con altri, più invitanti. La pienezza della gioia del consumo equivale alla pienezza della vita. Compro, ergo sono. Comprare o non comprare, questo è il problema.
Per i consumatori senza accesso al mercato, i veri poveri di oggi, il non poter acquistare è lo stigma odioso e doloroso di una vita incompiuta, la conferma della propria nullità e incapacità. Non semplicemente l'assenza di ogni piacere, bensì l'assenza della dignità umana, l'impossibilità di dare un senso alla propria vita e, da ultimo, la privazione stessa di umanità, autostima e rispetto per gli altri.
I supermercati saranno anche cattedrali aperte al culto per i fedeli, ma per gli esclusi, gli scomunicati, gli indegni, per tutti coloro che sono stati allontanati dalla Chiesa del Consumo, essi rappresentano le postazioni del nemico, erette nei deserti dell'esilio. Quei bastioni fortificati sbarrano l'accesso ai beni che tutelano altri da un così triste destino. Il presidente Bush sarebbe d'accordo nell'affermare che essi impediscono il ritorno alla «normalità» (e addirittura l'accesso alla normalità, per quei giovani che non hanno mai partecipato al culto). Griglie e saracinesche di ferro, telecamere di sorveglianza, guardie di sicurezza appostate all'ingresso e in borghese all'interno, non fanno altro che confermare l'atmosfera di campo di battaglia e di ostilità in corso. Queste cittadelle armate e sorvegliate, popolate di nemici asserragliati nel territorio di coloro che non hanno, ricordano agli abitanti, giorno dopo giorno, la loro miseria, la loro incapacità, la loro umiliazione. Insolenti nella loro presuntuosa e arrogante inaccessibilità, sembrano urlare parole di sfida e provocazione: ma a che cosa?
Testo pubblicatosul Social Europe Journal(traduzione di Rita Baldassarre)
Se badiamo ai fatti, la rivolta è stata causata dalla controversa uccisione di un uomo da parte della polizia nel quartiere di Tottenham. Ma ci sono ragioni più profonde. Da tempo le forze dell´ordine lanciavano allarmi su crescenti tensioni sociali in varie zone di Londra. Al cuore di queste tensioni e della violenza esplosa in questi giorni c´è la sensazione da parte di un´ampia fetta delle generazioni più giovani, nella capitale e in altre regioni del paese, che per loro non c´è un futuro, e nemmeno rispetto, e neppure interesse.
Ho partecipato recentemente a un programma televisivo in cui molti giovani dicevano che sarebbe successo qualcosa se il governo conservatore di David Cameron avesse portato avanti il suo programma di pesanti tagli alla spesa pubblica. Certo, il livello di violenza e le azioni puramente criminali a cui stiamo assistendo a Londra e in altre città sono andati al di là di quello chiunque si sarebbe aspettato. Ed è importante affermare che non ci sono scuse per disordini che violano la legge. Ma al tempo stesso è da stupidi non avere immaginato che questioni come la crescente disoccupazione, i tagli nei servizi sociali e la rabbia rimasta in molti per la crisi di due-tre anni fa non avrebbero avuto conseguenze. La crisi economica e finanziaria è stata provocata in buona parte dagli eccessi di banche e banchieri, che hanno pesato e pesano sulla vita della gente comune; ma mentre la gente comune sente di avere pagato un prezzo per la crisi e di continuare a pagarlo, la sensazione è che chi l´ha provocata, i banchieri e le banche, se l´è cavata senza alcuna punizione, che per loro la bella vita prosegue come prima e più di prima. Anche questo influisce sulla rivolta, così come l´impressione che il gap tra ricchi e poveri continui ad allargarsi, a dispetto della recessione e delle lezioni che bisognava trarne.
Dire tutto ciò non significa condonare i saccheggi e gli episodi di violenza indiscriminata nelle strade della capitale, significa riconoscere la realtà, una realtà in cui molti giovani si sentono completamente esclusi non solo da potere e ricchezza ma pure da ogni tipo di opportunità.
Il risultato è che ci troviamo a un anno esatto dalle Olimpiadi di Londra e in tutto il mondo si vedono in tivù delle immagini di Londra in fiamme, con la polizia in assetto di guerra e giovani incappucciati che saccheggiano negozi ed appiccano fuoco alle macchine. Non sono le immagini che uno assocerebbe con la città ospitante dei prossimi Giochi. Come cittadino britannico, ciò mi rattrista e mi deprime, perché so che il nostro paese è molto meglio di quello che traspare da simili immagini. Purtroppo, il governo Cameron - dopo aver visto fallire l´ambizioso progetto della "Big Society", il massiccio trasferimento di poteri dallo Stato agli individui - è finora sembrato in ritardo, incapace di riportare la situazione sotto controllo. La polizia non ne esce meglio, il capo di Scotland Yard è appena stato costretto a dimettersi per il tabloid-gate (lo scandalo delle intercettazioni illegali in cui i giornali del gruppo Murdoch erano in combutta con poliziotti corrotti, ndr), le stesse forze dell´ordine sono state colpite da riduzioni del persone e del budget per effetto dei tagli varati dal governo. E sullo sfondo di tutto c´è la crisi globale, l´incertezza nell´economia in Europa e in America. «Siamo tutti insieme in questa crisi» è stato lo slogan del premier Cameron, ma l´impressione di molti britannici è che non sia così, che i tagli colpiscano i poveri e non i privilegiati, e che per di più non siano riusciti a far ripartire in fretta l´economia, ossia non abbiano funzionato, non abbiano mantenuto le promesse che, grazie a un forte sacrificio subito, saremmo stati meglio in un secondo tempo, saremmo tornati rapidamente a un benessere diffuso.
Da questo micidiale cocktail è venuta fuori una rivolta urbana senza precedenti. Nel breve termine tocca alla polizia ristabilire l´ordine, e non sarà semplice, perché già Scotland Yard è stata accusata di usare forza eccessiva o di non sapere controllare manifestazioni di protesta nel recente passato: nessuno vuole certo vedere l´esercito nelle strade per riportare la calma. Ma nel medio e lungo termine saranno le autorità e il mondo politico a doversi interrogare sul perché così tanta gente, così tanti giovani, si sentono talmente disperati e arrabbiati dal volere danneggiare e distruggere le stesse strade in cui vivono, le comunità in cui sono cresciuti. Qualcuno dice che bisogna colpire i criminali che saccheggiano, e basta. Altri che occorre innanzi tutto rispondere alle cause più profonde della violenza. Credo che bisognerà fare entrambe le cose, se vogliamo che tra un anno, per le Olimpiadi, Londra trasmetta al mondo immagini diverse.
(testo raccolto da Enrico Franceschini)
In una nota del Rapporto annuale, che uscirà a settembre, si legge che il federalismo fiscale potrebbe mettere a dura prova la tenuta della società meridionale
La grande stampa accoglie la pubblicazione annuale del Rapporto sulla economia del Mezzogiorno della Svimez (Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) in generale con attenzione solo ai dati o ai fatti più eclatanti e per contro con scarso interesse ai processi di fondo che sono alla base di quei dati e che i volumi analizzano in dettaglio. Così, qualche anno addietro tutti si resero conto con sorpresa - grazie alla documentazione e alle analisi della Svimez - della ripresa della emigrazione dalle regioni del Sud (circa ottocentomila partenze negli ultimi dieci anni). Per quel che riguarda il rapporto di quest'anno il dato eclatante ripreso dalla stampa è che nel Mezzogiorno due giovani su tre sono disoccupati.
La ripresa della emigrazione non è - né la Svimez pretendeva che lo fosse - una novità: i rapporti dei dieci anni precedenti avevano già documentato questa ripresa indicando un saldo migratorio di settanta o ottanta mila persone all'anno. Ma i rapporti Svimez, tranne casi eccezionali, non godono di grande attenzione, o perlomeno dell'attenzione che meritano. E questo perché le analisi e le relative implicazioni in termini di politica economica sono effettivamente un po' controcorrente.
La Svimez, fin dai tempi di Pasquale Saraceno, il suo presidente storico, non si è mai entusiasmata per i miti correnti sulla situazione del Mezzogiorno, i suoi problemi e le possibili soluzioni. E negli ultimi trent'anni di miti 'meridonalisti' ne abbiamo subiti tanti. Dalle cretinate sul piccolo imprenditore emergente, alle banalità sullo sviluppo a macchia di leopardo, ai distretti industriali trovati nel Mezzogiorno dappertutto (in particolare dove non c'erano) al grande ruolo della economia sommersa - con l'inutile, anzi dannoso, ruolo della Commissione per l'emersione (che non ha fatto emergere un bel nulla) - alla eliminazione dell'intervento pubblico per dare spazio al libero gioco del mercato, alle interpretazioni antropologiche e politologiche del mancato sviluppo e l'individuazione della causa principale nella classe dirigente locale - tesi quest'ultima sbandierata ai quattro venti in particolare dai rappresentanti della classe drigente medesima.
Così, di recente, l'Associazione non ha voluto ascoltare le sirene del federalismo ("federalsimo fiscale" nella dizione corrente) sottolineandone i rischi e indicando sempre interventi e prospettive di altra natura per lo sviluppo del Mezzogiorno e la riduzione del divario Nord-Sud (accresciutosi - come documentato - nell'ultimo decennio). Infatti, tornando ai disoccupati, nel rapporto è ben evidenziato come le cifre attuali non siano solo l'effetto della grande crisi finanziaria internazionale, bensì anche e soprattutto il risultato di scelte di politica economica che hanno penalizzato il Mezzogiorno negli ultimi anni. Ed è bene perciò tenere conto di entrambi gli aspetti - quello congiunturale e quello di più lungo periodo, nonché, ovviamente, dei loro intrecci.
Consideriamo gli effetti della crisi. La nota che anticipa le considerazioni generali del Rapporto di quest'anno (e che sarà distribuito a settembre) inizia come segue: «La grave recessione che ha colpito l'economia mondiale nel biennio 2008-2009 si è abbattuta pesantemente sull'intera economia nazionale, e ha mostrato i suoi effetti più pesanti, in termini di impatto sociale sui redditi delle famiglie e sull'occupazione, nelle regioni del Mezzogiorno. La lenta e difficile fuoriuscita dalla crisi dell'Italia ha interessato soprattutto le aree del Nord del Paese mentre il Sud, dopo la flessione del 2009, appare nel 2010 ancora in stagnazione». C'è dunque sia un effetto particolarmente grave della crisi, sia soprattutto la mancata ripresa. E non per caso: la ripresa si esprime con gli investimenti e questi nel Mezzogiorno sono stati particolarmente carenti. Infatti gli investimenti fissi lordi nel Centro Nord sono aumentati - segno indubbio di ripresa - del 3,5%, mentre l'aumento nel Mezzogiorno non ha raggiunto nemmeno l'1%.
Da notare che questa carenza non ha riguardato solo gli investimenti privati ma anche e soprattutto quelli pubblici: insomma su questo piano c'è stata discriminazione. In maniera molto asciutta la Svimez si esprime così: «Su tale risultato ha pesato sia la contrazione degli investimenti privati, conseguenza della crisi, sia soprattutto la forte contrazione degli investimenti pubblici, conseguenza delle manovre di finanza pubblica e della forte riduzione delle risorse in conto capitale dei fondi aggiuntivi per il Mezzogiorno (Fondo aree sottoutilizzate). Il risultato è ovvio: stagnazione o riduzione dei consumi e peggioramento delle condizioni di vita. La spesa delle famiglie (che esprime la ricchezza o la povertà della gente) è diminuita per effetto della crisi e della mancata politica di sviluppo attuale e precedente. Infatti le difficoltà delle famiglie «vanno al di là della congiuntura ma sembrano ulteriormente aggravarsi di recente in conseguenza delle consistenti perdite di posti di lavoro, che al Sud... spesso riguardano l'unico percettore di reddito all'interno del nucleo familiare». E ciò significa che nella disoccupazione meridionale di oggi bisogna contare non solo i «due giovani su tre», ma anche molti adulti capofamiglia.
A questo proposito giova ricordare che i dati eclatanti sulla disoccupazione nel Mezzogiorno e in particolare su quella giovanile sono tutt'altro che una novità dell'oggi. E, detto per inciso, a questi vanno aggiunti anche coloro, soprattutto donne, che escono dal mercato del lavoro per scoraggiamento. Se i dati di oggi si spiegano almeno parzialmente con la crisi degli anni precedenti, al 2008 meritano spiegazioni che riguardano la politica economica. Scartata ormai da tutti la tesi della rigidità dell'offerta di lavoro, per lo meno da quando sono riprese le emigrazioni, bisogna ricercare le cause nell'economia e soprattutto nella politica economica. Tra la fine degli anni '90 e la prima metà degli anni 2000 anche il Mezzogiorno aveva goduto in parte della crescita di occupazione legata al lavoro precario e in generale alla cattiva occupazione. Ora non c'è più neanche questo; i contratti precari di 5 o 6 anni addietro non si sono trasformati in occupazione stabile ma al contrario hanno dato adito a ulteriore disoccupazione.
Passiamo, per concludere, alle proposte sul tappeto e ai loro prevedibili effetti. «Se in un quadro di questo genere - si legge nel Rapporto - si inserisce anche la prospettiva di un avvio del federalismo fiscale che tende, per altri versi, a determinare effetti redistributivi parimenti sfavorevoli, la tenuta della società meridionale potrebbe rapidamente essere messa a dura prova». L'affermazione può apparire perentoria. Anzi, più precisamente, lo è. Ma essa è surrogata da tutta una vasta serie di studi condotti da studiosi meridionali da Domenicoantonio Fausto allo stesso Adriano Giannola (attualmente presidente della Svimez,) che mostrano - dati alla mano - i costi che il Mezzogiorno pagherebbe nel caso di realizzazione piena del paventato federalismo fiscale, così come cantato non solo dalla Lega e dal Pdl, ma anche da vasti settori del Partito democratico. E proprio una delle rivista della Svimez, la Rivista Giuridica del Mezzogiorno ha ospitato articoli con questo orientamento. Ciò che si mette in luce non è tanto la mancanza di senso di solidarietà nazionale che ha ispirato i provvedimenti in direzione del federalismo fiscale, quanto il carattere discriminatorio che essi assumono tendendo a concentrare la ricchezza nella parte del paese già ora più ricca. E già da ora meccanismi di finanza pubblica distribuiscono risorse a vantaggio nel Nord.
Che fare dunque? Secondo la Svimez «nella crisi il Sud ha pagato già un prezzo molto alto con tagli significativi alle risorse per investimenti; in generale è assolutamente prioritario arrestare la deriva ormai decennale di un Paese che sta consumando il proprio stock di dotazioni produttive. A questo fine va ripristinata la responsabilità attiva dell'operatore pubblico ... La ridefinizione di una politica di sviluppo deve essere una priorità nazionale complessiva che non può essere affidata alla spontanea allocazione del mercato ma rimanda ad interventi di politica industriale attiva volti a modificare nei prossimi anni la specializzazione produttiva del Paese». Insomma uguale, uguale l'opposto di quello che viene solitamente proposto.
IL GIOCO SI FA DURO
di Mario Pianta
Iniziamo da due (piccole) buone notizie. Una viene da Bruxelles: Olli Rehn, Commissario europeo all'economia, si è convinto che emettere eurobonds - titoli europei garantiti dal bilancio dell'Unione - sia una buona idea. Li vuole usare per stabilizzare il debito dei paesi fragili, mentre andrebbero destinati all'economia reale, a finanziare la riconversione dell'Europa a un'economia sostenibile; è comunque un passo avanti, resta da convincere la cancelliera tedesca Angela Merkel. L'altra notizia viene da Roma: il Pd di Bersani si dichiara contrario a inserire nella Costituzione l'obbligo del pareggio di bilancio. È una norma che azzererebbe le possibilità di politiche economiche proprio quando sono indispensabili, nel mezzo di crisi e depressione; un'imposizione tutta ideologica, venuta da Berlino e subito sostenuta, in un delirio quasi unanime sui media, da un arco che da destra arriva a Montezemolo e Veltroni.
In Europa c'è qualche apertura a contromisure che cambino alcune regole del gioco - aspettiamo ancora la tassa sulle transazioni finanziarie - e ieri gli acquisti della Bce di titoli di stato italiani e spagnoli hanno fatto scendere molto i tassi che dobbiamo pagare. In Italia, invece, il gioco si fa duro. Il vertice del Pd prova a smarcarsi da un pressing che potrebbe stritolarlo, quello del «governo tecnico (sopranazionale) che c'è già», annunciato dall'ex Commissario europeo Mario Monti sul Corriere della Sera. Il suo programma - ultraliberista - è stato scritto da Trichet e Draghi, l'attuale e il prossimo presidente della Banca centrale europea: liberalizzazioni, svendita delle proprietà e delle imprese pubbliche, meno protezioni sul mercato del lavoro e licenziamenti facili per tutti.
È questo «passaggio di sovranità» il prezzo che si chiede all'Italia di pagare per «tranquillizzare i mercati» - e risparmiare (forse) 50 miliardi di euro in tre anni di costi aggiuntivi per gli interessi sul debito dovuti agli alti spread rispetto ai tassi pagati dalla Germania.
Sotto la pressione dell'Europa, il governo Berlusconi (quello che crede di esserci ancora) prepara tagli senza precedenti a spesa pubblica e pensioni per arrivare al pareggio di bilancio nel 2013. Le "parti sociali" - industriali, banchieri, sindacati - chiedono discontinuità politica, ma presentano un piano che per metà ricalca quello di Trichet e Draghi. Tutti dimenticano che in questi decenni le liberalizzazioni non hanno portato a crescita e occupazione, ma solo a disuguaglianze e precarietà. Tutti dimenticano che appena due mesi fa gli italiani hanno scelto in quattro referendum di rifiutare la privatizzazione dell'acqua, il nucleare e la giustizia "fai da te"; ora si parla di liquidare come saldi estivi beni e servizi pubblici. Dalla crisi l'Europa e l'Italia possono uscire in un altro modo, ridimensionando la finanza, rilanciando produzioni sostenibili, redistribuendo la ricchezza. L'opposizione in parlamento, il sindacato, i movimenti possono definire quest'agenda diversa, disegnare un futuro comune, dare questi contenuti allo scontro delle prossime elezioni.
In gioco ormai c'è molto di più di qualche taglio al bilancio. Governi annunciati a mezzo stampa, programmi in lettere riservate, Costituzione da cambiare subito, risultati di referendum ignorati. Sembra un golpe di agosto contro la democrazia. Quella - fragile - italiana, ma anche quella - possibile - europea. La discussione sulla "rotta d'Europa" aperta da Rossana Rossanda sul manifesto e sbilanciamoci.info è più urgente che mai.
LE «PARTI SOCIALI»
DOMANI DA TREMONTI.
SENZA LA CGIL
di Roberto Tesi
Giulio Tremonti ha spedito alle parti sociali una breve nota. In una paginetta c'è scritto quello che occorre fare per ridurre il deficit per il prossimo anno all'1,6 e poi tentare di azzerarlo nel 2013. Insomma, sono delineate alcune idee per la manovra aggiuntiva, che per il 2012 sarà di circa 20 miliardi. Si tratta di ipotesi sulle quali stanno lavorando i tecnici del ministero dell'Economia e della Ragioneria generale dello stato. Forse Confindustria, Cisl e Uil ne sapranno di più in anticipo visto che domani mattina Tremonti dovrebbe incontrarli, facendo fuori la Cgil.
Giulio Tremonti ha spedito alle parti sociali una breve nota. In una paginetta scarsa c'è scritto quello che occorre fare per ridurre il deficit per il prossimo anno all'1,6 e poi tentare di azzerarlo nel 2013. Insomma, sono delineate alcune idee per il varo della manovra aggiuntiva. che per il 2012 sarà di circa 20 miliardi. Si tratta di alcune ipotesi sulle quali stanno lavorando i tecnici del ministero dell'Economia e quelli della Ragioneria generale dello stato. In quel foglietto, ovviamente, solo ipotesi e nulla di definitivo. Forse se ne saprà di più domani alle 15 nell'incontro tra governo e parti sociali. Forse Confindustria, Cisl e Uil ne sapranno di più in anticipo visto che domani mattina Tremonti dovrebbe incontrarli, facendo fuori la Cgil.
Il grosso della manovra (che sarebbe varata con decreto legge) riguarda un taglio di 10 miliardi alle agevolazioni fiscali, cioè alle deduzioni e detrazioni di spese che annualmente vengono inserite nel 730. La manovra originale varata circa un mese fa prevedeva, in realtà, la riforma (cioè tagli all'assistenza ( in particolare pensioni di invalidità e assegni per maternità) che costa all'Inps oltre 90 miliardi l'anno. Ma si tratta di una manovra complicata e delicata che richiede tempi lunghi (e lunghi studi) per essere approvata. E allora Tremonti ha deciso di far scattare subito una tranche della «clausola di salvaguardia» varata dal parlamento a metà luglio. La clausola consiste, per appunto, in tagli alle agevolazioni fiscali. Complessivamente queste agevolazioni costano al fisco (la cifra è stata determinata recentemente da una commissione mista) circa 160 miliardi di euro. I tagli sarebbero lineari, cioè in percentuale uguale per tutte le detrazioni o deduzioni. E altri 10 miliardi di agevolazioni fiscali verrebbero eliminate il prossimo anno se nel frattempo non venisse approvata la norma con i tagli all'assistenza. Si tratta di tagli brutali che potrebbero anche essere sopportabili se ci fosse una riforma complessiva del sistema del welfare. Così, invece, si fa solo cassa. Nota curiosa: i tagli delle agevolazioni per i contribuenti si risolvono nel pagamento di 10 miliardi di tasse in più e in un aumento della pressione fiscale. Tremonti non può sostenere di non metter le mani nelle tasche degli italiani.
Un intervento che potrebbe cambiare la vita di molte persone è quello previdenziale: sparirebbero già da 2012 le pensioni di anzianità. Per il 2010 (la riforma fu varata da Prodi con Damiano ministro del lavoro) è prevista la possibilità di andare in pensione a «quota 96». Ovvero con 60 anni di età e 36 di contributi, oppure con 61 anni e 35 di contributi. Dal 2013 la quota doveva essere innalzata a 97 invece, ma con la nuova proposta, in pensione si potrà andare (gli uomini) solo a 65 anni, oppure con meno anni, ma con 40 anni di contributi. Per le donne (gestione Inps), nulla cambierebbe. O meglio, si sta studiando un meccanismo di innalzamento dell'età pensionabile un po' più celere di quello previsto dal precedente decreto (i 65 anni a regime scatterebbero dal 2030) che porterebbe ai 65 anni nel 2020.
Nella nota di Tremonti non è previsto esplicitamente l'innalzamento di un punto dell'Iva che (evasione a parte) porterebbe un maggior gettito di 9 miliardi. La paura - espressa in primo luogo dalla Confindustria - è che possa dare una spinta all'inflazione. Tuttavia se - come sembra - nel terzo trimestre il Pil dovesse segnare una variazione negativa (e i prezzi smettessero di crescere per il rallentamento globale dell'economia, come sta accadendo per il petrolio) l'aumento dell'Iva potrebbe essere varato. Non in forma lineare, ma tenendo ferma l'Imposta sul valore aggiunto di alcuni beni primari e aumentando di due punti l'Iva per altri beni; quelli di lusso (ma il gettito è scarso) ma anche quelli nei quali l'Italia subisce la concorrenza dei prodotti dei paesi industrializzati che l'Iva la pagano direttamente all'importazione con molte difficoltà di evasione. Il piano Tremonti prevede anche una - molto piccola - riforma dell'imposta di successione: verrebbero ridotti gli attuali massimali di esenzione che attualmente sono fissati in un milione per ciascuno degli eredi diretti. Con una riduzione di un 30-40 per cento del massimale dell'esenzione, l'erario potrebbe incassare nel 2012 circa 3 miliardi in più.
Altra novità: si sta studiando anche la possibilità di una patrimoniale. Ma si tratterebbe di una micro patrimoniale, e non di una patrimoniale generale sugli immobili e la ricchezza mobiliare che anche con una piccola aliquota frutterebbe almeno 15 miliardi. La micro patrimoniale allo studio colpirebbe solo le seconde case. In pratica si tratterebbe solo una super Ici (il cui gettito andrebbe all'erario e non ai comuni) attuata elevando le rendite catastali e questo produrrebbe anche un maggior gettito Irpef.
Circola anche una idea un po' bizzarra: una specie di tassazione sulle transazioni finanziarie. Dovrebbe essere dello 0,5 per mille (50 centesimi ogni mille euro) e colpirebbe le transazioni realizzate non con i contanti (per i quali c'è un limite nei pagamenti fissato in 3.500 euro) ma quelle realizzate con bonifici, assegni, bancomat. Insomma, Tremonti sembra disposto a chiedere aiuto all'informatica che lascia sempre una tracciabilità.
PATRIMONIALE PRIMA DI TUTTO
E TAGLIAMO SUBITO DOPO I TORNADO
di “Sbilanciamoci”
In parallelo con la manovra di Tremonti, anche Sbilanciamoci.org ha presentato la sua. Se Tremonti e gli altri ministri del Tesoro ogni anno riempiono una stagione politica e parlamentare con quella che un tempo si chiamava finanziaria e ora più semplicemente manovra, da una decina di anni Sbilanciamoci ne propone un'altra, diversa in tutto tranne che nella cifra complessiva. Tremonti in luglio parlava di 50 miliardi da suddividere su tre anni, lasciando «furbescamente» agli ultimi due il peso di gran lunga maggiore.
La controfinanziaria, come è stata chiamata per tanti anni, la contro manovra come la chiamiamo adesso ha invece una distribuzione dei tempi e dei pesi del tutto diversa. Il primo anno, 2012, riceve più della metà del peso. In questo - solo in questo - la contro manovra potrebbe ricevere il plauso della Bce e dei suoi capi presenti e futuri, Trichet e Draghi.
Il manifesto ha pubblicato una pagina dossier dedicata al tema («E' tempo di sbilanci», 1 luglio 2011) e riporta così un passo del testo che racconta le misure previste: «In questa crisi i ricchi non stanno pagando alcun prezzo...Il prezzo della crisi ricade sulle fasce più povere della popolazione. Proponiamo perciò una tassa patrimoniale...» La tassa patrimoniale prevista arriva allo 0, 5% per i patrimoni superiori ai 3 milioni di euro. Le entrate sarebbero di 10,5 miliardi, tutti nel 2012.
Intorno a questa misura una tantum altre permanenti e capaci di rendere un po' più progressiva o meno iniqua la distribuzione dei carichi fiscali nel paese; ritocchi sopportabili per i redditi maggiori e però tali da migliorare la fiducia della grande maggioranza della popolazione nelle istituzioni comuni. E chi si fida sarà meno tentato dall'idea di salvarsi individualmente, «come fanno tutti».
Di fronte all'aumento del prelievo, per i redditi maggiori e per le rendite finanziarie che dovrebbero quasi raddoppiare, raggiungendo il livello europeo del 23%, dal 12,5% attuale, vi sarebbe un largo spazio ai tagli: spese militari, Tornado, Ponte sullo stretto e altre grandi opere; e così via.
Tremonti ha lasciato alla parte finale del triennio il carico maggiore, impegnando anche la legislatura che non gli compete, dopo le elezioni che si prevede e si spera, perderà. E lo ha fatto «furbescamente», come ha scritto nel suo testo Giulio Marcon, ispiratore della contro manovra. Lasciamogli la parola: «La reintroduzione dei ticket, l'inserimento dei costi standard nella sanità, la riduzione dei trasferimenti agli enti locali, il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione, l'intervento sulle pensioni stanno lì a dimostrare quanto ancora una volta il prezzo della crisi è pagato dalle fasce sociali più deboli...».
Invece di questo tipo di tagli che colpiscono la parte della popolazione più esposta alla crisi, vi sarebbe un altro genere di tagli e di misure in positivo e Marcon ne ricorda alcuni: «E' necessario ridurre del 20% la spesa militare e cancellare il programma di 131 cacciabombardieri F35 (che ci costano più di 16 miliardi di euro. Questi sono passi obbligati in tempo di crisi: in Germania e in Gran Bretagna sono state ridotte le spese militari, in Italia, ancora no. E servono misure per rilanciare l'economia attraverso un programma di "piccole opere" (cancellando Ponte sullo Stretto e Tav), di sostegno alla green economy (energie rinnovabili, mobilità sostenibile, agricoltura biologica, ecc.) di incentivo e difesa dei redditi, unica garanzia perché possa riattivarsi una domanda interna. In questo senso la lotta al precariato, il sostegno alle pensioni più basse, il recupero del fiscal drag e il reddito di cittadinanza sono misure assolutamente necessarie in questa fase».
Mentre la manovra di Tremonti è spazzata via dalla Bce, come tempistica e contenuti , la contro manovra Sbilanciamoci regge. Se ne accorgeranno alla Bce?
Temo che il piano del governo per rispondere alla bufera dei mercati non produrrà gli effetti sperati. Non solo per i limiti relativi alle politiche annunciate, né per le turbolenze globali. Oltre a tutto ciò, c’è un altro problema: noi. Gli italiani. E lui. Berlusconi. Insieme al governo "eletto dal popolo". In definitiva: il rapporto fra gli italiani e chi li governa. In parte, si tratta di una novità.
Gli italiani, infatti, nel dopoguerra, hanno sempre reagito alle emergenze, interne ed esterne. Basti pensare alla Ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando l’Italia divenne uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Gli italiani conquistarono il benessere, l’accesso all’istruzione di massa e ai diritti di cittadinanza sociale. Anche in seguito il Paese continuò a crescere. Soprattutto negli anni Novanta, grazie alle aree e ai settori in precedenza considerati "periferici". Le piccole imprese, il lavoro autonomo, le province del Nord, il Nordest. In quegli stessi anni, gli italiani reagirono alla crisi - economica e politica - affidandosi ai governi guidati da Amato e Ciampi, all’intesa tra il governo e le parti sociali. Gli italiani, allora, affrontarono manovre finanziarie il cui costo complessivo superò largamente i centomila miliardi di lire. E pagarono molto anche tra il 1996 e il 1998, quando al governo erano Prodi e (ancora) Ciampi. Per entrare nell’Europa dell’Euro. Per non restare esclusi dall’Unione - peraltro ancora incompiuta. Pagarono caro, tra molte proteste, comprensibili. Ma pagarono. Perché compresero che non c’era alternativa, se volevano mantenere il benessere e lo sviluppo conquistati con tanti sacrifici. Oggi - lo ripeto - dubito seriamente che riusciremmo nella stessa impresa. Che saremmo - saremo - in grado di affrontare gli stessi costi e gli stessi sacrifici. Con gli stessi risultati.
Ci ostacola, anzitutto, la nostra identità sociale. Il nostro "costume nazionale". Gli italiani, infatti, si sentono uniti dalle differenze, locali e sociali. Sono - siamo - un Paese di paesi: città, villaggi, regioni. L’Italia è, al tempo stesso, un collage, una "casa comune", dove coabitano molte famiglie. Appunto. Perché gli italiani si vedono diversi e distinti da ogni altro popolo proprio dall’attaccamento alla famiglia. E ancora, dall’arte di arrangiarsi. Cioè, dalla capacità di adattarsi ai cambiamenti e di rispondere alle difficoltà. E, ancora, dalla creatività e dall’innovazione. Un popolo di creativi, flessibili, attaccati alla propria famiglia, al proprio contesto locale. E, puntualmente, lontano dallo Stato, dalle istituzioni, dalla politica, dal governo. Una società familista, in grado di affrontare le difficoltà "esterne" di ogni genere. In grado di crescere "nonostante" lo Stato e la Politica.
Si tratta di una cornice condivisa, come ha dimostrato il consenso ottenuto dalle celebrazioni del 150enario. Ma è ancora in grado di "funzionare" come in passato? Penso di no. Il localismo, la struttura familiare e quasi "clanica" della nostra società: sono limiti alla costruzione di una società aperta, equa, fondata sul merito. Ostacoli a ogni tentativo di liberalizzare. Gran parte degli italiani, d’altronde, sono d’accordo sulle liberalizzazioni. Ma tutti, o quasi, pensano di trasmettere ai figli non solo la casa e il patrimonio, ma anche la professione, l’impresa e la bottega. E molti (soprattutto quelli che non hanno un lavoro dipendente) vedono nell’elusione e nell’evasione fiscale una legittima difesa dallo Stato inefficiente, esoso e iniquo. Il quale, da parte sua, non fa molto per allontanare da sé questo ri-sentimento.
Difficile, in queste condizioni, rilanciare la crescita, abbassare il debito pubblico, imporre il pareggio di bilancio. Anche se venisse imposto per legge. Anzi: con norma costituzionale.
Eppure - si potrebbe eccepire, legittimamente - in passato questo modello ha funzionato. Già: in passato. Quando eravamo (più) poveri. Quando dovevamo conquistare il benessere e un posto di riguardo, nella società. Per noi e i nostri figli. Quando la nostra economia e il nostro Paese dovevano guadagnare peso e credibilità, sui mercati e nelle relazioni internazionali. A dispetto dei sospetti e dei pregiudizi nei nostri confronti. Ma oggi non è più così. Non abbiamo più la rabbia di un tempo. Semmai: la esprimiamo nei confronti dello Stato e degli altri. Gli stranieri. E in generale: verso gli altri italiani. Sempre più stranieri ai nostri occhi.
Poi, soprattutto, è da vent’anni che il localismo, il familismo e il bricolage sono andati al potere. Interpretati dal partito delle piccole patrie locali: Nord, Nordest, regioni, città e quant’altro. E dal Partito Personale dell’Imprenditore-che-si è-fatto-da-sé. È da 10 anni almeno che lo Stato è stato conquistato da chi considera lo Stato un potere da neutralizzare. Da chi ritiene le Tasse e le Leggi degli abusi. È da 10 anni almeno che il pessimismo economico è considerato un atteggiamento antinazionale, un sentimento esecrabile che produce crisi. È da 10 anni almeno che "tutto va bene", l’economia nazionale funziona, la disoccupazione è più bassa che altrove (non importa se è sommersa nell’informalità). E se oggi la nostra borsa e la nostra economia arrancano affannosamente - certo, insieme alle altre, ma molto, molto più di ogni altra - la colpa non è nostra, figurarsi. Ma degli altri: i mercati e gli speculatori - cioè, lo stesso. Perché non ci capiscono. Non tengono conto dei nostri "fondamentali", solidi e forti.
Così dubito che gli italiani siano davvero in grado di affrontare la sfida di questo momento critico. Al di là delle colpe altrui, anche per propri limiti. Perché non hanno - non abbiamo - più il fisico e lo spirito di una volta. Perché oggi essere familisti, localisti, individualisti - e furbi - non costituisce una risorsa, ma un limite. Perché la sfiducia nello Stato e nelle istituzioni, oltre che nella politica e nei partiti: è un limite. (E non basta la fiducia nel Presidente della Repubblica a compensarlo.) Perché l’abbondanza di senso cinico e la povertà di senso civico: è un limite. Perché se a chiederti di cambiare è un governo fatto di partiti personali e di persone che riproducono i tuoi vizi antichi: come fai a credergli?
Perché, in fondo, questo Presidente Imprenditore - e viceversa - in campagna elettorale permanente, quando chiede sacrifici, rigore, equità, non ci crede neppure lui. Strizza l’occhio, come a dire: sacrifici sì, ma domani… Basta che paghino gli altri.
Peccato che domani - anzi: oggi - sia già troppo tardi. E gli altri siamo noi.
L’arte di arrangiarsi stavolta non ci salverà. Tanto meno Berlusconi.
Siamo abituati a pensare che ad ogni problema corrisponda una soluzione. Ma ci sono anche rebus che non hanno soluzioni: ad esempio la quadratura del cerchio, o l'equazione di quinto grado. Fra i rebus senza soluzione, a mio parere, c'è anche il problema politico italiano, almeno per ora.
Possiamo prendercela fin che vogliamo con la speculazione, l'irrazionalità dei mercati finanziari, la perfidia delle agenzie di rating (è di ieri la notizia che, per la prima volta, il debito statunitense ha perso la tripla A, almeno nel giudizio di Standard & Poor's). Ma la realtà è che, anche se i mercati si dessero una calmata (cosa che prima o poi succederà), né il mondo, né l'Europa, né l'Italia avrebbero per ciò stesso risolto i loro problemi. Le malattie che la febbre dei mercati mette in evidenza sussistono indipendentemente dal nervosismo dei mercati stessi. E si tratta di malattie molto gravi.
Il mondo è malato perché, dopo aver goduto dei benefici della globalizzazione, non ha trovato - né forse ha veramente cercato - il modo di contenerne alcuni drammatici effetti collaterali, come l'amplificazione degli squilibri economici fra Paesi e l'ipertrofia dei mercati finanziari.
Mercati che sono arrivati a pesare 8 volte il Pil mondiale e quindi (come notava sabato Morya Longo su Il Sole 24 Ore) ormai in grado di incidere sui fondamentali delle economie, anziché limitarsi a misurarne più o meno accuratamente lo stato di salute. E non va certo ad onore della classe dirigente mondiale il fatto che, a quattro anni dallo scoppio della crisi, così poco sia stato fatto per riportare un po' di ordine e di trasparenza nelle transazioni finanziarie.
L'Europa è malata perché è come l'Italia. L'edificio dell'euro non funziona per gli stessi motivi per cui non ha funzionato l'unità d'Italia. Quando si impone un mercato e una moneta unica a territori che hanno enormi divari di produttività, di modernizzazione, di cultura civica, solo un processo di convergenza economica e sociale accelerata può evitare la formazione di squilibri drammatici. L'unificazione monetaria, infatti, sopprime l'unico meccanismo di riequilibrio incisivo, ossia la svalutazione della moneta nazionale. Private della possibilità di svalutare, le economie deboli tendono a importare più di quanto esportino, ed accumulano deficit e debiti pubblici sempre più grandi per potersi permettere un tenore di vita che va al di là di ciò che il Paese effettivamente produce.
In queste condizioni, per contenere gli squilibri c'è solo la via della modernizzazione del territorio più debole, ma questa via - in Europa - è stata percorsa pienamente solo da alcuni Paesi dell'Est, e segnatamente dalla Germania orientale nell'ambito della riunificazione tedesca. Le economie deboli del Mediterraneo - Italia, Spagna, Grecia, Portogallo - sono entrate tutte nell'euro, ma ben poco hanno fatto per meritarsi l'appartenenza all'eurozona. Un processo molto simile a quello che, nell'Italia repubblicana, ha fatto fallire tutti i tentativi di annullare il divario fra Nord e Sud del Paese. Con una differenza importante: che non esistendo un mercato dei titoli di Stato delle Regioni, le nostre nove regioni in deficit (Lazio più tutto il Sud) hanno potuto mascherare il loro status di territori-cicala molto più a lungo di quanto siano riuscite a fare Grecia, Portogallo, Spagna e Italia.
Quanto all'Italia, la sua malattia è simile a quella delle altre economie deboli, ma presenta almeno due complicazioni importanti. La prima è che una parte del Paese, ovvero tutto il Nord inclusa l'Emilia Romagna (ma esclusa la Liguria), ha istituzioni di livello europeo, e tassi di crescita più bassi del resto d'Europa solo perché - attraverso il massiccio prelievo fiscale cui è soggetta - è costretta a sostenere i consumi delle regioni meno produttive.
La seconda complicazione è la nostra classe dirigente, che - a mio parere - ha cessato di essere tale intorno al 1998, appena perfezionato il nostro ingresso in Europa. La stagione che va da Mani pulite e dal tracollo della lira (1992) alla caduta del primo governo Prodi (1998) fu ancora, nonostante vari limiti ed incertezze, una stagione di riforme, di cambiamenti, di tentativi di modernizzazione. E lo fu indipendentemente dal colore politico dei governi, e con il contributo sofferto, ma tutto sommato costruttivo, delle principali forze sociali, a partire dai sindacati. Non così il dodicennio che va dal 1999 ad oggi, in cui la nostra classe dirigente ha progressivamente abbassato le ambizioni riformiste, fino allo stallo degli ultimi due esecutivi (Prodi e Berlusconi), capaci di competere fra loro solo nell'arte del non governo.
Ed eccoci arrivati al perché il rebus politico italiano non ha alcuna soluzione. Il governo Berlusconi ha negato sistematicamente la gravità della situazione, e proprio sulla base di questa diagnosi errata ha ritenuto di potersi permettere una manovra risibile, in cui l'85% dell'aggiustamento necessario per azzerare il deficit veniva scaricato sulle spalle dei governi futuri. Sarebbe stato stupefacente che i mercati non si accorgessero del bluff. Ed è un bene (o meglio è il male minore) che l'Europa, imponendo l'anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, abbia di fatto commissariato l'Italia, sostituendosi a un governo paralizzato. Dunque è vero, questo governo è diventato un problema, se non il problema.
Il nostro guaio, sfortunatamente, è che questa opposizione - anzi queste opposizioni - non sono la soluzione, ma una parte del medesimo problema. E' almeno due anni che l'opposizione è convinta dell'inadeguatezza di questo governo, ma neppure in un tempo così lungo è stata in grado di approntare una diagnosi condivisa e una terapia credibile. E' scoraggiante, in questi giorni, leggere sui giornali la cacofonia di valutazioni e di proposte che arrivano da ogni angolo del cantiere delle opposizioni. E ancora più scoraggiante è la genericità, per non dire il vuoto spinto, dei documenti delle cosiddette parti sociali.
La realtà è che nessuno, oggi, è in grado di dire se le attuali opposizioni sarebbero capaci di formare un governo, e tantomeno che cosa un tale governo ci riserverebbe, al di là delle solite chiacchiere su costi della politica, lotta agli sprechi, contrasto all'evasione fiscale. Eppure il rebus è chiaro: se non vogliamo essere in balia dei mercati bisogna trovare 50 miliardi di euro (più tasse e meno spese), e inoltre bisogna trovarli senza provocare né una recessione né una rivolta sociale.
Ecco perché penso che il rebus sia insolubile. Un'impresa come quella oggi richiesta all' Italia potrebbe tentarla solo una classe dirigente credibile. Dove per credibile non intendo solo un po' meno corrotta e squassata dagli scandali, ma soprattutto più lucida, più unita, più coraggiosa, meno ossessionata dalla ricerca del consenso a breve termine. L'immobilismo e l'impotenza di Berlusconi sono diventati il problema dell'Italia, ma la tragedia del Paese è che le opposizioni non hanno usato il lungo tempo del crepuscolo berlusconiano per diventare, esse, la soluzione che il Paese attende.
Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo un po' provocatorio, Il capitalismo ha i secoli contati, e presiede il Centro Europa ricerche (Cer). Di fronte a questa crisi che dici?
Dico che la conta si è accelerata. Continuo a non parlare di crollo, ma è certo che la crisi, la più grave dagli anni trenta del secolo scorso, segna un momento di profonda trasformazione.
Ma qualcosa è cambiato nel nostro capitalismo?
A tre quarti del secolo scorso c'è stata una vera e propria mutazione. Siamo passati dal capitalismo manageriale al capitalismo finanziario. Il primo aveva accettato di subordinare le prospettive di profitto a una politica dei redditi che sanciva un compromesso storico tra democrazia e capitalismo, con il passaggio dalla massimizzazione alla normalizzazione del profitto. Oggi siamo tornati a un regime di esasperata massimizzazione del profitto e nel più breve periodo, con la conseguenza di una mostruosa esplosione delle diseguaglianze. Le conseguenze devastanti di quelle diseguaglianze sulla compressione della domanda sono state evitate ricorrendo massicciamente all'indebitamento, come dire ai posteri. Con la conseguenza di uno sfrenato aumento della liquidità. Alla vigilia della crisi, nel 2007, la liquidità mondiale aveva raggiunto un livello dodici volte superiore al prodotto reale mondiale, di qui la crisi che ha coronato la controffensiva capitalistica. La controffensiva capitalistica è iniziata negli anni '70 con il distacco del dollaro dall'oro ed è esplosa negli anni '80 con la liberalizzazione del movimento mondiale dei capitali, liquidando gli accordi di Bretton Woods, che garantivano, con le limitazioni al movimento dei capitali, le politiche macroeconomiche dei governi. Con la controrivoluzione tatcheriana e reaganiana sono stati ribaltati sia i rapporti di forza tra capitalismo e stati nazionali, sia quelli tra capitale e lavoro. E' finita quella che un grande storico marxista come Hobsbawn aveva definito l'età dell'oro.
Ma c'è qualche differenza tra questa crisi e quella del '29?
Certamente. A fronteggiare quella crisi ci fu l'intervento pubblico: il new deal rooseveltiano e a destra la crescita dello stato in Germania e in Italia, pensa solo all'Iri e alla nazionalizzazione delle banche. Non dimentichiamo il catastrofico ma risolutivo peso della seconda guerra mondiale. Oggi la situazione è molto diversa: dappertutto cresce il debito pubblico. Il peso di un gigantesco salvataggio è stato tutto posto sugli Stati, senza toccare minimamente i redditi e il potere della nuova plutocrazia finanziaria. E al danno si aggiunge anche la beffa: banchieri e finanzieri rimproverano duramente gli stati per un indebitamento che è in gran parte dovuto al loro salvataggio. Non solo: come ci avverte De Cecco, ci sono banche che si sono messe a speculare sul default dello Stato.
In questa crisi generale c'è uno specifico italiano?
Sì, l'incertezza e il teatrale e repentino cambio di marcia sulla manovra, messo in scena dal presidente del Consiglio e dal ministro dell'Economia, tradisce l'incertezza esistenziale di questo governo, ma non altera l'impostazione della manovra. Il suo punto critico non stava nell'entità e nei tempi (secondo i calcoli del Cer, 105 e non 80 miliardi di euro come si è detto, e non tutti concentrati alla fine, ma equamente distribuiti negli anni) e non si risolve con anticipazioni. I suoi punti critici stanno anzitutto nella credibilità di un governo, il cui presidente ha negato per anni la crisi, minimizzandone poi l'importanza fino all'altroieri e, soprattutto nell'impostazione iniqua e recessiva della manovra. Il fatto grave è appunto che la manovra è recessiva, non stimola ma frena la crescita. E ciò essenzialmente per effetto delle restrizioni fiscali, che costituiscono poco meno dei due terzi delle correzioni previste. Una grande manovra avrebbe richiesto (vedi la proposta di Giuliano Amato) un'imposta patrimoniale straordinaria accompagnata dal vincolo immediato del pareggio di bilancio e dalla utilizzazione del prelievo in un forte programma di investimenti e ricerca. Questo dovrebbe proporre la sinistra, che trema al solo pensarci.
Ma in tutto questo non c'è anche una crisi della politica e della cultura?
Quel che oggi rimane della sinistra appare piuttosto inquinato da una cattiva imitazione dai «valori» e dalle pratiche del mercato. Nessuna traccia di un progetto umano ideale alla Marx. Nessuna traccia di un riformismo pratico alla Keynes che fissi le regole di un'economia ecologicamente, socialmente e moralmente giusta.
A tanti anni di distanza che dici della caduta del Muro di Berlino?
Fatte tutte le considerazioni del caso mi verrebbe da dire che il socialismo reale (cosiddetto) che c'era prima era un disastro e che un altro disastro lo ha sostituito. Finito il socialismo reale c'è stato lo scatenamento, in economia, delle pulsioni speculative. Non c'era più il nemico e si poteva fare di tutto. E quel che è stato fatto ci ha portato alla condizione attuale.
Hobsbawm, che tu hai citato, dice che bisogna tornare a Marx. Condividi?
Non certo al suo programma, fallimentare, ma alla sua ispirazione ideale e al suo metodo di analisi storica certamente sì. Magari ci fosse. E magari ci fosse un Keynes che traducesse quella ispirazione in buon riformismo liberale e socialdemocratico. Io voterei per loro.
Politico e economista, Giorgio Ruffolo è presidente del Centro Europa ricerche, che realizza studi e analisi di economia applicata e fornisce ad autorità nazionali e internazionali valutazioni e commenti su prospettive economiche e tendenze della finanza pubblica. Il Cer svolge inoltre attività di ricerca, formazione e consulenza per istituzioni e amministrazioni pubbliche, aziende bancarie e assicurative, industrie, associazioni di categoria.
La Cgil lacerata sui «sei punti»
di Antonio Sciotto
All'incontro di giovedì con il governo imprese e sindacati si sono presentati con una proposta comune per superare la crisi Malcontento tra le categorie e nella stessa maggioranza per il testo presentato al governo insieme alla Confindustria-Fronti opposti sulle privatizzazioni, la tassa patrimoniale, il pubblico impiego. «Tornare al Direttivo»
Si accende lo scontro dentro la Cgil sul documento in 6 punti presentato al governo, firmato due giorni fa dalla segretaria generale Susanna Camusso con la Confindustria, ma sgradito a una parte della confederazione. In particolare, vengono criticati i passaggi sulle privatizzazioni (che comunque la segretaria ha già ribadito di non condividere), sull'aumento della produttività della pubblica amministrazione (soprattutto a fronte di un governo che ha congelato salari e integrativi), e si contesta un deficit di democrazia, non essendo passata la decisione al vaglio del Direttivo. Dall'altro lato, chi sostiene la linea Camusso, spiega che «il momento è grave, l'Italia rischia il default, e si deve dimostrare senso di responsabilità».
«Il documento è inaccettabile - dice Gianni Rinaldini, dell'area di minoranza «La Cgil che vogliamo» - Così come è inaudito che la Marcegaglia possa presentare delle proposte anche a nome e per conto dei sindacati: un'umiliazione della Cgil». «Privatizzazioni, liberalizzazioni, modernizzazione del welfare, rendere strutturale la detassazione e la decontribuzione dei premi di risultato aziendali senza nulla dire sulla tassazione del lavoro dipendente e degli aumenti retributivi dei contratti nazionali, esprimono una idea, una esplicita volontà punitiva sui più deboli», prosegue Rinaldini, che chiede ora a Camusso di «sospendere gli incontri e convocare gli organismi dirigenti». «Bisogna smetterla di trattare la Cgil - conclude - come se fosse proprietà esclusiva di 2 o 3 dirigenti».
Dalla Fiom, dal suo leader Maurizio Landini, per ora non vengono dichiarazioni esplicite: ma si sa che i metalmeccanici Cgil sono parte integrante della minoranza (tre quarti di loro votò la mozione Rinaldini al Congresso), e non si fa fatica a immaginare che siano contrari al documento. Un netto «no» arriva da un'altra categoria, quella di scuola, ricerca e università, la Flc: lo declina il segretario Mimmo Pantaleo nell'intervista che pubblichiamo in queste pagine.
Molto articolate anche le critiche di Nicola Nicolosi, segretario confederale della Cgil e coordinatore di «Lavoro e società», che dopo aver sempre difeso, dal passato Congresso, le posizioni di Susanna Camusso, adesso si smarca: «Il documento non mi vede d'accordo - spiega in una lunga nota - Altro che bilancio pubblico: il problema dell'Italia è quello di una crescita che non permette il pagamento o la sostenibilità del debito. Se poi anticipassimo le misure fiscali previste in manovra, con l'assurda richiesta di "costituzionalizzare" il pareggio di bilancio pubblico, l'Italia cadrebbe dalla recessione alla depressione». «I contenuti delle proposte delle parti sociali sono l'esatto contrario di quello che servirebbe al paese - conclude Nicolosi - Il parlamento europeo ha proposto una tobin tax, la Cgil da parte sua la patrimoniale. Questo è il programma della Cgil, di cui non c'è traccia in quei 6 punti».
Intanto nei giorni scorsi si era espressa contro una nuova concertazione «tutta ai danni di lavoratori, giovani e pensionati», anche Carla Cantone, segretaria dello Spi Cgil, i pensionati: «È vero che nei momenti molto delicati ci vuole un grande senso di responsabilità, e la Cgil nella sua storia non si è mai sottratta - ha detto Cantone - Ora però basta: non si possono chiedere più sacrifici alle categorie che rappresentiamo senza parlare di equità. Neanche se a chiedercelo sono le opposizioni o la Confindustria».
Posizioni di contrarietà cominciano a emergere anche nei territori: Antonio Mattioli, segretario della Cgil dell'Emilia Romagna, è molto critico rispetto al documento delle parti sociali: «Ci infiliamo in un confronto diventato urgente per altri, per la Cgil lo era sin dallo sciopero generale del 6 maggio, senza sottolineare le nostre priorità: la patrimoniale, la restituzione del fiscal drag, una riforma del pubblico impiego che sblocchi la contrattazione, una riforma della scuola e della ricerca contro le politiche depressive del governo, una lotta alla piaga della precarietà. Si doveva convocare il Direttivo e assumere le nostre priorità a partire dalla piattaforma dello sciopero del 6 maggio e dal giudizio espresso il 5 luglio sulla manovra».
Ieri la segretaria Susanna Camusso ha difeso la sua firma al documento in una intervista a Repubblica, dove chiede le dimissioni del presidente del consiglio e dice no a un anticipo della manovra, «perché è sbagliata e iniqua». Inoltre, Camusso ribadisce la contrarietà alle privatizzazioni, nonostante esse siano contenute tra i 6 punti.
Sostiene questa posizione, tra i segretari di categoria, Stefania Crogi, leader della Flai (agroindustriali): «Io condivido in pieno quel documento - ci spiega - perché dobbiamo capire che l'Italia è in un momento delicatissimo, rischiamo il default, da poco si è espresso anche il presidente della Repubblica Napolitano: a chi chiedeva un Direttivo, dico di guardare all'urgenza del momento, a come sta messo il paese». «Sulle privatizzazioni - dice Crogi - mi pare che Camusso abbia chiarito, nell'intervista a Repubblica, che fanno male: d'altra parte tutti hanno visto il nostro impegno negli ultimi referendum. Anche sulla patrimoniale, dico che resta tra le nostre priorità, seppure non sia stato scritto esplicitamente nel documento: quando si parla di reperire risorse per un'equa tassazione del lavoro, per noi significa tassare i più ricchi. È importante in un momento come questo tenere l'unità sindacale e tra tutte le parti sociali, mentre al governo e al premier chiediamo di andarsene, per tornare a votare».
Mimmo Pantaleo/ Il segretario della FLc contesta la firma
intervistadi Loris Campetti
«Metodo e contenuti sbagliati. Il testo comune va in direzione opposta alla nostra linea»
«Tutti insieme per fare che? La Cgil deve battersi in difesa dei beni comuni e del welfare, per la redistribuzione della ricchezza attraverso l'imposta patrimoniale»
Mimmo Pantaleo è segretario generale della Federazione lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil, prima mozione congressuale, quella maggioritaria che ha espresso Susanna Camusso. La sua appartenenza non gli impedisce di esprimersi liberamente sull'alleanza tra le «parti sociali»: Confindustria, confederazioni sindacali, rappresentanze del sistema bancario, agricolo, cooperativo, artigianale. Pantaleo non lesina critiche e mette a nudo i contenuti «inaccettabili» del documento presentato al governo Berlusconi e firmato anche da Susanna Camusso. E critica il metodo che ha portato a qesta decisione.
Pantaleo, è cambiata la linea della Cgil?
Io sto ai contenuti. Nel direttivo nazionale si è deciso di dare una battaglia dura contro la finanziaria Tremonti-Berlusconi che provoca un massacro sociale e si sono fissati i punti fondamentali della Cgil per dare una risposta alternativa alla crisi: patrimoniale per far pagare ai ricchi i costi della crisi; difesa dei beni comuni e del welfare; investimenti nella ricerca e nella conoscenza; difesa dei redditi da lavoro dipendente e da pensioni con un riequilibrio nella distribuzione della ricchezza; aumento della tassazione delle rendite finanziarie. Nel documento presentato dalla Marcegaglia leggo l'opposto, vedo una filosofia e delle scelte concrete che vanno in tutt'altra direzione. Lo sappiamo tutti che in una situazione d'emergenza, alle prese con un governo incapace e dannoso, vanno costruite proposte e iniziative, ma certo non sottoscrivendo impegni contrari alle posizioni della Cgil.
Come è maturata la scelta della Camusso?
Posso solo risponderti che io sono abituato alla scuola della Cgil che prevede grandi discussioni nei gruppi dirigenti per costruire le scelte importanti. Di questa cultura non ho visto traccia nel percorso che ha portato al patto tra le parti sociali e al documento comune. Alla ripresa di settembre il direttivo dovrà finalmente discuterne.
E nel merito del patto e del documento?
Non credo che esistano le condizioni per un patto sociale con Confindustria e banche, non c'è condivisione nelle strategie tra gli interlocutori. Coloro con cui abbiamo firmato il documento vogliono privatizzazioni, controriforme del mercato del lavoro e delle relazioni sindacali, liquidazione dello Statuto dei lavoratori. In quale dispositivo della Cgil sta scritto che noi siamo d'accordo? Non hanno certo il lavoro in mente i nostri cofirmatari. Noi, al contrario, dovremmo mettere in campo una forte mobilitazione per una nuova idea di crescita e sviluppo. Non serve adorare il totem della crescita, bisogna parlare di qualità e compatibilità della crescita. Vorrei aggiungere che quanto nel documento «comune» si esalta l'impegno di banche e imprese, noi dovremmo replicare che la drammaticità della crisi italiana è anche il prodotto delle scelte di banche e imprese.
All'inizio si era detto che l'accordo delle parti sociali era finalizzato a determinare una discontinuità di governo. Adesso sono rimasti in pochi a dire che Berlusconi se ne deve andare.
Che un presidente arrogante e un governo disastroso debbano andarsene per aprire la strada a nuove elezioni siamo tutti d'accordo in Cgil. Governi di transizione o governissimi sarebbero in continuità con Berlusconi. Per la Cgil l'alternativa, credo, è nei contenuti e il primo è far pagare la crisi e il risanamento ai ricchi. Con le operazioni politiciste non si va da nessuna parte. La gente chiede un cambiamento vero. Lo chiede a noi, e lo chiede soprattutto alla politica, all'opposizione.
La Cgil ha firmato un mese fa un accordo con Cisl, Uil e Confindustria che va nella stessa direzione del patto sociale...
Sinceramente non vedo questa continuità. Con tutti i suoi limiti, l'accordo sul sistema contrattuale e la rappresentanza, discutibile quanto vogliamo, ha una valenza sindacale. Io per esempio penso che i lavoratori debbano poter votare sempre sugli accordi che li riguardino. Ora, invece, vedo una valenza puramente politica, di cattiva politica nel patto e nel documento delle parti sociali. Tutti insieme per fare che? Ridurre lo stato sociale? Privatizzare i beni comuni? Parliamo di cose serie, e siccome siamo la Cgil parliamo di occupazione, lotta al precariato, diritti, salari, Mezzogiorno.
Sabato scorso, durante la manifestazione svoltasi a Gerusalemme, mi sono guardato intorno e ho visto nelle strade un fiume di gente. Migliaia di persone che da anni non facevano sentire la propria voce. Che, chiuse nei loro problemi e nella loro disperazione, avevano perso ogni speranza di un cambiamento.
Non è stato facile per loro unirsi alle urla ritmate dei giovani coi megafoni. Forse, non essendo abituate ad alzare la voce, si sono sentite imbarazzate, timorose di gridare. E in coro per di più. A tratti avevo l´impressione che ci guardassimo stupiti, perplessi e un po´ increduli di ciò che ci usciva di bocca: eravamo davvero una "folla" rabbiosa che agita i pugni come nelle manifestazioni in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Grecia? Volevamo essere una folla come quella? Avevamo intenzioni serie quando gridavamo a ritmo cadenzato "ri-vo-lu-zio-ne!"? E che accadrà se avremo "troppo successo"? Se i cerchi che tengono insieme questo fragile Paese si spezzeranno? Se le contestazioni e l´impeto si trasformeranno in anarchia?
Ma dopo qualche passo è successo qualcosa, qualcosa che è entrato nel sangue. Il ritmo, lo slancio, l´essere insieme. Non un "insieme" minaccioso e senza volto ma un insieme multiforme, sfaccettato, confuso, famigliare, pervaso da un forte senso di "ecco, stiamo facendo la cosa giusta, finalmente stiamo facendo la cosa giusta". E a quel punto è affiorato lo stupore: dove siamo stati finora? Come abbiamo potuto lasciare che tutto questo accadesse? Accettare che i governi da noi eletti trasformassero la nostra salute e l´istruzione dei nostri figli in un lusso?
Non levare un grido quando i funzionari del ministero del Tesoro schiacciavano la protesta degli assistenti sociali e ancor prima quella dei disabili, dei sopravvissuti alla Shoah, degli anziani, dei pensionati? Come abbiamo potuto, per anni, condannare i bisognosi e gli affamati a una vita di umiliazione e delegare la loro assistenza alle mense dei poveri, agli enti di carità? Come abbiamo potuto abbandonare i lavoratori stranieri alle angherie di oppressori e persecutori, di mercanti di schiavi e di donne? Come abbiamo potuto rassegnarci a una prepotente politica di privatizzazione che ha sgretolato tutto ciò che avevamo caro: la solidarietà, la responsabilità e l´assistenza reciproca, la sensazione di appartenere a un solo popolo? I motivi di questa indifferenza sono molti, si sa, ma a mio parere ciò che ha sconvolto più di ogni altra cosa i sistemi di controllo e di allerta della società israeliana è stata la profonda spaccatura generata dall´occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Occupazione che ha fatto affiorare i lati negativi e malati della nostra società e noi, forse per paura di affrontare ad occhi aperti la realtà, ci siamo abbandonati con entusiasmo a ogni genere di narcotizzanti e di anestetizzanti. A volte guardavamo in faccia la realtà. A qualcuno piaceva molto, altri ne erano inorriditi e disgustati. Ma anche questi dicevano sospirando: le cose stanno così. Quasi questa fosse una situazione ineluttabile, un castigo divino. E oltretutto abbiamo permesso alle televisioni commerciali di riempire il vuoto della coscienza collettiva descrivendoci in termini di predatori in lotta per la sopravvivenza che si accaniscono gli uni contro gli altri disprezzando i deboli, i diversi, i "brutti", gli "stupidi", i "poveri". Da tanti anni ormai abbiamo smesso di dialogare, e sicuramente di ascoltare. Come sarebbe infatti possibile in questo clima di "arraffa più che puoi" non aggredirci a vicenda, razziare? In fin dei conti è quello che ci dicono di fare in tutti i modi possibili: ognuno per sé.
E più queste incessanti schermaglie ci indebolivano più era facile controllarci, manipolarci, stordirci, vittime di un occulto ed efficace "divide et impera". E così, per i detentori del capitale, del potere e degli organi di stampa, l´occuparsi di questioni cruciali si trasformava in uno scontro tra "chi ama il Paese e chi lo odia", "chi gli è fedele e chi lo tradisce", "chi è un buon ebreo e chi ha dimenticato di esserlo". Ogni dibattito razionale finiva immerso in uno sciroppo di sentimentalismo, di patriottismo e di nazionalismo kitsch, di ipocrita virtuosità e di vittimismo. Un poco alla volta ci è stata preclusa la possibilità di criticare lucidamente ciò che stava accadendo. Israele si è ritrovato a mantenere verso i propri cittadini un atteggiamento totalmente in contrasto con i suoi valori e ideali di un tempo.
Ma ecco che, improvvisamente e contrariamente a ogni previsione, è accaduto qualcosa. La gente si è svegliata, si è aperta a un´iniziativa che ancora non si sa dove ci porterà, che non è ancora del tutto comprensibile o descrivibile a parole ma che si chiarisce e prende forma leggendo gli slogan che, usciti d´un tratto dal guscio dei cliché, si trasformano in sentimenti vivi: "Il popolo vuole giustizia sociale, non carità!", e altre frasi e formule di epoche passate. A tratti, nell´aria, si avvertono i segnali di una possibile guarigione, di una rettifica, e torna qualcosa di dimenticato: il rispetto per noi stessi. Per il singolo e per tutto Israele.
C´è una forza enorme, un po´ illusoria e inebriante, in questo risveglio. Sarebbe allettante farsi trascinare dall´euforia (e da una sensazione di rinnovata gioventù). Sarebbe facile cadere nell´illusione che stiamo di nuovo distruggendo il vecchio mondo. Ma le cose non stanno esattamente così. Il vecchio mondo non è del tutto da buttar via. Ha ottenuto anche dei buoni risultati, soprattutto nel mantenere la stabilità economica mentre altre nazioni collassavano. Risultati che, peraltro, permettono ora al movimento di protesta di manifestare liberamente le proprie aspirazioni nonché di realizzarne qualcuna. Per questo l´attuale lotta deve esprimersi in un linguaggio totalmente diverso da quello delle precedenti. Più di ogni altra cosa deve basarsi sul dialogo, accomunare e non dividere, incentrarsi sui princîpi, non su opportunismi e consorterie. Solo così l´attuale iniziativa potrà mantenere il grande sostegno pubblico che ha avuto finora. Proprio la genericità del movimento di protesta permette a ogni gruppo che ne fa parte di mantenere le proprie idee politiche e convinzioni, contrarie le une alle altre, eppure – per la prima volta in decenni – di promuovere anche una piattaforma comune, civile e umana, e persino provare orgoglio di appartenere a questa comunità. Chi in Israele potrebbe permettersi di rinunciare a risorse enormi come queste?
L´attuale movimento di protesta e la sua onda d´urto propongono un possibile dialogo tra chi, da decenni, non si parla più. Tra classi sociali diverse e distanti, tra religiosi e laici, tra arabi ed ebrei. In questo processo di possibile identificazione comune potrebbe svilupparsi un dialogo più realista ed empatico tra la destra e la sinistra, per esempio riguardo all´indifferenza della sinistra verso gli evacuati dalla striscia di Gaza. Un dialogo che potrebbe anche salvare qualcosa del senso di solidarietà reciproca al quale un paese come il nostro non può permettersi di rinunciare.
È facile criticare e dubitare di un movimento giovane. In genere è sempre più facile trovare ragioni per non agire in maniera ferma e coraggiosa. Ma chiunque presti ascolto alle aspirazioni recondite dei manifestanti, capirà che forse si sta aprendo una finestra su un futuro diverso. Forse a questo si riferiva una ragazza che durante il corteo di Gerusalemme mi ha detto: «Guardi, la dirigenza è ancora vuota di contenuto, come lei ha detto nel suo discorso in Piazza Rabin nel 2006, ma il popolo non lo è».
Traduzione di Alessandra Shomroni
Per invertire rotta l'Ue dovrebbe "sterilizzare" buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia potrebbero essere travolte, come nel bowling, dalla caduta del birillo greco
Il "contagio greco" non esiste. La Grecia non è che il primo di molti birilli presi di mira nel gioco del bowling che tiene impegnata la finanza internazionale. Che le finanze greche possano salvarsi ormai non lo crede più quasi nessuno. Il gioco è solo quello di tirare per le lunghe perché non si intravvedono misure in grado di raddrizzare la situazione. Portogallo, Spagna, Irlanda o Italia potrebbero essere travolte, proprio come nel gioco del bowling, dalla caduta del birillo greco; ma ciascuno di questi paesi potrebbero anche essere il primo a cadere; ed essere lui, poi, a travolgere tutti gli altri. È l'intera costruzione dell'Unione Europea che rischia il collasso. E al centro di questa evenienza c'è l'euro. L'idea che si possa espellere dall'euro, uno a uno, i corpi infetti non sta in piedi. Intanto, anche da un punto di vista materiale, è un'operazione assai difficile; senza procedure; e tanto più rischiosa se attuata non secondo un piano cadenzato, ma sotto l'incalzare della speculazione. L'euro ha privato i governi degli Stati membri di due degli strumenti tradizionali delle politiche economiche: la svalutazione e l'inflazione controllata (attraverso l'emissione di nuova moneta). Il terzo, la fissazione del tasso di interesse, non la fanno più né gli Stati membri né la Bce. Chi la accusa di immobilismo non tiene conto che nel contesto attuale tassi di sconto più bassi fornirebbero denaro più facile non all'investimento produttivo, ma alla speculazione. Ma il fatto è che da tempo l'indebitamento degli Stati membri ha consegnato la fissazione dei tassi di interesse - vedere per credere - ai cosiddetti "mercati", a cui i governi di tutto il mondo si sono assoggettati. Una condizione di subalternità che per alcuni decenni è stata "prerogativa" dei paesi del cosiddetto "Terzo mondo", strangolati dal Fondo monetario internazionale; ma che la globalizzazione sta ora estendendo a tutti i paesi del pianeta. Per invertire rotta l'Unione europea dovrebbe probabilmente assumere - e "sterilizzare" - buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale, che certo sarebbe preferibile alla caduta in ordine sparso dei singoli Stati. In entrambi i casi, con i tempi che corrono, a rimetterci saranno tutti: economie "forti" comprese.
Ma che cosa ha ridotto governi e partiti a competere tra loro facendo a gara a chi è più adatto o capace di soddisfare o tacitare i "mercati"? E che cosa sono mai questi "mercati", ai quali è stata trasferita quella "sovranità", cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e "delocalizzata" del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati - si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento - che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del Pil di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d'acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc.) che "integrano" i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie.
Ma i soggetti più forti dei cosiddetti "mercati" sono assicurazioni e fondi pensione - in Italia, questi ultimi, alle prime armi; ma all'estero da tempo padroni di immense risorse - che per garantire alti rendimenti ai loro investimenti non esitano a strangolare imprese e gettare sul lastrico quei lavoratori che hanno affidato loro il denaro con cui affrontare la propria vecchiaia. Tanto che in borsa le quotazioni di un'impresa spesso salgono quando aumentano i cosiddetti "esuberi". È il capitalismo diffuso - o "popolare" - bellezza!
Ma se l'euro - così come è stato fatto, perché l'idea non era male - sta travolgendo l'Unione Europea, a mettere alle corde l'intero pianeta, Europa compresa, è stata la diffusione pressoché universale del "pensiero unico", cioè del liberismo: l'idea che il mercato, o i mercati, debbano governare il mondo e siano la soluzione migliore per rispondere alle esigenze di chiunque. Si tratta di una rappresentazione talmente lontana e diversa dalla realtà della vita quotidiana della gente da renderne impraticabili tanto la comprensione che il governo. Per tutti; anche per coloro - molti o pochi - che se ne avvantaggiano; o per coloro - pochi o molti - che sanno benissimo trattarsi di una favola per allocchi. Per queste sue caratteristiche il liberismo rappresenta oggi la forma più compiuta e diffusa di travisamento della realtà e la presa che da tempo esercita sul pensiero e gli orientamenti di governanti e governati di tutto il mondo è rappresentabile solo come una vera e propria "dittatura dell'ignoranza". Da questo punto di vista il berlusconismo e le sue propaggini ormai estese a tutti gli anfratti del mondo politico e culturale italiano non sono che un caso particolare - più evidente e pronunciato in Italia - di un fenomeno che caratterizza a livello mondiale l'intera epoca in cui viviamo. Con effetti tragici e paradossali, ma proprio per questo rivelatori. Prendete per esempio il capofila di quel circo Barnum che sono i corsivisti del Corriere della Sera (Massimo Mucchetti escluso): dopo averci assicurato che il fallimento della banca Lehman Brothers era un evento salutare, e poi che la crisi mondiale era agli sgoccioli, o che la Gelmini aveva fatto una grande riforma, e infine che la manovra di Tremonti aveva messo al sicuro il bilancio dello Stato, ora - 2 luglio 2011 - Francesco Giavazzi affida all'"intuizione" del Berlusconi imprenditore (avete letto bene: "intuizione": e dopo vent'anni di regime tutti sanno di che cosa si parla: truffe e panzane) il compito di risollevare le sorti del paese. Come approdo finale della dottrina economica liberista, di cui Giavazzi è un alfiere, non c'è male.
Il fatto è che, vista la situazione di impotenza in cui il pensiero unico e le "intuizioni" di Berlusconi ci hanno cacciato, le ricette per tirarsene fuori scarseggiano. Anzi, sono una sola, e si chiama "crescita"; che, scendendo alla sua declinazione pratica, vuol dire privatizzazioni (in barba ai risultati del referendum), liberalizzazioni (come se l'Italia non fosse il paese che offre - alle imprese - le maggiori libertà del mondo: vedi l'imprenditoria di mafia e camorra o, per scendere sul "legale", i metodi di Sergio Marchionne), taglio della spesa pubblica (come se l'Italia non avesse le spese per scuola, ricerca, sanità, famiglia e disoccupazione più basse d'Europa); e poi, lavorare di più (copyright di Giuliano Amato: non lavorare tutti, ma fare lavorare di più chi già lavora); per finire con le Grandi opere (Tav, Ponte, autostrade, gassificatori ed expò: investimenti inutili, devastanti, costosi e senza prospettive di "rientro"). Così la nostalgia di una crescita che non c'è e non tornerà più si consuma nell'invidia per la Germania, come se i successi dell'economia tedesca non fossero indissolubilmente legati ai disastri dei paesi dell'Unione più deboli: quelli verso cui si dirige, senza reciprocità, metà delle sue esportazioni (l'altra metà va in Usa e in Cina: due paesi che non godono più, ma che soprattutto non godranno più nei prossimi anni, dei successi che li hanno resi potenti e arroganti).
Purtroppo la dittatura dell'ignoranza e del pensiero unico - l'idea che a governare il mondo siano e debbano essere i "mercati" - non si arresta sulla soglia del Corriere né su quella dei partiti di maggioranza e di opposizione. Ha pervaso, e da tempo, tutta la società e, in qualche misura, ciascuno di noi. Persino per difendere una bella trasmissione come Vieni via con me, non ci si è appellati alla qualità intrinseca dei suoi contenuti, e nemmeno agli ascolti - che pure in qualche modo sono legati, e viziati, dal mezzo su cui transitano - ma alla pubblicità che il programma poteva raccogliere e far incassare alla Rai. Come dire: è il mercato - della pubblicità - che decide del valore di un'opera. Di fatto la delega al mercato - l'idea che spetti ai mercati il governo del mondo e della nostra vita quotidiana - ci ha resi tutti in qualche misura impotenti e imbelli: incapaci, e a volte anche restii, ad autogovernarci e a rivendicare il potere e il diritto di farlo.
Una grande battaglia è stata vinta con i referendum, soprattutto se pensiamo alla scarsità - e all'oscuramento - delle forze che lo hanno promosso. Ma adesso, per raccoglierne i frutti, bisogna mettersi in grado di "governare dal basso", con la forza dell'iniziativa, dei saperi diffusi e della solidarietà, i "beni comuni" che i Sì hanno sottratto all'obbligo della privatizzazione: non solo il servizio idrico integrato, ma tutti i servizi pubblici locali disciplinati dall'art. 23 bis ora abrogato: trasporto e mobilità urbana, gestione dei rifiuti, distribuzione e generazione di energia, mercato ortofrutticolo, mense e molte altre cose ancora. Per farlo bisogna attrezzarsi; e non è una cosa facile. Ma è solo in una crescita di una cittadinanza attiva impegnata nella costruzione di queste nuove forme di gestione, né privata né "pubblica" - nel senso di statale - che si possono formare e costituire un nuovo orientamento culturale, nuovi saperi tecnici e gestionali, e una nuova "classe dirigente" in grado di esautorare e sostituire quella inetta e corrotta - politica e imprenditoriale - da cui siamo governati. Gli embrioni di questo ricambio già ci sono, si tratta di riconoscerli, rafforzarli, farli crescere: domani potranno attrarre e inglobare anche le componenti meno compromesse di chi è oggi alle leve di comando.
(guidoviale.blogspot.com)
La crisi che il paese sta attraversando è davvero grave, sotto ogni profilo, nel quadro della crisi che investe la Ue. Rilanciare la crescita è una strada necessaria ma ardua da trovare e da percorrere. Che in tale situazione il presidente Silvio Berlusconi si permetta prima battute quali l´invito a investire nelle sue aziende «che continuano a fare utili», poi assicuri che la situazione non può peggiorare, e spiattelli sul momento un piano anti-crisi in otto punti, vuoto di qualsiasi sostanza, offende l´intelligenza di tutti i cittadini italiani. Come uno può pensare sul serio di rilanciare la crescita mediante un ampliamento della libertà economica da inscrivere nella Costituzione, quasi che tale libertà non esistesse quando negli anni 60 il paese cresceva al tasso del 5-6 per cento l'anno? O di modernizzare il mercato del lavoro, quando alcuni milioni di lavoratori giovani e meno giovani hanno già sperimentato di persona che cosa ciò significa nell'età berlusconiana, se non precarietà, retribuzioni stagnanti da quindici anni, sindacati in difficoltà, diritti dei lavoratori in declino?
Quando non siano battute offensive oppure trovate inimmaginabili, come modificare la Costituzione per rilanciare subito la crescita, gli otto punti del piano anti-crisi indicati dal presidente del Consiglio sembrano ripresi tal quali dalle vecchie ricette del Fondo monetario internazionale. Bisogna ridurre a ogni costo la spesa pubblica. Avviare un grande piano di privatizzazioni dei servizi pubblici. Modernizzare il sistema di welfare e le relazioni sindacali (cioè tagliare le prestazioni del primo e ridurre al minimo il potere dei sindacati). Sono ricette di destra, che la crisi iniziata nel 2007 ha contraddetto in ogni possibile modo, ma che il governo italiano e la maggior parte dei governi Ue, combinando ottusità, incompetenza e un tot di malafede, hanno ora ripreso come rimedi alla crisi, trasmessa dalle banche ai bilanci pubblici.
Prima di indicare perché dette ricette sono suicide, sotto il profilo economico, politico e sociale, non si può far a meno di notare, con qualche preoccupazione, che le proposte avanzate dalle parti sociali contengono ricette del tutto analoghe. Il loro «drastico programma per rilanciare la crescita» chiede a sua volta di tagliare la spesa pubblica, lanciare un piano di privatizzazioni, modernizzare (rieccolo, il più minaccioso dei termini quando si parla di riforme) le relazioni sindacali e il mercato del lavoro. Che un tale piano sia stato redatto e sottoscritto da Confindustria è comprensibile. Che sia stato sottoscritto anche dalle confederazioni sindacali, tra cui nientemeno che la Cgil (anche se la segretaria Susanna Camusso ha detto di non essere del tutto d´accordo in tema di privatizzazioni), sta forse a indicare che la situazione è percepita di tale gravità da costringere tutti a non badare più all´identità del vicino nella scialuppa di salvataggio. Ma forse anche - e questo vale per tutta la Ue - che «gli dei fanno uscire di testa coloro che vogliono condurre a perdizione».
Sia nel piano anti-crisi buttato lì dal presidente Berlusconi, sia nelle proposte delle parti sociali a lui presentate per rilanciare la ripresa, si avverte nel fondo un´idea scriteriata: che la spesa pubblica sia una passività che bisogna assolutamente ridurre allo scopo di far crescere l´economia. È un´idea che le due parti paiono condividere con la destra repubblicana in Usa, quella che ha appena voluto tagliare l´assistenza ai poveri ma non le tasse ai super-ricchi, perché così, osa sostenere, si crea occupazione. Che l´idea non stia in piedi lo dice perfino l´Onu, in un recente rapporto sulla situazione economica mondiale: «Molti governi, in specie nei paesi sviluppati, stanno orientandosi verso l´austerità di bilancio. Ciò inciderà negativamente sulla crescita economica globale durante il 2011 e il 2012».
Ma nei due documenti in parola, oltre alle idee sballate, spiccano quelle che mancano. Non c´è in essi, ad esempio, una parola sul fatto che l´Italia non cresce perché i suoi investimenti in ricerca e sviluppo sono al fondo delle classifiche Ocse. E qui le imprese non possono puntare il dito contro lo stato, perché se è vero che questo ha contribuito alla povertà della R&S, sono esse che hanno chiuso o malamente ridimensionato i grandi centri di ricerca che l´industria italiana vantava negli anni 60 e 70, nel settore della chimica, della metallurgia, delle telcomunicazioni. Per tacere infine di un´assenza macroscopica, nei due documenti, del problema alla base della bassa crescita: la redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto avvenuta negli ultimi decenni. Almeno 8-10 punti di Pil sono migrati in Italia (ma anche in altri paesi Ue) dai salari ai profitti e alle rendite. Se non si interviene su questo snodo fondamentale, cominciando almeno con il discuterne, di ripresa se ne riparlerà nel 22mo secolo.
E’ incredibile. Provate ad inserire su Google news le parole “rivoluzione islanda”. Il risultato della ricerca è che molti blog ne parlano oltre ad alcune testate di informazione online alternative ai broadcaster, mentre risultano “non pervenute” le testate dell’establishment, se così si può dire.
Ora, se non ci fosse Internet, se non avessi letto un link postato da un mio amico ieri su Facebook, io oggi non saprei che in Islanda si è svolta una vera e propria rivoluzione che partiva da una situazione analoga a quella attuale italiana e di molti altri Paesi in uno stato di crisi politica, economica e finanziaria e che si è risolta con una serie di passaggi, come dire, da “manuale del buon senso civico”. La sintetizzo qui di seguito, sperando di essere fra le poche persone nell’ignoranza in cui sarei rimasta se non avessi letto l’articolo pubblicato su Informare per resistere e altri blog d’informazione che sono andata a cercare attraverso Google.
In Islanda, a seguito di una disastrosa crisi finanziaria, i cittadini sono riusciti a far dapprima dimettere il governo in carica al completo, mentre le principali banche responsabili venivano nazionalizzate, si sono rifiutati di pagare i debiti che queste avevano contratto con la Gran Bretagna e l’Olanda a causa della loro ignobile politica finanziaria (con tanto di arresti dei principali finanzieri e top manager responsabili della bancarotta del Paese) e in conclusione sono passati alla creazione di un’assemblea popolare per riscrivere la propria Costituzione. Tutto questo è accaduto attraverso una vera e propria rivoluzione, senza spargimenti di sangue, con le proteste e le urla in piazza, una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che aveva condotto il Paese nella grave crisi finanziaria.
L’altro strumento “rivoluzionario” sul quale ora sta lavorando la società islandese è l’”Icelandic Modern Media Initiative”, un progetto finalizzato alla costruzione di una cornice legale per la protezione della libertà di informazione e dell’espressione con l’obiettivo di creare un ambiente sicuro per il giornalismo investigativo, un “paradiso legale” per le fonti, i giornalisti e gli internet provider che divulgano informazioni giornalistiche.
Concludo dicendo che, come a tutte le persone normali, certamente mi interessano le notizie di cronaca, come ad esempio quelle relative all’omicidio passionale di Ascoli Piceno o il delitto di Avetrana, a patto che non se ne parli tutte le sere per cinque minuti di telegiornale, o quelle politiche relative al missile libico contro la nave italiana, e mi può stare anche bene leggere che Berlusconi sostenga che il Paese è solido, anche se nutro molti dubbi e forti preoccupazioni in merito. Ma subire l’ennesima censura informativa, come quella di cui mi sono resa conto ieri, quando poi mi tocca sentire o leggere servizi giornalistici che mettono sull’avviso le persone sulla pericolosità di Internet, no, non lo posso più accettare.
Vivo in una Paese che si proclama libero, che amo, anche se ogni tanto mi verrebbe voglia di scappare all’estero, e voglio continuare a pensare che l’Italia sia una nazione democratica, dove vige il principio della libera informazione. Quindi pretendo di conoscere notizie sull’Islanda, come credo tutti, anzitutto attraverso i mezzi di informazione tradizionali, molti di questi tra l’altro sovvenzionati dallo Stato, che rivendicano la loro autorevolezza, la neutralità e la libertà dalle ingerenze politiche, e che però, chissà perché, spesso accusano di poca professionalità e credibilità il giornalismo che nasce dal basso, dalla rete. Quel giornalismo per cui oggi io sono più consapevole di ieri ma anche decisamente più indignata.
Viene da dire che siamo proprio messi male. Silvio Berlusconi, che sciocco non è, ha fatto un discorso di ordinaria amministrazione. Come ha detto, già nel corso della trasmissione, Guido Gentili del Sole 24 ore, è un discorso che avrebbe potuto fare tre mesi fa. Talvolta far finta di niente - come ha fatto Berlusconi - è un modo accorto di fronteggiare problemi che non si è in grado di risolvere. Nessuna proposta, nessuna iniziativa nel discorso del Cavaliere, quasi un tutto va bene madama la marchesa. In ogni modo io resto dove sono.
Francamente deludente in questa situazione di crisi italiana e mondiale la replica del Partito democratico, per bocca di Bersani. Critiche, denunce, ma zero proposte. Nulla su cosa il maggiore partito di opposizione propone in alternativa allo scorrere dei fatti, alla resistenza di Berlusconi, ai rischi del disastro per l'economia (e non solo) del nostro paese. Berlusconi è messo assai male e l'elusività del suo discorso lo conferma, ma rebus sic stantibus continuerà a occupare Palazzo Chigi. E addirittura si permette attraverso la voce del neosegretario del suo partito Angelino Alfano di accusare l'opposizione di essere partito dei mercati e non dei cittadini.
«Da tutto ciò che accade - scriveva Alfredo Reichlin sull'Unità di ieri - emerge l'estrema debolezza della politica». E - sempre Reichlin - si domanda se «è abbastanza chiara la nostra diversità politica». Domanda non da poco.
Il discorso di Berlusconi è stato assolutamente elusivo, ma egualmente elusiva è stata la replica di Bersani. Non basta accusare Berlusconi dei fallimenti che sono sotto gli occhi di tutti, se non si ha l'intelligenza e la forza di proporre un'alternativa che non sia solo la richiesta di elezioni anticipate. Il Pd deve (dovrebbe) avere la forza e l'intelligenza di proporre un'alternativa di governo. Gli esiti dei referendum e delle recenti elezioni amministrative dovrebbero incoraggiarlo. C'è una società che di Berlusconi ha cominciato a stancarsi, ma a questa società bisogna offrire serie proposte per uscire dalla crisi e dai fallimenti bancari, per combattere l'attuale decrescita e la crescita dei disoccupati.
Dire che Berlusconi è cattivo, se non si propone nulla di buono, serve solo a far continuare, e sempre in peggio, la crisi del paese. Insomma, c'è una seria crisi della politica e, aggiungerei, della sinistra. Ma Berlusconi - lo conferma il suo discorso di ieri - è proprio messo male, solo che il suo star male mette al peggio l'Italia e questo, paradossalmente, lo rafforza.
L’ultimo numero del settimanale del Sole 24 Ore dedicato al territorio (n.29 del 30 luglio) denuncia il fallimento dell’ulteriore allentamento delle regole portato avanti dal governo Berlusconi. I numeri confermano che aver reso pressoché automatico i permessi di costruzione senza controllo da parte delle amministrazioni pubbliche, non ha fatto aumentare per nulla il numero delle iniziative edilizie in tutte le regioni. Segno evidente che il mercato è saturo e necessiterebbe di ragionamenti e politiche di ampio respiro.
La giunta regionale del Lazio guidata da Renata Polverini non è tra i lettori dell’autorevole rivista e guidata dal cieco furore contro le funzioni pubbliche, ha approvato il peggior piano casa tra le regioni italiane. Non c’è infatti il minimo disegno strategico nel distribuire a piene mani la rendita parassitaria fondiaria. Sono soltanto due i risultati ottenuti: il primo è quello di aver cancellato forse per sempre l’urbanistica dal panorama legislativo: dall’urbanistica al piano casa, come sostiene Italo Insolera. Il secondo è quello di aver colpito duramente le poche forme di controllo pubblico su quanto avviene nelle città che diventeranno così più invivibili.
Nelle zone a bassa densità, le uniche spesso che conservano un po’ di qualità, chi avrà le possibilità potrà aumentare altezza e volumetrie del proprio edificio. Gli altri, i vicini che non hanno le stesse possibilità economiche vedranno sparire spazi verdi, alberi, panorami. Avranno più traffico automobilistico e ne riceveranno un danno economico. I selvaggi che scrivono le leggi regionali saranno soddisfatti.
Gli effetti su quanto resta del tessuto industriale regionale saranno devastanti. E’ previsto infatti l’aumento delle cubature dei capannoni industriali e la possibilità di riconvertirli in abitazioni. Al difficile percorso dell’innovazione tecnologica, alla ricerca di nuovi prodotti e nuovi mercati, al rischio d’impresa viene contrapposta una gigantesca autostrada per dismettere tutto, lucrare rendita e portare i soldi nei paradisi fiscali. Ci penserà Tremonti o chi per lui a farli tornare con generosissime aliquote.
C’è poi l’aspetto più grave -forse quello per cui si sono battuti con maggior determinazione i pasdaran della Regione-: aggredire le aree vincolate, cancellare i vincoli paesaggistici, minare la stessa sopravvivenza dei pochi e asfittici parchi regionali. Con la nuova legge si possono aumentare le cubature anche nelle zone sottoposte a vincolo di legge, costruendo addirittura decine di nuovi porti; si possono agevolmente superare i vincoli dei piani paesaggistici che infatti non si approveranno mai; si può costruire anche nelle aree pregiate dei parchi regionali.
E infine, la ciliegina che ha fatto inorridire perfino l’ex presidente della regione Veneto Galan, che pure dovrebbe avere uno stomaco di ferro per aver digerito l’alluvione di capannoni che funesta la regione che ha governato per tanti anni. Galan ha tuonato contro l’ennesimo condono edilizio mascherato presente nella legge. Ecco dunque il piano casa peggiore d’Italia: un miscuglio di incultura, deroghe e condoni.
Il Partito democratico si è distinto per un emendamento vergognoso, a ulteriore conferma che dalla cultura del mattone e della speculazione non si sposta ed è identico alla destra liberista. Ma una novità si coglie nell’atteggiamento della sinistra. I verdi di Angelo Bonelli e Sel hanno svolto con coerenza il proprio ruolo di disegnare un’alternativa. Di una nuova cultura che ambisce a diventare maggioritaria basata su un concetto semplice: città e territori sono beni comuni.
Adesso ci si mette anche il Governo italiano. Come se, in piena crisi economica, i parlamentari non avessero altro da fare che dare via libera a una proposta di legge che vieta nei luoghi pubblici burqa e niqab. Come se l´esempio della Francia e del Belgio dovesse in questo caso essere necessariamente seguito, laddove in altre circostanze ci si inalbera non appena qualcuno osi fare un paragone tra quello che succede in casa propria e quello che invece accade all´estero…
Certo, la giustificazione della legge è intrisa di buoni propositi. Si parla della liberazione delle donne segregate e senza diritti. Si invoca l´umiliazione di tutte coloro che non possono riappropriarsi del proprio destino. Ci si scaglia contro questa forma di "aberrante imposizione". Burqa e niqab sarebbero un mezzo di oppressione per le donne, un modo per metterle al margine della società rendendole anonime e trasparenti. Si può tuttavia veramente vietare l´utilizzo per strada del velo integrale, punendo coloro che lo portano? Non è sempre pericoloso quando, nel nome della libertà, si decide di legiferare sul modo in cui ci si possa o debba vestire in pubblico?
Molte donne musulmane sono ostili al velo integrale e mettono chiaramente in rilievo come il Corano non lo preveda: il fatto stesso di indossarlo significherebbe accettare la possibilità di restare fuori dalla società. Tante altre però, come hanno spiegato alcune francesi davanti alla Commissione parlamentare (la Commission Gérin), sostengono che portare un niqab è oggi un modo per proteggersi dallo sguardo maschile, una maniera per esprimere la fierezza di essere musulmane in un mondo occidentale considerato decadente e corrotto. Nascondendo ciò che copre, il velo, per definizione, riesce contemporaneamente a mostrare e a distogliere lo sguardo. Da questo punto di vista, è in genere utilizzato per proteggersi dalla vista degli altri, per sottrarsi alla logica della vergogna. Per mostrarsi e farsi vedere, bisogna volerlo: permettere allo sguardo altrui di posarsi su di noi senza ferirci. Il velo può allora essere un riparo per colei che lo porta, a patto, però, di non chiudersi mai completamente. Se serve a proteggere il mistero del corpo, deve anche lasciar intravedere qualcosa - gli occhi, una caviglia, una ciocca di capelli. Il rischio, altrimenti, è quello di diventare un "sudario". A seconda del contesto, del luogo e dell´identità di colei che lo porta, indossare un velo può essere un gesto religioso come un atto di conformità a un costume; può essere il frutto della sottomissione a minacce o intimidazioni, oppure un atto provocatorio e di sfida identitaria. Se alcuni veli sono in grado di dar forma al corpo femminile, il velo integrale, però, non lascia intravedere proprio nulla. E trasforma il corpo della donna in una "macchia cieca". Al punto da rendere incomprensibile il fatto che alcune donne accettino di portarlo. Si può tuttavia anche solo immaginare di risolvere un problema di questo genere a colpi di legge, soprattutto quando si sa che di donne col niqab ce ne sono veramente poche? Non è del tutto assurdo pretendere di liberare qualcuno attraverso un divieto? Non sarebbe meglio ascoltare ciò che dicono le donne velate - invece di affermare perentoriamente che non sono mai libere - e offrire loro degli strumenti critici per valutare meglio il peso e le conseguenze delle proprie scelte?
La strada per l´emancipazione è lunga e difficile. Non si può sottovalutare l´impatto della ghettizzazione sociale in cui vivono molte donne. È per questo che si dovrebbe fare attenzione a non passare troppo velocemente dalla logica della "repressione" a quella della "gentile indifferenza". Come se portare un velo integrale fosse sempre il risultato di una decisione libera e matura. Talvolta è una scelta. Altre volte, come è stato mostrato da recenti casi giudiziari in Francia, è il frutto di un´imposizione. La realtà è sempre piena di sfumature e si dovrebbe evitare non solo di strumentalizzare i valori delle lotte femministe, ma anche di banalizzare le difficoltà dell´integrazione.
In un´epoca come la nostra, in cui la questione della laicità va di pari passo con l´aumento non solo degli integralismi religiosi, ma anche dell´intolleranza e del razzismo, forse bisognerebbe interrogarsi di nuovo sul significato dell´espressione "integrazione" e cercare di capire come il rispetto delle differenze non implichi necessariamente una rinuncia ai valori in cui si crede, come l´uguaglianza, la libertà e la pari dignità. Ogni Paese ha certamente un proprio patrimonio culturale specifico, che va di pari passo con la storia della propria unità, con le contraddizioni e le difficoltà che si sono di volta in volta incontrate per imparare a vivere insieme. Ma erigere barriere o promulgare leggi che, nel nome della libertà e della dignità, interferiscono con le scelte dei singoli individui non serve a pacificare una società. Questo tipo di strategie non fa altro che spingere alla radicalità. Invece di contribuire a organizzare le condizioni reali che possono permettere alla libertà femminile di non restare solo un valore astratto.
La storia di successo dell'ingegner Del Vecchio e Luxottica, l'idea di giustizia e la crisi italiana. Ovvero perché tassare i patrimoni e le successioni (e meno i redditi) è giusto, efficiente e necessario
Secondo la rivista americana Forbes (2011), Leonardo Del Vecchio è il secondo uomo più ricco d'Italia, dopo Michele Ferrero, con un patrimonio netto di 11 miliardi di dollari e 71º nella classifica mondiale. A differenza di quest'ultimo, l'intera ricchezza accumulata è esclusivamente riferibile al suo operato non avendo ereditato alcuna attività di qualche valore. Il patrimonio è ascrivibile in primo luogo al possesso della società di diritto lussemburghese Delfin S.à.r.l. che controlla il 68,5% di Luxottica Group Spa, multinazionale attiva nella produzione di occhiali e quotata sulla Borsa di Milano e detiene, tra le altre, partecipazioni in Unicredit e Assicurazioni Generali. Secondo la stessa rivista, la retribuzione percepita nel 2009 come Presidente di Luxottica assomma a "soli" 1,2 milioni di euro.
L'ingegner Del Vecchio è arrivato al centro degli equilibri del potere economico e finanziario italiano e gode di buona reputazione; è stato oggetto di cronaca non favorevole soltanto in occasione di alcune contestazioni da parte dell'amministrazione finanziaria dello stato per irregolarità fiscali. Anche per tale ragione, la sua vita è emblematica di molti aspetti del capitalismo contemporaneo, non solo italiano.
Dalla biografia riportata in Wikipedia si legge che, orfano, trascorse i primi anni di vita nel collegio dei Martinitt a Milano e iniziò presto a lavorare come apprendista incisore in una fabbrica di stampi per ricambi automobilistici e montature per occhiali. Nel 1958, a 23 anni, si mette in proprio aprendo una bottega di occhiali in provincia di Belluno; dopo alcuni anni fonda la società Luxottica. A partire dal 1995 gli vengono conferiti numerosi titoli accademici honoris causa, tra i quali, nel 2006, la laurea in Ingegneria dei materiali dal Politecnico di Milano.
Nei suoi 60 anni di lavoro, che includono i primi come apprendista incisore, ha accumulato in media ogni giorno, oltre 500.000 euro. I dati relativi alle imposte versate al fisco nello stesso periodo come persona fisica non sono noti, ma è ragionevole ipotizzare che, se si esclude una transazione di 300 milioni di euro effettuata nel 2009 con l'erario per sanare operazioni di esterovestizione di redditi provenienti da attività italiane, l'aliquota media sia del tutto marginale (probabilmente il totale delle tasse pagate in 60 anni è inferiore a 80 milioni di euro, pari all'1% della ricchezza accumulata).
Il risparmio medio giornaliero dell'ing. Del Vecchio è pari al reddito da lavoro di 25 anni di molti dipendenti italiani. Il confronto non è tra grandezze omogenee, perché in un caso si parla di accumulo di ricchezza, cioè al netto delle spese di mantenimento (non irrisorie atteso che Del Vecchio è proprietario, tra l'altro, di uno yacht di 62 metri), nell'altro di reddito prodotto per il sostentamento del dipendente e della sua famiglia. L'aliquota minima d'imposta sul reddito delle persone fisiche è pari al 23% ed è più elevata per i percettori di un reddito annuo di 25.000 euro.
Il confronto sollecita una serie di domande, morali ed economiche che vanno oltre il caso dell'ing. Del Vecchio, le cui qualità imprenditoriali sono fuori discussione; esso è qui riportato esclusivamente come esemplificazione estrema della distribuzione della ricchezza presente nel nostro Paese.
1. È eticamente accettabile un sistema economico e sociale come l'attuale che consente enormi disparità nel livello di ricchezza dei propri cittadini? La questione che va affrontata è se nel sistema capitalistico la scala di ordinamento delle persone in base ai meriti riconosciuti dal mercato risponda a requisiti di valutazione oggettivi ed equi, intendendosi con quest'ultimo attributo la sintesi di valori socialmente condivisi (ad esempio competenza, onestà, professionalità, correttezza, impegno).
2. È eticamente accettabile un sistema fiscale che consente, a fronte di un enorme accumulo di ricchezza, di versarne all'erario soltanto una quota molto ridotta? Per la maggior parte delle persone ricche, l'accumulo patrimoniale proviene da attività imprenditoriali e si manifesta soltanto in minima parte sotto forma di reddito, che costituisce la base imponibile su cui si calcolano le imposte dirette nel nostro Paese; viceversa il reddito è l'unica o la principale fonte di ricchezza per la maggior parte dei lavoratori. Tale disparità di trattamento rende il sistema fiscale fortemente regressivo all'aumento della capacità contributiva, tra l'altro in contrasto con il dettato della Costituzione repubblicana.
3. È eticamente accettabile un sistema fiscale che non prevede tasse sulla successione ereditaria? Anche accettando l'ordinamento dei redditi dato dal mercato, non si capisce perché la scelta dei propri genitori possa costituire un fattore premiante, talvolta gigantesco. Quando l'asse ereditario dell'ing. Del Vecchio sarà suddiviso fra i suoi sette figli, ciascuno di essi entrerà in possesso di oltre un miliardo di euro, pari al reddito di 50.000 anni di lavoro di un lavoratore dipendente di medio livello.
4. È economicamente razionale favorire una distribuzione del reddito fortemente concentrata? È statisticamente assodato che la propensione al consumo delle persone diminuisce al crescere della ricchezza e in situazioni di non pieno utilizzo dei fattori produttivi, un aumenti dei consumi può favorire la crescita. Si tratta di una ben nota teoria economica, di tratto keynesiano (cioè del principale economista del secolo scorso) per cui nelle fasi di crisi, le politiche redistributive del reddito e della ricchezza favoriscono la ripresa produttiva.
5. È economicamente razionale accrescere l'indebitamento dello stato per consentire alla fascia di popolazione più benestante di essere sostanzialmente esente dal finanziamento della spesa pubblica? Il debito pubblico italiano ha raggiunto il 120% del Pil, la quota più elevata dei paesi europei, ad eccezione della Grecia, e nelle ultime settimane lo stato paga un premio al rischio sui propri titoli superiore di circa 3 punti percentuali a quello degli analoghi titoli tedeschi, con una maggiore spesa per interessi dell'ordine di 50 miliardi di euro. Tale situazione finanziaria costringe lo stato a tagliare le spese relative ai servizi pubblici, impoverendo l'intera collettività nazionale.
Le risposte ai suddetti quesiti segnalano l'importanza di introdurre un'imposta diretta annuale sul patrimonio e sulle successioni che in prospettiva vada a sostituire una parte consistente del gettito proveniente dall'imposta sul reddito.
Secondo l'ultima indagine sulla ricchezza del nostro Paese pubblicata dalla Banca d'Italia nel dicembre del 2010, la ricchezza netta media delle famiglie italiane è pari a circa 350.000 euro (140.000 euro quella pro capite) e «la distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione»: il 10% delle famiglie più ricche detiene il 45% della ricchezza complessiva mentre la metà più povera detiene solo il 10% della ricchezza totale. In valore assoluto ciò significa che in media circa 2,5 milioni di famiglie hanno un patrimonio dell'ordine di 1,5 milioni, 10 milioni di nuclei dispongono di una ricchezza lievemente superiore a quella media italiana, mentre è molto bassa la ricchezza di metà della popolazione.
A partire da questi dati si può ipotizzare l'introduzione di un'imposta patrimoniale annuale che colpisca in modo progressivo la ricchezza superiore a una determinata soglia. Ipotizzando un valore di 500.000 euro, la base imponibile complessiva sarebbe dell'ordine di 3.000 miliardi di euro.
Un sistema a quattro aliquote potrebbe avere la seguente struttura: 5 per mille per la quota compresa tra 500.000 e 1 milione di euro; 10 per mille per la quota compresa tra 1 e 3 milioni di euro; 15 per mille per la quota compresa tra 3 e 10 milioni di euro; 20 per mille per la quota eccedente.
Tale sistema porterebbe ad un maggior gettito per l'erario dell'ordine di 40 miliardi di euro l'anno. Ove si consentisse di dedurre dall'imposta sul reddito la patrimoniale versata all'erario, il gettito netto sarebbe inferiore. Si tratta di sacrifici complessivamente limitati per la parte più benestante della popolazione: ad esempio la patrimoniale per una famiglia con una ricchezza netta di 1 milione di euro sarebbe pari ad appena 2.500 euro
L'imposta sulle successioni potrebbe seguire la medesima scala con aliquote molto più elevate.
L'introduzione di queste misure - e un insieme di altre operazioni sul bilancio pubblico - porterebbe al risanamento finanziario, a una riduzione consistente della spesa per interessi e renderebbe possibile una significativa riduzione dell'imposizione sul reddito, che ha raggiunto livelli eccessivi per il ceto medio produttivo che paga le tasse.
Sono trascorsi trentuno anni dalla strage di Bologna. Per ricordare le vittime è stato inaugurato ieri, nel parco di Villa Toschi, un monumento dedicato ai sette bambini morti nell´attentato, il più grave della storia repubblicana: Angela Fresu (3 anni), Luca Mauri (6), Sonia Burri (7), Manuela Gallon (11), Kai Mader (8), Eckhardt Mader (14) e Cesare Francesco Diomede Fresa (14). Tante storie piccole e anonime polverizzate da una mano assassina; un insieme di traiettorie possibili divenute all´improvviso un futuro negato. Non per una tragica fatalità, come sarebbe più comodo pensare, ma perché in Italia nel 1980 c´era chi faceva politica mettendo le bombe allo scopo di uccidere dei cittadini inermi. La stazione di Bologna è uno snodo ferroviario tra i più importanti in Italia e tanti viaggiatori in questi anni hanno sostato, almeno una volta, davanti a uno squarcio nel muro, una ferita di marmo, che ricorda il luogo in cui fu lasciata la bomba. Una lapide riporta l´elenco degli 85 morti e il nome di Angela Fresu, la più piccola delle vittime, con accanto gli anni scolpiti a una sola cifra, si distingue dagli altri, obbligando inevitabilmente il passeggero frettoloso a interrogarsi sul senso del nostro viaggio, come un´ombra che passa improvvisa tra un treno e l´altro.
Per l´attentato sono stati condannati i tre terroristi neofascisti Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, che continuano a professarsi innocenti. Se i mandanti restano ancora oscuri, sono stati però individuati i responsabili di alcuni depistaggi: il piduista Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza e i membri dei servizi segreti Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Per questa ragione l´attentato di Bologna costituisce un´anomalia nella storia dello stragismo italiano: l´unico caso in cui la magistratura è riuscita a stabilire una verità giudiziaria non limitata alla manovalanza. L´azione di depistaggio aveva l´obiettivo di accreditare una pista internazionale che distogliesse gli inquirenti dalla realtà italiana e di affermare l´idea presso la pubblica opinione che quella sentenza fosse il prodotto di una cospirazione delle cosiddette «Toghe rosse».
Continuare a ricordare la strage di Bologna non significa solo omaggiare quelle vittime innocenti, ma anche non dimenticare tali azioni di depistaggio ordite da quanti hanno avvelenato la fragile democrazia italiana per favorire una stabilizzazione conservatrice del quadro politico. Per questo motivo è molto grave che, per il secondo anno consecutivo, alla cerimonia non parteciperà alcun ministro della Repubblica. Il governo non c´è per indifferenza civile e per imbarazzo politico: il 2 agosto è una giornata dedicata al ricordo, ma questo governo preferisce l´oblio. Si tratta di uno sgradevole atto di insensibilità istituzionale che, secondo il presidente della Associazione familiari Paolo Bolognesi, avrebbe un significato ritorsivo: i ministri eviterebbero la cerimonia non per paura dei fischi, che dovrebbero comunque avere il coraggio e la dignità di affrontare nel caso ci fossero, o, come hanno sostenuto, per evitare strumentalizzazioni politiche, ma perché «i familiari delle vittime hanno parlato molto di mandanti e di P2», la loggia segreta coinvolta nei depistaggi alla quale anche il presidente del Consiglio era iscritto.
Oggi Angela Fresu avrebbe 34 anni, sarebbe potuta essere mille cose e invece non ha fatto in tempo a diventare nulla se non un´innocenza caduta in una voragine mostruosa. Non è morta per il valore delle sue idee e per i propri atti responsabili e dunque non ha neppure l´esile privilegio di questa consolazione. Ci ricorda, però, le infinite possibilità contenute in ogni vita, la speranza che le è stata negata. Di sua madre Maria non è rimasto nulla, il corpo incenerito dalla bomba: nulla se non una poesia di Andrea Zanzotto che ancora aiuta a non dimenticare quel corpo e lo trasforma nel simbolo di un´altra Italia che lotta contro la smemoratezza e l´inciviltà: «E il nome di Maria Fresu/ continua a scoppiare/ all´ora dei pranzi/in ogni casseruola/ in ogni pentola/in ogni boccone/ in ogni/rutto – scoppiato e disseminato –/in milioni di/dimenticanze, di comi, bburp». (vedi qui)
Sono la Nuova Romea, l'autostrada Cispadana, il collegamento autostradale Campogalliano-Sassuolo, il Ti-Bre, il famigerato Passante Nord e il bolognese People Mover. Opere superflue, se non inutili. Frattini, presidente regionale Legambiente: "ancora il solito, troppo trasporto su gomma e il pochissimo su rotaia"
Ogni giorno in Emilia Romagna vengono mangiati da cemento e asfalto 8 ettari di terreno. Dal 1975 a oggi il conto è di oltre 100 mila ettari, circa il 5% del territorio regionale. Ma non solo. Questa sarebbe anche una delle regioni più inquinate d’Europa e a più alta densità di strade che la attraversano. È Legambiente a lanciare l’allarme con un dossier sulla colata di asfalto e cemento che si potrebbe abbattere lungo la via Emilia nei prossimi anni: “Si punta ancora molto sulle opere per l’automobile e poco su quelle ferroviarie”, spiega Lorenzo Frattini, presidente regionale di Legambiente.
Le strade contestate in Emilia Romagna. Sono 6 le mega-opere che preoccupano gli ambientalisti. Opere secondo loro superflue, se non inutili. La prima è l’autostrada Orte-Mestre, anche chiamata Nuova Romea, i cui lavori per 10 miliardi di euro dovrebbero partire nel giro di qualche anno. L’opera, nel tratto che va dal Po a Ravenna, potrebbe avere un impatto ambientale su zone come il parco del delta del Po, le valli di Comacchio e quelle dell’Appennino centrale. Legambiente propone un’alternativa: sistemare la “vecchia” Romea, una delle strade più pericolose d’Italia, e metterla in sicurezza assieme alla E 45, che da Cesena porta a Terni.
Poi c’è l’autostrada cispadana, la prima regionale d’Italia, che la giunta Errani ha messo nel piano per unire le province di Reggio e Ferrara tagliando la pianura al di sotto del Po. L’opera, secondo Legambiente, danneggerebbe un territorio già martoriato da strade e dall’inquinamento.
A preoccupare gli ambientalisti c’è poi il collegamento autostradale Campogalliano-Sassuolo, che, “vista la presenza di una strada a scorrimento veloce molto vicino farebbe risparmiare appena dieci minuti senza aiutare il distretto della ceramica”.
Poi c’è il cosiddetto Ti-Bre, 85 chilometri tra la Parma-La Spezia e la A22 del Brennero. L’opera, sostiene Legambiente, che rischia di rimanere a metà, visto che per ora i fondi si sono trovati solo per un primo lotto. Per quanto riguarda il terzo ponte sul Po a Piacenza, l’idea viene considerata superabile togliendo per esempio il pedaggio tra i caselli di Castelvetro e Cremona e spostando in quel tratto il traffico dei tir.
Infine Legambiente si scaglia contro l’idea del Passante Nord, un’opera da 2 mila milioni di euro che dovrebbe decongestionare il bolognese. Si tratta di 40 chilometri che da Ozzano a Anzola circonderebbero a semi-anello la città, impattando – sostengono gli ambientalisti – sulla pianura. Molti comuni, come Castel Maggiore, Granarolo e Castenaso rischierebbero di trovarsi circondati tra l’attuale nodo autostradale e il futuro anello del passante.
E sulle opere i tentativi sono stati “rabberciati e incoerenti”. Presentando il suo dossier l’associazione ecologista ha sottolineato la scarsa lungimiranza delle ultime amministrazioni. “Ci sono stati in questi 15 anni tentativi rabberciati e incoerenti”, spiega Claudio Dellucca, responsabile bolognese di Legambiente. Dellucca elenca i casi dei fallimenti della metropolitana, mai partita, del Civis, il tram su gomma i cui lavori vanno avanti da anni, ma che forse non funzionerà mai.
Dellucca fa infine appello al Comune perché fermi il People Mover, la navetta che dovrebbe collegare in 7 minuti e mezzo la stazione ferroviaria all’aeroporto Marconi. Il People mover è da qualche giorno sotto la lente di Palazzo d’Accursio che dovrà valutarlo e dargli il definitivo via libera. “È un’opera che può essere sostituita potenziando le linee ferroviarie con una stazione in via Bencivenni da raggiungere con una navetta o un tapis roulant”, spiega Dellucca.
Oltre Bologna, gli interventi contestati in Regione. Ma non ci sarebbe solo Bologna tra le città con una scarsa visione d’insieme del sistema dei trasporti. Il caso della metropolitana di Parma è per gli ambientalisti l’esempio di una mega-opera sovradimensionata per una città che necessitava di interventi più ridotti e meno rischiosi finanziariamente.
Infine l’ultimo affondo nei confronti di viale Aldo Moro, accusata di essere tentennante: “Nonostante nello stesso rapporto per il Piano dei trasporti regionale si leggano osservazioni critiche sull’eccessivo investimento per il trasporto su gomma, la Regione ha comunque deciso confermare le mega-opere stradali”, spiega Kim Bishop di Legambiente. “Nel vecchio piano regionale gli investimenti su strade e ferrovie sono uguali, al 50% per ognuno”, cioè pochi per gli ambientalisti. “Ma tra i finanziamenti al trasporto su ferro il 70% sarà dedicato all’alta velocità, mettendo ancora una volta all’angolo i pendolari”.