Il governatore ora apre alle modifiche "Ogni indicazioni è ben accetta". Incontro a Roma per i danni dell´alluvione con i rappresentanti del governo
La tragedia delle alluvioni che hanno devastato l´area spezzina e Genova, riapre la partita delle costruzioni vicino ai corsi d´acqua: torna in discussione il regolamento approvato nel luglio scorso dalla giunta regionale, che riduce da 10 a 3 metri la distanza minima dai corsi d´acqua entro cui è vietato edificare. A rimettere le carte in tavola è il presidente della Regione, Claudio Burlando, cui ieri il governo ha comunicato che arrivano i fondi europei attesi da due anni e mezzo e che potrà utilizzarne una parte, tra i 20 ed i 30 milioni, per i danni alluvionali. La questione delle costruzioni vicino ai corsi d´acqua è stata rilanciata in questi giorni dalle associazioni ambientaliste, WWF, Legambiente e Italia Nostra, che chiedono la revoca del regolamento, e ripresa dal consigliere regionale di Rifondazione Alessandro Benzi. Il presidente della Regione Claudio Burlando risponde: «È nostro interesse avere grande rigore per cui al consiglio regionale dico: fate una commissione, invitate le associazioni, sentitele e diteci secondo voi cosa non va bene. Se le proposte saranno ragionevoli, le prenderemo in considerazione».
Dunque, la palla passa al consiglio regionale e proprio ieri la commissione consiliare Territorio si è occupata di norme urbanistiche e permessi a costruire con una serie di audizioni con gli ordini professionali sulla legge proposta dal vicepresidente della giunta Marylin Fusco sui casi di silenzio assenso. «Queste non sono giornate di polemica ma è tempo di assumersi una responsabilità e rivedere quello che è possibile: dunque penso che vada ripensata tutta la normativa con un dibattito approfondito». Tradotto: l´esame dei provvedimenti in commissione non sarà breve.
Ma tornando alle costruzioni vicino ai corsi d´acqua, se WWF Legambiente e Italia Nostra contestano il pericolo derivante dall´aver accorciato la distanza dell´area interdetta alle costruzioni, il presidente della Regione spiega come nasce e perché la giunta ha approvato questo regolamento. «Questa proposta non proviene dai settori tipicamente accusati di voler fare, ma dall´ambiente, dalla dirigente nota per essere attenta alla tutela del territorio: ci ha spiegato che in questo modo la tutela è maggiore». Difficile, però, pensare che si possa garantire maggiormente dai rischi idraulici, restringendo da 10 a 3 metri la fascia della non edificabilità. O no? «I tecnici ci hanno invece spiegato che i dieci metri erano solo una distanza teorica, che fioccavano le deroghe e che venivano adottate dagli enti senza che la Regione le vedesse. Allora abbiamo provato a mettere un regolamento nuovo». Non era più facile prevedere che ai 10 metri non si deroga? «Il nuovo regolamento recita che non è possibile dare alcuna autorizzazione che comporti un aumento del rischio idraulico. Dopodiché, se scavi come a Rapallo, per fare il depuratore sottoterra vicino al torrente, non metti ostacoli al deflusso delle acque. Premesso questo, ripeto che se ci sono proposte ragionevoli le prenderemo in considerazione».
Burlando tra l´altro proprio ieri è stato a Roma dove, «in un clima da ultimo giorno di Bisanzio» come l´ha definito lui stesso, ha incontrato il capo della Protezione civile, Gabrielli, i ministri Fitto, Matteoli e Prestigiacomo e il sottosegretario alla presidenza del consiglio Gianni Letta. Le garanzie per il risarcimento dei danni alluvionali e per ripristinare le infrastrutture, per ora vengono dai fondi Fas: sono sbloccati i 288 milioni di euro che la Liguria aspetta da due anni e mezzo. La Regione potrà utilizzarne una quota tra i venti ed i 30 milioni per affrontare l´emergenza alluvionale. «Vedremo quanto e come - dice Burlando - valutando se in questi anni qualche progetto si è perso per strada e se ci sono delle economie», anche perché quei finanziamenti arrivano per progetti già individuati. L´altra novità riguarda l´impegno del ministero delle infrastrutture, «che attiverà un tavolo tecnico anche con Anas perché serve anche un´attività di progettazione delle strade da ricostruire: nello spezzino ci sono 250 chilometri di strade inagibili». Infine, è piaciuta l´ipotesi di mantenere l´accisa sui carburanti nata per l´emergenza Libia e utilizzarne i proventi per i danni delle alluvioni. Ma per vararlo ci vorrà una norma, sia pure un atto amministrativo e non una legge, da parte di ministeri e governo che in questi giorni sono in tutt´altro affaccendati.
Riconversione ecologica della produzione e dei consumi, democrazia economica fondata sull'autogoverno. La possibilità c'è, a patto di scardinare i diktat dei vincoli di bilancio
Prima ancora di esserne la causa - e in gran parte, ovviamente, lo è - Berlusconi è il prodotto del berlusconismo: una tabe che affligge non solo il suo entourage politico-affaristico e il suo elettorato, ma larga parte dell'establishment culturale, imprenditoriale e politico del paese (il sindaco di Firenze e il suo seguito ne sono un esempio).
E Confindustria che lo ha sostenuto fino all'altro ieri anche; e allora, di che si lamenta?). Ma gli uomini e le donne al governo dell'Europa sono anch'essi promotori e prodotto (sono prigionieri del loro elettorato; che è però quello che hanno costruito e vellicato) di un virus altrettanto grave, di cui Berlusconi non è che la manifestazione più grottesca, infame e repellente. Quel virus è il pensiero unico: la convinzione, contro ogni evidenza, che il mercato, e solo il mercato, può tirarci fuori dai guai in cui ci ha cacciati. E che per tirarci fuori dai guai, per uscire dalla crisi, occorre rilanciare la crescita: cioè sperare - e che altro, se no? - in un aumento del Pil tale da generare entrate fiscali sufficienti a pagare gli interessi e a rimborsare, un po' per volta, una parte consistente del debito pubblico. Per loro l'economia è come un'auto a cui si è imballato il motore. Basta dargli una spinta e tornerà a correre - cioè a crescere - di nuovo. Ma le cose non sono così facili; e non lo saranno mai più. E intanto, in attesa di questo miracolo, la soluzione vincente è il taglio della spesa pubblica: pensioni, sanità, scuola, trasporto pubblico, welfare municipale, pubblico impiego, salari e stipendi. E privatizzazione di tutto, contando di ricavarne le risorse necessarie a tacitare gli appetiti dei mercati, cioè di tutti coloro impegnati a produrre denaro per mezzo di denaro: banche, assicurazioni, fondi di investimento, speculatori, mafie (queste, sì, con la liquidità necessaria a fare piazza pulita di tutto quel che è in svendita: a partire dai servizi pubblici locali). Di tagliare per altre vie le unghie alla speculazione non si parla; perché quello che chiamano mercato è speculazione: senza l'una non c'è l'altro, e viceversa; simul stabunt, simul cadent. Così, invece di crescere l'economia si avvita su se stessa in una spirale che porta diritto al fallimento (default): non solo delle finanze pubbliche (a beneficio di chi le tiene in pugno), ma del sistema produttivo, della convivenza civile, dell'ambiente.
La parabola della Grecia ne è un esempio: tutti sanno - ma pochi lo dicono - che non si riprenderà più per decenni. Ma altri paesi, Italia in testa, sono già sullo stesso cammino e nessun paese dell'eurozona è più al sicuro. Per statuto la Banca centrale europea (Bce) non può fornire liquidità alle banche messe in crisi dai debiti sovrani (cioè degli Stati) che detengono: ufficialmente per non generare inflazione; in realtà per perpetuare quel blocco dei salari da cui ha avuto origine la cavalcata dei profitti degli ultimi decenni. Così, per garantire quei debiti si ricorre alla creazione di nuovi debiti in una catena senza fine (andando a chiedere l'elemosina persino in Cina) e l'Europa consegna alla finanza internazionale e alla speculazione le chiavi dell'economia: la creazione di liquidità, cioè la moneta.
Siamo alla vigilia della Cop 17, il vertice dell'Onu che a Durban (Sudafrica) dovrebbe rinnovare, estendere e approfondire gli accordi di Kyoto per ridurre in modo drastico le emissioni di gas di serra, causa dell'imminente catastrofe climatica. Scienziati di tutto il mondo ribadiscono l'urgenza di un cambio di rotta, pena la sopravvivenza stessa dell'umanità. Ma nessuno si occupa più della questione e niente evidenzia meglio l'inconsistenza e vacuità della governance europea (e di quelle del resto del mondo: tutte fautrici e insieme prigioniere del pensiero unico). Già si sa che a Durban non si concluderà niente, come niente si è concluso a Copenhagen (Cop 15) e a Cancùn (Cop 16). Se tre anni fa erano Berlusconi e la pseudo-ministra Prestigiacomo a girare l'Europa per spiegare agli altri capi di governo che certi impegni erano irrealizzabili e dannosi per l'economia, ora il loro obiettivo è raggiunto: anche se in alcuni paesi qualche passo in avanti, comunque insufficiente, è stato fatto, su questo punto, in nome della crescita, l'allineamento dell'Europa al berlusconismo è ormai completo.
C'è un'alternativa a questa spirale? Certo che c'è. E' la conversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi: la promozione di una democrazia economica fondata sull'autogoverno e un sistema produttivo decentrato, diffuso, diversificato, esperto, riterritorializzato (a chilometri zero, ovviamente dove è possibile), replicabile in tutto il mondo: tanto nei paesi di consolidata industrializzazione che in quelli emergenti e in quelli devastati da sfruttamento e globalizzazione. Una conversione che coinvolga i settori portanti della generazione e dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'alimentazione, dell'edilizia e della cura del territorio, della mobilità e della sanità; e promuova l'autogoverno dei saperi, dei servizi pubblici e dei territori, restituiti alla loro vocazione di beni comuni; e adotti consumi più sobri e meno aggressivi verso l'ambiente: non la rinuncia ascetica né la miseria a cui la finanza sta condannando il 99% della popolazione mondiale; bensì un graduale passaggio dai consumi individuali, in cui le scelte sono imposte dalla moda, dalla pubblicità, dal marketing, dagli sprechi, a un consumo condiviso, in cui gli acquisti vengono effettuati, nel rispetto degli orientamenti di ciascuno, attraverso processi partecipati come quelli dei gruppi di acquisto solidale (Gas). E con dei veri tagli alle spese viziose: che non sono la pensione dopo quarant'anni di lavoro in fonderia, e nemmeno il prepensionamento di uomini e donne nel pieno del loro vigore cacciati dalle aziende e senza alternative; ma le spese militari, l'evasione fiscale, le grandi opere inutili e dannose, la corruzione, i costi dei politici (dei politici, non della politica: quella vera non costa quasi niente). Solo nella prospettiva di una conversione ecologica le risorse che si ricavano da tagli del genere non verranno sprecate; evitando soprattutto di pagare un servizio del debito (in Italia oltre 100 miliardi di euro all'anno) che non può che affondare il paese. Non è il vagheggiamento di una società ideale, ma un programma che risponde a un elementare senso di giustizia in un processo fatto di conflitti, di partecipazione e di organizzazione delle forze necessarie per imporre soluzioni innovative e condivise: a partire dalle situazioni di crisi occupazionale che non hanno prospettive se non nella riconversione produttiva; e dal condizionamento dei governi locali, per risalire di lì ai governi nazionali e alle governance europee e mondiali.
Ma dove sono mai le forze per imboccare una strada del genere? Quelle forze hanno fatto una comparsa a livello globale nella giornata del 15 ottobre, trascinate dall'indignazione nei confronti del modo in cui vengono governate, dalla volontà di valorizzare l'energia e l'intelligenza di una generazione messa ai margini dai poteri della finanza, dalla determinazione a non pagare i costi della crisi e i debiti contratti dagli establishment politici e finanziari al potere. Il segnale è partito dalla Spagna e le parole più chiare sono state dette a New York; ma la manifestazione più numerosa e dalla composizione più variegata di questo movimento in marcia è stata quella di Roma, dove si sono ritrovati, per la prima volta insieme, associazioni, movimenti, comitati, sindacati e persone (dai No Tav agli occupanti del Teatro Valle, dalla Fiom ai Cobas, dal Forum per l'acqua al movimento degli studenti) che da anni lavorano con tenacia a promuovere progetti e rivendicazioni tra loro diversi ma convergenti; e non è valsa a offuscarne il significato la messa in scena di una aggressività vacua e violenta.
Una cosa emerge ormai con chiarezza: entro i vincoli di bilancio imposti dalla Bce a Grecia, Italia (quelli esplicitati dalla lettera con cui Draghi e Trichet hanno definito il programma di questo come di ogni prossimo governo) e in tutta l'Europa non c'è posto né per la politica, né per la proposta, né per l'alternativa. C'è posto solo per l'obbedienza, la rinuncia, il servilismo mascherato da buon senso di tanti columnist, e una spirale che porta direttamente al default; dopo aver però devastato occupazione, redditi, convivenza civile, tessuto produttivo e ambiente. La strada stretta della conversione ecologica passa allora attraverso lo scardinamento di questo diktat ed è a senso unico.
La crisi in corso, con il salvataggio delle banche too big to fail (troppo grandi per fallire) ci fa capire quanta forza hanno in realtà i debitori. E' la condizione in cui si trova oggi il nostro paese: la sua insolvenza trascinerebbe nello stesso gorgo, insieme all'euro, tutta la costruzione dell'Unione europea e le economie sia deboli che "forti" di tutti gli altri paesi. Ci sono dunque le condizioni per imporre una ristrutturazione radicale e selettiva del debito pubblico italiano attraverso un negoziato condotto insieme ai paesi cosiddetti Pigs, tutti esposti alla stessa deriva. Cominciando così a sgonfiare la bolla del debito che dai mutui subprime alle banche e agli hedge fund, e da quelle agli Stati che le hanno salvate, e dagli Stati di nuovo alle banche e poi di nuovo agli Stati, continua e continuerà ad aleggiare sul continente, sconvolgendone tutto il sistema produttivo; e buttando a terra uno a uno come tanti birilli tutti gli Stati dell'Unione.
Non sarà l'attuale governo - né il prossimo - ad avviare un negoziato del genere; ma questo è il discrimine intorno a cui raccogliere e ricostruire un'autentica forza di opposizione. Anche per salvare l'euro; e l'Europa che vogliamo.
Per essere un maximendamento che dovrebbe far crescere l'economia, bisogna ammettere che è stato fatto lo sforzo diametralmente opposto. La parola più usata nel testo è infatti «riduzione». Dalle spese dei singoli ministeri, a quelle degli enti locali e dei dipendenti pubblici. Definitivo l'intervento sulle pensioni, dove si fissa per la vecchiaia l'età minima di 67 anni. Nuovi tagli agli enti locali, che dovranno vendere «obbligatoriamente» tutte le quote detenute nelle società che gestiscono servizi pubblici: se non lo faranno potranno essere rimossi dal loro incarico. Per essere un maxiemendamento che dovrebbe far «crescere» l'economia bisogna ammettere che è stato fatto lo sforzo diametralmente opposto. La parola più usata nel testo è infatti «riduzione». Delle spese dei singoli ministeri, di quelle degli enti locali di ogni ordine e grado, dei dipendenti pubblici. L'elenco appare quasi sterminato.
C'è il nuovo intervento «definitivo» sulle pensioni, che fissa per la vecchiaia l'età minima di 67 anni. Tutti meccanismi di «adeguamento» dell'età pensionabile alle «aspettative di vita» vengono accelerati in modo tale da portare tutti a questo limite entro il 2026. Proprio il tema su cui Bossi e la Lega avevano dichiarato una propagandistica «linea del Piave».
Nulla di nuovo nemmeno per quanto riguarda la dismissione degli immobili pubblici non residenziali, da «conferire a fondi comuni di investimento immobiliare» o società private «anche di nuova costituzione». L'incasso servirà a ridurre il debito pubblico e si punta a ricavare 4,8 miliardi. Stessa procedura per i terreni agricoli - anche delle «aree protette» - del demanio, che potranno essere ceduti a trattativa privata fino a 400.000 euro di valore (poi scatta l'obbligo di asta pubblica). Con il più la norma-belletto della «corsia preferenziale» riservata ai «giovani imprenditori agricoli».
Gli enti locali vengono aggrediti su più lati. Debbono ovviamente «contribuire a ridurre il debito pubblico», e quindi si tagliano ai loro bilanci altri trasferimenti (745milioni nel 2012, 1,6 miliardi l'anno successivo). Ma debbono anche vendere obbligatoriamente tutte le quote detenute nelle società che gestiscono servizi pubblici. Per «convincerli» vengono utilizzati diversi strumenti. Per esempio, si tagliano 926 milioni al «sostegno di sviluppo del trasporto». Ma si dispone anche la «liberalizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica» (come nel vecchio decreto) con un'aggiunta. Se non lo faranno entro i termini stabiliti (31 marzo 2012 per gli «affidamenti diretti», entro il 30 giugno per le società miste), i prefetti avranno il potere di fissare un «termine perentorio» entro il quale eseguire l'ordine. Trascorso il quale li rimuoveranno dalla carica commissariando l'ente locale. Ciò vale - tranne che per l'acqua - anche per tutti quei servizi che ricadono tra gli effetti del referendum dello scorso giugno. In questo modo, insomma, si eliminano le «possibilità di resistenza» dei tanti sindaci che puntavano a ricorrere in tribunale contro queste disposizioni.
Confermata anche la riforma degli «ordini professionali», la «semplificazione dei pagamenti» da parte delle amministrazioni pubbliche verso fornitori o appaltisti. E nello stesso spirito si muove la «riduzione degli oneri amministrativi per imprese e cittadini»; ovvero le «zone a burocrazia zero», dove è permesso praticamente di tutto se gli organi di controllo (comuni, ecc) non rispondono alle richieste entro un determinato tempo. Ivi compresa la necessità di presentare «certificati», dando per scontato che l'amministrazione pubblica li possa acquisire per vie interne.
Amministrazione che però viene completamente ridisegnata con la possibilità di mettere in «mobilità» il personale in eccesso. Dovranno farlo per forza, perché anche qui i dirigenti inadempienti rischiano grosso. Fatta la «comunicazione» ai sindacati, si provedde a ricollocarli in altra sede, anche in altra regione. Dopo tre mesi vengono messi in «disponibilità» con stipendio ridotto del 20% e senza tener conto di «altri emolumenti comunque denominati» (che costituiscono quasi sempre una componente elevata della retribuzione finale). Dopo due anni, se non si trova o non si accetta un altra sede, si è fuori.
Confermata infine, tra le tante cose che non c'è stato il tempo di studiare, anche la definizione della Val di Susa come «area di interesse strategico nazionale». Entrarci «abusivamente» e «impedire o ostacolare l'accesso autorizzato» (ai mezzi e alle persone che vi devono lavorare) «è punito ai sensi dell'art. 682 del codice penale» («contravvenzioni concernenti l'inosservanza dei provvedimenti di polizia e le manifestazioni sediziose e pericolose»). A quanto pare, l'unica «crescita» possibile con un decreto del genere è quella dei processi in tribunale...
Ci sono due scene, nel fine regno di Berlusconi, che dicono la sua caduta con crudezza inaudita: più ancora del voto del rendiconto dello Stato che ha attestato, ieri, lo svanire della maggioranza.
Ambedue le scene avvengono fuori Italia, trasmesse dal mezzo che Berlusconi per decenni ha brandito come scettro: la tv. La prima è il riso di Sarkozy e Merkel, quando una giornalista chiede se Roma sia affidabile. È l´equivalente del lancio di monete su Craxi: un´uccisione politica.
La seconda scena è del 4 novembre, dopo il G20 a Cannes, e forse è quella che parla di più. Con volto tirato, stupito, il Premier ripete che di crisi non c´è traccia, che «per una moda passeggera» i mercati s´avventano sul nostro debito sovrano: «Noi siamo veramente un´economia forte, la terza economia europea, la settima economia del mondo... la vita in Italia è la vita di un Paese benestante, in tutte le occasioni questo si dimostra... i consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, con fatica si riesce a prenotare posti negli aerei, i posti di vacanza nei ponti sono assolutamente iperprenotati... ecco, non credo che voi vi accorgiate, andando a vivere in Italia, che l´Italia senta un qualche cosa che possa assomigliare a una forte crisi! Non mi sembra!»
Vale la pena soffermarsi su questa frase - su questo «non credo», «non mi sembra» - perché in pochi secondi apprendiamo quel che è stato, ed è, il berlusconismo: l´apparenza che usurpa il reale, e il vocabolario di tale usurpazione. Non è il linguaggio della politica, che anche quando s´ingarbuglia s´adatta astuto alle circostanze. Non è neanche il linguaggio di una classe: in questo caso, di un imprenditore sceso in politica perché messo alle strette dalla giustizia. È il linguaggio dello spot promozionale: insistente, sempre eguale a se stesso, sempre indirizzato al cittadino che di politica non vuol sapere, sempre pronto ad annusare il possibile cliente in chi sta appeso alla Tv.
Per il pubblicitario non c´è crisi, non ci sono precipizi, ma un mondo liscio, parallelo a quello - reale - che sta «là fuori». Nei disastri il pubblicitario c´è o non c´è a seconda delle convenienze: iper-presente all´Aquila, iper-latente in Liguria e a Genova. In pieno sfascio economico la réclame non smetterà di esibire sontuosi sofà, mogli che corrono ai centri benessere, lussuose automobili che una giovane coppia, piccata, non compra perché le ritiene, nientemeno, «troppo poco care». Ecco, il quasi ventennio Berlusconi è stato questo: uno show che dominava le menti anche se sporadicamente governava la sinistra. Un Truman Show, che alla fine beve il cervello stesso del suo demiurgo.
Ricordate il finale del film? È il risveglio che Eugenio Scalfari invoca nell´articolo di domenica. Truman, l´eroe in fuga, giunge ai limiti estremi di quello che crede essere il mondo ed è invece un immenso studio Tv. Col proprio veliero cozza contro una parete che s´erge all´orizzonte e simula, tutta dipinta d´azzurro, il cielo ai confini con le acque (lo spazio azzurro dei fan di Berlusconi, nel sito Pdl). Dalla cabina di regia è interpellato dal capo della Grande Manipolazione, Christof, e Truman che ha scoperto la verità gli chiede: «E io chi sono?» - «Tu sei la star» - «Non c´era niente di vero...» - «Tu, eri vero. Per questo era così bello guardarti. Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta ne esista nel mondo che ho creato per te: le stesse ipocrisie, gli stessi inganni, ma nel mio mondo, tu non hai niente da temere... Io ti conosco meglio di te stesso. Tu hai paura. Per questo non puoi andar via». La sfera di cristallo s´infrange quando Truman scoppia a ridere, recita la frase-spot che ripeteva nel finto villaggio, e esce dallo show: «Caso mai non vi rivedessi... Buon pomeriggio, buona sera e buona notte! Già..».
Accade così il risveglio ma non sarà facile, perché quasi tutti hanno concorso alla costruzione della sfera con nuvole, notti, cieli finti. Perché tanti si sono abituati alle frasi-spot, all´infantile ecolalia. Anche la sinistra ha concorso, fin da quando permise che un proprietario di reti tv si candidasse a premier. Non dimentichiamo come finirono i governi Prodi, affossati da chi pretendeva sostenerli e parve ignaro che il tycoon perdeva magari il governo ma non il potere. L´ultimo esecutivo di sinistra, nel 2006-2008, fu considerato fallimentare dagli stessi alleati di Prodi perché troppo rigoroso in economia, troppo preoccupato di sincronizzare i tempi italiani con l´orologio europeo. Chi nomina ancora in pubblico Vincenzo Visco, dipinto dalla destra come Dracula assetato di sangue perché in lotta con l´evasione fiscale? Eppure Tremonti ha dovuto riesumare non poche sue misure: oggi l´evasore è ritratto come insetto parassita, parola che Visco non usò.
L´altro giorno, intervistato da Lilli Gruber a 8½, Enrico Letta è stato evasivo sull´austerità. Senza Berlusconi, ha detto, noi «non abbiamo davanti un tempo di drammi quanto alle misure da prendere. L´Italia è un Paese che ha fondamentali assolutamente solidi, forti. Ha imprenditori, ha lavoratori, ha ricchezze, ha patrimoni. L´Italia ha tante, tante, tante possibilità di farcela! Noi non siamo la Grecia! Siamo proprietari delle nostre case, proprietari in buona parte del nostro debito pubblico. L´Italia ha la ricchezza!» Che dovremo fare, caduto questo governo? Ci salveremo «facendo scelte che indichino la terra promessa. Perché ci sono una serie di importanti riforme che non sono fatte solo per sacrificarsi: ma per cambiare ed essere migliori!» Tutto questo è vago, e non così diverso, in fondo, da quanto detto dal Premier a Cannes. Perfino certi suoi tic verbali sono ripresi: l´ubiquo avverbio "assolutamente", o le infantilizzanti parole a raffica (tante tante tante possibilità, riecheggianti la grande grande grande riforma giudiziaria). Non è vero quello che si legge in queste ore: «Berlusconi non esiste».
Centro e sinistre si stanno dimostrando responsabili, ma non è evidente che abbiano, della crisi, una visione davvero chiara. Che siano pronti ad affrontare il tema destinato per volontà del Premier a sovrastare la campagna elettorale: l´Europa. Nell´attacco il centrosinistra è bravo. Molto meno nel contrattacco. Continuerà a denunciare il commissariamento, o lavorerà su misure più eque ma per noi necessarie? E come replicherà allo spot di Berlusconi, secondo cui è colpa dell´euro se stiamo male? Possibile che nessuno gli ricordi che al governo c´era lui, quando l´euro fu introdotto nel 2002 e i prezzi s´impennarono senza trasparenza né controllo alcuno? Dovrebbe far riflettere il fatto che il dibattito interno al Pd, o la battaglia europea su una vera Banca centrale, prestatrice di ultima istanza, avvengano soprattutto sul Foglio.
Uscire dal Truman Show significa rifare le istituzioni italiane, oggi sfatte. Non è chiaro se la sinistra darà alla Rai l´indipendenza dai partiti che possiede la Bbc. Se lotterà in Europa per trasformarla in qualcosa di più democratico e sovranazionale. Se riempirà di contenuti i discorsi sull´etica pubblica, combattendo corruzione, cricche, mafie. Se vorrà la legge elettorale reclamata dai cittadini, e candiderà parlamentari debitori verso gli elettori, non i partiti. Se contrasterà l´inadeguatezza e i fallimenti della seconda repubblica senza proporre tutti i mali della prima. Promettono male, i posti nelle liste di centro sinistra garantiti ai transfughi Pdl.
Non so cosa intendesse Prodi, quando domenica su Repubblica ha detto che «Bersani è una persona eccellente, di grandi capacità, ma non riesce a "uscire"». A me pare che parlasse di un´uscita dal deserto del reale: dal Truman Show. Berlusconi scimmiotta Mao: «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente». Siamo sicuri che non lo scimmiotti anche la sinistra? I sogni utopici, dice Slavoj Žižek, eliminano il "rumore di fondo": cioè la realtà. Siamo sicuri che questo rumore sapremo udirlo, capirlo, restituirgli uno spazio?
L'inedita convergenza tra un gruppo di giuristi e associazioni militanti ha posto le basi in Italia di un movimento maggioritario, che non ha però ancora una traduzione politica. Da qui la proposta dei due autori per alcune iniziative referendarie tese a ricreare quella felice alleanza sociale per contrastare la violenta campagna denigratoria avviata dai poteri forti per normalizzare il paese
Sebbene sia stata rapidamente archiviata, la proposta del leader socialista e ex premier greco Georges Papandreou di un referendum attorno alle proposte dell'Unione europea per fronteggiare la crisi del paese ellinico offre una preziosa occasione per riflettere sul senso e sul futuro della battaglia per i beni comuni, divenuta politicamente rilevante in Italia dopo l'esito dei referendum per l'acqua pubblica e il nucleare.
Il linguaggio nuovo dei beni comuni, l'impegno politico di tantissimi uomini e donne attorno alla gestione dei beni comuni ha portato a un voto popolare che ha mostrato le potenzialità di una nuova egemonia culturale e politica nel paese, con una base sociale trasversale che supera la tradizionale contrapposizione fra destra e sinistra; e che rende la costruzione di una «società dei beni comuni» una sfida entusiasmante e possibile, perché riesce a cogliere la tendenza, ampiamente diffusa nel paese, che ha nel rifiuto delle delega al sistema politico uno dei tratti più evidenti. Sono inoltre uomini e donne che sfuggono alla melodia stonata delle sirene dell'antipolitica, ponendosi allo stesso tempo l'obiettivo di costituire laboratori tesi alla individuazione di soluzioni ai disastri sociali prodotti dal neoliberismo.
Indignazione alle stelle
Il paragone non risulti irriverente, ma così come sul finire degli anni Settanta del Novecento è stata la destra economica e politica a rispondere ai problemi posti dalla crisi petrolifera attraverso la produzione di una ideologia e una piattaforma culturale preparata da accademici reazionari come Milton Friedman, Friedrich Von Hayek e Ludvig Von Mises, l'operazione da compiere oggi è la stessa, ma di segno contrario. Infatti, di fronte a una crisi economica ben più drammatica, l'obiettivo è di sviluppare una griglia concettuale e una weltanschauung incardinata proprio sui «beni comuni» e che ha tutte le capacità per neutralizzare la naturalizzazione bipartisan del neoliberismo, proposta, sul piano globale, da Bill Clinton e Tony Blair; dai «governi tecnici», invece, a livello italiano. Va dunque fatto tesoro di quanto è accaduto nella cosiddetta «primavera italiana».
In giugno, infatti, oltre all'intero elettorato dell'opposizione parlamentare, una parte rilevante dell'elettorato cattolico conservatore e della Lega Nord ha votato a favore dei due referendum, producendo nelle urne una promettente alleanza fra componenti della borghesia «per bene» e la sinistra radicale. E sempre nelle urne questa alleanza ha garantito il successo di Luigi De Magistris e Giuliano Pisapia nelle elezioni amministrative.
L'esito dei referendum e delle elezioni amministrative era impensabile data la rappresentazione che era fatta dai media rispetto i rapporti di forza nella società e nell'arena politica. Va ricordato che due anni fa veniva approvato, con un voto di fiducia alla Camera, il Decreto Ronchi per la gestione dell'acqua. Tutto quanto infatti deponeva a favore di un'accettazione rassegnata del decreto Ronchi, alla luce anche della «presa in giro» avvenuta nella sala Nassirya, dove ad accogliere Giovanni Conso e Stefano Rodotà, relatori autorevoli della proposta di legge sull'acqua pubblica presentata dalla regione Piemonte (che non è stata ancora discussa), c'erano senatori di ogni schieramento politico. Poche ore dopo, nello stesso giorno, la Camera ha però votato lo stesso la fiducia sul decreto Ronchi. È in quel contesto che è avvenuto un «moto di indignazione» che ha portato un gruppo di giuristi, compresi quelli che scrivono, a redigere, per conto del Forum dei movimenti per l'acqua, i quesiti referendari sull'acqua bene comune e a istituire il Comitato referendario SIacquapubblica, assorbito da una produttiva dialettica politica fra accademia e movimenti sociali che si è espressa nella mobilitazione per la raccolta delle firme per il referendum.
I successivi mesi di lavoro politico e giuridico, con il record nelle firme raccolte e l'insperata dimensione del successo in Corte Costituzionale, hanno segnato l'inizio di un entusiasmante processo politico nel paese capace di utilizzare un linguaggio nuovo che chiedeva di cessare immediatamente il saccheggio dei beni comuni e di «invertire la rotta» per porre le basi di un «governo democratico dell'economia» radicalmente alternativo alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni, parole chiave del dogma che ha regolato le politiche economiche in molti paesi europei e non solo.
I referendum di giugno possono quindi essere considerati l'anticipato equivalente funzionale della proposta referenderia in Grecia. In Italia, come ad Atene nei giorni scorsi, era il popolo sovrano, e non soltanto l'accademia o una commissione ministeriale come quella presieduta da Rodotà, a dover esprimersi contro le politiche di austerità e il saccheggio dei beni comuni.
Un bilancio eversivo
L'esito dei referendum è noto a tutti. Minore attenzione è stata posta sul dispositivo messo in campo per contrastare quella straordinaia produzione di egemonia in un paese importante come l'Italia. La lettera firmata da Trichet e Draghi così come la manovra di Ferragosto (puntualmente impugnata in Corte Costituzionale) altro non sono che il tentativo di imporre, con una modalità per certi versi eversiva dell'ordine costituito, un governo tecnico o un governo del presidente che rilanciasse politiche di austerità e che cancellasse l'esisto del referendum. La critica contro l'articolo 41 della Costituzione - quello che stabilisce la libertà di iniziativa economica, sempre che non sia in contrasto con la sua utilità sociale, prefigurando così forme di controllo su di essa - e la campagna per la costituzionalizzazione della golden rule (il pareggio di bilancio) costituiscono infatti vere e proprie campagne per ridimensionare la portata politica del tema dei beni comuni.
Anche in questo caso, se il parallelo non fosse troppo irriverente, l'attacco all'articolo 41 e la costituzionalizzazione della golden rule possono essere comunque considerati un vero e proprio processo costituente messo in campo dai poteri forti per normalizzare la stituazione italiana. La risposta deve dunque essere adeguata, ma anche questa volta di segno contrario. Serve cioè un nuovo momento costituente di popolo per porre al centro della scena pubblica la questione democratica e dei beni comuni. Non è però una strada in discesa. Né un pranzo di gala, come attesta la campagna diffamatoria, e bipartisan, contro il movimento NoTav. D'altronde la posta in gioco è alta e riguarda la traduzione politica di questo nuovo blocco sociale egemonico nel paese.
Ci sono già alcune iniziative che indicano la strada da percorrere. A Napoli, la costituzione di Abc Napoli e l'assessorato ai Beni Comuni è un primo passo per mostrare come si possa rispettare la volontà popolare e, al tempo stesso, di come possano essere meglio gestiti senza scopo di lucro i servizi pubblici di quanto non faccia il privato azionario (o il pubblico colluso). A Roma il Teatro Valle occupato da quasi cinque mesi mostra un metodo dal basso, fondato sull'azione diretta e la democrazia radicale, di come la cultura possa essere pensata un bene comune. In Valle di Susa un'intera popolazione si batte per la salvezza del bene comune territorio. Sono, queste, solo alcune delle iniziative attorno ai beni comuni che hanno messo radici in Italia.
Oggi la partita per il modo e le circostanze che potrebbero rendere traducibile la nuova egemonia in rappresentanza politica è aperta e la violenza verbale utilizzata contro la battaglia dei beni comuni da qualche giornalista (Pietro Ostellino sul Corriere della Sera di sabato scorso) mostra che i poteri forti hanno paura della democrazia in Italia in nome della difesa dei «mercati».
La battaglia per i beni comuni deve infine mostrare la capacità di prefiguare una rifondazione di un settore pubblico forte, autorevole e trasparente, capace di contrapporre una visione alta, prodotta in rapporto con le migliori intelligenze del paese, alla visione asfittica e di breve periodo dei poteri forti europei e dei loro garanti nazionali.
Tutto ciò pone con altrettanta evidenza la centralità dei mezzi necessari affinché la battaglia in difesa dei beni comuni risulti vincente. Nonostante la proposta sia stata ritirata, il referendum greco (e prima ancora quello islandese) è da considerare uno strumento adeguato per restituire la sovranità al popolo: quella stessa sovranità che l'Unione europea pensa essere un attentato alla stabilità economica e politica del vecchio continente. Occorre a questo fine costruire le condizioni per creare un grande movimento politico e sociale che non lasci, ad esempio, sola la Fiom nella battaglia referendaria già decisa sull'articolo 8 della manovra di Ferragosto. In altri termini, dobbiamo elaborare un pacchetto di referendum altamente simbolici sui beni comuni, accomunati tuttavia dalla stessa visione politica
Appagante parsimonia
Innanzitutto una serie di referendum legati alla cultura bene comune che fra loro condividano lo spirito del Teatro Valle occupato; uno contro l'Università azienda; uno contro la la Rai lottizzata e piegata alla volontà partitocratica; uno contro un'editoria che vuole condannare al silenzio voci libere e critiche. Identificheremo poi un referendum legato alla questione difesa, che consenta di ribadire ai troppi che se ne sono scordati, che l'Italia ripudia la guerra e che molti soldi si possono risparmiare facendolo; infine uno o più quesiti che vadano ai gangli vitali della naturalizzazione economica del neoliberismo in Italia.
Su questo ultimo aspetto, le proposte non possono che riguardare le misure sulle liberalizzazione definite negli anni Novanta che, con la scusa di entrare o restare in Europa, hanno trasferito a poche oligarchie risorse ingentissime che appartengono a tutti noi e che oggi andrebbero utilizzate con onestà e la parsimonia necessaria nella cura dei beni comuni. Per questo, vanno studiati quesiti contro la trasformazione della Cassa depositi e prestiti in società per azioni. Allo stesso tempo vanno elaborate proposte affinché le fondazioni bancarie, da ritenere anch'esse un bene comune, non possono diventare imprese da mettere sui mercati finanziari.
Tutto questo per dire che la posta in gioco è alta. Per questo, la convergenza tra diritto e azione politica di movimento è una delle scommesse su cui puntare per un'emergenza economica ed ecologica mai prima ad ora così drammatica.
Non si parla che di riforme. Ogni misura di politica economica è annunciata come una riforma anche quando si tratta di normale amministrazione. Il termine si è inflazionato. Riforme dovrebbero essere quelle che cambiano la struttura di un sistema, non quelle che ne modificano i parametri, come l´età pensionabile o il livello della contrattazione salariale. L´accento sulle cosiddette riforme è posto tutto sulla contrazione dei costi e in particolare di quelli del lavoro: decentramento dei livelli di contrattazione, flessibilità dei contratti (per non dire licenziamenti), mobilità del lavoro, ecc... E non si parla d´altro che di liberalizzazioni, privatizzazioni, semplificazioni e riduzione del peso della burocrazia.
Ora non c´è dubbio che interventi di modernizzazione e di razionalizzazione siano opportuni. Ma è assai dubbio che si traducano in un forte stimolo alla crescita nel tempo breve, anzi brevissimo, di cui disponiamo. Perché il passo fondamentale per avviare un ciclo di crescita robusto e duraturo non può che consistere nell´espansione della domanda aggregata la quale, oltre a trainare la ripresa dell´occupazione, avrebbe un effetto benefico sul gettito fiscale e quindi sulla tenuta dei conti pubblici e sulla fiducia dei mercati.
La questione fondamentale per suscitare la crescita, dunque, è la "domanda". Ma come attivarla? Uno dei pilastri per ottenere un´espansione della domanda è rappresentato da un piano di investimenti pubblici nelle infrastrutture e nella riconversione ecologica dell´economia.
In Italia il finanziamento di un piano per la crescita potrebbe provenire in primo luogo da un´imposta patrimoniale dell´ordine di 15 miliardi di euro all´anno che si protragga per almeno tre o cinque anni. Nel contempo, in questo momento difficilissimo per la tenuta delle finanze pubbliche, andrebbero attivate le grandi imprese a partecipazione statale come Eni, Enel e Finmeccanica e andrebbe coinvolto il sistema bancario, non solo per motivi di solidarietà nazionale ma anche perché il rilancio della crescita avrebbe l´effetto di far risalire le quotazioni azionarie delle grandi imprese e delle banche che oggi sono pesantemente sottovalutate a causa del "rischio Italia".
In Europa il finanziamento di un piano per la crescita dovrebbe avvenire attraverso due interventi da attuare simultaneamente: l´emissione degli Eurobonds e il varo della tassa sulle transazioni finanziarie che permetterebbe di pagare la spesa per interessi sulle obbligazioni europee.
Il rilancio della crescita dell´economia italiana ed europea avrebbe un effetto importante sulla fiducia che è essenziale per alimentare la circolazione della moneta e per riattivare il credito bancario alle famiglie e alle imprese. Perché oggi le banche europee a causa delle fosche prospettive di crescita hanno degli attivi che sono diventati sempre più illiquidi e tendono a mettere a riserva oppure ad impiegare in attività speculative la liquidità che si possono procurare a basso costo dalla Banca Centrale Europea.
Inoltre, è di cruciale importanza rovesciare le convinzioni dominanti che considerano i redditi da lavoro come gravami da minimizzare piuttosto che fattori di benessere da promuovere: come vincoli e non come obiettivi. Il fatto è che è proprio nel mostruoso aumento delle disuguaglianze sta l´origine della crisi attuale. Alle origini della crisi americana, trasmessa poi all´Europa, c´è un colossale indebitamento generato dalla necessità di evitare la contrazione della domanda associata alla stagnazione dei salari. Quelle disuguaglianze oggi non si sono ridotte ed anzi sono state accentuate dallo spostamento del debito privato su quello pubblico e quindi dalla necessità di tagliare le prestazioni sociali per far quadrare i conti. E le agenzie di rating che avevano tranquillamente garantito i conti di imprese fallimentari oggi non si stanno facendo scrupoli nel declassare gli Stati in difficoltà.
La verità è che nel capitalismo finanziario il problema cruciale è quello della distribuzione della ricchezza. La crescita comporta uno spostamento della ricchezza concentrata in misura sproporzionata verso i livelli più alti.
Ma quale crescita dobbiamo avere in mente nel periodo attuale? Crediamo che l´obiettivo prioritario non debba essere di tipo quantitativo. Oggi dobbiamo puntare su di un´economia della sostituzione e dell´efficienza che ci porti verso una condizione di "stato stazionario di natura dinamica". Cioè dobbiamo impegnarci verso la costruzione di un´economia in cui il prodotto totale non continui ad espandersi indefinitamente ma che punti invece su uno sviluppo di qualità.
Una più equa distribuzione del reddito e una produzione ecologicamente più equilibrata: ecco le vere riforme di un capitalismo che ci sta trascinando verso un´età dei torbidi.
Il salto d'epoca si materializza attorno alle 8 della sera. Non è solo la decisione delle dimissioni di Berlusconi ad annunciarlo. E' il combinato disposto del comunicato del Quirinale, in cui la decisione del premier viene messa nero su bianco, e della nuova missiva in arrivo dalla Commissione Ue, anticipata in contemporanea sul sito di Repubblica. Il ventennio berlusconiano finisce nello stesso momento in cui quel che resta della sovranità nazionale italiana viene messa al guinzaglio dalla governance europea. La talpa della religione neoliberista ha scavato di più della millantata rivoluzione liberale del mago di Arcore.
Solo un'ora prima, a colloquio in corso fra Berlusconi e Napolitano, la ridda delle ipotesi e controipotesi sulla crisi di governo ormai certificata dal voto sul rendiconto pareva avviata su più consueti binari, sia pure controllati dal semaforo della Ue e dominati dal feticismo dei mercati e dello spread. Intervistato dal Tg3 delle 19, Giuliano Ferrara raccontava che Berlusconi era salito al Colle mezz'ora prima diviso fra due diverse ipotesi, a loro volta sostenute da due diverse tifoserie. La prima, tifoseria di Ferrara medesimo e pochi altri: lanciare un appello all'opposizione per ottenerne l'appoggio in Senato sulle misure anticrisi annunciate al G20, garantendo di dimettersi subito dopo per andare risolutamente alle elezioni. La seconda, tifoserie varie Pdl e Lega, meno votate al rischio elettorale e fermamente incollate agli scranni parlamentari: fare il famoso passo a lato e adattarsi a favorire la nascita di un governo Alfano o chi per lui, con la speranza di allargare la maggioranza di quanto basta per tentare di arrivare a fine legislatura. Due alternative corrispondenti a due opposte filosofie; posta in gioco, il senso del ventennio berlusconiano da consegnare alla storia. Nel primo caso, un Berlusconi terminale ritrova il Berlusconi delle origini e sfida le urne rivendicando tutto il peso del suo ventennio, puntando i piedi sull'irreversibilità del bipolarismo, riproponendosi - dio solo sa come - come l'unica personalità in grado di affrontare la crisi europea senza inchinarsi più del dovuto ai relativi diktat: se funerale del berlusconismo dev'essere, che sia almeno un funerale in grande. Nel secondo caso, un Berlusconi terminale si mette la maschera del leader responsabile, garantisce i suoi passando il testimone, ma accettando di sfigurare il ventennio nel suo contrario, ovvero nel rito grigio e trito di una manovra parlamentare da prima Repubblica di sapore democristiano, esattamente ciò contro cui aveva detto di essere sceso in campo nel '94: un funerale mestissimo e di seconda classe.
All'uscita dal Quirinale, mentre agenzie e siti italiani e stranieri battono le sue dimissioni attese in tutto il mondo, Berlusconi sa e dice che ormai le cose non sono più nelle sue mani ma in quelle di Napolitano. Non scioglie del tutto il suo dilemma, ma si dichiara nettamente a favore della prima alternativa: dopo di lui, elezioni. Dopo di lui, governo di transizione, replica un Bersani soddisfatto ma ben consapevole che Berlusconi si è dimesso ma non è scomparso, e che la situazione economica e finanziaria è «delicatissima». A misure anticrisi approvate, si apre il gran ballo delle consultazioni. L'epoca però è improvvisamente cambiata. Non si tratta più solo, né per il Cavaliere né per l'opposizione, di dare adeguata sepoltura al ventennio berlusconiano barcamenandosi fra la seconda Repubblica mai nata e la prima che può sempre tornare. Si tratta di ereditare un sistema economico e sociale massacrato e sottoposto a 39 quiz stilati nell'inglese standardizzato delle istituzioni economiche, non politiche, sovranazionali. Al funerale del berlusconismo, qualcuno si ricordi di dire che Berlusconi e Bossi non ci facevano caso, ma Arcore e la Padania stavano in Europa.
L´eguaglianza ha fatto il suo grande rientro nella politica quotidiana. Ed è un ospite non gradito per chi tiene le fila delle transazioni finanziarie e delle politiche monetarie. Lo si vede da come i governi hanno accolto la proposta di istituire una tassa sulle rendite patrimoniali – il nostro è all´avanguardia nell´aver escogitato tutte le misure che possono pesare sui molti senza direttamente toccare i pochi (in extremis e nella disperata ricerca di sopravvivere qualche giorno in più tira fuori la proposta di ‘Tobin tax’ ma senza dimostrare di crederci).
Presumibilmente perché a Roma l´oligarchia governa direttamente, senza intermediari. È fuori di dubbio che Silvio Berlusconi sia il più ricco italiano e quindi tra quell´1% che Occupy Wall Street ha individuato come la minoranza che accumula e concentra potere entrando fatalmente in rotta di collisione con la maggioranza e, quindi con l´eguaglianza. Oligarchia e democrazia sono esplicitamente visibili e in tensione.
In un ottimo libro dal titolo chiaro, Oligarchy, uscito per Cambridge University Press pochi mesi fa, Jeffrey A. Winters ci ricorda che la democrazia non elimina l´oligarchia ma la incorpora. Questo lavoro di inclusione dura e ha successo fino a quando l´economia cresce e produce ricchezza alla quale tutti, chi più e chi meno, possono sperare di accedere e, nei fatti, vi accedono anche. Ma quando questa condizione decade, allora la moltitudine comincia a proporre politiche che intaccano le ricchezze e le proprietà dei pochi, politiche fiscali redistributive. È a questo punto che la differenza tra oligarchia e democrazia si mostra con tutta la sua radicalità.
Occupy Wall Street – il nome di un movimento che è globale nella sua semplicità, come globale è l´1% –– è il segno che la tregua tra oligarchia e democrazia si è interrotta. Le pressioni delle dirigenze finanziarie e bancarie sulla democrazia greca, ce lo ricordava recentemente Gad Lerner su questo giornale, affinché non ricorra al referendum è il segno di un´escalation del potere oligarchico su quello democratico. E che il popolo greco non vada al referendum è un segno del potere che l´oligarchia ha di fare sentire la sua voce. Ma è anche un segno del fatto che le procedure democratiche stesse possono diventare un problema se il loro uso paventa esiti che possono mettere a repentaglio l´interesse materiale dei pochi. In questo frangente si è buttata alle ortiche la logica del proceduralismo democratico, che i manuali scolastici ci insegnavano a non giudicare dal punto di vista degli esiti ma delle possibilità di determinarli con le nostre autonome forze. Ora invece è proprio l´esito che viene invocato per neutralizzare la procedura. Un rovesciamento pericolosissimo poiché chi ci garantirà che le elezioni non verranno giudicate non opportune perché passibili di interrompere la stabilità di governo?
Il linguaggio per dualismi – "i pochi" e "i molti" – ha un sapore quasi antico, arcaico. Chi sono i pochi? E come denotarli? Non essendo più i pochi che producono dirigendo masse di lavoratori, non possono essere qualificati come capitalisti tradizionali. Sono super-ricchi – nuovi e meno nuovi. Individuabili solo per quantità: 1%. E infatti, quando Aristotele doveva definire il governo democratico lo faceva identificandolo con i poveri, che sono i tanti. Non perché una società democratica sia fatta di poveri, ma per una ragione molto più sottile e che si vede oggi molto bene: perché non appena la questione della ricchezza materiale si fa critica in quanto la sua distribuzione prende vie inegualitarie, allora i molti si rappresentano (e spesso sono) come poveri o impoveriti. A questo punto, il dualismo è una realtà che può essere rappresentata solo con la quantità, e ciò è in sintonia con la democrazia, la quale è un governo fondato sulla quantità (dei voti).
Allora 1% contro 99% diventa la raffigurazione aritmetica dell´identità della democrazia quando il patto tra i molti e i pochi si rompe perché la ricchezza si muove in una direzione soltanto.
Sono molti i casi di lotta oligarchica che il libro di Winters ricostruisce, dall´Atene e Roma classiche, all´Indonesia e le Filippine, da Venezia e Siena, dalle commissioni mafiose negli Stati Uniti e in Italia fino alle famiglie degli indiani Apalachi. Insomma non esiste società senza oligarchia. Gli Stati si possono quindi distinguere tra quelli schiettamente oligarchici e quelli che hanno siglato un compromesso con la democrazia. Nell´Atene classica quel compromesso riuscì per alcuni decenni, benché l´alternativa oligarchica restasse sempre una concreta possibilità visto che le grandi famiglie non accettarono mai il governo dei molti. I governi rappresentativi sono riusciti a correggere questa condizione di endogena precarietà della democrazia traducendo in meccanismi costituzionali il rapporto con "i pochi", dalla cui collocazione è sempre dipesa la stabilità dei sistemi politici. Consentire a questi di competere attraverso le elezioni è stato un modo per incorporarli – con il contributo dei molti che li eleggono, giudicano, controllano e limitano nel potere.
Il successo delle democrazie rappresentative costituzionali ha corrisposto a due secoli e mezzo di espansione della società di mercato nelle due forme che conosciamo: il capitalismo industriale e, ora, quello finanziario. È stato un successo reso possibile da una condivisione generale degli oneri che ha consentito che il divario tra arricchimento dei pochi e dei molti non fosse fuori controllo. Oggi questo compromesso è rotto. E per molti ordinari cittadini è cominciato un duro periodo di impoverimento – che non è la stessa cosa della povertà. La durezza di questa crisi consiste nel fatto che per la prima volta cittadini che avevano conosciuto per due o tre generazioni un´espansione dei diritti e delle possibilità, si trovano oggi di fronte alla perdita di status, a non potere aver progetti per il futuro. Con la propaganda mediatica, come ci racconta Paul Krugman, che li vuole convincere ad accettare l´impoverimento senza dare loro in cambio alcuna certezza per il domani. In passato quando si trattava di tirare la cinghia si invocava "l´interesse nazionale", e i super-ricchi erano in molti casi, come gli Stati Uniti, i primi a partecipare. Ma oggi non vogliono condividere gli oneri.
Questa è la gravità dell´attuale tensione tra oligarchia e democrazia: se le due forze si mostrano così bene oggi, se in altre parole l´eguaglianza, anzi la sua violazione, è oggi il tema centrale è perché il patto che mitigava la diseguaglianza e incorporava l´oligarchia dentro la democrazia mostra la corda. Nessuno può allo stato attuale delle cose dire come lo scontro si evolverà. Ma le pressioni dei "mercati" sulla Grecia affinché non convochi i molti a giudizio è un segnale nemmeno troppo velato dei rischi politici che questa crisi contiene. Per la democrazia non si promette nulla di buono.
Dieci anni di federalismo vogliono anche dire quasi mille ricorsi presentati davanti alla Corte costituzionale. A dimostrazione che il nuovo Titolo V non ha avuto vita facile, in particolare nella parte in cui ripartisce le competenze tra lo Stato e le regioni. E continua a generare conflitti, se è vero che negli ultimi due anni i ricorsi di Roma contro i governi locali sono cresciuti del 33% e quelli delle regioni contro lo Stato del 16 per cento. A sollevare il conflitto di poteri è stata soprattutto Roma, che ha ravvisato una lesione delle proprie prerogative in 568 casi, in particolar modo da parte della regione Abruzzo (contro cui ha presentato ricorso 42 volte), della Puglia (41 ricorsi) e della Toscana (38 ricorsi).
Dal proprio canto, la Toscana è la regione che ha chiamato in causa, davanti alla Consulta, lo Stato il maggior numero di volte:73 impugnazioni di provvedimenti in cui, secondo la giunta toscana, il governo centrale si è attribuito competenze non proprie. Un braccio di ferro che non ha uguali nelle altre regioni, tanto che l'Emilia Romagna, che nella classifica dei ricorsi segue la Toscana, in dieci anni ha portato lo Stato davanti ai giudici costituzionali "solo" 39 volte. Complessivamente, le regioni hanno impugnato gli atti centrali 422 volte. A innescare la mina dei ricorsi è stata la formulazione del nuovo articolo 117 della Costituzione, in particolare nella parte delle materie riservate alla legislazione concorrente, ovvero quelle in cui allo Stato spetta fissare i principi generali e ai governi locali legiferare nel dettaglio. Modalità che, insieme alle potestà riservate esclusivamente allo Stato e alle regioni, completa il quadro delle competenze legislative disegnate dal Titolo V riformato.
A dire il vero, anche la potestà legislativa riservata alle regioni è stata fonte di più di un dubbio, perché funziona per sottrazione, nel senso che i governi locali sanno di poter intervenire in via esclusiva in quegli ambiti che non sono espresso appannaggio dello Stato. Di certo, però, la legislazione concorrente è quella che ha generato il maggior numero di questioni e anche le più spinose. E’ di questi giorni, per esempio, la contrapposizione tra ministero dei Beni culturali e regione Lazio sul piano casa, che in alcune parti viola la tutela paesaggistica. Per questo il Governo ha impugnato gli atti regionali davanti alla Consulta.
Il 4 ottobre 2010, il Ponente di Genova fu colpito da una grave alluvione. Da allora, cosa è successo? “Tredici mesi di testate contro il muro”, denuncia il presidente della Regione, Claudio Burlando, commissario. “Se tutto va bene, sta per concludersi il lungo iter per lo stanziamento dei primi 45 milioni di euro previsti per i danni dell’anno scorso” (ben 300 milioni). Il Wwf denuncia un bluff clamoroso: sparito lo stanziamento nazionale di 800 milioni (500 per la prevenzione del dissesto idrogeologico) promesso da Berlusconi e da Tremonti, con l'asta delle frequenze e con una quota dei FAS. V’è di più. Il ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammette: mai decollato il piano straordinario di manutenzione annunciato un anno fa per 2 miliardi.
E torna la minaccia di un condono degli abusi edilizi, il terzo promosso da Berlusconi. Che ha la faccia di bronzo di commentare la sciagura di Genova con un lapidario: “Si è costruito dove non si doveva”.
Dopo le tragiche inondazioni del 1966, i governi, per lo più di centrosinistra, hanno impiegato ventitre anni per approvare una legge, peraltro buona, per la difesa del suolo, la n. 183 del 1989, sul modello della Themes Authority londinese. Pochi anni, in compenso, ha impiegato il centrodestra.-con l’aiuto di Regioni e Comuni, anche di centrosinistra, s’intende - per smontarla, definanziarla, delegittimarla. A partire proprio dal 2001, quando le più importanti Autorità di Bacino avevano adottato i piani di riassetto. Del resto, l’alleato fedele del letale Berlusconi III, la Lega Nord, il Po lo vorrebbe gestito “a spezzatino”, un pezzo ciascuno Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto. E così pure l’Adige. Esiste politica più ridicola e insieme più criminale di questa?
A Genova l’allerta c’era stato, tempestivo. Non si è detto alla gente: restate a casa. Si è peccato di ottimismo in una città che ha subito, dopo quella paurosa del 1970 (mi ci trovai in mezzo) costata 44 vittime, tanti disastri, l’ultimo un anno fa. Fa bene il sindaco di Torino, Piero Fassino, a usare la massima prudenza. Il Po spaventa di nuovo. Le alluvioni cominciano in montagna. Genova è Comune di mare e di montagna, col Monte Reixa di ben 1.183 metri. Dall’alto precipitano a valle, oltre ai torrenti principali, 44 rii, molti dei quali arrivano in città “tombati” nel cemento e, per la pressione di una massa d’acqua sempre più ingente e veloce (grazie alla tante nuove strade asfaltate e ripide), “scoppiano”. In più, gli agricoltori sono spariti dalle alture e nessuno più ripulisce gli alvei da arbusti, ramaglie, tronchi di alberi caduti. Discorso che vale per gran parte della montagna italiana. Dove gli agricoltori superstiti vanno incentivati a rimanere con politiche mirate. Ma quando ci si convincerà che l’agricoltura, in specie quella di montagna, ha una precisa e preziosa funzione di salvaguardia dell’ambiente, dell’assetto idrogeologico montano essenziale per le grandi pianure?
Come ha ben spiegato ieri sul “l’Unità” l’urbanista Vezio De Lucia, bisogna darsi un diverso modello di sviluppo con piani scientificamente fondati: stop al consumo di suoli liberi, al cemento+asfalto, manutenzioni incessanti di boschi, alvei, sponde, affidate all’ “esercito del lavoro” giovanile, immaginato dal grande meridionalista Manlio Rossi Doria e ripreso dall’economista Paolo Sylos Labini. Non per stipendiare, beninteso, degli inoccupati, ma per “rinaturalizzare” fiumi e torrenti, a monte e a valle con piani seri puntualmente eseguiti. Siamo un Paese geologicamente giovane, sismico, con tante frane (e cave, molte abusive). Nel 105 d.C. Traiano nominò Plinio il Giovane “curator alvei Tiberis et riparum et cloacarum Urbis”, cioè soprintendente generale dell’Autorità di bacino del Tevere. Chi promuoverà quest’opera quotidiana e grandiosa, salverà l’Italia da immensi guasti e lutti (migliaia di morti, dal Polesine in qua) e “passerà alla storia”. Altro che Ponte sullo Stretto.
In questo impressionante marasma di notizie, affermazioni, smentite, menzogne e contraddizioni, e nella valanga ininterrotta di avvenimenti vecchi e nuovi che ogni giorno si accumulano sulla stampa e nei media, è difficile seguire un ordine logico, è quasi impossibile avere sempre ben presente il quadro storico-politico complessivo.
Per me il punto di partenza di qualsiasi ragionamento resta il voto negativo della Camera dei deputati l'11 ottobre scorso sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato presentato dal governo. Ne ho scritto sul manifesto del 23 ottobre e si può non essere d'accordo sulle conseguenze estreme che io avrei tratto sul piano della sopravvivenza del Governo da parte della Presidenza della Repubblica (e infatti non è stato d'accordo con me Gaetano Azzariti, il manifesto, 26 ottobre), ma non si può non convenire che quel voto avesse la perfetta equivalenza di un voto di sfiducia, difficilmente rimediabile sul piano costituzionale (come ha argomentato da par suo Gianni Ferrara, il manifesto, 25 ottobre).
Apprendiamo successivamente da un fondo di Eugenio Scalfari su la Repubblica (30 ottobre) che, dopo il voto di fiducia rimediato con i soliti mezzi da Berlusconi, il 14 ottobre, per porre margine (?) allo sfascio potenziale conseguente al voto contrario sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato, in una riunione dei capigruppo alla Camera dei deputati era stato deciso all'unanimità (ripeto: all'unanimità) di calendarizzare per l'8 novembre il ritorno alla Camera del Rendiconto, per l'eventuale approvazione, magari con un altro voto di fiducia.
In questa apparentemente modesta notizia ci sono invece due stranezze, di diseguale rilevanza. La prima è che Eugenio Scalfari è un grande editorialista ma non certo un cronista politico quotidiano. Ebbene, la conoscenza del fatto, - che tutti i gruppi parlamentari, opposizione compresa, avevano accettato il ritorno in aula alla Camera del Rendiconto, nonostante le obiezioni costituzionali di cui sopra - ci è pervenuta da un suo editoriale: la grande stampa d'informazione non lo ha sottolineato come rilevante. La seconda è il fatto in sé: anche i gruppi parlamentari di opposizione hanno rinunciato, nessuno escluso, a esercitare il loro diritto di opposi alla disapplicazione dell'art.72 del Regolamento della Camera, il quale prescrive il divieto a ripresentare la stessa legge già bocciata prima che siano trascorsi sei mesi. Bastava che uno di loro lo facesse per rendere inapplicabile la misura invocata dal Governo, ed evidentemente nessuno lo ha fatto. C'è da chiedersi in che mani siano riposte le nostre speranze di cambiamento. Non sono il solo a chiedermelo: in un articolo conciso ed efficace come una staffilata (La Repubblica, 31 ottobre) Alessandro Pace spiega come «le opposizioni non si siano rese conto di essere andate al di là dei loro poteri, e di avere, con il loro beneplacito, creato un gravissimo precedente incostituzionale che si ritorcerà a loro danno, grazie alla disinvoltura costituzionale del governo in carica». Naturalmente è auspicabile che l'8 novembre la Camera dei deputati ponga fine a questa inverosimile commedia, bocciando per la seconda volta il Rendiconto, ma questo non cancellerebbe le contorsioni politico-istituzionali attraverso le quali si perverrebbe, del tutto gratuitamente, a questa ultima, definitiva (?) scelta.
Veniamo a noi. Tutto quello che è avvenuto successivamente a quell'11 ottobre (la delineazione, farraginosa e inconcludente, di un piano per affrontare la crisi, le trattative, vergognose per noi, con i Grandi d'Europa, la messa sotto tutela della linea di politica economica nazionale, ecc. ecc.), è stato opera di un governo che, costituzionalmente, sarebbe dovuto uscire di scena già da un bel po': il che fra l'altro ne spiega la palese, vergognosa, debolezza. Su tutto questo, lasciato passare di straforo, come ho detto, quasi a nessuno importasse, è precipitata la valanga della crisi economica. Ma anche su questo qualcosa da dire (o da obiettare) c'è.
Si sarebbe potuto pensare che Silvio Berlusconi sarebbe stato sbalzato di sella per i suoi innumerevoli e innominabili vizi privati, o per le infinite inchieste giudiziarie, o per le menzogne pronunciate in pubblico anche nella veste di Presidente del Consiglio, o per la sua alleanza con una forza separatista come la Lega o per la più volte comprovata incapacità a risollevare il paese dalla crisi non meno ideale che economica in cui lui stesso l'ha fatto cadere. No: la sua sopravvivenza come premier è tuttora legata alla sua disponibilità/capacità di garantire in Italia l'applicazione dei diktat europei. E l'alternativa al suo governo, ciò di cui attualmente si discute, è rappresentata da un governo tecnico e/o di transizione che, pescando nei fondi di barile di questo screditatissimo Parlamento, faccia quello che Berlusconi potrebbe non esser più in grado di fare. Ai vari vulnus costituzionali, di cui la nostra storia recente è, come ho cercato di argomentare, costellata, si sovrapporrebbe così il pannicello caldo di un'obbedienza più dignitosa e di conseguenza più certa e sicura al verbo merkel-sarkozyano che attualmente ci governa.
Su quest'ultimo punto ci sarà tempo e modo di tornare. Basti dire per ora sinteticamente (ma non ironicamente) che l'Italia non conosceva uno così straripante predominio dello straniero all'interno dei suoi confini naturali (dello straniero, sì, non dell'Europa, perché l'Europa ha preso per ora, il volto dello straniero) dai tempi delle settecentesche guerre di successione (peggio, ora: almeno allora c'era il modesto bastione sabaudo-piemontese a tenere accesa una fiammella). Cambiano i modi, certo, il capitale finanziario ha sostituito gli eserciti, ma la sostanza è la stessa. Insieme con la crisi costituzionale bisogna dunque far fronte a una crisi identitaria, ancora una volta economica e culturale (e forse fra «crisi economica» e «crisi culturale» bisognerà riconoscere che ci sono più reciproci condizionamenti di quanto non appaia a prima vista).
Sere fa, assistendo (del tutto casualmente, s'intende) a una trasmissione di Porta a Porta, ho ascoltato un nostro rappresentante, Pietro Ichino, dichiarare che ormai non era più questione di destra e di sinistra, ma di sapere e volere applicare, oppure no, le misure richiesteci dall'Europa. Lì per lì ho pensato che Ichino, come gli capita, estremizzasse. Poi sono arrivato alla conclusione che avesse ragione e che in effetti la spaccatura di fondo, indipendentemente dagli schieramenti politici e ideali (o pseudoideali) passi fra chi pensa che governare l'Italia consista nell'applicare sic et simpliciter la ricetta europea (farsi commissariare fino in fondo e bene, non poco e maldestramente come ormai sono solo capaci di fare Berlusconi e il suo governo), oppure riconquistare rapidamente tutti i margini d'iniziativa politica, economica e culturale che ci competono, nel contestuale, rinnovato rispetto del dettato costituzionale.
Non è possibile? Non c'è altra strada che l'obbedienza cieca e assoluta? Non esiste una terza possibilità capace di mediare fra il comando brutalmente economico e le esigenza di sopravvivenza e di democrazia politico-sociale del popolo italiano? Bene, vorremmo che qualcuno responsabilmente ce lo dicesse prima di chiederci fiducia a condividere e sostenere l'ardua impresa. Per questo qualsiasi governo tecnico e/o di transizione, espresso da questo Parlamento, non va bene, è un rimedio peggiore del male, non può che peggiorare le cose. Se è vero quel che Ichino dice, e molti pensano e lavorano per realizzare, bisogna che i partiti, le forze politiche, i movimenti e i tecnici ce lo vengano a dire prima. Prima di che? Prima del voto, ovviamente. Qualsiasi sia la strada da scegliere e da battere, bisogna che gli schieramenti siano visibili prima, che i nostri programmi siano formulati prima, che i politici (i nostri futuri rappresentanti) ci dicano prima i prezzi e i vantaggi. Questo è il nostro referendum, il referendum italiano. Chi preferisce rinunciarvi, lavora perché dalla crisi veramente non si esca, perché l'Italia e gli Italiani non siano i soggetti consapevoli del cambiamento. E noi questo non possiamo più permettercelo.
Nel ‘51 in Polesine, le bestie intrappolate dall´onda scesero a valle solo quando l´acqua cominciò a defluire dalle stalle. Da quel momento il Po se le portò al mare gonfie, con le zampe all´aria. Migliaia, per giorni. A Genova e in Lunigiana, in queste ore, l´acqua marrone è scesa come una trivella a portar via uomini e cose nel giro di pochi minuti. Novembre 1951-novembre 2011: sessant´anni di disastri, e ogni volta l´ultimo evento della serie pare quello definitivo, irripetibile e irreversibile. Ma la fredda statistica dice che è dura chiamare eccezionali eventi che si sono ripetuti quasi duemila volte a partire dal 1900, al ritmo di venti disastri all´anno, con un totale di 2570 morti (senza contare il Vajont), 174 dispersi e un numero incalcolabile di feriti. «È il bilancio di una guerra non dichiarata», scrivono Emanuela Guidoboni, Antonio Navarra ed Enzo Boschino nel libro La spirale del clima sulla storia dei disastri nel Bel Paese.
Togli la frana del Vajont nel 1963 e quella di Stava nell´85 (oltre 2200 morti in totale), dove la manomissione dell´ambiente da parte dell´uomo fu agente unico e devastante, non c´è quasi alluvione che non sia ripetuta nello stesso luogo. Genova e i paesi a monte sono andati sott´acqua già nel 1970, quando 900 millimetri di pioggia andarono a imbottigliarsi tra il passo del Turchino e quello dei Giovi, e 44 persone furono portate via dal fango sul lato padano e su quello tirrenico. Il disastro di Firenze del 1966 è stato preceduto da qualcosa di altrettanto tremendo nel novembre del 1844, quando piovve due settimane di fila e assieme all´Arno collassarono in simultanea il Bisenzio, il Serchio, il Chiana, il Sieve e l´Ombrone pistoiese, con danni spaventosi, anche allora, nelle cantine degli Uffizi. La città di Palermo, prima di essere inondata nel 1931, era finita sott´acqua nel 1851, 1861, 1907 e 1925, quando le vie della Vucciria furono percorribili in barca.
E che dire di Sarno: il mare di fango che si portò via 160 persone nel maggio del 1998 aveva avuto decine di precedenti di maggiore o minore intensità, nei cent´anni prima della tragedia. I punti vulnerabili del territorio sono stati colpiti così tante volte da lasciare il segno nei nomi dei paesi o delle alture. «Quando dovevo intervenire su zone colpite da frane o alluvioni - ricorda l´ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso - finivo sempre davanti a cartelli stradali ammonitori. Posti come Pozzallo, Acquamarcia, Fossa, Pietratagliata, Pozzonero, Acquapendente. Non mi vengano a dire che era un caso». Ripetitive fino alla monotonia anche le cause: piogge eccezionali che fanno detonare un innesco già preparato, l´incuria e la cementificazione del territorio. «Per favore non chiamatele catastrofi» taglia corto la Guidoboni, storica dei terremoti. «È un termine che deresponsabilizza gli uomini e scarica tutto sul destino».
Ricordare cosa è avvenuto dal 1900 a oggi non è solo curiosità storica: è un modo per tenere desta l´attenzione sul paesaggio e favorire la prevenzione. Ma la prevenzione è scomoda, perché non fa voti. Così si autorizza l´amnesia. Ed ecco che salvo casi eccezionali, l´alluvione non diventa memoria condivisa, come accade invece con la guerra. Alcune sono già scomparse dalla memoria. Quella del Polesine, per esempio, con i suoi 100 morti, i 160mila sfollati, i 113mila ettari di terreni allagati e i 52 ponti crollati, ha finito per cancellare il disastro calabrese avvenuto poche settimane prima. Eppure era stato un inferno: in soli quattro giorni erano piovuti 1770 millimetri d´acqua, più che nel resto dell´anno. Sessantasette comuni erano stati investiti da frane tra le Serre e l´Aspromonte, e il nubifragio s´era portato via 70 persone e 1700 abitazioni. Due anni dopo, più o meno nella stessa zona, l´evento si ripeté, con un centinaio di morti, di cui oggi più nessuno parla. Stessa rimozione per l´alluvione del Veneto del 1966, messa in secondo piano da quella, concomitante, di Firenze.
Trentasei morti a Messina nel 2009; sedici in Versilia nel ‘96; 53 in Valtellina nell´87: il bollettino del dopo-Polesine non salta quasi nessun anno del calendario e non risparmia nessuna zona d´Italia. Sul piano dei disastri siamo una nazione unita. «Il mutamento del clima ha un suo ruolo» spiega Elpidio Caroni, genovese, docente di sistemazione dei bacini idrici a Trieste, «ma mentre la mappa della pioggia è a pelle di leopardo, quella del consumo di territorio ha lo stesso colore dalle Alpi alla Sicilia. Il settanta per cento dei Comuni italiani sono a rischio. Nord, Centro, Sud, fa poca differenza. È questo il vero problema». Altro elemento ripetitivo in questo bollettino è la mancata lezione che se ne trae. «Ogni volta salta fuori la stessa parola magica: mettere in sicurezza i corsi d´acqua» ghigna Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, a Venezia. «Risultato: invece di dare aria al fiume, si fanno argini più alti, e così, con la nuova e illusoria sicurezza acquisita, si autorizzano peggiori devastazioni cementizie, che rendono il territorio ancora più a rischio. In sessant´anni abbiamo imparato poco o niente».
«Un consumo bulimico del territorio». Quello che è successo a Genova e alle Cinque Terre non è soltanto l’effetto della natura che cambia. Mario Tozzi, impegnato su Radio 2 per la trasmissione “Tellus”, studia da anni questi fenomeni.
Tozzi, in poche ore è piovuto quanto piove in un anno. Quali sono le ragioni?
Sono ormai 20 anni che assistiamo a piogge sovrabbondanti. Ci sono state anche discussioni in Senato, non siamo solo noi geologi a dirlo. Poi il territorio italiano è giovane, attivo. Questo è un paese dove ci sono vulcani, terremoti, fenomeni di assestamento. Un terzo motivo è che abbiamo avuto un consumo bulimico del territorio. Cemento e infrastrutture hanno consumato la terra. Abbiamo mangiato il suolo rendendo il terreno impermeabile. L’acqua non penetra più, scivola e va via. Si è costruito troppo dove non si doveva. Le case sono state costruite anche sugli argini dei fiumi. A ogni disastro tutti pongono il problema dei detriti che ostruiscono il corso dei fiumi. Il problema non sono tanto i detriti, ma il fatto che l’uomo ha ridotto gli alvei dei corsi d’acqua.
I morti della Liguria sono come quelli di Giampilieri, a Messina. Colpa della natura o dell’uomo?
La colpa è dell’uomo, le catastrofi naturali non esistono. Abitiamo in posti dove non dovremmo stare. I genovesi d’altri tempi stavano nelle alture.
Si parla di cambiamenti climatici e surriscaldamento del pianeta. È un fenomeno irreversibile o si può intervenire?
È un fenomeno parzialmente naturale, ma l’uomo ha accelerato il processo di surriscaldamento. Il carattere violento di queste perturbazioni ne è una conseguenza. Si devono ridurre le emissioni inquinanti. È un processo che deve riguardare tutti i paesi del mondo.
L’Italia è un paese a forte rischio idrogeologico. Quali sono le regioni più a rischio?
La Liguria e la Toscana, ma anche l’alto Lazio, la Campania e la Sicilia. Io considero a rischio frane anche il Trentino. Lì però non si sono mai registrate vittime perchè c’è stato un uso più attento del territorio.
Quali scelte deve fare la politica nei territori a rischio?
I sindaci devono fare un passo indietro rispetto all’uso del territorio. Purtroppo si pensa che si guadagni consenso solo con l’edilizia e il cemento.
L’associazione dei Comuni virtuosi lancia una proposta: moratoria sulle grandi opere e i soldi da destinare contro il dissesto idrogeologico. Che ne pensa?
Sono d’accordo. Li conosco e sarò con loro lunedì prossimo. Cosa si deve insegnare ai nostri figli? Bisogna che capiamo prima noi che è necessario fare un passo indietro rispetto a scelte non rispettose della natura e del territorio. Riprendere ritmi naturali, rinaturalizzare i corsi d’acqua, ritornare a vivere dove e come si viveva un tempo. Il cemento non serve, bisogna recuperare la terra.
In una nota il premier stigmatizza l'eccessiva cementificazione della Liguria senza ricordare le sanatorie edilizie varate nel 2003 e nel 2009. Immediata la polemica. A livello locale il sindaco Pd Marta Vincenzi rivendica la scelta di non aver chiuso ieri le scuole: "Decisione provvidenziale". La mamma della 19enne morta: "Dovevano chiudere quei maledetti edifici"
“E’ evidente che si è costruito là dove non si doveva costruire”. A mettere nero su bianco queste parole, dopo l’alluvione che ha colpito Genova e ha visto la morte di quattro donne e due bambine, non è un ambientalista della prima ora, ma il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Che per un giorno intero ha deciso di non dire nulla e tantomeno di farsi vedere nelle zone alluvionate. Ma che, 24 ore dopo la tragedia, decide comunque di emettere una nota. A far notare l’incoerenza, per primo, il responsabile Green economy del Pd Ermete Realacci: “Le parole di Berlusconi a commento della tragedia di Genova sono senza vergogna – spiega – Le migliaia di case abusive sono infatti il risultato dei due condoni (edilizi, nel 2003 e nel 2009, ndr) che portano la sua firma, provvedimenti che solo qualche giorno fa pensava di riproporre per l’ennesima volta tra le pieghe delle misure di risanamento finanziario del suo governo”.
E infatti, proprio a inizio ottobre, il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto aveva parlato di una doppia sanatoria – edilizia e fiscale – da inserire nella manovra finanziaria in via di approvazione. Un progetto messo da parte dopo la levata di scudi che aveva coinvolto non solo l’opposizione, ma anche parte della stessa maggioranza (Tremonti in primis), la Chiesa e Confindustria.
La frase di Berlusconi scatena immediatamente la polemica. Di “stupro dell’ambiente” parla il presidente della Camera Gianfranco Fini che, pur senza chiamare in causa il Cavaliere, attacca: “Nessuno può avere la presunzione che si possa stuprare l’ambiente senza che ci sia la vendetta della natura”. Il nome di Berlusconi viene pronunciato esplicitamente dall’Idv: “Quanto accaduto ieri a Genova, e solo dieci giorni fa alle Cinque Terre e in Lunigiana, è figlia degli ingentissimi tagli inferti da questo governo alla difesa del suolo per un miliardo di euro e di quella politica dei condoni edilizi ‘a gogò’ e delle sanatorie degli abusivismi con cui l’ineffabile duo Berlusconi-Tremonti ha caratterizzato la sua azione politica”, ha detto Antonio Borghesi, vicepresidente del gruppo Idv alla Camera. Il presidente della Regione Emilia Romagna e della Conferenza delle Regioni Vasco Errani chiede invece “prevenzione” e “risorse” perché “le scelte del governo, confermate dai tagli per realizzare le opere di conservazione e messa in sicurezza del territorio e dalla rigidità delle nuove norme sulla protezione civile, vanno purtroppo nella direzione opposta”.
Contro l’Italia “del cemento, del fango, senza legge, senza giustizia e senza vergogna” si scaglia il comico genovese Beppe Grillo con un post dal suo blog: “Oggi mi sento impotente. La distruzione di Genova era annunciata. E io non ho potuto fare nulla. Ho visto la mia città trasformata in fanghiglia con le auto che cadevano sul porto insieme alla pioggia e ai morti sapendo che si poteva evitare – scrive Grillo – L’Italia del Fango sta mostrando la sua faccia, il suo ghigno, il suo sberleffo. L’Italia Senza Giustizia che manda in galera chi denuncia”. Perché, spiega l’ideatore del Movimento 5 stelle, “il cittadino è solo, senza rifermenti, senza informazione, senza rappresentanti. L’Italia del Cemento – continua Grillo – lo sta seppellendo vivo”. E chiede: “Chi arresteranno ora per disastro colposo? I meteorologi? Persino di fronte al default dell’Italia non si arresta questa bulimia criminale, questo pasto immondo dei partiti sul corpo della Nazione. L’aria è gonfia di pioggia e di rabbia. Genova è tagliata in due come il Paese”.
E’ bufera sul sindaco di Genova: “Si dovevano chiudere le scuole”. A livello locale le polemiche si concentrano sul sindaco di Genova Marta Vincenzi, colpevole per i cittadini di non aver chiuso le scuole ieri. A chi questa mattina, in via Fereggiano – la strada in cui ieri hanno perso la vita 6 persone – le urlava “dimettiti, vergogna“, il primo cittadino ha ribattuto esattamente quanto dichiarato ai giornali il giorno prima in piena tragedia: “La scelta di mandare i bambini a scuola è stata provvidenziale – ha spiegato la Vincenzi – Immaginate cosa sarebbero stati 40mila bambini portati in macchina dai nonni, dai parenti o dagli amici in giro per la città durante l’alluvione”.
Difficile dimenticare però che le vittime di questa alluvione sono state travolte dalla “bomba d’acqua” proprio mentre andavano a prendere i loro figli o fratelli a scuola. E’ accaduto così per la 19enne Serena Costa inghiottita dall’acqua del torrente Fereggiano mentre tentava di riportare a casa il fratello 13enne. Stessa sorte è toccata ad Angela Chiaramonte, infermiera di 40 anni, morta per raggiungere il figlio Domenico al liceo Cassini, così vicino alla stazione Brignole e al Bisagno. E sempre dopo aver portato via dalla scuola ‘Giovanni XXIII’ la sua bambina Joia, è morta anche Shiprese Djala, donna albanese di 28 anni. Solo Evelina Pietranera, 50 anni, è morta per essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato, dopo aver dato il cambio al marito Attilio Toffi all’edicola di via Giacometti. “Le dovevano chiudere quelle maledette scuole, le dovevano chiudere – ha gridato a distanza, piena di dolore, la mamma di Serena, Rosanna Costa – Mi hanno chiamata dalla scuola di mio figlio e mi hanno detto di andarlo a prendere. Io ero al lavoro e non potevo così l’ho detto a mia figlia. Ma non l’ho più vista rientrare”.
Ma Marta Vincenzi non ci sta a dire ‘ho sbagliato’ e rivendica le scelte dell’amministrazione comunale: “Abbiamo avvisato la cittadinanza di non usare i mezzi privati. Ma ricordare i comportamenti da tenere in queste occasioni non è bastato. C’erano, in giro per la città, più auto di quelle che normalmente transitano sulle nostre strade”, dice il sindaco che anzi contrattacca: “Buonsenso, senso civico sono concetti che evidentemente non basta ricordare. Vanno intimati, fatti oggetto di divieti”. E mentre il presidente della Regione Claudio Burlando cerca di smarcarsi dalle polemiche con un pilatesco “è difficile decidere cosa fare”, il capo della Protezione civile Franco Gabrielli evoca il “patto sociale” necessario per “evitare che in certe situazioni i sindaci possano essere poi crocifissi” anche se ”le scuole di Genova ieri potevano essere tranquillamente chiuse per ridurre gli spostamenti”.
Ora la paura è tale che il Comune ha deciso di tenere chiusi gli edifici scolastici di ogni ordine e grado anche lunedì 7 novembre, giorno in cui è stato proclamato il lutto cittadino. Tommaso Pezzano, dirigente scolastico della scuola materna, elementare e media Giovanni XXIII nel quartiere di Marassi (quella frequentata dalla piccola Joia), spiega com’è avvenuto il coordinamento tra scuola e amministrazione: “Ci hanno mandato una nota dal Comune, poche righe: stato di allerta meteo due, ma che cosa significa? Tutto e nulla. E noi cosa avremmo dovuto fare? Nessuno ci dava indicazioni”. Nella comunicazione scritta del Comune di Genova, testualmente si legge: “Si invitano le famiglie a connettersi tempestivamente con i mezzi di comunicazione pubblici (Raitre, Emittenti televisive locali, sito del Comune) per acquisire informazioni su eventuali provvedimenti adottati a tutela della pubblica incolumità”. Peccato però che alle 11 la corrente elettrica fosse saltata in quasi tutta la città impedendo ogni forma di comunicazione. “Neppure i cellulari funzionavano – spiega Pezzano – e anche per questo molti genitori sono corsi a scuola per prendere i loro bambini, per portarli a casa”. Una corsa fatale.
ROMA - Non di solo Pil vive un Paese. Per capire se la sua gente sta bene o male, se le prospettive e la qualità della vita sono buone il prodotto interno lordo non basta. Ormai se ne parla da anni - già nel ‘68 Bob Kennedy scrisse che il Pil «misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta» - ora è tempo di trovare un’alternativa e di affiancare all’indice sulla ricchezza e la produzione altre percentuali, altri numeri.
Per l’Italia ci stanno pensando il Cnel e l’Istat che hanno appena individuato dodici nuovi «canali» da percorrere per stabilire come stiamo e verso che tipo di società andiamo. Le prime sette voci sono mutuate da quelle fissate, un paio d’anni fa, dalla Commissione Stiglitz, voluta dal premier Sarkozy per calcolare nel nuovo modo le performance della Francia e il suo progresso sociale. Si parla di ambiente, salute, benessere economico, istruzione e formazione, lavoro e tempi della vita, relazioni sociali e sicurezza. A questi sette capitoli Cnel e Istat, dopo consultazioni con le parti sociali, hanno aggiunto altri cinque caratteri: benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ricerca e innovazione, qualità dei servizi, politica e istituzioni.
L’obiettivo è chiaro: inserire il «giudizio» sul Paese in un quadro più complesso, tanto più in una fase in cui il Pil è destinato, nel migliore dei casi, a non crescere più come una volta e a rivelare tutte le lacune di una valutazione unica. La griglia è pronta, ma non è definitiva: i due istituti invitano infatti esperti, rappresentanti della società civile e singoli cittadini a esprimere valutazioni e consigli rispondendo ad un questionario ad hoc e partecipando ad un blog cui si accede dal sito www. misuredelbenessere. it, già in funzione. Poi, a marzo si trarranno le conseguenze del dibattito on line e degli incontri sul territorio e s’individueranno definitivamente gli elementi adatti a valutare il «benessere equo e solidale» dell’Italia. Quindi si procederà alla costruzione degli indici, che saranno pronti fra un anno, ad ottobre, in tempo per essere inseriti nel quarto rapporto voluto dall’Ocse su questi temi. Allora sapremo come sta l’Italia, al di là del Pil, e potremo confrontare la nostra salute con quella degli altri paesi.
La partita, infatti, non è solo nostra, visto che con questi temi si sono già misurati altri governi, a partire dal premier Cameron e dal «questionario sulla felicità» recentemente inviato agli inglesi. «Noi eravamo in ritardo, ma abbiamo ampiamente recuperato dando alla definizione del benessere parametri concreti e strutturati» ha detto il presidente dell’Istat Enrico Giovannini.Di fatto l’importanza attribuita ai dodici tempi individuati è stata confermata anche da uno studio elaborato dall’istituto di statistica su cosa, secondo gli italiani, determina il benessere di una società. Il campione di 45 mila persone ha messo al primo posto la salute, la possibilità di assicurare un futuro ai figli e di avere un lavoro dignitoso. «Risposte sulle quali si è riscontrata una straordinaria omogeneità al di là delle fasce d’età, del sesso o dalla provenienza territoriale» commenta Giovannini «il che vuol dire che c’è nel Paese c’è lo spazio per costruire un futuro partendo dalla definizione del benessere che vogliamo. E’ un messaggio per la politica, deve farla riflettere».
L’indicatore del benessere è tutt’altro che un gioco: in Paesi come l’Australia e la Nuova Zelanda, dove il percorso è più avanzato, le nuove leggi che il governo vuole varare vengono valutate anche in base all’impatto che determineranno sugli indicatori del benessere. E’ una rivoluzione che Cnel e Istat si augurano pure in l’Italia, anche perché ridarebbe penso alla politica in crisi e fornirebbe una possibile via d’uscita al Paese in stallo.
Il 4 novembre 1966 l´Arno invase Firenze. Dopo 45 anni nulla è cambiato. Si resta sgomenti. L´Italia non regge più ore e giorni di pioggia. Muoiono persone, e anche una sarebbe troppo. Muoiono bambini. Non servono più gli allarmi se i sindaci non mettono in atto misure di prevenzione. Se il clima è cambiato, se a Genova in cinque minuti sono caduti 50 millimetri di acqua, dobbiamo cambiare anche noi. Altrimenti si continuerà a morire, nelle grandi città e nelle nostre case che crediamo sicure. A Genova il sindaco ha lasciato scuole e uffici aperti, e solo ieri sera ha proibito, per oggi, il traffico di auto. Troppo tardi.
Oltre alla profonda tristezza, da lacrime agli occhi, si resta increduli nonostante lo si sia detto troppe volte. Si denunciano lo scellerato consumo di suolo libero, la cementificazione selvaggia, l´incuria cui sono sottoposti i terreni demaniali in svendita, i boschi, le coste e i suoli che un´agricoltura in crisi come non mai non riesce più a curare. Lo Stato da anni taglia fondi e personale per la cura del territorio. Pensano alle grandi opere e non si preoccupano più delle piccole. Minime, ma che a volte salvano vite. Ci sono delle colpe. Gravi.
L´altro ieri il ministro dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ammetteva il fallimento dell´impegno principale assunto sull´ambiente. Come ha dichiarato la ministro in commissione al Senato, il miliardo di euro stanziato con la Finanziaria 2010 per la messa in sicurezza del territorio non è mai stato reso disponibile. Con la legge di stabilità è stato anche ufficialmente cancellato e sostituito con un impegno del tutto generico, e non vincolante. Queste sono colpe, per cui un normale cittadino verrebbe condannato. Non c´è crisi che tenga di fronte alla cura del bene comune, il primo impegno che ogni Stato degno di questo nome dovrebbe avere.
Non c´è cura se non si cura la piccola agricoltura di qualità, che in molte zone ritenute "arretrate" ha salvato dal naufragio (umano nonché meteorologico) intere aree del Paese. Non c´è cura se si preferisce l´agricoltura dei grandi numeri, quella industriale che dicono «competitiva», che alla fine desertifica. Non c´è cura se c´è cemento ovunque. Non c´è cura se il soldo arriva a prevalere sul buon senso, quello che potrebbe salvare i nostri territori dalla bruttezza e dall´insicurezza più letale.
Smettiamola di dire che le alluvioni sono eventi eccezionali. Perché le abbiamo rese normali. Di fronte a cittadini ormai disabituati alla cura, lo Stato e la politica su questo fronte hanno colpe enormi. Sono anni che non si vede tra le priorità di un programma elettorale o di governo la difesa del territorio, nemmeno tra i riempitivi. Spero che mentre si contesta questo governo, visti i drammi recenti, i partiti inizino a pensarci seriamente, a programmare, a spendere parole e impegni forti, proprio a partire dalle adunate di piazza. Spero che ascoltino quella buona parte di società civile che lo chiede da tempo e già ci lavora con passione e sacrifici. O quegli agricoltori distrutti dai debiti che nonostante tutto lo fanno ogni giorno, nel proprio podere. Un poeta come Tonino Guerra un anno fa mi ha detto: «L´Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c´era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l´abitavano: i contadini. Dobbiamo riapprendere quella forza d´amore che avevano loro». Qui non è più sufficiente indignarsi, bisogna tornare ad amare per davvero questa terra. Vilipesa non soltanto nei comportamenti inqualificabili di chi governa, ma nell´indifferenza di fronte a scempi che non sono più tollerabili. Anche se non lo erano già ben prima di arrendersi allo sgomento di questi tristi giorni della nostra storia.
Questa Europa che detta legge ai governi mi ricorda tanto la Santa Alleanza del 1815, che interveniva in tutto il continente per sedare le rivolte, anche quelle dei patrioti italiani. Pensavano di avere l’Europa sotto i piedi, un po’ come oggi fanno i vertici della Ue e della Bce...». Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina all’Università di Bari, ha in cantiere un pamphlet sull’Europa, di cui anticipa alcuni contenuti, anche provocatori, a l’Unità. Non ha dubbi nel sostenere le ragioni del governo greco, che ha tentato di sottoporre a referendum il piano di austerità voluto dall’Ue. «Al premier Papandreou è stato persino imposto di riformulare il quesito, in modo da estenderlo alla permanenza stessa nell’euro. Un atteggiamento semi-coloniale, e la conclusione, cioè la rinuncia della Grecia alla consultazione, è uno scacco mortale alla democrazia. I capi dell’Europa si sono mossi come il brigante Mackie Messer dell’Opera da tre soldi di Brecht, con il coltello in mano».
Professore, che spazio c’è per la democrazia in questa crisi governata dai mercati?
«Il problema è la cessione di sovranità da parte degli stati nazionali verso delle strutture sovranazionali che non hanno una vera legittimazione democratica, perchè hanno una provenienza di tipo tecnico-burocratico e bancario-speculativo. In questo contesto la cessione di sovranità diventa un fenomeno inquietante».
Persino il Wall Street Journal aveva parlato di una “lezione di democrazia” da parte della Grecia.
«In effetti si può dire che la Grecia, che ha fondato la democrazia, ora ne rappresenta una sorta di ultima trincea».
Lei vede margini di democratizzazione della governance europea?
«Sinceramente no, e ricordo cosa disse il presidente della Banca centrale tedesca nel 1998, quando preconizzava la sostituzione del suffragio elettorale con quello dei mercati. Mi pare che il suo auspicio si sia ampiamente avverato».
Come si esce da questo impasse?
«Dopo oltre 50 anni dai trattati di Roma del 1957, non si è riusciti a costruire un governo, una politica estera e neppure un esercito unico. Mi pare che si possa parlare, storicamente, di un fallimento».
E come ci si salva?
«Oltre un anno fa le grandi banche tedesche si sono riunite a Davos per predisporre un piano di fuoriuscita dall’euro. Anche l’opinione pubblica tedesca ormai per oltre l’80% è contraria all’euro. La verità durissima è che l’Europa è un’invenzione astratta, un continente che contiene elementi distinti: il mondo anglosassone, quello francotedesco e mediterraneo. Va ripensato tutto».
Ritiene davvero possibile che l’Italia esca dall’euro?
«Si deve contrattare. I paesi del Mediterraneo, quelli più colpiti, dovrebbero alzare la voce per rinegoziare i parametri di Maastricht, ventilando anche l’ipotesi di costruire una propria area di scambio commerciale alternativa».
Con Berlusconi a Palazzo Chigi l’Italia è oggettivamente più esposta alla speculazione.
«Certo, ma quando sento dire dalle opposizioni che ci vuole un governo di emergenza per imporre i sacrifici ai cittadini, rabbrividisco. Il problema sono i sacrifici, non quale governo li impone. È un errore dare per scontati i sacrifici imposti dall’Europa, e non capisco perché l’opposizione si offra di partecipare».
Molti analisti sostengono che il “vincolo esterno” di Maastricht ci ha reso più virtuosi.
«Ci ha consentito non di essere meno spreconi, ma di mantenere i privilegi di chi già li aveva e di spremere ancora di più i lavoratori dipendenti, quelli che hanno un reddito visibile».
Credevo che ci fosse un limite a tutto. Quando Papandreou ha proposto di sottoporre a referendum del popolo greco il «piano» di austerità che l'Europa gli impone (tagli a stipendi e salari e servizi pubblici nonché privatizzazione a tutto spiano) si poteva prevedere qualche impazienza da parte di Sarkozy e Merkel, che avevano trattato in camera caritatis il dimezzamento del debito greco con le banche. Essi sapevano bene che le dette banche ci avevano speculato allegramente sopra, gonfiandolo, come sapevano che Papandreou aveva chiesto al Parlamento la facoltà di negoziare, e che una volta dato il suo personale assenso, doveva passare per il suo governo e il parlamento (dove aveva tre voti di maggioranza). Ed era un diritto, moralmente anzi un dovere, chiedere al suo popolo un assenso per il conto immenso che veniva chiamato a pagare. Era un passaggio democratico elementare. No?
No. Francia e Germania sono andate su tutte le furie. Come si permetteva Papandreou di sottoporre il nostro piano ai cittadini che lo hanno eletto? È un tradimento. E non ci aveva detto niente! Papandreou per un po' si è difeso, sì che glielo ho detto, o forse lo considerava ovvio, forse pensava che fare esprimere il paese su un suo proprio pesantissimo impegno fosse perfino rassicurante. Sì o no, i greci avrebbero deciso tra due mesi, nei quali sarebbero stati informati dei costi e delle conseguenze. Ma evidentemente la cancelliera tedesca e il presidente francese, cui l'Europa s'è consegnata, avrebbero preferito che prendesse tutto il potere dichiarando lo stato d'emergenza, invece che far parlare il paese: i popoli sono bestie; non sanno qual è il loro vero bene, se la Grecia va male è colpa sua, soltanto un suo abitante su sette pagava le tasse (e non era un armatore), non c'è parere da chiedergli, non rompano le palle, paghino. Quanto ai manifestanti, si mandi la polizia.
E per completare il fuoco di sbarramento hanno aggiunto: intanto noi non sganciamo un euro. Erano già caduti dalle nuvole scoprendo nel cuor dell'estate che la Grecia si era indebitata oltre il 120 del Pil. E non solo, aveva da ben cinque anni una «crescita negativa» (squisito eufemismo). Né i governi, né la commissione, né l'immensa burocrazia di Bruxelles se n'erano accorti, o se sì avevano taciuto; idem le banche, troppo intente a specularci sopra. Perché no? I singoli stati europei hanno dato loro ogni libertà di movimento, le hanno incoraggiate a diventare spregiudicatissime banche d'affari, e quando ne fanno proprio una grossa, invece di mandar loro i carabinieri, corrono a salvarle «per non pregiudicare ulteriormente l'economia».
In breve, la pressione è stata tale che Papandreou ha ritirato il referendum. La democrazia - in nome della quale bombardiamo dovunque ce lo chiedano - non conta là dove si tratta di soldi. Sui soldi si decide da soli, fra i più forti, e in separata sede. Davanti ai soldi la democrazia è un optional.
Nessun paese d'Europa ha gridato allo scandalo. Né la stampa, gioiello della democrazia. Non ho visto nessuna indignazione. Prendiamone atto.
Di fronte al precipitare della crisi finanziaria e al prepotente riemergere dell’ipotesi di un governo di emergenza, che trova robusti consensi nelle file del Pd e dell’Idv, Nichi Vendola ribadisce il suo no. «L’idea del governo tecnico, di una risposta emergenziale, non risolve il problema: siamo di fronte ad una crisi lunga, strutturale, direi di modello. Quelle che vengono apparecchiate come proposte tecniche sono in assoluta continuità con le politiche economico-sociali che hanno generato la crisi. Il governo di emergenza è una strada strategicamente sbagliata e politicamente poco fondata negli attuali rapporti di forza parlamentari». Eppure l’Italia è a un passo dal baratro...
«Se per rispondere all’attacco speculativo si chiude a tenaglia la stretta sul welfare, se si prosegue con la retorica dell’austerità la politica della miseria, se non si mette in piedi un’idea di politica industriale e di crescita, noi continueremo a produrre tagli su tagli senza effetti virtuosi sul debito pubblico. Il Paese, nel frattempo, salta. E rischia di saltare la coesione sociale, l’architrave del patto che tiene insieme gli italiani».
Se un governo di emergenza dovesse vedere la luce, quale sarà il vostro atteggiamento? «Negativo. Non esistono ricette neutre, se le medicine rischiano di uccidere l’ammalato, non è che se le acquisto in una farmacia più grande gli effetti sono meno nefasti. Quello che ci rende così vulnerabili agli speculatori è l’opacità della politica, l’autoreferenzialità di una classe dirigente barricata nei suoi fortini».
Secondo lei, insomma, se Berlusconi cadesse per il Paese non sarebbe comunque un balsamo? «No. Per me il rischio è che si confondano le responsabilità e si rende ancora più torbida l’acqua in cui nuota l’opinione pubblica. C’è il rischio che si operi una sorta di sterilizzazione della coscienza critica nei confronti del berlusconismo, che la crisi venga addebitata alla politica tout court e non a al governo della destra, con tutte le conseguenze del caso sul piano della tenuta democratica. E poi guardiamo al caso greco: il referendum proposto dal premier Papandreou dimostra che il re è nudo e pone un tema ineludibile: qual è la legittimazione democratica di chi detta legge a parlamenti e governi? La drammaticità della crisi richiede un ingresso potente della politica, questa non è l’ora della “tecnica”». Di Pietro propone una “controlettera” all’Ue. È praticabile?
«Ci si può ragionare. La nostra lettera, se ci sarà, dovrà contenere il capovolgimento dell’impianto di Berlusconi. Non si può non partire da una geografia sociale così segnata da elementi pesantissimi di iniquità. Nel paese è maturata una questione sociale dirompente, che non si può affrontare con l’artificiosa contrapposizione tra i nonni con 500 euro di pensione e i nipoti precari. Dobbiamo partire da una patrimoniale pesante, e da una significativa redistribuzione della ricchezza».
Negli ultimi giorni sembra allontanarsi l’ipotesi di un’alleanza tra centrosinistra e Udc alle prossime politiche... «Sarebbe la presa d’atto di un’intenzione più volte manifestata dal Terzo polo: correre da solo. Nel Pd qualcuno ha iniziato a riflettere anche sul caso Molise, per quello che ci insegna. Lì abbiamo scelto un candidato che veniva dal blocco avversario, con l’idea che avrebbe attratto voti moderati .È finita che l’Udc ha sostenuto il centrodestra e noi abbiamo perso per pochi voti, regalando molti consensi di sinistra ai grillini. L’”alleanzismo“ disinvolto, senza un’idea comune dell’Italia che vogliamo, rischia di sostituire l‘algebra alla politica. Ma non funziona».
Nel Pd sono stati i giorni di Renzi e della sua convention fiorentina. Lei cosa ne pensa? «Rispetto Renzi, e spero che il confronto tra noi resti sempre sulla politica, senza degenerare mai. Lui ha fatto da destra un’operazione simile a quella che ho fatto io da sinistra». In che senso? «Propone il tema di un’innovazione radicale, di un’offerta politica che rompe le regole, rimescola le carte, e decostruisce il partito».
Perché gli appiccica l’etichetta di ”destra”? «Accanto ad alcune idee di buon senso ma non molto nuove, Renzi propone in forme comunicativamente suadenti un rilancio dell’ipotesi neoliberista. Ma quello è il piano su cui ricostruire l’Italia o l’inizio della catastrofe? A questo si aggiunge la rimozione di alcune questioni aperte, a partire dal modello di sviluppo, e l’ambiguità sul peso del lavoro nella scena sociale. Si finge di non vedere quanto tutto il mondo del lavoro sia stato succhiato nel vortice della precarizzazione, e si costruisce una giustapposizione artificiale tra garantiti e non garantiti. Non si capisce come mai gli standard di vita dei garantiti debbano peggiorare per poter garantire gli altri. Insomma, vedo una forte continuità con le culture che da Reagan in poi hanno impregnato il mondo occidentale».
Una bocciatura senza appello? «Renzi ha un merito: disvela qualcosa che esiste nel Pd, un’ipoteca non moderata ma liberista sul futuro. E invece oggi c’è bisogno di un riformismo radicale, che si ponga come obiettivo la “conversione” del modello di sviluppo».
Ritiene che il sindaco di Firenze esprima un pensiero radicato nel Pd? «Sta cercando di rompere il giocattolo, per costruire una nuova alleanza tra poteri forti e comunicazione mediatica, come dimostra la scelta dei suoi testimonial, tutti con una cultura politica di destra».
Come la vedrebbe una sfida tra lei e Renzi alle primarie?
«Intanto il nodo della sua candidatura non è sciolto. Il dibattito fa bene, purché nessuno giochi a nascondino. Le carte vanno messe sul tavolo: per me un modello sociale che usa la crisi per rendere ancora più selvaggia la jungla del mercato del lavoro è il passato. E non si può danzare genericamente su temi come lavoro e pensioni».
Ieri Di Pietro in un’intervista all’Unità ha ipotizzato di non correre alle primarie per sostenere Bersani e rafforzare così la coalizione. «È un bel gesto, che dal suo punto di vista aiuta la semplificazione della contesa. Ciascuno di noi sta pensando insieme alla propria idea di programma e a come irrobustire il centrosinistra. Io lo faccio da tempo, concentrandomi sui ragionamenti politici, senza inseguire nessuno sul terreno delle polemiche. La mia presenza renderà le primarie un fatto vero, e questo è un bene».
Fino a che punto le regole vigenti nell´economia mondiale sono tuttora compatibili con l´esercizio della democrazia? La domanda è più che legittima, vista la reazione di panico con cui i mercati finanziari, e insieme a loro tanti leader politici nonché le principali istituzioni monetarie, hanno condannato la decisione del governo greco di convocare un referendum sulle ricette amare prescritte dall´Unione europea.
Il presidente della Banca mondiale, Robert Zoellick, ne parla come di un "lancio di dadi". Il governo tedesco lo qualifica come inaccettabile "perdita di tempo". Quanto alle reazioni dell´establishment di casa nostra, basti per tutti l´aggettivo con cui Ferruccio de Bortoli, sul Corriere della Sera, liquida il referendum indetto da Papandreou: "Scellerato".
Scellerato il ricorso a uno strumento di democrazia diretta? E perché mai? La risposta implicita può essere una soltanto, dato che purtroppo non esiste ancora una Confederazione Europea titolare di sovranità democratica condivisa: uno Stato che, come la Grecia, ha accumulato un debito insostenibile, per ciò stesso sarebbe condannato alla perdita della sovranità nazionale; ai suoi cittadini, quindi, può venir confiscato il diritto di assumere decisioni sul proprio futuro.
Per giustificare un tale ricorso allo stato d´eccezione che contemplerebbe la sospensione dell´esercizio della sovranità popolare, qualcuno invoca il paragone storico: quando mai un leader politico come Winston Churchill avrebbe sottoposto all´opinione pubblica impaurita la decisione stoica di resistere all´aggressione nazista? La metafora bellica, però, è un´arma a doppio taglio: possiamo considerare un progresso che, nel mondo contemporaneo, il dominio sia fondato non più sugli eserciti ma sul debito. Purché si riconosca che siamo in presenza di una nuova forma di colonialismo.
Si badi bene. Il governo greco soffre di un deficit di forza e autorevolezza, è vero. Ma non si è sottratto al dovere di rinegoziare con l´Ue e il Fmi le condizioni del suo debito. Ne è conseguito un piano di rientro terribilmente oneroso. I cittadini non vengono chiamati a pronunciarsi su un singolo provvedimento, prerogativa del governo in carica, ma su una scelta per tutti loro vitale. Accettare i sacrifici necessari per continuare a far parte dell´Unione europea, o sobbarcarsi l´incognita del default? Già nella piccola Islanda, con due diversi referendum, gli elettori hanno rifiutato di onorare il piano di rimborsi predisposti dal Fmi, e hanno preferito penalizzare le banche creditrici inglesi e olandesi. È vero che se un´analoga decisione venisse assunta dai greci, le ripercussioni sarebbero molto più gravi per tutta l´eurozona. Ma resta la domanda: a chi spetta decidere? C´è forse qualcuno che può sostituirsi al popolo greco in un tale frangente?
Nel loro recente libro-dialogo Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky ricordano che per millenni la democrazia fu considerata un pessimo sistema di governo perché solo un´élite di avveduti saprebbe decidere per il meglio, non la massa degli ignoranti. Se invece restiamo fermi nella convinzione che "il popolo si può sbagliare ma resta il miglior interprete del proprio interesse", e quindi "ogni altro interprete è peggiore", allora dobbiamo guardarci dai vizi antidemocratici che contraddistinguono l´attuale gestione della crisi del capitalismo finanziario. Possiamo delegarla a autorità monetarie rivelatesi per decenni insensibili a piaghe come la disoccupazione e l´acuirsi delle disuguaglianze, se non addirittura compartecipi nel predominio della finanza speculativa? Non risulta beffardo che l´autonominatosi direttorio franco-tedesco sia oggi costituito da leader di destra che negli anni scorsi hanno boicottato una reale unione politica sovranazionale? Per non dire dei governanti italiani che fino a ieri blateravano di popoli in rivolta contro gli "euroburocrati", salvo sottomettersi ora acriticamente ai diktat di Francoforte e Bruxelles.
Una politica incapace di rimettere in discussione i dogmi di un´economia fondata sulla lucrosa perpetuazione del debito e sull´ideologia della competizione esasperata, subisce passivamente la contrapposizione tra finanza e democrazia; sposa le convenienze della finanza a scapito della democrazia. Del resto, la levata di scudi contro il referendum greco è un atteggiamento già sperimentato in Italia. Come dimenticare che la primavera scorsa il nostro governo sperperò centinaia di milioni nell´inutile tentativo di boicottare i referendum sull´acqua e sul nucleare, rinviandone lo svolgimento? E ora, nella foga di varare un piano di privatizzazione delle aziende pubbliche, il governo si prepara a calpestare quel voto contrario di ventisette milioni di italiani convinti che si debbano preservare dei "beni comuni". Tutti scellerati?
Un anno e mezzo dopo lo scoppio della crisi greca, due mesi dopo lo scoppio delle manifestazioni a Wall street e in tutto il mondo - e mentre crollano nuovamente i mercati - la necessità di una svolta nella politica europea arriva sulla prima pagina del Sole 24 Ore, con il "Manifesto per risollevare l'Europa" di Daniele Bellasio e Enrico Brivio. Si propongono cinque cambiamenti di rotta per «permettere all'Europa di fare un vero salto di qualità, disinnescare la crisi del debito sovrano e presentarsi ai partner a testa alta» al G20 di domani: un vero governo economico europeo, una banca centrale che funzioni come la Fed americana, Euro project bond per le infrastrutture, Euro Union bond per ridurre i costi del debito pubblico, un mercato unico per il credito.
Finalmente si apre una discussione all'altezza dei problemi. Non si può non essere d'accordo su una Banca centrale che sia tenuta non solo a combattere l'inflazione, ma a sostenere la crescita: lo si chiede dalla fondazione della Bce. D'accordo in linea di principio sul governo economico europeo, ma qui il Sole lo vorrebbe «guardiano della disciplina fiscale», mentre serve un protagonista della politica economica che possa sostenere la domanda per evitare una grande depressione in Europa.
D'accordo sugli eurobond per finanziare progetti di sviluppo, ma basta, per favore, con le "grandi opere" che non servono e non si fanno: usiamo gli eurobond per finanziare la riconversione ecologica dell'economia, il risparmio energetico, le energie rinnovabili, le "piccole opere" che creano occupazione e qualità della vita. D'accordo pure con la proposta di Prodi e Quadrio Curzio, già apparsa sul Sole, sugli eurobond per ristrutturare - a condizioni migliori - il debito pubblico esistente.
Un po' meno d'accordo sul mercato unico per il credito. È dal 1990 che si liberalizzano i mercati dei capitali e la finanza, e pensare che altre liberalizzazioni portino stabilità sembra quantomeno ingenuo. Stupisce il silenzio del Sole sulla tassa sulle transazioni finanziarie su cui perfino Merkel e Sarkozy hanno concordato, e sulle altre misure che potrebbero limitare la speculazione finanziaria che ha colpito l'Europa. È comunque una buona notizia ritrovare sul Sole alcune delle proposte emerse nella discussione aperta nel luglio scorso dal Manifesto e da Sbilanciamoci sulla "rotta d'Europa". Il problema - anche per il Sole - è capire quali possono essere le "gambe" politiche che a Roma e a Bruxelles potranno sostenere quest'agenda. Confindustria si vuole impegnare su questa strada? Che interlocutori troviamo in parlamento? Come convinciamo la Germania sugli eurobond? Ma forse c'è un'altra buona notizia, Il Manifesto italiano appare nel giorno dell'insediamento di Mario Draghi alla Presidenza della Bce a Francoforte: che sia un segnale di cambiamento possibile nella politica della Banca centrale?
La sentenza n. 951/2011 (depositata il 28 giugno 2011) del T.A.R. Lombardia-sezione di Brescia, delinea uno scenario importante che è bene venga conosciuto in ogni Comune italiano: un nuovo Piano di Gestione del Territorio (o Piano Regolatore) non può basarsi su previsioni di sviluppo demografico non giustificate. In parole povere, non è possibile che la nuova pianificazione si basi su un numero di abitanti potenziali di troppo superiore all'effettivo andamento demografico registrato nel corso degli anni. Nel caso in questione, il PGT di Soncino (Cremona) prevedeva un aumento del 30% della popolazione attuale a fronte di un'evoluzione demografica sostanzialmente stabile registrata nel Comune negli anni.
Limitandosi a sottolineare l'assenza di giustificazioni all'interno dei documenti di piano di tale scelta, i Giudici bresciani hanno quindi annullato il Piano del Comune di Soncino, invitando il Comune a dare successivamente debito conto delle proprie stime in sede di successiva adozione. Nella sentenza si legge che è presente un “errore nel dimensionamento del piano […] sulla stima del futuro numero di abitanti”, il PGT annullato “prevede un considerevole aumento della popolazione residente, che dovrebbe accrescersi di 2.979 nuovi abitanti […] si tratta di un incremento superiore al 30% e considerevole anche in valore assoluto, previsto secondo logica nell’arco dei cinque anni che […] costituiscono il termine di validità del documento di piano”. Basta guardare l’andamento storico per verificare che “l’evoluzione demografica del Comune di Soncino, è caratterizzata da una sostanziale stabilità” citando la crescita di 321 abitanti negli ultimi 36 anni. Questa previsione di crescita spropositata e non dimostrata, a detta del TAR, è “senza dubbio una illogicità manifesta […] e comporta l’annullamento del piano”.
Quante decine (centinaia ? migliaia ? ...) di Comuni italiani conoscete in identica situazione ? Ora c'è una sentenza del T.A.R. a fare da precedente !
Da quando hanno cominciato a protestare, gli indignati hanno denunciato via via l´ottimismo illusionista dei governi, le istituzioni internazionali spesso indifferenti ai vincoli democratici, infine la Banca centrale europea: nostro salvagente, ma salvagente riluttante a tramutarsi in prestatore di ultima istanza. Le denunce possono convincere o no, ma dietro c´è una domanda cruciale, cui non si sfugge.
La domanda è comune agli indignati e alle forze che in queste ore, più che mai, mostrano di non credere in Stati come Grecia e Italia, non escludendo funeste bancarotte: chi comanda, nell´emergenza che viviamo? E se davvero la crisi prelude a una mutazione radicale delle società, se davvero Roma o Atene s´inabissano: quali poteri decideranno il da farsi, combinando o non combinando i sacrifici con la giustizia sociale che fonda le nostre democrazie? Chi controlla i controllori?
Davanti a questo bivio stiamo, e la domanda è cruciale perché pone al tempo stesso la questione della sovranità e della democrazia. E perché è una domanda che in Italia sale dal Quirinale stesso, che giudica il vuoto politico ormai non più tollerabile. La risposta che dà Berlusconi - colpevole è l´euro, «moneta strana che non ha convinto nessuno» - è non solo becera. È nichilista, perché scaricare le responsabilità su Francoforte significa perpetuare la truffa illusionista e non capire il tracollo del proprio ventennio: ventennio che si chiude con una sorta di sconfitta bellica simile a quella che travolse Mussolini. Quando il Premier gioca allo sfascio attaccando l´euro, e poi fa come se avesse detto il contrario, mostra che la cacofonia affligge non tanto la sua maggioranza quanto la sua testa, e quel che la testa gli fa dire. Con cortesia gelida, Mario Monti gli ha ricordato in una lettera aperta sul Corriere che «anche le parole non sorvegliate hanno un costo», pagato da noi tutti.
Altri giocano allo sfascio, più o meno scompostamente. C´è chi, come il Premier greco, indice un referendum spericolatissimo sull´austerità, presentandolo come democrazia. C´è chi accarezza l´idea di sospenderla, la democrazia, persuaso in segreto che la via sia quella di Donoso Cortés, il politico spagnolo dell´800 che preferiva l´autoritarismo alla sempre titubante clase discutidora. Chi parla di governi italiani di salute nazionale indica la soluzione (il Quirinale stesso fa sapere che «servono larghe intese»), ma esiste il rischio di curare i mali col veleno che li ha creati. Non abbiamo bisogno che al governo vada un outsider infastidito dalla politica, magari con nuovi conflitti d´interesse: l´esperimento è già stato fatto, dopo Mani Pulite, dall´imprenditore di Arcore. Credo che l´Italia abbia sete di veri politici, di servitori dello Stato come Monti che è stato per anni civil servant in Europa, allo stesso modo in cui per liberarsi da Tangentopoli ebbe bisogno di Ciampi, del suo senso della res publica. Il nostro risanamento non può avvenire in due tempi: prima la democrazia sospesa, poi il ritorno al confronto politico normale.
Se ben governata, la catastrofe italiana può infatti riservare sorprese non distruttive, e fornire una risposta alla doppia domanda di indignati (e mercati) su sovranità vera e democrazia. Tutto verte attorno al termine commissariamento, vissuto come un´onta da gran parte della nostra classe dirigente. In un articolo pubblicato il 28 ottobre sul Sole 24 ore, dopo l´accordo di Bruxelles e la lettera d´intenti italiana, Beda Romano ha scritto un importante articolo, che punta il dito sulla frase più rivelatrice del comunicato finale del vertice Ue: «Invitiamo la Commissione a fornire una valutazione dettagliata delle misure e a monitorarne l´attuazione, e le autorità italiane a fornire tempestivamente tutte le informazioni necessarie per tale valutazione».
Il passaggio equivale a un commissariamento solo se restiamo convinti che gli Stati nazione siano ancora capaci di comando, nell´emergenza. Ma il comunicato può esser letto in modo radicalmente diverso: come primo segno di una riduzione delle sovranità nazionali, non negativa anche se vissuta - in Italia - dolorosamente e non democraticamente. «L´Italia è diventata all´improvviso un banco di prova per l´intera unione monetaria», scrive Romano, e, lungi dall´essere commissariata, potrebbe essere «il battistrada di una nuova Europa».
Non per questo però il dramma s´attenua. L´esperimento che trasforma l´Italia in embrione di governo europeo nasce con vizi gravi: affronta la questione della sovranità, non della democrazia. È uno dei punti salienti del discorso, lucido, che Napolitano ha tenuto a Bruges il 26 ottobre: una nuova Europa sta forse nascendo, non solo economica ma politica, dotata di una «sovranità europea condivisa», ma alla metamorfosi dell´Unione potranno contribuire in maniera inventiva solo Stati non disfatti, ridotti a cavie, tentati dall´antipolitica, ma che stiano in piedi agendo da protagonisti su ambedue i piani: apprendendo la cultura della stabilità, e spingendo i partner dell´Unione a fare più Europa, a dotare il bilancio comunitario di più mezzi, a osare la messa in comune dei debiti con gli eurobond, a riprendere il sentiero dell´Europa sociale. Anche nel quadro di un avanzamento dell´Unione, ha detto Napolitano lunedì, «restano affidate inderogabili funzioni agli Stati nazionali, e decisivo resta il loro concorso al perseguimento delle stesse politiche comuni europee». Come concorrere, se lo Stato naufraga?
La cessione di sovranità non può iniziare profittando di un legno marcio, oltre che storto. Altrimenti il battistrada diverrà spauracchio. La Francia farà simili passi? E la Germania, il cui nuovo nazionalismo Habermas giudica severamente, cederà infine sovranità? Si ritorna così alla prima domanda: se l´Italia è apripista, chi comanderà la futura Europa delle sovranità condivise? Che volto avrà il governo sovranazionale: quello del Leviatano di Hobbes (l´autorità fa legge), oppure esisteranno regole cui l´auctoritas dovrà sottostare? Se il referendum greco minaccia l´euro, quale democrazia europea inventare, perché i cittadini non si sentano spodestati?
Disvelare i veri poteri e democratizzarli è il compito dei partiti europei. Un compito arduo in Italia, perché doppio: si tratta di allontanare Berlusconi, che evidentemente crea sfiducia ovunque, e di lavorare, in Europa, per un salto di qualità federale. Nicola Zingaretti, nel manifesto scritto il 27 ottobre sul Foglio, fa proprio questo: è l´unico, a me pare, ad auspicare una battaglia simultanea in Italia e Europa. Quel che propone, in sintonia con Napolitano, è lanciare subito «una campagna per l´elezione diretta del presidente dell´Unione europea», per rispondere alla richiesta di un nuovo spazio politico. I politici italiani di destra e sinistra sono accusati di aver «abdicato alla missione per la quale fu intrapreso il cammino dell´unità (il cui simbolo vincente è stato senz´altro Romano Prodi)» e d´aver rinunciato ad affiancare un´Unione politica democratica a quella economica. Alla domanda di indignati e mercati urge rispondere indicando con chiarezza quali sono i poteri e i contropoteri negli Stati e nell´Unione: «Nell´era della comunicazione globale le persone vogliono giustamente sapere chi decide e controllare direttamente l´iter delle scelte».
Anche la Banca centrale europea deve cambiare, secondo Zingaretti, e darsi nuovi poteri e missioni: «Bisogna dotare l´euro degli stessi strumenti di cui gode oggi il dollaro, ed evitare che l´assenza di strumenti difensivi flessibili nel sistema monetario esponga la nostra moneta alla speculazione». Non lo propone solo Krugman, spesso scettico verso l´euro. Anche europeisti come Paul De Grauwe, Charles Wyplosz, Jacques Delors, chiedono che sia consentito all´istituto di Francoforte di divenire una Banca centrale autentica, prestatrice di ultima istanza. Solo così, secondo Delors, le istituzioni europee saranno «non i pompieri, ma gli architetti dell´Europa» che verrà, se la vorremo.
Il teorema Sacconi è lineare e infatti insiste. Ma certamente non è nuovo: ci sono forze politiche e sociali che, accusando il governo delle difficoltà del paese, gettano paglia sul fuoco della protesta, come dimostrerebbero gli scontri del 15 ottobre a Roma. La protesta, si sa, è come una bomba e una volta innescata è difficile da spegnere. Può assumere le forme civili del dissenso, ma anche quelle incontrollabili della violenza dentro cui ineluttabilmente si insinua e si nasconde il cancro del terrorismo. Non è questo che ci insegnano decenni di storia italiana? Morale: bandire la critica, vietare i cortei e, soprattutto, rigettare sui cattivi maestri - opposizioni politiche e sociali - le responsabilità di quel che potrebbe succedere. E che potrebbe succedere? Potrebbe scapparci il morto. Questo lo dice lui, la realtà è che il ministro teme che la protesta sociale possa riuscire là dove un'opposizione politica afona non riesce: mandare a casa lui e il suo capo Berlusconi.
Questa volta però il ministro Sacconi ha superato ogni limite, facendo perdere la pazienza persino a chi del suo teorema infame si è nutrito per decenni. C'è chi tenta di giustificarlo ricorrendo a strumenti psicologici: poverino, era così amico di Marco Biagi (e magari così pieno di sensi di colpa per la revoca della sua protezione) ammazzato dai terroristi che bisogna capirlo. Si potrebbe controbattere che nascondere le sue politiche liberticide e antioperaie, nonché il suo irresponsabile allarmismo, dietro il corpo di Biagi è un'operazione sporca.
Dire che il «socialista» Sacconi se le cerca sarebbe altrettanto irresponsabile, quasi un appello a metterlo a tacere. Invece non dovremmo metterlo a tacere, ma rimandarlo a casa a riflettere sui suoi incubi: i comunisti - sì, anche lui se li sogna la notte - il '68, la Cgil. Per non parlare della Fiom. Sacconi è assetato di vendetta, ha in testa solo il ritorno ai bei tempi, quando di fronte al padrone ci si toglieva il cappello, vuole tirare una riga sopra le conquiste - lui dice le aberrazioni - degli anni Settanta quando il ministro livido cominciò a elaborare il suo teorema. Ma è difficile mandare a casa Sacconi e il suo governo quando persino le bestemmie - per aumentare l'occupazione bisogna rendere più facili i licenziamenti - raccolgono applausi in tutto l'arco costituzionale. Quando giuslavoristi dinosauri denunciano l'eccesso dei diritti dei presunti garantiti, quando i giovani rottamatori scoprono le meraviglie del teorema Marchionne. Se anche mandassimo a casa Sacconi, e speriamo davvero di riuscirci prima che avveleni definitivamente il clima politico e sociale, ci resterebbero i fans di Marchionne e Ichino, e quelli che pensano che se i giovani oggi non hanno lavoro e domani non avranno la pensione, la colpa sta nel fatto che non si lavora fino a settant'anni e che c'è l'articolo 18.
Solo ricostruendo una razionalità di sinistra con gli anticorpi per non cadere nel trabocchetto del modernismo e del pensiero unico, potremmo essere certi di non trovarci a sostituire un Sacconi con un altro Sacconi, anche se è oggettivamente difficile pescarne uno come lui, persino cercando con impegno nel nutrito battaglione del pentitismo socialista italiano. Ma in tutto questo il terrorismo non c'entra nulla: non basta evocare i fantasmi per dar loro la vita.