Dopo Tangentopoli la legislazione urbanistica è stata smantellata. Le metropoli sono diventate terreno di conquista degli speculatori. Fiumi di cemento hanno inondato i nostri territori. Ripristinare la legalità, bloccare le espansioni urbane, riqualificare le periferie, recuperare il costruito abbandonato: ecco tutto ciò che andrebbe fatto per fermare il saccheggio del territorio e delle città.
Regole e legalità cancellate
Il 1993 segna lo spartiacque per comprendere cosa è avvenuto nel territorio e nelle città. Tangentopoli aveva mostrato lo stretto intreccio tra l’urbanistica e la corruzione: a Roma e Milano, solo per fermarci alle due maggiori città, le regole venivano sistematicamente cambiate dalla politica collusa con la proprietà fondiaria e con l’affarismo.
Nulla di nuovo. Una storia iniziata nell’immediato dopoguerra: la Roma dominata dalla Società generale immobiliare, la Napoli dei tempi di Lauro, lo scandalo di Agrigento, il sacco di Palermo avevano dimostrato l’arretratezza del sistema economico che dominava le città. È stata la speculazione parassitaria a imporre il proprio dominio: dappertutto erano sorte periferie sfigurate e incivili.
Eppure in quel periodo il legislatore aveva risposto agli scandali con una serie di riforme che avevano collocato l’Italia nel panorama dei paesi virtuosi. Regole e strumenti pubblici chiari e efficaci: la legge sull’edilizia pubblica del 1962, [del 1971 e del 1978 – n.d.r.] la legge ponte del 1967, la Bucalossi del 1977, la Galasso del 1985, la legge sulle aree protette del 1991. Era stato mancato l’obiettivo di scindere in maniera definitiva il diritto di proprietà dal diritto di edificare analogamente agli altri paesi europei poiché il tentativo di riforma di Fiorentino-Sullo fallì nel 1963 per la violentissima reazione del blocco immobiliare. Ciò nonostante, la risposta agli scempi urbanistici portò a una profonda evoluzione della legislazione.
La risposta allo scandalo di Tangentopoli è stata di segno opposto: la legislazione urbanistica è stata infatti smantellata. La cultura delle regole viene sostituita dalla prassi della deroga. I piani regolatori, e cioè il quadro coerente dello sviluppo delle città, vengono sostituiti dall’urbanistica contrattata: volta per volta si decide la dimensione e i caratteri degli interventi urbani, al riparo di qualsiasi trasparenza. Conseguenza inevitabile, se si pensa che le elezioni politiche del 1994 portarono alla vittoria Silvio Berlusconi che all’interno del suo programma aveva promesso «padroni a casa propria» slogan che dà il via alla serie di leggi – mai contrastate negli anni dei governi di centro-sinistra – che avrebbero messo in crisi il governo pubblico del territorio.
Quando scompaiono le regole trionfa l’illegalità. Questo è avvenuto in molti casi, dall’attacco continuo alla magistratura al falso in bilancio alle prescrizioni facili. Ma è nelle città che il malaffare ha trionfato. Quanto emerge dall’inchiesta della magistratura su Sesto San Giovanni ne è la più chiara dimostrazione. I colloqui tra i protagonisti vertono sull’esigenza di variare le volumetrie da realizzare nell’area ex Falk da un milione a un milione e mezzo di metri cubi. Senza alcuna procedura di evidenza pubblica si regalano alla proprietà fondiaria 500 mila metri cubi: un arricchimento in termini economici di oltre 200 milioni di euro. Ammettiamo pure per assurdo che non ci sia stata alcuna tangente: il fatto grave è che attraverso l’urbanistica contrattata si alterano le regole di mercato. Altri operatori che sulla base delle scelte urbanistiche avevano deciso di investire in differenti aree vengono danneggiati e se non vogliono soccombere hanno un’unica strada: venire a patti con la politica e iniziare la contrattazione urbanistica.
Questa patologia spiega il motivo per il quale non c’è nessun operatore edilizio di altri paesi europei che investa sul mercato italiano: chi è abituato al rispetto delle regole non può avventurarsi in un far west dominato da taglieggiatori, speculatori e amministratori pubblici infedeli. Del resto, siamo il paese dei tre condoni edilizi, una vergogna sconosciuta negli altri paesi.
Le periferie più grandi e desolate d’Europa
Dopo circa vent’anni dalla sua affermazione è venuto il momento di tentare un bilancio degli effetti sulle città e sul territorio dell’urbanistica contrattata. Esso deve partire da una constatazione statistica: nel quindicennio che va dalla ripresa del mercato delle costruzioni (1995) ad oggi, un fiume di cemento e asfalto si è riversato sul paese. L’Istat ha certificato (2009) la costruzione di oltre 3 miliardi di metri cubi di cemento, una produzione edilizia imponente, molto simile per dimensioni a quella realizzata negli anni Cinquanta-Settanta quando l’Italia era investita da grandi flussi demografici e da indici di crescita economica a due cifre. La cancellazione delle regole urbane ha dunque giovato al mondo della proprietà fondiaria e delle costruzioni. Ha giovato anche alla qualità delle nostre città?
La risposta è inequivocabile. Le periferie – che rappresentano la parte preponderante delle nostre città – sono in assoluto, con alcune lodevoli eccezioni, le più brutte, disordinate e invivibili dell’intera Europa. Lo sono per le carenze dei sistemi di trasporto, per la qualità dei servizi pubblici e degli stessi edifici. I luoghi scelti per realizzare le nuove periferie hanno anche contraddetto la regola usuale della città liberale, quella cioè di espandersi in adiacenza ai precedenti tessuti, mantenendo la città compatta e minori i costi di funzionamento urbano. In ogni parte del territorio agricolo sono nati centri commerciali, nuclei abitati, residence, cittadelle del consumo: lo sprawl urbano è la caratteristica più evidente del ventennio liberista. Le città italiane nel ventennio dell’urbanistica contrattata sono diventate più estese, più disordinate, socialmente più ingiuste. La speculazione immobiliare ha fatto enormi affari. Gli altri sono stati costretti a spostarsi nelle sempre più lontane e squallide periferie.
Una gigantesca periferia senza struttura e senza relazioni: abbiamo il più basso livello di infrastrutture su ferro, il più alto numero di automobili ad abitante, con il più elevato livello di superficie urbanizzata a parità di popolazione, un consumo di suolo senza uguali nei paesi ad economia forte. Un’immensa «non città», anonima e disordinata. Una frammentazione che genera consumi energetici insostenibili, disfunzioni economiche e scarsa qualità della vita.
Verso il default urbano
Raccogliamo dunque gli effetti di processi giustificati dall’ideologia di uno «sviluppo» che oltre a lasciare macerie urbane ha anche vuotato le casse delle amministrazioni pubbliche. Paradigma di quanto è avvenuto nelle città italiane è il caso di Parma. Una città ricca, con una parte antica meravigliosa e una periferia storica bella, è stata saccheggiata dietro lo schermo dello sviluppo. Oggi Parma ha un deficit di bilancio che pesa sulle spalle delle future generazioni per 600 milioni di euro.
Del resto, la stagione delle «grandi opere» è servita soltanto al saccheggio. Dietro i concetti dell’ammodernamento del paese sono state avviate opere dannose e inutili: dal Mose al ponte di Messina; dal corridoio della Val di Susa alle emergenze della Protezione civile, è stata messa a punto una macchina perfetta che ha favorito soltanto le cricche del malaffare e dilapidato risorse pubbliche. Del resto, per collocare in un panorama più vasto le dinamiche italiane, non si deve dimenticare quanto è avvenuto in Grecia. Anche lì l’ideologia liberista ha imposto a tutti i costi lo svolgimento dei Giochi olimpici nel 2004: il deficit di bilancio accumulato per la folle sfida è stato di 20 miliardi di euro dilapidati in cattedrali nel deserto, poco meno di un decimo del debito che sta collassando quella nazione.
Se si mettono queste caratteristiche del territorio in relazione con la crisi economica e finanziaria che sta colpendo sempre più intensamente il paese e che provocherà un’inevitabile diminuzione delle capacità di spesa delle amministrazioni pubbliche, gli interrogativi sul futuro delle nostre città si fanno allarmanti. Non avremo risorse per portare i servizi nel territorio diffuso e – ciò che in prospettiva è più importante – non potremo competere con i livelli di efficienza delle città europee, con la qualità dei servizi erogati ai cittadini, con la loro capacità di fare rete – e richiamare investimenti privati – proprio in virtù dell’alto livello di funzionalità.
Viaggiamo verso una prospettiva insostenibile. Nella crisi globale una struttura forte del territorio è un potente fattore di traino di nuove attività: territori a bassa densità non sono invece in grado di competere con i livelli di concentrazione di servizio esistenti nelle città del mondo. La Comunità europea prevede che nel 2020 l’80 per cento della popolazione degli Stati membri vivrà in ambiente urbano. La sfida per la ripresa economica passa dunque per le città e l’Italia è la cenerentola rispetto ai paesi, che anche in questi anni di liberismo non hanno abbandonato la cultura del governo delle città.
Abbiamo minato le stesse basi per una nuova fase di sviluppo e per tentare di colmare la distanza dobbiamo essere in grado di rendere concrete due condizioni: bloccare per sempre le espansioni urbane perché è un costo che non possiamo permetterci più e investire risorse pubbliche per migliorare le città. Assistiamo purtroppo a una rincorsa bipartisan a espandere ancora le città e a impoverirle cancellando il welfare urbano, i trasporti,fino a ipotizzare di svendere i monumenti.
È come se una banda di malfattori si fosse impadronita del paese. Continua infatti l’assalto alle coste marine ancora integre. Dalla Sardegna alla Sicilia l’unico motore di sviluppo è il cemento. Assistiamo poi a un altro assalto all’integrità dei luoghi condotto mediante nuovi mostri giuridici come i «piani casa» (nel Lazio si deroga perfino per le aree ricomprese nei parchi) o le «zone a burocrazia zero» volute dal ministro Tremonti con le quali si possono superare anche i vincoli paesaggistici che hanno rilevanza costituzionale sulla scorta dell’articolo 9. Salvatore Settis ha lanciato l’allarme sul rischio della definitiva cancellazione dei paesaggi storici italiani.
Se a questo si aggiunge ancora che – deroghe a parte – i vigenti piani regolatori prevedono espansioni illimitate (solo i recenti piani di Roma e Milano prevedono un incremento di 120 milioni di metri cubi di cemento, e cioè un milione di nuovi abitanti in due città che perdono popolazione da circa trenta anni!) c’è davvero da preoccuparsi. Occorre interrompere questa folle corsa alla distruzione del paese.
Le città e il territorio sono beni comuni
Solo in base a nuovi princìpi giuridici si potrà fermare il saccheggio del territorio e delle città. È necessario un nuovo paradigma e, se finora lo sviluppo delle città e del territorio ha favorito la speculazione immobiliare e il mondo delle imprese colluse con la politica, è venuto il momento di riportare i destini delle città e del territorio nelle mani delle popolazioni insediate. Occorre affermare che il territorio, le città e le risorse naturali che consentono la vita insediativa sono beni comuni non negoziabili. Le istituzioni pubbliche, attraverso le forme della partecipazione attiva della popolazione, ne sono i custodi e i garanti nel quadro delle specifiche competenze. È questo il pilastro su cui deve essere rifondato il governo del territorio. I beni comuni non possono essere trasformati in funzione dell’esclusivo tornaconto dei proprietari degli immobili ma ogni mutamento deve essere deciso dalle amministrazioni pubbliche attraverso forme di partecipazione delle comunità insediate, specie in questo periodo di scarse risorse economiche.
Il principio generale si completa con due corollari. In primo luogo occorre conoscere quanto è avvenuto. Finora non ci sono dati ufficiali su quante abitazioni sono state costruite e quante sono invendute, quante aree industriali sono dismesse, quante aree urbane sono prive delle più elementari opere di urbanizzazione. Per completare il quadro conoscitivo è necessario applicare un anno di moratoria edilizia in cui sono consentiti soltanto gli interventi in corso, quelli di recupero e ristrutturazione di edifici esistenti ma è preclusa ogni urbanizzazione di terreni agricoli. Una sorta di simmetria con l’anno di sospensione dell’entrata in vigore della «legge ponte» che la proprietà immobiliare impose e che servì per compiere alcuni dei più gravi misfatti che deturpano ancora oggi il territorio.
Il secondo corollario riguarda il fatto che su ogni opera di rilevanza territoriale, da un nuovo centro commerciale a una grande opera, è la popolazione insediata che deve esprimersi attraverso le mature forme di partecipazione, e cioè i referendum confermativi. Visto che le regole sono state infrante, occorre ricostruirle a partire da un nuovo protagonismo: quello dei custodi del bene comune, i cittadini.
Insieme al nuovo principio su cui deve rifondarsi il governo del territorio e delle città, è poi urgente definire le principali linee di azione da intraprendere per una nuova forma di governo. Lo faremo individuando nove fondamentali provvedimenti.
Le politiche individuate hanno bisogno di investimenti pubblici. Una prassi normale nella storia delle città: esse sono infatti luoghi pubblici per eccellenza e la loro evoluzione è stata sempre alimentata dalla lungimiranza di coloro che la governavano. Oggi non si investe più perché «non ci sono più soldi». Una menzogna vergognosa. Non passa giorno in cui non apprendiamo scandali e ruberie compiuti ai danni del territorio e dell’ambiente. È purtroppo vero che le risorse pubbliche vengono spese per opere inutili, per alimentare un sistema di potere che sfugge ormai al controllo democratico. La spesa pubblica per i provvedimenti contenuti in questo elenco serve per favorire la ricerca tecnologica e nuove produzioni, per rendere le città più vivibili. È un investimento per il futuro del paese e delle giovani generazioni.
1. Chiudere la fase dell’espansione urbana. È preminente interesse pubblico bloccare la corsa all’ulteriore espansione delle città e ridurre a zero il consumo di suolo ai fini insediativi e il mantenimento della parte naturale che è il luogo della biodiversità. Alcune normative regionali hanno già stabilito che nuovi impegni di suolo a fini insediativi e infrastrutturali devono essere consentiti esclusivamente qualora non sussistano alternative di riuso e riorganizzazione degli insediamenti e delle infrastrutture esistenti. La norma di principio valida su tutto il territorio nazionale potrebbe affermare ad esempio che «la realizzazione di nuovi insediamenti di tipo urbano o ampliamenti di quelli esistenti, ovvero nuovi elementi infrastrutturali, nonché attrezzature puntuali può essere definita ammissibile soltanto ove non sussistano alternative di riuso e di riorganizzazione degli insediamenti, delle infrastrutture o delle attrezzature esistenti».
L’esperienza ci insegna però che una simile norma non ha da sola la forza per fermare l’espansione urbana. Sono troppe le deroghe che consentono il nascere di nuovi insediamenti. L’efficacia della norma può essere resa stringente recuperando una proposta che da tempo Italia Nostra propugna, quella di inserire le aree agricole all’interno delle categorie dei beni tutelati ai fini paesaggistici dalla legge Galasso. Si dovrà dunque aggiungere al codice dei Beni culturali e paesaggistici (decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42) un comma che afferma: «Il territorio agricolo è vincolato come bene paesaggistico» in modo che sia conseguentemente sottoposto alla tutela dei piani paesaggistici.
Un piccolo e combattivo nucleo di sindaci ha dato vita al movimento «Stop al consumo di suolo», dimostrando che sono i cittadini a chiedere che le città non crescano più: si tratta di estendere all’intero paese ciò che è già in movimento.
2. Il territorio del lavoro. I suoli agricoli sottratti alla monocultura del mattone e dell’asfalto possono fornire una prospettiva produttiva. Ai fini di una lungimirante gestione del territorio nazionale, infatti, si deve recuperare un uso agricolo consapevole, puntare sulla qualità del prodotto, sulla riconversione biologica, sulla filiera corta. Un tema decisivo per il futuro economico del paese, una prospettiva che comporta la possibilità di integrazioni di reddito, la riscoperta delle radici culturali e della qualità del cibo. L’avvio di nuove politiche sarebbe di grande importanza perché i territori collinari e montani si stanno spopolando sempre più velocemente, con gravi rischi sulla stessa stabilità geologica dei versanti.
Compito delle autorità pubbliche è riattivare il tessuto sociale dell’Italia «marginale». Un solo esempio: i terreni abbandonati costano poco sul mercato immobiliare e le amministrazioni pubbliche potrebbero dunque inserirsi come operatori attivi e acquisire estese porzioni di territori da affidare poi alle comunità locali. Non sarebbe questa una spesa pubblica «classica», improduttiva. È al contrario un modo intelligente di investire sul futuro del paese, utilizzando ad esempio le risorse liberate attraverso la vendita delle proprietà pubbliche non indispensabili.
3. Pareggio di bilancio dei conti pubblici a carico della rendita parassitaria. Il blocco delle espansioni urbane porterebbe un consistente riequilibrio dei bilanci pubblici. Si spendono ingenti risorse per inseguire e raggiungere tutti i frammenti delle espansioni urbane nati recentemente. A carico della collettività resta infatti il pesante compito di realizzare le strade e le infrastrutture energetiche, di garantire i servizi pubblici, i trasporti e la quotidiana gestione dei quartieri. Questi oneri sono ormai insostenibili poiché la crisi economica ha ridotto le capacità di spesa delle amministrazioni. Si deve dunque stabilire il principio che ogni attività di trasformazione urbanistica presuppone l’esistenza o la preliminare realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale, a iniziare dalle reti di trasporto su ferro. A carico del privato vanno anche tutte le spese di mantenimento e di gestione dei nuovi insediamenti: è ora di chiudere il rubinetto che prosciuga le casse dello Stato.
In questo modo si possono cancellare le folli previsioni dei piani regolatori comunali. Se vogliamo davvero cambiare le città non possiamo consentire che si costruisca in luoghi privi di sistemi di trasporto non inquinante. I cittadini hanno il diritto, come in ogni altro paese europeo, di vivere in modo civile e non essere costretti a passare molte ore al giorno in spostamenti in automobile. È ora che gli attori edilizi si facciano carico della realizzazione delle infrastrutture, interrompendo il comodo gioco di scaricarne i costi sulle amministrazioni pubbliche che non sono più in grado di farsene carico.
Stesso ragionamento vale nel campo dell’erogazione dei pubblici servizi dove si sperpera un altro fiume di risorse economiche attraverso un impressionante numero di società di scopo. In nome dell’ideologia della presunta «efficienza», ad esempio, a Parma sono state create 34 società partecipate per gestire compiti ordinari come erogare l’acqua. Anche nell’area bolognese e in molte altre città i servizi pubblici sono gestiti da un numero imponente di società. Presidenze, consigli di amministrazione, consulenti d’oro che riportano docilmente i soldi ai decisori politici.
In questa stessa ottica di recupero di risorse economiche deve essere sottoposto a radicale revisione il paradigma della svendita del patrimonio pubblico così di moda nei circoli della finanza internazionale e dei politicanti nostrani. Nulla in contrario: proprietà pubbliche non utilizzate per il soddisfacimento delle esigenze collettive possano essere poste in vendita. Ma ciò deve in primo luogo escludere i beni culturali poiché un paese che guarda al futuro non vende le sue radici. In secondo luogo deve avvenire soltanto dopo aver coinvolto le popolazioni locali, poiché quel patrimonio appartiene a loro, e dopo aver verificato che quegli immobili da vendere non possano servire per abbattere il flusso delle risorse pubbliche spese per pagare affitti di uffici pubblici alla grande proprietà immobiliare. A Roma, ad esempio, importanti istituzioni – ad iniziare dal parlamento – pagano canoni altissimi a immobiliaristi e faccendieri anche se esistono ancora grandi edifici pubblici localizzati in posizione centrale. Invece di svenderli, potrebbero essere riutilizzati al posto di quelli per i quali si pagano i canoni di affitto.
Un altro eloquente esempio riguarda lo stesso ministero dell’Economia guidato da Giulio Tremonti, e cioè l’istituzione che più di ogni altra dovrebbe perseguire una rigorosa politica di risparmio. La sede del ministero ubicata a ridosso del laghetto dell’Eur è stata di recente dismessa e venduta per consentire l’ennesima speculazione immobiliare. Le strutture lavorative prima concentrate sono state smembrate e ora sono localizzate in due immobili tra loro distanti. Paghiamo i costi del disservizio e lauti canoni di affitto a grandi società immobiliari: lo Stato svende e il privato ci guadagna.
4. Il diritto all’abitare. Occorre pertanto invertire questo meccanismo perverso: la vendita degli immobili pubblici deve essere decisa dalla collettività dopo attenta verifica della loro potenzialità di essere riutilizzati per fini istituzionali o per risolvere i fabbisogni abitativi. La grande produzione edilizia di questi anni non ha infatti risolto il problema delle abitazioni. Sono centinaia di migliaia le famiglie che non hanno casa o vivono in abitazioni improprie. Nelle grandi città italiane esistono oltre 300 mila abitazioni nuove invendute. Ciononostante, i valori economici degli immobili hanno subìto un’impennata provocando l’espulsione dalle zone centrali delle città di un numero enorme di famiglie a medio e basso reddito. Una nuova legge «sull’abitare», e cioè sul diritto di tutti non soltanto ad avere un tetto, ma anche ad avere una città efficiente e accogliente è un altro fondamentale tassello del programma di governo.
Anche in questo settore va affermato un nuovo principio: a tutti i cittadini sono garantiti i diritti fondamentali all’abitazione, ai servizi, alla mobilità, al godimento sociale del patrimonio culturale, alla dignità umana. La legislazione dello Stato determina le quantità minime di dotazioni di opere di urbanizzazione, di spazi per servizi pubblici, e la fruizione collettiva e per l’edilizia sociale, nonché i requisiti inderogabili di tali dotazioni.
5. Le radici culturali da conservare. Nel delirio della cancellazione delle regole, si è tentato perfino di aggredire le radici della nostra storia urbana, i centri antichi. Nel cosiddetto «piano casa» berlusconiano si alludeva infatti anche alla possibilità di trasformare le tipologie presenti nei centri storici e continuamente si tenta di forzare le norme esistenti. Converrà dunque ribadire con una legge ad hoc che gli insediamenti storici non possono essere manomessi, ma conservati gelosamente per le future generazioni.
In forza della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali dovranno essere vincolati ope legis gli insediamenti urbani storici e le strutture insediative storiche non urbane; le unità edilizie e gli spazi scoperti, i siti in qualsiasi altra parte del territorio, aventi riconoscibili e significative caratteristiche strutturali, tipologiche e formali. Le radici culturali delle città e dei territori non possono essere modificate.
6. Periferie da rendere belle. Se da un lato si chiude la fase della crescita urbana, il governo delle città deve essere in grado di dare sbocchi concreti a un comparto produttivo che rappresenta comunque una percentuale importante del sistema produttivo italiano. In tal senso devono essere facilitate e avviate a trasformazione tutte quelle aree urbane che hanno bisogno di riqualificazione urbanistica. Si tratta dei tessuti abusivi ancora oggi privi dei requisiti minimi di civiltà e vivibilità (marciapiedi pedonali, piazze e servizi pubblici) e dei tessuti produttivi dismessi: è questo un patrimonio volumetrico imponente che potrebbe rappresentare – in una chiave sistematica – la chiave di volta di una riqualificazione urbana.
In tal senso va varato un provvedimento legislativo «quadro» (la materia urbanistica è «concorrente» tra Stato e Regioni ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione e lo Stato deve limitarsi alla definizione di norme quadro) che incentivi attraverso aiuti economici, fiscali e procedurali il rinnovo urbano e la creazione di periferie belle.
7. La riconversione tecnologica ed ecologica delle città. I provvedimenti fin qui elencati appartengono a un orizzonte che potremmo definire «tradizionale», nel senso che fa i conti con la crisi urbana ma non tiene conto della necessità sempre più impellente della riconversione ecologica delle aree urbane, del risparmio energetico, del cambiamento climatico in atto. Abbiamo edifici e città energivore: puntare al risparmio energetico serve a mettere in moto un gigantesco volano di ricerca, produzione e occupazione superiore a qualsiasi altro investimento nelle cosiddette «grandi opere». Anche qui alcune esperienze già sono in campo. Il progetto «casa clima» delle provincie di Trento e Bolzano ha dimostrato di aver saputo essere volano di interventi di sostituzione edilizia e di risparmio energetico.
Occorre però definire un provvedimento legislativo che aggredisca la questione urbana in maniera complessiva, dalla produzione energetica, ai sistemi di illuminazione fino alla forestazione urbana, definendo politiche efficaci e finanziando, anche attraverso forme di sgravio fiscale, l’evoluzione energetica delle città.
Occorre aprire una fase di profonda e radicale innovazione tecnologica delle città e del territorio in grado di far tesoro del patrimonio di innovazione, di ricerca e di produzione che in altri paesi è ormai una solida realtà produttiva.
Come è noto i nostri sistemi di trasporto urbano sono tra i più antiquati e inquinanti. Esistono invece infiniti esempi di sperimentazioni e attuazione di sistemi a impatto energetico e ambientale ridotto (tramvie, filovie, reti ciclabili integrate con i nodi del trasporto pubblico).
È il caso di sottolineare che si dovrà interrompere il consumo di suolo agricolo che oggi viene alimentato da progetti di fonti energetiche alternative. Troppe aggressioni al paesaggio collinare dell’Italia sono già state compiute: discutibili impianti eolici e pannelli fotovoltaici deturpano paesaggi storici, si pensi soltanto al caso di Sepino. Nel futuro le fonti energetiche di nuova concezione devono trovare spazio nelle aree già compromesse lasciando intatti i territori aperti.
Va infine superata l’arretratezza dei sistemi di smaltimento dei rifiuti urbani. Basta guardare all’Europa dove sono diventati un volano economico. A parte poche aree virtuose, siamo il paese delle discariche in cui viene sepolto tutto, compresi i materiali riciclabili, e di quelle abusive gestite dal circuito della criminalità organizzata. Il ciclo dello smaltimento dei rifiuti urbani deve invece diventare un elemento connotativo di politiche di risanamento ambientale e di innovazione delle filiere produttive.
8. Territori sicuri. Antonio Cederna poneva sullo stesso piano la tutela dell’integrità culturale delle città e la salvaguardia dell’integrità fisica dei territori. Siamo un paese ad alta fragilità geologica e abbiamo ogni anno un numero impressionante di frane. Tragedie che coinvolgono intere comunità locali e distruggono interi territori. Meglio prevenire che intervenire su emergenze senza fine.
Una nuova politica di gestione del territorio passa prioritariamente per la sua messa in sicurezza, per il potenziamento dell’Ufficio geologico centrale (oggi lasciato nell’oblio); nella redazione della carta geologica nazionale che ancora non vede colpevolmente la luce; nell’avvio di politiche di regimazione dei corsi d’acqua. Piccole opere preziose invece di grandi, inutili cattedrali nel deserto.
9. Il ripristino della legalità. È del tutto evidente che per essere efficace, le nuove norme in materia di governo del territorio devono essere perfezionate con l’abrogazione delle normative derogatorie. In ordine di importanza devono essere cancellati l’accordo di programma, e cioè il grimaldello che scardina le procedure urbanistiche ordinarie, e la strumentazione d’emergenza sperimentata in questi anni dai «galantuomini» della Protezione civile, i «piani casa», le zone a burocrazia zero, le compensazioni urbanistiche e quelle ambientali. Scorciatoie che servono soltanto a nascondere il saccheggio.
E in tema di legalità un discorso particolare merita l’esigenza di bonificare i troppi siti inquinati esistenti sul territorio nazionale. È un problema che investe sia il Nord, che riutilizza i suoli precedentemente produttivi senza le necessarie bonifiche (come ad esempio a Santa Giulia a Milano), sia il Meridione, in cui il circuito dei rifiuti gestito dalla malavita organizzata ha riversato sul territorio ogni tipo di veleno. Un paese civile non può continuare ad abbandonare intere popolazioni al rischio di morbilità o di malattie ereditarie. Ripristinare la legalità serve alla salute di un paese smarrito.
Le vecchie ricette keynesiane non hanno più margini in una crisi strutturale di queste dimensioni e qualità. Deve decrescere la dipendenza dal mercato e dall'ossessione del Pil
Alzino la mano quanti hanno azioni? Pochissimi, a giudicare dal fatto che non ci dicono mai la loro vera consistenza (numero di persone per il valore delle azioni possedute). Alzino la mano quanti hanno titoli di stato? Non molti e comunque posseggono meno della metà della metà del valore dei titoli emessi (la metà è all'estero, l'altra metà è nelle casse di imprese e investitori istituzionali vari). Alzi la mano chi ha denari in banca? Abbastanza, ma si accontentano di interessi che non proteggono nemmeno dall'inflazione. E allora, chi se ne frega del default ! Falliscano pure banche e stati, non vengano rimborsati i prestiti che hanno avuto, o vengano congelati in attesa di tempi migliori. Le bancarotte (assieme alle guerre) sono il metodo più sbrigativo per la remissione dei debiti e ricominciare da capo. E' successo molte volte nella storia degli stati e, da ultimo, l'Argentina insegna che ci si può risollevare. Chi vive del proprio lavoro, chi non arriva alla quarta settimana, cioè la maggioranza delle famiglie, si libererebbe così finalmente dal peso di dover foraggiare rendite e interessi. Se è vero che su ogni italiano gravano 30.000 euro di debito pubblico, quanti anni ci vorranno per estinguerli, ammesso che i futuri governi riuscissero a non aggiungerne altri? I giovani senza futuro, gli indignados che protestano a Wall Street, i disoccupati nelle piazze spagnole e greche gridano: «Non vogliamo pagare noi i vostri debiti». Ed hanno più che ragione.
Ma c'è un ma che rende ancora più grave la situazione e più profonda la svolta economica e politica necessaria per uscire dalla crisi. Non sono solo gli avidi speculatori, gli approfittatori alla Soros, i manager pagati in opzioni alla Marchionne, i ministri della finanza creativa alla Tremonti che ci hanno portato sull'orlo del baratro. Via loro (e sa iddio quanto sarebbe bello!) non cambierebbe nulla perché anche l'azienda dove andiamo a lavorare, l'amministrazione comunale dove abitiamo, la locale azienda sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca del nostro bancomat, l'agenzia di stato che sborsa il sussidio di disoccupazione a nostro figlio... sono da tempo, in un modo o nell'altro,tutti indebitati. Tutti avevano fatto il conto ("aspettativa" si dice in economia) di riuscire in futuro a guadagnare di più (facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo immobili e "cartolarizzando" il Colosseo...) di quanto non avessero ricevuto in prestito. Credevano, cioè, nella chimera di una crescita economica esponenziale e senza fine. Un calcolo tragicamente sbagliato. Da tempo (dieci, venti, chi dice trent'anni) le economie occidentali sono in crisi di realizzo, il loro tessuto produttivo non è più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino le hanno tentate tutte: la leva finanziaria, i titoli tossici, il signoraggio del dollaro, oltre, ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente, la "santa crescita", nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, non arriva. E non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo.
Doveva essere il secolo americano ed invece è quello del suo declino che si trascina con sé propaggini e imitazioni. Ciò accade un po' perché portare via le materie prime dal terzo mondo è sempre più costoso (militarizzazione crescente, prebende a regimi fantoccio, esaurimento delle risorse naturali), un po' perché i paesi emergenti hanno imparato che "arricchirsi è glorioso" e nemmeno così difficile. In un contesto di economia neoliberista, fondata sulla competizione selvaggia tra aree geografiche vince semplicemente il più forte: chi ha più capacità produttiva, chi riesce più a spremere i fattori e gli strumenti della produzione: a partire dal lavoro e dalle risorse naturali. Questa volta la Cina è davvero vicina.
Oppure si decide di uscire dal gioco per davvero. Si esce dall'economia del debito (cioè da quella economia che pone gli interessi del capitale sopra a quelli del lavoro e della stessa vita delle persone e dell'ecosistema terrestre) con tutto quello che ne deriva. E' questo il vero recinto di pensiero da cui nemmeno la sinistra-sinistra riesce ad uscire. Le vecchie ricette keynesiane non hanno realmente più margini di applicazione dentro una crisi strutturale di queste dimensioni e di questa qualità. Le politiche riformiste, anche quelle più caute sono tagliate fuori sia sul versante del modello economico, sociale ed ecologico, sia su quello della distribuzione della ricchezza. E' ormai chiaro che le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi del mercato. Dovremmo pensare ad un altro tipo di ricchezza, ad un altro tipo di benessere, ad un altro modo di lavorare, ad un altro modo di relazionarsi tra le persone che non sia quello che passa attraverso il portafogli. E sarebbe certamente una società più umana, più in armonia con la natura, più capace di futuro, più desiderabile. Se provassimo a mettere la cura e la fruizione dei beni comuni (l'acqua, la terra, le foreste, il patrimonio naturale, ma anche quello culturale: la conoscenza, i saperi) al centro della nostra idea di società, riusciremmo facilmente e con grande soddisfazione individuale e collettiva a fare a meno dell'ossessione dell'aumento del Pil. Anzi, essere costretti a pagare per possedere, invece che condividere per accedere ad una fruizione collettiva, sarebbe un indicatore negativo di benessere. Decrescere la dipendenza dal mercato è l'unico modo per sottrarsi ai suoi diktat. Non c'è modo di liberarsi dalla tirannia della produttività misurata in budget se non ci si libera dal dispositivo dell'incremento del valore di scambio delle merci. Ed è esattamente questo, non altro, quello che chiamano, in modo assolutamente bipartisan (da Napolitano a Berlusconi, dalla Camusso a Marchionne, dagli economisti marxisti a quelli liberisti): crescita.
Il guaio non è la «vera e propria crisi del capitalismo» (sono parole del The Observer), ma la mancanza di una alternativa di sistema. Cioè, la mancanza di una soggettività politica che abbia il coraggio civile e intellettuale di prospettare un sistema di valori etici e di regole sociali all'altezza della odierna crisi di civiltà e capace di evitarci di pagare le conseguenze del collasso. Per esempio: non ci si libera dagli strozzini e dagli usurai se non si stabilisce che la finanza e la moneta devono tornare ad essere strumenti neutri, beni comuni pubblici, di servizio, che nessuno (né grande banchiere, né piccolo azionista) può pensare di usare per arricchirsi. Non ci si evolve dal lavoro schiavo e precario se non si torna a stabilire che anche il lavoro è un bene comune, non una merce, un modo di realizzare sé stessi e, assieme, contemporaneamente, un modo per offrire agli altri cose utili, sane, durevoli. Non ci si libera dal peso delle crescenti spese militari e per la "sicurezza", se non si capisce che la pace e la sicurezza sono beni indivisibili, universali.
Fastidiose utopie, dirà qualcuno, indispensabili modi di essere per chi pensa che sia possibile praticare forme di economia non monetizzata, sociale e solidale. Ernst Friedrich Shumacher diceva che l'economia è una «scienza derivata», che deve cioè «accettare istruzioni». È urgente che qualcuno impartisca nuove istruzioni.
Il Parlamento parla, come no. O meglio strepita, gesticola, s'azzuffa; ma decisioni nisba. Appena 42 leggi d'iniziativa parlamentare approvate in questa legislatura, però soltanto una negli ultimi 6 mesi. Se aggiungiamo quelle scritte sotto dettatura del governo (i tre quarti del totale), la cifra cresce un po', ma poi neppure tanto. È il capitolo - per esempio - dei decreti legge, sparati a raffica dal IV gabinetto Berlusconi con una media di 2 provvedimenti al mese; ma guardacaso adesso non ce n'è più nemmeno uno da convertire in legge.
Sarà che sono tutti stanchi, deboli, influenzati. O forse dipenderà dal fatto che il Parlamento, per questa maggioranza, è diventato un luogo di tortura. Troppo pericoloso mettergli carne sotto i denti, quando alla Camera ti capita d'andare sotto per 94 volte (l'ultimo episodio mercoledì). E meno male che t'aiuta l'opposizione, le cui assenze - come ha documentato Openpolis - sono risultate determinanti nel 35% delle votazioni. Sicché come ti salvi? Rinviando tutto alle calende greche. Anche i provvedimenti che stanno a cuore al premier, come la legge sulle intercettazioni: sparita dal calendario dei lavori. La Conferenza dei capigruppo ha avuto un soprassalto di prudenza, e ha deciso di non decidere.
Non che le Camere abbiano ormai chiuso i battenti. Nell'arco della XVI legislatura si contano 535 sedute per i deputati, mica poco. Ma a quale scopo? Per ascoltare annunci di riforme che non vedranno mai la luce, come l'obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, cancellato anch'esso dal calendario di novembre. Per votare mozioni (539), risoluzioni (96), atti d'indirizzo: insomma, chiacchiere. O altrimenti per esprimere fiducia nei riguardi del governo, un tormentone che fin qui si è ripetuto in 51 casi. Trasformando l'esecutivo in un fidanzato trepidante: mi ami, ti fidi del mio amore? Dimmelo di nuovo, la volta scorsa non ho sentito bene.
È la parabola finale della legislatura: un governo commissariato dall'Europa, un Parlamento commissariato dal governo. D'altronde è proprio così che è cominciata. Negando alle assemblee legislative il loro mestiere principale, spostando l'officina delle leggi nei sottoscala del governo. Con i decreti legge, ma soprattutto con i decreti legislativi: 143, in media 4 al mese. Oppure sequestrando le due Camere con i maxiemendamenti, che oltretutto rendono le nostre leggi assolutamente incomprensibili. Ora siamo all'ultima stazione: siccome il governo non si fida più della propria maggioranza, ha deciso di mandare il Parlamento in quarantena.
Un bel guaio per la democrazia italiana, non foss'altro perché si spegne l'unica sede istituzionale in cui le opposizioni hanno spazio e voce. Perché inoltre l'eclissi delle Camere sbilancia il sistema dei poteri, togliendo un contrappeso al peso del governo. Perché infine la loro inerzia semina discredito sulla forma di governo, dunque sulla Costituzione che l'ha disegnata. Ma almeno in questo caso la responsabilità è tutta politica, non delle istituzioni. Non è vero che il Parlamento sia sempre un treno a vapore: nel luglio 2008 il lodo Alfano venne licenziato in 4 settimane. È vero tuttavia che questo Parlamento giace su un binario morto. E a questo punto non servono più cure, ci vuole un'autopsia.
Partiamo da un numero: 1000 miliardi di euro, una cifra stratosferica, quasi 4 volte il debito pubblico greco. Mille miliardi è la somma che il Consiglio d'Europa ha deciso di impegnare per la salvezza del sistema finanziario europeo. Non c'è da stupirsi che ieri le borse abbiano fatto baldoria con guadagni clamorosi in una fase della congiuntura mondiale che non spinge di certo all'ottimismo. Il sistema è salvo, scrivono i commentatori. Ma quale sistema? Ieri il manifesto ha pubblicato con grande rilievo una notizia di fonte Credit Suisse, una della banche più accreditate del sistema finanziario: nell'ultimo anno meno dell'1% della popolazione mondiale ha «arraffato» il 39% della ricchezza globale, quasi il 4% in appena dodici mesi. Se non bastasse, l'Ufficio del bilancio del Congresso Usa ci ha fatto sapere che negli ultimi 28 anni il reddito dell'1% della popolazione più ricca è salito, in termini reali, del 275%, mentre quello del 20% della popolazione più povera di appena il 18%. Insomma , la forbice della distribuzione dei redditi si sta allargando.
Questi numeri (uniti ai 1000 miliardi) sono la conferma che il bailout, cioè la ciambella di salvataggio ha funzionato a senso unico salvando (quasi banale ripeterlo) chi la crisi del 2008 aveva provocato. Anzi, rendendolo più ricco. Ma c'è un altro aspetto niente affatto secondario: questi numeri smentiscono la vulgata che indicano nella globalizzazione la soluzione di ogni problema. Al contrario è «questa» globalizzazione che ha portato al trionfo della finanza e allo schiacciamento dei diritti delle persone. Ieri Gianni Rinaldini ha scritto che «in questi anni c'è stato un quotidiano smantellamento di ciò che conferisce al lavoro umano una condizione diversa da una merce». La lettera spedita da Berlusconi al Consiglio d'Europa ne è la conferma.
Con una premessa: in quella lettera poteva esserci scritto qualsiasi cosa: i 27 avrebbero dato in ogni caso la loro benedizione (perché cane non morde cane e quei 27 capi di stato e di governo dovevano salvare se stessi) anche in presenza di impegni evanescenti, coerenti unicamente con la peggiore ideologia liberista. Tipo quella, tanto cara a Sacconi, che solo diminuendo i diritti del lavoro con la libertà di licenziamento, si potrà garantire una maggiore occupazione.
Nella lettera spedita a inizio agosto da Trichet e Draghi a Berlusconi era scritto: «Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento». La replica del governo italiano non si è fatta attendere: «Entro il maggio 2012 l'esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenza di efficienza dell'impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici». Attenzione, per motivi economici anche oggi i licenziamenti, anche di massa, si possono attuare. Basta seguire le regole che prevedono prima la Cig e poi la mobilità. I motivi economici evocati nella lettera sono altri. Significa potersi liberare di un lavorare anziano che guadagna molto di più dei giovani che potrebbero essere assunti al suo posto. Il lavoratore è sempre più «merce» e come tale viene trattato: se viene giudicata troppo cara non lo si compra più e la si allontana dalla produzione e dalla vita.
Nella lettera d'intenti di Berlusconi c'è anche molto altro. A volte grottesco. Tipo: «Il governo trasformerà le aree di crisi in aree di sviluppo». Lo vadano a dire ai lavoratori di Termini Imerese per i quali non è ancora stata trovata una soluzione credibile, non di sviluppo, ma più banalmente di conservazione del lavoro esistente. Una delle promesse che ha raccolto maggiore attenzione è stata quella del pensionamento per tutti a «almeno» 67 anni nel 2026. Ma non si tratta di una novità: con l'anticipo delle norma sulla «speranza di vita» i 67 anni erano già una certezza.
Quello che è certo, invece, è che per i dipendenti pubblici arriveranno tempi «cupi». Su questo punto Brunetta (uno dei «grandi» estensori della lettera) si è scatenato: mobilità obbligatoria; cassa integrazione; superamento delle dotazioni organiche. Tradotto: la Pubblica amministrazione sarà ridotta all'osso per cedere le sue attività (come sta già accadendo con la complicità di direttori generali di nomina governativa) ai privati.
Questa lettera ai potenti piace perché protegge le elite dominanti e disprezza la vita del 99% (o giù di lì) della popolazione. La sola speranza è che rimangano impegni presi sulla carta perché Berlusconi e i suoi ascari non hanno la forza per realizzarli. Speranza è anche che il futuro governo sappia fare di meglio. Ma più di un dubbio è autorizzato considerati i ripetuti applausi ricevuti dalle richieste delle autorità europee all'Italia. Anche dalle forze di opposizione, anche dai richiami rivolti agli opposti schieramenti politici dal presidente della repubblica. Berlusconi potrebbe essere sostituito con un governo tecnico che porti a compimento il massacro.
CALAMITÀ MORALE
di Franco Arminio
Sospeso sulle argille/ di una vecchia collana,/ il paese perde le sue perle,/frana. Può essere ottobre o maggio, può essere la Liguria o la Calabria, la scena si ripete e la pioggia porta via i muri, le macchine e qualche volta anche le persone. Ogni volta si leva il lamento sull'assenza di prevenzione, poi cala il silenzio, in attesa della prossima sciagura. E invece la sciagura è sempre in corso, la frana non finisce mai, lo smottamento è perenne e quando non porta via le case, comunque apre crepe, distende altri fili nella ragnatela delle faglie. L'Italia è un paese fragilissimo che scompare mano a mano che viene costruito. Ogni volta che vedo una betoniera mi viene un dolore allo stomaco, sento che quel cemento va a coprire un altro poco di terra. Ormai siamo una penisola di cemento in mezzo al mare. La terra in certe zone sembra avere le ore contate. E l'acqua batte ovunque, può essere la capitale o il paese più sperduto dell'Appennino: il risultato è sempre lo stesso: fango nelle cantine, alberi in gita lontano dalle loro radici, un paesaggio rotto, incapace di ricordarci che non è questione di piccole inadempienze, ma di un modo di abitare il mondo che qui da noi ha i tratti conclamati del delirio. Certo, ce la possiamo prendere coi cittadini che si fanno le case in zone pericolose e con chi glielo permette, possiamo immaginare che lo Stato si faccia avaro e non rimborsi i danni, ma comunque non si risolve molto. E piuttosto che dichiarare lo stato di calamità naturale, che va ad alimentare la sempre fertile economia della catastrofe, bisognerebbe dichiarare lo stato di calamità morale. Ed è uno stato ormai perenne, con o senza piogge fa i suoi danni ogni giorno. E li fa nella civilissima Liguria allo stesso modo che nelle terre delle mafie.
L'Italia è divisa su tutto, ma è unita dalla frane. Le frane di cui parliamo fanno scalpore perché ci sono vittime, perché un paese in bilico è a suo modo spettacolare. La frana più grande è stata la fuga degli abitanti dall'Appennino e la discesa a valle dei paesi. Come se chi fosse rimasto avesse bisogno di abitare un luogo che in qualche modo scimmiottasse la città. Praticamente ogni paese alto ha sempre una periferia lungo la strada nazionale. I paesi si sono duplicati. E quello in alto è quasi sempre un museo delle porte chiuse, un gioiello dell'agonia. Oltre alle case, è vuota anche la terra intorno.
Gli italiani hanno fatto di tutto per non essere più contadini e ci sono riusciti. Lo sanno tutti che la terra coltivata attenua l'impatto delle piogge, ma oggi coltivare la terra è un lusso per ricchi. E l'attenzione della politica ai problemi dell'agricoltura è testimoniata dalla nomina del ministro attuale che nella sua vita si è occupato di ben altro. Il panorama è ugualmente desolante se pensiamo alle politiche sui piccoli paesi. Ormai da anni viene approvata una leggina in un ramo del parlamento e poi puntualmente si ferma per strada. L'anno scorso la Camera ne ha approvate due, ma lo stanziamento complessivo è di soli cento milioni di euro. Non mi risulta che il Senato abbia affrontato l'argomento. Nell'italietta televisiva una legge sui paesi non fa gola a nessuno. Sarebbe ora che gli abitanti che sono rimasti sui paesi si sollevassero per reclamare misure a difesa del territorio, ma i paesi sono governati dalle stesse logiche che hanno i dinosauri del parlamento. Una piccola borghesia fangosa che imbratta con furbizie e intrallazzi ogni cosa.
Sarebbe il momento di reclamare alcune semplici norme, prima fra tutte lo stop al consumo di suolo agricolo. Una norma che suona inconcepibile ai tromboni dello sviluppo e della crescita che abitano tutte le contrade politiche. E allora le frane, come gli incidenti stradali e altri disastri ordinari, fanno parte di questa apocalisse diluita che chiamiamo società civile. Nessuno si illuda di essere a riparo, oltre alle frane che muovono la terra, ci sono le frane mediatiche che hanno portato nelle nostre case la poltiglia di un consumismo cieco e avvilente. Non servono solo geologi e opere di ingegneria naturale, serve passione per il bene comune, ardore politico, serve l'ammissione che ogni giornata in un mondo del genere è un fallimento. La pioggia diventa una sorta di marker tumorale, rivela impietosamente che il nostro paesaggio è malato, è malato il nostro modo sempre più autistico di abitarlo. Siccome non possiamo chiedere alle acque di placarsi, siccome non possiamo addomesticarle, allora è il caso di non prendersela coi metereologi che sbagliano le previsioni, dobbiamo prendercela con le leggi che consentono anche a chi non è agricoltore di farsi la casa in campagna. Nei piccoli paesi è rimasta poca gente e se ne vede pochissima in giro perché abitano quasi tutti in campagna, nelle case sparse. Il lavoro nei campi è stato abbandonato, ma la piantagione delle villette non accenna a diminuire.
SOLO PIANI CASA,
ZERO ATTENZIONE PER IL TERRITORIO
di Paolo Berdini
Sono lontane le colline dell'Appennino ligure dai luoghi della politica dove si sta discutendo se approvare il quarto condono edilizio; se estendere ancora i benefici del piano casa; se rendere automatica la possibilità di costruire dovunque.
Lì c'è un territorio tormentato, bello e fragile che dovrebbe essere sottoposto a manutenzione continua. Ci vogliono risorse, ma non sono spese improduttive: sono un investimento per il futuro delle nuove generazioni. Ma, ci dicono, non ci sono soldi e nelle stesse ore in cui è venuto giù un intero territorio, in cui sono interrotte due autostrade, strade e ferrovie, in cui l'Italia si paralizza, la maggioranza di governo ha un'unica idea: spianare la strada a nuovo cemento. Come se quello fin qui realizzato non sia ancora sufficiente. Basta leggere le pagine di Marco Preve e Ferruccio Sansa (Il partito del cemento) e la Colata) dedicate alla Liguria: una serie interminabile di soprusi e speculazioni. Nel capitolo sulle Cinque terre si legge: «Per capire cosa stia succedendo bisogna arrivare a Corniglia. Il muraglione sotto la ferrovia ha una crepa lunga venti metri. E sulle rovine del vecchio Villaggio Europa sta per sorgere un albergo di 140 posti letto».
Sarà venuto giù quel muraglione, come gran parte dei meravigliosi muri a secco da troppo tempo abbandonati da uno sviluppo cieco. Il presidente della regione Liguria Claudio Burlando ha affermato: «Stiamo evacuando il maggior numero di gente possibile e ci stiamo rendendo conto di persona del disastro». Poteva cimentarsi ad evacuare una parte del cemento e dell'asfalto che ha devastato negli ultimi quindici anni la Liguria e l'Italia. L'Istat ha certificato il volume che è stato costruito dal 1995 a oggi: oltre 3 miliardi di metri cubi.
Una quantità mostruosa che grazie all'urbanistica contrattata è stata realizzata dappertutto. Sugli alvei fluviali; sulle zone in frana; sulle aree sismiche. Così, con tragico rituale piangiamo vite spezzate e territori cancellati. Nel 1994 alluvione ad Asti: settanta morti. 1996 straripa il Versilia, tredici vittime; l'Esaro a Crotone, 6 vittime. 1998, Sarno viene sommersa dal fango: 160 vittime. 2000, il torrente Suvereto cancella un campeggio di ragazzi: tredici vittime. Sempre nel 2000 la grande alluvione del Piemonte: oltre 30 morti. Nel 2008 quattro vittime in val Pellice e sei a Capoterra in Sardegna. 2009, a Giampilieri scompare una collina portando con se trentasei vittime. Una settimana fa Roma è rimasta paralizzata. E ogni volta tocca vedere i responsabili dello scempio del territorio che con i volti di circostanza si recano sui luoghi per "rendersi conto". Cos'altro ci vuole per rendersi conto?
Continuano a dirci che questo è lo sviluppo. Questa follia è invece una della maggiori cause della crisi economica, se solo si contassero i miliardi di euro spesi negli anni per risanare i danni. La contraddizione che va sciolta al più presto sta nel fatto che è sempre più diffusa una sensibilità dei cittadini che hanno compreso che questo modello di sviluppo ci sta portando al disastro ambientale ed economico e le centinaia e centinaia di comitati che si battono in ogni città contro le cementificazioni, mentre la classe dirigente pensa solo ad aumentare gli scempi.
Ad ogni sacrosanta protesta dei comitati, il grande circo mediatico diretto spesso da coloro che hanno giganteschi interessi nel cemento e nella speculazione immobiliare accusano quei cittadini di essere affetti della sindrome di Nimby. Mentre seminano distruzione del territorio e dell'ambiente, considerano evidentemente una colpa la ricerca della felicità.
“L’unica grande opera infrastrutturale della quale l’Italia ha bisogno non è il Tav o il ponte sullo Stretto, ma è un piano per la messa in sicurezza del territorio”. I due volti televisivi del pensiero ambientalista italiano, Mario Tozzi e Luca Mercalli parlano a una voce sola per commentare quanto accaduto in Liguria e Toscana, dove il maltempo ha messo in ginocchio le regioni provocando morti, dispersi e interi paesi evacuati.
Secondo i due esperti, sul banco degli imputati ci sono cinquant’anni di edilizia selvaggia, nessun piano serio per prevenire il dissesto idrogeologico né tantomeno uno straccio di programma per informare la popolazione sui rischi connessi a questo tipo di fenomeni. “Sono nato il 4 novembre del 1966, il giorno dell’alluvione di Firenze – dice Mercalli – Anche allora ci si fece trovare impreparati. Quarantacinque anni dopo non è cambiato niente. Si piange e si contano i morti quando piove e si fa finta di niente quando torna il sole”.
Negli ultimi 45 anni non solo non è andati avanti a cementificare il territorio come se niente fosse, ma il clima impazzito ha aggredito quei terreni resi negli anni fragili e impermeabili alle bordate d’acqua sempre più forti che piovono dal cielo. Un fenomeno che in molti paesi rappresenta una realtà con cui fare i conti, mentre in Italia viene derubricato a superstizione di qualche cassandra travestita da scienziato.
“La quantità d’acqua che prima cadeva in un mese, oggi cade in un’ora. E questo è uno dei principali effetti dell’innalzamento della temperatura terrestre, perché l’aria è più calda e l’energia termica che viene sprigionata è maggiore. E questo è un fatto, non un’opinione”, sostiene Tozzi.
Parole che dovrebbero fare fischiare le orecchie ai vari Marcello Dell’Utri, Adriana Poli Bortone, Antonio D’Alì e alla pattuglia di senatori della maggioranza protagonisti, poco più di un anno fa, di una serie di mozioni che negavano l’esistenza del cambiamento climatico come conseguenza dell’azione umana. Secondo loro, il climate change è figlio di non meglio precisati fenomeni astronomici e, nel caso esista realmente, porterà “maggiori benefici” che danni. Come gli scenari apocalittici descritti dagli scienziati dell’Ipcc, l’International panel on climate change delle Nazioni unite. Il loro corposo dossier, considerato dal centrodestra italiano come una iattura anti-sviluppista, valse agli esperti dell’Onu il premio Nobel per la Pace nel 2007.
“Eppure la tropicalizzazione del clima ci sta presentando il conto – sostiene Tozzi – A iniziare dalle flash flood (le bombe d’acqua, alluvioni istantanee, ndr) che sono figlie del clima che si surriscalda e si estremizza. Basti pensare alla Liguria dove nei giorni scorsi sono caduti metà dei centimetri d’acqua che in quel territorio cadono in un anno”.
Una posizione condivisa da Mercalli che ricorda quando durante una recente puntata di Che tempo che fa descriveva in diretta i contenuti del dossier sugli scenari climatici messo a punto dalla Svizzera: “Il governo elvetico ha messo in conto al primo punto gli eventi alluvionali intensi e improvvisi che sono scatenati dall’aumento della temperatura, da noi invece si fanno spallucce e scongiuri per poi dichiarare lo stato di calamità naturale”.
Infatti a differenza di Berna in Italia si preferisce costruire gigantesche opere infrastruturali, giudicate inutili dagli esperti e invise alle popolazioni locali, invece che mettere a punto un piano organico per fronteggiare il dissesto idrogeologico. Un settore che “a partire dal 2006 ha visto i fondi dimezzati, mentre si trovano, o si dice di trovare, i soldi per la Torino-Lione o per il ponte sullo Stretto di Messina”, fa notare Tozzi. “Ma la prevenzione – continua il geologo – non solo salva le vite umane – conviene anche dal punto di vista economico: per un euro speso oggi se ne risparmiano sette in futuro”. Al posto di faraonici ponti e gigantesche gallerie, secondo i due conduttori, bisognerebbe aprire mille piccoli cantieri che mettano in sicurezza colline, paesi e letti di fiumi. “Invece noi siamo il paese delle grandi opere che non vedranno mai la luce del sole, degli sciagurati piani casi, della cementificazione selvaggia e soprattutto dei condoni”, sottolinea amareggiato Tozzi.
A fianco della prevenzione l’altro grande assente dal dibattito è l’informazione, che “è morta” secondo Mercalli per lasciare il campo alla semplice emotività nel commentare emergenze e catastrofi. Il meteorologo cita il caso di New York, quando a fine agosto si è trovata a dover fronteggiare la tempesta Irene. Il piano di evacuazione e le informazioni date alla cittadinanza da parte dell’amministrazione Bloomberg hanno fatto sì che in città non si registrasse nessuna vittima. “Quello che sarebbe successo nel Levante ligure si sapeva con 48 ore di anticipo – attacca Mercalli – Se si fosse messo a punto un serio piano di educazione-informazione per i cittadini, come nella Grande Mela, magari non si sarebbero salvati gli edifici, ma di sicuro le vite umane”.
Tuttavia i due conduttori televisivi guardano al futuro con disillusione e quasi all’unisono dicono: “Dopo la tragedia tornerà il sole e anche questa volta ci si dimenticherà di tutto”. In attesa della prossima alluvione o frana accompagnata dalla solita litania giustificatoria. “Che suonerà ancora più grottesca perché eventi di questa portata non sono più né eccezionali né tantomeno imprevedibili”.
Stavolta non si può certo dare torto ai dieci assessori della regione Lazio che si sono dimessi per l'affronto subito con la sonora bocciatura, da parte del governo amico, del cosiddetto piano casa. Affermano infatti che si tratta di una scelta «incomprensibile che mette in discussione uno dei punti qualificanti del programma elettorale del Popolo della libertà sia a livello locale che nazionale». Sono due anni che il centrodestra afferma che la ripresa economica del paese e il suo futuro sono legati al mattone, ad una stanza in più, ad un piano aggiunto. Sono quasi due decenni che vengono approvati condoni edilizi, attenuate le tutele paesaggistiche, umiliate le Soprintendenze, sospese le demolizioni degli abusi in Campania, militarizzate le opere che, come la linea ferroviaria della Val di Susa, non potrebbero essere autorizzate perché violano i vincoli di legge.
È dunque vero che il centrodestra ha fatto della devastazione del territorio e del paesaggio «uno dei punti più qualificanti del programma». E ora che la Polverini aveva battuto tutti i record lanciando il Lazio come capofila dello scempio di qualsiasi regola, ecco che il ministro Galan ha distrutto il prototipo della cancellazione di ogni regola.
Il piano casa della regione Lazio prevedeva infatti la possibilità di costruire nelle aree sottoposte alla tutela della legge sui parchi, metteva cioè a repentaglio uno dei pilastri della cultura giuridica italiana. Prevedeva la realizzazione di porti in ogni parte della coste laziali e in ogni foce di fiume, altro che case.
E se poi la natura si riprende il suo spazio cancellando gli arenili si ricorre alla tanto vituperata spesa pubblica: da Ostia ad Anzio sono in costruzione barriere frangiflutto per tentare di frenare l'erosione. Uno sviluppo dissennato viene dunque sostenuto da un fiume di denaro pubblico: e continuano a cantare la storiella che «non ci sono più soldi».
E poi, diciamola tutta: Galan non è uno studioso dell'opera di Antonio Cederna. È stato presidente della regione Veneto per quindici ininterrotti anni dal 1995 al 2010. Basta andare nelle campagne di quello sventurato territorio per comprenderne gli esiti: quello veneto è forse il territorio più disordinato d'Italia, ad un capannone segue una casa e poi un altro capannone. E non hanno rispettato neppure i fiumi. Il 2 novembre 2010 Vicenza e i territori circostanti sono stati colpiti dall'alluvione provocata dal Bacchiglione, un tempo nobile fiume e ridotto oggi ad un delirio di cemento. E anche in questo caso, l'incuria per le regole l'abbiamo pagata noi. In due mesi sono stati erogati ai privati quasi 20 milioni di euro di risarcimenti, soldi bruciati nella folle ubriacatura della cancellazione delle regole.
La bocciatura della legge è stata provocata da una importante iniziativa dell'opposizione. Il ricorso presentato al governo era impeccabile e ribadiva che la tutela dell'ambiente è un pilastro della nostra Costituzione e non può essere distrutto per avere consensi. Forse è a questo che si riferivano i dieci dimissionari quando hanno affermato che la bocciatura agisce «contro le aspettative legittime dei cittadini laziali rende impossibile trasmettere ai territori quei valori da tutti noi condivisi». I "valori" che hanno in mente sono soltanto cemento e asfalto. E desolazione, perché il loro piano casa permette ad esempio di trasformare anonimi capannoni industriali - anche se localizzato nei luoghi più isolati e privi di servizi civili - in residenze, aumentandone le volumetrie e la rendita immobiliare del 20%. Tanto mica ci vanno ad abitare gli assessori.
I lavori tra Bologna e Firenze potrebbero essere fermati dai pm, nonostante Berlusconi prema per tagliare il nastro. "Cinquecento persone rischiano di perdere la loro abitazione". Il dirigente della società autostrade: "Un'opera che l'Italia [sic] aspetta da 30 anni, è una polemica assurda per poche case"
“Fermate oggi, subito, i lavori di quella galleria o il paese rischia di venir giù”. Il grido d’allarme viene da Santa Maria Maddalena, una piccola frazione di San Benedetto Val di Sambro nell’Appennino bolognese. Il rischio, per intenderci, è quello di un altro Vajont: qui non c’è la diga, ma come in quel caso dell’ottobre 1963, la mano dell’uomo rischia di provocare una immane frana che potrebbe tirar giù un intero abitato. Sette case del piccolo borgo di montagna sono state già evacuate, ma a rischio ce ne sono almeno 250 con un coinvolgimento di 500 persone.
Ora a muoversi è finalmente anche la Regione. Giovedì l’assessorato alla Protezione civile ha infatti inviato al sindaco di San Benedetto, Gianluca Stefanini, una lettera firmata da diversi esperti geologi. La missiva mette in guardia sulla stabilità delle abitazioni, stabilità a rischio per i lavori di una galleria della variante di Valico, il nuovo tratto di A1 che collegherà Bologna con Firenze.
Il traforo è stato progettato dalla società Autostrade ai piedi di due gigantesche frane preesistenti, che negli ultimi mesi, con l’avanzamento degli scavi, hanno iniziato a muoversi. Un movimento sospetto che ha accelerato il suo passo sempre più. A dimostrarlo tutti gli ultimi esami condotti, anche se le perizie devono fare i conti con un Silvio Berlusconi che freme per tagliare il nastro: “La revisione dello studio – scrive nella lettera datata 20 ottobre la Regione – prevede spostamenti massimi di entità compresa tra 2 e 9 cm, mentre in precedenza si ammettevano spostamenti assai modesti, inferiori a 2-3 cm. Allo stato attuale i rilievi topografici hanno mostrato che l’edificio più vicino allo scavo della Canna Nord, di proprietà Pellicciari, risulta essersi spostato di circa 8 cm in direzione est”.
Nei palazzi del Consiglio regionale a Bologna, il consigliere del Movimento 5 Stelle, Andrea Defranceschi, oltre a rendere nota questa lettera inviata giovedì, ha presentato altri documenti che confermerebbero i timori del comitato cittadino del piccolo centro appenninico, guidati dal combattivo geometra (in pensione) Dino Ricci. “Non siamo un comitato contro la costruzione della Variante di valico, diciamo solo che costruirla ai piedi di una frana è una follia – spiega Ricci, che fino a qualche anno fa lavorava in una ditta che costruiva proprio autostrade – Si può fare una variazione facendo passare il tunnel un po’ più a est e soprattutto scavando nel cuore della montagna, non ai piedi di una frana. Ma fermiamo subito gli scavi”.
Lo stop ai lavori potrebbe essere infatti un toccasana come confermato dallo stesso assessorato alla Protezione civile: “L’analisi dei monitoraggi evidenzia una stretta dipendenza tra l’avanzamento della galleria e gli spostamenti. Nel periodo di agosto la sospensione dei lavori ha prodotto un rallentamento degli spostamenti significativo misurato in molti punti di monitoraggio. Con la ripresa dei lavori – scrive ancora la nota dei tecnici della Protezione civile regionale – la velocità degli spostamenti è ripresa con entità simile al periodo pre-Agosto”. Il ragionamento poi termina con una frase raggelante: “Le incognite sul comportamento complessivo della massa mobilizzata restano alte”.
A preoccupare è anche l’arrivo della stagione invernale e della pioggia. Sempre secondo la lettera della Protezione civile indirizzata al sindaco Stefanini, le attuali condizioni già critiche “potrebbero modificarsi con l’arrivo della stagione piovosa autunnale-primaverile. È possibile che la velocità del movimento possa essere influenzata da incrementi di circolazione di acque sotterranee”.
Anche i numeri mostrati da Defranceschi lasciano adito a molte preoccupazioni: “Nelle settimane precedenti la frana si muoveva di un centimetro al mese. Ora invece, secondo le rilevazioni degli inclinometri, un centimetro è stato lo spostamento negli ultimi 12 giorni”. La velocità della massa franosa raddoppierebbe quindi giorno per giorno.
La Procura di Bologna, con il pubblico ministero Morena Plazzi, ha aperto una indagine conoscitiva per danneggiamento aggravato e per attentato alla sicurezza dei trasporti. Giovedì, sul dorso locale bolognese del quotidiano “la Repubblica”, Gennarino Tozzi, condirettore generale Sviluppo Rete di Autostrade per l’Italia aveva espresso tranquillità riguardo al proseguimento dei lavori: “Abbiamo fatto eccome tutti i rilievi necessari, vogliamo scherzare? Non c’è nessuno sbaglio. Non c’è nulla di diverso da un normale esproprio e daremo la massima assistenza. Non vorrei che ci fossero interessi a far modificare il tracciato per far guadagnare di più le imprese. E alcune lesioni sono pregresse. So che c’è un’inchiesta. Se la magistratura facesse sospendere i lavori si prenderebbe le sue responsabilità – dice Tozzi – ma io credo che una magistratura equilibrata non lo farà. Questa è un’opera che l’Italia aspetta da 30 anni, è assurda questa polemica per poche case”.
A proposito di queste “poche case”, questo vero e proprio buco scavato ai piedi della frana, lungo 4 chilometri, largo 32 metri e alto 12 metri, sta già causando crepe nelle abitazioni. Non solo, le stradine di montagna lì attorno (secondo le foto mostrate dal comitato) mostrano delle deformazioni e inclinazioni. La stessa galleria in costruzione, secondo il geometra Ricci che è in contatto con molti dei tecnici dei cantieri, si sarebbe spostata di 10 centimetri a causa della spinta laterale proveniente dalla frana.
Ora, dopo aver acquisito, tramite il consigliere Defranceschi, i documenti provanti che qualcosa non va (ai cittadini di Santa Maria Maddalena questa documentazione sarebbe stata negata da Comune e società interessate) il comitato paesano attende che il sindaco faccia qualcosa e fermi i lavori, invece di limitarsi a fare sgomberare le case a rischio crollo. A essere messa a repentaglio è l’incolumità delle persone, dei lavoratori della galleria e della ferrovia Direttissima, quella che ogni giorno porta migliaia di cittadini da una parte all’altra dell’Appennino, da sud a nord Italia. Quella frana di 2 milioni di metri cubi di terra non controlla gli orari dei treni.
Nella giornata di ieri la replica di Autostrade agli allarmi del Comitato: “Escludiamo nel modo più assoluto che Santa Maria Maddalena stia collassando a causa dello scavo della galleria Val di Sambro, come dimostra il piano di monitoraggio in atto”. Poi la nota prosegue: “La progettazione della galleria è il risultato di un lavoro che ha coinvolto professionisti di chiara fama e che ha ottenuto tutte le autorizzazioni previste, comprese quelle del ministero dell’Ambiente, delle Infrastrutture, dell’Anas, della regione Emilia-Romagna, della locale comunità montana e di tutti gli enti territoriali coinvolti“. Infine, sostiene autostrade, “affermare che l’alta velocità ferroviaria Firenze-Bologna e l’autostrada siano coinvolte da movimenti del terreno – conclude una nota della società – è frutto di strumentalizzazioni per chi ha interesse allo stop di lavori speculando sul disagio di alcuni cittadini”.
Chi frequenta i summit delle istituzioni europee, e ne conosce le deferenze opportuniste, le verità lente a dirsi, le cerimoniose capricciosità, non dimenticherà facilmente quel che è successo domenica, nella conferenza stampa di Nicolas Sarkozy e Angela Merkel a Bruxelles. Un giornalista li interroga sulla credibilità di Berlusconi, ed ecco che d'improvviso scoppia un'ennesima bolla, fatta sin qui di illusioni e non-detti: una delle tante, nei quattro anni di crisi che abbiamo alle spalle. La bolla di uno Stato-subprime: debitore di seconda categoria, poco affidabile. Alcuni giudicano disdicevole la sbirciata complice che si sono lanciati l'un l'altro Sarkozy e la Merkel, e umiliante quell'attimo muto, terribile, che ha preceduto l'erompere inaudito della risata, subito echeggiata dai giornalisti presenti. È vero, è stata umiliazione e anche qualcosa di più: un atto di sfiducia che non avanza più mascherata, che si esibisce senza pudori sapendo il consenso mondiale di cui gode. Un assassinio politico in diretta.
È difficile ricordare episodi simili, nella storia dell'Unione, e non stupisce che gli autori stessi dell'incredibile gag siano quasi spaventati da quel che hanno fatto. Fonti governative tedesche si sono preoccupate ieri d'attenuare il colpo: "Le allusioni italiane sul sorriso scambiato ieri in conferenza stampa tra Merkel e Sarkozy sono basate su un equivoco". Ma colpo resta, quel che abbiamo visto domenica: e poco importa se sarà stato un attimo, se lo strappo sarà ricucito e - parola di Montale - "come s'uno schermo s'accamperanno di gitto alberi case colli per l'inganno consueto". Per un attimo, è come se i dirigenti dei due motori d'Europa - Francia e Germania - avessero smesso di credere nelle virtù della diplomazia, della pazienza, e solennemente avessero bocciato un primo ministro nel più crudele dei modi, perché altra via non c'è. Sembra uno sfogo incontrollato ma c'è del metodo, nello sfogo: non è nelle istituzioni italiane che si cessa di credere, ma in chi governa. Dopo lo scoppio ilare Sarkozy s'è fatto serio, ha evocato il colloquio tra lui, la Merkel e Berlusconi, ed è stato chiarissimo: "La nostra fiducia, la riponiamo nel senso di responsabilità dell'insieme delle autorità italiane: politiche, finanziarie e economiche". Angela Merkel ha aggiunto: "La fiducia non nasce solo dalla costruzione d'un ombrello salva-Stati. È di prospettive chiare che c'è bisogno". Sono giorni che il Cancelliere non interpella Palazzo Grazioli per ottenere assicurazioni (che legittimità può avere, una sede governativa privata?) ma il Quirinale.
Il messaggio non potrebbe essere più netto, e ultimativo ("vi diamo tre giorni"). E c'è in esso del metodo perché ogni parola è pesata: è sulle istituzioni italiane che gli europei fanno affidamento, non sulla persona Berlusconi. Spetta all'insieme delle autorità italiane, politiche, finanziarie ed economiche mostrare il senso di responsabilità che il premier evidentemente non possiede. Può sembrare un insulto - un capo di Stato o di governo non dovrebbe ridacchiare in pubblico di un collega - ma la crisi che traversiamo è talmente vasta, e funesta per tutti i cittadini d'Europa, che il galateo diplomatico per forza si sfalda. Non sono due leader arroganti a sbeffeggiare l'alleato; è il disastro europeo che può nascere dal vuoto politico italiano che secerne l'inaudito incidente. Un disastro che Berlusconi ancor oggi elude, quando dopo il vertice proclama: "Non c'è stato e non c'è rischio Italia". L'occultamento dura dal 2007-2008 ("Non c'è crisi. Siamo i primi in Europa") con effetti catastrofici su quel popolo che il premier s'ostina a chiamare sovrano.
La cosa triste nell'Unione europea è la sua impotenza, quando un paese membro azzoppa la propria democrazia e con false informazioni frena l'insorgere - nei singoli cittadini - della responsabilità. Bisogna essere democratici, per poter entrare nell'Unione. Non bisogna necessariamente esserlo, per restarvi. C'è un articolo del trattato di Lisbona (il numero 7) che prevede sanzioni quando uno Stato si discosta dalla democrazia: ma nessuno, neanche l'opposizione in Italia, ha mai osato fare appello a esso. L'unico espediente dell'Unione, quando vuol render manifesta un'incompatibilità non solo economica e finanziaria con Stati devianti, è di conseguenza la peer pressure, la pressione dei pari grado. E la pressione non sembra in grado di secernere altro che il sogghigno. Solo quando è in gioco l'economia, pare efficace.
Ma è un sogghigno che va analizzato, perché spesso ridendo diciamo cose molto vere. Dichiarandosi fiduciosi nell'insieme delle autorità italiane, i colleghi dell'Unione scommettono proprio su quella pluralità di poteri che Berlusconi continua a contestare, e a questi poteri si rivolgono: spetta a voi risolvere il rebus Berlusconi, e mostrare un senso di responsabilità che metta fine allo sberleffo mondiale scatenato da Palazzo Grazioli. È un appello, non recondito, alle forze responsabili della maggioranza: che sfiducino loro il premier, prima delle elezioni perché non c'è più tempo. Che mandino ai prossimi vertici europei un capo di governo di cui nessuno ridacchi più.
Si ricorda spesso il Gran Consiglio fascista, che il 25 luglio '43 mise in minoranza Mussolini grazie alla mozione di Dino Grandi. Ma non c'è bisogno di risalire tanto indietro. Anche l'Unione delle democrazie postbelliche conobbe casi simili. Il 20 novembre 1990, Margaret Thatcher cadde in seguito a un voto interno del suo partito, prima delle elezioni, e anche lei fu messa da parte per incompatibilità con l'Europa comunitaria. Due giorni dopo il Gran Consiglio conservatore, il premier si dimise e lasciò in lacrime Downing Street. Che l'Europa e i mercati avessero decretato la sua fuoriuscita era stato confermato, il primo novembre, dalle dimissioni di Geoffrey Howe, il vice primo ministro più aperto all'Unione e all'euro. Michael Heseltine, conservatore, fu il Dino Grandi della situazione.
Berlusconi non può più andare a Bruxelles, dopo un episodio del genere. Perché trascina verso il basso non solo l'Italia, ma l'intera zona euro. Un primo monito è venuto da Mario Monti, non un semplice pretendente al trono ma un conoscitore-frequentatore delle istituzioni europee: "Sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno al governo Berlusconi (...) prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l'Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell'Unione europea" (Corriere della Sera, 16 ottobre 2011).
Berlusconi non può presentarsi a Bruxelles, e l'Europa non può concedersi l'anomalia italiana: è la lezione dello sberleffo, che solo in apparenza è irridente ma la cui sostanza è spaventosamente seria. È come quando ride una persona che piange. Nessuna cosa detta da Berlusconi ha più peso né senso, tanto trasuda incultura delle cose europee. Anche la sua insistenza sulle dimissioni di Bini Smaghi, membro della Bce, ha qualcosa di intollerabilmente ottuso, agli occhi non solo del diretto interessato ma di tutta la Bce. Bini Smaghi deve andarsene, "essendo stato nominato dal governo senza passare attraverso alcun tipo d'elezione o concorso". Sono frasi come queste, di una rozzezza e insipienza senza limiti, che rendono velenosa la vicenda. Bini Smaghi non è, a Francoforte, un rappresentante dell'Italia ma di Eurolandia. La sua nomina, come quella di Draghi, prevede ben 3 votazioni (Eurogruppo, Parlamento europeo, Consiglio europeo) e il Trattato contiene regole precise per la rimozione dei membri del Comitato esecutivo Bce, che può avvenire solo per motivi gravi. Comunque non può esser decretata né da Berlusconi né da Sarkozy, in nome dei rispettivi Stati nazione.
La crisi strappa tanti veli, compreso questo. È il suo lato positivo: le regole diventano più importanti, non meno, man mano che lo sconquasso s'estende. Berlusconi le ignora del tutto, ed è un autentico miracolo che abbia alla fine nominato una personalità profondamente indipendente come Ignazio Visco alla testa di Banca d'Italia. Quanto a lui, non farà alcun passo indietro: chiederglielo è nenia un po' beota. Ma la pressione dei pari esercitata a Bruxelles può avvenire anche in Italia. Sempre che esistano uomini della destra davvero responsabili, che non usino questo nobile aggettivo per brigare, alla Scilipoti, prebende e notorietà.
La gente della Val di Susa, domenica, ha fatto davvero un miracolo, nel senso etimologico del termine (dal latino mirari, come si dice di «cosa grande che meraviglia», o anche di «cosa grande e insperata»).
Deludendo l'intero universo politico-mediatico che aveva spasmodicamente atteso l'incidente (e in buona misura l'aveva anche preparato) per mettere, una volta per tutte, una pietra sopra la Valle e la sua resistenza. Hanno costruito un capolavoro: un corteo di migliaia e migliaia di persone di ogni età e condizione, che si snoda per sentieri di montagna (credo che sia l'unica esperienza al mondo), tra castagneti e blocchi di polizia, aggirando barriere e tagliando reticolati in un ordine assoluto, senza un gesto o una parola fuori posto, senza l'aggressività e la volgarità che invadono il mondo politico, senza neanche un petardo acceso o una pietra lanciata. Un'azione di disobbedienza civile in perfetto stile gandhiano, realizzata esattamente come le assemblee partecipatissime di valle avevano deciso nei giorni precedenti, mentre intorno strepitavano i profeti di sventura.
La ragione di questa forza è, tutto sommato, facile da spiegare, per chi abbia anche solo messo il naso in valle: perché quello della Val di Susa non è un semplice movimento, nel senso genericamente politico in cui si è soliti usare questo termine. E' un popolo, una comunità con legami fortissimi con la propria terra e la propria storia, impegnata da almeno un paio di decenni a prendersi cura dei propri beni comuni, del proprio habitat, del proprio sistema di relazioni. Sono persone, individui, ma anche famiglie, catene generazionali, reti sociali di vicinato, culturalmente aperte, disponibili all'accoglienza, alla condivisione e alla contaminazione con gli altri, ma consapevoli della propria identità.
E' tutto questo che non hanno capito i politici di professione e i giornalisti di passo, destinati a rompersi le corna contro questo materiale resistente, duro, coriaceo, su cui chiacchiere e manipolazioni scorrono via come acqua sulle pietre. Con realtà come questa - irriducibile ai flussi e alle retoriche proclamate dall'alto, la politica dovrà imparare a fare i conti sempre più spesso. E' bene che si abitui all'idea.
Meno facile da spiegare è la ragione dell'accanimento con cui si cerca, con ogni mezzo, di piegare quella resistenza. Perché tanto unanimismo tra i mezzi d'informazione mainstream, disposti anche all'abuso di potere, alla violazione di ogni etica professionale, pronti a truccare le carte (e le interviste), a mentire più o meno apertamente, a occultare, a ridicolizzare, a enfatizzare episodi minimi e a tacere fatti clamorosi, perfettamente simmetrico con l'unanimismo bipartisan della politica, in lite anche furibonda su tutto, tranne che sul TAV? Il fatto è che nella questione del TAV in val di Susa, si manifesta, in un microcosmo locale delimitato, un paradigma globale esemplare. Un meccanismo che guida i processi politici ed economici a livello generale, nell'Unione Europea, di certo, e per molti aspetti nell'intero Occidente.
Gli ingredienti ci sono tutti.
In primo luogo l'affermazione, tutta ideologica, di credenze dogmatiche, semplici, banali, ma indiscutibili, tali da resistere a qualsiasi confutazione razionale, a qualsiasi dato empirico, o alla semplice osservazione dei fatti. E' il meccanismo che fa dire, ossessivamente, che il TAV va fatto (anche se ci costerà qualcosa come 20 miliardi di Euro) perché «l'Europa ce lo chiede», o «perché è un'infrastruttura» (sic!), o perché «non possiamo restare isolati dal resto del continente». Anche se basta guardare una carta per capire che una ferrovia c'è già, che da anni è ampiamente sotto-utilizzata, mentre basterebbe una elementare conoscenza dei fatti economici per capire che tra due economie mature come quelle francese e italiana i flussi di merci - tanto più se pesanti - sono destinati a stabilizzarsi o a decrescere, non certo a impennarsi. E' lo stesso meccanismo che ha condotto le istituzioni economiche europee ad ammazzare (fisicamente) la Grecia con ricette mortali. E che, indifferenti a ogni evidenza, le estendono ad altri (in primo luogo a noi), all'insegna del dogma neo-liberista che impone di tagliare reddito, posti di lavoro e diritti, quando è evidente anche a un bambino che la crisi in corso nasce proprio dall'umiliazione del mondo del lavoro, dal crollo del suo reddito e del suo potere d'acquisto sconsideratamente compensato dalla dilatazione della finanza e del denaro virtuale.
In secondo luogo l'esistenza di una cupola degli affari e del potere - di una concentrazione di interessi - assurta a principale se non unica istanza destinata a determinare monopolisticamente le scelte strategiche, a scapito di tutto il resto, orientando le tecnocrazie e gli stessi organi rappresentativi, governando i flussi di risorse finanziarie e di determinazioni politiche, con decisioni irrevocabili, sottratte al controllo dei destinatari di quelle decisioni: di coloro che ne pagheranno il prezzo e ne sosterranno i sacrifici.
Infine la formazione di un fronte politico bipartisan, assolutisticamente bipartisan, tanto bipartisan da sopravvivere agli stessi conflitti interpartitici perché cementato da una commistione e condivisione di interessi materiali, da una rete di affari trasversale e indifferente alle linee di demarcazione politica (nel caso del TAV è significativo che gli appalti abbiano interessato tanto le cooperative emiliane quanto le società di ex ministri berlusconiani). Una rete affaristica che prevale sullo stesso rapporto di rappresentanza, travolgendolo. Rivelando la lacerazione dei rapporti tra rappresentanze istituzionali e territori, la forbice tra sordità dei governanti e solitudine dei governati.
20.000 manifestanti - ma mettiamo che fossero anche meno, 15.000... -, in una valle che conta all'incirca 40.000 abitanti (tanti sono i residenti nella media e bassa Val di Susa coinvolti nella protesta) significano metà della popolazione, almeno uno per famiglia, e anche di più. Sono un "pieno" che fa da contrappunto - e da antidoto - al vuoto delle tante bolle - mediatiche, finanziarie, politiche - che ci minacciano e ci affliggono. Nessuno può pensare di poterci passare sopra con gli scarponi chiodati. E nemmeno con i Lince dei poveri alpini reduci dall'Afghanistan. Il solo pensiero di poter militarizzare il problema della Val di Susa, concepito in modo bipartisan da alcuni parlamentari piemontesi, è sintomo di irresponsabilità. Di un inquietante deficit di razionalità, terribilmente simile a quello che ha portato i razionalissimi mercati nel caos. E che sta conducendo il mondo sull'orlo dell'abisso.
L'Italia precipita sempre di più nel pozzo senza fondo della sua crisi politico-istituzionale. Per capire bene il senso di questa affermazione, bisogna però fare un passo indietro. Mi riferisco infatti prevalentemente a quanto è accaduto fra l'11 e il 14 ottobre scorsi, e su cui, con sospetta tempestività, il 15 ottobre romano ha subito steso un velo pietoso (che finora i politici e i commentatori non hanno ritenuto di dover risollevare). L'11 ottobre il governo Berlusconi è stato battuto alla Camera non su di una leggina qualsiasi ma sull'art.1 del Rendiconto dello Stato (atto non casualmente regolato dall'art.81 della Costituzione). Il 13 Berlusconi, senza sentire il bisogno di riferire al Quirinale su quanto accaduto (diversamente da quello che, correttamente, aveva ritenuto di dover fare Gianfranco Fini), si presenta alla Camera per chiedere la fiducia; il 14 la Camera gliela accorda. Questo dovrebbe consentirgli di riscrivere l'art. 1 (?) e farlo approvare (magari con un altro voto di fiducia?).
La mia opinione è che, con l'adozione (come dire: forzosa) di tali procedure, si siano abbondantemente superati i limiti, non solo di una normale correttezza istituzionale (inutile invocarla da parte di un individuo di tal fatta), ma dello stesso dettato costituzionale. Mi dispiace impancarmi di nuovo in ragionamenti su siffatta materia: ma poiché gli specialisti tacciono, bisogna pure che qualcuno parli. L'art. 81 della Costituzione, secondo me, non lascia dubbi in proposito.
Se le Camere non approvano il rendiconto consuntivo presentato dal Governo (e l'art. 1 è da questo punto di vista, anche preso in sé, ovviamente decisivo), il Governo è molto più che «sfiduciato», deve andarsene a casa (i precedenti, del resto, parlano tutti in questo senso). Se non se ne va, e ripresenta tranquillamente il provvedimento e si fa ri-fiduciare (magari per due volte di seguito), c'è qualcosa che non funziona da qualche parte.
E pure, - anche indipendentemente dal velo opportunamente fatto scendere sull'accaduto in conseguenza del 15 ottobre romano - nulla è davvero accaduto nonostante la gravità del caso. Sul versante istituzionale io sostengo che il combinato-disposto degli Artt. 54, 81 e 88 della Costituzione imporrebbe-autorizzerebbe scelte molto più incisive di quelle che finora sono state, non dico prese, ma anche soltanto adombrate. Sul versante politico il parziale Aventino parlamentare, su cui le opposizioni, comunque unite nella scelta (il che rappresenta un passo in avanti non trascurabile), si sono ritrovate, rappresenta una pallidissima, larvale (e un po' rinunciataria, come tutti gli Aventini) anticipazione di quel che sarebbe opportuno fare. Ma su questo tornerò più avanti.
Su questo quadro, di per sé debole e slabbrato, si è precipitata, sconvolgendolo ulteriormente, l'onda d'urto degli scontri romani del 15 ottobre. Forse, anzi di sicuro, sopravvalutati per dimensione e per impatto; ma non da sottovalutare. Si ripete così una storia italiana, pluridecennale: non appena qualcosa si muove - e questo, è il caso di ricordarlo, è esattamente quel che stava accadendo negli ultimi mesi - un corpo estraneo ed ostile gli si appiccica addosso, lo fa sanguinare, ne rallenta o addirittura ne arresta i movimenti, prepara, nel conflitto che si apre, esiti ancora più catastrofici (perché questo accada in Italia e non altrove, comporterebbe un discorso assai lungo, non impossibile da farsi, ma non qui ed ora). Soltanto che la ripetizione apparentemente fatale degli eventi non può impedirci di vedere che anche da questo punto di vista, come tutto in Italia, le cose sono degenerate negli ultimi anni fino al complessivo degrado della situazione presente. Insomma: dalla «seconda società», che ora, a quanto pare, sta con il «movimento», fortemente contestativo ma non violento, si è staccata la costola della «terza società»: ribellismo allo stadio puro, senza niente dietro e soprattutto niente davanti, né sinistra né destra anche loro, in fondo, come tanti altri, anche colti, anche «perbene», che predicano attualmente l'antipolitica: solo la violenza che hanno imparato dal sistema corrotto e degenerato, che appunto li ha prodotti. Oggettivamente sono i migliori alleati della banda Berlusconi-Bossi, - che ne ha predisposto il vero brodo di cultura - quindi, se la logica in politica ha ancora un senso, sono i nostri peggiori nemici e come tali vanno politicamente isolati e combattuti (per questo sono sbagliate le parole di Valentino nel fondo del manifesto del 16 ottobre). Soggettivamente - se si escludono gli infiltrati, che in una situazione del genere non possono non esserci - sono il frutto di una disgregazione sociale, a cui finora nessuno ha saputo dare una risposta.
Torno al quadro iniziale, ma tenendo conto anche della considerazione centrale. Questo paese, l'Italia, rischia ormai da vicino la dissoluzione, non solo economica, ma sociale e culturale, in una parola identitaria. Se è vero, vuol dire che siamo in una situazione di estrema emergenza; e le situazioni di estrema emergenza richiedono proposte e soluzioni di estrema emergenza. Non un programma per fare dell'Italia il meglio che ci sia al mondo; ma un programma per evitare che l'Italia divenga il peggio che ci sia al mondo. Perché questo accada bisogna che le istituzioni facciano presto quel che loro compete. Ma le istituzioni, ormai è chiaro, non faranno quel che loro compete finché la politica, la politica!, non farà quel che le compete. Alla politica compete di stendere un programma, - un programma dimensionato, com'è ovvio, all'emergenza, il che vuol dire poco, anzi, in questa situazione, forse, può persino voler dire troppo, - e formulare una proposta di governo. Per quanto la cosa - tenendo conto dello sfondo catastrofico che ci sta davanti agli occhi tutti i giorni - appaia sovranamente incredibile, questo finora non è accaduto, anzi, non è neppure cominciato. La verità è che questa maggioranza, per quanto divisa e persino rissosa, è profondamente unita su di un punto: la propria sopravvivenza, il che vuol dire la sopravvivenza di ognuno di quelli che la compongono: la minoranza, invece, si presenta divisa, spesso alla ricerca di soluzioni partitiche separate e contrapposte. Inoltre - e non è l'aspetto minore del mio ragionamento - con chi potrebbe colloquiare la grande massa apartitica dei movimenti, in crescente dispiegamento di forze (la faccia enormemente positiva del 15 ottobre), se la politica continua a fare i suoi giochini per linee interne? Un interlocutore unico e certo è meglio, per chi vuol cambiare, di quattro-cinque interlocutori separati e concorrenziali, e perciò inevitabilmente inattendibili.
Bisogna perciò che le opposizioni escano dall'improduttivo Aventino per tentare la proposta di governo: tutte insieme, ora, anzi subito - perché non c'è altra soluzione possibile -perché il disastro è incombente: un governo di risposta alla crisi, di risposta all'impasse istituzionale, di risposta al vuoto ideale e culturale, di risposta al disagio sociale.
Per tutti questi motivi, non serve, anzi si presenterebbe effimero e improduttivo, un governo tecnico e/o di transizione (con questo Parlamento!): servono invece elezioni subito, perché l'investitura dell'esperimento unitario, - l'unica via possibile di uscita dalla crisi, - abbia, com'è giusto e necessario che sia, l'avallo dell'investitura popolare. Il governo di coalizione democratica di tutte le attuali opposizioni vince oggi con qualsiasi legge elettorale: non c'è bisogno di aspettare, si può fare a meno di aspettare. I «giochi», - quelli elettorali e altri, molti altri, - si cambieranno dopo: non c'è tempo né modo per farlo prima. E tutto questo, anticipando il momento in cui la crisi s'avviterà inevitabilmente in catastrofe. E' possibile farlo, va fatto.
L´uccisione di Gheddafi, la fine della guerra in Libia e il difficile assetto di quel paese hanno dominato le pagine dei giornali e gli schermi delle televisioni. Non ho esperienza di quei problemi e quindi non me ne occuperò, ma voglio dire che cosa penso della feroce esecuzione del dittatore libico mentre fuggiva da Sirte sulla strada che conduce a Misurata. Concordo con tutti quelli che hanno riprovato la ferocia; bisognava consegnarlo alla Corte di giustizia internazionale per un regolare processo sebbene la stessa Corte, la Nato e i comandi militari del governo provvisorio dei ribelli ne avessero chiesto la cattura "vivo o morto".
Quando cade un tiranno che ha terrorizzato e insanguinato un Paese per anni ed anni, la tentazione del linciaggio è incontenibile e talvolta colpisce perfino degli innocenti supposti colpevoli. Figurarsi quando la colpevolezza è palese e si è macchiata di delitti orribili. Se poi l´autorità legale è debole - come ancora lo è nella Libia di oggi - manca ogni possibilità d´impedire il giudizio sommario. La storia è purtroppo piena di queste esplosioni di rabbia incontenibile e incontenuta, sicché dolersene è doveroso ma stupirsene no.
Ciò premesso, i temi odierni sono soprattutto due: il movimento dei cattolici messo in moto dal cardinale Angelo Bagnasco e dal convegno delle associazioni e comunità da lui promosso a Todi e il movimento degli "indignati" con le violenze degli "incappucciati" che gli hanno rubato la scena a piazza San Giovanni.
Gli "incappucciati" sono un problema di ordine pubblico come gli "ultras" degli stadi e come quelli vanno trattati. Gli "indignati" sono invece un problema sociale che si identifica con la mancanza di lavoro e con l´emarginazione.
La situazione che fa da sfondo a questi avvenimenti è la vera e propria paralisi del governo, il disfacimento dei due partiti di maggioranza e l´alternativa ancora indistinta dalla quale le opposizioni non riescono ancora ad uscire.
Partirò da lontano per meglio affrontare e tentar di chiarire questo viluppo di problemi: da due colloqui che ebbi con Aldo Moro il 18 febbraio del 1978 e con Enrico Berlinguer il 28 luglio del 1981. Quei due eccezionali personaggi sono morti da tempo, ma i loro pensieri e le loro previsioni sono attualissimi, sembrano datati oggi, perciò è da quelle parole di allora che partirà il mio ragionamento.
* * *
Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, ha scritto ieri su queste nostre pagine un commento di grande interesse sul nascente movimento dei cattolici. Bianchi è anche lui un cattolico, ma di una caratura molto particolare. Ricorda per certi aspetti Pietro Scoppola che fu uno dei fondatori del partito democratico; infatti anche Bianchi come Scoppola non sono molto nelle grazie della Gerarchia, come del resto non lo è il cardinal Martini e neppure l´arcivescovo Tettamanzi che ha da poco lasciato la guida della diocesi milanese.
Quest´ala della cattolicità pone il problema del rapporto tra il laicato cattolico e la Gerarchia sottolineando la notevole sproporzione da sempre esistita tra questi due aspetti della religione, a tutto vantaggio dell´istituzione e a danno del popolo di Dio. Che l´istituzione guidata dalla Gerarchia sia indispensabile è un dato di fatto, ma che il popolo dei credenti sia stato ridotto al pio gregge nelle mani del pastore rappresenta una palese deformazione della predicazione evangelica. Antepone la liturgia alla pastoralità e quindi il dogma e la politica all´afflato della fede.
Questa, con rare eccezioni, è stata la storia della Chiesa, soprattutto a partire dalla guerra delle investiture e dalla vendita delle indulgenze, almeno fino al Concilio del Vaticano II. Di lì, cioè dal pontificato di papa Giovanni, ebbe inizio un tentativo di modernizzare la Chiesa, ponendola come un seme destinato a confrontarsi con il pensiero illuminista sul piano culturale e con il laicato cattolico su una più intensa concezione della fede e dei comportamenti etici da essa ispirati.
Non sembrino peregrine queste considerazioni; esse costituiscono la base necessaria per chiarire la natura di quel movimento di rilancio cattolico promosso dal cardinal Bagnasco, che si propone di affrontare un altro ed essenziale tema che la modernità pone alla Chiesa e cioè il confronto tra la Chiesa-istituzione e la democrazia dello Stato laico.
Un´ultima osservazione su questa questione preliminare. Era sembrato, all´esordio del pontificato di papa Ratzinger che egli parteggiasse piuttosto dalla parte di chi voleva frenare l´ispirazione conciliare del Vaticano II. Si sta invece verificando che non è questo, o non è più questo, il pensiero del Papa. Ne ha fatto fede il discorso da lui tenuto nelle scorse settimane al Bundestag di Berlino e in particolare nel discorso, durante quel suo viaggio in Germania, sul cristianesimo protestante.
Ratzinger è un agostiniano e questa sua formazione la dice già molto lunga sulla natura della sua fede, agganciata al pensiero di chi fece della "grazia" il pilastro della salvezza. Ma la frase più significativa Benedetto XVI l´ha riservata al promotore della "riforma": «Lutero - ha detto - ha creduto in Dio più di noi». Forse voleva dire che Lutero propugnò il rapporto diretto tra il credente e il suo Creatore, senza la necessaria intermediazione della Gerarchia, del dogma, della pratica liturgica.
La frase comunque è stata quella che di per sé evoca una vera e propria rivoluzione come l´altra: «Meglio un non credente di retto sentire che un ateo devoto».
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Veniamo all´incontro con Aldo Moro. Si svolse nel suo studio in via Savoia alla presenza di Corrado Guerzoni, suo stretto collaboratore. Il tema era l´ingresso del Pci nella maggioranza del governo che si insediò, presieduto da Andreotti, pochi giorni dopo il nostro incontro e poche ore dopo il rapimento di Moro in via Fani e la strage della sua scorta.
Alla mia domanda Moro rispose così: «Molti si chiedono nel mio partito e fuori di esso se sia necessario un accordo con i comunisti. Quando si esaminano i comportamenti altrui bisogna domandarsi anzitutto quale è l´interesse che li motiva. Se l´interesse egoistico c´è, quella è la garanzia migliore di sincerità. E qual è l´interesse egoistico della Dc a non essere più il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana? Io lo vedo con chiarezza: se continua così, questa società si sfascerà, le tensioni sociali non risolte politicamente prendono la strada della rivolta anarchica e della disgregazione. Se questo avviene noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del Paese e affonderemo con esso. Noi non siamo in grado di "tenere" da soli un Paese in queste condizioni. Occorre una grande solidarietà nazionale. So che Berlinguer pensa e dice che in questa fase della vita italiana è impossibile che una delle maggiori forze politiche stia all´opposizione. Su questo punto il mio e il suo pensiero sono assolutamente identici. Dopo la fase dell´emergenza si aprirà quella dell´alternanza e la Dc sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi».
Questo disegno moroteo fu attuato e consentì di battere il terrorismo. Lui ci rimise la vita ma il frutto d´una democrazia finalmente compiuta si realizzò.
Quel disegno era valido allora (e proprio per questa ragione gli interessi interni e internazionali che non volevano una trasformazione riformista del Pci organizzarono l´agguato di via Fani) ma è ancora più valido oggi perché il partito comunista non c´è più e la sinistra - tutta la sinistra - è interamente democratica.
I cattolici che militano nel Pdl (ma quelli veri sono assai pochi) dovrebbero riflettere sulle parole di Moro, ma ancor più dovrebbe riflettere Casini che ancora recalcitra di fronte all´ipotesi dell´alleanza che il Pd gli offre. Casini vuole essere l´ago della bilancia, accetta l´alleanza col Pd solo se sarà dimezzato, solo se Vendola andrà per conto proprio portandosi appresso metà del partito democratico.
Ma valgono anche per Vendola e per Di Pietro le parole che Moro allora indirizzava all´intero Pci. Chi pensa alla propria bottega vede l´albero ma non la foresta, antepone i propri interessi e le proprie ambizioni alla salvezza del Paese. E chi, nel partito democratico, si divide tra l´alleanza con Casini e quella con la sinistra radicale, fa lo stesso errore. Ci vuole - e tutti dovrebbero volerla - la grande alleanza del centro e della sinistra riformista. Con un programma comune, limitato ai pochissimi punti necessari a superare l´emergenza. Poi verrà il tempo dell´alternanza tra i moderati e i riformisti, entrambi ligi all´etica costituzionale e repubblicana.
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Il colloquio con Berlinguer avvenne tre anni dopo quello con Moro. Il Pci aveva sperimentato l´alleanza con la Dc, il terrorismo era stato battuto lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue. Ma i nodi del Paese non erano stati risolti, la questione morale si era diffusa con tutte le sue brutture, la Dc aveva registrato una regressione con l´alleanza Craxi-Andreotti-Forlani, mafia e corporazioni dominavano, il debito pubblico aveva superato la soglia della tollerabilità.
Berlinguer illustrò a lungo la questione morale individuandone la causa nell´occupazione delle istituzioni da parte dei partiti (anche del suo in alcune diffuse situazioni locali). Poi parlò della "diversità" comunista. Ne enumerò tre, ma le prime due avevano piuttosto l´aria di voler lanciare una sollecitazione contro il pericolo che anche il Pci diventasse "casta" anziché rappresentanza popolare quale fino ad allora era stato.
La terza "diversità" ha invece un tratto sorprendente di attualità: «Noi abbiamo messo al centro della nostra politica non solo gli interessi della classe operaia propriamente detta e delle masse lavoratrici, ma anche quelle degli strati emarginati della società a cominciare dalle donne, dai giovani e dagli anziani. Il principale malanno delle società industriali è la disoccupazione. L´inflazione è l´altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro tutte e due, ma guai se per domare l´inflazione si debba pagare il prezzo d´una recessione massiccia e di un´altrettanta massiccia disoccupazione. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili. Noi abbiamo sostenuto l´austerità contro il consumismo. Abbiamo detto anche che i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di risanamento, ma che l´insieme dei sacrifici doveva esser fatto applicando un principio di rigorosa equità. Il costo del lavoro va anch´esso affrontato e contenuto operando soprattutto sul fronte della produttività. Voglio dirlo però con tutta franchezza: quando si chiedono sacrifici al Paese si comincia sempre con il chiederli ai lavoratori; quando poi si abbia alle spalle una questione come la P2 è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili».
Su queste parole debbono meditare tutti, al centro e a sinistra. Della destra non parlo nemmeno perché la destra non c´è. C´è un´accozzaglia di clientele tenute insieme dall´interesse e da residui di un ex comunicatore che ha scelto come amici intimi Scilipoti, Lavitola e Verdini. "Unicuique suum" direbbe la liturgia. Quanto alla fede, chi ce l´ha avrebbe dovuto sapere da gran tempo che nei luoghi del morente Pdl la fede non è mai stata di casa. Quel partito e il suo premier possono aver concesso qualche favore ai "valori non negoziabili". Al quale proposito -da un non credente interessato alla questione - concludo con due osservazioni: 1) anche i laici hanno valori non negoziabili; chi vuole affermare i propri deve concedere la reciprocità. 2) I valori non negoziabili non sono separabili l´uno dall´altro, costituiscono nel loro complesso una coscienza etica e dunque è su quella che ci si confronta.
Ora aspettiamo di vedere se le intimazioni alla manovra di crescita che l´Europa e la Bce ci hanno rivolto saranno accolte dal governo. Altrimenti su questo cadrà.
Caro direttore, lascio l’insegnamento al Politecnico prima di quel che avrei voluto. In via Bonardi ho potuto esercitare la libertà d’insegnamento, ma il meccanismo decisivo, quello della selezione del corpo docente, è andato sempre più orientandosi, nel settore scientifico-disciplinare dell’urbanistica e della pianificazione territoriale, verso il dilagare del pensiero unico, fratello e socio del "modello Lombardia" in campo politico. È il modello secondo il quale esistono formalmente due schieramenti politici che talvolta si danno il cambio nel governo, ma che sostanzialmente vivono di un patto stabile di non aggressione, fondato sulla spartizione dei collegamenti con interi pezzi del sistema economico.
Alla maggior parte dei miei colleghi questo sistema di governance post liberale piace e lo considera come fattore di stabilità e addirittura di successo per la nostra regione. A me pare invece che esso configuri da un lato il tramonto sostanziale della democrazia, e dall’altro una vera jattura sotto il profilo del modello di società e di città che va costruendo. La Lombardia ha cancellato, con una legge senza pari in Italia, quasi ogni garanzia sulla qualità e sull’efficienza nelle trasformazioni del territorio, senza che né la minoranza in Consiglio regionale né le Province né i Comuni di diverso orientamento politico si siano opposti efficacemente.
Milano, dopo avere inaugurato negli anni 90 la stagione del "fai da te" dell’urbanistica, con effetti già abbastanza preoccupanti che sono sotto gli occhi di tutti (dall’Isola-Garibaldi-Repubblica a Fiera-CityLife), ha adottato, con la precedente giunta, un cosiddetto Piano di governo del territorio, anch’esso unico nel panorama italiano per l’elefantiasi delle previsioni insediative, per la brutalità della densificazione, per l’inefficacia delle scelte infrastrutturali e di quelle di tutela della qualità urbana e ambientale, per la mancanza di strategie di sviluppo economico e infine per miope municipalismo.
A entrambi i livelli, al di là di qualche distinguo di maniera, il nocciolo di potere accademico del settore scientifico di cui faccio parte, in passato diversificato per orientamenti culturali e ora invece uniformato, ha finto di ignorare, oppure ha sostenuto, o talvolta ha persino determinato questi processi. E soprattutto ha operato all’interno dell’università affinché l’insegnamento si adeguasse a queste idee e le voci di dissenso fossero progressivamente emarginate. L’amministrazione milanese ora è cambiata, ma quale sostegno può venire al grande cambiamento che è necessario, da un’università così orientata e conformata?
Sono persuaso che questa deriva faccia un gran male a Milano e al nostro Paese. Un’università che cancella il pensiero critico e diffonde il gas anestetico del pensiero unico, che forma organizzatori del consenso invece che progettisti capaci di ideazione e innovazione, è forse il peggior male che possa capitare a una società. Non si può far finta di niente, bisogna reagire rifiutando l’omologazione, con la mente rivolta soprattutto ai giovani. Per incoraggiarli a scegliere una strada diversa: quella di formarsi, di misurarsi, e se necessario di battersi come urbanisti che si considerano al servizio di tutta la società e non, solo e comunque, del potere in carica.
E' ragionevole ritenere che sulla decisione di Giuseppe Boatti abbia pesato il silenzio con il quale la struttura universitaria alla quale appartiene ha reagito alla grave azione di intimidazione nei suoi confronti esercitata dal Giornale , come abbiamo denunciato su queste pagine raccontando «antefatto, fatto e brutto pensiero a proposito dell’urbanista Giuseppe Boatti “sbattuto in prima pagina”».
Se il "pensiero unico" pervade anche l'università allora davvero non è da lì che può venire speranza per il futuro. E' bene uscirne sbattendo la porta, e cercando altrove gli strumenti per sollecitare nei giovani lo spirito critico necessario per comprendere il mondo e cambiarlo. Grazie, Beppe, del tuo lavoro e del tuo gesto.
Il 15 ottobre scorso a Roma la rabbia di chi era deciso a manifestare la propria indignazione puntando ai "Palazzi" e ai simboli del potere è stata assai più facilmente "sfogata" a spese e contro il corteo e gli obiettivi di centinaia di migliaia di altre persone. Facendosene scudo e prendendole in ostaggio; e beneficiando, tra l'altro, di comportamenti delle forze dell'ordine che hanno enormemente facilitato quest'esito. Quelle persone si erano invece convocate e riunite per manifestare in tutt'altro modo: cioè pacificamente; e con tutt'altro obiettivo: quello di dare, innanzitutto a sé stessi, e poi al mondo intero, una immagine circostanziata e "aggiornata" delle forze e delle idee che si contrappongono alle scelte che stanno portando le loro vite, quella del nostro paese e quella dell'intero pianeta a imboccare una deriva senza ritorno.
Iniziative che si concludono con scontri con le forze dell'ordine e con assalti più o meno devastanti ai simboli del potere non sono un'esclusiva del nostro paese, né di questa stagione: hanno spesso accompagnato, e a volte caratterizzato, alcune delle scadenze con cui, nel corso degli ultimi dodici anni, il movimento altermondialista ha cercato di rendere visibile al mondo il suo totale dissenso dalle scelte compiute dai cosiddetti Grandi della Terra. Ed è probabile, quale che ne sia la valutazione che ciascuno ne dà in base ai propri principi morali o alle proprie valutazioni politiche, che iniziative più o meno analoghe si faranno più frequenti negli anni a venire, in concomitanza con l'aggravarsi della stretta finanziaria, economica e ambientale che sta distruggendo la convivenza umana sull'intero pianeta. Lo confermano le recenti vicende della Grecia, giunta ormai a una fase della crisi che per molti versi anticipa e prefigura quello che sembra destinato a succedere in molti altri paesi, tra cui il nostro. Questo è uno degli aspetti della crisi con cui bisogna imparare a convivere, adoperandoci, se e perché lo si ritiene rovinoso, o pericoloso, o anche solo sbagliato, per limitarne le dimensioni e gli effetti.
A Roma la scelta di chi ha voluto a ogni costo dare a questa giornata un esito violento a spese di tutti gli altri è stata "giustificata"- quando lo è stata - con motivazioni che denotano una totale subalternità alla cultura e ai pregiudizi dominanti. Per esempio quella di "far saltare" un presunto accordo, con finalità elettorali, tra il centrosinistra - o una parte di esso - e alcune delle organizzazioni che hanno promosso la manifestazione; oppure (si è letto e sentito anche questo) quello di dare corpo alla rabbia dei precari contro la o le generazioni precedenti - largamente rappresentate nel corteo - che avrebbero rubato il loro futuro con i loro "diritti acquisiti".
La prima motivazione evidenzia come, anche tra i segmenti più ai margini - e che per questo si ritengono più "radicali" - si siano ormai insediati approcci tutti interni agli schemi della politica più deteriore: quella interamente costituita dal mercanteggiamento delle scomposizioni e ricomposizioni degli schieramenti che tutti i giorni ci viene esibita dal ceto politico. La seconda motivazione riprende il cliché che mira spiegare e affrontare la crisi in termini di scontro generazionale e non di conflitto tra sfruttati e sfruttatori; tra lavoro e capitale; tra poveri e ricchi; tra chi paga le tasse e chi le evade; tra chi cura l'ambiente e chi lo devasta; tra ricostruzione e distruzione dei legami sociali.
In entrambi i casi - e, probabilmente, in molti altri che occorre affrontare con pazienza e umiltà, nelle sedi più aperte e più appropriate - la posizione di chi ha voluto portare la giornata del 15 ottobre all'esito che ha avuto è simmetrica e speculare a quella di tutti i media e i giornalisti che la hanno commentata. I quali si sono limitati a distinguere - nel migliore dei casi - o a confondere - in tutti gli altri - un ridotto gruppo di vandali "violenti" e una stragrande maggioranza di manifestanti "pacifici". Ma non hanno colto, per malafede, per mancanza di cultura, per incomprensione, le caratteristiche principali di quella giornata. Sicché la cultura degli uni - i media - spiega molto del comportamento degli altri: i "violenti". Poche osservazioni bastano a evidenziarlo.
1. Si è manifestato nello stesso giorno in più di 80 paesi e in più di 500 - o 900? - città: contro gli stessi eventi, le stesse entità, con le stesse parole d'ordine; con uno slogan che, come ha ricordato Naomi Klein parlando a Zuccotti Park, è partito l'anno scorso dal movimento degli studenti italiani («Noi la vostra crisi non la paghiamo») e, a un anno di distanza, è rimbalzato in tutto il mondo nella forma: «Il debito non si paga». Vorrà pur dire qualcosa questo obiettivo, se è così condiviso da milioni di manifestanti, nonostante sia così osteggiato dall'establishment accademico, politico, finanziario e mediatico, che non riesce nemmeno a prenderlo in considerazione come ipotesi. O no? E, quale che ne possa essere la realizzazione, non sarà questo obiettivo altrettanto rilevante, e molto di più in termini prospettici, delle "violenze" che si sono viste in piazza a Roma?
2. La manifestazione di Roma è stata di gran lunga la più ampia del mondo: dieci o venti volte di più della maggiore di quelle che si sono svolte nelle altre città. Qui non interessa la "conta"; Maurizio Landini ci ha insegnato, giusto un anno fa, a non impuntarsi su conte del genere, dove la meglio l'ha sempre e comunque chi controlla i mezzi di comunicazione di massa. Ma nessuno, sembra, si è chiesto come mai fossimo in tanti. Non certo per la presenza dei black bloc, o di chiunque sia stato designato con questo termine! È il fatto di essere stata voluta, convocata, preparata e condivisa da un numero di persone che già pochi mesi fa ha dato un'idea della propria consistenza con i referendum contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici locali, contro il nucleare e contro l'immunità di Berlusconi.
3. Questa manifestazione, infatti, non è stata convocata da nessun partito, da nessuno dei sindacati cosiddetti maggioritari - quelli che siedono, o sedevano, al tavolo delle trattative nazionali - da nessuna delle istituzioni che pretendono di rappresentare il paese o una sua componente. È stato il frutto di mille, diecimila iniziative dal basso, alcune esclusivamente locali, altra ormai consolidate, o temporaneamente coordinate, a livello nazionale; che si sono riconosciute in un comune sentire: quello dell'indignazione, per usare un termine che, più che scelto, gli è stato appiccicato addosso: benvenuto! Non solo contro Berlusconi (negli altri paesi questo problema non esiste). Ma contro la finanza internazionale, le sue scelte e le sue imposizioni; che è invece un problema comune a tutti. Tutte queste persone si sono riconosciute anche in alcuni obiettivi generali - il ripudio del debito, la lotta contro precarietà, disoccupazione, incultura, deprivazione - e in un percorso da costruire in comune: attraverso un confronto e una consultazione aperta e senza pregiudizi. E innanzitutto, a Roma come a New York, a Madrid come a Barcellona, nella gioia di essere veramente "insieme"; o, come dice Naomi Klein, di poter dire al vicino «mi importa di te».
4. Non era un corteo di giovani, come tutti i commentatori hanno continuato a designarlo. Nella manifestazione erano presenti i temi più diversi: dall'acqua ai diritti dei lavoratori, dalla difesa della cultura a quella dell'ambiente, dalla promozione delle energie rinnovabili alla salvaguardia di scuola, università e ricerca, dall'agricoltura biologica alla lotta contro la vivisezione; ma nessuno - tranne, certamente, la volontà di farla finire in uno scontro - è stato vissuto come incompatibile con gli altri. Soprattutto, erano presenti, in modo massiccio e ben rappresentato, forse per la prima volta, tutte le generazioni: nonne e nonni, madri e padri, figlie, figli e nipoti; un vero family-day, di una famiglia molto allargata. E una risposta eloquente - come si è detto - a tutti i tentativi di analizzare la crisi in termini di conflitto intergenerazionale.
5. Che cosa sarebbe successo, infine, se quel corteo avesse potuto proseguire tranquillamente il suo percorso e concludersi, come avremmo voluto, in Piazza San Giovanni? Nessuno, nei media, se lo è chiesto. Ne sarebbe seguita un'acampada di centinaia di tende - e non di quelle poche decine che hanno fortunosamente trovato un'alternativa in Piazza Santa Croce in Gerusalemme - tante da rendere difficile il loro sgombero e quasi automatica una loro crescita e un continuo rinnovamento. Un problema in più per l'establishment! Tale da poter concludere che, da come sono finite le cose, gli è proprio andata nel migliore dei modi.
L'ordinanza che vieta di manifestare viola la nostra Carta, spiega il costituzionalista: «È un diritto inalienabile» Parla Stefano Rodotà: «Stanno sospendendo le garanzie costituzionali». Ma anche sui violenti niente sconti: «Danneggiano il movimento e chi cerca nuovi strumenti di democrazia reale»
Leggi Reale, divieti a manifestare nella forma corteo, fermi di polizia e "Daspo politico". «Sono davvero sbalordito, questo è un Paese che ha perduto la memoria». Stefano Rodotà è indignato. Perché con questi divieti «inammissibili» si stanno «sospendendo le garanzie costituzionali». E perché quando un ministro di governo, come Maroni, parla di «terrorismo urbano» usa una «violenza verbale di segno uguale e contrario a quella del 15 ottobre a Roma».
«Attenti al linguaggio», è il suo monito. Ma è rivolto anche a noi: «Non sono d'accordo con Valentino Parlato», dice. «Certo che devo cercare di capire, ma subito dopo non faccio sconti. Chi ha usato la violenza, sabato scorso, l'ha fatto intenzionalmente contro quel movimento che aveva deciso di mettere in atto forme di democrazia partecipativa. Quella violenza ci ha fatto fare a tutti un brutale passo indietro».
Per la prima volta da tempo immemore un corteo della Fiom - che ha sfilato a Roma perfino nel '77 - viene vietato. Come valuta questo provvedimento?
Una misura assolutamente inammissibile. Per due motivi. Primo perché non si possono sospendere le garanzie costituzionali, e il divieto generalizzato di fare cortei a Roma in questo periodo imposto da Alemanno è un provvedimento contrastante con l'articolo 17 della Costituzione. Oltretutto non si può precludere alcuna forma in cui esercitare legittimamente il diritto a manifestare. Secondo: il divieto è sì contemplato nell'articolo 17 della Costituzione ma solo per «comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica». Motivi che non possono essere ipotetici. Deve appunto essere «comprovato» che chi organizza il corteo - in questo caso la Fiom - mette a rischio la sicurezza pubblica. È un dettato di stretta applicazione e va applicato tenendo sempre presente che nel bilanciamento tra i due diritti, quello a manifestare è preminente. Vorrei sapere come è stato motivato questo divieto. Dobbiamo considerare che da sabato scorso Roma è diventata una città a rischio, in cui la libertà di manifestazione del pensiero è temporaneamente sospesa, almeno in alcune sue forme? È questo il nuovo status della città?
Valentino Parlato solo per aver detto che gli scontri di sabato scorso «sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile», ha scatenato un «dispiegamento di buoni sentimenti», come dice Rossana Rossanda. Lei cosa ne pensa?
Non condivido la posizione di Valentino. Dire che - lo riassumo grossolanamente - il rischio di violenza è ormai insisto nelle manifestazioni, dato l'attuale contesto e la conseguente tensione sociale, è un argomento molto rischioso perché può essere usato con conseguenze gravissime, come abbiamo visto.
Lei si è fatto un'idea di chi sono questi giovani «violenti»?
No, ma ho letto che la loro è stata una scelta anche contro quel tipo di manifestazione considerata troppo «debole». So bene che la violenza nella storia c'è, che non viene dal nulla e è più facile trovarla nel disagio. Ma guardiamo il lascito drammatico di quella giornata: sta tornando in voga l'argomento che le manifestazioni si devono di nuovo irreggimentare, devono prevedere un servizio d'ordine. Sta passando l'idea che la libertà di manifestare richiede un'infinità di cautele, a cominciare da parte di chi le organizza. La violenza ha svuotato di ogni senso l'iniziativa politica. Non ci dimentichiamo che l'obiettivo del corteo era di andare a San Giovanni per mettere le tende e creare un presidio permanente. Non dico proprio una piazza Tahrir a Roma, ma comunque cercare di creare qualcosa che potesse dare stabilità, responsabilità, visibilità pubblica, opportunità di confronto. Tutto ciò è stato spazzato via, e questo è un atto di irresponsabilità.
Il linguaggio di Maroni richiama gli anni '70. È giusto?
Non c'entrano nulla gli anni '70. Non c'era, allora, questo tipo di rabbia. Nessuno pensava: «Ci avete levato il futuro, volete farci pagare il vostro debito».
Quanto influisce il fatto che siano orfani di rappresentanza politica?
Questi giovani non solo non hanno una rappresentanza politica ma sono disillusi e rifiutano la democrazia rappresentativa. Pensiamo però che la crisi della democrazia partecipativa possa aprire spazi a una svolta violenta? Ricordiamo che l'ambizione dei movimenti che hanno sfilato il 15 ottobre era proprio tentare di salvaguardare la democrazia reale e ripristinare forme partecipative di rappresentanza. Volevano andare in piazza con una tenda, segno di precarietà e al contempo di stabilità, dimostrare che il movimento non è più volatile ma ha un luogo proprio, rappresentantivo, dove esercitare il confronto senza mediazioni. Tutto questo è stato impedito. Ed è, ai miei occhi, imperdonabile. I violenti hanno danneggiato gravemente il movimento togliendo voce e forza a tutti coloro che stavano cercando un minimo di mutamento politico. Noi dobbiamo a tutti i costi salvaguardare questo tentativo, uno sforzo comune a centinaia di migliaia di persone.
Potrei essere vostra madre, o vostra sorella - per fortuna non lo sono, perché immagino che per quanto amiate le vostre madri e sorelle, la loro saggezza vi appaia come un altro pezzo di quel presunto perbenismo che siete venuti a disfare con le vostre mani, con le vostre braccia giovani, con le vostre spranghe e i vostri bastoni. Ma non sono né vostra madre né vostra sorella, sono una giornalista, lavoro da tanti anni in una radio indipendente, e da poco meno di un anno faccio un lavoro che prima nemmeno esisteva, il curatore di social media, una persona che verifica e sceglie contenuti tratti dal lavoro collettivo della rete per produrre a sua volta contenuti informativi. Seguo da dieci mesi le rivolte arabe, e questo mi ha cambiato la vita. Non solo perché le rivolte l’hanno cambiata a tante persone, ma perché le migliaia di ragazze e ragazzi che stanno lottando per il futuro dei loro paesi mi hanno restituito la passione civile, mi hanno fatto sentire interrogata sui modi in cui facciamo politica, mi hanno strappato dal meccanismo di delega vuota degli ultimi quindici anni, e mi hanno fatto restare in un paese che prima volevo lasciare. Studiare l’attivismo in rete mi ha condotto alle stesse conclusioni di altre decine di curatori: non esiste bloggare o twittare da una posizione di neutralità; si può offrire alla rete la propria esperienza di verifica, di studio, di approfondimento, ma si diventa partecipi, e in qualche modo attivisti, senza quasi rendersene conto, senza averlo deciso. E un bel mattino si accetta che sia così. Perché, vi assicuro, non si può stare immersi nella lotta di piazza Tahrir senza sentirsi in qualche modo responsabilizzati, interrogati nel profondo, chiamati - non a riempirsi la bocca di slogan, ma a fare sul serio. E così come faccio dirette Twitter sul Cairo col cuore in gola perché ad ogni sit-in o corteo uno di quei ragazzi può lasciarci la pelle - come è successo a Mina Daniel, disarmato, durante il massacro dei copti il 9 ottobre - così ho twittato la Roma del #15O con crescente apprensione. Ho avuto paura che vi faceste accoppare da un poliziotto che perdeva la testa. Ho avuto paura che vi faceste pestare a sangue come chi è stato a Genova dieci anni fa ricorda bene e non dimenticherà mai. Ho avuto paura che saltaste in aria nell’esplosione di una di quelle auto che avete bruciato. Ho avuto paura che uno di quei blindati ubriachi vi investisse. Ho avuto paura che ammazzaste un poliziotto. Ho avuto paura che il vostro disprezzo evidente per la gran massa di gente perbene fra cui vi siete mimetizzati vi portasse a ferire, o a uccidere, o a far uccidere, una persona che un bastone o una spranga non li userebbe mai.
Poi ho capito che voi non avete paura. Voi vi piacete così, vi sentite belli con la vostra ferocia, con la vostra rapida coreografia della morte, ho capito che corteggiate il pericolo, che non vi importa delle conseguenze, che pensate di non avere niente da perdere (e siete troppo giovani per capire che invece avete parecchio), e soprattutto ho capito che non state costruendo niente. Senza quella folla immensa in cui vi siete nascosti - lo sapete benissimo - non siete niente, nessuno vi guarda, nessuno si cura di voi, non contate un accidenti. È vero, siete bellissimi e subdoli e veloci come un branco di lupi che discende in pianura. I miei amici antagonisti vi ammirano, sono dalla vostra parte, riconoscono in voi una rabbia profonda che tutti proviamo. Salvo poi essere un filo confusi - infiltrati della polizia oppure intrepidi compagni?
Devo scrivervi perché ho rispetto per chi muore per le cose in cui crede. Per chi non ha scelta. Per chi in piazza ci va studiando, facendo fatica, mediando con persone che la pensano diversamente. Per chi si stanca, e piange, per chi diventa eroe suo malgrado, e perde amici e fratelli, e pure non smette. Per chi da dieci mesi non dorme una notte intera, per chi si interessa della democrazia e si domanda come crearne una che funzioni e darle il proprio contributo. Per chi si fa un culo pazzesco nelle scuole, nella magistratura, nei sindacati clandestini, nei giornali censurati, nella tutela legale dei prigionieri politici, nel servizio d’ordine della piazza più rivoluzionaria del mondo. Per chi va in galera a vent’anni per aver scritto una cosa di troppo in un blog, o viene torturato per un graffito. Per chi rinunciando ad armarsi ha scelto la strada più lunga e produttiva. Per chi le botte e i gas lacrimogeni se li risparmierebbe se potesse, per chi i sassi li tira perché ha di fronte un apparato infernale e corrotto che da 40 anni lo schiaccia e lo tortura - e non per modo di dire. Per chi soltanto una settimana fa ha visto i soldati gettare nel Nilo cadaveri di cristiani disarmati. Voi siete solo imitatori, attori, pedine. Non avete rispetto per i vostri diritti, e ricoprite un ruolo ridicolo nella stessa recita che tanto detestate. È nato un movimento internazionale, se vi va di rendervene conto, che potrebbe perfino salvarci dal nostro provincialismo. Ha quattro regole in croce, e chiede di rispettare solo quelle. Ha scelto la resistenza passiva - la studia, la pratica, sa a cosa serve. Se volete, è anche casa vostra. Sta a voi. Dentro al movimento, con le vostre forti braccia e magari anche il cervello, potete sperare di contare qualcosa. Ma se non avete rispetto, se non vi fidate di nessuno, se siete cinici e nichilisti e avete già deciso che non cambierà mai niente, se pensate di essere un po’ più derubati degli altri, più precari degli altri, più disoccupati degli altri, allora andate a fare gli esclusi per scelta sugli spalti degli stadi, o a spaccare vetrine da soli finché non sarete cresciuti - con la vostra illusione di avere sempre ragione, di sfidare il sistema, o di distruggere i simboli della proprietà privata mentre è vostro padre che paga ancora le rate. Vi va bene che siete italiani. Vi va bene che qui c’è qualcuno a cui fa comodo che esistiate, che finge di non vedere i bastoni nascosti a San Giovanni dalla sera prima, che non vi ferma alla stazione Termini mentre passate col viso coperto e un metro di legno che vi spunta dagli zaini. Vi va bene che qui il rapporto di fiducia con la polizia è così corroso e malato che a via Merulana si è fatta un’assemblea tragica in mezzo ai lacrimogeni per decidere se consegnare o no 3 di voi agli agenti - perché la polizia è maiale se ti carica, o se carica quelli sbagliati, ma è anche vigliacca se non ti protegge dai provocatori. Vi va bene che siete nati in un paese così bizantino e pieno di segreti che le teorie del complotto sono sempre lecite. Vi va bene che siete in un paese vecchio, l’unico in cui il movimento che dichiara la fine di un sistema fallimentare scende in piazza ancora coi suoi stracci di bandiere, con le sue divisioni tribali, con i suoi rottami di sindacato, col suo ritardo spaventoso in un paese governato da un impunito. Vi va bene che siete in un paese ipocrita, teatrale, che sfila in tv ma poi alle assemblee di discussione non ci va, e che ha aspettato invano per anni che qualcuno lo chiamasse in piazza invece di andarci e basta. E vi va bene che siamo ancora così stupidi da organizzare cortei-fiume in mezzo ai palazzi più preziosi del mondo invece di occupare pacificamente una piazza - perché certo, poi ci toccherebbe anche metterla in sicurezza noi stessi, e tenerla pulita, e prendercene la responsabilità. Vi va bene che vi sia stato offerto di nuovo un palcoscenico - voi, e tre ore di caroselli anni ‘70 delle camionette in diretta tv. Col “sistema” sembrate d’accordo almeno su una cosa: sul fatto che è meglio non manifestare del tutto, che è meglio tenere la bocca chiusa e starsene a casa, cioè esattamente l’opposto di quello che reclama questo movimento - il diritto a riprendersi lo spazio pubblico, e a usarlo per il bene comune. Avrete pure vent’anni ma siete vecchi anche voi, non scandalizzate nessuno, e vi lasciate usare. Vi hanno fatto credere che la prima linea sia quella piazza da cui avete divelto i sanpietrini, e ci siete cascati. E invece, come vi dirà qualunque vero rivoluzionario, la prima linea è dentro, e si trova insieme, e costa tempo, pazienza, e fatica.
Una cosa è sicura - questo movimento sarà anche ingenuo, ma tanto non sarete voi a cambiare il mondo. Avreste dovuto restare a bocca aperta, quando la basilica ha aperto i suoi giardini ai manifestanti soffocati dai lacrimogeni a San Giovanni. A bocca aperta per la bellezza straordinaria di quel luogo che appartiene all’umanità intera, e che è nostro privilegio conservare a prescindere dalla fede religiosa. E qualcuno avrebbe dovuto dirvi che a gennaio, per proteggere con una catena umana il Museo Egizio del Cairo, uomini e donne si sono presi per mano mentre dai tetti gli sparavano addosso i cecchini del loro stesso presidente. E che quegli uomini e quelle donne sanno che la non-violenza ha un prezzo salato, come 700 morti, che non si finisce mai di pagare. Ma ci ricordano che è uno strumento collettivo di straordinaria civiltà e potenza; ti permette di vincere battaglie decisive, ti migliora, ti moltiplica, ti eleva, ti fa contare sul serio, e ti conquista il rispetto del mondo.
Marina Petrillo
In tempi forse peggiori di questo, quando nei cortei si sparava, la parte migliore della sinistra aveva risposto in piazza con una parola d'ordine forte e chiara: la democrazia si difende con la democrazia. Questo era anche il titolo del manifesto il giorno del rapimento di Aldo Moro, ma questo soprattutto gridavano in quello stesso giorno gli operai di Mirafiori, in piazza San Carlo a Torino. E nel '77, un anno certo non facile per chi rifiutava drasticamente l'equazione conflitto uguale terrorismo, la Fiom manifestava in piazza per i diritti dei lavoratori e in difesa della democrazia. Una delle più liberticide leggi della storia repubblicana, la legge Reale, marciava nella direzione opposta e in nome della difesa dell'ordine pubblico restringeva le libertà, criminalizzava singoli e movimenti, provocava negli anni una strage con centinaia di morti e feriti. Oggi che quegli anni sono per fortuna alle nostre spalle, anche grazie alla difesa della democrazia e del conflitto sociale garantita da forze come la Fiom, spuntano neo-nostalgici di quella legge sciagurata persino tra chi si vuole in prima fila nella lotta contro Berlusconi.
Vietare il corteo di venerdì indetto dalla Fiom nel giorno dello sciopero generale della Fiat e della Fincantieri è un attentato alla democrazia, un atto suicida di chi non ha imparato nulla dalle centinaia di migliaia di manifestanti pacifici che sabato hanno invaso Roma; nulla della domanda di cambiamento democratico per liberarsi di un regime globale autoritario e classista alla cui cupola si sono autoinsediati organismi finanziari privi di qualsivoglia delega democratica. Quella manifestazione chiedeva più politica, e non è accettabile che la risposta sia solo repressiva contro tutti quelli che non sono disposti a mettersi in riga. Non è ai responsabili dei gravi disordini di sabato che si punta ma al cuore del movimento democratico. La Fiom, come il 99 per cento delle persone scese in piazza a Roma, non ha bisogno di dimostrare la sua estraneità alla violenza: fin troppe immagini oltre alla storia di questi anni ne sono testimoni. Gli operai che pretendono di esercitare i loro diritti, difendere il lavoro e riconquistare il contratto nazionale manifestando a Roma il giorno dello sciopero generale Fiat sono figli e nipoti di chi ha già salvato questo paese e l'ha fatto crescere nella democrazia. Sono i figli e i nipoti di quei carrozzieri, meccanici, verniciatori, lastratori che nel '72 erano scesi in treno da Torino e Milano tra le bombe fasciste disseminate lungo i binari per liberare Reggio Calabria dai boia chi molla.
Gli operai metalmeccanici, come gli studenti e coloro che si spendono generosamente per costruire un ordine sociale più giusto, dunque un nuovo modello socialmente ed ecologicamente compatibile, non sono una minaccia alla democrazia e all'ordine ma ne rappresentano il presidio. Ragioni politiche e senso di responsabilità chiedono che quel divieto venga ritirato.
Quale dispiegamento di buoni sentimenti ha accolto l'editoriale di Valentino Parlato dopo la manifestazione di sabato 15! L'indignazione si è levata contro di lui, sospettato, dopo una vita di mitezza e semmai di dubbi, se non di complicità almeno di concorso morale (come dicevano i giudici dell'emergenza) con i black bloc. Pensare che non me ne ero accorta e sono corsa a rileggere quel pezzo fatale. Scrive che è un gran bene che la manifestazione, per di più internazionale, sia così riuscita, e che i potenti del mondo devono sentire di avere perduto il molle consenso universale che credevano di avere e anche capire che la collera possa trascendere e mescolare alla protesta qualcosa di torbido.
E allora? Non lo doveva scrivere? Doveva far precedere a quel «è un bene» che la manifestazione sia riuscita che «è un male» che qualche centinaio di incappucciati, più o meno sinceri o, chissà mai, d'accordo con la polizia, vi si siano infiltrati? Doveva mettere le mani avanti, mostrare i documenti? Qualcuno si strappa i capelli: il manifesto, già definito per vent'anni come la destra della sinistra radicale, si è iscritto ai black bloc.
Suggerirei di non perdere la testa. Sono oltre trent'anni che vediamo inserirsi in ogni manifestazione di popolo gruppetti esagitati che fanno di tutto per farla fallire. Sono trent'anni che credono di colpire la finanza spaccando le vetrine d'una agenzia bancaria che conta, come loro, quanto il due di picche. Di frenare Marchionne dando fuoco alla prima auto che si vedono a tiro. Sono trent'anni che chi protesta è sotto ricatto, se non manifesta non esiste e se manifesta è responsabile di metter a fuoco Roma. Sono almeno due decenni che ai giovani si dice che i vecchi gli hanno tolto il futuro, e ci sorprende se qualcuno, sprovveduto o troppo furbo, si incappuccia e crede di essere in guerra. Sono trent'anni che la sinistra si lascia dire che ha sbagliato tutto. Sono trent'anni che la libera stampa, con la quale solidarizziamo ogni cinque minuti, sta al gioco del Ministro degli Interni. Tutto già visto; da noi, da Maroni, da chiunque si trovi al Viminale. Adesso si propone a tale incarico il popolare sceriffo d'Italia, Di Pietro, cocco della sinistra per bene. La quale vorrebbe manifestare in santa pace, anzi - come scrive una gentile amica - con pensionati e bimbetti in carrozzina.
Se il manifesto ha sbagliato qualcosa (e non sarebbe una tragedia) è di lasciar credere nel suo titolo che: a) a Roma c'è stata una guerriglia; b) che era un avviso per la Bce. Userei la parola guerriglia, che è tragica, con prudenza, e l'indirizzo non sarebbe quello giusto. Se Valentino ha sbagliato qualcosa è nello scrivere che questo sabato ha cambiato un'epoca. No, non l'ha cambiata, né l'ha cambiata il fortunato appello di Stephane Hessel. Non sono loro a mettere stavolta il capitalismo in crisi, ci si è messo da solo. È avvezzo a sguazzare nelle sue crisi da quando esiste, e alla fine di ognuna di esse qualcuno è ancora più debole e qualcun altro si è arricchito. Ha però un punto debole, che si deve assicurare anche fra i suoi una maggioranza che crede nell'efficienza del sistema, crudele ma funzionante.
Stavolta ha strabordato, si è ispirato più ai baroni ladri e al Far West che a Adamo Smith, sta inciampando nei meccanismi che ha messo su e in alcune loro conseguenze. Povero Marx, lo pensava più intelligente, avrebbe estinto la rendita e il proletariato avrebbe estinto lui. Invece si è buttato follemente su di essa perdendo ogni controllo sul materiale-reale. Quanto al proletariato, dove sono i suoi partiti? Spenta l'Urss, si sono dati assenti.
Un tempo chi ci leggeva diceva di trovare nel manifesto una buona "cassetta degli attrezzi" per capire quel che succede nel più complesso e avvitato sistema di produzione della storia. Attrezzi per sapere, per mettersi assieme, lavorare sui giunti giusti. Con intelligenza per sapere e passione per fare, l'una senza l'altra non funziona, come diceva anche Spinoza buonanima. Ci abbiamo creduto fino al 1989. Poi, distraendoci dalle ragioni per cui eravamo nati, ci siamo detti che un giornale non era un laboratorio. Forse abbiamo sbagliato allora.
Metalmeccanici
La Fiom ottiene Piazza del Popolo
di Massimo Franchi
Il segretario della Fiom, Maurizio Landini, al termine di una giornata di trattative per la piazza di domani, può annunciare che la sua organizzazione potrà manifestare a Roma. La Questura concede Piazza del Popolo.
Dopo almeno cinque proposte e altrettanti dinieghi da parte di Alemanno e Questura, la Fiom chiede di poter tenere la sua manifestazione di domani a Roma nella “storica” piazza del Popolo, scelta fra le “sette piazze citate dallo stesso sindaco”. E la ottiene. Ieri sera la Questura di Roma ha dato il via libera. Lo sciopero dei gruppi Fiat (e affini, componentistica e autobus) e Fincantieri (e anche di tutti i metalmeccanici del Lazio) di venerdì non sarà una questione di Stato. Anche se ancora una volta i lavoratori che rischiano il posto di lavoro sono stati costretti a subire le conseguenze di comportamenti non loro. Il ricordo degli scontri e delle devastazioni di sabato scorso ha portato il questore di Roma Francesco Tagliente ad essere, in un primo tempo, perfino più prudente del sindaco Alemanno, autore della contestata ordinanza che vieta per un mese i cortei nel centro storico della Capitale. E allora la Fiom trasforma il corteo in un comizio collettivo a più voci dando spazio dal palco a tanti lavoratori dei due gruppi prima dei discorsi conclusivi di Maurizio Landini e di Susanna Camusso. «Abbiamo scoperto spiega il leader dei metallurgici della Cgil che anche fuori dal I Municipio non c'è la possibilità di fare cortei. Nonostante una lettera scritta e firmata dal sindaco Gianni Alemanno, la Questura dice che per questione di ordine pubblico non è possibile fare cortei. Non si può negare il diritto a manifestare spiega ancora Landini -. Di fronte a questa situazione, dopo aver fatto presente alla Questura la possibilità di usare tutte le piazze messe a disposizione dal sindaco, riteniamo necessario nel rispetto lavoratori verrano di fare un atto di grande responsabilità. Chiederemo piazza del Popolo come sede della manifestazione, facendola diventare la piazza di Roma per la riconquista di spazi della democrazia». E aggiunge: «Se ci diranno di no occuperemo la piazza». Ma non ci sarà bisogno. La Fiom, in risposta alla proposta di Maroni di fidejussione per manifestare, risponde con l'iniziativa «Un euro per la democrazia, un euro per la libertà di manifestare».
«Daremo inizio a questa raccolta tra tutti i partecipanti alla manifestazione». Con quanto ricavato «si finanzieranno le altre iniziative». Una iniziativa per far capire che «agli atti di violenza non si risponde limitando gli spazi della democrazia». E, a proposito degli scontri di Roma, Landini assicura: «Non ci saranno caschi, facce coperte o guanti. Come sempre, ci sarà il nostro servizio d'ordine che assicurerà che tutto vada per il meglio».
Una manifestazione aperta ai rappresentanti del mondo della cultura e delle forze sociali quella della Fiom, chiamando a raccolta tutti coloro i quali «sentono con forte senso di responsabilità il desiderio di riappropriarsi degli spazi della libertà e della democrazia». A tutti, il segretario offre il palco di Piazza del Popolo. Ma «la politica, gli esponenti dei partiti sono invitati a manifestare con noi», quindi senza intervenire dal palco. Su quel palco si alterneranno invece delegati Fiat e Fincantieri, arrivati a Roma con gli oltre 90 pullman previsti per domani. E ancora una volta le polemiche stanno mettendo in ombra le ragioni dello sciopero.
Che Landini ribadisce a maggior ragione alla luce delle dichiarazioni di ieri di Marchionne: «Dice che l'Alfa Romeo andrà in America, è la dimostrazione che il piano “Fabbrica Italia” non c'è. La scelta della Fiat è il disimpegno dal Paese.
Ecco perché chiediamo di andare in piazza».
Camusso:
«Vogliono una politica per ricchi.
È nostra la battaglia di libertà»
di Oreste Pivetta
La segretaria Cgil: «Sabato una grande domanda di futuro. Ma sul no alla violenza bisogna essere espliciti. Per cambiare le cose non serve un governo d’emergenza»
Un’antica questione: il discrimine violenza-non violenza . «No, su questo, contro la violenza, non si transige», dice Susanna Camusso, segretaria della Cgil, ieri a Berlino, dove si è discusso di due Risorgimenti, assai vicini negli anni, quello italiano e quello tedesco. Il commento di Susanna Camusso arriva a qualche giorno di distanza dal sabato romano e dopo gli annunci del ministro degli Interni, denunciando da un lato la strumentalizzazione, dall’altro però il limite «di una discussione non condotta sino in fondo».
Che cosa si sarebbe dovuto fare? È stata comunque una grande manifestazione...
«Una manifestazione straordinaria per la partecipazione di giovani e di meno giovani, un grande popolo di studenti, di precari, di disoccupati, di gente stanca, un popolo tutt’altro che ripiegato su se stesso, sulle vicende italiane, capace invece di guardare al resto del mondo, non genericamente critico ma pronto a contestare quelle soluzioni, tra banche mondiali e finanza globale, che non sono soluzioni per il futuro, mentre la domanda fondamentale è proprio: quale futuro ci aspetta? Però poi ci siamo imbattuti anche nell’altra faccia della manifestazione, faccia che si è delineata a partire da un punto non risolto: proprio il discrimine violenzanon violenza. Credo che nell’organizzazione di quella giornata si sia naturalmente riflettuto su questo, ma lasciando qualcosa in sospeso, come si può dedurre da quanto è accaduto. Con le conseguenze che sappiamo: che si è oscurato il senso della protesta, nonostante il tentativo della maggioranza assoluta dei manifestanti di distinguersi dai violenti, e che è andata persa quella domanda, quale futuro?, che esprime volontà di costruire, non di distruggere. Da quella domanda bisogna che si ricominci, ciascuno ovviamente per la sua parte di responsabilità. Noi siamo il sindacato, abbiamo compiti nostri, non mettiamo il cappello su un movimento che è di tanti soggetti, fortunatamente, con i quali interloquire. Ma la discussione sulla violenza deve essere ripresa e in modo assolutamente esplicito. Non possiamo ripassare attraverso tragiche storie del passato».
Non possiamo neppure consentire che una manifestazione democratica venga impugnata da qualcuno, magari da un ministro, come questione di ordine pubblico...
«Eppure, come è evidente, è successo proprio questo. L’effetto era scontato. Alemanno e Maroni non hanno perso un attimo, oscurando un principio fondamentale in ogni democrazia e della nostra Costituzione: la libertà di manifestare il proprio dissenso, purchè venga rispettato il principio della non violenza. Maroni ha escogitato questa idea delle fideiussione, così può manifestare solo chi ha i soldi e i disoccupati non potrebbero mai manifestare. Può sembrare un’idea strana, ma corrisponde a una loro logica, di destra: la politica sulla base del censo... Cioè: può candidarsi chi ha i soldi, farsi eleggere chi ha i soldi, manifestare infine chi ha i soldi. C’è un’altro aspetto: tra i cittadini e lo Stato s’è stabilito un patto, per cui si pagano le tasse per godere in cambio di alcuni servizi, compreso quello che dovrebbe garantire l’ordine pubblico. Anche in questa negazione (o ignoranza) del patto di cittadinanza, vedo una loro coerenza: visto che ti lascio evadere le tasse, pagami poi il servizio eventuale».
Si potrebbe aggiungere: così pagano sempre i soliti. Comunque c’è stato, anche da parte del governo, un deficit di previsione.
«Ora denunciano la violenza organizzata. Lo dice il ministro. Non si capisce perché non abbiano tentato di individuare prima la macchina di questa organizzazione, invece di immaginarsi dopo misure repressive che non risolvono nulla». Senza soldi che decreto sulla crescita potrebbe mai essere?
«La verità è che non vogliono mettere mano a una politica di giustizia fiscale, che sarebbe anche una politica di giustizia sociale. Adesso si inventano il concordato, che è un altro condono, cioè un altro modo per premiare l’evasione. D’altra parte Berlusconi ci ha fatto sapere che non gli piace la patrimoniale...».
Teme di dover pagare lui più di tutti.
«C’è di mezzo anche il conflitto di interessi, infatti. Non vuole la patrimoniale anche perché, da furbo, non vuole scontentare lo zoccolo duro del suo elettorato, che ha sempre premiato. Paghino gli altri: la diseguaglianza è la tragedia di questo Paese, diseguaglianza tra ricchi e poveri, diseguaglianza tra Nord e Sud, tra chi paga le tasse e chi no. Ma Berlusconi non ha fretta. Lui ha fretta solo per il processo breve e ha dimostrato di poter nominare in pochi minuti due viceministri e due sottosegretari».
Ancora ieri abbiamo ascoltato un altro richiamo di Napolitano.
«Il presidente sta compiendo uno sforzo straordinario per riportare il Paese nella giusta direzione».
Un governo d’emergenza nazionale potrebbe essere la direzione giusta?
«Il problema non è Berlusconi. Il problema sono le politiche che il suo governo ha espresso. Un governo d’emergenza, un governo di tecnici, rischia di muoversi nella continuità. Lo stato del Paese dice che è necessaria un’altra politica, che è necessaria una rottura. C’è solo un modo per scegliere quale politica: ridare il voto ai cittadini».
Sì, però, davanti all’urna, qualcuno può chiedersi: dove sta l’alternativa?
«Intanto non dobbiamo lasciarci suggestionare dal ritornello che ci stanno cantando all’infinito governo, maggioranza, certa stampa, in varie versioni: tanto sono tutti uguali. C’è un difetto all’origine in questa affermazione: un conto è stare al governo, un conto è vivere all’opposizione. Quindi inviterei tutti a rifuggire dal mito del leader. Quella del leaderismo è una cultura imposta da questo centrodestra e da Berlusconi, inclini al populismo. Prima non viene il leader, prima viene la politica. Basta con i candidati che si candidano a vicenda e che si silurano a vicenda. Avviare un processo democratico: questo bisogna fare».
L’economista Giavazzi sul Corriere vi ha messo in compagnia della Confindustria: due corporazioni che si sorreggono a vicenda.
«Dovrebbe dirci dove noi del sindacato avremmo peccato di corporativismo. Chi ha sempre pagato i conti? I lavoratori e il sindacato dei lavoratori. Il giudizio mi sembra ingeneroso anche nei confronti di Confindustria: in vario modo il sistema produttivo ha cercato di reagire alla crisi».
Ma la vostra ricetta è diversa da quella di Confindustria?
«Profondamente. Loro insistono sulla riforma delle pensioni e sull’innalzamento dell’età pensionabile. Noi insistiamo sui giovani e sulla necessità di far posto ai giovani».
Lasciamo stare Marchionne? Sembra un disco rotto...
«Finora ha solo chiuso stabilimenti. Siamo qui ad aspettare gli investimenti».
Quanto è accaduto sabato scorso in novantacinque città del mondo (a prescindere dalle vicende italiane, soltanto italiane, che esigono un discorso specifico ad esse esclusivamente dedicato) parla di qualcosa come cinquanta e più milioni di persone in marcia contro il capitalismo. A negare clamorosamente la vulgata che con insistenza da tempo parla di neoliberismo incontrastato e vincente, dunque di “fine delle sinistre”, ecc. Ciò che peraltro in effetti risponde non solo quantitativamente alla debolezza delle sinistre, ma alla totale mancanza di una politica che possa in qualche misura distinguerle dalle logiche dominanti; prescindendo ovviamente dall’impegno sostenuto soprattutto dai sindacati a favore dei lavoratori, nello specifico di situazioni di volta in volta in questione (salario, orari, mansioni, “difesa del posto di lavoro”, ecc.); una lotta indubbiamente utile, anzi indispensabile, che però non rimette in alcun modo in causa l’organizzazione produttiva nelle sue logiche e nelle sue ricadute, né in alcun modo garantisce un’occupazione sempre più a rischio.
Di fatto “ripresa”, “uscita dalla crisi”, “rilancio della produzione”, ecc. sono gli obiettivi che – non diversamente dall’intero mondo politico – le sinistre auspicano e perseguono, nel segno dell’accumulazione capitalistica. Di recente addirittura è stato recuperato il vecchio slogan “Creare posti di lavoro”: insensato invito alla promozione di attività destinate solo a occupare vite altrimenti ritenute inutili; di fatto capovolgimento e negazione del lavoro nella sua funzione di risposta a bisogni dati.
L’origine di tutto ciò risale d’altronde a fatti lontani, da potersi sostanzialmente situare nel trentennio della grande ripresa postbellica, quando l’organizzazione produttiva che andava via via imponendo al mondo i modi e le logiche dell’ accumulazione capitalistica, e modellandolo di conseguenza, per più versi però parve oggettivamente migliorare le condizioni delle classi lavoratrici; e fu allora che le sinistre (pur senza mai negare quell’anticapitalismo nel cui nome erano nate) in qualche misura andarono rimodellando le proprie politiche, puntando (sovente d’altronde con apprezzabili risultati) sulle riforme piuttosto che sulla “rivoluzione”. La quale da allora, specie dopo la fine dell’Urss, di fatto venne “messa in sonno”.
Ma il “peccato” più grave delle sinistre è l’aver di fatto “regalato” il progresso scientifico e tecnologico al capitalismo. Di fronte alla più grande rivoluzione compiuta dal pensiero umano, che avrebbe potuto consentire quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” auspicata da tutti i grandi utopisti, compreso Marx , le sinistre non hanno saputo che difendersi dal rischio della disoccupazione tecnologica, d’altronde con risultati non proprio entusiasmanti. Di fatto operando secondo la forma dell’ accumulazione capitalistica, accettandone logica e conseguenze, e solo di volta in volta, nello specifico delle singole situazioni, combattendo spesso valorosamente in difesa dei lavoratori.
Oggi, “ripresa”, “rilancio”, “crescita”, ecc., proprio come nei palazzi del potere, sono le parole d’ordine delle sinistre. Incuranti (o così parrebbe) della qualità del mondo che a questo modo si trovano a sostenere: un mondo in cui l’1% della popolazione detiene il 50% della ricchezza, 1/6 dell’umanità è sottoalimentato mentre in complesso si distrugge circa il 40% del cibo prodotto, un dirigente d’azienda guadagna fino a 640 volte il salario di un operaio, la produzione di armi rappresenta il 3,7% del Pil (cifra ufficiale secondo gli esperti assai inferiore alla verità, se si considera l’entità del contrabbando attivo nel settore).
Un mondo che continua a considerare la crisi ecologica planetaria come una sorta di variabile marginale, cui dedicare momenti di esclamativa attenzione quando si verificano le catastrofi più gravi, la grande industria (petrolifera, nucleare, che altro) viene pesantemente colpita, i mutamenti climatici distruggono raccolti agricoli di intere stagioni, ecc. Senza mai prestare adeguata attenzione alle voci della comunità scientifica mondiale. La quale parla di sempre più prossima e forse irrecuperabile rottura di equilibri millenari, e continua a ricordare i “limiti” del pianeta Terra: che è “una quantità” data, non dilatabile a richiesta, e pertanto incapace sia di alimentare una produzione in continua crescita, sia di neutralizzare i rifiuti, liquidi solidi gassosi, che ne derivano, e squilibrano l’ecosistema. Mentre imperterrito risuona il richiamo alla “crescita”, invocata come una sorta di dovere sociale, cui le sinistre puntualmente si associano.
Ma dove sono le sinistre? Questa è l’obiezione di regola sollevata appena si accenna a posizioni e iniziative che, nella situazione data, alla sinistra appunto parrebbero appartenere. E tuttavia, i milioni di giovani e meno giovani che sabato scorso hanno manifestato in novecentocinquanta città del mondo, che altro sono se non sinistre? E i popoli della “primavera africana”? E i tantissimi che si battono per la pace, per i “beni comuni”, contro il nucleare, contro opere monumentali quanto inutili, ecc. ecc. che insomma, nei modi più diversi e per i più diversi obiettivi immediati, mettono in discussione le regole portanti del capitale? E le donne che, anch’esse, in folle sempre più vistose, manifestano il loro “sentire altro” dalla vulgata del sistema imperante, e che perfino nei paesi di più dura misoginia storica sempre più di frequente trasgrediscono la regola che le offende? Ecc. ecc.
Certo, non può stupire che le sinistre organizzate - quel poco che ne rimane - fuggano di fronte a una “rivoluzione” come questa, che per qualità e quantità non ha precedenti. E d’altronde, è pensabile che la situazione possa protrarsi così, indefinitamente? Dopotutto teste pensanti, convinte della insopportabilità sociale, culturale e fisica, della situazione attuale, a sinistra non mancano. E non mancano intelligenze capaci di una lettura adeguata della “globalizzazione”: un processo mondiale ormai interamente compiuto nella sua dimensione economico-finanziaria (ivi incluse devastanti conseguenze ecologiche); sempre più largamente e capillarmente impostosi dal punto di vista culturale (con la pubblicità a giocare in ciò un ruolo decisivo quanto stravolgente); ma di fatto tuttora inesistente sul piano politico (essendo la politica ormai di fatto identificata con l’economia, e da essa sostituita).
Teste non solo pensanti, ma volonterose di “pensare contro”, e di avventurarsi sui rischiosi sentieri di una rivoluzione che non ha precedenti né modelli… io sono certa che non manchino. Forse si tratta solo di cominciare…
La qualità della politica e dei politici si misura nelle situazioni difficili. Grave è sicuramente quel che è avvenuto sabato a Roma, e proprio per questo sarebbe stato indispensabile, da parte di tutti, reagire senza emotività, senza cedere alla tentazione di sfruttare la situazione per catturare qualche facile consenso. E senza proporre misure che poi, in concreto, possono rivelarsi pericolose e pure scarsamente efficaci.
Qualche memoria in questo senso dovremmo averla, a cominciare da quella legge Reale così incautamente evocata. E dovremmo aver capito, proprio perché abbiamo attraversato il dramma del terrorismo, che la forza della democrazia sta nella capacità di utilizzare fermamente la legalità ordinaria, senza precipitarsi ad invocare leggi eccezionali appena ci si trova di fronte a qualche difficoltà. La fuga nella legislazione eccezionale è stata troppe volte la via per apprestare alibi, per coprire inefficienze. Ed è stata pagata assai cara, perché le istituzioni hanno presentato una inutile faccia feroce, mentre tardavano nel mettere a punto le adeguate misure organizzative. Scrivere una norma è facile. Ben più arduo, ma indispensabile, è proprio predisporre strutture in grado di fronteggiare tempi mutati e difficili.
Il ministro dell´Interno, Maroni è apparso dimentico di tutto questo, preso da una voglia di fare che lo ha spinto a formulare proposte che, una volta di più, dimostrano quanto sia debole nell´attuale ceto di Governo la cultura della Costituzione. Rivelatrice è quella che vuole introdurre l´obbligo per gli organizzatori dei cortei di fornire una garanzia economica per risarcire gli eventuali danni arrecati da chi scende in piazza. Lasciamo da parte le enormi difficoltà tecniche e pratiche di una garanzia del genere (ma chi diavolo sono i consiglieri dei nostri governanti?). Consideriamo l´incidenza che essa avrebbe su uno dei diritti politici fondamentali, quello di manifestare in pubblico. Certo, questo deve avvenire "pacificamente e senza armi", come vuole l´articolo 17 della Costituzione.
Ma è arbitrario aggiungere a queste parole la formula "e avendo adeguata capacità patrimoniale". Un diritto fondamentale della persona diverrebbe così appannaggio di chi può pagarselo. Stiamo per tornare ai tempi della cittadinanza censitaria? Mai incostituzionalità è apparsa tanto clamorosa.
Vi è poi un bricolage di altre proposte specifiche, saltando dall´arresto in flagranza differita, a nuovi reati associativi, all´estensione ai manifestanti delle misure previste per i violenti nelle manifestazioni sportive (Daspo). Misure che dimostrano casualità e improvvisazione, proprio quando sarebbero stati necessari freddezza e rigore. Mi limito qui a ricordare la fatica con la quale la Corte costituzionale ha salvato il Daspo, e la possibilità di ritrovare nel fin troppo ricco armamentario penalistico indicazioni per qualificare i comportamenti violenti in modo tale da renderli concretamente perseguibili, senza tuttavia entrare nel territorio minato del "tipo d´autore", per cui si rischia di trasformare il fatto di manifestare in comportamento criminoso.
La democrazia, dovremmo saperlo, è un regime difficile, dove la stessa salvezza della Repubblica non può mai essere pagata con il sacrificio di diritti fondamentali. Ma proprio qui sta la sua forza profonda, perché può opporre la sua fiducia nella libertà anche a chi la nega. E così può sfuggire alla trappola nella quale i violenti vorrebbero chiuderla: obbligarla a negare se stessa, per divenire in tal modo più agevolmente attaccabile. Questo è il garantismo dei tempi difficili, votato alla difesa dei principi e non strumentalizzato per la difesa di interessi personali.
Insieme alla violenza che ha sfigurato il grande, pacifico corteo del 15 Ottobre, è scattato il timer del "partito della paura", ha ripreso quota la voglia di leggi speciali (il ministro Maroni), è resuscitata la legge Reale (Antonio Di Pietro). Fino al divieto opposto alla Fiom di svolgere, il 21 di ottobre, il suo corteo. E' il day-after dell'incendio romano, l'annuncio del più classico deja-vu: la spirale violenza-repressione.
Sui gravi incidenti di Roma pesa ora l'arretramento del confronto politico. Non si sa fino a che punto saranno colpiti i responsabili della rovinosa guerriglia urbana, ma si vede già quel che rischia di rovesciarsi contro un'opposizione, reticolare e popolare, faticosamente costruita negli ultimi anni con il precipitare della crisi economica. Negare il corteo alla Fiom è un pessimo segnale. La parte più combattiva del sindacato metalmeccanico, capace di svelare il gioco di Marchionne, interessata a connettersi con esperienze sociali molto diverse non ha il permesso di sfilare per le strade della capitale. Impensabile fino a ieri.
L'attenzione generale si è concentrata, come un fulmine, sull'ipotesi di nuove leggi di ordine pubblico e nessuno più cita le ragioni che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di persone, certamente più rappresentative (anche elettoralmente) delle urgenze e delle speranze del paese di quanto ormai non lo siano i nostri rappresentanti in parlamento. Né il governo, né l'opposizione si sono dimostrate in grado di dare risposte (nel caso del centrodestra), o di interpretare le domande (sul versante del centrosinistra) di un disagio crescente. E la caccia al black-bloc suona come un insperato, insuperabile strumento di distrazione di massa.
I dati testimoniati ieri dalla ricerca della Caritas (più di 8 milioni di poveri e un aumento del 20 per cento tra i giovani sotto i 35 anni), o le ragioni della manifestazione annunciata per oggi dagli agenti di polizia (una colletta per i soldi della benzina) sono le due facce dello sfascio italiano, parlano del filo sottile sul quale sta ancora in equilibrio la convivenza civile. L'aggravamento della crisi, le misure della prossima manovra finanziaria, la probabile campagna elettorale accentuano e autorizzano la preoccupazione di una tenuta democratica.
Del resto il crescente distacco tra il protagonismo della società e la sorda tracotanza della classe dirigente (governativa e imprenditoriale) può accelerare il prosciugamento anche del residuo patrimonio di impegno e di speranza nel cambiamento del nostro disastrato paese. Che ancora civilmente sopporta di essere rappresentato da un simile presidente del consiglio. L'ultima immagine ce lo mostra mentre spiega, parlando con il faccendiere Lavitola, come andrebbe raddrizzata la situazione politica: portare milioni di persone in piazza, far fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediare il giornale nemico. Il programma del black-bloc di palazzo Chigi chiarisce bene perché l'anomalia italiana può anche degenerare nello sfascismo generale.
Nelle ultime settimane, a partire dalla tribuna dell’assemblea regionale di Confindustria, e successivamente dalle pagine di molti giornali toscani, è stato più volte utilizzato lo slogan dell’”ambientalismo in cachemire che blocca lo sviluppo”. Lo slogan è curioso, e farebbe quasi sorridere, oggi che il cachemire si vende anche all’Ipercoop e nel mercato dell’usato: dunque la cittadinanza attiva sulle questioni ambientali, che è piuttosto ampia e trasversale rispetto alle classi di reddito, veste comunque in cachemire.
In realtà non si può affatto sorriderne, perché esso sembra sottendere da parte di chi lo usa, oltre all’offesa o alla ridicolizzazione pubblica quale strumento per evitare di entrare nel merito delle questioni poste, l’equazione fra ambientalisti e percettori di rendite. Fra questi ultimi vi sarebbero anche i professori universitari, il cui stipendio in realtà dagli anni ’50 a oggi si è ridotto in termini reali svariate volte, scivolando ai minimi della dirigenza pubblica (per tacere di quella privata). Soggetti dunque cui negare il diritto di parola rispetto a progetti che promettono (nelle dichiarazioni di chi li propone) di produrre reddito.
L’esperienza maturata in questi anni evidenzia invece come siano proprio gli attori sociali, spesso fortemente compositi, che si attivano in prima persona per difendere la qualità dei luoghi in cui vivono, a mettere in questione le diverse rendite, troppo spesso rese possibili da accordi pubblico-privato e sinistra-destra che non mettono nel conto i costi collettivi di medio e lungo periodo, ma solo i ritorni elettorali e di altro genere (come molte indagini giudiziarie evidenziano), socializzando le perdite e privatizzando i profitti. Sono gli ambientalisti a bloccare lo sviluppo, o queste rendite da vero “cachemire di lusso”?
E’ comprensibile che gli imprenditori privati presentino le loro proposte, anche quelle speculative, come le migliori possibili. Inquieta invece che rappresentanti di istituzioni pubbliche, e di partiti cosiddetti progressisti, le accolgano entusiasticamente, rilanciandole con il refrain crescita eguale occupazione, evocando in modo sinistro la non così lontana – nel tempo e nello spazio - rinuncia all’ambiente e alla salute in cambio di un salario. Occupazione peraltro sempre più precaria e sottopagata, che rischia di essere un alibi per non entrare nel merito delle politiche pubbliche in questione, sempre più subordinate alle ragioni dell’economia finanziaria che ci ha portato all’attuale crisi.
In questa fase di crisi di sistema, caratterizzata da scenari molto incerti per quanto riguarda il nostro futuro, il territorio rappresenta nelle sue diverse prestazioni un bene collettivo assolutamente fondamentale. Chi toglie legittimità a quanti chiedono di comprendere chiaramente il saldo tra guadagni privati e interesse collettivo nelle operazioni di trasformazione del territorio, e di rinnovare così la politica nell’accezione autentica di cura del bene comune, apre la strada a una poco oculata svendita sia del territorio che della politica.
L’Autrice è assessore all’Urbanistica, territorio e paesaggio della Regione Toscana
È necessario un processo costituente per immaginare la società dei beni comuni e sovvertire l'ordine costituito fondato sulla crescita capitalistica. E per scalzare sia la proprietà privata che la sovranità statuale
Un linguaggio nuovo è ciò che riduce ad unità le battaglie politiche di dimensione globale per i beni comuni che oggi si ritrovano in piazza. In Italia di queste battaglie e della produzione di questo linguaggio il manifesto è stato in questi anni protagonista, fino ad essere riconosciuto esso stesso come un bene comune. Queste battaglie, dall'acqua all'Università, dal Valle di Roma al no Tav della Val Susa, dall'opposizione ai Cie ai Gruppi azione risveglio di Catania, sono declinate in modo diverso nei diversi contesti, ma fanno parte di uno stesso decisivo processo costituente. Muta la tattica ed il suo rapporto con la legalità costituita. Resta costante la strategia costituente che immagina la società dei beni comuni. Ovunque si confrontano paradigmi che travolgono la stessa distinzione fra destra e sinistra, consentendo vittorie clamorose come quella referendaria su acqua e nucleare. Il paradigma costituito fondato su un'idea darwinista del mondo che fa della crescita e della concorrenza fra individui o comunità gerarchiche (corporation o Stati) l'essenza del reale. La visione opposta, fondata su un'idea ecologica, comunitaria solidaristica e qualitativa dello sviluppo, può trasformarsi in diritto soltanto con un nuovo processo costituente, capace di liberarsi del positivismo scientifico, politico e giuridico che caratterizza l'ordine costituito da cinque secoli a sostegno del capitalismo che ancora colonizza le menti e i linguaggi. Il modello costituito è sostenuto dalla retorica sullo sviluppo e sui modi di uscita dalla crisi, che i media capitalistici continuano a produrre, nonostante la catastrofica situazione ecologica del nostro pianeta. L'insistenza mediatica è continua e spudorata ma progressivamente meno seducente e le forze costituenti costruiscono nella prassi quotidiana un mondo nuovo e più bello.
L'ordine giuridico costituito è radicato nell'individualismo proprietario, nella sovranità dello Stato sul territorio, e nella stessa visione antropocentrica della modernità (e dell'economia politica) fondata sull'homo oeconomicus e sul survival of the fittest. L'ordine costituente vuole riportare le leggi umane in sintonia con quelle ecologiche, secondo una visione della vita come comunità di comunità, legate fra loro in una grande rete, un network di relazioni simbiotiche e mutualistiche, in cui ciascun individuo (umano o meno che sia) non può che esistere nel quadro di rapporti e di relazioni diffuse secondo modelli di reciprocità complessa.
La visione meccanicistica e positivistica, che configura l'ordine costituito come il solo reale è denunciata nelle piazze oggi perché è responsabile di aver portato il mondo sull'orlo del baratro. Ad essa opponiamo una costituente ecologica, collocando al centro la solidarietà, la bellezza, l'immaginazione e la liberazione dal lavoro alienato. L'individuo solitario, la competizione, la meritocrazia e l'uso della tecnica a fini di sfruttamento sono smascherate oggi come l'ideologia letale che legittima la diseguaglianza e l'accumulo senza fine. Se infatti l'individuo solo in natura soccombe, la sua costruzione teorica e la sua spettacolarizzazione sono funzionali alle esigenze di breve periodo dello sfruttamento. L'individuo, reso solo, narcisistico e desideroso di consumare, trova nelle merci e nel rapporto contrattuale il proprio principale orizzonte relazionale. Una condizione umana miserabile che ancora vive della distruzione dei beni comuni e che oggi con gioia e rabbia insieme rifiutiamo.
L'emersione del linguaggio dei beni comuni e la loro riconquista va quindi compresa nell'ambito di uno scontro politico epistemologico e anche psicologico profondo fra due visioni del mondo. Uno scontro che va tradotto in una prassi politica costituente capace di far trionfare a livello globale in tempi estremamente ridotti la sola concezione scientifica compatibile con il mantenimento e l'adattamento di lungo periodo della vita sul nostro pianeta. Si tratta perciò di predisporre un'alternativa, politica e culturale, che sappia scalzare tanto la proprietà privata quanto la sovranità statuale dal ruolo di pietre angolari dell'organizzazione politica costituita. Ciò è possibile solamente mettendo al centro il comune, ossia riconoscendo la primazia della distribuzione sulla creazione di ricchezza, della qualità delle relazioni sulla quantità del capitale, della bellezza sull'osceno. Poiché gli attuali rapporti di forza fra proprietà privata (corporation) e Stato rendono quest'ultimo succube della prima, la battaglia non può limitarsi a strategie costituite. Esse possono soltanto essere tattica, ancorché talvolta vincente come ha dimostrato la battaglia referendaria condotta ex art. 75 Costituzione.
Ridefinire i confini costituzionali dello Stato e allo stesso tempo quelli del profitto e della rendita, secondo un'idea di "meno Stato, meno proprietà privata, più comune" è prassi costituente necessaria che rifiuta oggi le condizioni di realtà create dal dominio e dalla concentrazione del potere. Stiamo costruendo oggi una società ecologicamente sostenibile, coerente con le nostre attuali conoscenze sulla fenomenologia del reale.
In questo quadro teorico lottare per un'entità (acqua, università, culturale, rendita fondiaria, lavoro, informazione) come bene comune al fine del suo governo politico-ecologico è una prima radicale inversione di rotta rispetto al trend della privatizzazione e del saccheggio. Ciò tuttavia non può essere circoscritto dalle condizioni costituite che comporterebbero un ritorno del potere nelle mani di un settore pubblico burocratico, autoritario o colluso. La tattica è dunque istituzionalizzare un governo partecipato dei beni comuni capace di restituirli alle «comunità di utenti e di lavoratori» secondo il fraseggio della nostra Costituzione (art. 43), ma la strategia non può che essere costituente, per immaginare cominciando a viverlo da subito, un mondo più bello in cui i beni comuni sono goduti secondo criteri di accesso, di rispetto, di uguaglianza sostanziale, di necessità e di condivisione.