È necessario un processo costituente per immaginare la società dei beni comuni e sovvertire l'ordine costituito fondato sulla crescita capitalistica. E per scalzare sia la proprietà privata che la sovranità statuale
Un linguaggio nuovo è ciò che riduce ad unità le battaglie politiche di dimensione globale per i beni comuni che oggi si ritrovano in piazza. In Italia di queste battaglie e della produzione di questo linguaggio il manifesto è stato in questi anni protagonista, fino ad essere riconosciuto esso stesso come un bene comune. Queste battaglie, dall'acqua all'Università, dal Valle di Roma al no Tav della Val Susa, dall'opposizione ai Cie ai Gruppi azione risveglio di Catania, sono declinate in modo diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di uno stesso decisivo processo costituente. Muta la tattica ed il suo rapporto con la legalità costituita. Resta costante la strategia costituente che immagina la società dei beni comuni. Ovunque si confrontano paradigmi che travolgono la stessa distinzione fra destra e sinistra, consentendo vittorie clamorose come quella referendaria su acqua e nucleare. Il paradigma costituito fondato su un'idea darwinista del mondo che fa della crescita e della concorrenza fra individui o comunità gerarchiche (corporation o Stati) l'essenza del reale. La visione opposta, fondata su un'idea ecologica, comunitaria solidaristica e qualitativa dello sviluppo, può trasformarsi in diritto soltanto con un nuovo processo costituente, capace di liberarsi del positivismo scientifico, politico e giuridico che caratterizza l'ordine costituito da cinque secoli a sostegno del capitalismo che ancora colonizza le menti e i linguaggi. Il modello costituito è sostenuto dalla retorica sullo sviluppo e sui modi di uscita dalla crisi, che i media capitalistici continuano a produrre, nonostante la catastrofica situazione ecologica del nostro pianeta. L'insistenza mediatica è continua e spudorata ma progressivamente meno seducente e le forze costituenti costruiscono nella prassi quotidiana un mondo nuovo e più bello.
L'ordine giuridico costituito è radicato nell'individualismo proprietario, nella sovranità dello Stato sul territorio, e nella stessa visione antropocentrica della modernità (e dell'economia politica) fondata sull'homo oeconomicus e sul survival of the fittest. L'ordine costituente vuole riportare le leggi umane in sintonia con quelle ecologiche, secondo una visione della vita come comunità di comunità, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa.
La visione meccanicistica e positivistica, che configura l'ordine costituito come il solo reale è denunciata nelle piazze oggi perché è responsabile di aver portato il mondo sull'orlo del baratro. Ad essa opponiamo una costituente ecologica, collocando al centro la solidarietà, la bellezza, l'immaginazione e la liberazione dal lavoro alienato. L'individuo solitario, la competizione, la meritocrazia e l'uso della tecnica a fini di sfruttamento sono smascherate oggi come l'ideologia letale che legittima la diseguaglianza e l'accumulo senza fine. Se infatti l'individuo solo in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione sono funzionali alle esigenze di breve periodo dello sfruttamento. L'individuo, reso solo, narcisistico e desideroso di consumare, trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principale orizzonte relazionale. Una condizione umana miserabile che ancora vive della distruzione dei beni comuni e che oggi con gioia e rabbia insieme rifiutiamo.
L'emersione del linguaggio dei beni comuni e la loro riconquista va quindi compresa nell'ambito di uno scontro politico epistemologico e anche psicologico profondo fra due visioni del mondo. Uno scontro che va tradotto in una prassi politica costituente capace di far trionfare a livello globale in tempi estremamente ridotti la sola concezione scientifica compatibile con il mantenimento e l'adattamento di lungo periodo della vita sul nostro pianeta. Si tratta perciò di predisporre un'alternativa, politica e culturale, che sappia scalzare tanto la proprietà privata quanto la sovranità statuale dal ruolo di pietre angolari dell'organizzazione politica costituita. Ciò è possibile solamente mettendo al centro il comune, ossia riconoscendo la primazia della distribuzione sulla creazione di ricchezza, della qualità delle relazioni sulla quantità del capitale, della bellezza sull'osceno. Poiché gli attuali rapporti di forza fra proprietà privata (corporation) e Stato rendono quest'ultimo succube della prima, la battaglia non può limitarsi a strategie costituite. Esse possono soltanto essere tattica, ancorché talvolta vincente come ha dimostrato la battaglia referendaria condotta ex art. 75 Costituzione.
Ridefinire i confini costituzionali dello Stato e allo stesso tempo quelli del profitto e della rendita, secondo un'idea di "meno Stato, meno proprietà privata, più comune" è prassi costituente necessaria che rifiuta oggi le condizioni di realtà create dal dominio e dalla concentrazione del potere. Stiamo costruendo oggi una società ecologicamente sostenibile, coerente con le nostre attuali conoscenze sulla fenomenologia del reale.
In questo quadro teorico lottare per un'entità (acqua, università, culturale, rendita fondiaria, lavoro, informazione) come bene comune al fine del suo governo politico-ecologico è una prima radicale inversione di rotta rispetto al trend della privatizzazione e del saccheggio. Ciò tuttavia non può essere circoscritto dalle condizioni costituite che comporterebbero un ritorno del potere nelle mani di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La tattica è dunque istituzionalizzare un governo partecipato dei beni comuni capace di restituirli alle «comunità di utenti e di lavoratori» secondo il fraseggio della nostra Costituzione (art. 43), ma la strategia non può che essere costituente, per immaginare cominciando a viverlo da subito, un mondo più bello in cui i beni comuni sono goduti secondo criteri di accesso, di rispetto, di uguaglianza sostanziale, di necessità e di condivisione.
Per non sprecare il 15 ottobre, bisogna definire un orizzonte politico alternativo. La crisi devasta le esistenze delle persone e quando chiedono cosa proponiamo per risolvere i loro problemi non possiamo più rispondere «non so».
Zone rosse attorno ai palazzi, allarme violenza, qualche manganellata di troppo, come a Bologna, e alcuni arresti inquietanti, come a Brindisi. Insomma, neanche questa volta l'autorità costituita ha voluto deviare dall'ormai consueto e consunto rito. Prendiamone atto e passiamo oltre.
Ebbene sì, perché la giornata globale contro l'austerity del 15 ottobre, la sua riuscita, il suo significato e la sua incidenza, saranno valutati con ben altri parametri, qui e in Europa. Cioè, con la capacità o meno di segnare la presenza e la rilevanza di un altro punto di vista sulla crisi, alternativo a quello della Bce, del Fmi e della Bm, di Marchionne e di Draghi, degli hedge funds, dei banchieri, delle agenzie di rating eccetera.
In altre parole, il punto è se il 15 ottobre quelli e quelle che stanno fuori dal recinto, per usare la metafora bertinottiana, cioè noi, nella nostra pluralità e nelle nostre diversità, riusciremo ad andare oltre all'esplicitazione dell'indignazione, per evocare ed innescare la nostra costituzione in forza, movimento e discorso, capace di incidere sull'agenda sociale e politica e di produrre cambiamento percettibile.
E attenzione, non è un problema marginale e tanto meno astratto o politicista. Anzi, è questione centrale, urgente e concreta. È centrale perché è illusorio pensare che per il solo fatto che la crisi sia di sistema e non congiunturale, essa porti dunque spontaneamente all'emersione di un'alternativa di sistema. Non è affatto così e la realtà di tutti i giorni si incarica di ricordarcelo: in assenza di alternative politiche dotate di forza sociale autonoma, prevale la risposta alla crisi di coloro i quali la crisi l'avevano provocata.
E la loro ricetta è micidiale, perché radicalizza ed estremizza il sistema in crisi, ridisegnando un'epoca e evocando un Ottocento in salsa global e multimedia. Dunque, niente più compromessi sociali, welfare, contratti nazionali, diritti dei lavoratori e partecipazione democratica. E quello che è peggio, nel vuoto la loro risposta conquista adepti a 360 gradi: Enrico Letta plaude alla lettera della Bce, Veltroni invoca governi tecnici per fare quello che pensa Draghi, Renzi parla come Brunetta, insulta i dipendenti comunali ed acclama Marchionne, la Cgil segue Bonanni sulla via del 28 giugno e così via.
Ma definire un orizzonte politico alternativo è anche un'urgenza, perché il dopo incombe. Non solo c'è la crisi e le politiche anticrisi che picchiano sempre più duro, ma c'è anche la fine del ciclo politico berlusconiano. Non importa sapere se finirà domani, tra un mese o tra un anno, importa sapere che sta finendo e che già oggi tutte le forze e gli attori in campo si scontrano, si muovono e si posizionano in funzione del dopo.
Difficile, davvero, sostenere che tutto questo non riguardi il 15 ottobre e i suoi protagonisti. Sarebbe come dichiararsi indifferenti rispetto alla possibilità di trovarci dopo Berlusconi con un governo della Bce o con un centrosinistra che fa la fine del Pasok greco.
Infine, si tratta anche di un problema concreto, anzi concretissimo. La crisi devasta le esistenze e le aspettative delle persone in carne ed ossa. Che sia una giovane precaria che non sa se il mese prossimo avrà ancora una fonte di reddito oppure uno di quei tantissimi operai della Jabil di Cassina de'Pecchi, della Fincantieri di Sestri-Ponente o dell'Irisbus di Valle Uftia che rischiano il posto di lavoro a causa della crisi, di un certo banditismo imprenditoriale e dell'immobilismo istituzionale, a tutte queste persone non si può rispondere «non so» quando ti chiedono cosa proponi per risolvere il loro problema.
Insomma, piaccia o non piaccia, sabato dobbiamo fare i conti con questa dimensione e questo significa che abbiamo, tutti e tutte, un certa responsabilità. Il 15 ottobre si preannuncia partecipato, ma se sarà soltanto una parentesi, una giornata magari un po' più rumorosa delle altre, allora avremo sprecato un'occasione. Se, invece, accettiamo la sfida e ne uscirà il messaggio che in Italia un altro punto di vista c'è e che si avviano dei nuovi processi politici, allora il domani potrebbe anche riconsegnarci qualche sorriso.
L'ondata di rivolte popolari e di violenza che ha investito in questi mesi il Mediterraneo meridionale non sembra abbandonare i paesi del Maghreb e del Mashrek. C'è chi sostiene che si tratta dell'inizio di una lunga battaglia: la democrazia, si sostiene, è ormai un obiettivo irrinunciabile. Lo è per l'intero mondo islamico e non solo per i giovani e le giovani che hanno manifestato a migliaia contro i regimi dispotici che per decenni hanno oppresso i loro paesi. Ma c'è chi ritiene invece che si tratta del miraggio di giovani temerari, illusi che il mondo islamico riuscirà a liberarsi rapidamente dal dispotismo e dall'oscurantismo di una tradizione millenaria. E c'è chi sostiene che eventi come la fuga improvvisa del presidente Ben Ali e le dimissioni del presidente Hosni Mubarak non potranno cambiare il destino della Tunisia e dell'Egitto. La prepotenza e la violenza del potere è tuttora diffusa in entrambi questi paesi.
In Tunisia la «Rivolta dei Gelsomini» sembra finita nel nulla: una volta decaduta la costituzione e sciolte le camere si è garantito che anche il partito unico sarebbe stato dissolto e sarebbe stata subito introdotta la democrazia. Ma in realtà, in modo sempre più insistente, la borghesia si è schierata per il ripristino dell'ordine e contro le nuove elezioni. E molto spesso la polizia è ricorsa all'uso sanguinario della violenza.
In Egitto il governo di Essam Sharaf ha fatto strage di decine di cristiani copti durante una loro pacifica manifestazione. E le Forze Armate sono tuttora pronte a cancellare nel sangue la speranza di chi ha combattuto per la nascita di un nuovo Egitto, libero e moderno. E altrettanto incerto resta il futuro della Libia, nonostante la volontà delle potenze occidentali di impadronirsi delle infinite ricchezze del deserto libico. Il sangue di civili innocenti continua e continuerà a lungo ad essere versato dai bombardamenti della Nato, voluti dagli Stati Uniti, e dalla disperata e grottesca resistenza di Muammar Gheddafi e dei suoi lealisti.
Non sembra dunque probabile che i paesi islamici del Mediterraneo riescano a raggiungere rapidamente l'obiettivo della democrazia, alla quale i movimenti giovanili continuano ad aspirare intensamente. Ed è anche difficile capire che cosa significa per loro «democrazia» e «Stato democratico» e quali sono le loro concrete aspettative politiche e sociali.
Si tratterebbe anzitutto di domandarsi se sarà possibile convertire le strutture politiche dei paesi arabo-islamici in strutture democratiche compatibili con le loro tradizioni. Se per «democrazia» si intende una partecipazione libera ed eguale di tutti i cittadini ai processi decisionali è inevitabile riconoscere che la nozione di democrazia non appartiene al lessico musulmano e ai valori tramandati dalla tradizione coranica. Basterebbe un semplice riferimento alla Shari'a e al fiqh per esserne convinti, nonostante le tesi di autori come Rashid Ghannushi, Hasan al-Turabi e Samir Amin. Essi sostengono che la diffusione dell'associazionismo nei paesi islamici tende ad affermarsi sempre di più e a profilarsi come una «via islamica alla democrazia».
Non ci dovrebbe essere comunque alcun dubbio che «democrazia» resta un concetto estraneo alla cultura islamica: il mondo musulmano non può servirsene se non come espressione di una realtà politica che si è affermata in Occidente, e solo in Occidente, con lo sviluppo della modernità. E si tratta di una realtà politica investita dal processo di globalizzazione e che tende quindi a trasformarsi in un regime subordinato allo strapotere dei padroni dell'economia di mercato, oggi diffusa nel mondo intero. E i padroni sono in larga parte anche i signori del Mediterraneo.
Un minimo realismo ci suggerisce che è notevole il rischio che prevalgano gli interessi di quella che Luciano Gallino ha chiamato la «nuova classe capitalistica transnazionale». Dall'alto delle torri di cristallo delle più ricche metropoli del mondo questa «nuova classe» cercherà di dominare i processi dell'economia globale, quella occidentale inclusa. In sostanza, «democrazia» finirà per essere definita la somma degli interessi delle grandi imprese produttive e degli enti finanziari, come le banche d'affari, gli investitori istituzionali, le compagnie di assicurazione e così via.
Una generazione di giovani che rischia di rimanere bloccata. Un Mezzogiorno che ha ricominciato a perdere i propri giovani più qualificati, mentre i ragazzi più svantaggiati sono lasciati ad una scuola senza risorse e al lavoro nero. Un’area del lavoro nero senza protezione neppure dai rischi per la salute e per la vita, che viene proposta come l’unica alternativa al non lavoro da un lato, alla criminalità dall’altra. Una qualità del lavoro, anche regolare, spesso bassa anche sul piano della sicurezza. Una disattenzione sistematica e talvolta anche crudele per i bisogni di cura, non solo dei malati, ma dei bambini e delle persone non autosufficienti, con effetti sia di sovraccarico familiare (specie femminile) e di cristallizzazione delle disuguaglianze.
Un territorio che si sfalda alle prime piogge, producendo disastri il cui costo umano e ambientale è sempre più insostenibile non solo dal punto di vista dell’etica e della giustizia, ma anche dal punto di vista economico. Sono questioni non nuove, che tuttavia in queste settimane per una serie di coincidenze sono divenute visibili tutte assieme. Pur nella loro diversità, hanno in comune l’essere testimonianza di uno spreco non solo ingiusto, ma che non possiamo più permetterci come Paese, pena l’impoverimento sociale, se non la stessa rottura della coesione sociale.
Un’agenda dello sviluppo deve partire da qui. Deve cioè farsi guidare dall’obiettivo di porre fine allo spreco di risorse umane, sociali e ambientali di cui questi fenomeni sono l’espressione. Una sorta di New Deal, potremmo dire, con la sua felice combinazione di valorizzazione delle risorse di capitale umano e di sistemazione e valorizzazione del territorio. Proprio perché le risorse finanziarie per le politiche di crescita andranno reperite con ulteriori manovre certamente non popolari e saranno comunque scarse, non possono essere sprecate in iniziative, magari di grande visibilità, ma di impatto sull’occupazione e sullo sviluppo economico dubbio e nel migliore dei casi solo nel lungo periodo. Devono essere indirizzate a obiettivi non più rimandabili di contrasto allo spreco e di valorizzazione delle risorse esistenti, a partire dal capitale umano.
Non serve fare il Ponte sullo Stretto se un quarto dei giovani italiani è senza lavoro e se quelli più istruiti e con più chance di trovare un lavoro fuggono dal Mezzogiorno. Pensare al terzo valico o all’alta velocità in un Paese che frana ogni volta che piove (vale per la Lombardia come, se non più, che per la Campania) appare se non altro un po’ miope. Per non parlare del fatto che il nostro Paese ha una lunga storia di più o meno grandi opere incompiute. Occorre piuttosto mettere in moto una domanda di lavoro che miri a migliorare da subito sia, ovviamente, la condizione dei neo-lavoratori che quella delle comunità in cui vivono.
Un primo settore è quello dell’ambiente, a partire dalla messa in sicurezza del territorio. Una domanda di lavoro che riguarda lavoro a tutti i livelli di qualificazione. Un secondo settore è quello della sicurezza del lavoro. Qui le imprese vanno chiamate alla loro responsabilità, impedendo che si crei una sorta di corto circuito ricattatorio tra mantenimento dell’occupazione e mancata sicurezza. Un terzo settore è quello delle infrastrutture sociali: la scuola di ogni ordine e grado, soprattutto nel Mezzogiorno, i servizi per la prima infanzia per contrastare le disuguaglianze tra bambini, oltre che per favorire l’occupazione femminile, i servizi domiciliari per le persone non autosufficienti.
Dove trovare i fondi? In parte si tratta di rendere più efficiente la spesa attuale. È stato ad esempio calcolato che si spende di più per far fronte ai disastri ambientali di quanto non si spenderebbe per la loro prevenzione. Anche la spesa assistenziale potrebbe essere più efficiente dal punto di vista sia della risposta al bisogno che di quello della creazione di posti di lavoro. È a questo, e non a tagli lineari, che dovrebbe mirare la delega per la riforma previdenziale e assistenziale. In parte anche le imprese devono essere chiamate a una politica di investimenti nel capitale umano – sotto forma di sicurezza e di valorizzazione – se non vogliono limitarsi a competere solo tramite il contenimento dei salari. Ma occorre anche reperire risorse finanziarie nuove. Una tassa sui patrimoni mobiliari e immobiliari, e la re-introduzione dell’imposta sull’eredità sarebbero la soluzione più equa, soprattutto dal punto di vista dei più giovani. Perché compenserebbe le disuguaglianze di origine sociale, che in Italia hanno un peso enorme e inaccettabile sul destino e le chance di vita individuali.
Riusciranno gli Occupanti di Wall Street a trasformarsi in un movimento che abbia sul Partito democratico lo stesso impatto che il Tea Party ha avuto sul Gop ( Grand Old Party, cioè i repubblicani, ndt)? C'è da dubitarne. I Tea Parties sono stati a doppio taglio per la dirigenza del Gop - fonte di nuova energia e nuovi militanti ma anche un handicap quanto a capacità di attrarre il voto degli indipendenti. E l'ostacolo diventerà sempre più chiaro quanto più sarà duro lo scontro tra i due maggiori candidati alle primarie repubblicane, Rick Perry e Mitt Romney.
Finora gli «Occupanti di Wall street» hanno aiutato i democratici. La loro rivendicazione primaria che i ricchi si addossino la loro parte di sacrifici sembra su misura per il nuovo disegno di legge dei democratici per una tassa del 5,6% sui milionari, come anche per la spinta del presidente Barack Obama a revocare il taglio delle tasse voluto da George Bush jr. per i redditi superiori ai 250.000 dollari e per limitare le deduzioni sui redditi alti.
E gli Occupanti offrono al presidente un potenziale argomento per la campagna: «Di questi tempi un sacco di gente che sta facendo le cose giuste non è ricompensata e invece è ricompensata un sacco di gente che fa le cose sbagliate» ha detto nella sua conferenza stampa la settimana scorsa, quando ha predetto che la frustrazione che anima gli Occupanti «si esprimerà politicamente nel 2012 e oltre, finché la gente non sentirà che stiamo tornando ad alcuni valori della vecchia America».
Ma se Occupare Wall street si struttura in qualcosa che somiglia a un vero movimento, allora il Partito democratico potrebbe trovare più difficoltà a digerirlo di quante ne abbia avute il Gop col Tea Party. Dopo tutto, una bella fetta dei fondi elettorali di entrambi i partiti viene da Wall street e dalle sale dei consigli d'amministrazione. Wall street e l'America delle corporations dispongono di nugoli di pr (public-relations) e di eserciti di lobbisti per fare pressione, per non parlare delle inesauribili tasche dei fratelli Koch o di Dick Armey e dei SuperPac di Karl Rove. Anche se gli Occupanti possono accedere a un po' di denaro sindacale, non c'è partita.
Ma la vera difficoltà giace ancora più a fondo. Un po' di storia può aiutare.
Nei primi decenni del XX secolo i democratici non ebbero difficoltà ad abbracciare il populismo economico. Accusava le grandi concentrazioni industriali dell'epoca di soffocare l'economia e avvelenare la democrazia. Nella campagna del 1912 Woodrow Wilson promise di guidare «una crociata contro i poteri che ci hanno governato... hanno limitato il nostro sviluppo... hanno determinato le nostre vite... ci hanno infilato una camicia di forza a loro piacimento». La lotta per spaccare i trusts sarebbe stata, nelle parole di Wilson, niente meno che «una seconda lotta di liberazione».
Wilson fu all'altezza delle sue parole: firmò il Clayton Antitrust Act (che non solo rafforzò le leggi antitrust ma esentò i sindacati dalla loro applicazione), varò la Federal Trade Commission per sradicare «pratiche e azioni scorrette nel commercio» e creò la prima tassa nazionale sui redditi.
Anni dopo Franklin D. Roosevelt attaccò il potere finanziario e delle corporations dando ai lavoratori il diritto di sindacalizzarsi, la settimana di 40 ore, il sussidio di disoccupazione e la Social Security (la mutua). Non solo, ma istituì un'alta aliquota di tassazione sui ricchi.
Non stupisce che Wall street e la grande impresa lo attaccassero. Nella campagna del 1936 Roosevelt mise in guardia contro i «monarchici dell'economia» che avevano ridotto l'intera società al proprio servizio: «Le ore che uomini e donne lavoravano, i salari che ricevevano, le condizioni del loro lavoro ... tutto era sfuggito al controllo del popolo ed era imposto da questa nuova dittatura industriale». In gioco, tuonava Roosevelt, era niente meno che «la sopravvivenza della democrazia». Disse al popolo americano che la finanza e la grande industria erano determinati a scalzarlo: «mai prima d'ora in tutta la nostra storia, queste forze sono state così unite contro un candidato come oggi. Sono unanimi e concordi nell'odiarmi e io accolgo volentieri il loro odio».
Però già nel 1960 i democratici avevano lasciato perdere il populismo. Dalle loro campagne presidenziali erano scomparsi i racconti di avidi imprenditori e spregiudicati finanzieri. In parte perché l'economia era profondamente cambiata. La prosperità del dopoguerra aveva fatto crescere la middle class (che negli Usa comprende il proletariato, ndt) e aveva ridotto il divario tra ricchi e poveri. Dalla metà degli anni '50 un terzo di tutti i dipendenti del settore privato erano sindacalizzati e gli operai avevano ottenuto aumenti generosi e nuovi benefits.
A quel punto il keynesismo era stato largamente accettato come antidoto alle crisi economiche, sostituendo la gestione della domanda aggregata all'antagonismo di classe. Persino Richard Nixon dichiarava «ora siamo tutti keynesiani». Chi aveva bisogno di populismo economico quando la politica fiscale e monetaria appianava i cicli economici e quando i dividendi della crescita erano distribuiti in modo così ampio?
Ma c'era un'altra ragione per il crescente disagio dei democratici rispetto al populismo. La guerra del Vietnam generava una nuova sinistra anti-establishment e anti-autoritaria che diffidava dello stato almeno tanto - se non di più - di quanto diffidasse di Wall street e della grande impresa. La vittoria elettorale di Richard Nixon nel 1968 fu accompagnata da una profonda frattura tra democratici liberal e New Left che continuò per decenni.
Ed ecco Ronald Reagan, il grande affabulatore, che saltò nella breccia populista. Se non fu Reagan a inventare il populismo di destra in America, per lo meno gli dette la sua voce più stentorea. «Lo stato non è la soluzione, è il problema» intonava come un ritornello. Secondo Reagan, erano i faccendieri di Washington e gli arroganti burocrati a soffocare l'economia e a impastoiare la realizzazione individuale.
Il partito democratico non ha mai riassunto le sue posizioni populiste. Certo, nel 1992 Bill Clinton vinse la presidenza promettendo di «battersi per la trascurata middle class» contro le forze dell'«avidità», ma Clinton ereditava da Reagan e George Bush senior un deficit di bilancio così colossale che non poté mettere in campo granché per la sua battaglia. Dopo aver perso la sua lotta per la riforma sanitaria, Clinton stesso annunciò che l'era del big government (il grande stato) era finita e lo dimostrò annientando il welfare state.
Non sono stati i democratici a scatenare una guerra di classe che fu invece il risultato distintivo del populismo repubblicano di estrema destra. Tutti ricordano la pubblicità repubblicana nella presidenziale del 2004 che descriveva i democratici come «tassatori, scialacquatori di fondi pubblici, bevitori di cappuccino italiano, mangiatori di sushi, guidatori di Volvo, lettori del New York Times, trafitti di piercing, amanti di Hollywood».
I repubblicani attaccarono più volte John Kerry come un «liberal del Massachusetts» membro del «set del Chardonnay e del Brie». George W. Bush sfotté Kerry perché trovava ogni giorno una «nuova nuance» sulla guerra in Iraq, con l'accento su nuance per sottolineare l'elitismo culturale francese di Kerry. «In Texas noi non nuance» diceva per raccogliere risate e applausi. Il leader repubblicano Tom DeLay apriva i suoi discorsi elettorali dicendo «Buongiorno, o, come direbbe Kerry, Bonjour».
Il Tea Party è saltato su questo tema classista. Alla Conferenza della Conservative Political Action del 2010, il governatore del Minnesota Tom Pawlenty attaccò «le élites» che credono che i Tea Partiers siano rozzi solo perché «non hanno frequentato le scuole dell'Ivy League e non si ostentano in ricevimenti a base di Chablis e di Brie a San Francisco». Dopo che suo figlio Rand Paul è stato eletto al senato per il Kentucky, il maggio scorso Ron Paul ha spiegato che gli elettori vogliono «liberarsi della gente di potere che guida lo show, la gente che pensa di essere al di sopra di tutti».
Il che ci porta al presente. Barack Obama è molte cose, ma è lontano dal populismo di estrema sinistra più di ogni presidente democratico della storia moderna. È vero: una volta ebbe la temerarietà di rimproverare «i gattoni» di Wall street, ma quella frase fu un'eccezione - che poi gli ha causato problemi senza fine con Wall street.
Al contrario, Obama è stato straordinariamente sollecito verso Wall street e la grande impresa, nominando Timothy Geithner segretario del Tesoro e ambasciatore di fatto di Wall street alla Casa bianca; facendo sì che fosse confermato Bem Bernanke, scelto presidente della Federal Reserve da Bush, e scegliendo il presidente della General Electrics Jeffrey Immelt per guidare il suo Consiglio del lavoro.
La dice ancora più lunga la non volontà del presidente Obama di mettere condizioni al salvataggio di Wall street - non chiedendo per esempio che le banche rinegoziassero i mutui dei proprietari di case in difficoltà o accettassero il ripristino del Glass-Steagall Act (del 1933 che separava nettamente tra banche di deposito e banche d'investimento), come condizioni per ricevere centinaia di miliardi di dollari di denaro dei contribuenti - cosa che ha contribuito alla nuova ondata populista.
Il salvataggio di Wall street ha alimentato il Tea Party e di certo alimenta alcune delle attuali accuse da parte di Occupy Wall street. Ciò non vuol dire che gli Occupanti non potranno avere un impatto sui democratici. Niente di buono succede a Washington - indipendentemente da quanto buoni siano il nostro presidente o i nostri deputati - finché la gente giusta non si aggrega fuori Washington per farlo succedere. La pressione da sinistra è di un'importanza decisiva. Ma è assai improbabile che il moderno Partito democratico abbracci il populismo di sinistra nel modo in cui il Gop ha abbracciato - o meglio, è stato costretto ad abbracciare - il populismo di destra. Basta seguire il denaro, e ricordare la storia.
Economista, Robert Reich è stato ministro del lavoro durante la prima presidenza Clinton. Ora è professore a Berkeley (California). Quest'articolo è ripreso dal sito www.alternet.org.
CHE cosa vogliono le migliaia di cittadini che da quasi un mese manifestano davanti a Wall Street sollevando un´ondata di protesta che interessa ormai le maggiori città americane? Come leggere questo movimento variegato che non ha leadership, non ha scopi definiti, non si lascia facilmente rubricare da un´etichetta di partito? Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni importanti sindacati; ma non è per nulla inquadrabile in un´organizzazione gerarchica e poco inclusiva come il sindacato. Ha certo ottenuto l´adesione di alcuni esponenti democratici di prestigio (e la buona menzione del presidente Obama); ma è critico nei confronti di un partito che non ha dimostrato coraggio di fronte ai repubblicani e attenzione all´impoverimento della società americana. Ma, nonostante questi distinguo rispetto alla politica organizzata, i cittadini che manifestano non sono "mob", non sono una massa arrabbiata di americani invidiosi dei loro pochi ricchi concittadini, come gridano i repubblicani di "FoxNews". E non sono neppure una pericolosa espressione di populismo anarchico, teste calde che vogliono, ancora secondo le accuse repubblicane, dividere l´America con la lotta di classe.
In effetti la stessa espressione "populismo" è poco adatta a rappresentare questo nuovo movimento di protesta, che per la radicalità ma anche ragionevolezza degli slogan e dei messaggi assomiglia al movimento per i diritti civili degli anni ´60, quello che ha manifestato contro la guerra in Vietnam, contro la discriminazione razziale e di genere. In quelle lotte vi era il futuro. L´America di oggi è figlia di quel movimento giovanile. Sarà anche questa volta così? Per molti intellettuali e per alcuni commentatori televisivi potrebbe essere così. E quindi, l´espressione populismo (di per sé una categoria fumosa e difficile da tradurre in un concetto chiaro) è ancora meno adatta.
Populista è certamente il movimento del Tea Party, una congerie di molte delle categorie tradizionalmente associabili a questo tipo di movimento, per esempio: anti-intellettualismo o attacco ai "sapientoni" (per dirla con il Senatore Bossi) perché criticano e non si identificano con le opinioni popolari, istintive e radicali; e anti-governo o attacco alle politiche sociali che creano grossa burocrazia e mettono in moto più Stato e quindi un surplus di controllo della sfera economica. Il Tea Party si sente a suo agio con l´agenda repubblicana che da diversi decenni ha dato la sua totale adesione alla dottrina liberista, la quale addossa le responsabilità del declino economico dell'America a chi propone una più giusta distribuzione della ricchezza non a chi l´avversa, nella convinzione che se la natura degli interessi e dell´accumulazione seguisse il suo corso, a beneficiarne sarebbero tutti in proporzione. La retorica cristiana dei talenti e della responsabilità di usarli al meglio dà pathos a questa ideologia anarco-liberista, che si sente autorizzata dal Vangelo a svolgere la sua propaganda contro lo Stato, luogo satanico del potere e contro coloro che pensano di usarlo per una buona causa di giustizia. Dunque, anti-razionalismo, anti-intellettualismo, anti-governo: ecco gli ingredienti del populismo dei Tea Party. Il quale non è soltanto un movimento di protesta, ma è un movimento con un´agenda politica ben precisa, come il Congresso americano uscito dalle ultime elezioni sta dimostrando. Certo, il Tea Party non è unito sotto la guida di un leader carismatico e in questo non è simile ai populismi europei. È federalista come il Paese nel quale è nato, diramato attraverso le chiese evangeliche, riunito sotto i vari predicatori che mettono insieme l´omelia ogni domenica.
Occupy Wall Street non ha nulla di tutto questo. Ed è questa la ragione dell´incredibile attacco dei leader del Tea Party, i quali hanno annusato molto correttamente che questi manifestanti non hanno nulla da spartire con loro. Occupy Wall Street è un movimento spontaneo, e quindi democratico nel senso più elementare del termine, perché ispirato a ideali di auto-governo e di eguaglianza di cittadinanza. Lo slogan "Noi siamo il 99%" non intende fare guerra all´1%, cioè ai miliardari. Non è l´invidia che li guida come ha sostenuto un candidato repubblicano. Lo slogan chiede più semplicemente che chi ha più deve più contribuire anche perché quel di più lo ha in ragione di politiche adottate dai governi americani dalla fine degli anni ´70. Politiche alle quali tutti hanno obbedito e che però hanno favorito non tutti allo stesso modo. E non a causa dei talenti che il Signore distribuisce diversamente, ma di una mirata e sistematica politica della diseguaglianza.
L´equità fiscale non è proprio un obiettivo rivoluzionario. Se così appare è perché le diseguaglianze economiche e sociali sono ormai così radicali da aver dato vita a due popoli, un po´ come nell´antica Atene: anche oggi, gli oligarchi, benché dentro il sistema democratico, scalpitano per avere privilegi e non sottostare alla regola dell´eguaglianza. Occupy Wall Street mette in luce questa antica e sempre nuova lotta tra oligarchia e democrazia. Soprattutto, mostra come la seconda non sia semplicemente una forma di governo, ma anche un ideale, una visione di società che quando le diseguaglianze si radicalizzano, come ora, non riesce più ad avere il consenso di tutti. L´1% simbolico – i super miliardari – sta a significare che alcuni sono fuori dal patto democratico dell´eguaglianza. È questa la radicalità di Occupy Wall Street.
A chi è indirizzata questa radicalità? Qual è la relazione di questo movimento democratico con la democrazia delle istituzioni? Queste domande mettono in luce la crisi profonda di rappresentatività delle istituzioni democratiche. Occupy Wall Street non ha specifici obiettivi se non uno: entrare in comunicazione con coloro che operano nelle istituzioni, i quali hanno da anni spento l´auricolare e sono, come si dice in Italia, auto-referenziali. Dall´interno dei parlamenti non si vuole ascoltare. La scollatura tra dentro e fuori delle istituzioni democratiche è preoccupante e, purtroppo, non è destinata a risanarsi velocemente. Questo movimento chiede dunque una ricostituzione della rappresentanza politica. Sfida gli eletti nel nome dell´autorità dell´ascolto. E ha senso occupare le piazze fisiche, visto che quelle mediatiche sono interessate a mettere una cortina di silenzio sulle opinioni dei cittadini. Se c´è un contributo che Occupy Wall Street può dare è quello di creare un clima politico finalmente di attenzione; di costringere chi si occupa delle politiche nazionali a non girare le spalle a coloro che di quelle politiche devono subire le conseguenze. Si tratta di un richiamo ai principi democratici, dunque: a quella promessa di libertà e giustizia per tutti che è scritta nelle nostre costituzioni.
L’egemonia culturale della destra conduce ad assumere, nel linguaggio corrente, l’espressione “lotta di classe” come significativa di una volontà di ribellione contro l’ordine sociale e i ceti benestanti. Viene adoperata come un manganello per colpire, dileggiare, screditare le proteste contro qualsivoglia Palazzo, soprattutto quello dominato dall’economia data. In realtà il termine ha un significato del tuto diverso. Nell’analisi di Marx essoesprime il fatto che il contrasto tra gli interessi del capitale (aumentare i profitti9 e quelli del proletariato (aumentare il salario) oggettivamente confliggono. Il conflitto quindi (la “lotta di classe”) è implicito nel sistema capitalistico. Qualche tempo fa si diceva, in qualche ambiente della sinistra, che la lotta di classe era finita, perché l’avevano vinta gli altri. Evidentemente non è così, la crisi del finanzcapitalismo, e il modo in cui il Palazzo globale vuole uscirne, rende trasparente il fatto che il conflitto (la lotta di classe) c’è, e gli altri stanno picchiando ancora più forte di prima. Il popolo, anche a Manhattan, se ne accorge. Ciò spaventa chi detiene il potere: squarciare il velo che copre la realtà del sistema è un oltraggio intollerabile. Ecco quindi l’anatema: dagli all’untore, che predica e vorrebbe praticare la “lotta di classe”.
Con gli esecutivi di centro destra l'esposizione è cresciuta del 13,5% contro una media del 5,1%. Dal 1982 lo stock è passato dal 63,1% al 121,8% del Prodotto interno lordo
Silvio Berlusconi
ROMA - Da quando Silvio Berlusconi è sceso in politica, nel 1994, sotto i sui tre governi, il debito pubblico è cresciuto più del doppio rispetto agli esecutivi guidati dai suoi avversari.
Negli ultimi 17 anni, Berlusconi è stato presidente del consiglio per quasi la metà del tempo registrando un incremento complessivo del debito pubblico del 13,5%. Molto più del 5,1% registrato sotto la guida degli altri quattro primi ministri: Lamberto Dini, Romano Prodi (due volte), Massimo D'Alema e Giuliano Amato.
Il 13 settembre scorso, a Strasburgo, in Francia, Berlusconi spiegò di aver ereditato il debito dalle amministrazioni che lo avevano preceduto. Il fardello del debito è quasi raddoppiato tra il 1982, quando ammontava al 63,1% del Pil, e il 1994, quando sotto il primo governo guidato da Berlusconi arrivò al 121,8%. Nel 2007, con Romano Prodi a Palazzo Chigi, il debito è sceso al 103,6%, al livello più basso dal 1991.
"Berlusconi non è stato certo aiutato dalla recessione che lo ha colpito mentre era al governo e dagli alti tassi di interesse che hanno aumentato il costo del debito" dice Paolo Manasse, professore di economia all'Università di Bologna. "Tuttavia - prosegue Manasse - con Berlusconi la spesa pubblica è sempre aumentata, anche negli anni di crescita economica e questo, insieme a scelte come quella di abolire la tassa sulla proprietà nel 2008, ha contribuito ad aumentare il debito pubblico".
Le tre principali agenzie di rating hanno recentemente tagliato il giudizio sullo stock italiano, proprio mentre il Paese sta lottando per evitare di essere contagiato dalla crisi europea dei debiti sovrano cercando di portare il proprio sotto il livello 120% del Pil. Il fardello più alto d'Europa, dopo la Grecia.
L'8 agosto scorso la Banca Centrale europea ha iniziato a comprare titoli di Stato italiani dopo che i rendimenti erano schizzati alle stelle e la Grecia si avvicinava al fallimento.
L'immagine è tratta dal sito Bloomberg news online
Per le indicazioni molto dettagliate che contiene, la lettera che Trichet e Draghi hanno inviato al governo italiano conferma quel che alcuni hanno detto: l´Italia di fatto è governata da autorità sovranazionali non elette, che non devono render conto davanti ai cittadini. Pur non appartenendo a un partito, non sono autorità tecniche: fanno politica in senso pieno, governano i conflitti della pòlis constatando che è malgovernata. È un rapporto feudale che viene instaurato: il vassallo inadempiente è salvato dal vero sovrano, e in cambio gli giura obbedienza e restringe le proprie libertà.
Di primo acchito sembrerebbe che solo così possa nascere un´Europa politica, potente mondialmente. Ma le cose sono più ambigue, torbide. Uno Stato corroso come il nostro, manomesso da un premier che lo scardina privatizzando il bene pubblico, non fa nascere l´Europa ma la snatura. A nulla serve che gridi contro il duopolio franco-tedesco; non lo udranno. Il caso Italia dovrebbe far riflettere l´Unione, perché crea un precedente grave: se un organo federale di natura tecnica interviene con pesantezza inusitata su un paese membro, è perché ha di fronte a sé un non-governo, un non-premier. Non è prepotenza la sua, ma il diritto naturale all´interferenza che la Bce acquisisce comprando il nostro debito a colpi di miliardi e risparmiandoci la bancarotta. Il governo sovranazionale ci tiene in piedi, e il potere che acquisisce è la risposta a un´inettitudine, un´impotenza. La crisi dell´euro rimette in questione le sovranità nazionali, svelandone l´illusorietà, e al tempo stesso ridisegna a caldo le loro democrazie, non senza insidie e squilibri fra Stati iper-sovrani e Stati non più sovrani. Il modo in cui le ridisegna è la questione del momento.
Rileggere la lettera della Bce, simile a quelle inviate a Atene e Madrid, Lisbona e Dublino, è istruttivo. Il presidente della Banca centrale non si limita a indicare parametri. Entra negli anfratti della legislazione, decide il suo farsi. Il punto saliente è quello in cui, dopo aver elencato le misure per evitare il default, raccomanda perentorio: «Vista la gravità dell´attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate (...) siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011». Quello che si prescrive è un metodo decisionale (il decreto) che mina la democrazia rappresentativa sin qui conosciuta.
Il decreto è un provvedimento adottato «in casi straordinari di necessità e d´urgenza» (articolo 77 della Costituzione). L´abuso che Berlusconi ne fa è stato più volte criticato dal Capo dello Stato, che della Carta è custode. D´un tratto siamo intimati di aumentarne l´abuso. Le lunghe discussioni parlamentari vanno scavalcate, in nome dell´emergenza. È quanto accade in guerra, quando saltano le procedure ordinarie e predomina un gruppo di esperti (i militari). Qui sono i banchieri centrali a prevalere, anche se operano in rappresentanza di tutta l´eurozona (Italia compresa). Per forza giocano un ruolo politico che sulla carta non hanno, quando i governi da sé non ce la fanno. Per forza la Bce impone la stretta decisionista, a un governo che per anni ha negato la crisi, temendo scelte difficili. La crisi delle democrazie è causa ed effetto di questo prevalere della necessità su una libertà che è fittizia, della tecnica su una politica non meno fittizia. Per questo l´Italia è, in Europa, un precursore in negativo: l´opposizione, quando tornerà al governo, dovrà riconoscere che queste necessità ti vengono imposte, se non le assumi. Altrimenti avrà ragione la Bbc: «Una delle prime vittime della crisi dell´Eurozona sarà la democrazia».
L´elusione del dibattito democratico classico è evidente in altri passi della lettera. Tra questi: i paragrafi riguardanti la «privatizzazione su larga scala» dei servizi pubblici (nonostante un referendum italiano ostile a tali privatizzazioni); la riforma salariale collettiva (gli accordi al livello di impresa devono essere «più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione»); le norme sul licenziamento; la riduzione di stipendi per i dipendenti pubblici. Perfino su una questione delicata (l´introduzione nelle aziende pubbliche degli indicatori di performance) la Bce interviene senza curarsi della discussione che il tema suscita in Europa. Gli indicatori di prestazione - è scritto in numerosi rapporti di medici e psicologi francesi - vanno maneggiati con prudenza perché ledono la tenuta della società, specie in recessione. L´ondata di suicidi avvenuta nel 2009 in aziende come Telecom-Francia e Renault è legata all´introduzione, nel management, di queste forme di controllo.
I conflitti non vengono superati, sospendendo procedure democratiche tradizionali. Si acuiscono, perché non più rappresentati né governati democraticamente. Quel che rischia di scomparire, quando uno Stato impotente è messo in riga, è lo spazio politico dentro il quale più visioni del mondo possono contrapporsi, misurarsi. L´alternativa, sale della speranza, è sostituita da alternanze formali destra-sinistra. Un´unica linea sembra imporsi, respinta ciecamente da cittadini che la vedono decretata e non discussa.
Naturalmente la lettera non ha quest´unico significato, di restringimento dello spazio democratico. Nel governo tecnico di Francoforte è incorporata anche l´Italia, e paradossalmente il restringimento è dovuto al fatto che l´organo sovranazionale agisce in nome di uno spazio ben più vasto, che i politici nazionali tendono sistematicamente a ignorare. Lorenzo Bini Smaghi, membro dell´esecutivo Bce, è stato chiaro, in un discorso a Poros dell´8 luglio: «L´unione monetaria implica un grado di unione politica molto più ampio di quanto abbiano mai pensato molti commentatori, politici, accademici, e anche cittadini. Questo perché in un´unione monetaria, le decisioni prese in una singola parte coinvolgono le altre parti, in modo diretto e a volte drammatico». Quel che i popoli faticano a capire è che «già c´è un´unione politica, anche se l´intelaiatura istituzionale non garantisce un processo decisionale pienamente compatibile con essa».
Resta che un´Unione siffatta non è vista come democratica dai popoli; e non essendolo, inasprisce le loro chiusure nazionali: non solo in Italia ma anche in Germania. I suoi organi danno l´impressione che l´unica preoccupazione sia la tenuta dei conti: non della società, delle regole, della giustizia, dell´etica pubblica. A prima vista è allarmante, ad esempio, che nella lettera della Bce manchi ogni accenno alla sostanza del modello europeo: giustizia sociale, tasse ripartite con equità e senza evasione, correzione delle disuguaglianze abnormi createsi dagli anni ‘80 fra generazioni, classi, regioni.
Dietro queste apparenze, tuttavia, c´è una realtà meno semplice, che vale la pena esplorare. Prendiamo il caso greco, che illumina molte oscurità. Se nelle sue raccomandazioni la Bce non insiste sul modello europeo, è perché in alcuni Stati il modello è proclamato, non praticato. È l´accusa lanciata dall´economista Yanis Varoufakis, ex consigliere di Papandreou: è vero, Atene è stata costretta a misure socialmente devastanti, ma perché non ha avuto il fegato di imporre una tassa sui ricchi, che da decenni godono di vaste immunità: «È a questo punto che Bce e Fmi hanno detto: ok, se rinunciate alle tasse allora tagliate pensioni e salari dei meno abbienti». Gli organi europei «sono class-indifferent», indifferenti a come gli Stati sanano, equamente o no, i conti.
Altro è il loro difetto. Nei confronti degli Stati più potenti, le istituzioni europee non hanno la stessa imparzialità: non sono nation-indifferent. Il Fondo salva-Stati, che Merkel e Sarkozy vogliono dominare non rendendolo federale ma preservando il diritto di veto di ciascuna nazione, nasce imbelle. Nel 2003, Berlino e Parigi trasgredirono il Patto di stabilità: invocarono l´impunità con una sfacciataggine che ancor oggi pesa. Pesa come un masso, nel mezzo della crisi economica e democratica che gli europei stanno vivendo.
Il testo intergrale della lettera della BCE nell'originale inglese e nella traduzione italiana, dal Corriere della sera.
Secondo l'analisi commissionata dai promotori, l'Expo avrebbe una ricaduta positiva sull'attività economica (il valore aggiunto) pari a tre volte la spesa iniziale e un effetto sull'occupazione di 60mila addetti all'anno per dieci anni.
Numeri simili tipicamente accompagnano i lanci di altri grandi eventi, quali Olimpiadi, Gran premi di Formula 1, Giubilei, Colombiadi, Mondiali di calcio e di nuoto, riunioni del G-7, e di infrastrutture quali l'Alta velocità e il Ponte sullo Stretto. È difficile opporsi a numeri del genere, e infatti infrastrutture e grandi eventi sono forse le uniche iniziative che godono quasi sempre di un supporto bipartisan.
Ma sono numeri fuorvianti, perché basati sul classico meccanismo dell'analisi di valore aggiunto: i promotori ipotizzano che i salari dei lavoratori e i profitti delle imprese che lavorano all'Expo vengano in gran parte usati per acquistare beni e servizi. Poi si aggiungono altri benefici eventuali di varia natura (ambiente, tempi di viaggio risparmiati, "attrattività"), e anche i ritorni fiscali.
Alla fine è facile arrivare a moltiplicatori di due o tre. Anzi, è quasi impossibile arrivare ad effetti negativi. Cosa manca in questa analisi? L'euro iniziale avrebbe potuto essere speso in mille altri modi. Un'analisi corretta deve dimostrare che i benefici dell'Expo sono non solo positivi, ma anche superiori ai benefici degli usi alternativi, incluso l'uso più naturale – lasciarlo nelle tasche dei cittadini (per i tanti che a questo punto si alzeranno in piedi per invocare il santo patrono Keynes, diciamo che anche Keynes era perfettamente cosciente di questo).
Questa non è una discettazione tra accademici: prima di spendere tra i 7 e i 14 miliardi (quasi l'1% del Pil) sull'Expo, tra i 5 e i 10 per la Tav, forse una decina per il Ponte sullo Stretto (tutte le cifre sono a tutt'oggi molto incerte), si dovrebbe avere una ragionevole certezza che ne valga la pena. Invece analisi costi – benefici in Italia non si fanno, o si fanno per finta, commissionandole ai soggetti interessati: si fanno invece molte analisi di valore aggiunto, che dicono sempre sì.
Questo spiega anche un fenomeno frequente: ai promotori di questi eventi interessano poco i contenuti, quello che li motiva realmente sono i fondi pubblici “dedicati” che arriveranno dall'amministrazione centrale, e le rendite immobiliari che ne derivano. L'Expo illustra perfettamente questo meccanismo. Anni dopo che si è deciso di partecipare alla gara, non si sa ancora se farne un'occasione per rendere più o meno verde la città, per rilanciare la moda o l'agricoltura, per fare degli orti botanici o dei centri congressi, per non parlare delle varie proposte di musei uno più improbabile dell' altro (mentre in quelli che già ci sono piove dentro).
Ma questo è in un certo senso secondario rispetto alla “vittoria” dei milanesi che hanno strappato a Roma i fondi per l'evento. Per questo è politicamente quasi impossibile smarcarsi dalla logica dei grandi eventi: chi oserebbe mai opporsi a nuove infrastrutture regalate dall'amministrazione centrale? Un milanese che lo facesse sarebbe considerato un traditore dai suoi concittadini.
Si dice spesso che eventi e infrastrutture non devono essere valutati solo per i loro “aridi” costi e benefici monetari, ma anche per il loro valore simbolico, per la loro capacità di aggregare le forze di una città o di un paese e di dare il primo slancio per un rinnovamento totale. Noi crediamo che sia esattamente l'opposto. Che slancio, che orgoglio nazionale possono esserci nel gettare miliardi in gallerie ferroviarie sovradimensionate, solo perché la politica non ha il coraggio di fare un passo indietro, ammettere l'errore e opporsi alle lobby dei costruttori? O nel gettare miliardi in innumerevoli edifici che servono ai costruttori ma non alla città, e che saranno inevitabilmente sottoutilizzati e dismessi il giorno dopo che finirà l'Expo, dando ai cittadini e a tutto il mondo l'ennesima immagine di spreco e di degrado?
Eventi e infrastrutture inutili distolgono risorse finanziare, politiche ed umane dal lavoro molto più oscuro ma molto più importante dell'ordinaria amministrazione. Con una minima frazione del costo dell'Expo, che da anni monopolizza il dibattito e l'attenzione dei milanesi e causa lotte senza fine per accaparrarsi le poltrone giuste, si potrebbe fare molto di più per migliorare la vita dei cittadini: dal tenere le strade pulite a riempirne le buche, dal mettere a posto le scuole a ripulire i navigli, da pulire i graffiti sui muri a migliorare i servizi sociali. E contrariamente a quanto credono i politici, queste iniziative contribuirebbero a migliorare l'immagine di Milano in Italia e all'estero molto più di un evento, come l'Expo, che all'estero ha una risonanza minima.
Si cita spesso Barcellona 1992 come il caso tipico di un grande evento che ha rigenerato una città. Ma non si citano mai i tanti eventi o infrastrutture fallimentari, molti nella stessa Spagna e in anni recenti, come gli Expo di Saragozza e Siviglia, o l'alta velocità Madrid-Siviglia. Per non parlare delle Olimpiadi di Atene, all'epoca osannate da tutti ma, oggi sappiamo, una delle cause principali del dissesto greco. I conti bisogna farli con cura prima, perché dopo nessuno avrà interesse a verificare che molti soldi pubblici sono stati buttati, e a far pagare i colpevoli.
La «tigre di carta» americana e gli a-islamici Pakistan e Arabia Saudita. Questi gli obiettivi di Osama bin Laden. Che cosa è accaduto a questi tre paesi?
Immagino una conversazione dell'11 settembre 2011 in cui i grandi capi di al Qaeda esprimono un giudizio sullo stato delle cose a dieci anni dall'attacco portato su suolo americano. Credo che si complimenterebbero per quanto hanno ottenuto. Per capirlo dobbiamo considerare quello che ritenevano di dover ottenere con l'attacco dell'11 settembre. Allora Osama bin Laden espresse chiaramente i suoi obiettivi sul lungo periodo. Disse di voler cancellare ottanta anni di umiliazione per il mondo islamico. Ottanta anni? Bin Laden si riferiva all'eliminazione del califfato nel 1924 (non proprio 80 anni) ad opera di Mustafa Kemal Ataturk. Il suo obiettivo dichiarato era la restaurazione di un califfato, presumibilmente ad opera di un discendente diretto di Maometto, che regnasse sull'intero mondo islamico e che fosse governato dalla sharia.
Che cosa si opponeva a un simile progetto? Tre grossi ostacoli. Il primo erano gli Stati Uniti che usavano il loro potere per soggiogare il mondo islamico. Il secondo e il terzo erano i governi di Arabia Saudita e di Pakistan, che bin Laden considerava due pilastri di supporto degli Stati Uniti all'interno del mondo islamico, e di cui denunciava i governi come «a-islamici». In che modo gli attacchi dell'11 settembre lo avrebbero avvicinato al suo obiettivo? Seguiamone il ragionamento. L'attacco diretto e spettacolare agli Stati Uniti sullo stesso suolo patrio era inteso a mostrare come il paese fosse una "tigre di carta" e a insinuare paure profonde negli americani a proposito della loro incolumità e del loro futuro collettivo. Solo la settimana scorsa, al Qaeda ha criticato pubblicamente il presidente iraniano Ahmaninejad per aver suggerito che l'attacco dell'11 settembre era opera degli americani e non di al-Qaeda.
Gli americani, nelle speranze di bin Laden, sarebbero stati trascinati in una "guerra", una guerra che non avrebbero potuto vincere, pur non "perdendola" sul breve periodo dal punto di vista militare. Bin Laden prevedeva che lo stress continuo di una guerra senza fine avrebbe finito per fiaccare gli Stati Uniti, per via degli alti costi materiali e geopolitici. Se questo era l'intento di bin Laden, sarebbe difficile, nel 2011, sostenere che gli ultimi dieci anni abbiano mostrato che aveva torto.
Ma allora perché cercare di colpire anche il governo saudita e quello pachistano? E in che modo? Secondo Bin Laden entrambi i governi - che riteneva corrotti oltre che a-islamici - riuscivano a sopravvivere, anzi a fiorire, per via dell'ambiguità del loro discorso. Entrambi i governi cercavano di conservare il supporto sia delle élite occidentalizzanti e materialiste, sia delle forze popolari fortemente islamiche parlando due lingue: una al mondo occidentale e una a quello interno.
La strategia di Bin Laden era chiaramente di svelarne la duplicità per forzarli a scegliere tra i due discorsi. Per questo contava sulla pressione statunitense - come effetto dell'11 settembre - che lo avrebbe aiutato a fare quello che voleva. Ovvero gli Stati Uniti sarebbero divenuti il suo strumento per fare leva sui regimi saudita e pachistano costringendoli a mettere fine a quella ambiguità.
Oggi, nel 2011, sembra chiaro che questo è esattamente quanto si sta verificando in Pakistan. Con la situazione militare sempre più difficile per gli Stati Uniti in Afghanistan, gli Usa tollerano sempre meno che il regime pachistano - o almeno quella parte del regime rappresentata dai potenti servizi segreti, Isi - dia apertamente sostegno a vari gruppi che combattono attivamente gli Stati Uniti in Afghanistan: i Talebani, la rete Haqqani, e la stessa al Qaeda.
Il Congresso statunitense, sempre più inquieto, chiede di tagliare gli aiuti al Pakistan. Il nuovo Segretario della Difesa, Leon E. Panetta, spinge per un'azione militare americana diretta in Pakistan. E perfino l'ammiraglio Michael Mullen, capo di stato maggiore uscente, che finora aveva insistito sul mantenere grande prudenza nei confronti dei pachistani (riflettendo la forte riluttanza interna alle forze armate statunitensi a impegnarsi militarmente su un'ennesima arena), sembra abbia definitivamente perso la pazienza ed ha criticato apertamente il governo pachistano.
Come ha risposto il Pakistan? Il ministro degli interni, Rehman Malik, ha a sua volta apertamente criticato gli attacchi unilaterali degli Stati Uniti ai militanti islamisti in Pakistan, e ha chiesto agli Stati Uniti il «rispetto della sovranità» del paese. I pachistani si sono poi rivolti agli altri stretti alleati per trovare sostegno. E hanno ottenuto il pieno appoggio a difesa della loro «sovranità» dal vice primo ministro cinese. E il capo dell'Isi è volato in Arabia Saudita per rinsaldare la comune resistenza pachistano-saudita alla pressione Usa.
Al Qaeda si può rallegrare del fatto che sia stata proprio l'uccisione del loro leader ad opera dei Navy Seals statunitensi a precipitare il conflitto aperto tra leader statunitensi e leader pachistani, esponendo così pubblicamente la divisione interna al governo pachistano tra coloro che avevano contribuito a nascondere bin Laden (e di conseguenza non erano stati informati dagli Stati Uniti del raid imminente) e i complici del governo Usa, che avevano indicato il rifugio di bin Laden. Dopo il blitz la quasi totalità dell'opinione pubblica pachistana era unanime nel condannare l'attacco americano.
Oggi, l'alleanza Stati Uniti-Pakistan è generalmente ritenuta fragile e al Qaeda di certo se ne compiace. Ma ha avuto altrettanto successo rispetto al regime saudita? Non proprio. Il governo dell'Arabia Saudita è riuscito a perseverare nella sua ambiguità fino a un certo punto ma solo prendendo maggiori distanze dagli Stati Uniti e dalle loro diverse azioni all'interno del mondo arabo. Il regime saudita era ovviamente preoccupato che si potesse arrivare a una rottura delle relazioni con gli Usa analoga a quella che si sta verificando Pakistan.
I sauditi sono riusciti in questo combinando una grande fermezza interna con alcune ulteriori concessioni ai gruppi di élite (come testimonia il recente annuncio secondo cui le donne avranno diritto di voto), l'intervento diretto, se necessario, a sostegno dei governi dei vicini stati del Golfo (come testimoniato dalle truppe spedite in aiuto al governo del Bahrain), e un aumentato aiuto economico e diplomatico ai palestinesi. Ma tutto questo basterà? Il più grosso problema per il regime è la controversa minoranza sciita oppressa che si trova fortuitamente proprio nei pressi dei più grandi depositi di petrolio. Inoltre al-Qaeda non aiuterà il regime sciita a trattare in modo intelligente le rivendicazioni sciite.
Dunque, come riassumere tutto questo? I leader di al Qaeda sono stati uccisi in gran numero dai reparti speciali statunitensi, questo è vero. E di fatto hanno perso lo stesso bin Laden. E tuttavia non sembra che questo li abbia rallentati. Al Qaeda è diventata un franchising islamico, e a quanto pare si formano sempre nuovi gruppi ansiosi di portarne il nome, anche se di fatto agiscono in modo autonomo. Gli Stati Uniti oggi sono chiaramente più deboli dal punto di vista geopolitico rispetto al 2001. Il regime pachistano lotta per sopravvivere e quello saudita è molto preoccupato. Il Califfato non è ancora risorto, ma i leader di al Qaeda sanno essere pazientemente impazienti. Dal punto di vista operativo sono impazienti. Da quello strategico sono molto pazienti.
Traduzione di Maria Baiocchi. Nell’icona: Manhattan, 11 settembre 2001 /foto Reuters
All’interno della crescita esponenziale che ha caratterizzato l’industria finanziaria mondiale negli ultimi 30 anni, un posto di rilievo è sicuramente rappresentato dai cosiddetti derivati finanziari. Si tratta di strumenti che hanno permesso e ancora oggi permettono – di trasferire in misura massiccia i rischi da una persona ad un’altra.
Il meccanismo è semplice: un soggetto si impegna a compensare un altro soggetto nel caso in cui un debitore si trovi per una serie di motivi predeterminati nella condizione di non poter onorare il proprio debito. Quando a metà degli anni Ottanta i derivati cominciarono a diffondersi, la Banca dei Regolamenti Internazionali aveva subito avvertito che in questo modo il rischio poteva finire nelle mani di soggetti assai poco attrezzati per valutarlo e gestirlo adeguatamente e, soprattutto, non sottoposti ad una adeguata vigilanza.
Eppure proprio coloro che avrebbero dovuto padroneggiare la materia meglio di chiunque altro la complessa e intricata galassia degli economisti finanziari non sembrava particolarmente preoccupato. Vi era anzi una fiducia pressoché totale nel fatto che, proprio grazie all’uso dei derivati, il sistema finanziario e creditizio avrebbe avuto la possibilità di aumentare la propria efficienza e favorire una crescita economica duratura. A provarlo è un questionario che l’International Swaps and Derivatives Association ha sottoposto nel febbraio del 2004 a 84 professori di finanza appartenenti alle 50 migliori business school mondiali fra cui la Columbia University, il MIT, l’Università di Chicago e anche la nostra Bocconi.
A leggere oggi le risposte a quelle domande c’è da restare quasi increduli: il 98% degli intervistati sosteneva che i derivati avrebbero consentito alle imprese di aumentare stabilmente il valore azionario. Addirittura il 100% sosteneva che l'uso dei derivati avrebbe aiutato le aziende a gestire meglio il rischio finanziario. Più della metà di chi ha risposto al questionario sosteneva che i derivati non avrebbero creato nuovi rischi. Ma il bello viene alla fine: il 99% degli intervistati credeva che l’impatto dei derivati sul sistema economico globale sarebbe stato positivo e oltre l’80% era sicuro che i rischi associati all’uso dei derivati fossero stati sovrastimati.
LA REALTÀ E LA TEORIA
A giudicare da come sono andate le cose viene da pensare che avesse ragione Josiah Bartlet, il presidente degli Stati Uniti e Nobel per l'economia della celebre serie televisiva The West Wing, quando diceva che «gli economisti servono solo per dare credibilità agli astrologi». Con la mente oscurata da modelli matematici sempre più complessi e da ipotesi sempre più ardimentose, gli studiosi di finanza avevano perso di vista la realtà delle cose, ovvero il fatto che l’innovazione finanziaria stava cambiando il rapporto fra produttori e finanziatori, con tutti le conseguenze che questo stava portando con sé.
La dissociazione fra realtà e teoria è un errore che è stato ripetuto anche negli ultimi mesi in Europa. Con il supporto di economisti e commentatori in gran parte vicini alle forze politiche conservatrici, le istituzioni europee hanno insistito nell’affermare che per rilanciare la crescita economica era necessario impostare sempre più gravosi piani di austerità per ridurre rapidamente l’indebitamento.
L’idea di fondo è che a fronte dell’impegno dei singoli governi a ridurre la spesa pubblica e successivamente le tasse, le famiglie si sarebbero attese “razionalmente” di poter beneficiare in futuro di un crescente reddito disponibile e quindi avrebbero aumentato i propri consumi sin da subito rilanciando così la domanda.
A giudicare dai risultati finora ottenuti, non sembra che questa bizzarra teoria avrà maggiore fortuna di quella che aveva portato a decantare le lodi dei titoli derivati. Proprio l’altro ieri l’Economist confermava la revisione al ribasso delle stime di crescita per i prossimi mesi già preannunciate dalla JP Morgan dieci giorni fa. Essere accostati agli astrologi è una cosa che certi economisti hanno loro malgrado imparato ad accettare. Non vorremmo invece che i politici europei finissero per prendere l’abitudine di essere le uniche persone che ancora credono a maghi e fattucchiere.
Mentre la politica italiana s´ingarbuglia nella complicata liquidazione del berlusconismo, le prime vittime della Grande Depressione, cioè i giovani, mirano più in alto. Da temerari, lanciano una sfida globale contro la superpotenza finanziaria. Usano lo spagnolo per definirsi indignados. Scrivono in inglese i loro striscioni: Save school, not banks! S´interconnettono nella scelta dei bersagli: agenzie di rating, Borsa, banche d´affari, istituzioni finanziarie sovranazionali. Se la primavera araba ha abbattuto dei tiranni decrepiti, l´autunno occidentale si misura con l´anonimato di un´altra tirannia che traballa: i dogmi di un´economia incapace di distribuire equamente il benessere.
Troppo facile accusarli di velleitarismo, ora che il loro movimento ha circondato perfino il santuario di Wall Street. Neanche il più nostalgico dei marxisti avrebbe osato pronosticare un simile evento storico: lo spettro dell´anticapitalismo si aggira per gli Stati Uniti d´America? Calma e gesso, l´individualismo e lo "spirito animale d´intrapresa" restano connaturati all´America. Mai però la contestazione aveva insidiato prima d´ora i forzieri del capitale, là dove buona parte della ricchezza planetaria viene convogliata e ripartita secondo criteri incomprensibili a noi comuni mortali. Fino a erigere la piramide assurda dell´ingiustizia sociale che neppure i suoi beneficiati osano più giustificare.
Nella Grande Depressione in corso ormai da quattro anni, ha proliferato dapprima diffuso un senso comune anti-élitario, di destra o di sinistra. E ora ne scaturisce un´inedita contestazione eretica dei vincoli dell´economia di mercato. Quando è apparso evidente come all´arricchimento smisurato di pochi corrispondesse l´impoverimento di nazioni intere, gli indignados hanno lanciato la rivolta contro gli intoccabili.
Questi giovani pretendono (si illudono?) di dare un volto ai giocatori che speculano sull´azzardo finanziario. Denunciano le conseguenze di un debito da costoro continuamente riacceso e dunque (solo per loro vantaggiosamente) infinito. Insieme ai tecnocrati, contestano i professori di economia arcisicuri che la sofferenza sociale vada sopportata, perché dalla crisi si uscirà prima o poi ripristinando la baldoria di prima.
La simultaneità dei movimenti di protesta giovanile esplosi a ogni latitudine, rompe i vecchi schemi terzomondisti. Oggi è nel cuore del sistema capitalistico occidentale che si genera l´antagonismo sociale, impersonato da soggetti nuovi come i lavoratori della conoscenza. D´un colpo è invecchiata pure la terminologia suggestiva ma generica di Toni Negri sull´"Impero" circondato da "moltitudini" espropriate: un movimento statunitense che si autodefinisce "Occupy Wall Street" esprime ben altro che la protesta delle periferie del pianeta. Atene, Tel Aviv, Madrid, Santiago non sono più così distanti da New York. Semmai è l´Occidente stesso che comincia a patire le conseguenze della sua eclissi. Smette di credere alla favoletta della ripresa dietro l´angolo, perseguibile con apposite manovre governative dettate dall´alto. Dubita dell´efficacia di piani di rientro del debito sempre più onerosi. Si domanda se una civiltà che prevede un limite ai minimi salariali, per sostenibilità non debba contemplare pure un limite ai compensi elevati.
Trovano così cittadinanza, nel senso letterale del termine, le domande scandalose che purtroppo l´accademia e l´establishment commettono l´errore di liquidare con sufficienza.
La politica, compresa la politica di sinistra, evita di rappresentarle, considerandole naïf, perché a sua volta affida le proprie chance di successo ai rapporti confidenziali che intrattiene con l´accademia e l´establishment. Nessuno che aspiri a governare l´Italia, per esempio, azzarderebbe una contrapposizione esplicita alla lettera-diktat spedita dalla Bce l´agosto scorso. Gli indignados di casa nostra, viceversa, pretendono di consegnare nei prossimi giorni alla Banca d´Italia una lettera dai contenuti diametralmente opposti.
L´appello messo in rete per la giornata europea di mobilitazione, convocata il prossimo sabato 15 ottobre, si rivolge alla Commissione europea, alla Bce e al Fondo monetario internazionale, assimilati alle multinazionali e ai poteri forti: "Ci presentano come dogmi intoccabili il pagamento del debito, il pareggio del bilancio pubblico, gli interessi dei mercati finanziari, le privatizzazioni, i tagli alla spesa, la precarizzazione del lavoro e della vita". La replica degli indignados è secca: "Non è vero che siano scelte obbligate". Alla politica chiedono di esercitare un contropotere rispetto alla superpotenza finanziaria globale, perfino rivendicando il "diritto all´insolvenza".
L´equazione grossolana secondo cui "il debito non l´abbiamo contratto noi, quindi non lo paghiamo", comincia a essere declinata in forme più articolate. Come l´ipotesi di un "default concordato e selettivo" a protezione dei ceti deboli. Anche per rintuzzare la voracità di cui sono vittime i paesi più indebitati, come la Grecia, a rischio di spoliazione. È una follia questa richiesta di sottrarsi alle regole dei mercati? Può darsi, ma nel caso bisognerà spiegarlo con umiltà a molta gente che nei decenni trascorsi – quando pure furono dei tecnici eccellenti a guidare le politiche di risanamento – ne subirono ingenti decurtazioni di reddito. Neanche l´idea di accollare agli Stati un oneroso piano di rifinanziamento delle banche risulterà accettabile, finché latitano provvedimenti di maggiore giustizia sociale. "Salvate le scuole, non le banche", appunto.
Succede quindi che su ambedue le coste dell´Atlantico si riconosca un nemico comune. Magari ridotto in caricatura semplicistica da chi imbratta le sedi delle banche e occupa gli uffici delle agenzie di rating. Ma si tratta di una reazione comprensibile di fronte a un´economia trasformatasi in ideologia. Sono due docenti dell´università Bocconi, Massimo Amato e Luca Fantacci, a denunciare il feticcio di un sistema finanziario solipsistico in cui pareva possibile che i conti non si chiudessero e i debiti non si pagassero mai (Fine della finanza, Donzelli editore). Fino all´"eternizzazione dell´espediente": da ultimo, creare debito impagabile prestando soldi a chi non può permettersi di rimborsarli, tanto… chi vivrà, vedrà.
Ecco, non si può pretendere che gli indignados, italiani, greci, islandesi, spagnoli o americani che siano – comunque figli rimasti esclusi dai nostri privilegi – credano ancora che l´innovazione sia di per sé portatrice di miglioramento. La creatività dei finanzieri, se mai fu ammirevole, oggi risulta detestabile. E per favore non chiamatela invidia sociale.
L´illusione tecnocratica, l´assalto ai governanti "tutti ladri e corrotti": analisi di un fenomeno che da decenni attraversa la storia della Repubblica L´indignazione non è contro un sistema da abbattere ma contro un ceto che ha deluso e che viene rifiutato con la stessa energia con cui lo si era amato. C´è già chi si prepara a sfruttare ancora una volta, dopo la prima nel 1994, la stanchezza dei cittadini per costruirci sopra una nuova carriera
Antipolitica è molte cose. È la disperazione di Adelchi morente: «non resta che far torto o patirlo. Una feroce forza il mondo possiede». La politica ha in sé, per sempre, lo stigma del peccato, della violenza che si replica nei secoli. Antipolitica è essere persuasi che la politica è l´Inferno in terra. Antipolitica è anche l´ostinazione di Antigone a uscire dall´implacabile logica amico/nemico che il re Creonte codifica nelle sue leggi: chi ha combattuto contro la città va messo al bando dall´umanità, anche da morto; va escluso dalla sepoltura. Ma un´uscita verso una comunità d´amore e non d´odio – quell´uscita che Antigone desidera – non può avvenire sulla terra: solo nell´Ade c´è spazio per la pietà. Antipolitica è poi quella di Julien Benda che difende la purezza disinteressata del sapere dalla commistione con la politica. Ed è anche lo sforzo di Thomas Mann di sfuggire alla forza d´attrazione gravitazionale che si sprigiona dal semplice sapere che la politica esiste, e che è la dimensione della nostra finitezza.
Questa antipolitica "di rinuncia" (tragica oppure profetica: dopo tutto anche il Sermone della Montagna è antipolitico) è una critica della politica così radicale che, paradossalmente, la conferma nei suoi tratti più crudi – quelli stessi evidenziati dai "realisti" più spietati –, proprio perché vede nella politica solo violenza e dominio. Una posizione che rinuncia ad agire, rivolgendosi all´aldilà o ipotizzando un mondo radicalmente diverso da questo; e che deve accettare di pagare con la morte e con la sconfitta – sempre – ogni tentativo di modificare la politica e le sue bronzee leggi.
Ma antipolitica può anche essere, al contrario, l´atteggiamento rivoluzionario di chi vede in un sistema politico un ostacolo da rimuovere integralmente, per instaurare un nuovo ordine di cose. L´originaria aspirazione del marxismo era portare l´umanità, attraverso il proletariato, a superare del tutto la politica: che è falsa e mistificante perché rispecchia e codifica l´alienazione che si genera nei rapporti di produzione capitalistici. Ma non si può certo affermare che questa fosse una fuga dalla politica: anzi, ha generato una potenza politica enorme, un anelito alla palingenesi che ha segnato più d´un secolo di storia mondiale.
Ci sono poi altre forme di antipolitica. C´è la tecnocrazia, ovvero la convinzione – maturata nel positivismo ottocentesco, e nelle pratiche manageriali novecentesche – che la politica sia un modo primitivo di regolare la coesistenza degli uomini. Quanto più la scienza e la tecnica progrediscono, tanto più emergono problemi oggettivi, né di destra né di sinistra, che richiedono, per essere risolti, non politica ma competenza, non conflitti ma decisioni efficaci, nate da un sapere specialistico, interno alle cose. È cronaca di oggi, ma è anche storia: la storia dell´illusione novecentesca della pianificazione, l´utopia dell´automazione. Ed è anche la ricorrente tentazione di non volere vedere che quanto più la società è complessa tanto più è intrinsecamente politica; che non esistono soluzioni ‘tecniche´ ai problemi politici, che la pretesa di oggettività è sempre veicolo di potere: che chi pianifica – chiunque sia – fa politica, non tecnica.
Se questa antipolitica vuole cacciare i politici perché incompetenti, per sostituirli con tecnici, un´altra, analoga a questa, li vuole cacciare perché ladri e corrotti. Ma l´antipolitica ‘di protesta´, dell´indignazione, dell´onestà e della legalità, per giustificata che sia (del resto, anche quella della competenza lo è: pensiamo ai tunnel per i neutrini), non va al di là della rabbia contro la Casta, del lancio di monetine, dello sventolio di cappi. In ogni caso, questa antipolitica è rivolta non contro la politica in quanto tale né contro un sistema da abbattere con la rivoluzione, ma contro un ceto politico che ha deluso le aspettative – che viene rifiutato con la stessa feroce energia con cui lo si era amato; che viene respinto come corrotto tanto quanto da esso ci si era lasciati corrompere – . Ed è quindi, con ogni evidenza, essa stessa una politica, che non sa di esserlo, o non vuole ammetterlo.
Il rischio a cui va incontro è che risulti passiva e inefficace, che sia una valvola di sfogo per i cittadini, che si sottraggono alle proprie responsabilità e le scaricano sulla classe politica, divenuta il capro espiatorio universale. È questo rischio che rende questa antipolitica manovrabile da chi ne sa cogliere l´ingenuità credulona, cioè dall´imprenditore politico populista, che sfrutta il qualunquismo e l´indignazione per sostituirsi ai vecchi politici, e finge che tutto cambi perché tutto resti com´è (o peggiori radicalmente).
Non a caso, c´è già chi (il solito Cavaliere) si prepara a sfruttare ancora una volta – dopo la prima, nel 1994 – la stanchezza dei cittadini per l´indecenza, l´inettitudine, la corruzione, dei politici, e a costruirci sopra una nuova carriera politica. E ci si dovrà veramente dichiarare "antipolitici" se questa operazione di ri-verginazione avrà successo: se cioè Berlusconi, con un "partito dell´antipolitica" (un ossimoro che si smaschera da sé), riuscirà a convincere gli italiani che è un uomo nuovo, non toccato da scandali, competente, non contaminato dalla politica. Se cioè, invece di venire escluso, saprà ancora includere gli italiani nel suo populismo affabulatorio – tanto più politico quanto più antipolitico –.
Forse bisogna comprendere che la politica non è solo quella che governa la società attraverso le istituzioni, i metodi, le strutture che conosciamo, ma è qualcosa che è immanente al rapporto di ciascuna persona con la collettività. C’è una frase che illumina questa definizione della politica, che è ‘unica, oggi, che dà speranza. L’ho trovata in un libro di Lorenzo Milani scritto, molti anni fa, con gli allievi della sua Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica». Forse è partendo da questa concezione della politica che si può combattere la “politica” di oggi in nome di una Politica vera.
Davvero i diritti rischiano di non abitare più in Italia. Abbiamo già accumulato abbastanza discredito internazionale per l´incapacità di gestire la crisi. E anche per l´impresentabilità oltre frontiera del Presidente del consiglio. Ora si è fatta ancor più palese la vocazione censoria della maggioranza di centrodestra con le ultime iniziative contro la libertà d´informazione, e il mondo comincia a guardarci con il giusto sospetto verso chi mescola prepotenza e ignoranza. Prepotenza, perché siamo davvero di fronte ad uno di quei casi classici di "tirannia della maggioranza", della quale parlò Alexis de Tocqueville, i cui scritti i sedicenti liberali italiani non hanno nemmeno annusato. Ignoranza, rivelata dal modo in cui è stata affrontata la questione dell´informazione e della conoscenza su Internet, con norme incompatibili con la natura stessa della rete, come ha denunciato proprio oggi Wikipedia, con una pagina che già sta facendo il giro del mondo (la parziale marcia indietro su questo aspetto della legge non fa venir meno il discredito che già ci è caduto addosso).
I fatti di ieri sono chiarissimi. Con il nuovo emendamento presentato dal Governo, diventa totale il blackout sulla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, anche per riassunto, fino all´udienza-filtro, di cui rimangono incerti i tempi. Registrando questa novità, la presidente della Commissione giustizia, Giulia Bongiorno, si è dimessa da relatrice del provvedimento, smentendo con questo suo gesto le dichiarazioni rassicuranti del ministro della Giustizia, che ha sostenuto che nulla sostanzialmente cambia rispetto al testo già approvato in commissione. La finalità puramente censoria dell´iniziativa del Governo è rivelata dalla situazione contraddittoria e paradossale che si verrebbe a creare per effetto dell´emendamento. Anche prima dell´udienza-filtro, infatti, i contenuti delle intercettazioni non sarebbero più coperti dal segreto, e godrebbero quindi di un particolare regime di pubblicità derivante dal fatto che esse compaiono negli atti giudiziari a disposizione delle parti, come l´ordinanza con la quale viene disposto l´arresto di una persona. Nulla vieterebbe, quindi, alle parti stesse e ai loro avvocati di utilizzarle nel modo ritenuto più conforme al diritto di difesa, parlandone con altri, trasmettendole a consulenti, periti, investigatori. Si creerebbero così due circuiti comunicativi, che si vorrebbero non comunicanti anche quando le intercettazioni rivelano vicende gravi o comunque rilevanti per la valutazione politica e sociale dei comportamenti delle figure pubbliche.
Questo è un classico meccanismo censorio. L´obiettivo dichiarato di impedire la pubblicazione delle parti non rilevanti delle intercettazioni non può essere perseguito vietando la pubblicazione di tutti i contenuti delle intercettazioni. Non si può trasferire nel mondo dei diritti fondamentali l´irragionevole tecnica che sta a fondamento dei tagli lineari in economia. E, per quanto riguarda la sbandierata tutela della privacy, bisogna invitare per l´ennesima volta a leggere la norma cha limita la tutela per le figure pubbliche ai soli casi in cui le informazioni che le riguardano non hanno "alcun rilievo" per l´informazione dei cittadini. Di una disciplina differenziata per le figure pubbliche, per i "cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche", parla l´articolo 54 della Costituzione, stabilendo che quelle persone devono comportarsi con "onore e disciplina". E tutti noi siamo titolari del diritto di poter valutare se ci si comporta in modo conforme a questi principi.
Da qui il dovere di informare e il diritto di essere informati come snodo essenziale del processo democratico, che sarebbe gravemente inquinato da quel doppio registro ricordato prima, perché rendere segreto quel che già è pubblico fatalmente, e quasi doverosamente, spinge a creare condizioni perché il meccanismo censorio non possa funzionare. Si può ancora fare appello alla responsabilità del legislatore perché non crei inammissibili situazioni di conflitto? Per esperienza sappiamo che solo un forte movimento nella società può indurre a qualche ripensamento, e stimolare le opposizioni. E poiché la buona politica deve essere nutrita da buona cultura, in questo difficile frangente vale la pena di ricordare le parole di Ronald Dworkin: "l´istituzione dei diritti è (...) cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate. Quando le divisioni tra i gruppi sono molto violente, allora questa promessa, se si vuole far funzionare il diritto, dev´essere ancor più sincera". Se quella logica viene travolta, allora è l´idea stessa di costituzione a scomparire e, con essa, il fondamento moderno del sistema dei diritti.
Un aspetto impressionante, nella crisi che traversiamo, è l´impreparazione dei popoli. Non è l´impreparazione di chi si sente riparato. La crisi, inasprendo ineguaglianze divenute smisurate lungo gli anni, pesa sui popoli da tempo. Ma questa volta gli animi sono impauriti, disorientati, come se mancasse loro una bussola che indichi dove sta, veramente, il Nord. Nei Paesi più colpiti, come la Grecia, la disperazione può sfociare in guerra civile: come può sdebitarsi una nazione così sprofondata nella recessione, senza sfasciarsi? Nei Paesi che stanno meglio, come la Germania, cresce un isolazionismo antieuropeo non meno intirizzito. In Italia il disorientamento è diverso: la democrazia è talmente guastata, il legame sociale talmente liso, l´opinione talmente disinformata, che ciascuno scorge nella crisi qualcosa che concerne gli altri, mai se stesso.
Anche se diversi, i popoli hanno però questo, in comune: non sanno la storia che fanno. Vivono come in una caverna: fuori c´è un aperto da cui dipendono - l´Europa, il mondo - ma di cui non sanno nulla. Non vedono il futuro, sempre aperto visto che lo scriviamo noi. Non vedono che il futuro è ormai cosmopolitico nei fatti, non nella teoria. La cosa che più temono è cambiare ottica. Ogni novità appare ominosa, mai si presenta come occasione d´imparare la vita all´aperto. Come in Balzac, gli impauriti accettano che il passato domini il presente, e del presente diventano i proscritti.
Questa impreparazione non è tuttavia priva di speranze, in Italia. Basta una cifra - 1 milione 200 mila che condannano la legge elettorale - e subito si capisce come il popolo voglia riprendersi il futuro, partecipare al suo farsi. Come sia disgustato da politici che usano il popolo, che gli tolgono sovranità nell´attimo in cui ne magnificano il primato. L´essenza del populismo è questo bluff. Nei quattro ultimi referendum c´è sete non solo di verità ma di società maggiorenne, e non stupisce che tanti partiti li abbiano avversati o vissuti passivamente.
È stato difficile, trovare i banchetti per affossare il Porcellum: indicazioni assenti, orari fasulli, reticenze nelle sedi del Pd. Se fosse stato facile, forse avrebbero votato 3-4 milioni. Cosa dicono infatti i referendum? Dicono che sì, i popoli sono impreparati, ma perché qualcuno li vuole così: incavernati, frammentati, dunque malleabili. Dicono che la formazione dell´opinione pubblica - ingrediente fondamentale in democrazia - è stata guastata dal dominio politico sulle tv. I firmatari del referendum giudicano che la politica, come organizzatrice del bene comune, non fa il suo mestiere ma protegge poteri e ricchezze di clan.
Paul Krugman spiega bene come tali poteri si nutrano di dottrine economiche «completamente divorziate dalla realtà», fondate sulla menzogna: la menzogna secondo cui non c´è crescita se vengono tassati i ricchi, e quella secondo cui la crisi nasce da troppi regolamenti e non, come i fatti dimostrano, da assenza di regole (New York Times, 29-9-11). Le parole di Napolitano, venerdì a Napoli, smascherano questo fallimento: non sono parole politiche, quelle che promettono mini-Stati padani, ma «grida che si levano dai prati». Così come è grida la difesa di una legge elettorale nella quale «conta soprattutto mantenere buoni rapporti con il partito che ti nomina, non con gli elettori».
In questo la crisi economica somiglia alla guerra che Samuel Johnson descrive nel ´700: le sue «maggiori calamità sono la diminuzione dell´amore della verità, e la falsità dettata dall´interesse e incoraggiata dalla credulità». Questo fanno i moderni pretendenti politici: invece di guidare incoraggiano la credulità, assecondano gli interessi di chi vuol conservare privilegi e ineguaglianze che la deregolamentazione liberista ha creato.
Ma soprattutto di Europa i politici non sanno parlare, in nessun Paese dell´Unione: la evocano sempre come nostro obbligo, mai come nostra opportunità. Denunciano sempre la sua inconsistenza, senza chiarire che se l´Europa è debole è perché i governi la mantengono in questo stato, non affidandole poteri e aggrappandosi al proprio diritto di veto. Loro compito sarebbe di far capire come stiano davvero le cose, di smettere le illusioni di cui nutrono se stessi e gli altri.
È perché i politici non sono all´altezza - la politica è nulla, senza pedagogia delle crisi - che i popoli s´immobilizzano. Il populismo lusingandoli li sfrutta, per occultare quel che accade: una crisi che rovina non solo l´economia, ma quel che tiene unite le società e dunque la democrazia. Una diserzione delle classi dirigenti, restie a spiegare come solo in un governo europeo ritroveremo la padronanza (la sovranità) che tutti stiamo perdendo, governati e governanti. Secondo alcuni, il populismo è il marchio del XXI secolo. Orfano di alfabeto, proscritto dal presente: ecco il popolo-Golem che i populisti plasmano. Ora i popoli gli si rivoltano contro. Erano consumatori, anziché cittadini. Costretti d´un colpo a consumare meno, sgomenti, si riscoprono cittadini.
La paura può divorare l´anima, la storia non essendo progressista lo testimonia. Ma può anche aguzzare la vista. Nell´800, una prima previdenza pubblica nacque perché il socialismo incuteva spavento. Bismarck, in Germania, fu il primo a creare lo Stato che protegge i deboli e l´interesse generale, trasformando la paura di perdere il passato in costruzione del futuro. Così la destra storica in Italia. Le prime norme a tutela del lavoro, della vecchiaia, dell´invalidità, degli infortuni vennero dal liberale Giolitti. La destra di oggi non somiglia in niente a quella di ieri.
Va detto che l´Italia, pur anomala, non è un caso isolato. È venditrice di illusioni perfino la Germania, sono populisti Sarkozy e Cameron, per non parlare di governi liberticidi o corrotti come Ungheria o Bulgaria. Se oggi i governanti volessero ritentare la via di Bismarck, dovrebbero abituare i popoli a pensare che da soli non ce la faranno. Ogni giorno constatiamo che la statura conta, nella globalizzazione: sei forte se rappresenti non uno staterello (la Padania ad esempio) ma se competi con le grandezze demografiche della Cina, dell´India, del Brasile, degli Usa, della Russia.
Inizialmente il populismo sorge come risposta democratica alle oligarchie. Un laccio stringe il capo al suo popolo, e questo laccio, simbolo della sovranità popolare, comanda su tutto, non tollerando né istituzioni intermedie né autorità sovranazionali. Il populismo semplifica, quando per uscire dalla crisi urge complicare, differenziare i poteri. Si parla spesso di una ricaduta nel Trattato di Westfalia, che consacrò gli Stati sovrani assoluti. Si dimentica che l´Europa nel 1648 era in ascesa, mentre oggi precipita frantumandosi. Due guerre mondiali l´hanno emarginata storicamente, e resuscitare Westfalia è grottesco oltre che pericoloso.
L´Italia è in questo un laboratorio. Il deserto tra leader e popolo non resta vuoto, viene occupato da nuove oligarchie: più mafiose di prima, indifferenti al bene comune. Al posto del legame sociale s´insedia l´identità (etnica, religiosa, sessuale) fondata sul rigetto dell´altro. Le liste di politici gay, apparse in rete giorni fa, è un episodio da Ultimi Giorni dell´Umanità. In una democrazia decente i giornali le ignorano. Se non lo fanno è perché il populismo è l´aria che tutti respiriamo.
La crisi diventa occasione se si dice la verità. Bisogna cominciare a dire che in Occidente non riusciremo a crescere come ieri. Secondo gli esperti, ci vorranno 40-50 anni perché i salari dei Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia) raggiungano i nostri. Il nostro futuro sarà fatto di meno consumi. Non di crescita zero, purché sia un crescere diverso. Fu inventata per questo l´Europa unita. Perché non aveva più senso, costruire il futuro facendosi governare dalle menzogne sul passato.
Un edificio pieno di crepe, uno scantinato mal illuminato, mal aerato, senza uscite di sicurezza. Nel quale lavoravano una decina di donne, faticando fino a dieci ore al giorno. Però senza contratto di lavoro, e pagate 4 euro l´ora. Di laboratori del genere ce ne sono decine solo a Barletta, che diventano migliaia se si guarda all´insieme del Mezzogiorno, e decine di migliaia se lo sguardo si allargasse mai al Centro e al Nord.
Di laboratori e officine e cantieri in nero è piena tutta l´Italia, lo era prima della crisi e lo è ancora di più adesso che la crisi morde tutti e dovunque. Non tutti hanno sulla testa mura che si sgretolano. Però le condizioni di lavoro crudeli, il lavoro in nero e le paghe da quattro euro o meno sono per centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori l´esperienza di ogni giorno. Il sindaco di Barletta ha detto che non se la sente di attribuire alle persone alcuna responsabilità per le condizioni in cui avevano accettato di lavorare in nero entro quel laboratorio. E neanche alla famiglia dei titolari, che non firmavano contratti in regola, ma nel crollo hanno perso la giovanissima figlia. Dalle nostre parti, intendeva dire il sindaco, l´alternativa al lavoro nero è la disoccupazione e la fame (o l´ingresso nella truppa della criminalità). L´affermazione è politicamente poco opportuna. Il guaio – che è un guaio di tutti noi – è che il sindaco ha ragione. Fotografa una situazione. Il mercato del lavoro è stato lasciato marcire dai governi e dalle imprese in tutte le regioni d´Italia. La crisi ha accelerato il degrado, ma esso viene dall´interno del paese, non dall´esterno. Una intera generazione oppressa dalla precarietà lavora quando può, quando riesce a trovare uno straccio di occupazione. Stiamo uccidendo in essa la speranza.
Adesso milioni di italiani guarderanno i funerali di Barletta in tv, e molti proveranno una stretta al petto, e il giorno dopo torneranno al loro lavoro precario per legge, grazie alle riforme del mercato del lavoro, o precario perché del tutto in nero. Tuttavia qualcuno un po´ di vergogna potrebbe o dovrebbe pur provarla. Come può un paese in cui si vendono centinaia di migliaia di auto di lusso l´anno, in cui ci sono più negozi di moda che lampioni stradali, e milioni di famiglie hanno almeno due cellulari pro capite, permettere a sé stesso di lasciar morire sotto una casa malandata che crolla un gruppo di giovani donne che faticavano senza contratto per 4 euro l´ora? Le abbiamo costruite tutte noi, queste trappole fisicamente e giuridicamente infami, con le nostre scelte di vita, i nostri consumi, con lo squallore della nostra cultura politica e morale.
L'«Autunno americano» dopo la «Primavera araba»? L'anemico fronte deiliberal che negli Stati Uniti rialza la testa e dà vita a una versione di sinistra della rivoluzione dei Tea Party? Fino alla settimana scorsa immaginare che un movimento senza leader e senza programmi definiti come quello sbocciato a due passi dalla Borsa di New York potesse prendere quota e addirittura arrivare a controbilanciare il peso acquistato a destra dai «rivoluzionari del tè» sembrava fantapolitica.I ragazzi di «OccupyWallSt.org» erano snobbati anche dai media più imbevuti di cultura di sinistra: per la rete tv Msnbc, la radio pubblica NPR o la rivista della sinistra sindacale Mother Jones, erano studenti idealisti e volenterosi, ma condannati all'irrilevanza. Molte cose sono cambiate nel week end scorso, con la comparsa di movimenti analoghi in 21 città americane, con la «saldatura» tra i contestatori di Wall Street e i sindacati Usa e con Manhattan attraversata da cortei sempre più consistenti, fino all'episodio degli arresti di massa (per poche ore) sul ponte di Brooklyn.
Ma qualcosa di altrettanto nuovo è avvenuto ieri a Washington dove la sinistra «alternativa» ha aperto in un luogo assai poco alternativo (l'Hilton di Connecticut Avenue) una convention dal titolo suggestivo (Ridateci il sogno americano) con l'obiettivo esplicito di rilanciare l'iniziativa politica dei liberal e di contrastare l'iperattivismo dei Tea Party anche ricorrendo all'energia politica della protesta studentesca di New York. Un «gemellaggio» realizzato attraverso un collegamento video tra Zuccotti Park, la piazza-giardino incastrata tra la Borsa e Ground Zero che è il campo-base della protesta, e gli «stati generali» di Washington organizzati da «MoveOn.org» e dall'American Dream Movement di Van Jones: grosse organizzazioni di sinistra oggi deluse da Obama, ma che quattro anni fa hanno lavorato alacremente per la sua elezione e sono rimaste al suo fianco nella prima parte del mandato alla Casa Bianca.
Un'offensiva della sinistra per mettere alle strette Obama o una mossa in qualche modo incoraggiata dalla Casa Bianca? Il dubbio è alimentato dal fatto che il presidente, che all'inizio aveva chiesto alla sinistra radicale di abbassare il suo profilo per non dare appigli ai conservatori che lo dipingevano come un estremista, ha ormai dovuto prendere atto che la sua strategia non ha funzionato: una riforma sanitaria «centrista», molto simile a quella varata dal repubblicano Romney in Massachusetts, è stata demonizzata con successo dai Tea Party. E la ragionevole proposta del presidente di rimettere a posto il bilancio, oltre che coi tagli, anche tornando a tassare i ricchi come nell'era Reagan, è stata bollata dai conservatori come la mossa di un presidente socialista.
«Come è potuto accadere?» si è chiesto più volte lo stesso Obama. Secondo una tesi che ha preso quota, è stato proprio il ripiegamento della sinistra, materializzatosi mentre l'offensiva dei Tea Party sfondava nei media, a consentire ai conservatori radicali di occupare ampi spazi politici a destra. Ciò ha dato la sensazione che i repubblicani moderati fossero il nuovo centro e ha, così, sospinto Obama a sinistra agli occhi di larghe fasce dell'elettorato.
Molti conservatori pensano che il presidente stesso condivida questa analisi e si stia muovendo di conseguenza. Ma a conclusioni simili è arrivato anche il giornalista-politologo progressista E.J. Dionne secondo il quale (Washington Postdi ieri), negli anni 30 del Novecento Roosevelt riuscì ad attuare politiche efficaci contro la disoccupazione grazie al sostegno dei movimenti dei lavoratori e di quelli per i diritti civili.Quella di rianimare una contrapposizione vivace tra radicali di destra e di sinistra potrebbe essere una mossa molto rischiosa per chi deve governare in una congiuntura difficile come quella attuale. Non è detto, insomma, che dietro ci sia Obama. Ma il disegno esiste. L'enigma ruota intorno al nome di Van Jones: il ribelle deciso a organizzare la «rivoluzione d'autunno» con un passato nella Casa Bianca di Obama e che, anche dopo la rottura col presidente, è rimasto il contatto coi democraticimainstream, attraverso il Center for American Progress di John Podesta.
Una manifestazione "per dare voce all'Italia che in queste settimane ribolle di passione civile". Libertà e Giustizia la organizza per sabato prossimo a Milano. Gustavo Zagrebelsky, presidente onorario dell'associazione, spiega così il significato di "Ricucire l'Italia".
Professor Zagrebelsky, com'è nata l'idea?
"E' venuta due settimane fa a una signora che partecipava al nostro seminario di Poppi in Casentino, nel castello in cui Dante scrisse i versi del sesto canto del Purgatorio: 'Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello'. L'ambizione è quella di provare a invertire la china, a ricucire le diverse fratture che attraversano l'Italia in questo passaggio particolarmente difficile della sua vita politica".
Si riferisce al tentativo secessionista della Lega?
"A quello, ma non solo. Certo, c'è da contrastare la balorda idea che si possa allargare il solco tra Nord e Sud fino alla secessione: sarebbe un bel paradosso a 150 anni dall'Unità, come giustamente ha sottolineato il Presidente Napolitano".
Quali altre fratture vedete?
"C'è quella sociale, il divario che aumenta sempre più tra ricchi e poveri. C'è la frattura generazionale, quella che divide i giovani precari dai lavoratori più anziani. C'è anche una frattura di natura etnica tra immigrati e residenti. Se ci pensiamo, in questi anni la politica ha lavorato per aumentare queste fratture, in alcuni casi ha addirittura fatto fortuna sulla loro esistenza".
Avete preparato un manifesto per l'iniziativa di sabato. Qual è, tra le tante, la frattura principale da ricucire?
"Sabato partiremo da quella tra gli elettori e il ceto politico, tra rappresentati e rappresentanti. Ci sono stati in questi mesi diversi segnali su cui riflettere: il successo dei referendum ma anche certe candidature vincenti alle amministrative ci dicono che il sentire degli italiani è sensibilmente diverso da quel che viene percepito non solo dal governo, ma anche dai partiti e dal Parlamento".
Parla della distanza tra società civile e palazzo?
"E' così anche se dobbiamo stare attenti. Non mi piace fare nomi ma in queste settimane c'è il rischio di lasciarsi andare alle tentazioni dell'antipolitica. Non dobbiamo cedere alla demagogia distruttiva del 'tanto i politici sono tutti uguali'. Userei anche con cautela l'espressione 'società civilè di cui Libertà e Giustizia si sente parte: è un'espressione che è usata spesso come sinonimo di salotti".
Che cos'è invece, a suo parere, la società civile?
"Sono i tanti, giovani e meno giovani, che incontro a lavorare nelle associazioni di volontariato, cattolico e laico. Volontariato in senso molto largo: persone che sono disposte a dare tempo, capacità professionale, denaro in modo disinteressato per il bene di tutti. E' volontariato anche partecipare alla nostra manifestazione di sabato. A questi molti, moltissimi, la politica ufficiale sembra avere sbarrato le sue porte. E' ora che questa società civile decida di far sentire la sua voce in politica".
Avete partecipato alla raccolta di firme per il referendum elettorale. E' meglio andare subito alle elezioni anticipate o modificare la legge attuale, magari con un governo di transizione?
"Noi abbiamo raccolto le firme con lo slogan: 'Mai più al voto con questa legge'. Dunque, per coerenza, sarebbe preferibile che prima delle prossime elezioni si modificasse la legge. Come e chi debba modificarla è oggetto della discussione politica. Certo bisognerà trovare il modo di andare al voto in tempi brevi perché il protrarsi dell'attuale stallo renderà molto difficile la ricostruzione quando si aprirà una fase nuova".
Una nuova manifestazione, dopo le molte dei mesi scorsi. Che cosa potrà cambiare?
"Non è una manifestazione da sola che può rivoluzionare il quadro politico. Ma proprio le manifestazioni di questi mesi sono servite a far sapere che quella frattura tra paese reale e palazzi della politica si stava allargando. Queste iniziative servono a far capire che un'altra Italia è possibile. Anzi, c'è già. Si tratta ora di organizzarla, vedremo chi saprà farlo".
I manifestanti protestano da due settimane contro le logiche dell'alta finanza e le politiche adottate dall'amministrazione Obama per fronteggiare la crisi. L'intervento della polizia quando hanno bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn
NEW YORK - Circa 700 persone aderenti alla campagna contro Wall Street sono stati arrestati a New York. Le forze dell'ordine sono intervenute quando i dimostranti hanno bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn e hanno cercato di dar vita a un corteo non autorizzato. "Vergogna, vergogna" hanno urlato i manifestanti all'indirizzo degli agenti. Testimoni hanno raccontato di averne visti moltissimi ammanettati, seduti a terra mentre tre pullman arrivavano per portarli via. Un portavoce della polizia ha dichiarato che erano stati ripetutamente avvertiti che se avessero invaso le corsie destinate ai veicoli sarebbero stati arrestati.
La protesta del movimento Occupy Wall Street (Occupare Wall Street) va avanti da due settimane e si sta estendendo ad altre città, a cominciare da Washington e Boston. Nella capitale del Massachusetts oggi sono state fermate 24 persone che partecipavano a un sit-in non autorizzato davanti alla sede di Bank of America, che di recente ha annunciato un piano di tagli per 30.000 impiegati con risparmi stimati in cinque miliardi di dollari fino al 2014.
A New York circa 2.000 dimostranti - disoccupati, reduci di guerra, studenti, insegnanti - hanno installato il loro quartier generale a Zuccotti Park, tra la Broadway e Liberty Street, non lontano dai grattacieli di Wall Street. E hanno intenzione di rimanerci per mesi. Da lì, verso le 15.30 ora locale, si sono mossi in direzione del ponte di Brooklyn, distante circa quattro chilometri. Una marcia con cui hanno voluto, tra l'altro, sostenere
il movimento SlutWalk contro gli abusi sessuali sulle donne.
Il movimento contesta le politiche seguite per fronteggiare la crisi economica. Il collante è la protesta contro le logiche di Wall Street, ma anche la delusione nei confronti del presidente Barack Obama che a loro avviso, come ogni presidente, è "schiavo" di quelle logiche. L'ispirazione viene dagli "indignados" spagnoli 1, dalle manifestazioni greche 2, dalle rivolte in Egitto e in Tunisia, dalle tende montate dai manifestanti a Tel Aviv 3. "Questa protesta è l'unico modo per rappresentare noi stessi", spiega Norman Koener, un insegnate di Filadelfia venuto a New York per sostenere il movimento anti Wall Street. "Il Congresso non legifera per noi, e Obama è andato contro tutti i suoi propositi iniziali. Non penso che riuscirà ad essere rieletto ma del resto anche i Repubblicani sono un fallimento. A che serve votare per due partiti corrotti? L'unica soluzione è la democrazia che si vede in questa piazza", conclude amaro il professore.
Quello di Zuccotti Park non è un vero e proprio accampamento perché le tende sono proibite. I manifestanti dormono avvolti in teli di plastica. Ma hanno allestito una cucina e una biblioteca e hanno sparso in giro poster in cui sono enunciati chiaramente i loro slogan. Negli ultimi giorni sono andati tra loro il regista Michael Moore e l'attrice Susan Sarandon. Appoggio alla protesta arriva anche dai cittadini di New York: non sono pochi i passanti che offrono donazioni e alcuni ristoranti hanno donato del cibo.
La rete di comunicazione grazie alla quale il movimento si sta allargando ad altre città si avvale dei mezzi ormai imprescindibili in questi casi, YouTube, Facebook, Twitter. Da Zuccotti Park vengono trasmessi aggiornamenti in tempo reale in streaming e si fa circolare un quotidiano, The Occupied Wall Street Journal. Il 6 ottobre il movimento si sposterà a Washington, simbolo della politica e delle lobby, in occasione del decimo anniversario della guerra in Afghanistan.
Cantiere Italia
di Aurelio Magistà
L´edilizia ferma è il simbolo di una nazione immobile. Ma, anche se le previsioni non possono essere ottimistiche, al Made di Milano convegni, mostre, tecnologie e prodotti innovativi creati dalla ricerca mettono in campo le migliori idee per rilanciare il settore. E far ripartire il paese
L´edilizia è ferma, l´Italia è immobile. Quello delle costruzioni come settore trainante dell´economia nazionale è un luogo comune un po´ abusato, ma certo fondato su dati reali. Così, lo scenario di gru spente, betoniere mute, ponteggi vuoti e fondamenta che si riempiono di sterpi ed erbacce diventa metafora di un paese prigioniero di un´impasse, che non è più in grado di edificare il proprio futuro. La nazione come casa comune appare sempre più una dimora che avrebbe davvero bisogno di una bella ristrutturazione, ma senza più risorse per farlo, un cantiere che ha licenziato gli operai. «Dal 2009 abbiamo perso oltre trecentomila addetti», sintetizza Andrea Negri, presidente di Made eventi anticipando uno dei dati della ricerca di Federcostruzioni che verrà presentata agli stati generali dell´edilizia, il 5 ottobre, giorno dell´inaugurazione di Milano Architettura Design Edilizia. Una difficoltà testimoniata anche dal fatto che l´importante appuntamento nel 2010 si sia tenuto a febbraio: il posticipo a ottobre, oltre che per opportunità di date, è stato dettato anche dalla crisi generalizzata. «Lo scorso anno», prosegue Negri, «non siamo riusciti a recuperare i 47 miliardi di euro persi nel 2009 e non ci riuisciremo nemmeno quest´anno, considerato che le previsioni anticipano un calo dell´1,8, con fortissimi sperequazioni: i settori che esportano molto riescono a ritrovare il segno positivo, ma altri, come la filiera del cemento, registrano perdite vicino al 50 per cento». La pazienza sembra proprio finita
L´altro giorno l´assemblea dell´Associazione nazionale costruttori ha contestato duramente il ministro delle Infrastrutture e trasporti Altero Matteoli, colpevole non solo di inciampare nella lettura dell´intervento, per un´evidente scarsa familiarità con il testo, ma anche perché rappresentante del governo che non ha saputo mantenere nessuna delle sue promesse. Matteoli si è giustificato dicendo: «Mi rendo conto dello stato d´animo degli imprenditori in un momento di scarsità di risorse e di crisi economica e finanziaria. Ma di soldi non ce ne sono». Una risposta che suona quasi beffarda per un settore che chiede prima di tutto riforme. «Certo», nota Negri, «dispiace che il governo abbia bloccato tutti i grandi cantieri e le opere infrastrutturali, anche se tra l´approvazione e il reale inizio dei lavori può passare davvero tanto e quindi bloccarli adesso significa non farli partire nemmeno nei prossimi anni. Ma che cosa dire dei quattordici miliardi di euro che lo stato deve alle imprese per lavori già realizzati e non ancora pagati? Non pagare, di questi tempi, significa mettere a rischio la sopravvivenza stessa delle aziende creditrici. E che cosa dire del piano casa, bloccato dalla lotta tra stato e regioni, regioni e comuni? E che cosa dire di un governo che deprime i consumi aumentando l´Iva e spalmando il rimborso del 55 per cento delle spese per migliorare il risparmio energetico delle case su dieci anni invece che su cinque come era all´inizio?».
Lo scenario è questo, ma una nota positiva viene proprio da Made, che malgrado le premesse e la sordità del potere - «Ormai preferiamo parlare direttamente con regioni e comuni perché il governo non c´è», conclude Negri - lancia proposte per un rilancio. Le idee sono ad ampio spettro. Si va dagli scenari un po´ avveniristici ma molto attendibili di Vegetecture e Bring the forest in the city, mostra e convegno che raccontano un futuro (e un presente) in cui l´architettura si integra con le piante vive, fino all´housing sociale, che garantisce case ad alta efficienza, buona qualità e basso costo, fino al pragmatico programma di recupero dei centri storici e dei borghi, «cui si potrebbe applicare l´housing sociale con l´aiuto della Cassa depositi e prestiti», ipotizza Negri, «mettendo insieme due modi virtuosi di rilanciare l´edilizia».
Da segnalare ancora la serie di incontri dedicati a Nuovi materiali e tecnologie: uno sguardo al futuro, tante inziative per tre giorni, in cui diciotto università di tutta Italia presentano i risultati delle loro attività di ricerca che potrebbero essere utili alle imprese. Un tentativo di transfer technology, di trovare applicazioni pratiche all´innovazione creata dalla ricerca. «Fra i temi più importanti», spiega il professor Giovanni Plizzari dell´università di Brescia, «la sicurezza sismica, la riqualificazione del costruito esistente, considerato secondo la legge italiana che la vita media di una nuova costruzione è circa cinquanta anni, la sostenibilità, che passa anche per il riutilizzo di materiali che fino a ieri erano considerati rifiuti, per esempio il calcestruzzo di demolizioni oppure le polveri di acciaieria che possono sostituire gli aggregati fini come le sabbie». Anche perché con i tempi che corrono è davvero meglio non buttare via niente.
L´agricoltura va in città
di Ilenia Carlesimo
Portare orti e coltivazioni vicino ai luoghi abitati e costruire rispettando il collegamento tra cielo e terra. Così si ottiene uno sviluppo sostenibile e una società attenta
Per andare avanti, c´è bisogno di fare un passo indietro e tornare a un´architettura integrata con il paesaggio e le attività agricole. A quando si progettava in base alle stelle: e dunque in base alla specificità del territorio.
È la riflessione che invita a fare Planetarium: la mostra a cura di Fortunato D´Amico - in programma a Made Expo all´interno dell´evento AAA Agricoltura, Alimentazione, Architettura (con le tre A che vogliono essere anche segnale di emergenza) - in cui vengono esposti alcuni progetti di architettura e design dedicati alla costruzione di una società più attenta al rapporto tra attività umane e agricoltura. Tutto restituendo centralità all´astronomia - come ricorda anche il titolo stesso della mostra, che cita uno strumento per riprodurre la volta celeste - e avviando una filosofia del progetto che riporti armonia tra ambiente, cielo, costruzioni ed esigenze dell´uomo.
«L´astronomia» afferma Fortunato D´Amico «è la base per la nuova architettura. Finora è stata sostituita dal petrolio, e questo ha portato a costruire senza distinzione in posti diversi, senza partire dalle caratteristiche del territorio. Ma i popoli vissuti prima di noi ci hanno insegnato altro: a prendere le stelle come riferimento, a costruire rispetto al sistema astronomico, a sfruttare - in senso positivo - le specificità di ciascun posto, dalla luce al clima, al tipo di terreno».
E Planetarium - attraverso esposizioni e dibattiti (con il contributo di enti, progettisti e produttori di tecnologie e materiali) - vuole fare proprio questo: invitare a fermarsi, perché come ricorda D´Amico «è ora di dire basta alle città delle merci», e indicare la strada della sostenibilità. Non solo per tornare a rispettare l´ambiente, «da troppo tempo cacciato dalle città» ma anche per recuperare il paesaggio e riportare l´agricoltura vicino ai luoghi dell´abitare. Come? Mettendo orti nei terrazzamenti dei grandi palazzi e frutteti nei parchi pubblici. O tornando, come già in parte si sta facendo, a verdure di stagione e a chilometri zero.
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Quanto ci piacerebbe se chi parla o scrive di una cosa tenesse presente tutti gli aspetti di quella cosa! Nella fattispecie ci piacerebbe se, quando si parla dell’industria edilizia, delle difficoltà che essa attraversa oggi e delle prospettive per il suo futuro si tenesse conto anche dei danni che la sua abnorme espansione ha provocato. Danni al territorio, ai suoi abitanti, all’economia. Se non si parte da questo tutte le scelte ce ne conseguono sono sbagliate. Ci piacerebbe che si ricordasse sempre che il peso dell’edilizia nel sistema italiano deriva in larghissima misura nel fatto che questo settore dell’industria è lo strumento per rendere possibile il trasferimento di ricchezza dal pubblico e dal comune al privato mediante la mediazione di due fenomeni, poderosi in Italia più che altrove : le distorsioni nell’assegnazione e nella gestione degli appalti di opere pubbliche, che consentono ai “capitalisti” del mattone e del cemento di ottenere elevati profitti senza correre rischi; la legislazione e la prassi dell’urbanistica, che consentono, soprattutto nei decenni più recenti, di accrescere consistentemente gli incrementi della rendita immobiliare e la sua privatizzazione. Così come quando si parla dell’industria meccanica e del suo futuro bisogna ipotizzare un futuro con enormemente meno automobili di quelle che circolano oggi, così bisognerebbe pensare a un’industria delle costruzioni che ampli il suo impegno in settori oggi minoritari, se non quasi evanescenti, come la manutenzione edilizia e urbana, la sistemazione dei terreni extraurbani, i sistemi di mobilità collettiva, il restauro dei beni culturali. Nel dibattito sulla crisi finanziaria (sulla crisi del finanzcapitalismo) sono emerse molte proposte su questo tema; ne abbiamo registrate diverse su eddyburg. Ma esse stentano a diventare pensiero comune. Forse perché sono rivoluzionarie. Poiché implicano che prevalga un’economia che sia finalizzata al ben essere dell’uomo e della società, che sostituisca quella basata della finalizzazione dell’uomo all’arricchimento dei già ricchi e al dissolvimento della società.
INACCETTABILE BCE
di Loris Campetti
Volevamo abolire le province e invece adesso ci ordinano di abolire lo stato. Purtroppo non è la vivificazione del sogno di Karl Marx, l'estinzione dello stato. Intanto, il soggetto rivoluzionario committente non è animato dallo spirito dell'internazionalismo proletario ma dal pensiero unico liberista, che è un po' diverso. In secondo luogo, la tappa intermedia non è, come scriveva il grande vecchio di Treviri, la dittatura del proletariato ma quella della finanza. La lettera «segreta» della Bce al governo italiano, pubblicata ieri dal Corriere della sera, è straordinaria tanto per la sua lucida coerenza quanto per la sua prepotenza, una prepotenza legittimata, prima ancora che dalle regole, dalla sua assunzione passiva da parte dei governi di tutti i colori. Se lo dice la Bce è vero, così come ha ragione Standard&Poor's se ci declassa.
Si potrebbe dire che il segreto che copriva la lettera era il segreto di Pulcinella: chi non immaginava che avrebbe ordinato tagli allo stato sociale, alle pensioni e ai salari, privatizzazioni e liberalizzazioni? Eppure, persino il segreto di Pulcinella ci può stupire, e anche farci incazzare. Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, più che una lettera hanno stilato un manifesto ideologico per indicare le ricette draconiane e antipopolari per uscire dalla crisi, ma anche le forme con cui le bastonate dovrebbero essere assestate («decreto legge», il tempo è danaro). Dunque, abbattimento del debito anticipando di un anno l'iter della manovra di luglio, buona ma «insufficiente»; liberalizzazione dei servizi pubblici e dei beni comuni con «privatizzazioni su larga scala»; innalzamento dell'età pensionabile, portando a 65 anni la soglia per le donne anche nel privato, da subito; riduzione dei costi nel pubblico impiego, «se necessario, riducendo gli stipendi». Poi, e qui c'è l'aspetto ideologico e di rivincita classista contro le conquiste dei lavoratori del XX secolo, si ordina a un governo che non aspettava altro, un'ulteriore «riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livelli d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende».
Ora, si può capire - accettare o no è una libera scelta - che la Bce decida i numeri necessari a rientrare dal debito pubblico, e persino i tempi. Non è tollerabile invece che entri nel merito dei provvedimenti, che ordini di bastonare operai e pensionati invece che evasori e ricconi, o di tagliare la spesa sanitaria invece di quella militare, di risparmiare sui salari degli impiegati invece che sul ponte di Messina. Soprattutto, non è accettabile che la Bce ordini al governo di imporre a tutti il modello Marchionne che cancella i diritti fondamentali di chi lavora.
Enrico Letta ha detto che «i contenuti della lettera rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l'Italia dalla crisi... qualunque governo succederà a Berlusconi dovrà ripartire dai contenuti di quella lettera». Difficile accusare di qualunquismo chi dice «sono tutti uguali, tanto varrebbe tenersi Berlusconi». Una sinistra che sceglie di restare nel recinto di Draghi e Trichet, quello in cui si è prodotta la manovra economica con annesso articolo 8, non va da nessuna parte.
I BUONI MOTIVI PER EVITARE IL SACCHEGGIO
di Ugo Mattei
Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea, la sanità, l'università, un teatro pubblico o cerca di "vendersi" il patrimonio immobiliare (come fatto ieri da Tremonti e Berlusconi) esso espropria la comunità (ognun di noi pro quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un'altra opera pubblica. Nel primo caso infatti si tratta di trasferimento immediato o graduale di un bene o di un servizio dal settore pubblico a quello privato (privatizzazioneliberalizzazione) mentre nel secondo caso il medesimo trasferimento (di una proprietà o di un'attività d'impresa) è dal privato al pubblico. In un processo di privatizzazione il governo cioè non vende quanto è suo ma al contrario quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità, proprio come quando espropria un campo per costruire un'autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall'autorità politica attraverso il governo pro-tempore espropria ciascuno di noi della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell'espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell'autorità pubblica (Stato) attraverso l'indennizzo e richiede che una legge dichiari la pubblica necessità dell'espropriazione, nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata.
Di ciò manca completamente la consapevolezza non solo a livello politico, visto che la privatizzazione è considerata un'opzione assolutamente libera e percorribile dal governo in carica per il sol fatto di esserlo (al seminario romano di ieri Tremonti e Letta si comportavano da "padroni" dei nostri beni) ma anche a livello degli operatori e teorici del diritto proprio per la mancanza di elaborazione teorica della nozione di bene comune. Questa asimmetria costituisce un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, soprattutto in virtù del mutato rapporto di forza fra gli Stati ed i grandi soggetti economici privati transnazionali. Infatti, le conseguenze di questa asimmetria costituzionale si stanno provando devastanti. Consentire al governo in carica che vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica, è sul piano costituzionale tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l'argenteria migliore per farsi carico della sua propria necessità di andare in vacanza. Purtroppo l'assuefazione alla logica del potere della maggioranza tipica della modernità ci ha fatto perdere consapevolezza del fatto che il governo dovrebbe essere il servitore del popolo sovrano e non viceversa. Certo, il maggiordomo (governo) deve poter disporre dei beni del suo padrone (beni comuni della collettività) per poterlo ben servire, ma deve esserne amministratore fiduciario (sulla base di un mandato o al massimo di una proprietà fiduciaria) e certo non proprietario libero di abusarne alienandoli e privatizzandoli indiscriminatamente. Infatti i beni comuni una volta alienati o distrutti non esistono più, né sono riproducibili o facilmente recuperabili né per la generazione presente che si dovesse render conto di aver scelto (a maggioranza) un maggiordomo scellerato, né per quella futura cui non si può neppure rimproverare la scelta del maggiordomo. Ecco che la questione dei beni comuni non può che avere valenza costituzionale (o costituente) proprio perché è nelle costituzioni che i sistemi politici collocano le scelte di lungo periodo sottratte al rischio di arbitrio del governo in carica.
All'attuale condizione di inconsapevolezza politica diffusa e di conseguente accettazione generalizzata della visione dominante del mondo (la rivoluzione reaganiana è stata possibile e poi diffusa in tutto il mondo esattamente accettando la logica del maggiordomo dissipatore e del popolo sovrano inconsapevole espropriato) è urgente opporre l'elaborazione teorica e la contestuale tutela militante dei beni comuni come un genere dotato di autonomia giuridica e strutturale nettamente alternativa rispetto tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica (intesa come demanio eo patrimonio dello Stato e delle altre forme di organizzazione politica formale). Ciò è tanto più urgente nella misura in cui il maggiordomo è oggi vittima del vizio capitale del gioco ed è conseguentemente piombato nelle mani degli usurai che paiono assai più forti di lui e che ne controllano ogni comportamento. Nella stragrande maggioranza delle realtà statuali (e l'Italia dal '92 fa tutt'altro che eccezione) infatti il governo, controllato capillarmente da interessi finanziari globali, dissipa al di fuori da ogni controllo i beni comuni utilizzando come spiegazione naturale (e dunque politicamente in gran parte accettata) la necessità autoriproducentesi di ripagare i suoi debiti di gioco. Questa logica perversa che naturalizza uno stato di cose che è tuttavia frutto di continue e consapevoli scelte politiche camuffate da necessità, deve essere smascherata perché i popoli sovrani possano riprendere controllo (ancorché forse tardivo) dei mezzi che consentono loro di vivere un'esistenza libera e dignitosa. Bisogna fra capire a Tremonti e Berlusconi, ma anche a quanti nella cosiddetta opposizione condividono questo realismo politico fatto di false necessità, che il popolo italiano non vuole vendersi il patrimonio per ripagare i debiti di gioco di una classe dirigente incapace e disonesta. Ci abbiamo provato con il referendum ma il maggiordomo vizioso, sorretto da un dispositivo ideologico incostituzionale sostenuto al più alto livello, non pare sentire ragioni. Non ci resta che insistere in tutti i modi possibili. Il 15 ottobre ci darà un'altra preziosa occasione di far sentire chiara e forte la voce del popolo saccheggiato: bisogna invertire la rotta.
Commissione europea, Banca centrale e Fondo monetario concentrano i poteri, alimentano la recessione, espropriano la democrazia. Si deve ripartire dal modello sociale europeo e da un’autorità politica democratica
Quali sono stati i punti deboli della formazione dell'Ue?
La Ue è nata con due gravi difetti strutturali, insiti nello statuto e relative funzioni della Commissione europea e della Bce. La Ce opera di fatto come il direttorio della Ue, ma non è stata eletta da nessuno, le sue posizioni differiscono sovente da quelle del Parlamento europeo, organismo eletto, e appare in troppi casi funzionare come la cinghia di trasmissione dei dettami iperliberisti dell’Ocse e dell'Fm
Da parte sua la Bce è una banca centrale di nome, che però opera solo parzialmente come tale. I paesi entrati nell’euro hanno rinunciato al potere più importante che uno stato possa detenere: quello di creare denaro. Oggi solo la Bce può farlo. Ma lo fa male e in modo indiretto, ad esempio concedendo per anni imponenti flussi di credito alle banche che poi creano denaro privatamente con i prestiti che concedono a famiglie e imprese. Il maggior limite della Bce deriva dal suo statuto, che le impone come massimo scopo quello di combattere l’inflazione, laddove una banca centrale dovrebbe avere tra i suoi scopi anche la promozione dello sviluppo e dell’occupazione. Va notato ancora che la sua indipendenza dai governi maschera in realtà la sua dipendenza dal sistema finanziario e la sua mancanza di responsabilità sociale in nome di un ottuso monetarismo. Democratizzare la Ce e la Ue sarebbero compiti impellenti per i governi europei, se non fosse che per governi di destra, come di fatto son diventati quasi tutti, in fondo una governance non democratica e socialmente irresponsabile della Ue non è poi un gran male.
La centralità della moneta unica, come esclusivo campo d'unità europea, quali vuoti ha prodotto nello sviluppo economico degli stati membri?
Gli stati della zona euro hanno ceduto il potere di creare denaro, com’era necessario per creare una grande realtà politica ed economica quale è la Ue, ritrovandosi poi senza una banca centrale che presti loro, in caso di reale necessità, il denaro occorrente. La Bce dovrebbe operare come un prestatore di ultima istanza – così sostengono vari economisti – non diversamente da quanto avviene con altre banche centrali quali la Fed o la Bank of England. Tuttavia il suo statuto per ora le impedisce di assumere in modo diretto un simile fondamentale ruolo e potere. Ciò ha influito negativamente in tutta la Ue sulla possibilità di condurre politiche economiche e sociali adeguate alla situazione dell’economia europea e mondiale. Le economie più forti, quali la Germania e la Francia, ne sono uscite meglio – non da ultimo perché i banchieri tedeschi e francesi che siedono nel consiglio della Bce han fatto tutto il possibile per evitare troppi danni alle banche dei loro paesi.
Cos'è mancato di più, nel processo unitario, dal punto di vista sociale?
Se c’è un elemento che più di ogni altro potrebbe e dovrebbe fondare l’unità della Ue è il suo modello sociale, cioè l’insieme dei sistemi pubblici intesi a proteggere individui, famiglie, comunità dai rischi connessi a incidenti, malattia, disoccupazione, vecchiaia, povertà. Sebbene il modello sociale europeo presenti notevoli differenze da un paese all’altro, nessun altro grande paese o gruppo di paesi al mondo offre ai suoi cittadini un livello paragonabile di protezione sociale – la più significativa invenzione civile del XX secolo. Ne segue che i governi Ue che attaccano lo stato sociale sotto la sferza liberista della troika Ce, Bce e Fmi, nonché del sistema finanziario internazionale, minano le basi stesse dell’unità europea, oltre a fabbricare recessione per il prossimo decennio e piantare il seme di possibili svolte politiche di estrema destra.
Alla luce della crisi attuale, perché l'Ue appare impotente?
Anzitutto perché non ha ancora alcuna istituzione che svolga qualcosa di simile alle funzioni di un governo centrale democraticamente eletto e riconosciuto dalla maggioranza dei suoi cittadini. Di conseguenza ciascun paese pensa per sé. A ciò contribuisce pure lo strapotere del sistema finanziario internazionale, in assenza di qualsiasi riforma che sappia arginarlo. Inoltre, se si guarda ai singoli paesi, i partiti al potere hanno un orizzonte decisionale di pochi mesi, ovvero pensano soprattutto alle prossime elezioni, mentre dovrebbero ragionare su un arco di più anni. Peraltro l’impotenza deriva anche da una diagnosi sbagliata – quando non sia volutamente artefatta – delle cause della crisi di bilancio. Quest’ultima viene concepita come se derivasse da un eccesso di uscite generato dai costi dello stato sociale, laddove si tratta in complesso di un calo delle entrate che dura da oltre un decennio. Esso è stato causato da diversi fattori: i salvataggi delle banche, che solo nel Regno Unito e in Germania sono costati un paio di trilioni di euro; le politiche di riduzione dell’onere fiscale concesse ai ricchi, che hanno sottratto centinaia di miliardi ai bilanci pubblici (in Francia, ad esempio, tra i 100 e i 120 miliardi nel decennio 2000-2009); infine il fatto che grazie alle delocalizzazioni le corporation pagano le imposte all’estero, dove tra l’altro sono minime, e non nel paese d’origine. Ancora in Francia, per dire, si è molto discusso del caso Total, il gigante petrolifero che nel 2010 ha conseguito 12 miliardi di utili, ma in patria – del tutto legalmente – non ha pagato un euro di imposte (salvo qualche milioncino che vale come indennizzo ai comuni dove opera ancora qualche suo impianto). Ora se un governo è ossessionato dall’idea che il deficit sia dovuto unicamente a un eccesso di spesa sociale punta a tagliare quest’ultima, cercando però al tempo stesso di evitare ricadute negative in termini elettorali, e per la medesima ragione si rifiuta di accrescere le entrate alzando le imposte ai benestanti, o alle imprese delocalizzate. È ovvio che non fa differenza se quel governo sa benissimo che la diagnosi è errata, ma la abbraccia per soddisfare le forze economiche cui ritiene di dover rispondere. In ambedue i casi il risultato sono manovre che picchiano soltanto sui più deboli, mentre le radici reali della crisi non sono nemmeno intaccate.
I vincoli di bilancio quali conseguenze hanno sull'economia «reale»?
Le più visibili sono l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario. I licenziamenti in tanti paesi di centinaia di migliaia di dipendenti della PA, insegnanti compresi, i tagli alle spese dei ministeri ed ai servizi resi dai comuni, a partire dai trasporti pubblici, l’aumento delle imposte indirette come l’Iva, comportano nell’insieme una riduzione dei consumi e con essa una minor domanda di beni e servizi alle imprese. Queste reagiscono licenziando o assumendo quando capita solo con contratti a termine, il che genera altra disoccupazione, in un minaccioso avvitarsi dei processi economici verso il basso.
Ha senso, come alcuni fanno, auspicare il default o il ritorno alle monete nazionali?
Sarebbe una pura follia. In primo luogo il ritorno a diciassette monete diverse solleverebbe difficoltà tecniche assai complicate da superare, poiché l’integrazione economica, finanziaria e legislativa tra i rispettivi paesi ha fatto nel decennio e passa dell’euro molti passi avanti. Inoltre parecchi paesi avrebbero a che fare con tassi di scambio catastrofici. Tra di essi vi sarebbe sicuramente l’Italia. Il giorno dopo un eventuale ritorno alla lira ci ritroveremmo con il franco a 500 lire (era a 300 quando venne introdotto l’euro), il marco a 2.000 (era a 1.000) e la sterlina a oltre 3.000. A qualche imprenditore simili tassi possono far gola, poiché favoriscono le vendite all’estero; ma essendo quella italiana un’economia di trasformazione, che all’estero deve comprare tutto, dal gas ai rottami di ferro, il costo degli acquisti dall’estero le infliggerebbe un colpo insostenibile.
Gli stati, i governi hanno ancora qualche margine di manovra e qualche peso sulle decisioni di fondo o tutto è nelle mani di Fmi, Bce o Commissione di Bruxelles?
La troika in questione ha di fatto espropriato i paesi Ue della loro sovranità – con l’eccezione della Germania per la sua capacità produttiva e del Regno Unito perché ha conservato una moneta sovrana. Senza le riforme strutturali della Ue, implicite in ciò che dicevo all’inizio, essa continuerà a dettar legge.
Che giudizio dà sulla manovra italiana? E sull'atteggiamento un po' rassegnato – sul merito – delle opposizioni parlamentari?
La manovra italiana è una fotocopia sbiadita delle solite ricette che la troika di cui sopra trasmette regolarmente ai paesi in difficoltà. Di certo essa accrescerà la disoccupazione, impoverirà ulteriormente il paese, ponendo così le basi per dieci anni di recessione – teniamo conto che il nostro Pil è ancora parecchi punti al disotto del livello raggiungo nel 2007 – e per giunta non servirà in alcun modo a ridurre il debito pubblico. Su questo fronte l’opposizione difficilmente poteva opporsi all’ultimo momento, poiché quando la nave sta affondando uno cerca di salvare il salvabile, piuttosto che continuare a insistere sui difetti di progettazione della nave. Peraltro le opposizioni hanno avuto anni per chiamare i cittadini a discutere su tali difetti, quelli della povera scialuppa del governo ma anche quelli della nave Ue, e provare a disegnare insieme con loro un progetto diverso. Non mi pare che finora le loro proposte abbiano lasciato traccia di sé, nella memoria dei cittadini o nei documenti.
Dopo il tracollo del settembre 2008, la finanza pubblica dell’Occidente ha iniettato nel sistema bancario enormi quantità di denaro per far fronte alla crisi di liquidità che l’esplodere della bolla speculativa aveva generato. Mai nel dopoguerra si era assistito a un piano di salvataggio di così ampie e sistemiche proporzioni realizzato a suon di miliardi di euro/dollari per ricapitalizzare il sistema bancario americano ed europeo. Con quella manovra si voleva evitare che il collasso del sistema finanziario trascinasse con sé l’intera economia mondiale dando il via a una recessione analoga a quella degli anni ’30.
Nel 2010, nel giro di pochi mesi, i principali istituti finanziari e bancari sono tornati a macinare profitti, grazie agli impieghi realizzati proprio con la liquidità addizionale messa a disposizione dagli Stati. Impieghi finanziari che solo in minima parte hanno favorito progetti imprenditoriali e industriali diretti. La stragrande maggioranza di quelle risorse sono invece tornate – come se nulla fosse successo pochi mesi prima – a puntare sui prodotti offerti dalla finanza speculativa e d’azzardo.
Insomma, mentre gli Stati s’indebitavano, buttando nel cestino, nel volgere di pochi giorni, decenni di dichiarazioni solenni sull’inderogabilità dei patti di stabilità, stracciando impegni sovranazionali basati sul rigido rispetto di politiche monetarie restrittive quale unico baluardo contro l’instabilità (chi si ricorda più dei vincoli di Maastricht oggi?), ebbene di fronte a questa svolta epocale, le Banche con totale non chalance confermavano quelle stesse regole di gestione e di massimizzazione dei profitti che le avevano condotte tra il 2007 e il 2009 sull’orlo della bancarotta.
Per usare un’immagine speriamo efficace, la storia a cui abbiamo assistito nell’ultimo biennio è quella di un naufrago che, salvato dai flutti nei quali, a scienza certa, stava affogando, appena riprende fiato, non trova nulla di meglio che correre a comprare una pistola con la quale uccidere il proprio salvatore. Basta guardare ai crudi fatti perché ne risulti confermata questa paradossale ma purtroppo autentica storia.
Le decisioni di investimento, di impiego e di smobilizzo messi in atto dagli operatori finanziari, direttamente o indirettamente, corrispondono a questa immagine: infatti un buon numero di queste istituzioni hanno puntato sul fallimento di alcuni Stati dell’Unione europea, gli stessi che pochi mesi prima avevano anch’essi deciso il loro salvataggio.
E’ un dato di fatto che dagli attacchi speculativi a Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia – i cosiddetti PIGS - alcuni investitori ribassisti hanno ricavato ingenti margini. Dove sono ora finite quelle prese di profitto? Certamente al sicuro, in qualche banca svizzera o in qualche fondo off-shore, o semplicemente su altre piazze finanziarie mondiali considerate più sicure. L’effetto cumulativo delle ondate speculative torna ora come un boomerang e sembra non voler risparmiare nessuno.
Così, a piangere e a lamentarsi, oltre ai piccoli risparmiatori, ai dipendenti pubblici e privati, ai precari, ai disoccupati, ai giovani e ai pensionati, ecco aggiungersi, ancora una volta, le banche, europee e americane senza distinzione. Alcune piangono di più, ad esempio le francesi e le tedesche, e altre di meno.
Di che si lamentano? Le banche si lamentano della qualità dei loro portafogli, pieni zeppi di titoli di stato dei PIGS, comprati non secoli fa ma pochi mesi fa o anche solo l’altro ieri, allettate dai considerevoli rendimenti che la speculazione ha originato. Ma se domani la Grecia prima e dopodomani l’Italia dichiarassero lo stato di default, quegli attivi diventerebbero automaticamente carta straccia.
Qual è allora l’ultima trovata del G20 e del Fondo Monetario Internazionale? Creare un Fondo salva-Stati che entrando nel capitale delle Banche permetta loro di assorbire le perdite che si creeranno quando quei titoli del debito pubblico non varranno più nulla.
Sorge subito un dubbio: ma perché se si devono salvare gli Stati, si salvano innanzitutto le banche? Non sarebbe più semplice con l’emissione di eurobond sostituire in parte i titoli nazionali rendendo quel debito sovrano meno rischioso? E a proposito di banche, non è proprio per il fatto che i titoli dei PIGS sono così rischiosi che esse, in quanto principali investitori istituzionali, ricevono per la loro sottoscrizione tassi di interesse stratosferici, del 4, 10 e sino al 20% in più degli interessi pagati sui titoli tedeschi? Del resto, se si trattasse di debito privato saremmo già oltre il tasso di usura!
Certo, con l’intervento europeo, scomparirebbe il rischio (perché pagato dal pubblico) e quei tassi dovrebbero ritornare su livelli normali – salvo che continueremmo a non sapere che fine hanno fatto le prese di profitto. E sia, diciamo che questo ennesimo sacrificio pubblico mira a rimettere in ordine le cose, a evitare il peggio. Ma allora, ci chiediamo: chi ci garantisce che la storia non si ripeterà?
Perché non si ripeta la beffa della capitalizzazione del 2009, quali condizionalità saranno imposte alle banche, quale sarà il potere di veto dell’azionista pubblico sulle scelte di investimento e di gestione dei banchieri? Oppure, ancora una volta, in nome della “sacralità del mercato” le nuove risorse bancarie torneranno ad abbattersi, come letali armi di distruzione di massa, sulla vita dei cittadini che gli stessi Governi dovrebbero tutelare?
Questa nuova fase sarebbe doppiamente fatale – e così per certi versi è già negli annunci: da un lato, si scatenerebbe un’ondata supplementare di privatizzazioni per saldare i nuovi debiti originati dal Fondo salva-banche e, dall’altro, quelle risorse sarebbero impiegate proprio per comprare a prezzi stracciati interi comparti del patrimonio pubblico. L’inevitabile risultato sarebbe il secco impoverimento della popolazione e il corrispettivo aumento del tasso di finanza cattiva nei gangli dell’economia mondiale.
Il paradosso è dunque quello di un mondo alla rovescia in cui più ti comporti male e più vieni premiato? Purtroppo, la beffa è che in nome dell’infallibilità dei mercati, le sanzioni applicate appaiono totalmente asimmetriche: se il debito pubblico non è credibile, bisogna licenziare, tagliare, vendere; se invece la finanza privata non sta in piedi, allora va salvata, perché altrimenti il panico dei mercati si potrebbe estendere a macchia d’olio, eccetera, eccetera.
Morale lapalissiana: se il mondo è storto, vuol dire che non è dritto. Occorre dunque ricostruire un mondo equilibrato e portatore di un’etica degna di questo nome. Le banche debbono semplicemente tornare a fare il loro mestiere: cioè utilizzare i risparmi delle persone per concedere crediti a chi ha progetti validi ed è capace di produrre lavoro e ricchezza. Né più né meno che questo. I Governi, d’altro canto, hanno il sacrosanto dovere di consolidare il debito storico ormai ingestibile, un fardello che non può pesare ad infinitum sul futuro nostro e dei nostri figli.
In un mondo così complesso, le cose a volte possono essere a tratti meravigliosamente lineari e comprensibili. Renderle tali è compito della Politica, ottemperando ai propri fini che sono quelli dell’interesse pubblico e non quello di pochi, voraci e autodistruttivi pescecani.
Qui il blog del Gruppo di cultura politica Fondamente
Parlando in nome della Chiesa italiana, il cardinale Bagnasco ha usato parole molto chiare, ieri, davanti al Consiglio permanente dei vescovi. Il nome del presidente del Consiglio non viene fatto, ma è di Berlusconi che parla: quando denuncia «i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie», quando ricorda il «danno sociale (che essi producono) a prescindere dalla loro notorietà». Quando cita l´articolo 54 della Costituzione e proclama: «Chiunque sceglie la militanza politica, deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell´onore».
Non è la prima volta che il Presidente della Cei critica l´immoralità insediatasi ai vertici del governo italiano, ma questa volta le parole sono più precise e dure, il tono si fa drammatico perché il Vaticano ormai ne è consapevole: la personalità stessa del premier è elemento della crisi economica che sta catturando l´Italia, e all´estero la sua figura non è più giudicata affidabile. Tra le righe, Bagnasco fa capire che le dimissioni sarebbero la via più opportuna: «Quando le congiunture si rivelano oggettivamente gravi, e sono rese ancor più complicate da dinamiche e rapporti cristallizzati e insolubili, tanto da inibire seriamente il bene generale, allora non ci sono né vincitori né vinti: ognuno è chiamato a comportamenti responsabili e nobili. La storia ne darà atto».
Come in altre occasioni, non manca la critica parallela alla magistratura: critica che Berlusconi ha abilmente sfruttato a proprio favore, per lungo tempo, presentandosi come politico vicino alla Chiesa e da essa appoggiato. Il Cardinale ha dubbi «sull´ingente mole di strumenti di indagine messa in campo, quando altri restano disattesi e indisturbati» e giunge sino a dirsi «colpito dalla dovizia delle cronache a ciò dedicate»: sono dubbi e sbigottimenti non del tutto comprensibili, perché è pur sempre grazie alla magistratura e alla dovizia delle cronache che la Chiesa stessa, infine, ha dovuto constatare i «comportamenti non solo contrari al pubblico decoro ma intrinsecamente tristi e vacui»; «l´improprio sfruttamento della funzione pubblica»; i «comitati d´affari che, non previsti dall´ordinamento, si autoimpongono attraverso il reticolo clientelare, andando a intasare la vita pubblica con remunerazioni, in genere, tutt´altro che popolari»; l´evasione fiscale infine, «questo cancro sociale» non sufficientemente combattuto. Senza le inchieste della stampa indipendente, senza le intercettazioni ordinate dai pubblici ministeri, senza la documentazione sugli innumerevoli reati imputati al premier, la Chiesa non potrebbe fondatamente pronunciare, oggi, il suo «non possumus».
Anche in questo caso tuttavia, Bagnasco cambia tono rispetto agli anni scorsi. Pur esprimendo dubbi su magistrati e giornalisti, si rifiuta di metter sullo stesso piano le condotte degli uni e degli altri: «La responsabilità morale ha una gerarchia interna che si evidenzia da sé, a prescindere dalle strumentalizzazioni che pur non mancano (...) La questione morale, complessivamente intesa, non è un´invenzione mediatica: nella dimensione politica, come in ciascun altro ambito privato o pubblico, essa è un´evenienza grave, che ha in sé un appello urgente».
La questione morale non è un´invenzione mediatica: lo dicono da tempo tanti cattolici, laici e non, e la Chiesa italiana sembra volerli ascoltare, meno riottosamente di ieri. Si capisce che non faccia nomi espliciti, che non usi l´arma ultima che è la richiesta esplicita di dimissioni: sarebbe un´interferenza nella politica italiana, non promettente per il futuro anche se comprensibilmente invocata da molti. La Chiesa già interviene molto sulle scelte delle nostre istituzioni (il testamento biologico è un esempio), e non sarebbe male se in tutti gli ambiti osservasse la prudenza politica che manifesta verso Berlusconi, non nominandolo espressamente. Forse la condanna che oggi pronuncia - che questo giornale ha chiesto con forza - non può che essere spirituale, al momento: il cristiano non compra l´amore, non compra il consenso, non mente, non inganna, non privilegia i ricchi contro i poveri, non presta falsa testimonianza. Su questi e altri peccati ce ne sono, di cose da dire.
La vera questione, a questo punto, concerne i cattolici che sono nella maggioranza, e che dovranno giustificare ora le innumerevoli connivenze, i silenzi così tenaci e vili. Cosa pensano Formigoni, o Giovanardi, delle parole che vengono dal vertice della Conferenza episcopale italiana? Con che faccia il ministro Rotondi parla di Berlusconi come di un «santo puttaniere»? Perché "santo"? Per tutti costoro, più che per la Chiesa, vale oggi il comandamento di Gesù: «Sia invece il vostro parlare «sì sì», «no no», il di più viene dal maligno». Il Cardinale sembra avere in mente questi politici quando constata: «Colpisce la riluttanza a riconoscere l´esatta serietà della situazione al di là di strumentalizzazioni e partigianerie; amareggia il metodo scombinato con cui a tratti si procede, dando l´impressione che il regolamento dei conti personali sia prevalente rispetto ai compiti istituzionali e al portamento richiesto dalla scena pubblica, specialmente in tempi di austerità».
Non è escluso che il Papa abbia avuto il suo peso, nel linguaggio più aguzzo cui la Chiesa italiana ricorre. Da quando si è inasprita la crisi, Benedetto XVI ha usato parole di grande severità contro le ingiustizie e le diseguaglianze che lo sconquasso economico sta dilatando. Va in questa direzione l´omelia pronunciata l´11 settembre a Ancona. E nel viaggio in Germania il Pontefice non ha esitato ad ammettere che la Chiesa per prima è oggi scossa alle fondamenta: che per sopravvivere e rinascere deve "demondanizzare" se stessa, deve farsi scandalosa. Nel discorso al Konzerthaus di Friburgo ha ricordato che uno dei tanti fattori che rendono "poco credibile" la Chiesa è il suo apparato, e sono le sue ricchezze materiali.
Demondanizzarsi, riscoprire l´umiltà e la povertà: è un progetto di vita alto, è l´antica denuncia che Antonio Rosmini fece nelle Cinque Piaghe della Chiesa (inizialmente la Sacra Congregazione dell´Indice condannò il grande libro, nel 1849). «La Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?» lo ha chiesto a Friburgo il Papa, stavolta, e quel che ha chiesto è importante anche per l´Italia, alla cui costruzione e alla cui unità tanti cattolici laici hanno contribuito. Così come è essenziale anche il discorso sulla povertà. È già un passo non irrilevante la disponibilità di Bagnasco a farsi giudicare, sulle sovvenzioni che la Chiesa riceve dallo Stato italiano: «Facciamo notare che per noi, sacerdoti e vescovi, e per la nostra sussistenza, basta in realtà poco. Così come per la gestione degli enti dipendenti dalle diocesi. Se abusi si dovessero accertare, siano perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti».