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GENOVA – Un fondo alimentato da forme di fiscalità per finanziare gli interventi di emergenza, ma soprattutto quelli di prevenzione e le opere infrastrutturali: questo proporrà oggi al Consiglio dei Ministri Corradi Clini, responsabile del dicastero dell’Ambiente.

Da Genova (colpita dall’alluvione il 4 novembre) il ministro ha tracciato il suo programma: la costituzione del fondo da sostenere «non con una tassa di scopo propriamente detta» ma con risorse che potrebbero derivare «anche dalla patrimoniale se si deciderà di vararla».

Intanto oggi si prorogherà probabilmente l’aumento delle accise sul carburante. Clini ha dichiarato l’intenzione di rivedere la legge urbanistica nazionale in riferimento alle autorizzazioni edilizie: «In Italia sono state e sono autorizzate costruzioni – ha detto – che mai avrebbero dovuto essere approvate». Occorreranno sei mesi per tracciare «le nuove linee guida» e mettere in cantiere una mappatura del territorio.

Il principio ribadito dal ministro è stato: spendere in prevenzione è meno costoso che rincorrere i danni in emergenza. In riferimento all’outlet che dovrebbe essere costruito a Brugnato, un comune alluvionato, Clini ha detto, «mi sembra difficile che qualcuno abbia la fantasia di autorizzare costruzioni nuove in zone che sono esposte a rischi».

Gli scioperi generali erano molto comuni in Europa e Stati uniti sul finire del diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo. Essi provocarono intensi dibattiti nei sindacati e nei partiti e movimenti rivoluzionari (anarchici, comunisti, socialisti). L’oggetto del dibattito era l’importanza dello sciopero generale per le lotte politiche e sociali, le condizioni per il loro successo, il ruolo delle forze politiche nella loro organizzazione. Rosa Luxemburg (1871-1919) fu una delle presenze più importanti in quei dibattiti. Ora lo sciopero generale è tornato. In Europa, dopo quelli in Grecia, Spagna e Italia, ieri era la volta del Portogallo. Perché lo sciopero generale è tornato? Che analogie ci sono con le condizioni e le lotte sociali del passato?

Nei loro distinti ambiti (comunità, città, regione, paese), lo sciopero generale è sempre stato la manifestazione della resistenza contro situazioni ingiuste e dannose, ossia, situazioni che peggioravano le classi lavoratrici o perfino la società nel suo complesso, anche se specifici settori sociali o professionali potevano essere quelli più direttamente colpiti. Il rifiuto di diritti civili e politici, le repressioni violente contro le proteste sociali, le sconfitte dei sindacati nella loro lotta per il welfare sociale o contro la dislocazione di fabbriche con il relativo impatto diretto sulla vita di intere comunità, i «tradimenti parlamentari» (come le scelte della guerra o del militarismo), queste furono alcune delle condizioni che nel passato portarono allo sciopero generale.

All’inizio del ventunesimo secolo noi viviamo in un tempo diverso; le condizioni ingiuste e dannose non sono le stesse di prima. Tuttavia, rispetto alle rispettive logiche sociali, ci sono inquietanti similitudini. Ieri, la lotta era per quei diritti di cui le classi popolari sentivano di essere ingiustamente privati; oggi, la lotta è contro l’ingiusta perdita di diritti per cui tante generazioni di lavoratori hanno combattuto e che parevano essere conquiste irreversibili. Ieri, la lotta era per una più equa distribuzione dell’immensa ricchezza creata dal capitale e dal lavoro; oggi, la lotta è contro una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua (la confisca di salari e pensioni, l’aumento dello ore di lavoro e l’accelerazione dei ritmi lavorativi; imposizioni fiscali e salvataggi finanziari che favoriscono i ricchi - l’1% secondo quelli che vogliono occupare Wall Street - e condannano l’altro 99% a una vita quotidiana fatta di ansie e incertezze, di attese frustrate, dignità e speranze perdute).

Ieri, la lotta era per una democrazia che doveva rappresentare gli interessi della maggioranza emancipata; oggi, la lotta è per una democrazia che, una volta conquistata, è stata svuotata dalla corruzione, mediocrità e dalla avidità di leader e di tecnocrati non eletti che servono il capitale finanziario come hanno sempre fatto. Ieri, la lotta era per alternative (il socialismo) che le classi dirigenti sapevano esistere e quindi, chiunque le sostenesse, doveva essere represso brutalmente; oggi, la lotta è contro il senso comune neo-liberista, doviziosamente riprodotto dai media, che non c’è alternativa al crescente impoverimento delle maggioranze o allo svuotamento delle opzioni democratiche.

Alla luce di tutto questo, lo sciopero generale di ieri in Portogallo vuole lanciare i seguenti messaggi. Primo, le misure di austerità approvate dal governo per il prossimo budget sono controproducenti in quanto è tanto vero per i governi quanto per la gente comune che nessuno paga i suoi conti producendo e lavorando di meno; quelle misure d’austerità porteranno ad altre misure dello stesso tipo con l’ulteriore impoverimento di milioni di persone (guardate la Grecia); i sacrifici chiesti ai portoghesi non saranno mai compensati dai mercati perché questi prosperano chiedendone sempre di più (guardate all’Irlanda). Secondo, la soluzione meno dannosa è una soluzione europea.

Però federalizzare il debito senza federalizzare la democrazia (la soluzione favorita dalla Germania: gli eurobonds in cambio della resa totale al controllo finanziario di Berlino) significherà la fine della democrazia in Europa, e la Germania dovrebbe essere il paese meno interessato a una tale prospettiva. Come alternativa la Ue dovrebbe lavorare in tempi rapidi per andare alla federalizzazione del debito insieme alla federalizzazione della democrazia (più poteri all’euro-parlamento, elezione diretta della Commissione europea, un nuovo mandato per la Banca centrale). Dal momento che questo richiede tempo e per i mercati il lungo termine sono i prossimi dieci minuti, la Banca centrale europea dovrebbe cominciare a intervenire subito e in modo tale da mandare un segnale inequivoco della fattibilità e credibilità dei futuri cambi politici. Con un nuovo presidente e una diversa interpretazione del mandato corrente, questo è nelle possibilità della Bce.

* Sociologo, professore alla facoltà di economia dell’università di Coimbra (Portogallo) e docente di diritto alla università del Wisconsin-Madison (Usa). E’ uno dei fondatori del Forum sociale mondiale

Che cosa si può cogliere sulla politica infrastrutturale del governo Monti? Finora, come giusto dati i tempi strettissimi, non molto. Innanzitutto una attenzione particolare all’intervento dei privati, attraverso una riforma del project financing, che ne aumenti il ruolo e li protegga maggiormente dai capricci della politica. C’è solo da aggiungere che occorrerà anche un occhio vigile sugli aspetti indifendibili del project financing all’italiana: l’indebitamento pubblico mascherato, ciò l’intervento di capitali privati la cui redditività sia comunque garantita dallo stato. Di fatto, un prestito in altra veste, solo dilazionato nel tempo in modo non trasparente.

Facciamo un esempio: le nuove linee ferroviarie non hanno alcun ritorno finanziario (gli utenti non ne vogliono sapere di pagare gli investimenti). Il project financing in questo caso si trasforma sì in un investimento privato, ma con dei canoni annui a carico delle Ferrovie (“canoni di disponibilità”, nei termini della “finanza creativa” cara al governo Berlusconi), che di fatto sono le rate di un prestito ben mascherato. Purtroppo le banche hanno un ruolo centrale in queste operazioni, e certo non tocca a loro entrare nel merito di chi alla fine pagherà, cioè, in questo caso, gli ignari contribuenti, attraverso il bilancio di Fs, società tutta pubblica. Notoriamente, le autostrade, piaccia o meno, hanno utenti molto più disposti a sobbarcarsi i costi di investimento, sempre a loro insaputa.

Allora sembra urgentissimo dare forti segni di discontinuità rispetto alla logica delle grandi opere berlusconiane, soprattutto in termini di trasparenza: confrontare tra loro i progetti sul tavolo con analisi costi-benefici, e esplicitare chi e quanto alla fine pagherà. Infine c’è il problema di spendere i pochi soldi pubblici che ci saranno, con forti contenuti anticiclici: meglio allora concentrarsi sulle “piccole opere”, ad alta intensità di lavoro (ad esempio le manutenzioni), meno visibili politicamente ma molto più efficaci e utili.

Cronaca di un disastro annunciato

di Alessio Caspanello

Da settembre a oggi in Italia sono 32 le vittime del dissesto idrogeologico. Manca un piano nazionale di prevenzione L'alluvione che ha colpito il messinese devasta il comune di Saponara. Tre le vittime travolte dal fango. La Procura apre un'inchiesta per omicidio colposo Si poteva mettere in sicurezza il territorio con quei 160 milioni promessi e congelati da Berlusconi

Chiudendo gli occhi per un attimo, sembra di essere tornati indietro al primo ottobre del 2009. L'odore nauseabondo del fango, l'olezzo della nafta bruciata dai mezzi di soccorso, gli ordini urlati, il calpestio degli anfibi dei soccorritori, gli sguardi smarriti, gli occhi al cielo sperando che il sole faccia capolino dietro le nuvole nere, le bestemmie e le preghiere. Due anni fa, a Giampilieri e Scaletta, sotto il fango di messinesi ne sono rimasi trentasette. Ieri, di messinesi ne sono morti tre. Per il resto, tutto uguale. Due anni. Trascorsi invano.

Non è un paese normale quello in cui ogni volta che piove ci si deve chiudere in casa per ordinanza sindacale, quasi si fosse in guerra. Non è un paese normale quello in cui non c'è sicurezza nemmeno barricati dentro casa, perché troppo vicina agli argini di un torrente o troppo sotto una montagna. Non è normale che, a danno annunciato, non si intervenga. Saponara è un paesino di poche migliaia di abitanti, in collina, a cinque km in linea d'aria dal mare. Fino a ieri, era famoso per aver dato i natali a Graziella Campagna, la ragazzina quindicenne vigliaccamente uccisa dagli sgherri locali affiliati a Cosa nostra. Da ieri, e per qualche giorno, la ribalta delle prime pagine. Luigi Valla, il figlio Giuseppe ed il piccolo Luca Vinci sono rimasti vittime del fango e dell'acqua.

Luigi, cinquantacinquenne dirigente provinciale della Fiom (e già animatore della sezione del Pci di Saponara) e Giuseppe, studente di medicina di 28 anni, sono stati travolti in casa dalla frana che si è staccata dal costone sovrastante la loro abitazione. Luca, un bambino di soli dieci anni, è stato letteralmente strappato dalle mani della madre dalla furia del fango che veniva giù dalla monta: un evento imprevedibile, ha confermato il capo della protezione civile Franco Gabrielli. E anche Gaetano Sciacca, ingegnere capo del Genio civile di Messina che negli anni non le ha certo mandate a dire sul delirante scempio che si è fatto del territorio, ha dovuto constatare come le condizioni della collina che è franata siano buone, come il versante sia stato curato, come sia presente una vegetazione rigogliosa. E come le case non sorgano in zone abusive, precisazione che, quando una tragedia di questo tipo accade in Sicilia, è sempre meglio evidenziare in rosso, giusto a scanso di equivoci. Versione confermata anche dal sindaco di Saponara, Nicola Venuto, che, quasi in lacrime, ha spiegato che nel 2010 c'erano stati degli smottamenti e segnalati dei rischi «ma in un un'altra zona, non in questa».

E quindi pare proprio che la mano dell'uomo, nella tragedia non ci sia. Pare. Perché, di nuovo, non è normale che una tempesta possa uccidere tre persone. L'Italia, la Sicilia, e Messina in particolare, è una lunga teoria di torrenti che dalle montagne scorrono verso il mare. E negli anni sono stati riempiti di detriti, usati come discariche, colonizzati da case e coperti dal cemento. E le montagne, le montagne lanciano segnali, avvertimenti, non cadono giù da un giorno all'altro. Bisogna coglierli, quei segnali. E possibilmente intervenire. Perché i torrenti esondano, e le montagne franano. Ed quando lo fanno, esigono un tributo in vite umane. E non bastano i messaggi di cordoglio, e la fila di auto blu di fronte alla Prefettura. Servirebbero interventi massicci. Quelli che avrebbero in parte potuto garantire i centosessanta milioni di euro che il governo Berlusconi aveva stanziato per Giampilieri, Scaletta, Mili, san Fratello, Caronia, tutti comuni del messinese, ionici, tirrenici, peloritani e nebroidei devastati da frane e alluvioni.

Sarebbero serviti se solo fossero stati disponibili. E invece niente: accreditandoli, si sarebbe sforato il patto di stabilità della Regione Sicilia. E quindi niente. Alla fine, raschiando il barile, di milioni ne sono arrivati una quarantina. Per una intera provincia che si sbriciola sotto la pioggia.Il mattino dopo, a Saponara c'è un sole che sembra maggio. Perché la natura, se vuole, sa anche essere bastarda. E beffarda. Quello che resta è un paese colorato di marrone, gente che scava, gente che conta i danni, gente che si dispera e gente che piange. E che cerca un colpevole. Trovarlo, se mai ci si riuscirà, toccherà al Procuratore Capo Guido Lo Forte e al sostituto Camillo Falvo, che sono arrivati in paese per l'apertura dovuta di un'inchiesta: disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Che arriva giusto una decina di giorni dopo i 18 avvisi di chiusura indagini per i fatti di Giampilieri.

Stess test territoriali, non grandi opere

di Tonino Perna

Il primo ottobre del 2009 a Giampilieri, nella stessa provincia di Messina flagellata in questi giorni, caddero in poche ore 350 millimetri di pioggia. I morti a causa delle frane furono 37. A Genova, pochi giorni fa, di millimetri ne sono caduti 500, quanta pioggia viene mediamente giù in sei mesi.

Gli eventi estremi di cui tutti ora parlano con padronanza di linguaggio - uragani, tifoni e alle nostre latitudini piogge intense e concentrate alternate a periodi di forte siccità - sono ormai una tragica normalità. Il cambiamento climatico è una verità scientifica e non un'opinione. Di conseguenza, accusare la natura come il Fato è sbagliato e serve solo a nascondere altre responsabilità, umane e politiche.

Per la sua vicinanza geografica ai luoghi del disastro odierno, quello che è accaduto a Giampilieri rappresenta una perfetta cartina di tornasole. Il governo aveva promesso di intervenire, ma gli unici soldi arrivati sono andati agli alberghi della costa costretti a ospitare gli sfollati. In due anni non si è fatto nulla, e molti sono rientrati clandestinamente nelle case a rischio per necessità e non per incoscienza.

Oggi si ripresenta la stessa situazione. Tutti si strappano le vesti per poi non fare assolutamente nulla per il risanamento del territorio. Fare i conti con la normalità degli «eventi estremi» è una necessità che non trova adeguata rispondenza nelle volontà politiche dei governi.

Eppure le idee e le competenze per intervenire con successo non mancherebbero. Basterebbe farla finita con le grandi opere per destinare le risorse a un'unica opera di messa in sicurezza del territorio, a carattere nazionale, articolata in tante piccole opere locali sulla base di una scala di priorità, come da tempo propone anche Sbilanciamoci. Ma come si definisce questa scala di priorità? Attraverso degli stress test territoriali, simulando l'impatto di una pioggia intensa su un determinato territorio, secondo le sue caratteristiche morfologiche, e agendo su di esso di conseguenza.

È grave che tutto ciò non si faccia, ancora più grave in tempi di crisi economica e finanziaria. Abbandonare il territorio vuol dire non solo sopportare la tragedia delle vittime e il costo (materiale e immateriale) dei danni ambientali. Vuol dire anche alimentare l'assistenzialismo statale, ad esempio pagando per anni l'albergo a chi è rimasto senza un tetto. Quello stesso assistenzialismo che a parole si dice di voler combattere.

Stato di calamità in Calabria: Scopelliti fa l'«ambientalista»

di Silvio Messinetti

Un morto, una tragedia ferroviaria sfiorata, un ponte crollato, la linea jonica interrotta in più punti, intere zone del catanzarese prive di energia elettrica, gravi danni a Catanzaro città, chiuse le sale operatorie del Policlinico, decine di negozi invasi da fango ed acqua. Insomma, un disastro. Il solito in Calabria. Dove sostiene Legambiente: «Il 100% dei comuni è a rischio frane». E di fronte a questi dati raccapriccianti la politica non sa far altro che passerelle e messinscene.

«Chiediamo l'attivazione delle procedure per la dichiarazione dello stato di calamità. Speriamo che il governo ci fornisca tempestivamente le risposte. Noi faremo tutto ciò che è utile per cercare di attirare l'attenzione per il nostro territorio visto che i danni sono ingenti. Quello che noi facciamo finta di non sapere è che esistono situazioni di alloggi, abitazioni costruite all'interno di fiumare. E questo è accaduto perchè la politica era disattenta e oggi paghiamo le situazioni del passato. Dobbiamo lavorare per cercare di consolidare il nostro territorio e salvaguardarlo».

A parlare non è un'attivista dei movimenti a difesa del territorio ma il presidente della Regione, Peppe Scopelliti (Pdl), che anziché fare il mea culpa si traveste da ambientalista fuori tempo massimo. E alla presenza del capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, si cimenta nel solito scaricabarile. Ingiustificabile dato che le responsabilità delle istituzioni sono gigantesche. Sono passati appena 18 mesi dalla frana spettacolare di Maierato le cui immagini fecero il giro del mondo, e Scopelliti e compari in questo tempo sono stati a guardare. Nessun piano di messa in sicurezza del territorio, nessuna opera di salvaguardia e prevenzione. Ma solo cementificazione selvaggia, speculazione edilizia, banditismo urbanistico. E il risultato è sconcertante, la lista dei danni di due giorni di pioggia lunga come un lenzuolo.

Ieri è stato il crotonese a essere interessato da forti temporali che hanno provocato l'allagamento di molte abitazioni poste ai piani terra e di diversi scantinati, oltre a problemi alla circolazione per una serie di piccole frane verificatesi su alcune strade interne. Interrotta la linea ferroviaria jonica tra Soverato e Crotone per un muro caduto e allagata la stazione di Botricello. A Reggio in località Bocale i vigili del fuoco sono intervenuti per soccorrere una donna rimasta isolata nella sua abitazione dopo che una mareggiata aveva portato via un tratto di strada. A Cinquefrondi e a Cittanova le scuole sono state chiuse su disposizione dei sindaci. Stessa cosa a Catanzaro, colpita da un vero e proprio diluvio durato fino a notte fonda. Non è ancora chiaro il quadro dei danni, delle frane, delle interruzioni stradali dentro la città e nell'immediata periferia.

Le zone più colpite sono quelle a sud, nei quartieri Santa Maria e Lido e a Catanzaro Sala che ancora piange il morto di lunedì notte travolto dal muro della sua abitazione. Molti altri quartieri risultano senza energia elettrica. La linea ferroviaria tra Lamezia e Catanzaro è ancora interrotta a causa del crollo di un ponte avvenuto pochi istanti dopo il passaggio di un convoglio che è deragliato per la presenza sui binari dei detriti provocati da uno smottamento. I 21 passeggeri non hanno riportato conseguenze. Solo per una fortunata casualità il treno non è precipitato nel dirupo sottostante. Nella Locride stanno tornando a casa gli abitanti di Platì, dopo l'evacuazione di dieci nuclei familiari. E poi c'è Natile Vecchio, nel pressi di Careri, in provincia di Reggio ove l'unico ponte di accesso al paese è crollato. Come la credibilità di chi governa una Regione che anziché pianger miseria dovrebbe assumersi per intero le responsabilità. E dimettersi.

Aggrediti dal cemento

di Elena Di Dio

L'ingegnere capo del genio civile di Messina parla con voce trafelata. Col cuore denso di rabbia e negli occhi lo strazio di un territorio macellato, esposto; nelle orecchie le parole di sconforto degli abitanti di contrada Scarcelli a Saponara, piccolo centro sul versante tirrenico a 23 chilometri da Messina capoluogo, costretti da ieri ad abbandonare le proprie case per l'ordine di evacuazione del sindaco Nicola Venuto. Gaetano Sciacca, l'ingegnere capo del genio civile, da qualche anno a Messina è la voce stonata nel coro di parole inutili che amministratori, consiglieri e commentatori vari dedicano alle alluvioni, al dissesto idrogeologico, alle morti di Giampilieri, al recupero del suolo.

A Giampilieri, il 1 ottobre del 2009, morivano 37 messinesi sepolti dal fango di una collina crollata sulle case. Lui, Sciacca, poche ore dopo ricordava a tutti - proprio dalle pagine del manifesto - che le sue denunce sulla fragilità di un territorio aggredito dalle costruzioni erano state opportunamente inviate alle autorità competenti insieme a un piano di interventi mai realizzato. Fino alla tragedia. Da Giampilieri in poi, l'unica a mantenere le promesse di stanziamento dei fondi pubblici è stata la Regione siciliana che ha investito per l'apertura di 21 cantieri in quelle aree sulla fascia ionica di Messina 40 milioni di euro. I 160 milioni di euro promessi dal premier dimesso Silvio Berlusconi sono un miraggio. Lo sono stati in questi due anni e continuano a esserlo dopo la firma dell'ordinanza con cui l'ex presidente del consiglio, solo il 2 settembre scorso, prevedeva lo stanziamento. Un territorio abbandonato. E malgovernato, come continua a dire Sciacca dopo la tragedia che ieri sera a Saponara ha portato via con fango e rabbia la vita di Luca Vinci, un bimbo di dieci anni e quelle di Luigi e Giuseppe Valla, padre e figlio.

«Non si può consumare altro suolo - tuona Sciacca - Non si può costruire ovunque rilasciando concessioni edilizie senza considerare le ricadute su un territorio fragilissimo. I sindaci facciano la prima cosa essenziale e doverosa per il compito che gli viene consegnato: garantire la sicurezza dei cittadini. Finché la vera emergenza sarà un territorio così a rischio l'emergenza non si esaurirà mai». È agitato Sciacca ma lucido come sempre e ai sindaci del territorio siciliano manda a dire chiaro e tondo: «Il governo del territorio spetta al sindaco che lo esercita attraverso la pianificazione territoriale dei piani regolatori generali. Basta nuove costruzioni. Stop all'aumento degli indici di edificabilità. Il nostro territorio non può più sopportarlo. I soldi delle amministrazioni pubbliche non possono essere spesi per le opere di urbanizzazione a vantaggio delle nuove lottizzazioni.

I soldi devono essere spesi per la valorizzazione e la messa in sicurezza dell'esistente. È uno scempio non più sostenibile». Parole che suonano come una sentenza e che si concentrano sulle omissioni locali tralasciando quelle di un governo nazionale che ha dimenticato il territorio del meridione e quello della provincia di Messina in particolare. Segnata a ogni ottobre - il mese delle alluvioni e dei nubifragi in questa area della penisola - dal rischio di tragedie legate al maltempo che sbriciola interi tratti collinari. È successo già nel 1998 quando morirono a Messina città cinque persone, si è ripetuto nel 2009 a Giampilieri con 37 vittime. Si è replicato ieri a Saponara con tre morti.

Il governo Monti, intanto, muove i primi passi. I ministri dell'Ambiente Corrado Clini e dell'Interno, Anna Maria Cancellieri sono stati in prefettura ieri pomeriggio per discutere delle misure d'emergenza e di una primissima stima dei danni per portare in consiglio dei ministri, in programma domani, il caso Messina. E individuare le risorse da destinare a questo territorio. Conferma anche l'assessore al Territorio della Regione siciliana, Sebastiano Di Betta: «Il Corpo forestale della Regione già ieri ha effettuato i primi sopralluoghi nelle zone alluvionate per una primissima conta dei danni. Il ministro Clini ha assicurato l'intervento del governo».

Il Ponte delle sciagure

di Antonello Mangano

«Diciamo che si sono allargati». Quando il presidente dell'Anas Piero Ciucci venne nella città dello Stretto per presentare il progetto del Ponte commentò così la lunghissima lista di «opere compensative» presentata dai politici locali. Era il febbraio 2010. L'incontro si tenne in un «palacultura» inaugurato dopo 35 anni di lavori. Il disagio del megacantiere andava compensato col raddoppio della tangenziale e con nuovi svincoli autostradali, persino quello di Giampilieri. Fino alla richiesta che oggi assume un significato particolare: la copertura dei torrenti Papardo e Annunziata, ovvero quei piccoli tratti miracolosamente sfuggiti all'asfalto. Il 27 settembre del 1998 l'Annunziata straripò uccidendo cinque persone: una intera famiglia più un cingalese trascinato via dal fango. Allora si ascoltò per la prima volta il consueto «mai più» che ogni volta avrebbe accompagnato i funerali delle vittime e le immagini dei corsi d'acqua trasformati in bombe d'acqua. E una delle discariche previste dal progetto del Ponte è posta proprio sopra il torrente Annunziata.

Poche settimane fa una delegazione della Rete No Ponte riusciva a incontrare il vicesindaco superando un doppio sbarramento di polizia e vigili urbani. Gli attivisti volevano semplicemente invitare i politici locali a non firmare l'accordo con la «Stretto di Messina» che avrebbe consegnato il territorio a un progetto di devastazione. Oltre sei milioni di metri cubi sarebbero «conferiti» nei «siti di recupero ambientale», secondo l'elegante burocratese dei progettisti. Per ambientalisti e tecnici, invece, si tratta di discariche poste nei canali d'impluvio: cioè ulteriori tappi capaci di creare nuove bombe d'acqua. Alcune sono previste a Messina, le altre a Torregrotta e Valdina, esattamente a metà strada tra Barcellona e Saponara, teatro delle alluvioni che hanno fatto tre morti.

«Oggi in una scuola ho visto le classi vuote. Ormai la gente non esce di casa se vede una nuvola nera», disse un attivista al vicesindaco. «Bisogna avere i dati, le prove», rispose il lungimirante politico. Dopo qualche settimana il primo cittadino - in seguito all'allerta meteo - ordinava a tutti i presidi della città di trattenere gli alunni fino al termine della pioggia. In molti casi era troppo tardi: i dirigenti scolastici avevano mandato a casa i bambini. Per evitare lo psicodramma del 9 novembre, due giorni fa le scuole sono rimaste chiuse preventivamente.

Ieri il consiglio comunale messinese, per la quinta volta di seguito, si è riunito per discutere l'accordo di programma con la Stretto di Messina. Nelle quattro occasioni precedenti era mancato il numero legale. Il sindaco era stato spesso assente. Ponte e sicurezza del territorio sono questioni cruciali per la città, ma la classe politica le vive con rilassatezza. Gli animi si infiammano solo quando si discute di «opere compensative», ovvero la modalità con cui un ceto politico di questuanti spera di strappare a Roma le risorse che per via ordinaria non arriveranno mai.

«I cittadini chiedono sicurezza dal rischio idrogeologico. Le frane che hanno causato 37 morti il primo ottobre 2009 rappresentano l'evento più tragico di una sequenza di episodi calamitosi. Sotto accusa è un modello di gestione del territorio». Subito dopo la tragedia di Giampilieri il movimento No Ponte chiedeva che le risorse per la grande opera fossero spostate alla sicurezza del territorio. Una posizione oggi condivisa da tutti gli schieramenti politici e dalle parti sociali, ma che non ha prodotto risultati tangibili.

Nello Stretto opera già il cosiddetto «monitore ambientale», la figura prevista dal contratto del Ponte. Dovrebbe studiare «ante operam» il territorio. Un appalto da 29 milioni di euro. La società capofila è la multinazionale EDF, equivalente francese dell'Enel, accusata di aver inquinato la falda acquifera di Melfi, in Basilicata. Gli studi previsti riguardano la lepre italica e i pipistrelli, ma ci dicono pochissimo sulla fragilità del territorio.

Per Giampilieri e Scaletta Zanclea (altro comune vittima del disastro del 2009) sono stati stanziati fondi per 180 milioni. Ma sono inutilizzabili a causa di un'ordinanza sbagliata. Sembra quasi che le sciagure siano preparate con cura, per una sorta di «shock economy» all'italiana. Un copione che due anni fa vedeva Berlusconi sorvolare in elicottero le zone devastate, proporre il suo show a base di battute, promettere agli sfollati una nuova abitazione col frigo pieno. Di solito si concludeva con gli affari della cricca.

A Messina non funzionò, i movimenti e gli abitanti rifiutarono le new town. Ai funerali il cavaliere fu pesantemente contestato. E ci rimase malissimo: «Berlusconi va a Messina, lavora tutta la mattina per rifare le case, va in chiesa e sta tre ore in piedi con la gamba che gli fa male, di fronte alle bare. Abbraccia tutti coloro che deve abbracciare perché hanno perso i cari», confida a Lavitola in una celebre telefonata intercettata. «Poi dalla chiesa va alla sua macchina e ha quindici giovani da una parte e dall'altra che gli dicono 'assassino', 'buffone', 'vergogna'. E non succede niente. O lascio, o facciamo la rivoluzione. Ma la rivoluzione vera».

www.terrelibere.org

Rapporto della Protezione Civile

Un «dilagante processo di urbanizzazione», la «cementificazione dei corsi d'acqua», la «deforestazione» dei bacini idrografici, la mancata manutenzione di fiumi, torrenti, scarichi a mare, insomma la fotografia di un territorio con «squilibri idrogeologici non disgiunti da cause antropiche»: era già tutto nel rapporto della Protezione civile scritto nell'ottobre 2008, un anno prima delle 37 vittime dell'alluvione che colpì il messinese devastando Giampilieri e un anno dopo l'alluvione del 25 ottobre 2007, quando esondarono i fiumi, si registrarono smottamenti e frane ma, per fortuna, nessun morto. Quel rapporto è stato consegnato alla procura di Messina che ne ha tratto spunti per l'inchiesta sui fatti del 2009, chiusa una decina di giorni fa con l'avviso di conclusione indagini a 18 tra amministratori, tecnici e dirigenti.

ROMA — Corrado Clini, il nuovo ministro dell'Ambiente, ha parlato di «svuotamento». Ha detto ieri, prima di volare a Messina: «Bisogna cominciare ad agire sui territori svuotando le zone dove non si sarebbe mai dovuto costruire». E in tanti hanno applaudito, gli ambientalisti per primi, loro che da anni quello svuotamento lo chiamano «delocalizzazione» e che, da anni, professano la libertà dei fiumi oggi imbrigliati dal cemento.

Eppure la proposta del ministro Clini è costellata di «ma». Gabriele Scarascia Mugnozza, capo dipartimento di Scienza della Terra dell'università La Sapienza di Roma, li riassume con due domande: «Clini dice cose giustissime: ma dove trova i soldi per fare questo? E anche: dove trova le persone che hanno la forza di spostare i cittadini dal proprio territorio?».

Già: chi li sposta i cittadini dalle loro case? Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, pensa che non ci siano persone così. Pensa che: «La teoria delle nuove case che costerebbero molto molto meno che rimettere in sicurezza le case crollate trova la resistenza imbattibile dei cittadini». E non è un pensiero solo del meridione profondo.

Basta fare un salto fra i paesini della Toscana ferita: «Cosa pensa Clini? Di cancellare i piccoli comuni con un colpo di spugna?». Sandro Donati è il sindaco di Mulazzo, il comune che custodisce Montereggio, il paesino dei librai analfabeti. «Ci sono la storia, la cultura, le tradizioni con cui fare i conti», ribadisce il primo cittadino eletto in una lista civica di centrosinistra. E le sue parole incontrano l'esperienza tecnica di Paola Pagliara, capo del settore rischio idrogeologico della Protezione civile.

Dice Pagliara: «Di fronte al rischio idrogeologico non ci sono che due approcci possibili: o si svuotano gli abitati o si rimettono in sesto. Storicamente come Protezione civile abbiamo sempre avuto problemi con lo svuotamento. Il primo che facemmo, a Cavallerizzo di Cerzeto, nel cosentino, ci fece combattere con una resistenza strenua degli abitanti della comunità che lo abitava».

Ma non è soltanto un problema di cittadini. Franco Orsi, sindaco (e senatore) pdl di Albisola, Liguria, dice di non aver problemi a «delocalizzare» i propri cittadini al momento dell'allerta meteo. «Il problema della proposta del ministro Clini è un altro: d'accordo svuotare, dunque abbattere le case. E gli ambientalisti applaudono. Ma poi? Quando si tratta di ricostruire? Ha un'idea il ministro di quanto sia problematico far passare le varianti ad un piano regolatore? E quante resistenze oppongono gli ambientalisti?».

Oggi queste resistenze gli ambientalisti le hanno lasciate da parte. Applaudono alla proposta di Corrado Clini che vede coronare il loro sogno di liberare i fiumi. E le obiezioni, semmai sono di altro genere. Come quelle economiche avanzate da Francesco Ferrante, senatore ecodem del Pd: «Sacrosanta la proposta del ministro. Ma siamo sicuri di trovare ovunque le sostenibilità logiche ed economiche?».

Paure condivise anche da Maria Grazia Midulla, responsabile clima ed energia del Wwf, e da Giorgio Zampetti, dell'ufficio scientifico di Legambiente che, però, sostiene la proposta come una panacea: «La delocalizzazione è una proposta che noi facciamo da sempre. Delocalizzare una struttura è un intervento risolutivo, la messa in sicurezza è invece infinitamente più onerosa».

Gian Vito Graziano, presidente del consiglio nazionale dei geologi, esordisce entusiasta: «Penso che quella del ministro Clini sia una scelta molto coraggiosa». Il «ma» arriva subito dopo: «Come pensa di riuscire ad attuarlo? In Italia manca una legge che supporti la difesa del sottosuolo, adesso affidata soltanto ad un capitolo della legge 152 del 2006. Ed è ben poca cosa: io in Italia non ho mai visto buttare giù una villetta, ma nemmeno una casetta abusiva».

Francesco Chiocci, ordinario di Geologia alla Sapienza di Roma, propone il «ma» più articolato di tutti. Dice, infatti: «La delocalizzazione è sicuramente un'opzione. Ma la verità è che non esiste una risposta univoca ad un problema tentacolare come questo. Penso, ad esempio, ai paesini costieri della Liguria: sono spesso costruiti su fondali dove non esistono alternative. Non ha senso dire che vengono svuotati, bisognerebbe dire che vengono chiusi per sempre. E ricostruiti altrove».

Nel presentare il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell´esecutivo e ha aggiunto un´osservazione significativa, e perturbante.

«Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo».

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che «concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale»; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d´imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l´eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché «stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro» (e non senza asprezza aggiunge: «Spero, che stiano uscendo») snida crudamente la realtà.

È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l´arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l´emergenza democratica in cui viviamo da quando s´è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ´90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell´idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ´94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l´Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell´età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d´interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell´Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l´insania di Berlusconi e affossando l´accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l´italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: «I fatti dimostreranno» che conflitto d´interessi non c´è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il «potere occulto delle banche», la «confusione tra politica e affari») e tanto irritò Passera, per ora resta.

Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c´è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l´elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l´inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l´Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l´acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.

In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s´alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: «Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell´abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente». Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l´avvento di Monti mostra che l´anagrafe non c´entra. Sylos Labini che nel ´94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: «Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall´incantesimo funesto del cerchio» che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L´ironia del premier sull´espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che «sì, assolutamente» usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l´avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.

Monti è l´occasione, il kairòs che se non cogliamo c´inabissa. Per i partiti, è l´occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la «lunga corsa» intrapresa dopo il ´45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall´Annuncio o l´Evento: quell´Evento, dice Giuseppe De Rita, «che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo».

Non c´è un solo partito che abbia idee sull´Europa da completare. Non ce n´è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l´Europa politica non c´è. Monti denunciò a giugno l´eccessiva deferenza fra Stati dell´Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest´uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l´Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di «tritacarne mediatico», è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell´abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l´aiuto di un´informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.

Poco meno di una decina di anni addietro il manifesto titolò la foto di copertina che presentava un gruppo di immigrati con un «Non ci posso credere!». Il titolo si riferiva alla imprevista dichiarazione dell'on. Gianfranco Fini sull'opportunità di concedere il voto agli immigrati. In effetti non si capiva bene cosa avesse in mente Fini e cosa intendesse proporre. Era da poco stato approvato quel pacchetto di emendamenti al Testo Unico delle leggi sull'immigrazione che va sotto il nome di legge Bossi-Fini e la dichiarazione risultò sorprendente anche e soprattutto perché contrastava con il carattere persecutorio di alcune delle norme presenti in quel testo.

La proposta fu salutata da noi - e da pochi altri - oltre che con sorpresa, anche con scetticismo. E infatti non se ne fece nulla. Diverso è il caso della proposta lanciata ieri dal presidente Napolitano di estendere la cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia da famiglie di immigrati. Ciò sia per la figura di chi ha avanzato la richiesta, che per la sua urgenza e per il contesto nel quale cade. Il presidente è persona notoriamente cauta e moderata, gode di autorevolezza e fiducia con pochi precedenti. Inoltre in passato ha operato nell'ambito della politica migratoria in direzione dell'integrazione. Fu sua la legge di un solo articolo che, nel 1996, permise (con l'attivazione di una norma contenuta in un decreto decaduto) a 270 mila immigrati di non perdere la regolarizzazione appena ottenuta. Fu sua, giustappunto, la legge Turco-Napolitano del 1998 che - pur zeppa di norme repressive, a cominciare dall'istituzione dei Cpt (ora Cie, insomma i lager per immigrati) - era piuttosto avanzata sul piano delle politiche sociali.

Il secondo governo Berlusconi, nato dopo la sconfitta del centrosinistra nel 2001, già condizionato dagli orientamenti xenofobi della Lega Nord, non cancellò la legge: si limitò a peggiorarne gli aspetti di controllo e repressivi mentre, per quanto attiene alle politiche sociali, decise semplicemente di garantirne la non applicazione soprattutto non finanziandole. Ma qualcosa tuttavia rimase: penso all'art. 18 sulla protezione delle persone vittime della tratta di esseri umani, all'estensione - sulla base del principio universale del diritto alla salute - del godimento dell'assistenza sanitaria anche per gli immigrati non regolari. E penso ai ricongiungimenti familiari, che hanno permesso l'ingresso in Italia di centinaia di migliaia di bambini e di persone in età fertile.

Questi bambini ora vanno a scuola e, se sono cinesi nati in Toscana nel distretto del cuoio, si chiamano Vanni, Marzia o Chen. Se sono indiani si chiamano Simona come la figlia dei miei amici Metha di Piadena, i quali però hanno anche un figlio che si chiama Hani, dato che la multiculturalità è una cosa complessa. Per questo rimando allo splendido libro con le foto di Giuseppe Morandi (e testi, tra gli altri, di Peter Kammerer e Ivan della Mea). Comunque è certo che questi bambini vanno a scuola e parlano italiano: non anche italiano ma soprattutto italiano. Hanno tutti un forte accento e non un accento straniero, bensì quello del paese dove abitano e sono nati: strettamente partenopeo se nel distretto dell'abbigliamento nell'area vesuviana, romano se nell'area di Piazza Vittorio, dove Flavio, Tse e Tsiao sono tutti all'apparenza cinesi. Si vada a vedere alla scuola elementare Di Donato di via Bixio, per averne un esempio lampante.

Di questo mi pare che abbia preso saggiamente atto il presidente della Repubblica. Ha indicato che, in base alla nuova realtà dell'immigrazione, i processi di integrazione hanno bisogno di un'ulteriore iniziativa istituzionale, insomma che lo stato riconosca la nuova realtà multiculturale dell'Italia.

Qualche razzista del Pdl si è già unito al coro della Lega, lamentandosi del fatto che si passa dalla nostra tradizione di cittadinanza fondata sullo ius sanguinis a un modello fondato sullo ius soli. Ma siamo nel 2011: «diritto di sangue» (che pure ha caratterizzato alcune improvvide iniziative legislative recenti del repubblichino on. Tremaglia) non suona molto bene. Tanto è vero che nei paesi d'Europa più avanzati, che hanno questa stessa nostra eredità, si va verso un suo superamento, sia pure spesso parziale.

Infine, si sente spesso dire che in Italia cinque milioni di cittadini stranieri immigrati sono troppi. Sono assolutamente d'accordo: in molti paesi europei solo una parte di questi cinque milioni di immigrati sarebbero ancora «cittadini stranieri». Gli altri - un quarto o un quinto - sarebbero già cittadini nazionali. Un cauto adeguamento a una più civile situazione europea mi pare il senso dell'iniziativa del presidente Napolitano.

Si continua a definirlo "tecnico" eppure questo guidato dal senatore Mario Monti è un governo a tutto tondo politico; molto più del governo Berlusconi che lo ha preceduto. Politico nel senso più pregnante del termine: perché ha riportato le questioni che interessano il nostro destino – nostro come società e come Paese – al primo posto, come dovrebbe essere (ed è sperabile che ciò restituisca all´Italia una forza di negoziazione con i partner europei che aveva perso e di cui ha bisogno).

Per anni ci eravamo dimenticati che il governo deve occuparsi delle cose che riguardano la nostra vita, non la vita di chi governa. Per anni abbiamo assistito impotenti a uno spettacolo preconfezionato a Palazzo Grazioli su come Palazzo Chigi doveva operare e per chi: per tre anni le questioni di sesso e di corruttela hanno inondato le nostre giornate, quelle degli interessi del premier tenuto l´agenda politica del Parlamento. E lo si chiamava governo politico. Di politico aveva due cose: era stato l´espressione diretta della maggioranza dei consensi usciti dalle urne e l´esito di un accordo tra alcuni partiti politici. Ma questo non è sufficiente a fare di un governo un governo politico. Questo è il preambolo, la condizione determinante ma non sufficiente.

Il governo Berlusconi, nato politico, si è astenuto dal governare per noi e quando lo ha fatto ha generato problemi invece di risolverli. Per esempio, le norme sulla criminalizzazione dell´emigrazione hanno gettato petrolio sulle fobie razziste senza risolvere i problemi legati al controllo degli ingressi e all´integrazione degli immigrati; per esempio, gli interventi sulla scuola pubblica sono stati proditoriamente fatti per umiliarla e depauperarla avvantaggiando con i soldi dei contribuenti le scuole private. Questi sono i pochi esempi di agire politico del precedente governo, e sono entrambi esempi di cattiva politica, funzionale alle esigenze propagandistiche della coalizione, ovvero nel primo caso per imbonire i fedeli leghisti e nel secondo per tenere l´appoggio delle gerarchie vaticane. Queste scelte "politiche" sono state fatte all´interno di un´agenda di governo che non aveva alcun interesse a fare i nostri interessi. Il governo Berlusconi ha negato l´esistenza della crisi economica e finanziaria per anni, proprio dai primi mesi del suo insediamento, quando ironizzava sullo stato dell´economica degli altri partner europei per mandare agli italiani il messaggio voluto: il suo era il migliore dei governi possibili. Un´agenda politica senza politica.

Il governo del Presidente, com´è stato chiamato questo esecutivo guidato dal professor Monti, non è fatto di politici eletti, e quindi non è politico-partitico. Ma è fatto di cittadini italiani con competenze professionali specifiche. Non è inutile ricordare che chi è cittadino di un Paese democratico è naturalmente politico, perché non può che interessarsi delle questioni che riguardano la vita della società. Non solo chi milita in un partito è politico; e inoltre gli stessi partiti si organizzano grazie a cittadini che sono non politici di professione. La democrazia non ha politici di professione, anche se ha bisogno di stipendiare chi nella divisione del lavoro sociale si occupa degli affari pubblici. Nessuno ha la patente di "politicità" in democrazia, e nessuno può accaparrare per sé la politica e dire che è lui a sapere che cosa sia e come la si faccia (questo è proprio di una mentalità patrimonialistica). Il governo Monti è politicissimo, dunque. E lo è in primo luogo perché ha ricevuto il sostegno del Parlamento che lo ha reso a tutti gli effetti politico. Ma lo è per una ragione ancora più sostanziale, e davvero forte: perché i temi all´ordine del giorno nella sua agenda sono squisitamente politici, solo politici. L´interesse personale è uscito da Palazzo Chigi, che ha ospitato il governo meno politico che l´Italia repubblicana abbia conosciuto, anche se forte dell´alleanza di ferro e famelica tra partiti. Che sia stato incapace di affrontare i problemi politici del Paese è un´ulteriore dimostrazione del fatto che era incapace di essere politico. Dei governi come quello guidato dal professor Monti c´è bisogno perché quelli politico-partitici falliscono.

Il governo Monti è un governo politico, e va giudicato per le scelte politiche che farà. Giudicato per come vuole risolvere i problemi che riguardano la nostra economia, dalle pensioni, alla disoccupazione, al lavoro senza diritti e precario, alla lotta all´evasione fiscale (che è il problema più grave del nostro Paese). Questi obiettivi, che sono per opinione quasi unanime, urgenti e necessari, saranno giudicati per il modo e le strategie con cui il governo proporrà di realizzarli. E i ministri saranno chiamati non solo a rendere conto del loro operato. Nato come non-politico-partitico, questo governo non potrà che essere politico. Per un´altra ragione ancora. Poiché la politica che lo ispira non è per nulla neutrale o tecnica, ma pronunciata moderata, non indifferentista ma con un´evidente simpatia cattolica. Si tratta di qualità o caratteristiche politiche che andranno giudicate dal punto di vista degli interessi generali di tutti gli italiani, non di una parte soltanto, anche se maggioritaria.

In un´intervista di qualche mese fa la ministra, professoressa Elsa Fornero diceva due cose importanti. La prima: se lei fosse nata negli Stati Uniti non avrebbe avuto la possibilità di accedere a un´eccellente formazione universitaria. Leggo questa osservazione importante così: senza una buona scuola pubblica, la selezione dei competenti sarebbe in effetti una selezione di classe. È importante che nel governo ci siano ministri che riconoscono il valore della scuola pubblica. Una prospettiva che il governo che ha appena chiuso i battenti non ha mai avuto. Ridare vigore alla scuola è un obiettivo politico primario per la nostra società, lo è per ragioni economiche e politiche, poiché una democrazia di ignoranti è pericolosa. La seconda osservazione che faceva la ministra Fornero era che lei cestinava gli inviti ai convegni nei quali gli speaker erano solo uomini. L´osservazione è coerente a quella precedente. E riguarda l´eguale dignità: è umiliante dover sempre ricordare a chi tiene i fili delle carriere (che sono in maggioranza maschi) che ci sono donne competenti. I criteri delle eguali opportunità di formazione e del giusto riconoscimento dovrebbero essere la stella polare a guidare le scelte di ogni governo politico. Ed è su queste scelte e in base a questi criteri che l´operato di questo governo dovrebbe essere giudicato da chi in Parlamento decide e controlla, a nome di tutti noi.

È tipico delle fasi d'emergenza non andarci tanto per il sottile con le distinzioni. Ed è tipico delle fasi d'emergenza all'italiana, tutte all'insegna dell'unità nazionale, fare ricorso alla tesi sempreverde degli opposti estremismi, che provvede a procurare due ali di nemici alle convergenze centripete. Vorrei dunque rassicurare alcuni lettori perplessi, e con loro le cattedre mediatiche che equiparano gli argomenti del manifesto a quelli delle vedove di Berlusconi, o le ragioni dei movimenti anti-Bce alle urla di destra contro il complotto plutocratico-massonico-finanziario: non è affatto vero che diciamo tutti la stessa cosa.

È vero invece che sotto il cielo della fine del ventennio berlusconiano il disordine è grande, e la situazione non propriamente eccellente. Qualche precisazione, allora, sullo stato della democrazia, il tramonto della politica e il feticismo dei mercati che fanno da sfondo al «passaggio Monti».

È del tutto improprio o strumentale, intanto, gridare alla sospensione della democrazia o al golpe antidemocratico per fotografare la situazione. Non stupisce che queste grida provengano da una destra populista come quella berlusconiana, che ha sempre identificato l'esercizio della democrazia unicamente con l'appello al popolo, attribuendo alla conta elettorale il potere di decidere il governo. Questa investitura popolare diretta del governo, per quanto avallata dalle ultime leggi elettorali (e con l'aiuto dei settori più “bipolaristi” della sinistra), notoriamente non esiste nella nostra Costituzione: a norma di Costituzione, il governo non lo decide il popolo ma le maggioranze parlamentari. Dal punto di vista formale dunque non c'è nessun golpe e nessuna sospensione della democrazia nella soluzione della crisi perseguita da Napolitano: il presidente della Repubblica non aveva l'obbligo di indire le elezioni, l'incarico a Monti rientrava nelle sue prerogative, il nuovo governo ha ottenuto il consenso necessario in parlamento.

Tolto di mezzo il golpe formale, però, il problema resta. E a segnalarlo basta il fatto che sono proprio i più convinti sostenitori dell'operato del Presidente della Repubblica a difenderlo non in nome della norma e della normalità democratica, bensì dell'eccezione: mai Carl Schmitt, autore a lungo maledetto se non tabuizzato, è stato così gradito a sinistra. Ora non c'è nessun problema a riconoscere a Napolitano tempismo e abilità decisionista, e perfino (Carlo Galli, su Repubblica di qualche giorno fa) una sorta di “buon uso” dell'eccezione, di un'eccezione volta al ripristino della normalità costituzionale, contro l'eccezionalismo perpetuo e a vocazione eversiva di Berlusconi. Ma il punto, per stare al tema, è anche un altro, evocato ma a mio avviso non risolto nell'intervento di Marco Revelli sul manifesto dell'altro ieri: se, stando ai testi, sovrano è chi decide sullo, non nello stato d'eccezione, chi ha deciso sullo stato d'eccezione in cui ci troviamo? Qui la risposta non è: Napolitano, bensì: i mercati. Napolitano ha deciso nello stato d'eccezione, in uno stato d'eccezione decretato a sua volta dai mercati, dallo spread, dalla Bce e quant'altri. E ha deciso nel solo modo in cui a quel punto poteva decidere, cioè certificando, col ricorso al governo tecnico, l'impotenza della politica di fronte ai mercati, o in altri termini la fine dell'autonomia del politico dall'economico (alla faccia, per inciso, di Carl Schmitt). Altra questione sulla quale nulla ha da rivendicare il fronte berlusconiano in disfatta, che di questa resa della politica dell'economia è stato fino a ieri il principale e nefasto fautore: cos'altro era se non in primo luogo questo, e non solo una rottura di legalità, il famoso conflitto di interessi?

Non sono glosse a margine, perché ne va di una valutazione realistica dello stato delle cose. Senza nulla togliere all'operato del Presidente della Repubblica, né alla sua efficacia nella liquidazione dell'anomalia del Cavaliere, quello che esso ci consegna non è una riaffermazione di sovranità nazionale sui giochi sovranazionali, né un colpo d'ala della buona politica sulla cattiva politica del ventennio berlusconiano: è una democrazia dimezzata, come tutte le democrazie occidentali, di fronte ai poteri sovranazionali che contano davvero, e una politica impotente di fronte al primato dell'economia. Conviene mantenere, rispetto a questi processi, lo sguardo lungo di quella che un tempo si chiamava analisi di fase, e non quello corto della nota politica quotidiana o settimanale: qui infatti non è in questione il sollievo che tutti proviamo per l'archiviazione di Berlusconi, né tantomeno l'illusione che la rinascita della politica potesse venire da un lavacro elettorale dello stesso ceto politico, di destra e anche di sinistra, che ne ha accompagnato e interpretato lo spegnimento. È in questione, al contrario, il fondato timore che dietro la discontinuità di stile rispetto al ventennio berlusconiano si faccia strada una continuità dei processi di fondo: dei quali l'asservimento della politica all'economia non è certo l'ultimo.

C'erano altre strade? Probabilmente no, a quel punto. A quel punto, con lo spread impazzito e i risparmi delle famiglie a rischio, pure le elezioni erano irrealistiche. Però nessuno, ma proprio nessuno, ci esenta dal chiederci come e perché ci si sia arrivati, a quel punto. Come e perché, ad esempio, un'intera estate sia passata senza che da sinistra si smettesse di attribuire solo alla mancanza di credibilità di Berlusconi, e non anche alla mano invisibile del mercato, il precipitare della situazione. O che è lo stesso, come e perché il metro dei mercati sia diventato, per la sinistra istituzionale, il criterio di misura del vero e del falso. Senza mettere in discussione il quale, va detto e ripetuto, non ci sarà nessuna possibilità né di egemonizzare né di condizionare il governo dei professori con i buoni propositi sull'equità e la crescita.

Come pure non sarà possibile uscire dallo spegnimento della politica senza volgere decisamente lo sguardo dalla politica ufficiale alla politica sorgiva. Gian Carlo Marchesini (vedi lettera a fianco) e altri lettori come lui hanno ragione a esprimere le loro riserve su un ricorso alle urne con questo ceto politico e questa legge elettorale, ma hanno torto a dimenticare il cambiamento che si è espresso nelle urne amministrative e referendarie solo pochi mesi fa, o che si esprime oggi nei movimenti contro l'uso politico del debito.

Quel cambiamento è già in atto, e aveva già archiviato Berlusconi e la sua corte dei miracoli prima dell'intervento dello spread e ha bisogno di essere ratificato prima o poi, e più prima che poi, da un voto che sancisca l'uscita dal ventennio. Seppellirlo sotto la coltre e lo stile del governo Monti sarebbe un grave difetto di miopia, lo stesso che da sempre «calmiera» il cambiamento in Italia, spuntandolo di qualunque carica creativa e riportandolo alla sensatezza di un'etica moderata, conservatrice e perbenista. Eppure, se un futuro c'è per la politica, oggi è da lì che passa, ed è lì che trova ricette sensate, parole innovative, pratiche di ricostruzione e di reinvenzione sovranazionali

La realtà dell´eurodisastro offre supporti insperati a chi voglia riconoscervi il sopravvenuto dominio dell´oligarchia finanziaria sulla democrazia: basti pensare alla simultanea rimozione per impotenza manifesta dei primi ministri in Italia e in Grecia. I due premier sono stati sostituiti da personalità organiche all´establishment sovranazionale, molto simili per fisionomia al "podestà forestiero" evocato l´agosto scorso da Mario Monti. Tale "stato d´eccezione" si rivela humus ideale per la germinazione delle più fantasiose teorie cospirative. Chi si nasconde dietro all´uso intimidatorio della parola "mercati"? È impressionante la disinvoltura con cui il populismo di destra, non appena disarcionato il suo governo che pure s´era ridotto a comitato d´affari privati, rispolvera la propaganda in auge nei periodi più bui del secolo scorso: i banchieri venduti alle centrali straniere, i circoli anglofoni, la patria in ostaggio di agenti infiltrati, l´internazionale massonica…

I giovani senza futuro che nel corso del 2011 hanno dato vita a una rivolta mondiale contro l´ingiustizia di questo disordine economico, all'improvviso si ritrovano così di fianco imitatori spregiudicati d´opposta sponda. Per quanto ciò risulti paradossale, berlusconiani e leghisti indossano la maschera dell´anticapitalismo indignado. E loro, gli studenti in lotta? A quanto pare non sembrano preoccuparsene.

"Né Monti, né Tremonti", giocano con la rima. Dirigono il corteo contro l´università Bocconi da cui proviene il nuovo presidente del Consiglio e, se interviene la polizia a fermarli, lo dirottano sulla Cattolica, il cui rettore è divenuto ministro della Cultura. Quanto al nuovo responsabile dell´Istruzione, Francesco Profumo, la sua autorevolezza lo rende ai loro occhi addirittura peggiore della Gelmini. Poco gli importa se il giorno prima a picchettare la sede della Goldman Sachs ci sono andati niente meno che i giovani del Pdl (ignari degli affari intrattenuti dall´azienda del loro leader con tale istituzione finanziaria). Le dimostrazioni scaricano a casaccio la protesta contro "il governo dei banchieri" imbrattando filiali di Unicredit e Intesa Sanpaolo a Palermo, circondando l´Abi a Milano o la sede della Banca d´Italia a Firenze.

C´è qualcosa di funesto nel manifestare contro luoghi del sapere come le università "colpevoli" solo di essere private, contrapponendo studenti a studenti. Così come è sintomo di disperazione prendere di mira gli sportelli Bancomat, simbolo di un reddito da cui si sentono preclusi.

Ma una volta condannati con nettezza gli episodi di violenza e le caricature insulse del "nemico", sarà bene che il nuovo governo, e prima ancora la sinistra democratica che lo sostiene, evitino di prendere sottogamba le ragioni di tanta furia indistinta. Un conto sono le strumentalizzazioni della destra oligarchica e populista, ben altra le motivazioni imprescindibili della rabbia giovanile.

Appare evidente che nell´Italia del 2011 non è più replicabile la stagione dei governi tecnici che realizzarono vent´anni fa il risanamento finanziario e l´ingresso dell´Italia nell´euro con il decisivo sostegno dei sindacati e dei partiti di sinistra. Nonostante il prestigio degli artefici di quella stagione, troppo diffusa rimane la consapevolezza del prezzo pagato all´epoca dai ceti popolari, in termini di decurtazioni nel reddito e perdita di posti di lavoro, senza che ne derivassero le promesse contropartite di investimenti da parte della classe imprenditoriale.

Il collasso del capitalismo finanziario e l´attacco speculativo ai debiti sovrani mutano completamente lo scenario. Chi ha patito la crisi, mentre vedeva gonfiarsi a dismisura i guadagni di una ristretta minoranza, invano ha atteso una correzione di tale stortura. E ora manifesta la sua ostilità non solo contro la classe politica, ma più ancora contro i potenti dell´economia.

La nomina di un "banchiere di sistema", Corrado Passera, a responsabile delle politiche industriali del governo Monti, a prescindere dalle capacità personali dell´interessato, non favorisce certo la necessaria sintonia fra nuova classe dirigente e sentimenti popolari. Qualcuno dovrà pur dare rappresentanza politica alla diffusa richiesta di giustizia sociale se non si vuole che essa cada preda della demagogia scatenata a destra e delle suggestioni cospirative trasversali. Rifiutare l´ineluttabilità dei diktat che piovono sull´Italia da un altrove lontano, e fare i conti con lo strapotere della finanza, diventano per la sinistra priorità non rinviabili a una "seconda fase" del risanamento. Pena il ripudio della sua missione storica, già incrinatasi allorquando - nelle emergenze del passato - prevalse la teoria dei nobili sacrifici intesi come un "farsi carico" da parte della classe operaia dei destini della nazione. Col risultato che sappiamo.

Ormai è chiaro a tutti che la depressione in cui precipita l´Occidente non è frutto degli "eccessi" del capitalismo finanziario fondato sul debito, ma della sua stessa natura strutturale. Per questo i tecnici chiamati oggi a cimentarsi con un difficilissimo tentativo di salvataggio, non hanno altra scelta che trasformarsi in politici coraggiosi, tutt´altro che neutrali. Tocca loro delineare un´incisiva riforma del sistema di cui essi stessi hanno in taluni casi personalmente beneficiato; se non vogliono entrare in una disastrosa rotta di collisione con la gioventù precaria che oggi, a torto o a ragione, non li beneficia di alcuna distinzione rispetto a chi li ha preceduti.

Signor ministro, il governo Monti ha una legittimità piena, ma indiretta. Riscuote la fiducia del Parlamento, ma i ministri, non essendo parlamentari, sono privi del viatico elettorale. Questa condizione, inevitabile nell'emergenza, accentua il dovere di essere trasparenti. Un titolare dello Sviluppo e delle Infrastrutture, che prima faceva il banchiere, può dover prendere decisioni che coinvolgono le sue passate scelte professionali.

Lei non è azionista di rilievo di Intesa Sanpaolo. Ha ragione di negarsi al paragone con l'ex premier, azionista di riferimento di una grande impresa, Mediaset, regolata dalla legge. Non di meno l'opinione pubblica vuole essere tranquilla sul fatto che le decisioni del governo servano sempre l'interesse generale. Il suo non è dunque un conflitto d'interessi pesante, a radice patrimoniale, ma un conflitto più leggero, di tipo manageriale. E tuttavia chi si è scottato teme anche l'acqua tiepida. Lei e i suoi colleghi abbandonerete i consigli di amministrazione, è ovvio. Ma il Corriere guarderà anche ad altro. Senza pregiudizi né sconti.

Nell'agosto 2006, Giovanni Bazoli disse che Intesa Sanpaolo sarebbe stata la Banca del Paese, non certo una Goldman Sachs. Poi, con Generali e Mediobanca, entrò in Telecom Italia per evitare che Telefonica ne diventasse padrona. Mario Monti paventò un «governo occulto» delle banche, contigue alla politica. «Parole infelici», commentò lei. Ora Monti l'ha chiamata al governo, archiviando quel dissenso. E le deleghe che le ha assegnato fanno supporre che, dopo il salvataggio della finanza occidentale a spese dei contribuenti, si sia un po' ricreduto. Del resto, quando una banca riunisce attivi pari al 40% del Pil, si lega al progresso generale del Paese e deve avere il senso della misura. Resta che le singole scelte dell'ex banchiere andranno giudicate una per una, in special modo se rimontano alla vita precedente.

Alitalia, per esempio. Intesa ha lavorato per il governo Berlusconi che aveva azzerato la cessione ad Air France preparata dal governo Prodi. Tre anni dopo, la ristrutturazione aziendale è fatta. E tuttavia la società non è in grado di remunerare il capitale investito. L'operazione tripartita su Telecom, pur criticabile sul piano finanziario, ha evitato al Paese di perdere la presa su una grande impresa strategica, che può crescere. Alitalia ha conti diversi. Logica vorrebbe che Air France l'assorbisse, e amen. Il governo Monti considererà Alitalia un campione nazionale su cui intervenire?

Ntv-Nuovo trasporto viaggiatori. Alta velocità. Intesa è azionista e finanziatrice dello sfidante delle Fs-Ferrovie italiane dello Stato. In ritardo sulle tabelle di marcia, e dunque a rischio di sforare i covenant, ovvero le clausole contrattuali di garanzia, che tutelano la banca creditrice, Montezemolo e Della Valle accusano Moretti di infilare i bastoni del monopolio tra le ruote di Italo, il loro treno. Il signor Frecciarossa sostiene che i due, spalleggiati dal monopolio ferroviario francese, hanno commesso errori operativi. Aggiunge che mollerà l'infrastruttura quando anche Parigi lo farà e darà le stesse aperture dell'Italia. Ecco un bel tema per il ministro delle Infrastrutture e anche per il premier, che con l'interim dell'Economia è l'azionista unico di Fs.

Parentesi sindacale: Alitalia e Fs chiedono l'adozione di contratti di lavoro nazionali. Ammettono intese migliorative aziendali, ma non la giungla e il dumpingsociale di oggi. Linee aeree low cost e Ntv si oppongono. Marchionneggiando. Da che parte starà il ministro del Welfare, Elsa Fornero, già vicepresidente di Intesa? Qui, e sul fronte Fiat di cui la banca è storica creditrice?

Per finire, il rapporto con Banca d'Italia. Negli anni berlusconiani, tra governo e Banca centrale c'è stata una profonda e pericolosa diffidenza. Con il doppio cambio della guardia si potrebbe ritrovare la fiducia e voltare pagina. Due emergenze impellenti lo richiedono. La prima è la revisione delle disposizioni dell'Eba (European Banking Authority) su come le banche devono contabilizzare i titoli di Stato. Ne vengono penalizzate sia le banche sia il Tesoro. La seconda emergenza sono gli aumenti di capitale delle banche, ormai inevitabili.

Da sempre le banche vorrebbero vendere alla Banca d'Italia le quote di capitale della medesima, che detengono senza guadagnare come del resto è giusto che sia. Governatore Mario Draghi, si era arrivati vicini a un accordo che avrebbe procurato al sistema bancario 8-10 miliardi creando, al tempo stesso, un mercato delle quote sotto la ferrea supervisione di via Nazionale. Enrico Salza, ai tempi banchiere in Intesa, aveva proposto un modo per girare anche alle altre banche parte del beneficio, concentrato al 42% su Intesa Sanpaolo e al 22% su Unicredit. Un'idea lungimirante e generosa. Che oggi, dati i tempi, potrebbe piacere meno a Ca' de Sass. L'ombra di Tremonti, che si temeva potesse approfittarne per ledere l'indipendenza della Banca centrale e, magari, sottrarle patrimonio, fermò tutto. Ma nell'autunno 2011?

Di questo passo, mentre si riparla di privatizzazioni, si corre il rischio di sacrificare senza un disegno gran parte delle fondazioni bancarie, alleate del governo nella Cassa depositi e prestiti, e poi, ove non bastasse, di dover nazionalizzare le banche. A parlare con la Banca d'Italia sono di solito il premier e il ministro dell'Economia, ma nel Comitato interministeriale per il credito e il risparmio siede anche il ministro dello Sviluppo. Che viene dall'unica banca non obbligata ad aumentare il capitale.

Nel caffé affacciato sulla bocca del métro Sèvres-Babylone, entrano i coniugi Kundera, Eva e Milan. Lei ha in mano una copia di Le Monde appena acquistato nella vicina edicola. Lo stende sul tavolino e gettata un’occhiata ai titoli di prima pagina non trattiene un’esclamazione di sdegno.

Gira il giornale affinché il marito possa leggere il motivo della sua indignazione; e infatti lo scrittore ha la stessa reazione, seguita da un gesto desolato della mano. Non conosco la lingua ceca e quindi non riesco a capire le parole che si scambiano, ma incuriosito dalla breve, agitata mimica dei coniugi Kundera, corro a comperare il quotidiano, e mi salta subito agli occhi quel che ha provocato il loro lampo di collera. È un titolo, nel quale ci si chiede se la Grecia sia un paese europeo. «La Grèce est-elle un pays européen?» Anch’io vengo colto da un risentimento improvviso nei confronti di chi ha preparato il terreno a quella bestemmia di dimensione storica. Bestemmia che mette in dubbio con tracotanza, con smisurato, indecente orgoglio (l’aristotelica hybris) l’essenza dell’Europa. Vale a dire dell’Occidente, che non a caso è la traduzione greca di Europa; e il cui pensiero originale, non solo il nome, viene da quella terra della quale si mette in discussione il carattere europeo.

È facile scorgere in questa reazione un’eccessiva dose di retorica. Infatti c’è. È un po’ come scandire: siamo tutti greci europei. Perché no? Affidarsi ai tradizionali punti di orientamento offertici dalla storia per muoversi nel presente conduce in una sfera metafisica. La Grecia non produce più gli eterni modelli della bellezza. È chiaro. Così come Roma non è più la patria del diritto, né del medioevo ascetico e trascendente, né del Rinascimento che ha elevato il significato della vita terrena. È chiarissimo. Lo stesso vale per tanti altri centri della civiltà europea. Tutti quei passati non appartengono tuttavia al dominio delle nazioni o degli Stati di oggi, ma al (crociano) "regno della verità". Costituiscono nel loro insieme, con le loro differenze e contraddizioni, il comun denominatore culturale dell’Europa odierna, multilingue ma con idee affini che si sono influenzate a vicenda, formando attraverso i secoli una forte corrente di pensiero. Affidarsi unicamente al livello dei redditi, alle peripezie finanziarie e alle oscillazioni della moneta unica per determinare l’appartenenza all’Europa e di conseguenza alla sua civiltà, è semplicemente un delitto. È uno dei punti più alti toccati dalla nostra ignoranza di europei del XXI secolo. Pensare che la Grecia del presente non possa coabitare, per la sua struttura economica e sociale, alla zona dell’euro è un conto. Ma nessuno ha il diritto di pensare che essa non sia più europea. Il suo passato, quel che della sua civiltà è vivo nel nostro pensiero, nella nostra cultura, appartiene appunto al "regno della verità", di cui noi tutti europei facciamo parte. La Grecia più di qualsiasi altro paese poiché è stata l’origine di tutto. Si può amputare l’Europa?

Milan Kundera è un europeo che può capire più di altri cosa significa essere escluso dall’Europa. Come cecoslovacco ha vissuto il tradimento dell’Europa che nel 1938, con l’accordo di Monaco, abbandonò il suo paese alla Germania di Hitler. E dieci anni dopo ha vissuto la separazione della "cortina di ferro", tra l’Europa dell’Est e quella dell’Ovest. La tragedia cecoslovacca si è ripetuta nel ‘68, quando i comunisti hanno cercato di dare "un volto umano" (ossia "europeo", così dicevano) al regime imposto da Mosca. La quale, puntuale, mandò i carri armati, senza che nessuno si muovesse in Occidente. Era dunque facile da interpretare la stizza di Milan Kundera nel caffè di Sèvres-Babylone, davanti al titolo provocatorio sulla Grecia. Gli veniva spontaneo identificarsi con quel paese. Non poteva non indignarsi e non spazzar via con un gesto della mano l’interrogativo che metteva in dubbio il carattere europeo della Grecia, madre culturale d’Europa. Nessun carro armato minaccia Atene. Le calamità che possono abbattersi, e che già si abbattono, sulla Grecia sono di un’altra natura. Quelle visibili, concrete, sono economiche. Ma c’è l’umiliazione che è altrettanto pesante.

E i greci sono orgogliosi. Dopo secoli di occupazione ottomana sono ritornati in Europa, pagando un altissimo prezzo di sangue. Byron e Chateaubriand si sono associati alla loro lotta. Delacroix gli ha dedicato quadri che all’epoca equivalevano a romanzi. E Mussolini la pagò cara, e con lui gli italiani, quando pensò di poter "rompere la schiena" alla Grecia. La resistenza al regime dei colonnelli, impossessatisi del potere nel 1967, fu aspra e coraggiosa. L’ho seguita per anni con passione e rispetto. Quando negli ultimi Settanta la fragile, disordinata democrazia greca chiese di entrare nella Comunità europea, Valéry Giscard d’Estaing, allora presidente della repubblica in Francia, replicò agli oppositori che non si poteva «chiudere la porta in faccia a Platone». La logica di quella decisione era essenzialmente politica, poiché la Grecia non aveva tutti i requisiti. Ma c’era l’aspetto simbolico. Ad Atene era nata la democrazia, la politica, il teatro, la poesia, la filosofia, la bellezza. Il paese rurale e depresso, dove gli armatori miliardari non pagavano le tasse, restava sinonimo di cultura. Non lo si poteva certo lasciare fuori dalla porta. I suoi abitanti rappresentano poco più di un millesimo della popolazione mondiale. I suoi monumenti e le sue opere letterarie e filosofiche costituiscono una porzione assai più grande come vestigia della civiltà occidentale. Di cui sono le fondamenta. Senza le quali il denominatore comune culturale alla base dell’Europa non esisterebbe.

C'era un'alternativa al governo Monti? E' questa la domanda a cui vorremmo, o meglio avremmo voluto, dare una risposta. Ma se il centrosinistra ha preferito non andare alle elezioni subito e la sinistra di Vendola si è limitata a dire di non condividere il discorso del neo premier, abbiamo la netta impressione che la risposta sia no. Dunque che fare? Dalle parole di Monti si possono certo capire diverse cose, ma saranno i fatti a dimostrare in che modo vorrà portare il Paese fuori dalla crisi.

Difficile non essere d'accordo quando afferma che «Bisogna superare il principio dell'Italia 'anello debole' e riprendere a "pieno titolo" l'elaborazione del progetto europeo». Oppure che «La distribuzione dei "sacrifici sarà equa. E tanto maggiore sarà l'equità della loro distribuzione tanto maggiore sarà la loro condivisione». Come del resto la lotta all'evasione e pure l'Ici, se reintrodotta sul modello di Prodi del 2006 potrebbe avere anche una ragione d'essere.

Impossibile non condividere poi frasi e concetti del tipo: «L'Italia ha bisogno di investire nei suoi talenti, nei giovani. Essere orgogliosa e non trasformarsi in una entità di cui i suoi talenti non sono orgogliosi». Le chiacchiere tuttavia ora stanno a zero, bisogna vedere i fatti e lo stesso Monti oggi alla Camera ha detto: «Noi siamo qui con un atteggiamento di umiltà, di servizio e di sollecitazione al contributo attivo e anche critico di tutti. Qui oggi non vi chiedo una fiducia cieca, ma una fiducia non cieca: vigilante».

Metter mano alle pensioni è questione che ci lascia perplessi. Ci lasciano perplessi anche i legami evidenti con la gerarchia vaticana e con certe lobby e logge. E continuiamo, saremmo certamente limitati noi, a non capire che cosa significhi che «Il mercato del lavoro dove alcuni fin troppo tutelati, mentre altri sono privi di tutele» deve essere riformato per avere un «sistema più equo».

Ci hanno sempre detto che il sistema pensionistico è quello che sostiene le famiglie in questa fase di enorme difficoltà che vede i giovani non trovare posti di lavoro e i 40-50enni perderlo. Certo i conti dello stato devono essere rimessi in ordine, ma la cura non può essere peggiore della malattia, come sta drammaticamente dimostrando il caso greco.

Anche le nostre però, sono chiacchiere, inoltre è chiaro che Monti esegue sic et simpliciter quello che la Bce ci chiede. La speranza è che cerchi di farlo nel modo più "equo e sostenibile" possibile, ma questo è. E soprattutto non dimentichiamoci che l'alternativa era il prolungamento dell'oscena agonia del governo Berlusconi . Complotti internazionali o no, commissariamenti economico-politico-finanziari o meno, la realtà ribadiamo è questa.

Quanto durerà? Se l'asso nella manica lo ha ancora il centrodestra, avrà vita dura, difficile pensare però che con il fiato corto che l'Italia ha sui mercati - deus ex machina di tutto lo sconvolgimento - possano giochicchiare al gatto col topo. Il berlusconismo ha dimostrato fiato corto davanti ad una crisi che ha spazzato via l'ottimismo da bar ed il "miracolo italiano " promesso e mai avvenuto, una deriva avventuristica del Pdl porterebbe probabilmente ad una sua anticipata frammentazione ed implosione. Berlusconi avrebbe voluto essere il salvatore della Patria, difficilmente gli verrebbe perdonata la trasformazione di becchino di un governo sicuramente liberista.

La paura è che questioni per noi fondamentali come il metter mano al dissesto idrogeologico; il piano energetico; gli incentivi per le energie rinnovabili e la materia rinnovabile sottoforma di un rilancio in pompa magna del riciclo possano trovare un posto d'onore nell'agenda di super Mario. Lo speriamo, ma siamo francamente pessimisti, soprattutto dopo le strampalate uscite del neo-ministro dell'ambiente Clini, un superburocrate andato ad "Un giorno da pecora" a fare la figura di uno Scilipoti qualsiasi.

Se dunque dobbiamo bere l'amaro calice per ripulirci l'intestino ed il cervello dalle malefatte del precedente governo, bisogna che l'opposizione sfrutti questo tempo (quello che ci divide dalle prossime elezioni) per uscire da queste logiche. Non diciamo neppure più di uscire dalle logiche del capitalismo, perché ci pare troppo in questa fase, ma almeno per contrastare le sue storture iperliberiste che ormai sono più delle ragionevolezze.

E per far questo ci vuole -non è un paradosso - credere di più nell'Ue. In un'Unione Europea che sposi quella virtuosa linea della commissione (l'unica in campo ancorché assai migliorabile) che perlomeno individua lo sviluppo economico nell'economia ecologica. Un programma elettorale quindi come minimo di respiro europeo e con ovviamente specificità italiane. Che proponga ad esempio la "no fly zone" dell'economia finanziaria sulle commodities, specialmente quelle alimentari.

E contemporaneamente rilanci l'industria e la manifattura made in italy e soprattutto sostenibile capace di dare risposte innovative alle emergenze ambientali dei Paesi asiatici. Esempi di sviluppo economico vero che necessitano di maggior investimenti nella scuola e nella cultura in generale. Un Paese davvero moderno che abbia chiaro che questa crisi è sistemica e che bisogna cambiare modello, altrimenti arriveremo esattamente dove siamo diretti...

La nascita del governo Monti ci impone, io credo, di mettere tutte le nostre carte in tavola, compresa la nostra soggettività e le nostre contraddizioni, nel pieno di uno sconvolgimento storico, sociale, mentale che sfida tutti i nostri schemi. E ci immerge in uno scenario inedito. Incomincerò dunque io a fare outing, con un paio di confessioni, sperando di essere seguito da molti.

Confesso innanzitutto che se fossi stato a Roma, sabato scorso, avrei probabilmente preso una bandierina (tricolore) e sarei sceso in strada a festeggiare. Perché quella sera, alle 21 e 42, è davvero finito "ufficialmente" il berlusconismo. So benissimo che la sconfitta di Berlusconi viene da lontano, da Milano, con la vittoria di Pisapia, dal referendum con i 27 milioni di persone che gli hanno disubbidito, e prima ancora dal 14 febbraio con quel popolo rosa che ha detto «se non ora quando». Ma sabato è successa una cosa in più. Per la prima volta nella sua vita politica Berlusconi ha dovuto arrendersi alla realtà.

E l'essenza del suo stile politico - l'anima del berlusconismo - sta esattamente nell'opposto: nella negazione sistematica del mondo qual è. Nella costruzione per via narrativa - appunto, da grande illusionista - di una realtà immaginaria, parallela, fantasmagorica e totalizzante, rispetto alla quale la capacità di farla credere e di farci accomodare dentro il "suo popolo" era la misura e la sostanza del suo potere. Con quell'uscita vergognosa, dalla porta secondaria del Quirinale, in una Roma festante, quella bolla è scoppiata. Di fronte all'evidenza che intorno c'era un mondo coriaceo e ostile, che gli resisteva e lo cacciava, è finita irrimediabilmente la leggenda del Grande Narratore.

Confesso anche - e la cosa mi costa un po' di più - che ho fatto il tifo per Mario Monti. Forse per una questione di pelle. Più estetica (ed etica) che politica. Perché dopo tanto strepitare sopra le righe, dopo la volgarità al potere, il disgusto quotidiano e lo strepito da caravanserraglio, i troppi nani e ballerine e paillettes e cotillon nel cuore dello Stato, la sua normalità sembra un miracolo. La sua sobrietà di abito e di parola una rivoluzione. Ma anche perché, politicamente, mi rendo conto che al suo governo non ci sono alternative. Che il suo ingresso a Palazzo Chigi ha il senso di un'ultima chiamata, oltre la quale non c'è un'altra soluzione politica possibile, ma solo il vuoto in cui tutti, nessuno escluso, finirebbero per schiantarsi (l'insolvenza dello Stato, la sospensione del pagamento degli stipendi ai dipendenti pubblici, il blocco del credito bancario, la paralisi del sistema produttivo, da cui una astrattamente desiderabile campagna elettorale non ci avrebbe messo al sicuro, anzi...). Non so se la nascita del suo governo sarà sufficiente a metterci al riparo, almeno temporaneamente, dalla tempesta che ci infuria intorno. Ma so che ne è - anche sul piano dello stile - la condizione necessaria.

Detto questo, testimoniato il nostro "senso della realtà", non possiamo tuttavia nasconderci il significato profondo - la gravità - degli avvenimenti di questi giorni. Il carattere di discontinuità che essi introducono nella vicenda della nostra Repubblica. Nessuna delle prescrizioni formali della nostra Costituzione è stata violata nei convulsi passaggi di questa crisi di governo, sia ben chiaro. Ma la nostra Costituzione materiale è mutata. E in alcuni suoi aspetti di fondo, a cominciare da quel tratto costitutivo di ogni forma di governo che è il rapporto tra potere legislativo e potere esecutivo. Costituzionalmente noi nasciamo e siamo una Repubblica Parlamentare. Anzi: un parlamentarismo di partito. Il luogo naturale e genetico dell'indirizzo politico - la sede in cui nascono e muoiono i governi - è il Parlamento. E qui il Parlamento (come d'altra parte il Governo) è stato, nei passaggi cruciali, fuori gioco. Nella migliore delle ipotesi una controfigura, mentre il baricentro dell'iniziativa politica è passato - in un'evidente situazione di emergenza - alla Presidenza della Repubblica, per una semplice ragione. Perché la politica nella sua sede naturale aveva fallito. Perché la sede parlamentare, come luogo della decisione politica, era implosa. I suoi soggetti primi, i Partiti, si erano estenuati e neutralizzati, fino all'assoluta impotenza. In un Parlamento bloccato da una maggioranza tecnica ma non più politica, costruita a colpi di compravendita (in un Parlamento che aveva tragicamente assunto il volto farsesco dell'on. Scilipoti), nel vuoto, dunque, del "potere primo", l'iniziativa è passata a un potere "secondo" (anzi, al "potere terzo", perché così lo configura la Costituzione), che ha deciso.

Non può non venire in mente - absit iniuria verbis - la vicenda costituzionale della Repubblica di Weimar, e il famigerato art. 48 che assegnava al Presidente la facoltà di proclamare, in caso di emergenza, l' Ausnahmezustand, lo «stato d'eccezione», assumendovi poteri straordinari. Riflettendo proprio su quell'istituto un grande giurista del tempo, Carl Schmitt, elaborò la propria teoria della sovranità che definiva appunto il Sovrano come «colui che decide sullo stato d'eccezione» (e, occorre aggiungere, nello stato d'eccezione). Ora, Schmitt appartiene a quella schiera di "pensatori maledetti" che hanno dato voce e forma ai demoni del Novecento. Ma il suo modello d'interpretazione appare ancora assai utile per tracciare una mappa del potere contemporaneo. Se ad esempio ci chiediamo, in quell'ottica, chi sia stato in questi giorni il Sovrano in Italia, la risposta non può essere che una: Giorgio Napolitano. Non il Parlamento, non il Governo, ma il Presidente della Repubblica, il secondo corno del potere esecutivo, quello meno rilevante in condizioni di normalità.

Se poi allarghiamo il raggio dello sguardo a livello europeo, dobbiamo concludere che qui Sovrana è la Bce, la Banca centrale, un organo amministrativo dunque, e tuttavia dotato della medesima discrezionalità, dello stesso decisionismo, e anche della stessa furia ideologica della politica. E se dalla dimensione continentale passiamo a quella globale la risposta alla domanda "chi è il Sovrano" non può essere che una: i Mercati. Il loro potere arbitrario e definitivo, giudice della vita e della morte dei popoli e dei Paesi (Grecia docet). Ma i mercati - mai come oggi lo si può vedere ad occhio nudo - sono un Sovrano distruttivo. Un Crono che divora i suoi figli. Un Leviatano non vincolato da nessun patto, impegnato in uno shopping feroce che passa da uno stato all'altro, da una Borsa all'altra, con una logica che comporta nei propri codici l'auto-distruzione, lasciandosi alle spalle macerie e rovine. Da essi non ci si può aspettare non dico una società giusta, ma neppure un qualche tipo di società.

Ora, che ci si può aspettare - in questo quadro - dal governo che nasce? Mario Monti, lo sappiamo (e non dobbiamo nascondercelo) è impastato, almeno in parte, di quella stessa logica. Ne condivide alcuni punti fondamentali. Non ci potrà dare, quali che siano le sue intenzioni, "libertà e giustizia". Ed è persino difficile immaginare che chi sta dentro la cultura che ha prodotto la crisi possa, con quella stessa cultura, mettere in campo la cura definitiva. Quello che possiamo aspettarci è un riallineamento economico e finanziario - ma soprattutto in termini di credibilità e autorevolezza - all'Europa. Un riavvicinamento alla crisi degli altri. Cioè il ritorno a una qualche temporanea normalità (pur nell'emergenza che segna il nostro tempo) perché, riconquistata cittadinanza nel nostro continente, si possa aprire un contenzioso vero con l'Europa e i suoi dogmi, se qualcuno, nel frattempo, nel disastrato universo politico (o fuori di esso, in un "sociale" finora troppo silenzioso e pigro), avrà saputo elaborare una cultura altra. Un'alternativa "di modello" plausibile.

Non sarà facile, anche questo programma minimo. Bene che vada, la sua squadra di tecnici dovrà, volente o nolente, rassegnarsi a governare sopra e contro una società politica fallita e tuttavia ancora dotata di un forte potere di interdizione, sospendendone alcune prerogative. Avendo il coraggio di praticare l'istituto temporaneo ed eccezionale che nell'antica Roma aveva il nome di "dittatura commissaria". E costruendosi strada facendo la propria legittimazione: un percorso improbo, perché si troverà ad amministrare galleggiando su un Parlamento frammentato nei 34 gruppi che ha consultato (e chissà quanti altri se ne aggiungeranno, nell'anno che viene), rissoso e miope, dimostratosi drammaticamente irresponsabile. In cui i contenitori partitici che avevano strutturato la nostra forma politica rischiano, ad ogni passaggio, di liquefarsi. E in cui, soprattutto, si aggira ancora il fantasma non placato del vecchio premier, vulnerato ma non cancellato.

Ho detto, all'inizio, che il berlusconismo era finito. E lo ripeto. Ma questo non vuol dire che scompaia anche la figura di Berlusconi. Così come nel 1943 finì il fascismo, ma il suo ex capo Benito Mussolini continuò a devastare il paese per altri venti mesi, allo stesso modo l'Italia dovrà continuare a vedersela con un Silvio Berlusconi fattosi cavaliere di ventura, e con le sue scorrerie politiche, finanziarie e giudiziarie... In fondo, occupa ancora quasi la metà del Parlamento: per il gioco allo sfascio i numeri li avrebbe tutti. La Lega questo passaggio l'ha già compiuto, scommettendo sul fallimento dell'Italia, e preparandosi ad accelerarlo pur di sfuggire al nulla in cui si è confinata attraverso l'uscita di sicurezza della secessione. Se la strana coppia che ci ha portato sull'orlo dell'abisso si ricomponesse sulla linea di un nichilismo politico programmatico, allora davvero il nostro 12 novembre più che a un 25 aprile finirebbe per assomigliare, tristemente, a un 25 luglio. E davvero diventerebbe non più rinviabile il tempo delle scelte.

La distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesauribile scambio di ruolo e di funzioni - Se lo Stato si sforza di pianificare i settori della produzione economica, si penserà che sia giusto affidare il potere ai manager - La nascita del governo Monti mette in primo piano il complesso rapporto tra la democrazia e la necessità di ricorrere ad una élite di specialisti per il governo

Nasce un governo "tecnico", figlio della debolezza (ma anche della residua capacità di condizionamento) della politica di oggi, e della sciagurata insipienza della politica di ieri. È un governo di tecnici che saranno chiamati a realizzare nel modo più efficiente decisioni in parte già prese (anche e soprattutto fuori del nostro Paese) ma che dovranno nondimeno fare anche delle scelte; il che renderà evidente che sono chiamati non solo a supplire da tecnici la politica, ma anche a svolgere un ruolo propriamente politico.

Questo intrecciarsi di tecnica e politica va dipanato, nei limiti del possibile. Ma è una linea davvero sottile quella che separa la tecnica dalla politica. All´apparenza, la prima è un potere che dall´uomo va verso le cose, per produrle e modificarle, mentre l´altra è un potere che dall´uomo va verso gli uomini, perché esprimano un ordine a loro adatto. È questa la tesi di Platone, nella sua polemica contro i sofisti che riducevano la politica a una tecnica, a un´arte di persuasione e di comando, e non coglievano che l´ordine politico ha a che fare con la Giustizia (e questa con le Idee, col Bene, e con l´Essere); e anche Aristotele ha distinto fra poiesis, la produzione strumentale, che ha il proprio fine nelle cose prodotte, e praxis, l´agire che ha come fine la stessa bontà dell´azione.

Ma il progressivo venir meno del riferimento al Bene ha avvicinato le due nozioni ancora di più: un antropologo del XX secolo, Gehlen, ha sostenuto che la tecnica è l´azione dinamica che elabora l´ambiente e lo rende adatto all´uomo, mentre la politica è l´azione stabilizzatrice, che cerca di ordinare e integrare in un ordine i diversi saperi e le diverse azioni della tecnica.

In realtà, la distinzione fra tecnica e politica si è affievolita in tutta l´età moderna, in un inesorabile scambio di ruolo e di funzioni: benché pretenda di essere il custode di un sapere non specialistico ma universale, e di avere, rispetto alla tecnica, obiettivi più alti – non l´efficienza in questo o in quell´ambito ma la gloria, la nazione, l´Idea, la libertà, la democrazia –, lo Stato è intrinsecamente tecnico, poiché ha bisogno delle competenze di tecnici e scienziati, di statistici e di ingegneri, di amministratori e di militari, di giuristi e di professori; la tecnica conferisce allo Stato la potenza, che è ciò per cui lo Stato vive. E, specularmente, è ineluttabile che la tecnica manifesti la tendenza a produrre un proprio ordine, che esibisca una propria intrinseca capacità di generare forme; che sia, oltre che dinamica, anche stabilizzatrice; e che, oltre che servire, oltre che essere utile, pretenda anche di governare; che pretenda che l´intera società sia a disposizione di chi detiene i saperi neutri e oggettivi con i quali ogni problema sarà infallibilmente risolto.

Così, se lo Stato dipende dalla tecnica per la propria potenza (anche lo Stato sociale ha bisogno di efficienza tecnica), se si sforza di pianificare settori della produzione economica (nel XX secolo lo hanno fatto sia le democrazie sia i totalitarismi), allora si penserà che sia giusto e opportuno che il potere sia nelle mani dei competenti, dei tecnici, o di chi ha il know how dell´organizzazione: i manager, i tecnocrati. Come già sosteneva Weber, la tecnica fatalmente si presenterà allora come la "gabbia d´acciaio" che ha imprigionato la politica; oppure si potrà dire, con Heidegger, che la tecnica è l´essenza e il destino della civiltà occidentale, l´espressione adeguata (tanto più potente in quanto precisa, oggettiva, impersonale, neutrale) della volontà di potenza occidentale.

Contro queste prospettive di un mondo amministrato – in cui la tecnica, nata per servire l´uomo e liberarlo, lo comanda e lo piega alle proprie esigenze –, la politica a volte tenta di recuperare il comando nell´orientamento della vita sociale: questa è stata la rivoluzione culturale di Mao, che ha lanciato le Guardie Rosse contro le tecnostrutture della Cina; questo fanno i populismi, contestando le élites tecnocratiche. Ma più in generale, contro la politica asservita alla tecnica si gioca l´autonomia della politica; al prestigio distaccato dei tecnocrati si contrappone la passione e la partecipazione della politica democratica.

Ma, benché seducenti, tecnocrazia e autonomia della politica sono in realtà due ipotesi insoddisfacenti. La verità non sta né nell´identificazione della tecnica con la politica (la tecnocrazia) né nella loro contrapposizione frontale. Non separate né coincidenti, tecnica e politica si coappartengono: hanno entrambe a che fare con l´incompletezza e l´instabilità della vita associata degli uomini, e con il potere come sforzo di ordinare questo mondo. Ma, paradossalmente, è la politica a essere più aderente alla realtà, e quindi più potente: infatti, la tecnica non sa che il suo ordine impersonale e oggettivo, e i suoi fini universali e neutrali, sono anch´essi decisioni, sono il frutto di scelte già fatte, e mai messe in discussione. Mentre invece la politica sa che non c´è una sola soluzione (che appunto sarebbe ‘tecnica´) ai problemi reali di una società, ma sempre più di una (e di solito in conflitto). E nella scelta fra queste consiste appunto la politica. Se i tecnici vogliono fare politica, dovranno perciò rinunciare a credere nell´univocità e nell´assolutezza dei propri saperi, e addestrarsi al confronto dialettico.

Lo sforzo politico e culturale in cui vale la pena di impegnarsi è quindi quello di politicizzare la tecnica, cioè di fare emergere la contingenza dei suoi imperativi categorici; ma, al tempo stesso, di tecnicizzare la politica, ovvero di evitarne le derive illusionistiche e di renderla consapevole che la sua responsabilità è di decidere mezzi e scopi della potenza tecnica, senza sottrarsi alla durezza delle sue sfide. Alla politica spetta insomma il compito di entrare nell´universo della tecnica senza tributare un culto idolatrico alla sua potenza, nella consapevolezza che non è il Bene ma la percezione della complessità e della contraddittorietà della vita umana il vero discrimine fra tecnica e politica.

Il Governo Berlusconi non c’è più. Il caimano si è dimesso, consumato da un inglorioso autunno del patriarca e sempre più isolato. Era nell’aria sin dai tempi della rottura con Fini ed era diventato quasi una certezza con la splendida primavera dei sindaci e dei referendum. Ora finalmente è accaduto e quindi facciamo bene, noi di sinistra, ad esultare e sentirci sollevati.

Eppure, c’è un “ma” che pesa, perché dopo anni di lotte, speranze, delusioni, traversate del deserto ed indignazioni, alla fine non siamo stati noi a dargli la spallata. Nessun 14 dicembre, primavera democratica o 15 ottobre l’hanno mandato a casa. No, l’hanno fatto i “mercati finanziari” o meglio, visto che la mano invisibile esiste solo nelle favole, quei soggetti che dispongono dei mezzi finanziari per agire e per orientare.

E attenzione, non si tratta di una quisquilia, poiché quella dei protagonisti del cambiamento è questione decisiva. Altrimenti, per scomodare altre epoche storiche, perché nell’aprile 1945 il capo delle forze alleate in Italia avrebbe chiesto ai partigiani di stare fermi in attesa che le sue truppe liberassero il nord del paese e perché il CLN avrebbe invece deciso l’esatto contrario, dando l’ordine per l’insurrezione popolare?

In altre parole, il modo in cui si esce dal disastro berlusconiano è dirimente. E da questo punto di vista faremmo molto bene, noi di sinistra, a toglierci dalla testa che la fine di Berlusconi significhi di per sé l’avvento di un’Italia migliore. A maggior ragione nelle condizioni date, cioè nel bel mezzo della più micidiale crisi economica, sociale e politica che l’Europa abbia vissuto dagli anni Trenta del secolo scorso.

Ebbene sì, perché il punto è questo: ci stiamo liberando dall’anomalia italiana, per ritrovarci di colpo nella normalità della crisi europea. C’eravamo anche prima, ovviamente, ma forse il berlusconismo ci aveva un po’ annebbiato la vista. E così, come logica conseguenza dell’incapacità dell’opposizione sociale e politica di buttare giù il sultano e di avanzare una proposta politica alternativa, ci scopriamo ora destinatari di ordini di servizio alla pari di Spagna, Portogallo o Irlanda e commissariati come la Grecia.

In questi giorni Mario Monti gode di grande credito pubblico, un po’ per il legittimo sollievo di non avere più come presidente del consiglioBerlusconi, un po’ perché molti vedono in lui un’ancora di salvezza in mezzo alla tempesta. Tutto questo è comprensibile, ma non ci esime certo dal guardare oltre il momento e l’apparenza.

Mario Monti, come il nuovo primo ministro greco, Lucas Papademos, è espressione diretta dell’establishment finanziario internazionale. Papademos era governatore della banca centrale greca e vicepresidente della Bce fino all’anno scorso. L’ex commissario europeo Monti è advisor della potente banca d’affari “Goldman Sachs” e ricopre ruoli di primo piano nella Commissione Trilaterale e nel Gruppo Bilderberg. Beninteso, qui non è questione di complotti, ma molto più banalmente di prendere atto che oggi i circoli e le istituzioni del finanzcapitalismo (per usare la definizione di Gallino) hanno deciso di intervenire direttamente nella gestione politica degli Stati.

In questa dinamica, ad essere sconfitta e sottomessa non è tanto la politica intesa come ceto o partiti, bensì la democrazia, intesa come possibilità delle classi popolari di poter partecipare alla formazione delle decisioni pubbliche. Infatti, nelle lettere della Bce all’Italia o nello scandalo ufficiale di fronte all’ipotesi di referendum in Grecia ritroviamo la medesima insofferenza nei confronti della democrazia che abbiamo già visto all’opera a Pomigliano, Mirafiori o Grugliasco.

Insomma, delle pessime premesse per il futuro, dove in gioco non è il ricambio dei governanti, bensì la ridefinizione del sistema politico, sociale ed istituzionale. Cioè, la “terza repubblica” e il modello sociale.

Ecco perché non dobbiamo, noi di sinistra, stare nel recinto della Grosse Koalition a sostegno di un governo per nulla tecnico, il cui programma è stato scritto dalle istituzioni finanziarie. Non per ideologia, ma per realismo. E non per sbraitare a bordo campo, bensì per rientrare in gioco e costruire e organizzare un punto di vista alternativo, a partire dal lavoro, possibilmente con spirito unitario e insieme a movimenti e forze degli altri paesi europei. Altrimenti, anche le elezioni, quando finalmente arriveranno, serviranno a ben poco.

I «padroni dell'universo». Un soprannome modesto per gli uomini di punta di Goldman Sachs (GS). Una banca d'affari con 142 anni di vita, più volte sull'orlo del baratro, da sempre creatrice di conflitti di interesse terrificanti, da far impallidire - per dimensione e pervasività - quelli berlusconiani.

Famosa per «prestare» i propri uomini alle istituzioni, quasi dei civil servants con il pessimo difetto di passare spesso dalla banca privata ai posti di governo. Come peraltro i membri della Trilaterale o del Bilderberg Group. Mario Monti è uomo accorto: è presente in tutti e tre. Per GS ha fatto finora l'international advisor, come anche Gianni Letta, dal 2007, nonostante il ruolo di governo. Cos'è un advisor? Beh, è un consigliere; una persona in grado di indicare a una banca internazionale i migliori affari in circolazione. Specie quando uno Stato deve privatizzate le società pubbliche. Sta nella buca del suggeritore, ma può diventare premier... E G&S ha comunicato ai mercati in tal caso lo spread per i Btp italiani calerebbe a 350 punti in un lampo.

È la banca che ha inventato (subito copiata dalle altre) i prodotti derivati, quei 600mila miliardi di dollari virtuali che stanno strangolando il mondo. Che ha aiutato i conservatori greci a nascondere lo stato reale dei conti pubblici davanti alla Ue. Che ha mandato l'amministratore delegato Henry Paulson, nel 2006, a fare il ministro del tesoro di Bush figlio. Dopo il crack di Lehmann Brothers inventò il piano Tarp: 700 miliardi di dollari statali per salvare le banche private anche a costo di far esplodere il debito pubblico Usa. G&S riuscì in quel caso a intascare buona parte dei 180 miliardi destinati al salvataggio di Aig, gruppo assicurativo. Prima di lui era stato su quella poltrona Robert Rubin, con Clinton presidente; c'era poi tornato molto vicino, con Obama, ma dovette lasciare quasi subito il team economico: troppo evidente il suo doppio ruolo. Robert Zoellick è invece partito da G&S per coprire decine di ruoli per conto dei repubblicani, fino a diventare 11° presidente della Banca Mondiale.

Ma anche gli italiani si difendono bene. Romano Prodi era stato lui advisor, prima di tornare all'Iri per privatizzarla e spiccare quindi il volo verso la presidenza del consiglio, per ben due volte. Al suo fianco, negli anni, Massimo Tononi, ex funzionario della sede di Londra e quindi sottosegretario all'economia tra il 2006 e il 2008.

Ma il più noto è certamente Mario Draghi. Dal 2002 al 2005 è stato vicepresidente e membro del management Committee Worldwide della Goldman Sachs; in pratica il responsabile per l'Europa. Ha lasciato l'incarico per diventare governatore della Banca d'Italia e prendere la presidenza del Financial Stability Forum (ora rinominato Board), incaricato di trovare e mettere a punto nuove regole per il sistema finanziario globale. Compito improbo, che ha partorito molte raccomandazioni ma nessun risultato operativo di rilievo (le regole di Basilea 3 sono tutto sommato a tutela della solidità delle banche, non certo limitative di certe «audacie» speculative).

Dall'inizio di questo mese siede alla presidenza della Banca Centrale Europea, ma prima ancora di entrarci aveva scritto e poi fatto co-firmare a Trichet - la lettera segreta con cui il governo veniva messo alle strette: o le «riforme consigliate» in tempi stretti o niente acquisti di Btp. Forse rimpiange di ver lasciato il Financial Stability Board. Ma non deve preoccuparsi: al suo posto Mark Carney, governatore della Banca centrale canadese. Anche lui, per 13 lunghi anni, al fianco dei «padroni dell'universo» targati Goldman Sachs.

Mettiamo che tutto vada liscio nella road map delineata dal presidente della Repubblica, e sostenuta pure dal presidente degli Stati uniti. Mettiamo pure che tutto, oltre che liscio, vada per il meglio: che Mario Monti riesca a risollevare i conti pubblici e ad abbassare lo spread facendo il contrario di quello che è prevedibile che faccia, cioè con la patrimoniale, senza macelleria sociale, senza vendere il Colosseo e rilanciando l'occupazione, la produzione e i consumi. Mettiamoci infine l'auspicio che dal suo governo nasca una legge elettorale accettabile. Bene, anche in questo scenario fantascientifico i danni collaterali dell'operazione sarebbero, come quelli delle cosiddette operazioni di polizia internazionale, superiori ai risultati, e tali da compromettere gravemente l'uscita dal ventennio berlusconiano. Se ne contano, allo stato attuale, almeno tre, con conseguenti corollari e paradossi.

Primo danno, la fine, politicamente certificata, dell'autonomia della politica. La piramide istituzionale italiana si consegna, per mano del suo massimo vertice, alla governance economica europea e mondiale. La quale, ormai l'abbiamo capito, non avrà pace finché non piazzerà dei propri uomini alla guida dei paesi più esposti alla crisi dell'Eurozona: così in Italia con Monti, così in Grecia con Papademos. E' ovvio che per legittimare questa situazione vengano mobilitate tutte le ragioni emergenziali possibili, e in parte indiscutibilmente reali, dall'insostenibilità del debito al crollo di credibilità dell'Italia. Il ragionamento però, come sempre quando impazza la psicologia dell'emergenza, andrebbe ribaltato: come siamo arrivati a questa situazione? E perché, mentre ci si arrivava, non è stata né tentata né concepita una strada per uscire dallo stato terminale della politica con la politica, se non per dare qualche risposta almeno per intralciare con qualche domanda le mosse rovinose dell'economia e dei cosiddetti mercati?

La risposta sta nel secondo danno collaterale, che è la resa incondizionata, e per giunta fuori tempo massimo, alla religione neoliberista. Che impera in tutto l'Occidente da oltre un trentennio, ci ha portato alla catastrofe economico-finanziaria degli ultimi quattro anni e ha ormai come obbiettivo, anche questo l'abbiamo capito, non il condizionamento ma l'asservimento, se non l'azzeramento, della politica tout court: il capitale ha deciso che deve governare direttamente, senza alcuna mediazione, né degli stati né dei governi né dei parlamenti. Però mentre negli Stati uniti la presidenza Obama ha perlomeno messo in scena, pur perdendolo, un conflitto fra primato dell'economia e primato della politica (conflitto oggi peraltro ottimamente alimentato da Occupy Wall Street), l'Europa incarna nella sua stessa architettura, monca di una Costituzione e di istituzioni politiche credibili, una forma inedita di sovranità economica assoluta.

In Italia, la congiuntura - indubbiamente assai difficile - che vede coincidere la fine del ventennio berlusconiano con la resa dei conti del trentennio liberale avrebbe potuto offrire l'occasione per uscire dall'uno e dall'altro con una sostanziale inversione di rotta. Senonché qui viene in primo piano un nodo finora sottaciuto del fronte antiberlusconiano. Nel quale hanno troppo a lungo e troppo pacificamente convissuto due tendenze opposte: quella che dal berlusconismo vuole uscire uscendo altresì dal liberismo, e quella che viceversa ne vuole uscire con un liberismo più affilato, ancorché più presentabile, di quello che Berlusconi è riuscito a praticare. Il risultato è il passaggio dal feticismo della merce (e del corpo-merce) di Berlusconi al feticismo dei mercati fatto proprio dalla sinistra liberaldemocratica.

Vale allora la pena almeno di accennare, pur senza poterlo sviluppare, a un punto concettuale che oggi diventa politicamente decisivo. Solo in Italia la distinzione lessicale fra liberismo e liberalismo alimenta l'illusione di una distinzione concettuale e politica fra i due termini che oggi, e non da oggi, non si dà. Come molti - da Michel Foucault a Wendy Brown a Luciano Gallino nel suo ultimo libro - hanno ampiamente dimostrato, quello che in Italia chiamiamo neoliberismo, e che altrove si chiama neoliberalismo, non è una dottrina meramente economica che lascia immune il liberalismo politico classico o che può esserne corretta: è una dottrina economica e politica che estende la forma dell'impresa alla società e alle istituzioni, e che la liberaldemocrazia se la sta semplicemente ingoiando, su una sponda e sull'altra dell'Atlantico. Lo stato d'eccezione che a turno ci è toccato o ci tocca sperimentare - negli Usa di Bush di ieri sotto l'emergenza antiterrorismo come nella Grecia e nell'Italia di oggi sotto l'emergenza della crisi - ne sono una diretta conseguenza, prima o poi destinata all'implosione.

Il terzo danno collaterale riguarda la Costituzione italiana e riporta d'attualità il discorso, di fatto archiviato, su quella europea. Non è per caso, in questo scenario di neoliberismo trionfante, che la seconda non sia mai nata, e che la prima traballi da anni. Una ripresa di iniziativa politica continentale dal basso per la Costituzione europea sarebbe oggi l'unica risposta adeguata all'Europa della Bce e del duo Merkel-Sarkozy, e l'ultimo a essere insensibile al tema sarebbe lo stesso Giorgio Napolitano. Del quale, per venire alla Costituzione italiana, non è certo in discussione il ruolo di garante fin qui svolto. Non si può tuttavia eludere il fatto che l'Italia ha vissuto negli ultimi anni, sotto l'emergenza della «anomalia» berlusconiana, una sorta di regime di coabitazione semipresidenzialista che non mancherà di lasciare traccia per il futuro, e che altri in futuro potrebbero interpretare in modo meno commendevole. Così come non mancherà di lasciare traccia l'inedito istituto delle dimissioni a tempo del presidente del Consiglio, e l'eclissarsi del ruolo del parlamento e dei partiti in una situazione straordinaria come quella attuale.

Con il che torniamo al punto di partenza, non senza enumerare i paradossi in partenza accennati. Per paradosso, all'esito di questa situazione la bandiera dell'autonomia della politica viene impugnata da chi l'ha maggiormente affossata sostenendo un regime come quello berlusconiano in cui politica ed economia erano indistinguibili (si veda la manifestazione annunciata per oggi dal Foglio, Libero e il Giornale). E la bandiera della critica all'Europa tecnocratica viene impugnata da chi, come la Lega, dell'Europa politica è sempre stato acerrimo nemico. Un rovesciamento delle parti in cui noi stessi, al manifesto, non ci sentiamo propriamente a nostro agio, ma tant'è.

Ancora un punto, quello che in queste ore appassiona di più le cronache. Giustamente, da parte delle posizioni sia Pd sia Pdl più caute nell'appoggiare la soluzione-Monti, viene la richiesta che se governo tecnico dev'essere, che lo sia davvero: che sia composto di tecnici, che non coinvolga i partiti più del necessario e del dovuto, che abbia un programma definito e un tempo limitato. E' una cautela consapevole del big bang che questo governo può innescare nei singoli partiti e nelle coalizioni sia di centrodestra sia di centrosinistra, e nello stesso bipolarismo. Un big bang che tuttavia di tutti i danni non sarebbe certo il maggiore, e anzi forse non sarebbe un danno. Sotto di esso però, neanche tanto nascosto, c'è un altro pericolo: che il passaggio-Monti serva a ratificare definitivamente quel ruolo ancillare del Pd rispetto a un equilibrio centrista garante dei «poteri forti» al quale fin dall'89 si tenta di inchiodare il resto di quella che fu la più grande sinistra d'Occidente. E non è un affatto un caso che questo nodo torni al pettine all'uscita dall'anomalia berlusconiana, come ultimo e decisivo atto della «normalizzazione europea» del laboratorio italiano.

Prima o poi, a chiunque di noi potrà capitare di sentirsi rivolgere una domanda dai nostri figli, nipoti o pronipoti: ma come avete fatto, tra il 1994 e il 2011, a fidarvi di Silvio Berlusconi uomo politico e capo del governo, a sopportarlo per 17 anni? Tanto vale, allora, cominciare a prepararsi e provare a rispondere.

Ora che il regime televisivo èarrivato alla fine, mentre spunta l´alba di una nuova Liberazione e speriamo anche di una nuova ricostruzione nazionale, quel sortilegio che ha condizionato per quasi un ventennio la vita pubblica italiana appare sempre più incomprensibile e inspiegabile. E non solo agli occhi degli avversari, ma anche di molti (ex) fan, supporter o addirittura berluscones di antica e provata fede.

Il fatto è che la "sindrome di Arcore", come quella di Stoccolma che fa innamorare il rapito o la rapita del suo carceriere, ha fatto innamorare gli italiani - o almeno una larga partedi essi - del loro tiranno mediatico. Non sarebbe corretto attribuire questa infatuazione collettiva soltanto alla televisione, al potere o allo strapotere mediatico che il Cavaliere ha esercitato sulla società italiana a partire dalla metà degli anni Ottanta, cioè dall´avvento della tv commerciale, ben prima della sua fatidica "discesa in campo".

Nessuno ha mai sostenuto che Berlusconi abbia vinto per tre volte le elezioni solo per le sue televisioni. Ma, in mancanza di controprove, si può legittimamente ipotizzare che forse senza le tv non le avrebbe vinte.

È certo, comunque, che il fenomeno ha contagiato purtroppo anche una parte degli avversari, in un processo imitativo e mimetico che non ha risparmiato neppure alcuni settori ed esponenti della sinistra. Quella che occorre, allora, è innanzitutto una svolta nella vita civile del Paese, un´alternativa culturale e sociale, non soltanto un cambio di governo. Ecco perché la personalizzazione della politica, favorita dalla rappresentazione mediatica e in particolare dalla spettacolarizzazione televisiva, a questo punto deve cedere il passo all´elaborazione dei contenuti, dei programmi, delle idee.

Per evitare dunque che il post-berlusconismo risulti anche peggiore del berlusconismo, occorre inoculare nel corpo sociale quelli che Paolo Sylos Labini chiamava gli "anticorpi", da cui ha preso il titolo una riuscita collana dell´editore Laterza. E cioè, la capacità d´indignarsi e di reagire, l´intransigenza, la trasparenza, l´onestà pubblica e privata. Una vaccinazione di massa, insomma, per rafforzare le difese immunitarie contro i virus endemici della corruzione, del clientelismo, del populismo mediatico, della demagogia, del trasformismo che tende a degenerare nel camaleontismo.

È dal sistema della comunicazione che bisogna partire per rivitalizzare il rapporto tra informazione e democrazia, in modo da regolare attraverso il controllo dell´opinione pubblica l´aggregazione e la raccolta del consenso, per garantire un effettivo pluralismo. A cominciare, naturalmente, dal servizio pubblico radiotelevisivo che ne è l´architrave portante.

La tv continua a rappresentare in Italia il veicolo di gran lunga prevalente per l´informazione: quasi il 90%. E le sei reti generaliste di Rai e Mediaset detengono ancora una quota di oltre il 73% di share medio giornaliero. Nel complesso, la televisione rastrella così il 44,8% delle risorse pubblicitarie, rispetto al 15,4% dei quotidiani e al 12,8 dei periodici.

È quanto mai necessario, quindi, quel riequilibrio del mercato che il presidente Ciampi invocava nel 2003 con il suo messaggio alle Camere. Se Mario Monti, già Commissario europeo alla Concorrenza, riceverà l´incarico dal Capo dello Stato e riuscirà a formare un nuovo governo, c´è da auspicare perciò che applichi all´anomalia televisiva italiana lo stesso rigore con cui trattò la Microsoft di Bill Gates. L´antitrust vale a Bruxelles come a Roma.

Negli anni trionfali di Berlusconi era possibile sostenere con molti argomenti che non si trattava comunque di un regime: ma come definire il crollare per disfacimento che è sotto i nostri occhi, l´assenza totale di ricambio all´interno del centrodestra, le fughe accelerate e talora sorprendenti, dopo gli "irresponsabili" afflussi dei mesi scorsi (talora con protagonisti non dissimili)? "Muore ignominiosamente la Repubblica" scriveva il poeta Mario Luzi alla fine degli anni settanta: allora la tragedia investiva per intero il Paese e il ceto politico, oggi il centrodestra è in gran parte approdato alla farsa. Ad una dissoluzione senza nobiltà.

All´indomani del 25 luglio del 1943 fra i tanti fedelissimi di Mussolini vi fu un solo caso drammatico, il suicidio per coerenza estrema di Manlio Morgagni, presidente dell´agenzia giornalistica di regime: "Il Duce non c´è più, la mia vita non ha più scopo", lasciò scritto. Le cronache di questi giorni ci danno, fortunatamente, una tranquilla sicurezza: Morgagni non corre proprio il rischio di avere degli imitatori, neppure incruenti, anche se la paura del suicidio (con riferimento solo alla carriera, naturalmente) è stato l´argomento più evocato nelle dichiarazioni. E con buona pace della giovane deputata del Pdl che ha assunto come suo modello Claretta Petacci.

Non si leggano però solo come farsa le cronache dei giorni scorsi, il ricomparire di transfughi o ex transfughi. C´è in realtà poco da sorridere: ci sono i sintomi di una tragedia nelle private disinvolture e vergogne che molte microscopiche vicende ci raccontano (o ci hanno raccontato nei mesi passati, con segno rovesciato). E che Cirino Pomicino sia fra gli affossatori della "seconda repubblica" è il più malinconico epitaffio sia della "prima" che della "seconda".

Sono una cosa terribilmente seria le crisi di regime. Coinvolgono nel loro insieme le istituzioni e il Paese, e conviene prender avvio dalle domande più immediate: perché questo ceto politico è riuscito a imporsi sin qui, a occupare così a lungo la scena? La legge elettorale lo spiega solo in parte, e ripropone in altre forme la stessa domanda: perché il centrodestra ha potuto riempire le sue liste di figure di questo tipo senza pagare dazio? Perché nel crollo della "prima Repubblica" è stata solo o prevalentemente questa "società incivile" ad invadere le istituzioni e non hanno trovato spazio voci diverse, espressione di un opposto modo di intendere la politica e il rapporto fra privato e pubblico?

Non ci si fermi però a queste prime e più immediate domande: quando tramonta un regime è necessario un esame di coscienza più profondo. Nel crollo della "prima repubblica" esso fu eluso addossando ogni colpa a un ceto politico corrotto, contrapposto a una società civile incontaminata: le conseguenze dell´abbaglio si videro presto ed oggi nessuno può affidarsi a quel mito. Nel dicembre del 1994, nell´imminente crisi del primo governo del Cavaliere, Sandro Viola scriveva su questo giornale: "quando Berlusconi prima o poi cadrà, sul Paese non sorgerà un´alba radiosa. Vi stagneranno invece i fumi tossici, i miasmi del degrado politico di questi mesi". I mesi sono diventati anni, quasi un ventennio, e il degrado ha superato da tempo i livelli di guardia. Con una sfiducia nella democrazia ormai dilagante, e con conseguenze pesantissime nell´insieme della società.

Poco meno di un anno fa il rapporto del Censis sul 2010 ha disegnato il quadro di un´Italia sfiduciata, percorsa da una diffusa sensazione di fragilità individuale e collettiva. Incapace di vedere un approdo, una direzione di marcia. Un´Italia "senza più legge né desiderio": ma tornare a "desiderare", a sperare, è la virtù civile necessaria per rimetter in moto la società. E per andare in questa direzione, concludeva il Censis, è necessario ridare centralità e prestigio alle leggi e alle regole. Quel rapporto segnalava anche un dato drammatico, che fu colpevolmente rimosso dall´agenda politica: gli oltre due milioni di giovani che non studiavano e non avevano lavoro né lo cercavano. Resi sempre più sfiduciati e apatici dal diffuso trionfare dei "furbetti" e delle corporazioni. Tramontate da tempo le disastrose illusioni del berlusconismo, affermava allora Giuseppe De Rita, un leader vero dovrebbe ridare in primo luogo agli italiani il senso delle loro responsabilità.

Da qui occorre ripartire, da quella "ricostruzione etica" evocata domenica da Eugenio Scalfari: una più generale ricostruzione che riguarda l´intero Paese ma che nella politica deve trovare riferimento e incentivo. Anche per questo un governo di civil servants sarebbe oggi fortemente auspicabile, segno di un´inversione di tendenza cui chiamare il Paese.

Il governo Monti è oggi una speranza per l’Italia. La speranza di voltare pagina dopo l’ingloriosa fine del ciclo berlusconiano, risalendo la china della credibilità perduta, tenendo insieme equità e risanamento, rimettendo in sesto il sistema politico a partire dalla riforma elettorale. Ma non basterà applaudire per sventare i pericoli che incombono sul Paese.

L’emergenza italiana chiede di essere affrontata con forza, oltre che con equilibrio e giustizia. Ci attendono scelte difficili, politiche severe e non si potrà fare a meno di una forte legittimazione del governo (che è cosa diversa dalla sua legittimità). Il governo Monti si forma in una condizione eccezionale: ma sarebbe inaccettabile che si affermasse come il commissariamento della politica da parte delle tecnocrazie europee o delle oligarchie economiche. Per nascere, invece, il nuovo governo deve poggiare su un’assunzione piena, esplicita di responsabilità dei partiti maggiori, a cominciare da Pdl e Pd. Nessuno può far finta di niente o fischiettare. Senza un loro impegno solenne, aperto alla convergenza di tutti, è meglio correre subito alle urne.

Votare non sarebbe un dramma. Il voto è la normalità, la bellezza, la forza della democrazia. E la democrazia non è un lusso, checché ne dicano alcuni. Non c’è responsabilità politica senza consenso. Ma proprio per questo, ciò che mancherà al nuovo governo, devono fornirglielo il Parlamento e i partiti. Un esecutivo può anche avere un profilo tecnico ed è opportuno che i partiti stavolta facciano un passo indietro dalla compagine ministeriale, innanzitutto perché la conflittualità tra Pdl e Pd appare irriducibile ma non esiste una sospensione della politica.

La piena assunzione di responsabilità per il Pd vorrà dire in primo luogo sostenere contenuti di equità nell’azione di risanamento e di rilancio della crescita. Le dimissioni di Berlusconi sono state un grande successo per le opposizioni. Non era facile vista l’ingessatura dell’attuale sistema. Non sarebbe stato possibile senza l’unità d’azione delle ultime settimane.

Bersani disse che il più antiberlusconiano sarebbe stato quello che l’avrebbe fatto cadere, non chi gridava più forte. Può segnare il punto. E può anche dire a testa alta che il suo partito è pronto a un sacrificio la rinuncia a elezioni immediate per aiutare l’Italia a compiere insieme un importante passo avanti.

La verifica dell’equità sociale però è decisiva. Compito del governo Monti sarà integrare con nuove misure le manovre di Berlusconi: come si farà? È chiaro che a pagare l’aggiunta ora dovranno essere soprattutto coloro che fin qui sono stati risparmiati. La lotta contro l’evasione fiscale va rafforzata, senza escludere misure straordinarie come la sovrattassa per gli “scudati”. I privilegi ingiusti vanno colpiti, eliminando il superfuo nei costi della politica ma anche le barriere di professioni, lobby, corporazioni e i superbonus dei supermanager. I grandi patrimoni e le rendite non potranno più essere esentate dal contributo al risanamento. La tassazione si deve spostare dal lavoro alla rendita, perché solo così può ripartire la crescita. E, siccome il costo sarà alto, tutti dovranno rinunciare a qualcosa. Ma se si può chiedere ai lavoratori di accelerare il superamento delle pensioni di anzianità, anticipando il passaggio al contributivo pro rata, deve essere chiaro che l’arma ideologica dell’articolo 18 va deposta. Neppure Confindustria chiede la libertà di licenziamento. Mario Monti non è un liberista, ma uno studioso che si è formato sull’economia sociale di mercato: a lui toccherà promuovere un nuovo patto sociale, superando quella politica di divisione del mondo del lavoro che Berlusconi ha perseguito con ostinazione fino all’ultimo.

Come scriviamo in questo numero del giornale, il governo Monti avrà anche il compito di restituire all’Italia una legge elettorale di tipo occidentale. Il che vuol dire almeno il ripristino di un rapporto diretto tra elettore ed eletto e l’eliminazione del premio di maggioranza (quel surrogato presidenzialista che ha stravolto il nostro modello costituzionale). Siamo a bivio dopo la Seconda Repubblica: o imbocchiamo davvero la via presidenziale (con elezione separata del Parlamento) o costruiamo un sistema parlamentare efficiente. Non è difficile fare in modo che il premier sia il leader del partito più votato, che la sera del voto sia già chiara al mondo la coalizione di maggioranza, che i governi durino normalmente una legislatura, che comunque il Parlamento possa sanzionare un esecutivo senza che si gridi allo scandalo.

La fase nuova che si apre avrà bisogno di più politica. L’auspicio è che le opposizioni a Berlusconi mantengano, nonostante i dubbi e le riserve di oggi, l’unità di questi giorni. Se venisse meno, sarebbe una chance in meno per l’Italia.

Postilla

A proposito di leggi elettorali. Ma le leggi non le fa il Parlamento?

Governo tecnico? È una parola ambigua, non c´è niente di tecnico nel colpire i ceti medi e popolari Bisogna scegliere tra equità e macelleria, ed è una scelta politica

Un governo che in poche settimane faccia quel che serve al Paese: la patrimoniale, la tassazione delle rendite finanziarie, l´abbattimento delle spese militari. Solo a un programma del genere Sinistra Ecologia e Libertà potrebbe dire di sì. Per poi andare subito - molto prima del 2013 - al voto anticipato: «La medicina giusta per i mali dell´Italia resta la democrazia». Nichi Vendola è in Cina con cento imprenditori pugliesi. Un viaggio da governatore, per stringere rapporti commerciali e istituzionali. Ci risponde da Pechino, ma è come se fosse qui: «Non ho dormito affatto, ho passato la notte al telefono», dice alla fine di quest´intervista. Investito - anche lui - dallo stato di paura in cui la borsa e lo spread hanno gettato il Paese nel mercoledì nero dei mercati.

Sel apre al governo Monti?

«Non è così. Ci viene detto che urge fare una manovra per dare una risposta all´Europa e al mondo. Noi diciamo va bene, si faccia in un tempo ristretto un intervento di riforma della struttura della ricchezza, si facciano scelte drastiche in termini di tassazione patrimoniale e tassazione delle rendite, si abbattano tutte le spese militari. Poi, però, si vada subito al voto».

Queste cose può farle un governo tecnico?

«Tecnico è una parola ambigua che va messa al bando. Non c´è niente di tecnico nell´infliggere colpi ai ceti medi e popolari. Bisogna scegliere tra equità sociale o macelleria. E´ una scelta politica».

Fatta la scelta, quanto dovrebbe durare quest´esecutivo?

«Mi sembra che per fare le cose che ho detto bastino poche settimane. Dopo ci sono solo le elezioni anticipate, dentro questo Parlamento ci sono troppe infezioni».

Secondo molti andare al voto adesso sarebbe un suicidio per l´Italia.

«Chi pensava un anno fa che fosse una iattura andare alle urne deve fare i conti oggi con i danni drammatici che questi tempi supplementari del governo Berlusconi hanno inferto al Paese. C´è sempre la crisi economica per non andare al voto, ma c´è una gigantesca crisi politica che alimenta la crisi economica e che bisogna affrontare con l´esercizio della democrazia. Altrimenti spegniamo la politica e diciamo al mondo che c´è la dittatura delle istituzioni economiche e finanziarie, che i governi e i parlamenti si fanno dirigere dalle grandi banche europee e americane. E noi siamo liberi di decidere: o la macelleria sociale, o la macelleria sociale».

La strada maestra è il voto, quindi. Ora però si parla di un governo guidato da Mario Monti con dentro anche il Pdl.

«Lo trovo paradossale. Ma insomma chi ha fallito? Chi ha perso la maggioranza? Chi ha mandato allo sbando il Paese?».

Questa sembra la via indicata da Napolitano.

«Il Capo dello Stato agisce con grande rigore, secondo i compiti assegnatigli dalla Costituzione. E agisce anche con la grande responsabilità di rappresentare l´Italia di cui non ci si vergogna. Indica degli strumenti, poi però ci sono i contenuti politici e quelli non sono a disposizione di altri che non siano in Parlamento. Non mi si può chiedere, seppur virtualmente, di condividere cose che io considero dannose per l´economia e dal punto di vista sociale, come gli interventi sulle pensioni o i licenziamenti facili».

Questa posizione la allontana dal Pd?

«Io ho detto il mio pensiero, che mi risulta essere quello del segretario Cgil Susanna Camusso e del segretario pd Bersani. Voglio essere responsabile nel contribuire a un momento di pulizia e di svolta per questo Paese, non corresponsabile nel tenere in vita l´infezione berlusconiana. Senza equità sociale, senza una risposta alla crisi drammatica dei ceti popolari, sarò all´opposizione di qualunque governo».

L'applausometro al seguito del senatore Mario Monti, timoniere di un governo di emergenza nazionale dal Pdl al Pd, va di pari passo con la bordata di fischi contro le voci che invece indicano la via maestra delle elezioni. Non c'è tempo per i bizantinismi del Palazzo, meglio mettere tra parentesi la politica per dare tutto il potere all'economia.

A caratteri cubitali il messaggio viene inviato dalla prima pagina del giornale di Confindustria ("Fate presto"), per spiegare che i tempi della politica (della democrazia) sono troppo lenti e poco conciliabili con quelli della crisi finanziaria. Quindi si può al massimo concedere un rapido passaggio parlamentare per il via libera a Monti, ma chiedere agli elettori come uscire dalla crisi non si può. In altra forma, lo stesso pensiero unico è replicato sulle colonne del Corsera, in prima linea nella battaglia a sostegno «delle qualità super partes» di Monti, come scrive il direttore De Bortoli. Siccome il gettonatissimo candidato a palazzo Chigi è chiamato a salvare l'Italia con «scelte impopolari», sarà bene non mischiare l'alto incarico con gli intralci delle forze politiche (una traduzione dei famosi «lacci e lacciuoli»). Come se essere super partes e impopolari fosse oggi il valore aggiunto, la chiave di volta necessaria per uscire vivi dalle macerie del berlusconismo. Come se dopo il colossale spostamento della ricchezza del paese dal lavoro al profitto (8 punti di Pil: ogni anno 120 miliardi di euro), eredità dell'ultimo quindicennio italiano, non fosse ancora giunta l'ora di chiamare al governo una politica esplicitamente di parte, di quella parte che, altrimenti, sotto le macerie resterà sepolta.

Su queste pagine Guido Viale sottolineava il monopolio degli economisti nel dibattito sulla crisi finanziaria. Avergli delegato la "narrazione" degli eventi, che fossero liberisti e keynesiani, ha avuto l'effetto, e lo vediamo in queste febbrili giornate, di camuffare le leggi dell'economia come leggi di natura. L'abbuffata liberista che ha precipitato il mondo nel terremoto di questi anni, ora pretende di indicare la ricetta e la cura. E può farlo senza l'intralcio e l'impaccio di doverne rispondere ai cittadini.

Le dimissioni di Berlusconi sono persino difficili da credere, come è difficile svegliarsi da un incubo che ha segnato la psicologia collettiva. Tra le pesanti eredità del quindicennio, oltre al disfacimento sociale (ieri dati Istat denunciavano la cifra di cinque milioni di disoccupati: il doppio della media europea), allo svuotamento di ogni principio di rappresentanza, all'annichilimento di qualunque regola di convivenza civile, ci sono i semi avvelenati dell'antipolitica. Che ancora fruttificano, dando a un governo libero da questi partiti il colore rosso della mela avvelenata.

Giulio Malgara rinuncia alla presidenza della Biennale di Venezia. Giancarlo Galan non procede alla nomina. Paolo Baratta rimane al timone dell´istituzione, a meno che, come suggeriscono alcune voci, non diventi nuovo ministro dei Beni culturali, nell´eventuale governo Monti. Nella mattinata di ieri, l´impasse veneziana si è sbloccata. Grazie al passo indietro del pubblicitario amico di Silvio Berlusconi, che per altro arriva dopo il grande movimento di intellettuali che si sono espressi contro la sua designazione e a favore di una proroga per Baratta.

«Ci sono in ballo questioni più importanti; non volevo aggiungere un problema ai tanti che abbiamo», così Malgara ha motivato il suo improvviso "no grazie" all´incarico di guidare la Biennale. Incarico offertogli da Galan poco più di un mese fa e causa di malumori in Veneto e non solo. Nelle scorse settimane, dal sindaco di Venezia e vicepresidente del cda della Biennale Giorgio Orsoni in poi, sono stati in tanti a esprimere opinione negativa sulla scelta del ministro, che aveva diviso anche la Commissione cultura della Camera. Mentre il quotidiano La Nuova Venezia ha raccolto un record di firme illustri per sostenere la riconferma di Baratta. In 4350 hanno risposto all´appello, tra cui i rappresentati delle 30 istituzioni culturali più importanti del mondo: da Nicholas Serota della Tate Modern di Londra ai direttori del Centre Pompidou di Parigi e del MoMA di New York. Nomi che devono avere avuto un peso nella decisione finale. Dal Mibac, fanno sapere che ieri il capo di gabinetto del ministro, Salvatore Nastasi, faceva da ponte tra Galan e Malgara per ottenere la rinuncia di quest´ultimo all´incarico ed evitare così al ministro un formale passo indietro. Ma il fondatore dell'Auditel ha tenuto a precisare che non sono state le polemiche attorno alla sua designazione a spingerlo a lasciare: «In una situazione delicata sul piano politico e istituzionale mi sembrava poco opportuno procedere a questa nomina – ha detto –. Ho sensibilità per queste questioni. Mi è molto dispiaciuto».

Secca la dichiarazione del ministro Galan: «Ringrazio Giulio Malgara per avermi chiesto di non ratificare la sua nomina nonostante fossi già nelle condizioni di poterlo fare. Lo ritengo un gesto di pacificazione che rende onore a una figura il cui profilo istituzionale viene confermato da tale decisione». Per il sindaco di Venezia Orsoni, Malgara «ha dimostrato una sensibilità encomiabile e adesso vedremo cosa succederà».

Lo scenario, infatti, è ancora aperto con Paolo Baratta saldo al comando della Biennale di Venezia, anche se la sua presidenza scade il 18 dicembre. A un nuovo ministro spetterà il compito di prorogare il mandato. Intanto, entro la fine del mese, il cda della Biennale si riunirà per proporre le nomine dei nuovi direttori dei settori, primi tra tutti quelli per l´Architettura e per le Arti Visive. L´edizione 2013 dell´Esposizione internazionale, quella successiva alla direzione di Bice Curiger che si chiude il 27 novembre, nascerà sotto una stella tutta da individuare.

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