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Ma, quando tutto questo sarà finito, che cosa sarà della politica e delle sue istituzioni? Diremo che è stata una parentesi oppure una rivelazione? Parentesi che, come si è aperta, così si chiude ridando voce al discorso di prima; oppure rivelazione di qualcosa di nuovo, sorto dalle macerie del vecchio?

Queste domande devono apparire insensate a coloro che pensano o sostengono che nulla di rilevante sia accaduto e che tutto, in fondo, sarà come prima, così forse credendo di meglio contrastare la tesi estremistica di coloro che, per loro irresponsabili intenti, hanno gridato allo scandalo costituzionale, al colpo o colpetto di stato. In effetti, chi potrebbe dire che la Costituzione è stata violata?

La scelta del presidente del Consiglio è stata fatta dal presidente della Repubblica; il presidente del Consiglio ha proposto al presidente della Repubblica la lista dei ministri e questi li ha nominati; il governo si è presentato alle Camere e ha ottenuto la fiducia; leggi e decreti del governo dovranno passare all´approvazione del Parlamento. Non c´è che dire: tutto in regola. Dovrebbero essere soddisfatti perfino coloro i quali pensano che la legge elettorale abbia sterilizzando poteri e possibilità del presidente della Repubblica.

Come il potere di ricercare in Parlamento eventuali maggioranze diverse da quella venuta dalle elezioni. Per costoro, in caso di crisi, si dovrebbe necessariamente, sempre e comunque, ritornare a votare. Quella che si è formata per sostenere il nuovo governo, infatti, non è una maggioranza alternativa alla precedente; è – di fatto – la stessa, soltanto allargata a forze di opposizione chiamate a condividerne le responsabilità. Abbiamo girato pagina quanto alle persone al governo – il che non è poco – ma non abbiamo affatto rotto la continuità politica, come del resto il presidente del Consiglio, con atti e parole, continuamente, tiene a precisare. Onde potrebbe dirsi: prosecuzione della vecchia politica con altra competenza e rispettabilità. Nelle presenti condizioni politiche parlamentari, del resto, non potrebbe essere altrimenti.

Per quanto riguarda la legalità costituzionale di quanto accaduto, nulla dunque da eccepire. Semplicemente, il presidente della Repubblica ha fatto un uso delle sue prerogative che è valso a colmare il deficit d´iniziativa e di responsabilità di forze politiche palesemente paralizzate dalle loro contraddizioni, di fronte all´incombere di un rischio-fallimento, al tempo stesso, economico e finanziario, sociale e politico, unanimemente riconosciuto nella sua gravità e impellenza. Fine, su questo punto.

È invece sulla sostanza costituzionale, sotto il profilo della democrazia, che occorre aprire una discussione. È qui che ci si deve chiedere che cosa troveremo alla fine (perché, prima o poi, tutto è destinato a finire e qualcos´altro incomincia).

Di fronte alla pressione della questione finanziaria e alle misure necessarie per fronteggiarla, i partiti politici hanno semplicemente alzato bandiera bianca, riconoscendo la propria impotenza, e si sono messi da parte. Nessun partito, nessuno schieramento di partiti, nessun leader politico, è stato nelle condizioni di parlare ai cittadini così: questo è il programma, queste le misure e questi i costi da pagare per il risanamento o, addirittura, per la salvezza, e siamo disposti ad assumere le responsabilità conseguenti. Né la maggioranza precedente, che proprio di fronte alle difficoltà, si andava sfaldando; né l´opposizione, che era sfaldata da prima. Niente di niente e, in questo niente, il ricorso al salvagente offerto dal presidente della Repubblica con la sua iniziativa per un governo fuori dai partiti è evidentemente apparsa l´unica via d´uscita. Insomma, comunque la si rigiri, è evidente la bancarotta, anzi l´autodichiarazione di bancarotta.

Di fronte a grandi problemi, ci si aspetterebbe una grande "classe dirigente", che cogliesse l´occasione propizia per mostrarsi capace d´iniziativa politica. Sennò: dirigente di che cosa?

Si dirà: e il governo, pur piovuto dal cielo, è tuttavia sostenuto dai partiti; anzi, il sostegno non è mai stato, nella storia della Repubblica, così largo; i partiti, quale più quale meno, per senso di responsabilità o per impossibilità di fare diversamente, alla fin fine, si mostrano in questo modo all´altezza della situazione. Sì e no. Sì, perché voteranno; no, perché il voto non è un sostegno e un coinvolgimento nelle scelte del governo ma è, piuttosto, una reciproca sopportazione in stato di necessità. Il governo, timoroso d´essere intralciato dai partiti; i partiti, timorosi di compromettersi col governo. Il presidente del Consiglio ha onestamente riconosciuto che i partiti, meno si fanno sentire, meglio è: votino le proposte del governo e basta. I partiti, a loro volta, sono in un´evidente contraddizione: devono ma non possono. Avvertono di dover votare ma, al tempo stesso, avvertono anche che non possono farlo impunemente. Gli stessi emendamenti di cui si discute in questi giorni sembrano più che altro dei conati: per usare il linguaggio corrente, non un "metterci la faccia", ma un cercare di "salvarsi la faccia".

In questa delicata situazione, i partiti devono esserci ma vorrebbero non esserci. Per questo, meno si fanno vedere, meglio è. I contatti, quando ci sono, avvengono dalla porta di servizio. Alla fine, si arriverà, con il sollievo di tutti, a un paradossale voto di fiducia che, strozzando il dibattito parlamentare, imporrà l´approvazione a scatola chiusa e permetterà di dire al proprio elettorato: non avrei voluto, ma sono stato costretto.

Ma c´è dell´altro. In un momento drammatico come questo, con il malessere sociale che cresce e dilaga, con la società che si divide tra chi può sempre di più, chi può ancora e chi non può più, con il bisogno di protezione dei deboli esposti a quella che avvertono come grande ingiustizia: proprio in questo momento i partiti sono come evaporati. Corrono il rischio che si finisca, per la loro stessa ammissione, per considerarli cose superflue, d´altri tempi. In qualunque democrazia, i partiti hanno il compito di raccogliere le istanze sociali e trasformarle in proposte politiche, per "concorrere con metodo democratico alla politica nazionale", come dice l´articolo 49 della Costituzione: sono dunque dei trasformatori di bisogni in politiche. Una volta svolto questo compito di unificazione secondo disegni generali, ne hanno un secondo, altrettanto importante: di tenere insieme la società, per la parte che ciascuno rappresenta, nel sostegno alla realizzazione dell´indirizzo politico, se fanno parte della maggioranza, e nell´opporsi, se non ne fanno parte. Un duplice compito di strutturazione democratica, in assenza del quale si genera un vuoto, una pericolosa situazione di anomia, cioè di disordine politico, nel quale il governo si trova a dover fare i conti direttamente col disfacimento particolaristico, corporativo ed egoistico dei gruppi sociali, inevitabilmente privilegiando i più forti a danno dei più deboli. La dialettica tra governo e società non trova oggi in Italia la necessaria mediazione dei partiti. Di questa, invece, la democrazia, in qualsiasi sua forma, ha necessità vitale.

Gli storici avrebbero molto da dirci sulla miscela perversa di crisi sociale e alienazione politica, cioè sulla rottura del nesso che i partiti devono creare tra società e Stato. Non che la storia sia il prodotto di leggi ineluttabili, ma certo fornisce numerosi esempi, nemmeno tanto lontani nel tempo: nel nostro caso, esempi – che sono ammonimenti – del disastro che si produce quando le forze della rappresentanza politica e sociale si ritirano a favore di soluzioni tecnocratiche, apparentemente neutrali, né di destra né di sinistra, al di sopra delle parti. Può essere che in queste considerazioni ci sia una piega di pessimismo, ma vale l´ammonimento: non tutti gli ottimisti sono sciocchi, ma tutti gli sciocchi sono ottimisti.

E allora? Allora, il rischio è che, "quando tutto questo sarà finito" ci si ritrovi nel vuoto di rappresentanza. Una certa destra nel vuoto si muove molto bene, per mezzo di qualche facilissima trovata demagogica. Il vuoto, invece, a sinistra ha bisogno di ben altro, cioè di partecipazione e di fiducia da riallacciare tra cittadini, e tra cittadini e quelle istituzioni che esistono per organizzare politicamente i loro ideali e interessi. Questo – altro che sparire, arrendendosi alle difficoltà – è il compito che attende i partiti che stanno da quella parte, un compito che ha bisogno di idee e programmi, strutture politiche rinnovate e trasparenti, uomini e donne di cui ci si possa fidare. Non di salvatori che "scendono in campo", ma di seri lavoratori della politica, degni del rispetto dei cittadini di cui si propongono come rappresentanti.

Nei primi anni Novanta emersero le difficoltà che misero fine al "patto di finzione" su cui era prosperata l´era craxiana e fecero arrivare il paese in gravi condizioni alla sfida europea

"Oro per la patria" chiese il fascismo agli italiani per sostenere la guerra di aggressione all´Etiopia, e nella "giornata della fede" le donne furono chiamate a donare l´anello nuziale. Cominciò così il percorso che ci avrebbe portati alla tragedia della seconda guerra mondiale, e la Liberazione vide un Paese piegato e piagato. Un Paese che seppe però trovare la forza per risollevarsi e dare avvio ad una Ricostruzione materiale ed etica. In un quadro di drammatica miseria e di inflazione senza freni la moderazione responsabilmente scelta dal sindacato portò a sacrifici pesanti per i lavoratori ma fu decisiva. Ad essa non corrisposero però altre misure: ad esempio una imposta patrimoniale straordinaria e progressiva, e un cambio della moneta volto a colpire gli arricchimenti occulti. Le avevano proposte con forza le sinistre, che parteciparono al governo sino al 1947, ma vi si opposero la destra conservatrice e i grandi poteri economici e finanziari. E le sinistre furono poi estromesse dal governo nel clima della "guerra fredda".

Per risollevarci furono certo decisivi gli aiuti americani e il Piano Marshall ma quel clima pesò negativamente. Alimentò un´offensiva anticomunista e antisindacale che aprì la via a licenziamenti massicci, ad uno sfruttamento intenso nelle fabbriche e al mantenimento di salari bassissimi: profonde iniquità sociali segnarono così il nostro sviluppo e contribuirono alla sua interna debolezza. Ebbero radici qui le tensioni che emersero negli anni del "miracolo", ulteriormente alimentate poi da una dura controffensiva padronale. E destinate inevitabilmente ad esplodere: vennero così l´"autunno caldo" del 1969 e una "conflittualità permanente" che rese più acuta da noi la crisi degli anni settanta. Una crisi aggravata dallo shock petrolifero del 1973, che accentuò la nostra fragilità e mandò in frantumi la più generale illusione di uno "sviluppo senza limiti".

Negli anni Ottanta rimuovemmo quei nodi e dimenticammo colpevolmente che stavano crescendo ormai "i figli del trilione", come fu detto: si stava avvicinando infatti a cifre stratosferiche il debito pubblico che gli adulti stavano scaricando sulle loro spalle. E che salì dal 60% del Pil nel 1981 al 120% e oltre dei primi anni Novanta. La crisi internazionale mise allora impietosamente a nudo le nostre responsabilità, ruppe il "patto di finzione" su cui era apparentemente prosperata l´Italia craxiana e ci fece giungere in pessime condizioni alla sfida europea. Una sfida che apparve allora quasi impossibile ma che venne affrontata positivamente grazie al duro sforzo di risanamento iniziato dai governi guidati fra il 1992 e il 1994 da Amato prima e da Ciampi poi. Furono aiutati da sofferte scelte sindacali sul costo del lavoro (e dal coraggio di leader come Bruno Trentin), e furono meno condizionati che in passato dai partiti, travolti dalla bufera di Tangentopoli. Un paradosso, a ben vedere, che avrebbe dovuto imporre una riflessione profonda e una rigenerazione radicale della classe dirigente: così non fu, e ad una parte del Paese il "nuovo" parve identificarsi allora con le illusioni del populismo antipolitico e mediatico.

Il severo risanamento fu proseguito invece dal primo governo Prodi, che ci assicurò l´ingresso in Europa. Forse in qualcosa fu troppo debole: ad esempio nel farci comprendere il significato profondo del progetto che giustificava i sacrifici. Nell´aiutarci a dare corpo e soprattutto anima ad un futuro europeo da costruire. Oggi abbiamo di fronte lo stesso nodo, ulteriormente aggravato.

La crisi e la manovra del governo impongono scelte radicali. Ma le élites, per essere credibili, non possono aumentare le disuguaglianze - Le situazioni di pericolo eccezionale dovrebbero produrre leadership che sanno condurre la lotta all´esterno e imporre la pace all´interno - Chi è veramente il nemico? Il nostro debito o chi ci specula sopra? La Bce o la politica che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi?

Il 13 maggio 1940, alla Camera dei Comuni, il nuovo premier e ministro della Difesa, Winston Churchill, presentando il suo governo e accingendosi a «guidare gli affari di Sua Maestà Britannica» nel momento più duro della storia inglese, disse: «non ho da offrirvi che sangue, sudore, fatica e lacrime. La nostra politica è fare la guerra: nostra mèta, la vittoria». La Camera gli diede unanimemente la fiducia, e anche tutta «la nazione fu unita e piena d´entusiasmo come non mai».

Dopo la battaglia di Canne (216 a. C.) anche un altro impero, quello romano, era stato in pericolo mortale; perduti almeno sessantamila soldati, un console morto in battaglia, il nemico più formidabile di Roma, Annibale, libero di agire nel cuore dell´Italia meridionale. Tuttavia, la città non si perse d´animo. Effettuò gli ultimi sacrifici umani della sua storia per placare gli dei, e il popolo si affidò alla dittatura informale del ceto senatorio. La Roma repubblicana non ebbe allora un leader capace di alta retorica come Churchill, ma un abile attico della guerra di logoramento, Quinto Fabio Massimo. Alla fine, però, Cartagine fu vinta, come Berlino.

Lacrime e sangue, dunque – il dolore per la sconfitta, che però non annienta; la ferita aperta, che però non abbatte –, dicono di un caso d´emergenza, di una necessità che rafforza l´animo di chi la deve fronteggiare. E dicono anche che questa condizione eccezionale di pericolo produce l´emergere di una leadership, individuale o collettiva, per condurre la lotta all´esterno, e per imporre, al tempo stesso, la pace sociale e politica all´interno. Come dopo Canne s´interruppe il confronto fra patrizi e plebei, così nell´imminenza della battaglia di Francia Churchill formò un governo di unità nazionale e non accontentò coloro che chiedevano la testa dei politici conservatori che avevano voluto Monaco, nel settembre del 1938: «se il presente cercasse di erigersi a giudice del passato, perderebbe il futuro», rispose il premier.

Non sempre è andata così: la Francia rivoluzionaria, minacciata nel 1792 dal prussiano Brunswick, risponde con la guerra – la battaglia di Valmy –, ma al tempo stesso con le stragi di settembre, cioè con l´uccisione di qualche migliaio di aristocratici prigionieri. In questo caso, la logica amico-nemico che scatta nelle emergenze – serrare i ranghi per resistere all´ora difficile, e per passare al contrattacco – si manifesta anche all´interno, e non solo verso l´esterno. Una rivoluzione, infatti, contro il nemico che sta davanti alle porte trae forza dalla guerra civile contro il nemico che sta dentro le mura; i sacrifici umani con cui Roma aveva cercato di propiziarsi gli dei diventano atti sacrificali della nuova religione rivoluzionaria. Il sangue e le lacrime non sono solo quelle dei cittadini; anche i nemici del popolo piangono e muoiono, mentre l´esercito sanculotto – formato dalla leva in massa – corre alle frontiere.

Ma quando non si va alla ricerca di un capro espiatorio, "lacrime e sangue" indica una situazione di necessità davanti alla quale tutti sono uniti e tutti sono uguali; senza che le differenze sociali e politiche vengano cancellate, sono tuttavia momentaneamente neutralizzate da una mobilitazione corale dei cittadini, chiamati alle armi per salvare la patria. Se è vero che le categorie di giusto e ingiusto spariscono davanti allo stato d´eccezione, in cui vale solo la logica dell´efficacia e dell´inefficacia, è anche vero che senza l´attenuazione dei privilegi, senza la consapevolezza che tutti sopportano gli stessi rischi e sacrifici, anche la risposta all´emergenza viene indebolita. Nei momenti di crisi, l´equità – il far sì che i piatti della bilancia siano pari, livellati, senza che uno penda a terra, gravato da oneri vessatori e l´altro salga al cielo, libero e leggero da ogni gravame – è una delle condizioni dell´efficacia. Si possono richiamare tutti al coraggio e al sacrificio solo se nessuno fa affari con l´emergenza.

Tutto ciò vale anche ai tempi nostri, anche se la guerra è solo economica e se non è neppure ben chiaro chi sia il nemico: esterno o interno? il nostro debito o chi ci specula sopra? Le logiche severissime su cui si fonda l´euro o quelle speculative dei mercati? La Bce con le sue lettere o la Germania con la sua riluttanza a una politica economica europea centralizzata? La crisi finanziaria nata a Wall Street nel 2008 o, in ultima analisi, noi stessi e la politica, da noi voluta, che ha sempre rinviato la soluzione dei problemi?

E vale ancor più nel momento in cui a gestire la cosa pubblica sono chiamati gli esponenti delle ultime élites che il Paese ha a disposizione, le ultime riserve della Repubblica: professori universitari e manager cattolici. Che devono trovare la forza di dare segnali chiari e forti di equità e di lotta ai privilegi; sia perché solo così la manovra può essere condivisa, e quindi sostenibile, sia perché la qualità e la legittimità delle élites – di quelle politiche e di quelle sociali – si rivela proprio quando a esse un Paese si affida, aspettandosi che diano l´esempio. Dopo tutto, non si chiedono sacrifici umani, né guerre civili ideologiche; ma ragionevole uguaglianza nel portare il peso dell´emergenza. Forse le rispettabili lacrime di un ministro equivalgono simbolicamente al gesto d´espiazione delle matrone romane che, dopo Canne, spazzavano i pavimenti dei templi con le loro lunghe chiome sciolte. Ma oggi alle élites si chiedono altri segni, più tangibili, di partecipazione alle lacrime e al sangue di tutti.

Un'intervista con Andrew Ross. Dopo il lungo inverno neoliberale, Occupy Wall Street è solo uno degli episodi di una realtà, quella statunitense, dove la crisi evidenzia l'eclissi del sogno di riscatto incarnato da Barack Obama e le possibilità di una critica al capitalismo contemporaneo

Can't Pay, Won't Pay, Don't Pay. Già in questo slogan - lanciato dalla campagna «Occupy Student Debt» - c'è la potenza di Occupy Wall Street: individua le radici materiali, lo situa dentro la crisi globale, traccia la composizione, fatta di studenti, precari e lavoratori impoveriti che non ne vogliono pagare i costi, indica obiettivi e forme di lotta. È un grido di battaglia contro la finanziarizzazione della vita lanciato da quello che, almeno simbolicamente, è il ventre della bestia. L'equazione politica - la lotta sul salario sta al capitalismo industriale come la lotta sul debito sta al capitalismo cognitivo - che fino a poco tempo fa appariva come un azzardo teorico di una minoranza radicale si sta semplicemente imponendo con la forza di un pregiudizio popolare. Soprattutto, è incarnata in diffuse pratiche di resistenza che della crisi costituiscono la radice soggettiva. Allora, se in soli pochi mesi tanto si è detto e scritto su Occupy Wall Street, è anche per queste ragioni, oltre che per la sua nota lucidità interpretativa ed efficacia di analisi, che rivestono una particolare importanza le valutazioni di Andrew Ross.

Docente della New York University, noto per il suo impegno militante, autore di numerosi saggi che spaziano dai cosiddetti cultural studies- No Respect: Intellectuals and Popular Culture; Strange Weather: Culture, Science, and Technology in the Age of Limits; The Chicago Gangster Theory of Life: Nature's Debt to Society - alle trasformazioni del lavoro nel capitalismo contemporaneo - No-Collar: The Humane Workplace and Its Hidden Costs; Fast Boat to China: Corporate Flight and the Consequences of Free Trade; Nice Work if You Can Get it: Life and Labor in Precarious Times - Ross è infatti tra i promotori della campagna «Occupy Student Debt».

Come è nata Occupy Wall Street, o per meglio dire quali ne sono state le condizioni di possibilità e come sta cambiando il contesto americano?

«Gli eventi politici spontanei sono sempre “possibili”, non è facile prevedere quando e dove avranno presa. Penso che se Occupy fosse stato un anno o sei mesi prima, non sarebbe decollato nello stesso modo. Un fattore da considerare è la tardività degli Stati Uniti: quando, ci siamo chiesti tutti, le mobilitazioni globali si sarebbero diffuse nelle città americane? Un altro fattore è che, con l'occupazione di Wall Street, il disgusto popolare per il processo politico negli Stati Uniti ha raggiunto una massa critica. Ricordo che solo qualche settimana prima che l'occupazione cominciasse, Doug Henwood e Liza Featherstone hanno fatto circolare un invito tra le persone di sinistra di New York per contribuire a un convegno dal titolo «Why Fucking Bother?» («chi cazzo se ne frega?»). Si proponeva di incanalare o mitigare un condiviso senso di disperazione sulla possibilità che qui accadesse qualcosa. Nondimeno, c'è stato un cambiamento a 180 gradi del morale negli ultimi mesi. Io vivo negli Stati Uniti da trent'anni e non ho mai visto qualcosa comparabile alla forza o al senso del destino di cui questo movimento è portatore. Quei trent'anni sono appartenuti a Wall Street, i prossimi trenta possono e devono appartenere a noi se Occupy mantiene la sua energia e creatività. Il mio coinvolgimento nel movimento non è atipico. È cominciato come residente (vivo non distante da Zuccotti Park), poi c'è stata una rapida transizione all'esserne partecipante, nelle prime manifestazioni di massa e nei gruppi di lavoro su «Empowerment and Education», e infine a diventare organizzatore nella nostra campagna «Occupy Student Debt». Come molti altri che conosco, è stato estremamente facile essere attratti nel movimento, che è come ci si dovrebbe sentire in un movimento.»

Occupy Wall Street è stato spesso presentato come evento imprevedibile. Tuttavia, ci sono molte lotte che hanno preceduto e preparato il terreno di questo movimento: per citare solo un paio di esempi, a New York ci sono stati negli ultimi anni gli importanti scioperi dei graduate students e dei lavoratori dei trasporti. Pensi che ci sia un processo di sedimentazione di soggettività e pratiche politiche nella genealogia di questo movimento, oppure prevalgono gli elementi di cesura e completa novità?

«Ci sono molti affluenti che sono sgorgati nel fiume di Occupy. Il movimento per la giustizia globale è il più importante. Sul lato del lavoro, penso che la capacità dei sindacati metropolitani di abbracciare il movimento del lavoro universitario costituisca uno sfondo importante. Per quanto riguarda gli elementi nuovi, certamente la crescente consapevolezza rispetto al sistema del debito è un fattore centrale. Resistere alla servitù del debito ha costituito una forma di vita nei paesi del Sud globale negli ultimi trent'anni. Ora le conseguenze del vivere nella trappola del debito hanno colpito i paesi del Nord».

Qual è la composizione del movimento, e quali sono le sue forme di organizzazione e comunicazione?

«All'inizio la composizione degli occupanti era piuttosto circoscritta: la maggior parte istruiti, bianchi, giovani, molti di loro si sono fatti le ossa nel movimento per la giustizia globale, per altri questa è la prima esperienza politica. Ora, tuttavia, la composizione è molto differente: i sindacati del settore pubblico sono sempre più coinvolti, c'è un insieme pienamente intergenerazionale di soggetti, il gruppo di lavoro su «People of Color» è una presenza importante. Il processo di consenso dell'assemblea generale è il dna organizzativo del movimento, e sta cominciando a penetrare in parti della società civile tradizionale. Per esempio, alcune delle scuole superiori della città hanno rimpiazzato le loro forme di rappresentanza studentesca con le modalità orizzontali dell'assemblea generale. Si è dimostrata essere un modello virale di norme culturali. Poiché ogni gruppo può creare la propria assemblea generale (ce ne sono molte in giro per New York), è una struttura organizzativa che incoraggia e genera autonomia. Così, la natura «faccia a faccia» di questa forma decisionale completa il diffuso utilizzo dei social media volto a disseminare l'informazione. In realtà, direi che il bilanciamento tra gli incontri fisici e l'uso dei social media è un elemento chiave».

Puoi spiegare come è nata la campagna «Occupy Student Debt»?

«Fin dall'inizio il tormento del debito studentesco è stata una costante di Occupy Wall Street e delle occupazioni di altre città. George Caffentzis, Silvia Federici e io abbiamo fatto degli incontri sul debito durante l'occupazione di Zuccotti Park. Abbiamo invitato i partecipanti a formare un gruppo per costruire un'iniziativa di azione che legasse la questione del debito studentesco al sistema dell'istruzione superiore nel suo complesso. L'assunto centrale è che i college e le università americane dipendono in misura crescente dalla schiavitù del debito a cui sono costrette le persone che invece dovrebbero servire. Così abbiamo creato una campagna che richiama i nostri principi politici (l'atto di rifiuto, la minaccia di uno sciopero del debito, la rivendicazione di un giubileo del debito). È progettata per dare ai debitori la possibilità di agire collettivamente piuttosto che soffrire il tormento e l'umiliazione del debito e del default privato. Fondamentalmente la campagna chiede a coloro ai rifiutanti di bloccare il pagamento del prestito quando si sarà raggiunta la quota di un milione di sottoscrizioni, ed è legato a quattro principi: tutte le università private devono essere gratuite, i prestiti studenteschi devono essere sganciati dalle tasse che vanno abolite, le università private devono aprire i loro libri contabili, il debito esistente deve essere cancellato. Si può vedere il sito: www.occupystudentdebtcampaign.org»

La lotta contro il debito è presentata come una pratica di riappropriazione della ricchezza sociale. Da questo punto di vista, potremmo dire che è un movimento costituente. Cosa ne pensi?

«Concordo. La nostra campagna è un'iniziativa di azione e non una lista di domande, poiché condividiamo l'ethos di Occupy Wall Street per cui le domande non possono essere rappresentate dal sistema politico attuale, sotto la funesta influenza dei dollari delle aziende. Le azioni che puntano a riappropriarsi della ricchezza e del potere non sono solo in sé potenzianti, ma anche - come dite - costituenti di un nuovo modello di cultura politica. La maggior parte dei partecipanti si stanno rendendo conto di una trasformazione soggettiva: il linguaggio è spesso di innocenza radicale, un sintomo manifesto del sorgere di una nuova «struttura del sentire», per dirla con le parole del teorico inglese Raymond Williams. Certamente la classe politica tenterà di cooptarne alcuni, e non la vedo come una risposta inattesa: non si può erigere un confine non poroso tra un movimento e l'establishment».

Quali sono i rapporti tra le union sindacali e il movimento?

»I sindacati degli impiegati pubblici non ha solo sostenuto, ma ha anche pienamente partecipato al movimento. La solidarietà mostrata per gli occupanti di Zuccotti Park da parte dei lavoratori del vicino cantiere del World Trade Center è stato particolarmente importante. I dirigenti sindacali e ancor di più i militanti della base hanno espresso in modo molto esplicito il loro rispetto per i successi di Occupy Wall Street nell'accumulare attenzione e generare impatto politico. Si è così creato un gruppo sul lavoro proprio attorno alle questioni del lavoro».

E quali sono i rapporti tra Occupy Wall Street e l'università come luogo di produzione e di conflitto?

«La fase di «Occupy Colleges» del movimento è appena iniziata, ma è il suo naturale prossimo passo. Gli sgomberi di Zuccotti Park coincidono con questi movimenti dentro le università, a New York, in California e altrove. A New York c'è ogni settimana un'assemblea generale degli studenti dell'intera metropoli, continui appuntamenti della People's University alla NYU e alla New School, una serie di iniziative e manifestazione studentesche di massa, incluso anche un giorno di sciopero. Recentemente molta attenzione si è concentrata sulle lotte contro l'aumento delle tasse alla City University of New York (Cuny). Un tempo gratuita (è stata una delle università della classe operaia più grandi del mondo), le tasse sono state per la prima volta imposte agli studenti del Cuny all'alba della crisi fiscale del 1976. Ciò è generalmente visto come il primo colpo che in questo paese il neoliberalismo ha inferto alla formazione pubblica. È un motivo in più per guardare al Cuny, in questo momento altamente simbolico, come spazio per rovesciare la situazione.

«Ora il movimento Occupy Colleges sta costruendo una rete nazionale. Alcuni presidenti di università, in particolare alla New School, si sono mostrati disponibili, altri sono stati gravemente danneggiati dal loro ricorso alla repressione poliziesca contro la libertà di parola. Come per Occupy in generale, ogni volta che la polizia agita i manganelli o sgombera violentemente manifestanti pacifici, ciò rovina il supporto pubblico per le autorità e fa crescere la simpatia per il movimento. Forse è questa, più di ogni altra cosa, la prova dell'impatto di successo del movimento».

“Penso che il Ponte sullo Stretto di Messina possa essere un ulteriore incubatore di sviluppo e di crescita per un’area di importanza strategica per tutto il paese”. A pronunciare queste parole, il 20 ottobre 2009, era Mario Ciaccia, amministratore delegato e direttore generale di BIIS - Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (gruppo Intesa Sanpaolo), neo-vicesuperministro dell’Economia, delle infrastrutture e dei trasporti, accanto al collega Corrado Passera, “ex” consigliere delegato di Intesa Sanpaolo.

L’occasione era di quelle che contano, un convegno promosso a Roma dalla banca di appartenenza su “Federalismo, infrastrutture e turismo per il rilancio del sistema Italia”, relatori - tra gli altri - il presidente del Senato, Renato Schifani, l’allora ministra Michela Brambilla e il presidente della Cassa depositi e prestiti, Franco Bassanini. Felici tutti di poter annunciare la costituzione del fondo d’investimento Marguerite, destinato alle “infrastrutture strategiche europee”, come l’immancabile Ponte che proprio l’Europa sembra non aver mai voluto digerire.

Amore di lunga data quello per il padre di tutte le grandi opere nazionali. Da anni ormai, il viceministro-Ad (Grande ufficiale dell’Ordine al merito della repubblica italiana, presidente di sezione onorario della Corte dei Conti, nonché membro dei comitati direttivi dell’Istituto Affari Internazionali, dell’Associazione Civita e degli Amici dell’Accademia dei Lincei) celebra in ogni sede la sostenibilità del progetto di collegamento stabile nel mitico scenario di Scilla e Cariddi. Da presidente di ARCUS (la società a capitale pubblico che avrebbe dovuto investire il 3% delle risorse della famigerata legge Obiettivo in iniziative culturali e artistiche nei territori investiti dai lavori per le megainfrastrutture), Mario Ciaccia aveva programmato con l’Associazione Civita lo studio di “possibili connessioni e collegamenti per far divenire il Ponte di Messina un’opportunità di sviluppo per il turismo e per i beni culturali della Sicilia e della Calabria”. Furono i ministri Pietro Lunardi (Infrastrutture e trasporti) e Giuliano Urbani (Beni culturali) a presentare pubblicamente, il 4 novembre 2004, gli interventi da finanziare con ARCUS tra Messina e Villa San Giovanni. Un’inesauribile lista dei sogni fatta di musei, parchi archeologici e “percorsi culturali e paesaggistici”, affiancati a centri di accoglienza turisti, parchi commerciali e alberghi, ristoranti e negozi, alcuni dei quali “issati sulle due torri alte 382 metri ai lati della campata” del Ponte. Anfitrione dell’inedito evento pro cultura e pro cemento il presidente Ciaccia. “Il Ponte sullo Stretto costituirà occasione preziosa per un progetto-pilota di bacino culturale che nel tempo avrà effetti durevoli sul contesto sociale, economico e culturale del territorio, una nuova realtà per catturare quel turismo culturale che gli esperti segnalano in grande sviluppo”, proclamò Ciaccia. Poi un avvertimento: “Il Ponte è una grande opera che però comporterà lo sconvolgimento del territorio e bisognerà attutirne l’impatto. Ma con i lavori potranno venire alla luce nuove realtà e sarà un’occasione irripetibile per fare riscoprire quel territorio. Con la possibilità di mettere a sistema una serie di beni culturali tra Calabria e Sicilia…”.

Chiamato da Corrado Passera a dirigere la banca del gruppo Intesa che punta a “favorire il credito destinato alle infrastrutture e alle grandi opere” e a “partecipare a progetti urbanistici di sviluppo e di riqualificazione”, Mario Ciaccia ha promosso l’immagine di BIIS quale insostituibile polmone finanziario dei Signori del Ponte. Divenuta capofila del pool di banche che ha rilasciato la garanzia fideiussoria per la partecipazione alla gara ad Eurolink, il consorzio d’imprese aggiudicatario dell’appalto del Ponte (linee di credito per 350 milioni di euro), il 21 luglio 2009, Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo faceva sapere per bocca del suo amministratore delegato di essere pronta a intervenire direttamente nel finanziamento dei lavori. “Sono stati stanziati 1,3 miliardi e noi siamo pronti a mettere quello che serve e poi eventualmente a sindacarlo”, dichiarava Ciaccia.

“I soldi ci sono e da molto tempo. Il mondo bancario ha bisogno solo di certezze operative che solo la politica può dare”, spiegava Ciaccia, meno di un anno dopo, al convegno pro-Ponte organizzato dall’Ordine degli Ingegneri della provincia di Catania (co-relatori i rettori delle università di Enna, Salvo Andò, e Reggio Calabria, Massimo Giovannini; il direttore generale della Società Stretto di Messina, Giuseppe Fiammenghi; il presidente di Eurolink, Mario Lampiano). Poi in un’intervista a Specchio Economico, l’amministratore di BIIS interveniva a difesa delle grande opera messa in discussione da economisti, politici e organizzazioni sociali: “Al di là delle valutazioni di parte, al Ponte sullo Stretto partecipano grandi costruttori italiani e noi abbiamo il dovere di essere presenti perché le nostre imprese non si sentano sole. Se poi il nuovo Governo bloccasse l’opera, probabilmente vi sarebbero penali da pagare a chi si è aggiudicato l’appalto. Per ora abbiamo rilasciato fidejussioni e linee di credito che, ovviamente, hanno un costo. Come ha un costo il fatto che un’impresa si sia dedicata anche finanziariamente e tecnicamente a un’opera invece che a un’altra”.

Ponte sì dunque e ad ogni costo, ma non solo Ponte. Sotto la direzione del neo-viceministro dell’Economia, delle infrastrutture e dei trasporti, la banca ha finanziato grandi progetti in Italia ed all’estero dal valore complessivo di oltre 30 miliardi di euro. “Abbiamo erogato finanziamenti all’Anas per la realizzazione della terza corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma, per un importo di 390 milioni di euro; e del secondo lotto della Salerno-Reggio Calabria, per oltre 430 milioni di euro”, ha aggiunto Ciaccia su Specchio Economico. “Siamo presenti nel Passante di Mestre con un investimento di 800 milioni di euro e abbiamo favorito la realizzazione di parcheggi in varie città per un importo di 130 milioni. Abbiamo attuato il collocamento e la sottoscrizione di parte dell’emissione obbligazionaria della ex società Infrastrutture Spa per la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Milano-Napoli, per un importo di 320 milioni di euro. Siamo i consulenti per la realizzazione e gestione delle autostrade Brescia-Bergamo-Milano e delle Tangenziali esterne di Milano, rispettivamente per 1,6 e 1,4 miliardi di euro”. Mario Ciaccia non lo dice, ma Intesa Sanpaolo è azionista per il 39% di Autostrade lombarde, soggetto promotore della BreBeMi; inoltre controlla il 5% del capitale di Tem, a cui si aggiunge uno 0,25% di azioni in mano direttamente a BIIS. Inutile tentare di comprendere dove passi la demarcazione tra controllori e controllati specie adesso che in Italia governano i conflitti d’interesse.

Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo è inoltre advisor dell’autostrada regionale Cremona-Mantova (project financing da 430 milioni) e della Pedemontana Veneta, l’autostrada che collegherà le province di Bergamo, Monza, Milano, Como e Varese. BIIS controlla il 6,03% della società di gestione della Pedemontana e contestualmente si occupa dell’arranging del debito, stimato in circa 3 miliardi di euro su un costo complessivo dell’opera di 4,7 miliardi. Nell’agosto 2010, la banca di Ciaccia ha poi concesso un credito di 15,7 milioni ad Invester, la finanziaria dell’imprenditore lombardo Rino Gambari, primo socio privato della Brescia-Padova, ricevendo in pegno le quote di proprietà della società autostradale. Della “Serenissima”, Intesa Sanpaolo detiene già il 6% del capitale attraverso la controllata Equiter.

BIIS è attiva nel settore ferroviario attraverso il controllo diretto di Cofergemi, la società che si occupa della linea ad alta velocità Genova-Milano. Inoltre controlla il 12% di Portocittà, la Spa che intende ristrutturare il porto di Trieste. In Liguria ha intrapreso una partnership con Regione e amministrazione comunale di Genova per lo sviluppo di grandi progetti come il Terzo Valico, la Gronda di Ponente ed il rafforzamento delle infrastrutture portuali locali (oltre 7 miliardi di investimenti). BIIS ha pure sottoscritto crediti per un miliardo di euro a favore delle imprese impegnate nei lavori della nuova Fiera di Milano ed è arranger di alcuni dei più discutibili programmi destinati alla Sicilia, come il “miglioramento dell’adozione idrica” di Siciliacque Spa (investimenti per 564 milioni) e la realizzazione dei termovalorizzatori da parte di un pool d’imprese a guida Falck (1,2 miliardi) e Sicil Power (450 milioni).

Altro importante settore d’intervento della banca di Ciaccia è la cosiddetta “cartolarizzazione dei crediti sanitari”, attraverso l’emissione di obbligazioni costruite sui crediti vantati da aziende del settore nei confronti delle Regioni (in prima fila Abruzzo, Molise, Lazio, Campania e Sicilia). “Sempre nel campo delle cartolarizzazioni, la BIIS ha lanciato il 23 dicembre 2009 una maxi da 1,33 miliardi legata ad un portafoglio costituito da titoli obbligazionari emessi da enti locali italiani, mentre il 24 luglio 2009 ha realizzato l’attesa emissione da 3 miliardi di euro di obbligazioni bancarie garantite da crediti al settore pubblico”, ricorda Gino Sturniolo della Rete No Ponte, autore di un saggio sulle speculazioni del capitale finanziario nostrano. “A ben vedere – aggiunge Sturniolo - si tratta di operazioni che approfittano della carenza di liquidità dell’ente pubblico per sostituirsi ad esso ipotecando il futuro. Cosa accadrà quando i pedaggi autostradali non saranno sufficienti a coprire l’investimento iniziale, i comuni non saranno in grado di far fronte ai debiti, le Regioni a pagare le spese sanitarie?”.

Mario Ciaccia non nutre comunque alcun dubbio sul potere taumaturgico del dirottamento di massicce risorse pubbliche, specie se a favore delle grandi opere consacrate dalla legge Obiettivo. Il 3 febbraio 2010, intervenendo al convegno dell’Istituto latino-americano su “La cooperazione economica pubblico-privato”, l’odierno viceministro l’ha sparata più grossa del Berlusca: “Investendo 50 miliardi di euro l’anno così da coprire un fabbisogno infrastrutturale di 250 miliardi, il minimo per far fronte alla crisi economica ed energetica e riprendere lo sviluppo, si potrebbero ipotizzare nell’arco di un quinquennio circa 3,5 milioni di nuovi posti di lavoro”. Tre volte e mezzo in più degli occupati promessi dal leader massimo del Pdl, ma con dosi massicce di denaro pubblico che richiederebbero in un lustro chissà quante manovre finanziarie lacrime e sangue. La prima dell’era Monti-Passera-Ciaccia è già arrivata. Per le altre si dovrà attendere che passino le feste di Natale.

A Roma l'intellighenzia discute. Tronti: «Se non proviamo a fare qualcosa abbiamo già perso». Bertinotti: «Ormai capitalismo e democrazia sono incompatibili»

La reazione non è stata fulminea, ma ora le opposizioni da sinistra al governo Monti preparano le loro contromanovre. Dentro e fuori il parlamento, fin qui in ordine sparso. Ieri l'Idv alla Camera ha presentato la sua: Massimo Donadi, Augusto Di Stanislao e il senatore Pancho Pardi hanno annunciato il combattimento «fino all'ultimo emendamento perché la manovra cambi». Altrimenti il partito di Di Pietro voterà no. Lotta all'evasione, risparmiare 50 miliardi sulle spese per gli armamenti («a partire dai 18 miliardi che la Difesa ha messo in bilancio per 131 cacciabombardieri F35, che non servono a missioni di pace») e una gara per l'assegnazione delle frequenze tv «anziché darle a Rai e Mediaset gratuitamente». Gli stessi capitoli, più la patrimoniale e lo stop alla falcidia delle pensioni basse, sono alcune delle proposte che il Prc ha presentato al congresso di Napoli, lo scorso week end. Anche i verdi i preparano la mobilitazione contro le spese militari: «Pronti alla disobbedienza civile», dice Angelo Bonelli: «Perché l'Italia non fa come la Germania che ha tagliato la spesa militare di 10 miliardi?». Sulla gara per le frequenze si muove invece la sinistra Pd.

Oggi tocca a Sel. A Roma Nichi Vendola presenta la sua contromanovra: «O si dice patrimoniale e si interviene sui grandi patrimoni mobiliari e immobiliari, oppure è difficile credere che un pensionato a 900 euro al mese debba anche sobbarcarsi il costo della manovra. Per me è inaccettabile». La critica è a Monti, ma perché anche il Pd intenda. Ieri sono già volati stracci fra Bersani e Di Pietro. Il leader Idv ha alzato il tono contro chi voterà la manovra e quello del Pd lo ha invitato a non «scantonare» altrimenti «ci saranno problemi ad andare d'accordo». Tradotto: giù i decibel altrimenti saltano le future alleanze. Ma la rottura dei patti «prematrimoniali» del Nuovo Ulivo è ormai a un passo. E anche Massimiliano Smeriglio, responsabile economico di Sel, molto duro sulla manovra, dice: «Chi siede in parlamento trovi la determinazione per cambiare una manovra sbagliata, ingiusta e recessiva. Chi voterà la manovra Monti oggi difficilmente potrà costruire l'alternativa domani».

Parole impegnative, sintomo di un possibile rimescolamento di carte nella sinistra. Una sinistra che, nel frattempo, discute sulle proprie prospettive. E infatti ieri a Roma si è ritrovata in un dibattito sull'Europa che aveva un'intera sessione intitolata «Governi di sinistra o sinistre al governo». Padroni di casa tre pensatoi dell'alternativa, Altramente, Cercare ancora e Fondazione Rosa Luxemburg. Parterre ad alta densità di economisti, intellettuali e attivisti di movimenti. Il dibattito dura tutto il giorno, vola alto, ma per forza di cose precipita su cosa deve inventarsi la sinistra (questa) per fermare il governo dei tecnocrati Bce. «Monti è espressione di un golpe bianco iniziato nelle manovre estive di Berlusconi fino al compimento di questi giorni», attacca l'ex presidente della Camera Fausto Bertinotti. Il cuore del ragionamento riprende le tesi del suo ultimo saggio sull'«opportunità della rivolta»: «Il capitalismo finanziario europeizzato è tendenzialmente incompatibile con le forme della democrazia, che anzi vuole demolire». In estrema sintesi, la sinistra non è se non combatte il capitalismo. Quindi quella che abbiamo conosciuto fin qui sinistra non è più, «è morta». L'unica possibilità di resuscitarla sta nell'apertura di una «fase costituente dei movimenti».

«Prima di dichiarare morta una politica ho bisogno di averne un'altra», replica il professor Mario Tronti, filosofo e presidente del Centro riforma dello Stato. «Oggi si aprono grandi giochi della politica. Bisogna giocarli, non starne fuori è essenziale per non dare per scontata l'uscita a destra dalla crisi». «Fuori dal campo non si portano a casa risultati», insiste Pierre Carniti, segretario della Cisl fra gli anni 70 e 80. «La differenza tra stare dentro o fuori al recinto è la lotta contro la politica del debito», dice Roberto Musacchio ex europarlamentare Prc e oggi di Altramente, che propone un «audit popolare sul debito» per ricostruire la cronistoria e le responsabilità dell'indebitamento italiano. In effetti «è una strana opposizione quella che abbiamo oggi, un'opposizione che collabora con i governi che hanno portato l'Italia nel baratro», conclude Alfonso Gianni di Sel, «e invece serve un'opposizione di qualità che si ponga il tema del governo, non in termini di potere ma come poter cambiare la società. Ma per farlo da sinistra, piuttosto che allontanare le forze politiche dai movimenti, serve movimentare le forze politiche e politicizzare i movimenti».

Quattro o cinque caffè a testa per mantenere il grande "tesoro" dei nostri 24 Parchi nazionali e (in totale) delle nostre 871 Aree protette. Attraverso il ministero dell’Ambiente, lo Stato italiano spende la miseria di circa 70 milioni di euro all’anno, per finanziare questo straordinario deposito di biodiversità: cioè di boschi, fauna e paesaggio. A cui si aggiungono altri 180 milioni delle Regioni per i parchi e le aree regionali. Un giacimento naturale che, in termini di benefici economici e sociali, arriva a rendere fino a 6-7 volte un investimento così modesto.

A vent’anni dall’approvazione della legge-quadro sui Parchi, la n. 394 del 6 dicembre 1991, l’occasione è stata propizia per fare un consuntivo e un bilancio di previsione per il futuro prossimo venturo. In un convegno organizzato a Roma dalla Federparchi, si sono confrontati parlamentari, ambientalisti, dirigenti locali. E se il giudizio sulla "394" è risultato generalmente positivo, come hanno riconosciuto gli ex ministri dell’Ambiente Edo Ronchi e Valdo Spini, non sono mancati però motivi di riflessione e di ripensamento per adeguare la legge alle nuove esigenze imposte dalla crisi economica e da quella climatica.

In bilico tra conservazione e sviluppo, il complesso dei Parchi e delle Aree protette copre il 10% del territorio nazionale: complessivamente una superficie di oltre tre milioni di ettari a terra e di 2,8 milioni a mare, comprendendo 658 chilometri di costa protetta. A dispetto dello "spread" che incombe sui nostri titoli pubblici, questo sistema è riconosciuto come uno dei più organizzati e strutturati d’Europa. Assicura l’occupazione diretta a poco più di diecimila dipendenti e alimenta altri novantamila posti nell’indotto (turismo, agricoltura e commercio), attirando circa 37 milioni di visitatori ogni anno con un numero di presenze alberghiere che sfiora i cento milioni e un giro d’affari complessivo che supera un miliardo di euro.

Dalle montagne al mare, dunque, un’imponente "infrastruttura naturale" che custodisce la biodiversità, salvaguarda l’assetto del territorio, preserva il paesaggio. Ma che oggi è chiamata anche a contrastare il cambiamento climatico e le sue disastrose conseguenze, come un polmone verde nel corpo vitale del Paese. E perciò, a vent’anni di distanza, si ritrova a fare i conti con le incognite e le incertezze di uno scenario in rapida evoluzione.

È confortante che dal dibattito sulla "394" sia emersa la conferma di una "trasversalità politica" - sottolineata dallo stesso presidente della Commissione Territorio e Ambiente del Senato, Antonio D’Alì (Pdl) - che ha preceduto la fase di tregua istituzionale introdotta dal governo Monti. C’è al fondo la consapevolezza comune che - come ha detto Giampiero Sammuri, presidente della Federparchi - "questo patrimonio naturale non è né di destra né di sinistra". Si può ben sperare, perciò, che il confronto parlamentare in corso possa migliorare ulteriormente la legge nella prospettiva di un "federalismo ambientale" che dev’essere necessariamente declinato regione per regione, in modo da promuovere il territorio nell’ottica di una strategia nazionale.

Sono soprattutto due le questioni all’ordine del giorno, richiamate da Francesco Ferrante, senatore del Pd: la "governance" e le risorse. Da una parte, si tratta di allargare sempre più il governo dei Parchi agli enti e alle associazioni locali, per coinvolgerli più direttamente nella gestione. Dall’altra, ferma restando la necessità del finanziamento statale per garantire la funzione istituzionale di questo sistema, si discute su nuove forme di contribuzione privata in rapporto alle opportunità di valorizzazione economica: dalla bioagricoltura alla "green economy".

Con un recente sondaggio Ispo alla mano, il presidente del Wwf Italia, Stefano Leoni, ha avvertito che il 60% degli intervistati attribuisce ai Parchi la funzione fondamentale di "conservazione della natura", contro un 20% che parla invece di "educazione ambientale" e un altro 20% che si disperde in risposte diverse. Ma prima il presidente della Lipu (Lega protezione degli uccelli), Fulvio Mamone Capria, ha respinto l’ipotesi dell’area protetta come "riserva indiana". Poi è stato Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente, a ricordare realisticamente che - a differenza della scuola - "i Parchi producono anche beni e merci, contribuendo ad alimentare l’identità territoriale".

Non c’è dubbio, comunque, che - di fronte alla crisi globale e in funzione della crescita - anche il "tesoro verde" d’Italia può svolgere un ruolo di volano economico, senza venir meno alla sua missione a tutela della biodiversità. La conservazione ambientale non deve corrispondere, però, a un atteggiamento di conservazione culturale né tantomeno politica.

«Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni ‘60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come di recente affermato da Wolfang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione».

Esplicitato dal finalista Pulitzer Adam Haslett sulle pagine del Corriere della Sera, il tarlo di questo pensiero inizia a diffondersi. Poggia i suoi passi sul terreno culturale offerto da economisti eterodossi, da storici e pensatori di ogni estrazione, senza però ancora riuscire ad approdare nelle sale dove si muovono le leve politiche del comando (o quel che di loro è rimasto).

Immersi nell'emergenza del momento, è così difficile anche solo riemergere per un attimo dal mare in tempesta della crisi, per prendere una boccata d'ossigeno e guadagnarsi una prospettiva che indichi dove si trova la linea della costa. L'unica strada percorribile sembra dunque quella di lasciare che il tessuto della democrazia venga strappato dal potere della finanza e dall'ossessione egoista della crescita, rimpiazzando la dignità dei cittadini con il marchio di consumatore/debitore affidabile o meno.

Il potere politico e, di riflesso, quello dei cittadini di disporre della propria sorte, si trova piegato nella condizione di una nuova servitù della gleba, velata dal miraggio della libertà. Non ci troviamo (ancora, e per fortuna) in una condizione di schiavitù, ma anche il rango di libero cittadino, a ben pensarci, è fuori dalla nostra portata.

Come i servi della gleba, per nascita ci troviamo a vivere nella condizione di consumatore/debitore; come tali, costretti a determinate corvées verso un complesso di comportamenti sociali uniformanti, pena l'essere etichettati come "consumatori difettosi" e quindi esclusi. Come servi della gleba, non siamo in grado di lasciare questo terreno culturale al quale siamo legati, costretti a lavorare, produrre e consumare per un sistema capitalistico ormai incentrato sul dominio della finanza e sull'allargarsi continuo delle disuguaglianze (come ci ricorda l'appena pubblicato rapporto Ocse).

Se il merito iniziale ed indiscutibile del sistema produttivo capitalista è stato - pur sempre al prezzo della disuguaglianza economica e sociale - quello di tirar fuori dall'indigenza miliardi di persone, verso un livello di benessere prima sognato da re e regine, la sua parabola è ora segnata solamente dalla permanenza e dall'ampliamento delle disuguaglianze preesistenti, verso l'implosione del sistema: torna alla mente il mito di Erisittone, punito dagli dei con una fame inestinguibile che lo porta a divorare se stesso.

La fine del mercato è comunque ben lontana. Di sistemi concretamente praticabili, l'orizzonte della storia non offre esempi da seguire (almeno, non all'interno di quei valori che l'Occidente si vanta di voler esportare nel resto del mondo). Piuttosto, sembra auspicabile fermarne la deriva, riprendendo e migliorando la strada socialdemocratica che l'Europa aveva iniziato a tracciare, ma della quale cerca di cancellarne le impronte, sopraffatta dall'ebrezza dell'unica, grande crisi del capitalismo che ci segue da anni.

Seguendo il volo d'uccello illustrato da Adam Haslett, vediamo la recessione dei primi anni '70, seguita da inflazione e disoccupazione. Proseguendo sulla linea temporale, gli anni '80 presentano l'ascesa incontrollata del debito pubblico, seguita dalla svolta tatcheriana, dal retrocedere dello stato sociale, dalle privatizzazioni dogmatiche e dalla deregolamentazione del settore finanziario che, impennandosi negli anni '90, ha raggiunto il suo acme con lo scoppio delle cosiddette bolle che, a partire dal 2008, ci hanno precipitato prima nella crisi bancaria e finanziaria - tamponata con risorse pubbliche che hanno fatto nuovamente esplodere i deficit statali, ora sotto accusa dallo stesso sistema finanziario.

Questa guerra di grafici e numeri, come piovuta dal cielo su cittadini ignari (che di spread, Pil, bond, per ignoranza o disinteresse, neanche avevano mai sentito parlare), trascina con se economia reale e legittimità democratica. Il momento richiede forse sacrifici per non innestare direttamente la marcia indietro sulle conquiste politiche del dopoguerra, come l'integrazione europea. Al prezzo, però, di perdere quelle economiche e sociali conquistate nello stesso arco di tempo? Camminiamo sul filo del paradosso.

Concessioni, per rimanere a galla in un momento di imbarazzo e cecità di governace come quello che stiamo vivendo, sono momentaneamente pensabili, e stanno soffertamente avvenendo. Il livello di guardia e di elaborazione culturale, come corrispettivo, deve alzarsi ancora di più: quel che più manca è un'elaborazione condivisa di un nuovo percorso da seguire, un percorso di sviluppo che non sia solo crescita.

Mentre l'agenzia di rating S&P decide di mettere nuovamente sotto la propria lente l'Europa, con 15 stati che rischiano un declassamento del proprio rating (stavolta non solo l'Italia, ma anche la Francia e la Germania), il presidente della Repubblica Napolitano ha emanato il decreto legge recante "disposizioni urgenti per la crescita, l'equità ed il consolidamento dei conti pubblici", primo parto del governo Monti: è chiaro che tale decreto rientri esclusivamente, ed amaramente, nell'ambito delle "concessioni momentanee" sopra ricordate. Niente ha da spartire con la definizione di una nuova linea di sviluppo sostenibile.

La strada da immaginare e percorrere è dunque ancora lunga. Passa per la partitura di un percorso sostenibile nel senso più pieno ed ampio del termine (economico, sociale ed ecologico), nel pieno rispetto dell'ecosistema che ci nutre, e che abbiamo il dovere morale di curare per le nuove generazioni. Altrimenti, i servi della gleba del XXI secolo saranno gli schiavi del secolo successivo.

Postilla

Riesce davvero difficile immaginare che possa portare lontano una strada che non superi tre caratteristiche del sistema capitalistico: 1) la riduzione d’ogni bene a merce, ivi compreso il lavoro dell’uomo; 2) la finalizzazione del processo economico .(produzione+consumo) al massimo guadagno dei possessori dei mezzi di produzione; 3) la riduzione d’ogni dimensione dell’uomo e della sua attività a strumento questa economia. Il percorso può anche essere (ahimè, sarà) lungo, ma bisogna aver chiaro quali ne sono l’obiettivo e la direzione.

Nel prepararci ad affrontare il quarto anno di crisi finanziaria globale, appare sempre più chiaro che il patto economico e politico che sta alla base della nostra società postbellica è ormai in pieno disfacimento. Non è più il caso di interrogarsi su quando le nostre società torneranno alla normalità, perché ciò non avverrà. Né dovremmo chiederci quando finirà la crisi, perché è destinata a prolungarsi forse per decenni. Ed è una crisi che cambierà la vita della stragrande maggioranza della popolazione più radicalmente di quanto non abbia fatto la fine della Guerra fredda o l'11 settembre.

Per due decenni e mezzo dopo la Seconda guerra mondiale, l'Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni 60, questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck, amministratore delegato dell'Istituto Max Planck per gli studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l'inflazione. Dovendo fronteggiare la recessione dei primi anni 70, i governi hanno preferito stampare denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la disoccupazione. Ma entro la fine del decennio l'inflazione aveva strangolato i nuovi investimenti, facendo aumentare la disoccupazione.

Nei primi anni 80, ancora una volta davanti allo spettro della recessione, i governi hanno fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando il deficit dello Stato per rilanciare i consumi, Usa e Gran Bretagna in particolare hanno ingaggiato un braccio di ferro con i sindacati nel tentativo di ostacolare le loro richieste di aumenti salariali.

Però, già nei primi anni 90, debito pubblico e difficoltà di bilancio avevano cominciato a innervosire i mercati finanziari. Nel tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre il deficit, sia Washington che Londra hanno liberalizzato in maniera decisiva il settore finanziario. Lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato un'infinità di nuovi strumenti di gestione del debito privato, i governi hanno distolto lo sguardo dagli Stati sovrani, preferendo chiedere prestiti da aziende e individui in grado di finanziare i loro consumi (e speculazioni), finendo per indebitare le future generazioni.

Ne sono venute fuori due bolle degli asset, la prima nel settore informatico e la seconda nel mercato immobiliare americano, provocando il crollo di Lehman Brothers nel 2008 e dando avvio all'attuale crisi. Pertanto, se consideriamo il contesto storico, è lecito affermare che ciò che è in fase di sviluppo non può definirsi semplicemente una contrazione particolarmente grave del ciclo economico ordinario, destinata a esaurirsi. No, oggi assistiamo all'accelerazione di una crisi endemica delle economie occidentali che va aggravandosi da un quarantennio, man mano che si è tentato di ripetere i successi economici, considerati «normali», di quello che era in realtà un periodo storico anomalo, ovvero gli anni del dopoguerra. Inoltre, nel corso degli ultimi due decenni, l'industria finanziaria, sgravata da ogni vincolo, si è conquistata un potere politico talmente grande da bloccare qualsiasi riforma delle sue operazioni, in particolare su scala globale, dove sono indispensabili, imponendo la pratica della distribuzione verso l'alto dei profitti raccolti.

Negli Usa, stagnazione economica e ripartizione sempre più oligarchica della ricchezza hanno innescato proteste popolari su una scala che non si vedeva dagli anni 60. Nel frattempo in Europa l'euro rischia di sparire e l'intero progetto postbellico di integrazione potrebbe da un momento all'altro inserire la marcia indietro, molto più in fretta di quanto si possa immaginare. I governi tecnici insediati in Grecia e Italia sono probabilmente condannati al fallimento perché le misure varate non sono legittimate dal suffragio popolare. Negli Usa, l'egemonia del mercato si fa sentire attraverso i contributi illimitati che il mondo finanziario e industriale può offrire alla campagna elettorale, e tramite le pressioni esercitate sul Congresso si rivela capace di aggirare e vanificare le scelte popolari a favore di una più equa ridistribuzione della ricchezza.

Sia al di qua che al di là dell'Atlantico, le esigenze delle élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare, apertamente ignorata. Se dovessero radicarsi, tali tendenze potrebbero sfociare in un assetto politico non più riconoscibile come democrazia, dando vita a un sistema capitalistico, sì, ma non democratico. È assai poco rincuorante constatare che l'attuale crisi non rappresenta che un semplice ingranaggio nell'evoluzione storica complessiva del capitalismo occidentale, che continua a ridistribuire la ricchezza verso l'alto, a indebolire le istituzioni democratiche e a concentrare il potere nelle mani di pochi individui. È questa forza trascinante che continuerà a influenzare la nostra vita nei prossimi decenni, non le vicende altalenanti delle odierne difficoltà economiche. E se per il momento non è possibile imbrigliare questa forza, non ci resta che sforzarci di comprenderla con maggior chiarezza.

(traduzione di Rita Baldassarre)

Tendiamo a dimenticare che in tutti i monoteismi, il cuore non è la sede di passioni o sentimenti sconnessi dalla ragione. Nelle tre Scritture, compresa la musulmana, il cuore è l´organo dove alloggiano la mente, la conoscenza, il distinguo. Se il cuore di una persona trema, se quello del buon Samaritano addirittura si spacca alla vista del dolore altrui, vuol dire che alla radice delle emozioni forti, vere, c´è un sapere tecnico del mondo. Per questo il pianto del ministro Fornero, domenica quando Monti ha presentato alla stampa la manovra, ha qualcosa che scuote nel profondo. Perché dietro le lacrime e il non riuscire più a sillabare, c´è una persona che sa quello di cui parla: in pochi attimi, abbiamo visto come il tecnico abbia più cuore (sempre in senso biblico) di tanti politici che oggi faticano a rinnovarsi. Pascal avrebbe detto probabilmente: il ministro non ha solo lo spirito geometrico, che analizza scientificamente, ma anche lo spirito di finezza, che valuta le conseguenze esistenziali di calcoli razionalmente esatti. Balbettavano anche i profeti, per esprit de finesse.

È significativo che il ministro si sia bloccato, domenica, su una precisa parola: sacrificio. La diciamo spesso, la pronunciano tanti politici, quasi non accorgendosi che il vocabolo non ha nulla di anodino ma è colmo di gravità, possiede una forza atavica e terribile, è il fondamento stesso delle civiltà: l´atto sacrificale può esser sanguinoso, nei miti o nelle tragedie greche, oppure quando la comunità s´incivilisce è il piccolo sacrificio di sé cui ciascuno consente per ottenere una convivenza solidale tra diversi. Non saper proferire il verbo senza che il cuore ti si spacchi è come una rinascita, dopo un persistente disordine dei vocabolari. È come se il verbo si riprendesse lo spazio che era suo. Nella quarta sura del Corano è un peccato, «alterare le parole dai loro luoghi». Credo che l´incessante alterazione di concetti come sacrificio, riforma, bene comune, etica pubblica, abbia impedito al ministro del Lavoro – un segno dei tempi, quasi – di compitare una locuzione sistematicamente banalizzata, ridivenuta d´un colpo pietra incandescente. Riformare le pensioni e colpire privilegi travestiti da diritti è giusto, ma fa soffrire pur sempre. Di qui forse la paralisi momentanea del verbo: al solo balenare della sacra parola, risorge la dimensione mitica del sacrificio, il terrore di vittimizzare qualcuno, la tragedia di dover – per salvare la pòlis – sgozzare il capro espiatorio, l´innocente.

Medicare le parole presuppone che si dica la verità ai cittadini, e anche questo sembra la missione che Monti dà a sé e ai partiti. Riportare nel loro luogo le parole significa molto più che usare correttamente i dizionari: significa rimettere al centro concetti come il tempo lungo, il bene comune, il patto fra generazioni. Significa, non per ultimo: rendere evidente il doppio spazio – nazionale, europeo – che è oggi nostra cosmo-poli e più vasta res publica. Il presidente del Consiglio lo sa e con cura schiva il lessico localistico, pigro, in cui la politica s´è accomodata come in poltrona. Stupefacente è stato quando ha detto, il 17 novembre al Senato: «Se dovete fare una scelta – mi permetto di rivolgermi a tutti – ascoltate! non applaudite!».

L´applauso, il peana ipnotico (meno male che Silvio c´è), le grida da linciaggio: da decenni ci inondavano. Era la lingua delle tv commerciali, del mondo liscio che esse pubblicizzavano, confondendo réclame e realtà: illudendo la povera gente, rassicurando la fortunata o ricca. Erano grida di linciaggio perché anch´esse hanno come dispositivo centrale il sacrificio: ma sacrificio tribale, che esige il capro espiatorio su cui vien trasferita la colpa della collettività. Erano capri gli immigrati, i fuggitivi che giungevano o morivano sui barconi. E anche, se si va più in profondità: erano i malati terminali che reclamano una morte senza interferenze dello Stato e di lobby religiose. La nostra scena pubblica è stata dominata, per decenni, dalla logica del sacrificio: solo che esso non coinvolgeva tutti, proprio perché nel lessico del potere svaniva l´idea di un bene disponibile per diversi interessi, credenze. Solo contava il diritto del più forte, che soppiantava la forza del diritto.

Ascoltare quello che effettivamente vien detto e fatto non ci apparteneva più. Anche il ministro Giarda si è presentato domenica come medico delle parole: «Son qui solo per correggere errori». Non ha esitato a correggere i colleghi, e ha avuto l´umiltà di dire: «Se avessimo più tempo, certo la nostra manovra sarebbe migliore». Monti ha fatto capire che questa, «anche se siamo tecnici», è però politica piena: «L´esperienza è nuova per il sistema politico italiano. A noi piace esser cavie da questo punto di vista». Singolare frase, in un Paese dove a far da cavie sono di solito i cittadini. Ma frase coerente alla politica alta: dotata di una veduta lunga, indifferente alla popolarità breve.

Pensare i sacrifici non è semplice, perché gli italiani e gli europei da tempo si sacrificano, e tuttavia constatano disuguaglianze scandalose. Perché sacrificandosi deprimono oltre l´economia. Lo stesso Sarkozy, che campeggiò come Presidente che poteva abbassare le tasse ai ricchi visto che le cose andavano così bene, è oggi costretto ad ammettere che i francesi «stringono la cinghia da trent´anni». Quel che è mancato, nel sacrificio cui i popoli hanno già consentito, è l´equità, l´abolizione della miseria, delle disuguaglianze. Forse – l´emozione dei potenti resta misteriosa – Elsa Fornero ha pianto perché le misure sono dure per chi ha pensioni grame. Se solo le pensioni sotto 936 euro saranno indicizzate all´inflazione, tante pensioni basse rattrappiranno come pelle di zigrino.

Si poteva fare diversamente forse, e non tutte le misure sono ardite. La lotta all´evasione fiscale iniziata dall´ultimo governo Prodi ricomincia, ma più blanda. La cruciale tracciabilità introdotta da Vincenzo Visco (1000 euro come soglia, da far scendere in due anni a 100) è fissata durevolmente a 1000. Oltre tale cifra è vietato accettare pagamenti in contanti, che sfuggono al fisco: una draconiana stretta anti-evasione è evitata. Né si può dire che tutto sia equo, e la crescita veramente garantita.

Il fatto è che si parla di decreto salva-Italia, ma si manca di chiarire come il decreto sia anche salva-Europa. Non è un´omissione irrilevante, perché il doppio compito spiega certe durezze del piano. Speriamo sia superata. Ogni azione italiana, infatti, è urgentissimo accompagnarla simultaneamente ad azioni in Europa: per smuovere anche lì incrostazioni, privilegi, dogmi. Per dire che non si fa prima «ordine in casa» e poi l´Europa, come nella dottrina tedesca, ma che le due cose o le fai insieme, con un nuovo Trattato europeo più solidale e democratico, o ambedue naufragheranno.

Erano esattamente le 22,48 quando Roberto Benigni ha fatto irruzione cantando, un po’ stonato, «La porti un bacione a Firenze», nell’ultima puntata di «Il più grande spettacolo dopo il weekend», Raiuno: era attesissimo, ma Fiorello tergiversava. Anche troppo. Alla fine, non è stato uno dei migliori interventi del comico toscano. La stessa gag «parlo di Berlusconi o no, Mazza vuole che ne parli, mi ha detto “daje”» sembrava una reale incertezza. Forse davvero Benigni era tentato, saggiamente, di non parlare più dell’ex premier, ma poi, trascinato da una sorta di «voluptas», lo ha fatto. Alternando sfottò a Berlusconi, e complimenti al conduttore. Ammiccando al pubblico: «Non c’è più». E, rivolgendosi a Rosario: «Sei il più grande show man d’Italia. Sei rimasto l’unico. A meno che non voglia dare le dimissioni anche tu…». «Da quando è cominciato questo programma, non mi sono mai perso il Grande Fratello. Mi è piaciuta l’idea di quando parli con i capi di Stato stranieri. L’ho già sentita, un comico che parla con i capi di Stato…». «Le più belle dimissioni degli ultimi 150 anni». «I tagli? Alla Roma l’altro giorno giocavano tre in meno. Questa crisi è terrificante. Ci sono i momenti belli e i momenti brutti. Anche in televisione. Ora c’è Fiorello, dopo c’è Vespa. Che ieri ha parlato di te, e stasera c’è Monti. Monti, è il suo destino, viene sempre dopo un comico. Non siamo mica nel Medioevo, non c’è gente, nei parlamenti, con avvisi di garanzia, un sacco di privilegi, scorte, cavalli blu, che fanno le orge. Un mese fa, prima che Berlusconi si dimettesse, l’Italia aveva due grandissimi problemi: ora è rimasto solo il debito pubblico. Si può dire quello che si vuole, ma quanto ci siamo divertiti noi con Berlusconi! Quando Monti dice: ce la faremo, sappiamo che si riferisce alla situazione dell’Italia. Di questi, nessuno ruba. Monti non ruba, è già ricco di suo. Anche Berlusconi era ricco di nostro. Bossi e la secessione, l’idea fissa di tutta la vita, ci è affezionato. Ho sentito un leghista dire che la Padania esiste perché esiste il grana padano. Quando Berlusconi ha dato le dimissioni, mi sono chiesto: perché? Lui fa rimettere a posto tutto, poi nel 2013 si ripresenta. Adesso non ne parla più nessuno, di lui, ma io ti sarò sempre fedele, come l’Arma dei Carabinieri, ti saremo sempre al fianco, uno a destra, uno a sinistra. Lui ha lasciato l’Italia mezza morta: ritorna, vedrete che ritorna, non gli piace fare le cose a metà. Tutta la storia si potrebbe raccontare come una favola. Lui aveva tante principesse, tutte sul pisello. C’erano anche tante nipoti, ma una era nipote del gatto con gli stivali, e c’era un’orca tedesca, culona, culetta».

Poi fanno, i due, l’Inno del corpo sciolto (anche Fiorello dice le parolacce, Checco insegna). Benigni ricorda Pertini, la pace, la guerra, la solidarietà e l’onestà, grazie, prego, sipario. Dopo Benigni c’è stato Pippo Baudo, e prima c’erano già stati Jovanotti e Roberto Bolle, che aveva sollevato il Rosario come un fuscello. Già era stato lodato il profilattico, il «salvalavitapischelli», alla faccia di Raiuno e del Vaticano, Monti già gratificato della canzoncina «alla fiera del premier per due soldi un pochettino le tasse aumentò». Già era stato, il presidente del Consiglio, criticato alla fiorelliana maniera per la scelta di andare da Vespa: «Non ci doveva andare, l’ha già fatto qualcun altro e fece il contratto agli italiani. Ora lei che farà? Il testamento?». Prima di Benigni, già era stata presa in giro Elsa Fornero per le sue lacrime: «Mi ha commosso il ministro Fornero. Mi ha fatto pensare al coccodrillo, ma la nobiltà d’animo della signora rimane». E ancora: «Ci hanno sempre aspettato. Quando lui si dimise, il giorno dopo arrivai io. E adesso, qual è la frase che di più si dice? Lacrime e sangue, allegria!». Arrivederci, Fiorello.

Su 11 settori già «liberati» con norme apposite, soltanto due (farmaci e telefonia) offrono servizi più a buon mercato. Tutti gli altri hanno registrato aumenti importanti, a volte vertiginosi La Cgia di Mestre ha messo a confronto tariffe ed inflazione; l'ideologia «liberale» ne esce a pezzi.

Saremo anche governati da «tecnici», ora, ma quanto a ideologia - sia loro che i supporters - non sembrano secondi a nessuno. Prendiamo un punto fermo di questa ideologia della governance: le «liberalizzazioni» sbloccano un mercato ingessato, migliorano la qualità dei servizi, abbattono i prezzi perché la concorrenza ha proprio questo effetti «livellanti» come sottoprodotto della «competizione». Senza tanti «lacci e lacciuoli» - recita l'antico mantra - il capitalismo dà il meglio di se stesso, con benefici per tutti.

Ma è vero? A naso, da malfidati di professione, crediamo di no. Ma noi - si sa - siamo «ideologici» per convenzione culturale diffusa. Perciò preferiamo oggi dar conto dei dati pubblicati ieri dalla Cgia di Mestre (confederazione generale degli artigiani veneti, insomma; niente a che fare col marxismo-leninismo). E non è una bella musica per i liberalizzatori a oltranza. Il Centro studi ha preso di petto ben 11 settori già «liberalizzati» in epoche diverse (se qualcuno ricorda le «lenzuolate» del Bersani ministro dell'industria), mettendo a confronto le tariffe attuali con quelle d'allora; e ovviamente con la corsa dell'inflazione.

Ne viene fuori che soltanto per i prodotti farmaceutici (-10,9%) e i servizi telefonici (-15,7) c'è stato il sospirato effetto «competitivo», ovvero la compressione dei costi per l'utente finale. Tanto più significativo se messo a confronto con l'inflazione nel frattempo maturata: +43,3% nel primo caso, +32.5 nel secondo. Un bel guadagno, non c'è che dire; quasi uno spot gratuito per l'ideologia liberalizzatrice. Peccato che occorra ricordare come sia stata l'Europa, a più riprese, a «mazzolare» i gestori di telefonia che facevano i furbi, fino a costringerli ad abbassare le tariffe. volenti o no.

Ma gli altri 9 settori? Esattamente l'opposto (a parte l'energia elettrica, in cui aumento tariffario risulta minore della dinamica inflattiva, grazie anche al pesante crollo del presso del petrolio dopo la «grande crisi finanziaria» innescata dal fallimento dio Lehmann Brothers).

Passi per i servizi postali, rimasti al palo, ovvero sostanzialmente pari all'inflazione (+30%, grosso modo). Ma già i trasporti urbani - là dove questa «modernizzazione» è stata già introdotta, nel 2009 - fanno registrare un aumento quasi doppio rispetto all'inflazione in soli due anni. Idem per il gas (dal 2003), che ha visto i costi doppiare l'inflazione pur potendo contare su prezzi energetici del tutto identici a quella della - calante - energia elettrica.

Siamo però buoni fino in fondo. Possiamo perfino capire che i trasporti aerei - liberalizzati da scervellati, al punto di facilitare il fallimento di Alitalia - siano aumentati di 1,4 volte, per cause tra il noto (il prezzo dei carburanti) e il misterioso (a quanto ammonta il contributo dei consorzi pubblico-privato che sostengono la presenza delle compagnie low cost?). Ma come hanno fatto i costi dei trasporti ferroviari a crescere del 53% (inflazione a + 27), se non imputandoli a una precisa scelta commerciale di quello che - ancora per qualche giorno, ma limitatamente all'alta velocità tra Roma e Milano - è di fatto un monopolista pubblico che si atteggia a privato di lusso?

E ancora: anche i pedaggi autostradali sono aumentati del 50%» dal '99, a fronte di un'inflazione del 30%. Anche qui l'ideologo confindustriale o il «tecnico europeo» potrebbero obiettare che - in effetti - è impossibile fare concorrenza su un tratto autostradale. Vero. Perché sono state «liberalizzate», allora? Solo per fare un regalo a Benetton, Toto e Gavio? Probabile...

Ma certamente era possibile farsi una concorrenza spietata nei servizi finanziari o bancari (aperti anche a società straniere, ormai) e per quanto riguarda la Rc Auto. Ognuno di noi puà cambiare banca o assicurazione in qualsiasi momento. Eppure proprio qui di registrano gli aumenti più vertiginosi. In banca (o per i fondi comuni) paghiamo oggi 2,5 volte più dell'inflazione (ovvero il 50% in più). Per l'assicurazione auto è quasi inutile che vi riveliamo noi i dati: sapete già da soli che sono quasi raddoppiate dal 1994, crescendo 4,2 volte più dell'inflazione.

Detto fra noi: probabile che le «regole» scritte sui manuali di macroeconomia abbiano un rapporto assai labile con la realtà empirica. In altre parole: che siano solo ideologia. Utile per fare profitti, ma fuffa.

L´euro può essere salvato? Non molto tempo fa si diceva che la crisi poteva portare, nel peggiore dei casi, al default della Grecia. Ora si profila l´evenienza di un disastro di proporzioni assai maggiori. È vero che la pressione sui mercati si è un po´ allentata mercoledì. si è allentata dopo il sensazionale annuncio dell´estensione delle linee di credito da parte delle banche centrali. Ma persino gli ottimisti ormai considerano l´Europa avviata alla recessione, mentre i pessimisti lanciano l´allarme sull´eventualità che l´euro diventi l´epicentro di una nuova crisi globale. Come mai siamo arrivati fin qui? La risposta più comune è che l´origine della crisi dell´euro va individuata nell´irresponsabilità fiscale. In tv è un gran vociare di esperti: in assenza di tagli alla spesa pubblica l´America finirà come la Grecia. Ma è vero quasi l´opposto. Benché i leader europei identifichino il problema nella spesa pubblica troppo alta dei Paesi debitori, la realtà è che in Europa la spesa è troppo bassa. E imporre una maggiore austerità è stata una mossa negativa, che ha peggiorato la situazione.

Riassumendo. Negli anni precedenti alla crisi del 2008 in Europa, come in America, il sistema bancario era fuori controllo e il debito galoppava. In Europa però, gran parte dei prestiti erano transfrontalieri, i fondi tedeschi finivano al sud. L´operazione veniva considerata a basso rischio. I destinatari in fondo facevano tutti parte dell´area dell´euro, che cosa mai poteva succedere? In massima parte, detto per inciso, i prestiti non erano diretti ai governi, ma al settore privato. Solo la Grecia ai tempi d´oro presentava gravi deficit di bilancio statale. La Spagna, alla vigilia della crisi, vantava addirittura un surplus.

Poi la bolla scoppiò. La spesa privata nei Paesi debitori crollò. I leader europei avrebbero dovuto riflettere su come impedire che questi tagli alla spesa provocassero una recessione in tutta Europa. Invece risposero all´inevitabile conseguente crescita del deficit imponendo a tutti i governi – non solo a quelli dei Paesi debitori – di tagliare la spesa pubblica e aumentare l´imposizione fiscale. Non tennero conto dei moniti di chi pronosticava un aggravarsi della depressione. «La tesi secondo cui le misure di austerità potrebbero innescare un processo di stagnazione non è corretta», dichiarò Jean-Claude Trichet, all´epoca presidente della Bce. Il motivo? Perché «da politiche che stimolano la fiducia verrà un impulso, non un ostacolo alla ripresa economica».

Ma questa magica fiducia non si è materializzata. E c´è di più. Negli anni del denaro facile, i salari e i prezzi in Europa meridionale sono cresciuti assai più velocemente rispetto al nord Europa. Ora bisogna ridurre il divario calando i prezzi al sud o, in alternativa, alzandoli al nord. E la scelta è importante: se l´Europa meridionale è costretta a ridurre la propria competitività pagherà un caro prezzo in termini di occupazione, e vedrà aumentare il debito. Si avrebbero possibilità di successo maggiori se il divario venisse ridotto aumentando i prezzi a nord.

Ma per far questo i policymaker dovrebbero accettare temporaneamente un aumento dell´inflazione nell´intera eurozona, mentre hanno già ribadito di non averne alcuna intenzione. Ad aprile, la Bce ha iniziato ad aumentare i tassi di interesse, pur essendo palese a gran parte degli osservatori che l´inflazione, semmai, era troppo bassa. Non è stata una coincidenza che proprio ad aprile la crisi dell´euro sia entrata in una nuova, terribile fase. Lasciamo stare la Grecia. Come economia, confronto all´Europa, è paragonabile all´area di Miami rispetto agli Stati Uniti. A questo punto i mercati hanno perso la fiducia nell´euro in generale, portando i tassi di interesse a salire anche in Paesi come l´Austria e la Finlandia, non certo noti per la loro sregolatezza. L´appello all´austerità generale associato al morboso terrore dell´inflazione da parte della banca centrale fanno sì che ai Paesi indebitati sia impossibile sfuggire alla trappola del debito. Questa accoppiata è quindi garanzia di default sul debito, corsa al ritiro dei depositi bancari e crollo finanziario generale. Mi auguro, sia per il bene dell´America che dell´Europa, che gli europei invertano la rotta prima che sia troppo tardi. Ma, in tutta sincerità, non credo che lo faranno. È molto più probabile che noi li seguiamo sulla strada della rovina.

Perché negli Usa , come in Europa, l´economia è trascinata nel baratro dai debitori morosi, nel caso americano soprattutto proprietari di casa. E anche in questo caso c´è assoluto bisogno di politiche fiscali e monetarie espansionistiche a sostegno dell´economia, mentre i debitori lottano per rimettersi finanziariamente in salute. Ma, da noi come in Europa, il dibattito pubblico è dominato dalle ramanzine sul deficit e dall´ossessione dell´inflazione. La prossima volta che vi diranno e che in assenza di tagli alla spesa l´America farà la fine della Grecia, rispondete pure che tagliando la spesa in corso di depressione economica faremo la fine dell´Europa.

Traduzione di Emilia Benghi

«Sono misure recessive che favoriranno la caduta della domanda e non affrontano, invece, la questione centrale della crescita e dell’occupazione». Luciano Gallino, sociologo del lavoro e autore di numerosi saggi sull’economia italiana e l’apparato industriale (ultimo libro profetico Finanzcapitalismo per Einaudi) critica come poco equa la manovra che il governo sta per varare. Anzi, su una questione centrale come quella previdenziale, si chiede perché si «intervenga con questa fretta e in questo modo». La riforma delle pensioni è comunque il capitolo più ambizioso. «Per come è stata presentata sembra esclusivamente un modo per recuperare soldi». Cominciamo dal limite dei quarant’anni di contributi. «Non è una parola magica, ma per molte categorie quel limite non può essere superato. Tra l’altro l’uscita dal lavoro in Italia è già in linea con i Paesi europei più avanzati. Il problema è un altro. E riguarda il bilancio dell’Inps». A cosa si riferisce? «Non si vede la ragione per intervenire con tanta fretta se si guarda all’ultimo bilancio dell’Istituto che vanta un attivo di 10 miliardi nella previdenza. Il passivo pesante è quello determinato dalle varie casse autonome che sono, quelle sì, un pesante onere per lo Stato. Inoltre l’Inps è gravato da numerosi interventi assistenziali non previdenziali. Senza quelli sarebbe in pareggio».

Come giudica l’ipotizzato aumento dell’Irpef sui redditi più alti? «I cittadini di Paesi come Usa, Francia o Germania, quando sono chiamati a fare sacrifici per sanare crisi, pur non create da loro, non si sottraggono. Ma, in Italia, questo ha il sapore amaro della beffa. Siamo infatti il Paese dove il 18% del Pil sfugge al fisco, in pratica si tratta di 120 miliardi evasi. E’ dunque vagamente offensivo chiedere sempre a coloro che hanno sempre dato. Molti di costoro, è vero, non soffriranno troppo dall’aumento dell’Irpef ma si tratta sempre di un accanirsi su chi paga regolarmente». Non c’è la Patrimoniale ma la tassa sul lusso per bilanciare l’Irpef. «Un contentino per dire che anche i ricchi sono colpiti. Per carità, va bene, ma sarebbe servita una patrimoniale sulle grandi fortune». Monti ha subito il veto di Berlusconi? «Berlusconi ha ancora un potere di veto alla Camera. E’ paradossale che uno dei più ricchi in Europa metta il veto sulla Patrimoniale»

In Italia ritornerà l’Ici: una tassa odiosa? «Fu un errore sopprimere quella imposta, un errore pagato dai cittadini che hanno avuto un netto peggioramento dei servizi pubblici comunali. Una sorta di Ici esiste in tutti i Paesi sviluppati, come imposta locale sulle case e anche imposta federale. Ripristinarla è per certi aspetti utile e aiuta i Comuni che sono ora costretti a tagli gravosi».

Complessivamente come giudica la manovra da 25 miliardi? «Priva di equità con molti dubbi sulla sua efficacia reale. Si tratta di un insieme di misure depressive che favoriranno la caduta dei consumi. Così non può affrontare il vero problema che è il lavoro. Anche alle aziende non credo basterà un’Irap più leggera».

La missione impossibile del salvataggio dell'euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l'austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l'abbuffata neoliberale e sull'antidoto del comune

Economista, docente alla Scuola universitaria della Svizzera italiana e, in passato, a Padova, New York e Ginevra, militante e intellettuale di riferimento dei movimenti della sinistra radicale, Christian Marazzi è uno degli analisti più lucidi della crisi economico-finanziaria in corso. Fra i primi a diagnosticarne il carattere storico e l'impatto globale, già nel 2009, quando la crisi impazzava negli Usa, aveva previsto l'inevitabile coinvolgimento dell'eurozona. Fine analista della finanziarizzazione come modus operandi del biocapitalismo postfordista, non crede nella possibilità di uscire dalla crisi o di contenerne le contraddizioni attraverso le politiche del rigore. Partiamo dal salvataggio dell'euro per ragionare di quello che ci attende.

L'andamento della crisi ha dato ragione alle tue analisi. Nel giro di due anni l'epicentro si è spostato dagli Stati uniti all'Europa, e nel giro di poche settimane siamo passati dal rischio di default di alcuni paesi, Italia compresa, al rischio del crollo dell'intera eurozona, che equivale al crollo dell'Unione per come è stata fin qui (malamente) realizzata. Secondo te come può evolvere la situazione?

«Gli indizi della cronaca sono eloquenti. In Europa cresce l'astio nei confronti della Germania e della rigidità di Angela Merkel, che non dà segni di cedimento sulle due proposte che ormai tutti considerano indispensabili per evitare il cataclisma di Eurolandia: la monetizzazione dei debiti sovrani da parte della Bce, e l'emissione di eurobond per ridurre il peso dei tassi d'interesse sui buoni del tesoro dei paesi più esposti alla speculazione dei mercati finanziari».

Anche tu le consideri indispensabili?

«Sono due misure condivisibili, ma purtroppo fuori tempo massimo: la crisi ha subito nelle ultime settimane una tale accelerazione da renderle inapplicabili. La trasformazione della Bce in una vera banca centrale sul tipo della Federal Reserve - che possa fungere da prestatore di ultima istanza per acquistare i buoni del tesoro dei paesi-membri indebitati, strappando ai mercati il potere di decidere come e quando intervenire - è un'idea sacrosanta, ma ormai irrealizzabile a fronte della fuga di capitali dall'eurozona che è già in corso, come dimostrano l'andamento dell'ultima asta di bond tedeschi e le 1500 tonnellate di oro che pare siano entrate in Svizzera ultimamente. Arrivati a questo punto, la monetizzazione dei debiti da parte della Bce non farebbe che alimentare questa fuga e accelerare il collasso dell'euro: non a caso, almeno fino a oggi, anche Draghi si oppone a questa soluzione. Lo stesso vale per l'istituzione degli eurobond, obbligazioni emesse e garantite dall'insieme dei paesi-membri per "mutualizzare" o socializzare i vari debiti sovrani: anche questa è una misura sensata, ma non ha alcuna possibilità di essere attuata, perché i paesi forti, come la Francia, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria e la Germania si vedrebbero aumentare i tassi d'interesse in un periodo in cui le imprese stanno già subendo aumenti proibitivi del costo del denaro per il rarefarsi della liquidità in circolazione. In ogni caso, anche se al vertice di giovedì a Bruxelles si trovasse un accordo parziale, i vincoli d'austerità imposti ai paesi indebitati sarebbero tali da vanificare qualsiasi salvataggio dell'euro. E' solo questione di tempo».

Dunque in prospettiva tu vedi un tracollo?

«Il fatto è che la crisi della moneta unica costruita secondo i precetti monetaristi e neo-liberali è arrivata alla stretta finale. E a me pare del tutto verosimile che la rigidità di Merkel sia una mossa tattica per rendere inevitabile l'uscita della Germania dall'euro e il ritorno al marco. Circola già la data, fra Natale e l'Epifania, mentre tutti saremo in altre faccende affaccendati; come l'inconvertibilità del dollaro, che fu decisa a Ferragosto. E circolano già, qua in Svizzera, leggende metropolitane su due stamperie che starebbero sfornando marchi».

Se davvero andasse così, che tipo di scenario si aprirebbe?

«Nascerebbe una zona monetaria forte, con dentro la Germania, l'Olanda, la Finlandia, l'Austria, con agganciati il franco svizzero e la corona svedese. L'euro, fortemente svalutato e con l'effetto inflazionistico conseguente, resterebbe la moneta dei paesi deboli, che in compenso avrebbero la possibilità di ridurre il loro debito. L'incognita di questa ipotesi è la Francia. Per i paesi più tartassati dai mercati, sul piano economico non sarebbe un cataclisma. Ma il vero cataclisma sarebbe geopolitico. Di fatto, questa spaccatura monetaria darebbe il via a un processo di de-europeizzazione, con un asse fra la Germania, la Cina, la Russia e il Brasile, e un altro fra la Francia e gli Stati uniti. Non è uno scenario fantascientifico, le grandi agenzie finanziarie internazionali ci stanno già lavorando. Quello che nessuno dice però è che può essere l'inizio di una nuova guerra fredda, con la Cina, la Russia e la Turchia coordinate per schermare l'Iran dalle minacce israeliane. E' inquietante che di questo non si parli: il rischio Iran è esplosivo. Ed è inquietante pure che ormai si parli solo della crisi europea, rimuovendo la situazione degli Stati uniti, dove nel frattempo la crisi dei subprime continua, i poveri sono diventati 46 milioni, la disoccupazione è al 15%, Obama non riesce a battere chiodo e per la sua rielezione può sperare solo nella litigiosità dei Repubblicani.

Ci sono differenze, e quali, fra l'andamento della crisi negli Usa e in Europa?

Sul piano economico nessuna: l'Europa dei debiti sovrani è l'equivalente del mercato statunitense dei subprime, solo che al posto dei singoli individui indebitati ci sono gli stati indebitati. Ma una differenza c'è, a tutto svantaggio dell'Europa, ed è politica, anzi istituzionale e costituzionale: in Europa non c'è Costituzione, e non c'è una banca centrale. C'è la Bce che delega la monetizzazione dei debiti ai mercati, emettendo liquidità su richiesta di quelle stesse banche che hanno contribuito a creare debito pubblico e ora ci speculano sopra».

In questo quadro macroregionale e globale, che ruolo e che senso hanno le politiche nazionali del rigore? In Italia sono state create molte aspettative sul passaggio del governo da Berlusconi a Monti e alla sua squadra di "tecnici", come se ne dipendesse non solo un recupero di credibilità, ma anche un effettivo potere di intervento sulle dinamiche dei mercati. Ma quanta efficacia possono avere i cosiddetti sacrifici sulla crisi del debito sovrano, e relative speculazioni?

«Non è così che si esce dalla crisi, e infatti non ne usciremo: l'orizzonte dei prossimi anni è la recessione. Le politiche di austerità hanno un effetto deflazionistico di compressione della domanda interna, né a questo si può sperare di supplire con le esportazioni. Ma le politiche di austerità sono le uniche contemplate dalla dottrina neo-liberale, che in Europa e in tutto l'Occidente è tutt'ora imperante ed è dura a morire. Dunque restano e resteranno in piedi all'insegna dell'emergenza, o, per usare il termine di Naomi Klein, della shock economy, perché consentono di fare quello che in una situazione normale non si può fare: compressione dei salari, riduzione dell'impiego pubblico, depotenziamento dei sindacati; la famosa macelleria sociale. E' la logica della governance della crisi: una regolazione tecnica e tecnocratica dei rapporti sociali nello stato d'emergenza. Ha detto bene il vicepremier cinese in un'intervista al Financial Times: quello che ci aspetta è un nuovo Medio Evo finanziario e sociale».

Con quali caratteristiche politiche, e antropologico-politiche?Tu non parli mai solo di economia...

«Alcuni processi sono ormai evidenti. Il primo è la precarizzazione della Costituzione. Il secondo - l'hai scritto pure tu a proposito del ''passaggio Monti'' - è l'azzeramento dell'autonomia del politico sotto lo stato d'eccezione. Il terzo è il passaggio dal Welfare State al Debtfare State: uno Stato in cui il sociale si rappresenta, e viene rappresentato, nella forma del debito, e si disciplina, e viene disciplinato, nel segno del debito. Anzi, del debito e della colpa, secondo il doppio significato della parola tedesca schuld: tema nietzschiano, che oggi torna al centro del bel libro di Maurizio Lazzarato, La fabrique de l'homme endetté. Il debito come dispositivo antropologico di autodisciplinamento dell'uomo neo-liberale».

E' chiarissimo da quello che sta accadendo in Italia, dove in un attimo siamo passati dall'etica del godimento del ventennio berlusconiano all'etica penitenziale del governo Monti. Ma quanto pensi che possa reggere, questo dispositivo? Il soggetto neo-liberale descritto da Foucault, l'imprenditore di se stesso che si nutriva di consumo indebitandosi, ora può nutrirsi del senso di colpa per i debiti contratti? Si tratta di uno sviluppo o di una crisi dell'etica neo-liberale?

«Per ora, io ci vedo un inveramento: il neo-liberalismo si invera nella sua essenza di fabbrica dell'uomo indebitato. L'imprenditore di se stesso produce il suo debito che ora lo disciplina attraverso un dispositivo di colpevolizzazione. Del resto, qui c'è anche un inveramento, o uno svelamento, dell'essenza del denaro: il denaro è debito, la finanziarizzazione del capitale ci ha trasformati tutti in soggetti debitori, e il valore viene prodotto in negativo, da una macchina depressiva».

Però c'è chi si indigna, non ci sta, si ribella. Per fortuna. Che pensi degli Indignados e di OWS?

«Per restare nella scia di Foucault, lui degli Indignados avrebbe detto che si tratta di un movimento parresiastico: un movimento di persone che dicono la verità. Denunciare l'ipocrisia dei mercati, svelare che i debiti sono tutti "odiosi", illegittimi, frutto di rendita e di espropri, e dichiarare che questa crisi l'hanno prodotta le banche e non possiamo pagarla noi, significa affermare la verità del punto di vista del popolo su quella dei mercati. E poi, il movimento di Madrid ha funzionato come uno spazio di democrazia assoluta, come una grande assemblea costituente del comune basata sullo stare insieme nello spazio pubblico: una sorta di ribaltamento dell'etica della paura hobbesiana, in cui mi pare molto visibile l'impronta femminile delle pratica delle relazioni e di un'economia della cura che diventa ecologia politica. La crescita del movimento su scala europea è l'unico antidoto al processo di de-europeizzazione che dicevamo all'inizio. Ma la spinta costituente deve darsi anche delle forme di autodeterminazione locale concreta. Per spezzare il dispositivo cardinale del post-fordismo, lo sfruttamento di saperi, conoscenza e relazioni, non c'è altro modo che ribaltarlo in produzione del comune, tanto più ora che le politiche di austerità comporteranno la privatizzazione ulteriore, la vendita e la svendita dei beni comuni, dall'acqua al patrimonio culturale; ma produrre il comune significa organizzarsi a livello locale, attrezzarsi a gestire nei quartieri l'acqua, l'elettricità, i mezzi di trasporto, le banche stesse».

Loretta Napoleoni, che incontri oggi alla Libreria delle donne di Milano, in un libro di due anni fa sosteneva che la funzione sociale delle banche vive ormai solo nella finanza islamica, e che è da lì che dovremmo riscoprirla: la finanza islamica non specula.

«E' vero, nel senso che dobbiamo reintrodurre la solidarietà al livello giusto, all'altezza delle contraddizioni prodotte dalla crisi. E la ri-socializzazione del debito e della funzione originaria delle banche è una strada per piegare a nostro vantaggio la finanziarizzazione del capitale, lottando sul suo terreno».

Ma la finanziarizzazione si può interrompere, o invertire? Tu ci hai spiegato molto bene che l'economia finanziaria non è più separabile dall'economia reale e si basa sul coinvolgimento attivo di comportamenti e forme di vita della gente comune: il consumatore che usa la carta di credito per fare la spesa, il salariato alle prese con i fondi pensione, i ceti medi strozzati dai mutui per la casa, i poveri che si indebitano fornendo come unica garanzia la loro 'nuda vita'. Se è così, è possibile de-finanziarizzare, almeno in parte, il sistema, o si tratta solo di bonificarlo dai soprusi delle banche? E se produzione e consumo sono così intrecciati al debito, è possibile evitare un esito recessivo e depressivo della crisi?

«La de-finanziarizzazione la sta approntando il capitalismo stesso nella forma recessiva della riduzione del debito di cui abbiamo parlato poco fa, che deprime la domanda e i consumi, e della disciplina della colpa, che deprime le esistenze. Noi dobbiamo lavorare invece per riconvertire la rendita privata in rendita sociale: per la socializzazione del debito, per il rilancio per questa via della domanda e dei consumi di beni socialmente utili, per la riappropriazione dello spazio pubblico, per la ricostruzione di socialità e di felicità collettiva. Il comune è questo e non c'è altro modo per uscire dalla spirale autolesionista della finanziarizzazione. Alcune parole d'ordine delle lotte di questi anni, dal reddito minimo garantito alla Tobin tax, vanno già in questa direzione».

E della parola d'ordine del diritto all'insolvenza che cosa pensi? Nei movimenti viene presentata come un diritto di resistenza alla finanziarizzazione della vita, molti economisti la ritengono una mossa demagogica, altri ci vedono una possibilità di ripristino della sovranità nazionale cancellata dalla tecnocrazia europea.

«Penso che sia giusta se diventa una pratica soggettiva e contestuale, non se viene lasciata in mano agli Stati. Ti faccio un esempio: negli Stati uniti sta maturando da tempo una bolla delle borse di studio, che equivale più o meno alla metà del volume dei mutui subprime: in quel caso il diritto all'insolvenza va senz'altro esercitato dagli studenti e dalle loro famiglie per distinguere il debito illegittimo da quello legittimo. Ma non lo affiderei agli Stati, né alla loro velleità di ritrovare per questa via la sovranità nazionale perduta».

Il rapporto del Censis è attraversato dall’urgenza di invertire la rotta. Di ritrovare quella responsabilità collettiva che è stata decisiva nei momenti più difficili della nostra storia: unico modo per porre fine al "disastro antropologico" degli ultimi anni, a un deterioramento della nostra immagine internazionale che abbiamo vissuto «con dolore e con vergogna». Occorre insomma, ribadisce il Censis, ritornare a "desiderare”, contrastare al tempo stesso il declino e la cultura del declino. Il rapporto evoca anche l’attacco speculativo di questi mesi, che ha visto in noi l’anello debole. E sottolinea la nostra incapacità di governare i processi reali, accresciuta dalla verticalizzazione e dalla personalizzazione del potere ma anche da una più generale povertà della politica. Una politica in crisi radicale di credibilità: solo un italiano su quattro dichiara di aver fiducia nel parlamento o nel governo, ed è fortissima una disattesa richiesta di onestà. Si è aperto in questo modo – prosegue il Censis – un vuoto enorme: quasi che la società possa sopravvivere e crescere "relegando milioni di persone ad essere una moltitudine (egoista) affidata a un mercato turbolento e sregolato", con la supervisione di vertici finanziari ristretti e non trasparenti.

Su diversi terreni occorre dunque agire per contrastare un diffuso sentimento di stanchezza collettiva. Occorre riconquistare il valore della rappresentanza, la capacità di governo e quei caratteri fondativi – quel nostro "scheletro contadino" – che hanno sin qui resistito, anche se appannati dalle "bolle di vacuità" della nostra modernizzazione: flessibilità e capacità dinamica; l’orizzonte come apertura oltre che come realistico limite; il primato dell’economia reale e della lunga durata contro il prevalere dei poteri finanziari e l’illusione che possano disegnare sviluppo. Quegli elementi, cioè, che ci hanno permesso in passato di diventare protagonisti anche sulla scena europea e mondiale.

Nelle scorse settimane, ricorda il rapporto, altri si sono mossi sul piano politico e istituzionale. Ora spetta a noi "guardarci dentro con severità", prendere atto che la nostra società si è rivelata fragile, indifesa, in parte eterodiretta. E analizzare alcune debolezze di fondo: ad es. le contraddizioni di un processo di ampliamento dei ceti medi che è stato elemento importante di crescita ma non ha creato identità collettiva. Di qui, al suo incepparsi, un impaurito ripiegamento individuale che si intreccia al rancore di strati sociali che si riscoprono marginali. Non vanno sottovalutati, sottolinea il Censis, i segnali positivi che pur vengono da alcuni settori dell’economia o da una attitudine internazionale dei nostri Atenei superiore a quel che si pensi, ma vanno guardati con attenzione gli aspetti più inquietanti.

Ad esempio il disincanto di un mondo giovanile duramente colpito dalla disoccupazione, dall’incertezza, dall’esclusione. Un mondo in cui si consolida l’area – segnalata già l’anno scorso, e molto più ampia che in Europa – di coloro che non studiano, non hanno lavoro e non lo cercano, piegati dalla rassegnazione. E in cui si diffonde molto più che fra gli adulti, innaturale e doloroso rovesciamento, la disponibilità anche ai compromessi pur di affermarsi. Senza ripartire da qui, senza innescare qui nuovi meccanismi di speranza e di fiducia, appare davvero difficile invertire la tendenza del Paese.

Roma- Frane e smottamenti possono dipendere anche dall’assenza di agricoltura. E infatti l’abbandono del territorio da parte di chi lo coltiva, accelera e agevola il degradamento dei versanti e delle reti idriche. Il settore primario ricopre sempre di più il ruolo di tutela del territorio, eppure la superficie agricola diminuisce. Negli ultimi dieci anni la superficie agricola si è ridotta dell’11,7 per cento, quella utilizzata (Sau) è diminuita del 2,3 per cento, le aziende agricole hanno registrato un decremento del 32,2 per cento. Andando indietro nel tempo, si rileva che negli ultimi 50 anni le superfici destinate al settore primario si sono ridotte del 30 per cento e le aziende quasi del 63 per cento. “Dinamiche conseguenti lo sviluppo socio-economico che pongono problemi di gestione territoriale da non sottovalutare”, spiega Simone Vieri, professore della facoltà di economia all’università La Sapienza di Roma nel corso del convegno presso la sede della Commissione europea a Roma “L’agricoltura e la difesa del suolo: una funzione strategica di interesse collettivo”.

La proposta Ue per tutelare il territorio gira intorno a due punti chiave: “l’individuazione delle aree a rischio e l’elaborazione e messa in opera di programmi con una scala temporale e erogazione dei fondi da utilizzare”, spiega Luca Marmo, della Dg Agricoltura della Commissione europea. “Ci vuole il tempo di una generazione per poter arrivare a questo censimento”, precisa. Al momento, prosegue Marmo, “la condizionalità riguarda i pagamenti disaccoppiati e le pratiche di buona gestione agricola”. “Il 12 per cento delle somme disponibili per la bonifica dei terreni di tutta Europa è stato utilizzato, ma c’è ancora spazio per migliorare la situazione”. La tabella di marcia stabilita da Bruxelles per un Europa più efficiente per quanto riguarda le risorse, indica il fatto “che si debbano usare le risorse naturali con maggiore efficienza, e non solo quelle minerali, ma anche la terra e il suolo. Ponendosi l’obiettivo di ridurre a zero le superfici atrofizzate entro il 2050”.“Da considerare anche – prosegue ancora Vieri – che il 44,5 per cento degli agricoltori italiani risulta avere un’età superiore ai 65 anni. Elemento che testimonia il difficile ricambio generazionale e che pone le premesse per ancora più significativi abbandoni nel prossimo futuro”. Una situazione che si presenta particolarmente grave in considerazione delle peculiarità del territorio italiano “che è classificato come rurale per il 92 per cento e ha zone svantaggiate per il 39,5 per cento, aree collinari per il 41,6 per cento e montane per il 76,8 per cento” insiste. Oltre alle zone sottoposte a tutela ambientale. Quindi frane e inondazioni testimoniano “la fragilità” del terreno italiano. “Nel periodo 1960-2010 – spiega Vieri snocciolando dati – questi fenomeni hanno provocato 4.122 morti, 84 dispersi e 2.836 feriti. E secondo il Cnr non sono da porre in relazione ai cambiamenti climatici di cui tanto si parla”. Secondo Vieri infatti “è più probabile che la relazione sia tra gli eventi calamitosi e una decrescente capacità di regimazione delle acque da parte del suolo. Che a sua volta si riconduce alla diminuita presenza delle attività agricole sul territorio”.

Motivo per cui la Commissione europea ha evidenziato – nella Roadmap to a resource efficient Europe – come il tema dell’uso sostenibile del suolo dovrà rappresentare uno degli obiettivi prioritari per le politiche agricole e ambientali del prossimo futuro. Appena pochi giorni fa però Massimo Gargano, il presidente dell’Anbi – l’associazione che riunisce l’intero sistema di rete delle bonifiche italiane a tutela del territorio – faceva notare al VELINO che proprio il Greening della Pac, la misura “verde” con cui Bruxelles mira a tutelare il territorio, “mette a rischio di frane e smottamenti” a causa dell’abbandono della terra da parte degli agricoltori. Abbandono che secondo il ministro delle Politiche agricole Mario Catania è inevitabile se la proposta Ue non dovesse essere cambiata: “Questo Greening incita gli agricoltori ad abbandonare la produzione”, aveva dichiarato.

Secondo Alberto Manelli, direttore dell’Inea, l’Istituto nazionale di economia agraria, la politica agricola può evidentemente rivestire un ruolo significativo nella gestione agronomica dei suoli, nella conservazione e manutenzione degli elementi non coltivati del paesaggio – esattamente ciò che il Greening propone con le aree destinate a utilizzazione ecologica (ndr) – e nella corretta gestione agronomica del reticolo idraulico. “La Pac – spiega – ricopre un ruolo che le politiche ambientali lasciano scoperto. L’applicazione di nuove misure nell’ambito della riforma, come le proposte per la diffusione di pratiche agronomiche più rispettose della risorsa del suolo, con ogni probabilità condizionerà in modo ancora più significativo il sostegno pubblico al rispetto delle norme ambientali”. Secondo il presidente di Copagri Franco Verrascina "il Greening proposto da Ciolos è una misura che guarda solo alla politica del Nord Europa e quella anglosassone senza tenere conto - spiega al VELINO - al greening che invece in tutti questi anni è stato svolto in Italia e nei paesi mediterranei. E che ha tutelato il territorio". Per Verrascina un esempio su tuti: "la misura verde di Bruxelles eslude l'olivo che da migliaia di anni è il garante dell'ambiente e del suolo".

Ma se la superficie agricola diminuisce, quella forestale aumenta. “Dall’ultimo dopoguerra la superficie forestale italiana è andata gradualmente estendendosi grazie alla ricolonizzazione naturale di terre marginali abbandonate dall’agricoltura”, spiega Angelo Mariano del Corpo forestale dello Stato. Negli ultimi 30 anni il patrimonio boschivo è aumentato del 30 per cento con un ritmo medio di 80mila ettari l’anno. E coprono circa il 36 per cento del territorio nazionale. “E il vincolo idrogeologico riguarda il 90 per cento del totale”, insiste Mariano. Che spiega che nonostante “la copertura forestale favorisca la stabilità dei versanti contenendo fenomeni di erosione e di dissesto, il ruolo delle risorse forestali in materia di protezione diretta del territorio e della biosfera non è ancora unanimemente riconosciuta dalla comunità scientifica”. Parla di suolo come “corpo vivente” Fiorenzo Fumanti, dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale: “Il suolo è essenziale per l’esistenza delle specie viventi ed esplica una serie di funzioni che lo pongono al centro degli equilibri ambientali”, spiega. La progressiva marginalizzazione di molte aree collinari e montane e l’abbandono delle opere di regimazione “sono tra i principali fattori che hanno accelerato la trasformazione del suolo da ‘risorsa’ a ‘minaccia’”.

Il nuovo vice ministro dello Sviluppo Economico con delega per le Infrastrutture, Mario Ciaccia, si potrebbe definire l'uomo giusto al posto giusto. Dalla poltrona di governo sarà chiamato a gestire operazioni da lui progettate e lanciate come numero uno della Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (Biis), la controllata di Intesa Sanpaolo che ha guidato fino a due giorni fa. La Biis svolge un ruolo delicatissimo di intermediazione tra aziende private e denaro pubblico. Come spiega il sito internet, “Biis è dedicata al servizio di tutti gli attori, pubblici e privati, che collaborano alla realizzazione di grandi infrastrutture e servizi di pubblica utilità”. La banca, inoltre, propone “una gestione integrata di tutta la filiera dell'interazione fra pubblico e privato, attraverso un'offerta completa di servizi finanziari tradizionali e innovativi che spazia dal commercial all'investment banking”. Dietro il gergo una semplice realtà. La Biis ha in portafoglio finanziamenti per 41 miliardi di euro, 33 dei quali sono prestiti fatti alla pubblica amministrazione e alle cosiddette “public utilities”. Solo la Regione Lazio è stata finanziata per oltre 2,5 miliardi. Idem il Ministero della Difesa, che con i soldi di Biis si è comprato i nuovi caccia e le fregate di Fincantieri. In sostanza, ogni 100 euro di debito pubblico, 2 sono prestiti fatti da Ciaccia, che adesso siede nel governo che quei debiti deve pagare.

Inoltre la Biis sta partecipando con 3 miliardi di euro al finanziamento delle grandi infrastrutture, con prestiti che i realizzatori, attraverso il cosiddetto “project financing”, dovrebbero ripagare allo Stato con i profitti realizzati nella gestione delle opere. Ciaccia è il regista di alcune tra le maggiori operazioni. Come vice ministro potrà garantirne la speditezza. In realtà, se le infrastrutture non si rivelassero redditizie, come accade di regola, sarà lo Stato a pagare. Cioè Ciaccia. L’orizzonte del suo lavoro è sempre stato ampio: “Vie di comunicazione via terra e via acqua, servizi alla sanità, riqualificazione urbana, energia”. Una dichiarazione rilasciata quando ancora lavorava per Biis e che oggi farà scendere un brivido lunga la schiena agli ambientalisti.

Un portafoglio da 41 miliardi

L’elenco è interminabile. Il sito dell’ex banca di Ciaccia (www.biis.it) riporta decine di progetti, ma almeno altrettanti non compaiono nella lista. Prendiamo le autostrade. In Lombardia se ne stanno per costruire 400 chilometri, tra le critiche di chi fa notare come l’area metropolitana di Milano abbia più autostrade (576 chilometri) delle grandi città europee, ma meno metropolitane (75 chilometri) e ferrovie (252 chilometri). Una sfilza di progetti che ha attirato interessi legittimi e altri meno limpidi. Basta ricordare che la Cricca aveva puntato gli occhi sulle autostrade lombarde. Biis è impegnata nei maggiori progetti lombardi: Pedemontana Lombarda (4,2 miliardi di finanziamenti), Bre.be.mi tra Brescia, Bergamo e Milano (1,6 miliardi), Tangenziale Est di Milano (1,5 miliardi), autostrada Cremona-Mantova (430 milioni).

È solo la punta dell’iceberg. In ogni regione Biis ha la sua opera, per esempio la Salerno-Reggio Calabria. Ma la banca finanzia anche il general contractor chiamato a realizzare il Quadrilatero stradale tra Marche e Umbria. Progetto (costo iniziale previsto di oltre 2 miliardi) fortemente voluto, tra gli altri, dal senatore Mario Baldassarri. Ma il vero affare non è l’asfalto: grazie al Piano di Valorizzazione le aree a ridosso del tracciato sono diventate edificabili. Di più: gli oneri di urbanizzazione e le imposte sulle nuove costruzioni andrebbero a finanziare l’opera. Insomma, il Quadrilatero ha molti santi in paradiso. Che dire poi del Terzo Valico ferroviario Genova-Milano? Qui Biis è direttamente nella società. Un’opera indispensabile secondo gli industriali. Un progetto inutile assicurano comitati e ambientalisti. L’ex ministro Altero Matteoli ha annunciato la firma del contratto, speriamo che il neo-ministro non dia seguito alla promessa”, ricorda Stefano Lenzi, responsabile relazioni istituzionali del Wwf. Aggiunge: “Il Terzo Valico costa 6,2 miliardi, cioè 115 milioni a chilometro, dieci volte più che in Spagna. Una spesa lievitata dell’800%”.

Poi ecco la voce porti. Restiamo in Liguria per uno dei casi più delicati di potenziale conflitto di interessi: la nuova piattaforma Maersk di Vado fortemente avversata dalla popolazione che già convive con la centrale a carbone Tirreno Power e che si vedrà costruire sul mare un colosso di 210mila metri quadrati (costo 450 milioni, previsti 700mila container l’anno). In questo caso Biis è finanziatrice con 100 milioni dell’Autorità Portuale di Savona (una garanzia sull’extragettito).

La variabile “crisi”

Ed ecco il punto delicato: i governi di centrosinistra avevano pensato di trovare i soldi grazie proprio al meccanismo dell’extragettito. In pratica “ipotecando” l’Iva futura prodotta dai nuovi traffici della piattaforma di Vado. Un’operazione pensata in tempi di vacche grasse (era favorevole il governo Prodi, mentre Tremonti si era detto contrario), ma adesso siamo in crisi e di nuovi traffici di container non se ne prevedono. Risultato: le agevolazioni rischiano di “rubare” traffico ai porti vicini. Leggi Genova e La Spezia. Insomma, una guerra tra scali italiani. Che cosa deciderà l’ex Ad di Biis? Non c’è solo Vado. La banca è anche impegnata nei progetti per il porto di Trieste. E poi interventi urbanistici: come quelli già realizzati per la Fiera di Milano o l’Eur di Roma. O ancora gli aeroporti di mezza Italia. Poi progetti per eolico e solare. Alcuni molto contestati. In Puglia c’è chi protesta contro l’invasione di specchi che strappano terreno all’agricoltura. In Molise e Sardegna le pale eoliche rischiano di cambiare il paesaggio. Infine acquedotti e termovalorizzatori. Di tutto questo, chissà, si occuperà anche il ministro per lo Sviluppo Economico. Corrado Passera, ex Ad di Banca Intesa.

Sta diventando uno dei luoghi comuni dei nostri tempi: l´idea che l´Europa, costretta a difendere con brutali austerità la sua moneta unica, sia incompatibile con la democrazia fin qui conosciuta. Uno dopo l´altro si consumano governi, partiti, e nuovi leader vanno al comando.

Son detti tecnocrati: più semplicemente, sono uomini spinti ad apprendere presto, a caldo, una nuova arte della politica. La vera questione non è l´assenza di democrazia, non è il famoso deficit democratico. Lo slogan è una magica litania, un mantra escogitato per scompigliare gli animi nascondendo loro la realtà: non la democrazia è minacciata, ma la sovranità che le nazioni europee pretendono di possedere. Tutte le nazioni, compresa quella che più di altre sembra padrona di sé e dell´Europa: la nazione tedesca.

L´esempio più lampante di questa confusione fra crisi della democrazia e crisi della sovranità è infatti la Germania di Angela Merkel, che grazie alla sua potenza sta mettendo a rischio con rigido dogmatismo non solo l´Euro, ma la Comunità nata nel dopoguerra. È in nome della democrazia, della supremazia assoluta del popolo sovrano e dei vincoli impliciti in tale supremazia, che il Cancelliere si adopera perché non nasca una solidarietà attiva tra gli Stati della zona euro. Il dilemma, qui come altrove, non è oggi tra democrazia e tecnocrazia ma tra democrazia nazionale e democrazia europea.

Le iniziative tedesche degli ultimi anni (dalla sentenza della Corte costituzionale del 30 giugno 2009, da quella emessa già nel ´93) mirano a questo: dare preminenza alle istituzioni rappresentative nazionali (in primis il Parlamento) e rifiutare un´Unione più solidale in nome del deficit democratico che essa implicherebbe. I populisti sono i primi a profittare di quest´emiplegico rapporto con la realtà, e ben contenti si appropriano del mantra dimenticando che la democrazia va oggi governata con tutto il corpo della politica: nazionale ed europeo. La professione di fede democratica è divenuta per i populismi di destra e sinistra un sotterfugio per svilire l´Unione europea. Per nobilitare passioni non nobili e occultare, appunto, i fatti che ci stanno davanti. Le chiusure tedesche hanno molto in comune con i populismi, che sequestrano la democrazia rattrappendola come una stoffa mal lavata.

La crisi sta mostrando che ben altro è il dilemma: non lo spegnersi democratico, non l´Europa delle élite. Quel che la crisi sta estraendo dall´ombra in cui è relegata, con la violenza di un forcipe, è l´incapacità degli Stati di capire che le sovranità hanno cessato da tempo di essere assolute, che ogni cittadino e ogni Stato è immerso ormai in una scena cosmopolitica cui Habermas dà il nome di «politica interna mondiale». Henrik Enderlein, un economista socialdemocratico che da tempo critica il nazionalismo del proprio governo, parla di inattitudine a riconoscere la «comunità di destino» europea, e a darle sostanza. Confondere la questione della democrazia con quella della sovranità nazionale significa schivare il compito più urgente: reinventare democrazia e politica nelle nazioni e in Europa, contemporaneamente.

Può stupire che proprio la Germania sia all´avanguardia in questo nascondimento del reale: il paese che con più vigore, dal dopoguerra, non solo consentì a drastiche deleghe di sovranità ma le invocò, sperando nell´Europa politica. Quella passione non è seppellita ma è entrata in un letargo intriso di esitazioni, lentezze, tentazioni populiste. Questa è l´emiplegia inasprita dalla Merkel: solo l´occhio nazionale vede, giudica. Solo le rappresentanze nazionali contano –Corte costituzionale, Parlamento federale, Banca centrale tedesca– a scapito di organi sovranazionali nati dal consenso di popoli e Stati come la Commissione, il Parlamento europeo, la Banca centrale di Francoforte.

Se così stanno le cose vuol dire che anche l´immagine della Germania-condottiera europea è affatto inappropriata: Berlino comanda, sì, ma non dirige. Il ministro degli Esteri Sikorski ha parlato chiaro ai tedeschi, lunedì a Berlino: «Sarò probabilmente il primo ministro polacco a dirlo: temo assai meno la potenza della Germania che la sua inattività. Siete divenuti nazione indispensabile in Europa: non potete fallire nella guida». È il peccato di nolitio, non volontà, che Berlino commette. Due forze la dominano, solo in apparenza dissimili: i sondaggi e la Bundesbank, un´istituzione mitizzata perché tutte le paure tedesche trovano in essa conforto, da oltre mezzo secolo. Anche in patria dunque la Merkel non è leader. Niente a vedere con Kohl, che assieme a Mitterrand creò la moneta unica e non esitò a contrastare l´allora governatore della Bundesbank, Tietmeyer. Niente a vedere con l´ex cancelliere Schmidt, che nel ´96 scrisse una durissima lettera aperta a Tietmeyer, e accusò la Bundesbank di essere «uno Stato nello Stato».

Oggi sta accadendo esattamente quel che Schmidt paventava: se l´Europa vede in Berlino un gendarme arrogante, è a causa delle paure che la Bundesbank attizza in patria e fuori. In Germania mi dicono: è come se la politica tedesca avesse perso la battaglia condotta anni fa con i guardiani del Marco, e quegli stessi guardiani (quello Stato nello Stato) pilotassero la barca. Come se prendessero una rivincita, sfruttando la più profonda delle passioni tedesche: la paura.

Se davvero la Merkel ascoltasse la democrazia, oggi dovrebbe tener conto che la paura di un´Unione europea più stretta non è affatto dominante in Germania. Il Cancelliere è confortato da sondaggi, industriali, esperti. Ma altre forze, in casa ed Europa, gli resistono. In casa, è criticato aspramente da socialdemocratici e Verdi. Secondo Sigmar Gabriel, capo della Spd, solo un governo economico europeo e gli eurobond eviteranno la rovina: la Merkel è paragonata a Brüning, il Cancelliere che aprì la via a Hitler con politiche deflazionistiche. Ma obiettano anche molti democristiani. Kohl per primo: il 24 agosto, ha detto che il Paese «ha perso il compasso, dilapidato il capitale di fiducia» in Europa. Werner Langen, presidente del gruppo Cdu/Csu al Parlamento europeo, dichiara che per fronteggiare l´odierna speculazione «la decisione spetta alla Bce (dunque alle istituzioni europee legittimate a farlo, ndr) che deve custodire la stabilità dei prezzi ma anche la messa in sicuro della liquidità sui mercati». Elmar Brok, esperto Cdu di politica europea, dice: «C´è qualcosa nella discussione tedesca sul ruolo della Bce che mi sfugge completamente».

Ancora più forte l´opposizione europea, e non solo di paesi contagiati come Italia o Grecia. Nei giorni scorsi, hanno preso le distanze da Berlino governi sin qui devoti alla Merkel: il ministro delle finanze olandese e finlandese chiedono ora quel che a Berlino è eresia: un «ruolo più attivo» della Bce. In sostanza, chiedono l´abbandono della dottrina tedesca della «casa in ordine», imperante in Germania da quasi un secolo: la dottrina secondo cui prima va ripulita la propria casa, e solo dopo scatta la solidarietà internazionale o sovranazionale.

In nome del popolo e dei sondaggi, dunque di una visione solo nazionale della democrazia, Angela Merkel sta minando l´Europa, la natura sovranazionale del suo ordine democratico. Il 23 novembre ha aggredito Barroso – definendo «inquietanti e sconvenienti» le sue proposte sugli eurobond–violando il diritto di proposta conferito dai Trattati all´esecutivo europeo. Dicono che il Cancelliere preferisce la tecnocrazia alla democrazia. Non è vero: abusando della democrazia, ne fa un´arma della paura. Schmidt denunciò proprio questo, nella lettera del ´96, quando evocò la «monomaniaca ideologia deflazionistica della Banca centrale che negli anni ´30-32 preparò l´avvento di Hitler». E quando denunciò le «ipocondriache paure tedesche di fronte all´innovazione».

(Domani il secondo articolo: la Germania ricostruirà l´Europa?

Un´imposta con un´aliquota dello 0,5% peserebbe su ogni super-contribuente per 22.550 euro - Oltre 1000 miliardi di euro in mano a 240 mila famiglie, con un patrimonio medio di quasi 4,5 milioni di euro – Il 5,7% delle sostanze posseduta nel mondo è in Italia. Nei portafogli ci sono titoli, azioni e depositi, ma la proprietà immobiliare rappresenta ancora più della metà di tutte le disponibilità

Delle possibili riforme nel cantiere del governo Monti è la più elusiva. Anche se richiesta a gran voce dalle forze sociali, Confindustria compresa, l´ipotesi di un imposta patrimoniale è al centro di un durissimo scontro fra i partiti della maggioranza, dove il Pdl ha più volte annunciato il proprio veto ad un intervento diretto sulla ricchezza degli italiani. In Parlamento, il presidente del Consiglio è stato attento ad indicare solo l´opportunità di un monitoraggio della ricchezza (e ha voluto ribadire la parola "monitoraggio"), che potrebbe anche voler dire soltanto l´utilizzo di parametri di ricchezza nello stabilire la congruità dei redditi dichiarati. Il terreno, in altre parole, va ancora esplorato.

Sul terreno della patrimoniale ci sono degli ostacoli tecnici. Al di là delle difficoltà di accertamento, sui patrimoni si è già intervenuti o si sta per intervenire. Per gli immobili, tornerà certamente in vigore l´Ici sulla prima casa. Per quanto riguarda i patrimoni finanziari, negli ultimi mesi è stata pesantemente rincarata l´imposta di bollo. L´ottica in cui si discute della patrimoniale, tuttavia, non è quella di colpire, in generale, la ricchezza, ma i ricchi e, in particolare, gli straricchi. Da questo punto di vista, una patrimoniale non universale, ma limitata a "chi ha di più" (un termine usato dallo stesso Monti) consentirebbe di sciogliere una vistosa contraddizione italiana. L´Italia è, infatti, un paese con redditi stagnanti, ma doviziosamente ricco: il 5,7 per cento della ricchezza netta posseduta nel mondo è in Italia, nonostante che gli italiani non siano più dell´un per cento della popolazione globale e il Prodotto interno lordo della penisola sia pari al 3 per cento del Pil mondiale. Una spiegazione corrente è la diffusione della proprietà immobiliare: l´80 per cento degli italiani vive in una casa di cui è proprietario. Ma è solo in parte vero. Secondo le stime della Banca d´Italia, la ricchezza netta degli italiani è pari a 8.283 miliardi di euro, di cui poco più della metà - 4.667 miliardi - è costituita da abitazioni, mentre le attività finanziarie (titoli, azioni, depositi) erano pari, nel 2008, a 3.374 miliardi di euro.

A spiegare la differenza fra reddito e ricchezza è, piuttosto, l´evasione fiscale, che esaspera l´ineguaglianza crescente della società italiana. Nelle due figure in pagina, si vede come la piramide dei redditi (dichiarati) sia svelta, sottile, quasi egualitaria. Mentre il grafico della ricchezza (stimata dalla Banca d´Italia) appare pesantemente squilibrato, più un paralume che una piramide: quasi il 45 per cento della ricchezza nazionale, equivalente a 3.700 miliardi è nelle mani di 2,4 milioni di famiglie, il 10 per cento più ricco. Se, come è stato ipotizzato, la patrimoniale si dovesse, tuttavia, applicare solo ai patrimoni superiori a 1,5 milioni di euro, il grosso dei ricchi italiani ne sarebbe fuori.

Ma anche una patrimoniale per i soli straricchi darebbe un gettito cospicuo. Il 13 per cento della ricchezza italiana (sempre secondo Via Nazionale) è nelle mani di 240 mila famiglie italiane, l´1 per cento del totale. Si tratta di 1.076 miliardi di euro. Una patrimoniale alla francese, con un´aliquota allo 0,5 per cento della ricchezza, darebbe un gettito di oltre 5 miliardi di euro l´anno. Per ognuna delle 240 mila famiglie significherebbe pagare, su un patrimonio che è in media di quasi 4,5 milioni di euro a famiglia, 22.500 euro l´anno.

Il governo Monti non è atteso soltanto alla prova difficile dell´economia. Lo hanno sottolineato ieri a Roma i movimenti per l´acqua come bene comune che non si sono dissolti dopo il successo referendario. Ma hanno voluto opportunamente ricordare che nessuna emergenza può giustificare l´allontanarsi dalla retta via costituzionale. Sappiamo che sono all´opera gruppi e interessi che spingono nella direzione opposta, invocando il mercato come unica regola, alla quale le istituzioni dovrebbero, una volta di più, piegarsi. Guai se queste suggestioni trovassero eco nel governo. La paventata sospensione della democrazia troverebbe un´inquietante conferma. La volontà espressa con il referendum, infatti, non è disponibile per nessun governo, politico o tecnico che sia, e per qualsivoglia maggioranza parlamentare, ristretta o allargata che sia.

Torniamo alle radiose giornate di giugno, quando 27 milioni di cittadini (ricordiamo sempre questa cifra) dissero no al nucleare, alla generalizzata privatizzazione di servizi pubblici, alle leggi ad personam. Proprio il risultato di quest´ultimo referendum dovrebbe esser preso terribilmente sul serio da un governo che non può affidare soltanto allo "stile" l´impresa ardua di ricostruire un tessuto civile profondamente lacerato. Con il loro voto i cittadini non hanno semplicemente abrogato una legge. Hanno voluto manifestare in modo netto la loro volontà di un ritorno pieno alla legalità, senza privilegi per i potenti: ieri Berlusconi e la sua cerchia, oggi gli interessati all´industria nucleare e alla lucrosa gestione privata dell´acqua.

Il rispetto assoluto della legalità non dovrebbe avere bisogno del severo e corale richiamo venuto dalla maggioranza degli italiani. Ma questo vi è stato.

Ve ne era bisogno, e oggi la legittimazione del governo passa anche attraverso questa ineludibile prova di "serietà" (altra parola inflazionata in questi giorni) che consiste in primo luogo nel rispetto delle istituzioni. Così come dev´essere rispettato il Parlamento, vi è un pari dovere di fedeltà verso l´istituto del referendum, con il quale si esercita direttamente la sovranità popolare.

Archiviamo pure come un incidente di percorso di un ministro frettoloso la dichiarazione secondo la quale potrebbe essere ripreso il tema dell´energia nucleare, che pure è servita a ridare fiato a chi non vuole prendere atto del risultato referendario. Ma è quanto continua ad avvenire, o a non avvenire, intorno alla questione dell´acqua ad inquietare seriamente. Soltanto occasionali e sporadiche sono state le iniziative volte a dare seguito alla chiarissima volontà popolare. Molteplici, invece, sono state quelle volte ad aggirare o vanificare le indicazioni dei referendum, la cui portata, peraltro, era stata ben chiarita dalla Corte costituzionale. E questo spirito non è scomparso, viste le proposte, talora sgangherate, con le quali si indica la via della privatizzazione dei servizi pubblici, delle dismissioni in blocco di beni pubblici.

Il governo, allora, dovrebbe rivolgere la sua attenzione all´articolo 4 della manovra economica che, come da più parti è stato messo in evidenza, non appare in linea con l´esito referendario; e, comunque, non dovrebbe secondare alcuna mossa che possa essere intesa come sostegno per chi, a livello locale, vuole cancellare o rinviare all´infinito gli effetti del referendum. Proprio qui, infatti, nei Comuni e nei cosiddetti Ato (Ambito territoriale ottimale), devono essere avviate le iniziative per la ripubblicizzazione dell´acqua secondo le indicazioni referendarie. Il punto di partenza può essere individuato nei Comuni dove già la gestione dell´acqua è affidata a società per azioni interamente in mano pubblica, che possono essere trasformate in aziende speciali: è già avvenuto a Napoli, e lo stesso può essere fatto a Torino, Milano, Venezia, Palermo.

Ma i movimenti riuniti ieri a Roma hanno indicato anche una strada che affida alla vitalità stessa delle iniziative dei cittadini l´attuazione di quanto è stato stabilito con il voto sul secondo quesito referendario che, per quanto riguarda la gestione del servizio idrico, ha abrogato la norma relativa alla remunerazione del capitale nella misura del 7 per cento. Di fronte all´inadempimento dell´obbligo referendario, sarà lanciata una campagna di "obbedienza civile" per il ricalcolo delle bollette, da pagare senza la remunerazione del capitale. E vi saranno specifiche iniziative giudiziarie.

Questo non è solo un segno della vitalità del movimento dell´acqua, che si conferma come soggetto politico capace di custodire e attuare la volontà dei cittadini. Rappresenta un momento importante della battaglia complessiva per il rispetto della legalità costituzionale.

Si delinea così con nettezza una strategia politica e istituzionale con la quale il governo deve fare i conti.

Può darsi che trovi sostegno debole nella propria maggioranza, dove sono molti quelli che anelano ad una rivincita sul risultato referendario. Ma, legalità costituzionale a parte, questo sarebbe da parte di tutti un segno di incomprensibile miopia politica, un´occasione ulteriore e grave di separazione tra ceto politico e opinione pubblica. Non si può costruire un continuum governoParlamento che contrapponga una propria maggioranza a quella referendaria. Se ci si vuole liberare dalle tossine e dai ricatti dell´antipolitica, bisogna guardare alla buona politica che in Italia si è manifestata con continuità fin dai primi mesi del 2010 e che ha prodotto la partecipazione attiva di 7 milioni di persone alle campagne per le elezioni amministrative e referendaria della passata primavera. Il governo non segua i cattivi consigli di chi incita a liberarsi dalla presa del "movimentismo".

Senza un confronto vitale con la società, il suo respiro sarebbe corto.

Il Parlamento, dal quale si levano voci da vergini violate da parte di chi ne ha segnato l´estrema mortificazione con il voto su Ruby come nipote di Mubarak, vuole ritrovare un suo ruolo? Ha davanti a sé una proposta d´iniziativa popolare per una nuova disciplina dell´acqua firmata da 400mila cittadini. Vi sono due disegni di legge per una nuova classificazione dei beni, con l´introduzione della categoria dei beni comuni, presentati dalla regione Piemonte e dai senatori del Pd. Metta questi testi all´ordine del giorno, ne discuta e il governo, per la parte che gli compete, secondi queste iniziative. E, comunque sia, misuri le sue decisioni con il metro di un´intelligenza politica lungimirante, che non guardi a beni e servizi come ad un´occasione disperata per fare cassa, ma ne consideri il nesso con i diritti fondamentali delle persone, il loro valore "comune" e così consenta pure una loro utilizzazione economica non prigioniera della logica distruttiva del brevissimo periodo.

Una volta di più, i cittadini stanno mostrando intelligenza politica, respiro culturale. Che le istituzioni siano alla loro altezza.

Le alluvioni di Genova, della Liguria e di Messina. L´Aquila ancora città fantasma dopo l´ultimo terremoto. E prima ancora, Vesuvio, Irpinia, Vajont, fino al Medioevo. Ecco come il nostro Paese è stato devastato dai disastri naturali. E ogni volta ha dimenticato la lezione

Nel 1859 un tuono nel fondo dell´Appennino fa a pezzi Norcia, squarcia le antiche mura e inghiotte centinaia di vite. Manca un anno all´annessione dell´Umbria da parte dei Savoia, la città medievale fa ancora parte dello Stato della Chiesa e tocca al Papa intervenire. Ebbene, alla notizia del terremoto, Pio IX, l´uomo teoricamente più reazionario dell´epoca, impone un´illuminata normativa antisismica. Queste regole indispensabili, ma impopolari per via degli aggravi alla spesa edilizia, non saranno mai applicate. Motivo: con l´arrivo dei piemontesi l´ordine antico decade. Siamo in Italia, le norme danno fastidio. E poi il Paese ha altre gatte da pelare, a partire dalle rivolte del Sud. Per i norcini, neanche dire, è una festa. Il plebiscito del 1861 è per loro un´occasione unica per accantonare l´impopolare antisismica papalina, azzerare la memoria e gettare le premesse di un secolo e mezzo di malaedilizia e conseguenti disastri. Ce le siamo sempre cercate, le sciagure, ignorando scientemente la storia, e la rimozione continua anche oggi, con le celebrazioni del centocinquantenario dell´Unità che rimbombano di fanfare ma evitano accuratamente i disastri. Messina diventa un fiume di fango, la Liguria si squarcia sotto le grandi piogge, l´Aquila è ancora una città fantasma dopo l´ultimo sisma, ma nel grande compleanno dell´Italia i terremoti, le eruzioni, le frane e le alluvioni non hanno cittadinanza. Eppure se c´è una cosa che ci fa nazione è proprio il disastro, la sua anormale frequenza, il modo con cui la catastrofe naturale si riverbera su un territorio notoriamente mal costruito. È la nostra reazione alle avversità, la lezione che ne traiamo, e soprattutto il modo in cui esse vengono (raramente) elaborate o (più spesso) dimenticate.

Quando il Tevere invade Roma nel dicembre 1870, sotto l´onda emozionale si decide di dare alla città una migliore difesa dall´acqua, ma ecco che la solita commissione parlamentare insabbia tutto, al punto che cinque anni dopo, non essendoci ancora nulla di deciso, Giuseppe Garibaldi in persona rompe gli indugi, abbandona inferocito la sua Caprera e torna nella Capitale per inchiodare i politici alle loro responsabilità. Accolto da una folla immensa, tiene un memorabile discorso ai romani «con la voce dei bei giorni» e li esorta a essere «seri, seri, seri e fermi». Solo allora il Parlamento si muove e dà via libera ai lavori per i muraglioni di rinforzo alle rive del Tevere. Se oggi Roma è al sicuro è solo grazie a quell´urlo del Generale.

È un fatto che l´Italia non può più permettersi di subire terremoti e alluvioni senza trarre lezioni dal passato. E forse ora qualcosa timidamente si muove, anche su spinta della presidenza della Repubblica. A Spoleto è nato un Centro euromediterraneo che raccoglie la documentazione sugli eventi estremi e i disastri. Il 12 dicembre il tema dell´Unità d´Italia riletta attraverso i disastri sarà affrontato a Roma all´Accademia di San Luca in un convegno con i massimi esperti italiani del settore. «È incredibile quanto si debba insistere per far capire cose di un´ovvietà assoluta», dice il professor Domenico Giardini, nuovo presidente dell´Istituto nazionale di geofisica. «Le cose giuste le aveva già dette Rousseau dopo il terremoto di Lisbona del 1755. Disse che l´ecatombe è fatale se l´uomo si ostina a costruire case di sei piani in zone sismiche. Ma noi ormai siamo così freneticamente proiettati sul futuro che non abbiamo più tempo di riflettere sul passato e ogni catastrofe ci sembra un evento eccezionale. È un´amnesia fatale per un Paese che ha una media di mille morti l´anno per terremoti». In confronto alla cecità dell´oggi era quasi meglio la vecchia superstizione, quando alluvioni e terremoti erano punizioni divine. C´erano almeno i preti a tenerci in allerta con le "rogazioni", processioni che evocavano il male con scongiuri, simbologie, rituali e precisi anniversari liturgici.

Il Vesuvio, per esempio, chi ci pensa più. Poi guardi la storia dei 150 anni e vedi che non dorme affatto. Comincia proprio nel 1861, salutando con una botta memorabile l´annessione al Piemonte. Poi brontola, in sequenza ininterrotta, nel 1867, 1872, 1891. Quattro anni dopo un nuovo rigurgito di lava crea il Colle Margherita e a seguire, nel 1899, una Piedigrotta di lapilli genera Colle Umberto. Nel 1906 un´eruzione violenta distrugge Borgo Tre Case, poi c´è quella del ´29 e ancora quella del ´44, descritta dallo scrittore Norman Lewis, che è a Napoli con l´esercito americano. San Sebastiano è minacciato e il paese esce in processione verso la lava con la statua del protettore. Ma la gente non si fida troppo e chiama in rinforzo San Gennaro, il cui tabernacolo viene però tenuto nascosto fino all´ultimo in un vicolo, perché Sebastiano non abbia a offendersi. Da allora il pentolone tace, la memoria del pericolo corso si attenua ed ecco, puntuali, i palazzinari all´assalto della scarpata di lava. Idem per frane e alluvioni. Palermo pare estranea a catastrofi di tipo messinese, ma basta un´occhiata al passato per cambiare idea. Andrea Goltara, direttore del Centro italiano di riqualificazione fluviale, ricorda l´esondazione del 1862, quella del 1925 e soprattutto quella, eccezionale, del 1931. Da allora si è talmente costruito in zone allagabili che, se oggi si ripetesse la grande pioggia di quell´anno, i danni sarebbero infinitamente più gravi. I disastri sono spesso recidivi, e quello di quest´anno a Genova è stato preceduto da eventi analoghi nel 1945, 1951, 1953 e 1970. E che dire dell´esondazione dell´Arno nel ´66: una fotocopia di quella già accaduta nel 1844.

Dal Dodicesimo secolo a oggi, Marco Amanti dell´Ispra ha registrato 480mila frane sul territorio nazionale, estese sul settanta per cento dei Comuni. La mappa dei terremoti dal 1861 registra non solo una sequenza ininterrotta di sismi e quindi la necessità di un´allerta costante, ma mostra con evidenza che negli ultimi vent´anni le scosse forti sono semmai diminuite per cui - statisticamente - c´è da aspettarsi un bel tuono a tempi ravvicinati. Più che l´Aquila, preoccupa il silenzio sismico che le sta attorno. L´amnesia è funzionale al cemento. Lo si è visto nel 2009 all´Aquila, dove molti ignoravano di trovarsi in area sismica e dove, in quel vuoto di memoria, i pirati dell´edilizia avevano fatto carne di porco del territorio. È una tendenza vecchia come l´Italia. Dopo il terremoto di Rimini del 1916, i parlamentari romagnoli fecero di tutto per far revocare le norme antisismiche e quando ci riuscirono, negli anni Venti, furono accolti come eroi alla stazione e portati in trionfo dalla popolazione. Stessa cosa in Friuli, dopo il terremoto del 1928. I paesi più "ammanigliati" scansarono le norme di sicurezza che avrebbero comportato spese edilizie maggiorate del 15 per cento, mentre i periferici subirono. Risultato: nel maggio del 1976 i centri esentati come Gemona videro un´ecatombe. Gli altri, come Pioverno, non ebbero neanche un morto.

«Solo chi ricorda sa il pericolo che corre, e quindi accetta di sottoporsi a regole che gli salveranno la vita», sbotta Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti e ideatrice del centro di Spoleto. «Per salvarci dai disastri, una forte memoria condivisa è più importante di un sofisticato tecnicismo che porta fatalmente a delegare le soluzioni a pochi, a scelte emergenziali, verticistiche, e allo scavalcamento delle regole. Ricordare ci aiuta invece a fare scelte democratiche e condivise, e a mobilitare la parte migliore di noi». L´Unità d´Italia azzerò anche la toponomastica "ammonitrice". Nello zelo cartografico dei sabaudi, piccoli nomi di luogo come Pozzallo, Pietratagliata, Trematerra, Acquapendente, persero il loro senso o furono fraintesi. La costa sarda di "Maluventu" fu registrata come "Maldiventre" dai piemontesi che non capivano il sardo e per parecchie navi quel pezzo di mare divenne infido perché il nuovo nome non conteneva più l´avvertimento. Gli esempi dello stesso tipo non si contano. La frana più estesa d´Italia, quella di Ancona del 1982, avvenne su un pendio detto "Ruina", dove dall´epoca dei Romani non s´era mai costruito proprio perché si credeva al senso dei nomi.

E che dire del Vajont, 1963, dove nel lago artificiale di una diga appena costruita cadde un monte intero detto "Toc", che significa più o meno "qualcosa in bilico". L´arroganza dei signori dell´energia nell´uso del territorio e la supponenza degli ingegneri di fronte alla memoria dei montanari fece, in un botto solo, duemila morti. Per un nome ignorato vennero giù trecento milioni di metri cubi di roccia e terra, e fu la più grande frana di sempre. Non fu la natura a essere matrigna, ma gli uomini a essere pessimi figli.

Dal 13 giugno, giorno della vittoria popolare nei referendum, sono passati cinque mesi e più, troppi in un'epoca di cambiamenti rapidi, materiali e finanziari. Il tempo è passato come acqua sui marmi dei Palazzi: non ha lasciato traccia. Il Forum dei movimenti per l'acqua che convoca la manifestazione di oggi spiega bene questo silenzio: «Governo e Confindustria, poteri finanziari e lobbies territoriali, visto che il popolo ha votato contro di loro, hanno deciso di abolire il popolo, con una nuova e gigantesca espropriazione di democrazia».

Abbiamo un nuovo governo, in Italia, approvato dal novanta per cento del parlamento. Il presidente del consiglio non ha trovato parole da indirizzare ai ventisette milioni di sì, non ha fatto neppure un cenno di riconoscimento nei loro confronti, un saluto, non ha citato l'esistenza di problemi ambientali. Un suo ministro, preposto proprio a quel tema, è inciampato sul nucleare, come se non sapesse che la maggioranza delle persone non ne vuole sapere. Sarà lui a rappresentare il paese a Durban in Sudafrica, dove tra pochi giorni il pianeta discuterà su come sopravvivere al disastro ambientale? Sarà lui a rappresentarci a Marsiglia, in marzo, quando si parlerà di acqua al sesto Forum idrico delle multinazionali? Cosa ne sanno costoro, vecchi e nuovi governanti, di acqua, se non che è roba che il mercato predilige e che si può vendere ad alto prezzo, facendo cassa? A Marsiglia, dentro e fuori il Forum dei padroni e il contemporaneo Forum alternativo dei popoli, sarà il referendum italiano a fare da protagonista. Tutti chiederanno come abbiamo fatto, cosa ci proponiamo; molti vorranno discutere, imparare da noi. Racconteremo di un movimento o meglio di mille movimenti, di persone che hanno imparato e insegnato nello stesso tempo, a fare la politica, a raccogliere le firme, a parlare, a cantare e ballare per l'acqua, con generosità e con fiducia nel buon diritto (e nel buon movimento).

Per tenere vivo questo impegno, il Forum lancia oggi, dalla manifestazione romana, la sua proposta di «obbedienza civile». Con un po' di ironia - uno scherzo gentile per coloro che conoscono le durezze della «disobbedienza civile» - si propone di far rispettare il diritto nato dal referendum, cominciando dal non applicare i balzelli che esso ha abrogato.

E' sempre la democrazia del referendum in campo, quella che nessuno ha pensato di consultare. Il nostro ceto politico, o chi lo rappresenta, o lo rappresentava, o lo rappresenterà, è talmente spaventato dallo spread da non vedere che il paese sta crollando, dalla Liguria alla Sicilia. Dice di non avere i quattrini per prevenire, per riparare. Potrebbe almeno rivolgersi a quei 27 milioni di persone che nell'acqua, quella buona come quella cattiva, hanno imparato ad affondare i piedi e le mani.

C’è un po’ di terrorismo in chi è contrario al fallimento nel descriverne gli effetti. Mi è chiaro che giungere a una qualche forma di fallimento non è come bere una tazza di caffè, ma il problema non è questo, il tema è: se ne può fare a meno? Una risposta a questo interrogativo presuppone una qualche considerazione sulle trasformazione del capitalismo. Un po’ mi devo ripetere, mi scuso.

Si sostiene che la crisi attuale è una crisi da eccessiva capacità produttiva e da mancanza di domanda solvibile. Due osservazioni: da una parte questa interpretazione è contraddittoria con l’osservazione che la crisi prende corpo da un eccesso di domanda a “credito”, quindi non la domanda ma la sua finanziarizzazione è il problema; dall’altra parte è vero che c’è una crisi di domanda dato che la popolazione viene continuamente tosata per far fronte alle ingiunzioni della finanza.

È necessario riflettere che la finanziarizzazione dell’economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificazione della sua natura. Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (D-M-D), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella odierne denaro-denaro-denaro (D-D-D), che senza la “mediazione” della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza (in poche mani).

Si rifletta sui seguenti dati mondiali: il PIL ammonta a 74.000 miliardi; le Borse valgono 50.000 miliardi; le Obbligazioni ammontano a 95.000 miliardi; mentre gli “altri” strumenti finanziaria ammontano a 466.000 miliardi. Risulta così che la produzione reale, merci e servizi (74.000 miliardi), è pari al 13% degli strumenti finanziari. Quanto uomini e donne producono, in tutto il mondo, rappresenta poco più di 1/10 del valore della “ricchezza” finanziaria che circola. Questo dato quantitativo ha modificato la qualità dell’organizzazione economica: mentre resta attiva la parte di produzione materiale si è sviluppata un’enorme massa di attività finanziaria che mentre trent’anni fa lucrava sul “parco buoi”, nome affibbiato a chi affidava alla borsa i propri risparmi nella speranza di arricchirsi, ora lucra sui popoli che da una parte sono sottoposti a una distribuzione non equa di quanto producono (gli indipendenti sono poco tali e sono entrati nella catena allungata del valore aggiunto) e, dall’altra parte, sono tosati (più tasse e meno servizi) in quanto cittadini.

Si tratta di un mutamento che investe la produzione, la distribuzione della ricchezza, ma anche il processo politico e la stessa, tanta o poca che sia, democrazia. Quando la ricchezza si produce attraverso la mediazione della merce era attiva dentro lo stesso corpo della produzione, una forza antagonistica che cercava di imporre una diversa distribuzione della ricchezza prodotta e l'affermarsi di diritti di cittadinanza. Nessun regalo, conquiste frutto di lotte, di lacrime e sangue. Al contrario quando diventa prevalente il meccanismo finanziario, si scioglie il rapporto tra capitale e società, e diventa impossibile ogni antagonismo specifico. Tutto si sposta sul piano politico, un bene e un male insieme. Un male perché manca una cultura alternativa, tutti viviamo entro la dimensione liberista e del mercato, un bene perché è possibile andare alla radice del problema.

È diventato senso comune che il mercato (finanziario) vuole sicurezza e credibilità! È una parte molto modesta della verità. La speculazione finanziaria da se stessa, data la massa di risorse che muove, e le tecnologie che usa (gli High Frequency Trading – HFT – che muovono due terzi delle borse), si crea autonomamente le occasioni di successo per speculare. Come ha scritto Prodi “i loro computer scattano tutti insieme, comprano e vendono gli stessi titoli e forzano in tal modo il compimento delle aspettative”. Contrastare la speculazione, come lo si sta facendo, significa solo offrirle alimento continuo. Si può fare più equamente, e sarebbe importante, ma questo non intaccherebbe il meccanismo. Bisogna colpire direttamente la speculazione al cuore, toglierle l’acqua nella quale nuota. Certo che ci vorrebbe un’azione comune a livello internazionale, ma l’elite politica e tecnica è figlia ideologica, qualche volta non solo ideologica, del liberismo e della finanza; ambedue si possono “criticare” ma non toccare, bisogna farli “operare meglio”. Come ha scritto Halevi, le maggiore banche tedesche e francesi sono piene di titoli tossici, messi in bilancio al loro valore nominale mentre valgono zero, ma il sistema (la governance europea franco-tedesca) difende le banche tedesche e francesi, mettendo in primo piano i debiti sovrani e le banche dei paesi sotto tiro (e quando toccherà alla Francia? Perché toccherà!).

In sostanza il sistema non si tocca; si possono punire, anche severamente, come in America, chi la fa grossa, ma poi si finanziano le banche, né si riesce a mettere una qualche freno (amministrativo, fiscale, legislativo, ecc.) alla speculazione. Come l’apprendista stregone che non riesce a gestire le forze che ha scatenato.

Non voglio dire che il sistema è al collasso, ma è sulla strada; ci vorrà tempo (anche secoli secondo Ruffolo) e ci vorranno forze, ma si coglie “una condizione di insoddisfazione diffusa, di generale incertezza e di sfiducia e timore del futuro”.

La Grecia ha fatto tutto quello che le era stato richiesto, licenziamenti, diminuzione di stipendi, tagli, ecc. ed è giunta, di fatto al fallimento (controllato). La speculazione finanziaria ha aggredito la Grecia, ha tosato la popolazione, ha scarnificato la società. Il furbo Papandreu ha tentato la mossa democratica del referendum, è stato redarguito, bastonato ed ha fatto marcia indietro.

Oggi tocca all’Italia (un po’ alla Spagna, domani la Francia, nessuno è al riparo. La finanza non ha patria, non ha terra, non ha sangue), che si appresta (con serietà, si dice) a seguire le richieste della Banca europea, del Fondo monetario, della Commissione della UE, cioè di fatto della finanza, per scivolare lentamente in una versione diversa della Grecia. Ha senso? Certo che no, ma la questione è: ha senso una politica keynesiana? Ha senso una più equa distribuzione dei sacrifici? Ha senso pensare a risposte più “riformiste” e civili alle indicazione della Banca europea? Ha senso pensare ad operation twist (di che dimensione dato l’ammontare del debito italiano), proposta da Bellofiore e Toporowski? senza con tutto questo intaccare il potere e la capacità operativa della speculazione (che costituisce parte strutturale del sistema)?

Credo di no, e mi domando: è necessario continuare ad avere la Borsa che ha perso ogni originale funzione? È possibile dividere le banche che fanno finanza da quelle della raccolta e collocamento del risparmio? È possibile avere una banca europea che operi come una banca nazionale? È possibile avere un governo europeo, non solo economico ma generale? È possibile tassare le rendite e i patrimoni? Ecc. Tutto è possibile ma poche cose sono probabili.

Qual è l’ottica con la quale un governo di centro-sinistra (che si dice probabile) deve guardare alla situazione? Certo c’è da ricostruire il senso della società, come dice Rosy Bindi, c’è da ricostruire un ruolo internazionale, c’è da rilanciare lo sviluppo (sostenibile, equilibrato, ambientale, risparmiatore, ecc. lo si qualifichi quanto lo si vuole), c’è da affrontare il problema del lavoro di giovani, donne, precari, disoccupati, c’è da occuparsi di scuola, sanità, territorio, ecc. La domanda è: tutto questo è fattibile insieme al pagamento del debito? Qualcuno (Amato) parla di una patrimoniale di 300-400 miliardi per ridurre drasticamente il debito. Bene, ma tutto il resto come lo si fa? Sacrifici, per piacere no, riforme impopolari per piacere no, e non solo per collocazione politica ma perché inutili e dannosi per fare tutte le cose elencate prima.

Penso che bisogna mettere mano al debito. Il come, dipende da volontà e forza: un concordato con i creditori (via il 30%); una moratoria di 3-5 anni; differenziato rispetto alle persone fisiche e alle istituzioni (le banche che hanno in bilancio titoli tossici potrebbero benissimo tenersi anche i titoli sovrani, con buona pace del Cancelliere tedesco), ecc. La patrimoniale certo che ci vuole, ma dovrebbe servire ad avviare tutte le altre cose, così come una ristrutturazione della spesa pubblica (spese militari, ecc.) potrebbe liberare risorse. Mentre la lotta all’evasione (mancati introiti per 120 miliardi l’anno) e alla corruzione (60 miliardi l’anno) potrebbero servire alla diminuzione delle imposte dei lavoratori. Insomma ci sarebbe tanto da fare, ma bisogna in parte, in toto, o per un certo numero di anni, liberarsi del debito.

Non dovrebbe essere una iniziativa europea? Certo, ma in sua mancanza facciamo da soli, non c’è da salvare una astratta Italia, ma una concreta popolazione di uomini e donne. Questo è il tema.

Oggi ci avviamo al governo del “grande” Mario; che si tratti di persona onesta e retta è molto probabile, ma è il suo pensiero che preoccupa, un pensiero tanto forte quanto inefficace.

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