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Una classe politica non è sempre il riflesso del paese, non solo perché, come ben sappiamo, i sistemi elettorali possono facilmente falsarla, ma anche perché è molto probabile che dopo la sua investitura elettorale le opinioni dei cittadini cambino anche se si tratta di un mutamento solo sentito e percepito. Dalla primavera del 2008 ad oggi molte cose sono avvenute che hanno incrinato il consenso alla maggioranza. Elencarle vorrebbe dire fare una lunga lista di scandali e casi di corruzione ai quali sono seguiti pochissimi casi di dimissioni e invece molte dichiarazioni diffamanti e attacchi agli organi giudiziari e alla stampa o alle istituzioni che osavano bloccare provvedimenti o limitare i danni di decisioni prese. Dopo tre anni gli italiani hanno dimostrato di non gradire più la politica e i comportamenti di questa maggioranza. Lo hanno dimostrato indirettamente nelle elezioni amministrative e con i quattro referendum. La loro voce aveva un senso assai chiaro, ma la classe politica nazionale ha adottato la strategia della sordità e dell´indifferenza. Siccome non si è trattato di elezioni politiche, si è detto, tutto deve e può continuare come prima, e se possibile più spavaldamente di prima. I tiri mancini tra i membri del governo e il clima da rissa di cui la maggioranza ha dato spettacolo in Parlamento e fuori (salvo ripetere ai fedeli inossidabili che tutto va per il meglio e questo è il migliore dei governi possibili) ha del surreale e del tragicomico. Non migliora l´immagine della nostra classe politica il comportamento di pusillanime codardia di un Pd che non mantiene saldo neppure il suo programma politico (abolizione delle Province) e sembra quasi che abbia timore di essere maggioranza nell´opinione del paese.

Tutto porta ad allargare invece che accorciare il distacco tra la politica dentro e la politica fuori delle istituzioni. Un segno nemmeno troppo criptico di una rappresentanza politica malata e zoppa, alla quale si adatta bene la descrizione di Lewis Namier della classe politica inglese alla vigilia dell´indipendenza americana: faziosa, corrotta, famelica e indifferente all´opinione del paese. Ora, se è vero che sono le elezioni a dare autorevolezza sovrana all´opinione dei cittadini, è altresì vero che nel tempo che intercorre tra due tornate elettorali non sta scritto da nessuna parte che gli eletti e il governo possano fare e disfare a loro piacimento ciò che vogliono (facendo grande affidamento sulla memoria corta dell´opinione mediatica). Tra un´elezione e l´altra la rappresentanza dovrebbe mantenere un dialogo informale con la società, registrarne gli umori, anche quelli sfavorevoli, interessarsi insomma non solo del voto dei cittadini ma anche delle loro opinioni. L´impressione invece è che a chi governa interessi davvero soltanto far sì che l´opinione venga via via riportata nell´alveo dell´accondiscendenza, che essa sia da ascoltare solo quando è addomesticata. Anche a costo di mettere un macigno tra i fatti e le parole.

Un esempio: la discussione sulla manovra che dissanguerà le amministrazioni locali, il servizio sanitario nazionale e tutto ciò che è pubblico, a cominciare ovviamente dalla scuola (la perenne punita di questo governo) e dai servizi sociali di sostegno a chi ha più bisogno come anziani e handicappati, ebbene questa discussione non ha mostrato grande interesse per ciò che gli italiani saranno costretti ancora una volta a subire senza possibilità alcuna di far sentire la loro voce e, anzi, contraddetti dal Presidente del Consiglio (che ha voce potentissima) il quale continua imperterrito a ripetere che il governo, contrariamente a quello di altri paesi europei, "non metterà le mani delle tasche degli italiani". Ma come giustificare questa affermazione con i tagli che toglieranno molti soldi dalle tasche degli italiani togliendo loro servizi e sostengo senza dare loro alcuna certezza dell´efficacia dei loro sacrifici, come ha spiegato Tito Boeri su questo giornale? Non si giustifica infatti, ma lo si ignora e lo si nega. E come giustificarla con la riforma che scippa alle donne i risparmi derivanti dall´aumento dell´età della pensione nel pubblico impiego (3 miliardi e mezzo nei prossimi sette anni) senza alcuna politica programmatica che si impegni se non altro a usare queste risorse a beneficio del lavoro delle donne?

Non pare esserci rispondenza tra parole e interessi di chi governa e interessi e vita di chi opera e lavora. Una schizofrenia che raggiunge l´apice nelle parole del Presidente del Consiglio nell´intervista rilasciata a Repubblica, una riprova ulteriore di assenza di dimestichezza con la politica democratica. È infatti il leader che decide chi andrà e dove, descrivendo la geografia umana e politica delle istituzioni di domani: dal Quirinale al Governo. Come se a lui spetti preparare il nostro futuro: non quello del suo partito, si badi bene, ma il nostro. L´Italia come una sua azienda della quale l´amministratore delegato disegna l´organigramma, dove poco o nulla conta che ci sia una cittadinanza, salvo il fatto che è "un mercato di consenso e di voti". E perché il mercato risponda a chi investe secondo le aspettative tutte le energie verranno messe in moto; c´è chi parla "per gli elettori" (ovvero dice ciò che è conveniente dire, non ciò che è per noi conveniente sapere) e c´è chi parla "per i mercati": un ministro per le orecchie del popolo e uno per quelle degli investitori. Dove stia il vero è e resta un rebus. L´accountability, il rendere conto, da cui dipende la differenza tra democrazia elettorale e oligarchia eletta, è violata senza alcun scrupolo. Se la classe politica alla quale il governo rappresentativo e costituzionale da vita è, come ci spiega Peter Oborne, una leadership che ha internalizzato l´idea di dovere pubblico perché ha gradualmente appreso a distinguere ciò che è nell´interesse di sé come gruppo o partito da ciò che è nell´interesse del paese, l´Italia di oggi non ha una classe politica.

"Quando Olivetti inventò il pc", un documentario che vorremmo tutti vedessero, non fosse che per riflettere sul patrimonio di genialità ma anche sugli abissi d´insipienza che la nostra Italia si porta dentro. La storia che Sky ci ha raccontato – a cura di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto – svela a spettatori certamente ignari come il primo personal computer, la macchina più innovativa della nostra epoca che rivoluzionerà l’agire dell’umanità intera e da cui scaturiranno fino ad oggi infinite evoluzioni, venne ideato, progettato, disegnato e materialmente fabbricato in un capannone di Ivrea da un gruppetto di fantasiosi ingegneri italiani, tecnici della nuova scienza. Con loro non più di 400 fra designer, economisti, esperti di materiali, operai e tecnici altamente specializzati, animati dal figlio di Adriano, Roberto Olivetti, (di cui nel documentario purtroppo si parla troppo poco, come si tace sul geniale capo progetto, Mario Tchou, un cinese nato a Roma, morto in un incidente d´auto dopo l´avvio dell´impresa).

Alle loro spalle, nume tutelare di riferimento, Enrico Fermi, che credette fin dall´inizio nella possibilità di trasformare i mastodontici calcolatori elettronici, bisognosi per l´uso di addetti informatici in camice bianco, in oggetti portatili a disposizione di ogni tipo di consumatore. Un sogno impossibile, dicevano i più o, al massimo, un progetto destinato a restare allo stadio del prototipo avveniristico. Gli unici a crederci eravamo un gruppetto di amici di Roberto Olivetti, incantati dalla sua fantasia progettuale.

Il documentario scandisce le fasi del passaggio dall´utopia alla scienza applicata attraverso l´esperienza di un gruppetto di avanguardia guidato dall´inventore della scheda magnetica, precursora del floppy disk, ingegner Pier Giorgio Perotto, con i suoi più diretti collaboratori (Gastone Garziera, De Sandre, Faggin, inventore del microprocessore, l´architetto Mario Bellini che disegnerà la macchina). L´ultima fase di questa epopea tecnologica viene svolta in semi clandestinità. Quando, morto Adriano Olivetti, la società si trova in difficoltà, il gruppo d´intervento dei big dell´industria e delle banche, con alla testa Cuccia e Valletta. pongono, infatti, come condizione che la divisione elettronica venga venduta agli americani. Nessuno di loro capisce nulla di computer e Valletta afferma: "È stato un grande errore imbarcarsi in qualcosa di impossibile per gli europei. Del resto se nessuno ha costruito una macchina simile vuol dire che non serve a niente". L´ordine viene eseguito, ma Roberto ha un colpo di furberia. Dichiara che la Programma 101 non è un computer ma una piccola calcolatrice e la sottrae alla svendita. Il gruppetto dei "congiurati" seguita a lavorare in un capannone coi vetri oscurati per non farsi scoprire. Col fiato alla gola arrivano a costruirla in tempo per l´esposizione mondiale di New York del 1965.

Gli espositori della Olivetti la relegano in una stanzetta puntando tutto sulle calcolatrici elettromeccaniche. Fino a quando l´entusiasmo dei visitatori, che all´inizio non credono al miracolo e cercano invano i fili a cui il computer sia collegato, non li travolge e sono costretti a mettere la Programma 101 al centro del padiglione. Se ne vendono subito 40.000 esemplari. Ma la battaglia non è vinta. L´americana Hewlett Packard la copia moltiplicandone le potenzialità. Accusata di plagio sborsa 900.000 dollari per acquisire tutti i brevetti. Fatto fuori Roberto, i nuovi dirigenti di Ivrea sono ben lieti di liberarsi di questa eredità. A loro scusante vi è il fatto che la meccanica era ancora vincente sul mercato e la cultura elettronica non era neppure percepita da quella cultura industriale che non andrà al di là del " piccolo è bello" della futura Padania. I pionieri di Ivrea, colpevoli di aver capito tutto 15 anni prima di Bill Gates e che ogni paese avrebbe glorificato, furono sconfitti e irrisi in vita e dimenticati dopo la loro scomparsa.

L’accusa più falsa che viene veicolata dal gigantesco network in mano ai poteri forti, riguarda la “perdita” di 670 milioni di finanziamento europeo per realizzare la grande opera causata dalla cecità dei movimenti. Pochi giorni fa su Il Manifesto, Marco Revelli ha ribadito la verità: se si accetta di prendere il modesto finanziamento si perderanno i 20 miliardi di euro necessari a costruire una gigantesca e inutile grande opera.

20 miliardi di dollari è l’ammontare del debito contratto da Atene per coronare il grande sogno di perseguire la grande opera per eccellenza: le Olimpiadi che si svolsero nel 2004. Era il 1997 quando la capitale greca avanzò la candidatura e in breve tempo si creò il comitato d’affari necessario al raggiungimento del sogno. Grandi banche pronte a finanziare il debito, grandi imprese europee pronte a accaparrarsi i ghiotti appalti finanziati a debito con i soldi pubblici. Il fallimento economico dell’evento fu devastante. Le prime stime del 1997 parlavano solo di 1, 3 miliardi di dollari. Qualche anno dopo, il costo era quadruplicato, salendo a 5 miliardi. A consuntivo sono stati spesi 20 miliardi di euro. Alcuni economisti parlano di una voragine ancora maggiore. Dietro al sogno si nascondeva un incubo.

Le città - in quel caso la meravigliosa Atene - e i territori - in questo caso la val di Susa - sono diventati feudi di proprietà di un ristretto gruppo di istituti di credito, di grandi imprese, di società di rating pronte a seminare il panico sui mercati finanziari. Finanziano la spesa pubblica, se ne impadroniscono - guadagnando fiumi di denaro - e poi chiedono il conto all’intera società. In questi giorni sono stati concessi alla Grecia dall’Unione Europea 120 miliardi di euro di prestiti (il 20% circa serve per sanare il buco olimpico, dunque), e il motivo principale del prestito è che le banche europee rischiavano altrimenti di perdere parte del credito. Con la dilazione del credito riprenderanno i loro soldi e metteranno in vendita un’intera nazione.

La val di Susa sta dimostrando con studi concreti che il fallimento economico della realizzazione della Tav è certo. Non potranno esserci ritorni in termini di passeggeri perché il bacino d’utenza è oggettivamente ristretto. Non potranno esserci ritorni per il transito merci sia perché è dubbio che venga realizzata la linea ad alta capacità, sia perché in Svizzera sono già meglio attrezzati di noi. Nel caso dunque che l’opera andasse avanti per la cecità di chi ci governa e di un opposizione parlamentare culturalmente annientata, tra poco più di un decennio l’intero paese sarà costretto a pagare il debito che avremo contratto per finanziare le imprese e le banche che tengono in ostaggio il nostro ceto politico.

La battaglia della val di Susa assume dunque un valore straordinario. Azzerare l’opera significa risparmiare un fiume di soldi che potrà essere dislocato su altre poste di bilancio. Dal sostegno all’economie locali, ai progetti di messa in sicurezza del territorio e delle città, alla realizzazione dei servizi sociali che ancora mancano lì e in tante altre valli. Altre imprese beneficeranno dei finanziamenti oggi indirizzati solo a quelle poche che controllano il mondo dell’informazione. Un’altra agenda di lavoro, dunque: da un'unica inutile grande opera a tante piccole opere che nel loro insieme fanno un grande progetto di sviluppo. Il territorio come bene comune.

E di fronte a questa sfida, fa pena dover leggere il commento su quanto accade in val di Susa da parte del sindaco di Torino che ha affermato che essere contro la Tav è segno di “regressione culturale”. Parla per se stesso, ovviamente, e per coloro che ancora fanno finta di credere nella favola che le grandi opere portano sviluppo. Portano invece il mostruoso debito che oggi strozza la Grecia. Devono evidentemente nascondere quanto sta oggi avvenendo con spirito bipartisan. Quando Atene vinse la “sfida” olimpica che avrebbe contribuito al collasso economico del paese ellenico aveva di fronte la candidatura della Roma guidata dal centro sinistra. Non contento dello scampato pericolo, in questi ultimi due anni il sindaco Alemanno ha nuovamente candidato la città per le Olimpiadi del 2020 e maggioranza dell’opposizione capitolina rappresentata dal Pd non ha fatto battaglia. Anche ora che le intercettazioni telefoniche a carico di Bisignani e soci svela l’intreccio vergognoso degli interessi e delle speculazioni da parte di coloro che cantavano le lodi della candidatura, prima fra tutti l’Unione degli industriali laziale.

Evidentemente una parte della sinistra è ormai incapace di rompere la subalternità culturale con cui ha guardato alla globalizzazione e il futuro sta nell’intelligenza collettiva della val di Susa.

I moribondi di Palazzo Montecitorio stanno per approvare una legge ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale. È la legge sul testamento biologico, altrimenti detta «dichiarazioni anticipate di trattamento». E faccio esplicito riferimento a un classico della critica parlamentare – I moribondi del Palazzo Carignano, scritto nel 1862 da Ferdinando Petruccelli della Gattina.

La maggioranza parlamentare sempre più delegittimata per gli scandali che l´attraversano, per l´impunita vocazione a secondare ogni pretesa del suo Capo, per la distanza abissale dal rispetto dovuto ai cittadini pretende di impadronirsi della vita stessa delle persone. Non si cura dei documenti analitici mandati a tutti i senatori e deputati da più di cento giuristi che mostrano i gravi limiti tecnici della legge. Disprezza l´opinione pubblica perché, come da anni ci dicono le periodiche rilevazioni dell´Eurispes, il 77% degli italiani è favorevole al diritto di decidere liberamente sulla fine della vita. Mentre ripetono la sempre più mendace formula "non mettiamo le mani nelle tasche degli italiani", il presidente del Consiglio e la sua docilissima schiera mettono le mani sul corpo di ciascuno di noi.

La legge è ideologica e violenta, quintessenza di un dispotismo etico che vuole imporre a tutti il parzialissimo, controverso punto di vista di una sola parte a chi ha convinzioni, fedi, stili di vita diversi. Afferma la «indisponibilità» della vita: ma questa è una affermazione in palese contrasto con l´ormai consolidato diritto al rifiuto e alla sospensione delle cure, che in moltissimi casi è già stato esercitato con la consapevolezza che si trattava di una decisione che avrebbe portato alla morte. Nega il diritto di rifiutare trattamenti come l´alimentazione e l´idratazione forzata, escludendone il carattere terapeutico in contrasto con l´opinione delle società scientifiche e con l´evidenza della pratica medica. Riflette un fondamentalismo cattolico incomprensibile: il muro alzato dalle gerarchie vaticane contrasta clamorosamente, ad esempio, con l´apertura mostrata dalla Conferenza episcopale tedesca Varcate le Alpi, quel che lì è materia di legittimo dibattito pubblico improvvisamente diventa questione di fede?

È bugiarda, perché il suo titolo – che si richiama al consenso informato, all´alleanza terapeutica tra medico e paziente, alla rilevanza delle dichiarazioni fatte dalla persona per decidere consapevolmente sul come morire – è clamorosamente contraddetto dal contenuto delle singole norme. Il consenso della persona è sostanzialmente vanificato, perché le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante e non possono riguardare questioni essenziali come quelle dell´alimentazione e dell´idratazione forzata. L´alleanza terapeutica si risolve nello spostamento del potere della decisione tutto nella direzione del medico. Le «dichiarazioni anticipate di trattamento» sono vere macchine inutili, frutto di un delirio burocratico che impone faticose procedure alla fine delle quali vi è il nulla, visto che sono prive di ogni forza vincolante.

Siamo di fronte ad una vera "legge truffa", ad un testo clamorosamente incostituzionale. Legittimi punti di vista non possono essere trasformati in norme che si impongono alla volontà delle persone violando i loro diritti fondamentali. La discrezionalità del legislatore, in questi casi, è esclusa esplicitamente dall´articolo 32 della Costituzione: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E la Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto della persona di «disporre del proprio corpo»; ha severamente escluso che il legislatore possa arrogarsi il ruolo del medico e dello scienziato: e soprattutto ha affermato in modo nettissimo che l´autodeterminazione è un "diritto fondamentale" della persona. Proprio quell´autodeterminazione che il voto della Camera vuole cancellare.

Questo scempio si sta consumando nel più assoluto silenzio. Perché l´opposizione, oltre ad impegnarsi in una purtroppo vana battaglia di emendamenti, non ha praticato nemmeno per un minuto un ostruzionismo che avrebbe almeno avuto la funzione di informare l´opinione pubblica del gravissimo scippo che si sta consumando a danno di tutti? Il Pd continua a rimanere pr igioniero delle sue divisioni interne, che sono divenute un ostacolo alla cultura e alla ragione? Perché persiste il timore di dispiacere alle gerarchie vaticane, non al ricco e aperto mondo dei cattolici? Perché, soprattutto, a nulla è servita la lezione delle elezioni amministrative e dei referendum che mostrano una società viva, reattiva, alla quale bisogna fare appello tutte le volte che sono in questione i diritti fondamentali delle persone?

Ricordo una volta di più Montaigne: «la vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme». La legge deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d´un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all´irriducibile unicità di ciascuno. Quando ciò è avvenuto, libertà, dignità e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso «la rivoluzione del consenso informato» nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell´esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L´autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle «protettive». Riconoscere l´autonomia d´ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente.

Abbiamo assistito in questi giorni ad un dibattito sulla cancellazione delle Province intriso di demagogia e di superficialità.

I cittadini e le imprese ci chiedono di riformare con coraggio la pubblica amministrazione per renderla più snella ed efficiente e per consentire al Paese riforme ormai non più rinviabili. Tutto ciò è tema che riguarda seriamente il Partito Democratico e la sua capacità di collocarsi in modo convincente sul terreno delle riforme, spiegando ai cittadini ciò che intende fare e soprattutto ciò che farà al governo del Paese. Per questo la scelta del Partito di non sostenere l’ipotesi demagogica dell’Idv e dei centristi, volta solo all’incasso di un consenso a breve, ci convince.

Di fronte alla presa di posizione di autorevoli esponenti del nostro partito, per “amor di verità” crediamo di dover richiamare il nostro programma elettorale del 2008, che come Presidenti di Provincia abbiamo condiviso e che prevedeva l’eliminazione entro 1 anno di tutti gli ATO, settoriali e non, attribuendo le loro competenze alle Province. Si prevedeva inoltre l’eliminazione delle Province là dove si costituiranno le aree metropolitane.

Mai, come Presidenti di Provincia, abbiamo attestato l’associazione della quale facciamo parte, su posizioni di difesa acritica dell’attuale sistema istituzionale.

Crediamo però che un grande partito abbia il dovere di spiegare ai cittadini quale Paese ha in mente. Peraltro, mentre ragioniamo di tutto ciò, il Parlamento si appresta ad approvare la Carta delle Autonomie, testo fondamentale per l’attuazione del federalismo, perché in esso vengono definite le funzioni fondamentali di Comuni e Province; in pratica il “chi fa che cosa” nel sistema delle autonomie locali. Le Associazioni delle autonomie e le Regioni hanno suggerito soluzioni diverse, ognuna a difesa del livello di governo che rappresentano, ed il Governo ha compiuto una difficile mediazione. Siamo sicuri che quel testo non debba essere più preciso per evitare ogni sovrapposizione di competenze, definendo con esattezza il mestiere di ciascuno, per rendere la vita più semplice ai cittadini e alle imprese, e rendere possibili significativi risparmi, semplicemente evitando che tutti facciamo le stesse cose? E, visto che si parla solo di Comuni e Province, non è il caso che le Regioni facciano la stessa cosa, evitando di distribuire in modo irrazionale o, ancor peggio, di trattenere, funzioni che possono essere conferite agli enti più vicini ai cittadini, così che possano avere finalmente, per una loro esigenza, un solo interlocutore?

E allora qualche domanda è legittima.

L’abolizione delle Province porta con sé l’abolizione dei capoluoghi e quindi l’eliminazione di prefetture, questure, uffici decentrati dello Stato e delle Regioni?

Si vuole cioè concentrare il potere e l’economia pubblica in venti città e non più in cento città italiane?

Si vogliono eliminare soltanto le Province e lasciare organizzati lo Stato e le Regioni come adesso e quindi, di fatto, spostare a livello Regionale compiti, funzioni e personale, vista la oggettiva difficoltà di trasferire ai Comuni competenze di area vasta?

Se fosse così 50.000 dipendenti residenti in quasi tutti gli oltre 8.000 comuni italiani, che svolgono per la gran parte funzioni legate al territorio, rimarrebbero irrimediabilmente nelle Province e le Regioni non potrebbero far altro che costituire agenzie, società e sovrastrutture con costi facilmente immaginabili.

Al di là della demagogia è arrivato il tempo delle proposte serie. Su di esse i Presidenti di Provincia saranno al tavolo di chi vuole riformare profondamente l’Italia: presto, bene e con coraggio, senza posizioni pregiudiziali e pronti a condividere scelte che riguardino anche e soprattutto le Province. Quello che non è tollerabile è la continua delegittimazione di rappresentanti delle istituzioni, eletti dai cittadini e che in trincea si confrontano quotidianamente con le difficoltà che stiamo attraversando. Al Partito Democratico chiediamo di scegliere subito la strada da percorrere, strada di riforme profonde che può e deve riguardare tutti i livelli istituzionali del Paese. Il centrodestra in lunghi anni di governo non ne è stato capace, sta a noi dimostrare che riformare le istituzioni seriamente è possibile.

I Presidenti di provincia Pd dell’Unione delle province d’Italia: Antonio Saitta (Torino), Nicola Zingaretti (Roma), Fabio Melilli (Rieti), Andrea Barducci (Firenze), Beatrice Draghetti (Bologna), Giovanni Florido (Taranto), Piero Lacorazza (Potenza).

Una domanda:

ma le Città metropolitane non avrebbero dovuto essere costituite (e i confini amministrativi delle province sul territorio residuo ridisegnate) fin dal 1992?

Meno di mille euro al mese, meno che a inizio carriera, per quasi un giovane su due quando smetterà di lavorare. La relazione del Censis per Unipol traccia un quadro preoccupante dell’Italia che verrà.

Un’Italia di anziani poveri. Con il 42% dei dipendenti, oggi giovani fra i 25 e i 34 anni, che intorno al 2050 andrà in pensione con meno di mille euro al mese. I lavoratori in questa fascia di età sono attualmente il 31,9%, e guadagnano una cifra inferiore a mille euro. Ciò significa che molti di loro si troveranno ad avere dalla pensione pubblica un reddito addirittura più basso di quello che avevano a inizio carriera. E la previsione riguarda i più fortunati, cioè i 4 milioni di giovani oggi inseriti nel mercato del lavoro con contratti standard. Poi ci sono un milione di giovani autonomi o con contratti atipici e 2 milioni che non studiano né lavorano. Perchè, come ha certificato l’Istat solo qualche giorno fa, il tasso di disoccupazione giovanile è da tempo ormai sul 30%.

È questo il quadro che emerge dai risultati del primo anno di lavoro del progetto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali» realizzato da Censis e Unipol. Si parte da un assunto di base: il nodo pensioni si fa sempre più complicato. L’Italia resta uno dei paesi più vecchi e longevi al mondo. Nel 2030 gli over 64 anni saranno più del 26% della popolazione: ci saranno 4 milioni di persone non attive in più e 2 milioni di attivi in meno. Il sistema pensionistico, sottolinea il rapporto, dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità. Se le riforme delle pensioni degli anni ‘90 hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine, oggi a preoccupare è il costo sociale della riduzione delle tutele per le generazioni future. A fronte di un tasso di sostituzione del 72,7% calcolato per il 2010, nel 2040 i lavoratori dipendenti beneficeranno di una pensione pari a poco più del 60% dell’ultima retribuzione (andando in pensione a 67 anni con 37 di contributi); mentre i lavoratori autonomi vedranno ridursi il tasso fino a -40% (a 68 anni con 38 anni di contributi).

ZERO TUTELE

Dati che dovrebbero preoccupare, e molto, ma che invece non suonano affatto come un campanello d’allarme per il governo. Non per il ministro al Welfare Maurizio Sacconi, almeno: «Proiezioni di questo tipo credo che siano molto opinabili, scontano ipotesi di percorsi lavorativi che nessuno può disegnare in un tempo di così straordinari cambiamenti», commenta. E punta sulla «necessità di forme di previdenza e assistenza complementari». «Il tema c’è ed ha una dimensione importante», replica l’amministratore delegato di Unipol, Carlo Cimbri. «Una volta continua - il tasso di sostituzione era pari al 90% dell’ultima retribuzione. Oggi al 70% e calerà ancora». Fondamentale, quindi, anche per lui «trovare forme di integrazione della previdenza». Ma non è così semplice. La relazione del Censis, dicono Cgil, Cisl e Uil, è solo la conferma di un allarme lanciato più volte. «Tutti gli studi - spiega Susanna Camusso, leader Cgil - dicono che, a sistema invariato, con una crescita così bassa e sei i punti di Pil persi negli ultimi anni, le pensioni del futuro saranno troppo basse. E non vale - aggiunge - scaricarle in termini di responsabilità sui giovani, dicendo che non si fanno subito la previdenza complementare; il lavoratore precario non ha le risorse per farlo». Dati che «fanno rabbrividire» per il Pd, che proporrà come emendamento alla manovra la proposta che consente di trasferire le annualità di contribuzione versate oltre quelle necessarie per raggiungere l’età pensionabile dai genitori ai figli, già presentata alla Camera, come «nuovo patto generazionale».

«Complementare» (leggi: privata), peraltro, oltre alla previdenza rischia di essere sempre di più pure la sanità. L’indagine Censis parla anche di questo: le famiglie spendono in media mille euro l’anno per visite mediche private, fino a 1.400 euro se qualcuno ha bisogno del dentista. Aumentano quindi i servizi sanitari pagati di «tasca propria». Nell’ultimo anno solo il 19,4% delle famiglie ne ha potuto fare a meno, mentre oltre il 70% ha acquistato medicinali a prezzo pieno in farmacia, il 40% ha fatto ricorso a sedute odontoiatriche, il 35% a visite mediche specialistiche e più del 18% a prestazioni diagnostiche.❖

Immersa nella nube di «cupio dissolvi» che troppo spesso la acceca, la sinistra ha perso una formidabile occasione. Astenersi alla Camera, nel dibattito sul disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, è stato un errore imperdonabile. È come se l´opposizione, dopo aver trovato un prorompente e promettente varco politico dentro la società italiana che ha votato alle amministrative e ai referendum, gli avesse improvvisamente e inopinatamente voltato le spalle.

Dilettantismo? Opportunismo? Masochismo? Forse tutte e tre le cose. Sta di fatto che la politica, come la vita, è attraversata da fasi. L´esito della doppia tornata elettorale di maggio e di giugno imponeva una scelta inequivoca, che rendesse manifesta la capacità della sinistra di saper «leggere» la fase, e di saperla cogliere con tempestività e mettere a frutto con intelligenza. La fase suggerisce l´esistenza di un´opinione pubblica sempre più stanca delle menzogne di un governo mediocre e inaffidabile, e sempre più stufa delle inadempienze di una «Casta» ricca e irresponsabile. Il ddl sull´abolizione delle province era la prima opportunità utile, offerta soprattutto al Partito democratico, per dimostrare di saper stare «dentro la fase».

C´era in ballo una ragione tattica, innanzi tutto. Tra molti mal di pancia, l´altroieri il Pdl e la Lega hanno votato contro il testo proposto dall´Idv, rinnegando l´ennesima promessa tradita della campagna elettorale del 2008. La soppressione delle province era nel programma di governo del centrodestra, che ora se la rimangia allegramente, non solo rinunciando a cancellare le province esistenti, ma creandone di nuove. Sbarrargli la strada con un voto compatto di tutte le opposizioni avrebbe significato una quasi certa vittoria parlamentare, una clamorosa sconfitta della resistibile armata forzaleghista e un palese disvelamento delle sue contraddizioni interne.

Ma c´era in ballo soprattutto una ragione strategica. Il «movimento invisibile» che attraversa il Paese (secondo la felice metafora di Ilvo Diamanti) invoca da tempo un sussulto di dignità dall´establishment. Un taglio credibile ai costi della politica (tanto più di fronte all´ennesima burla prevista sul tema dalla manovra anti-deficit da 40 miliardi) resta uno dei temi più sensibili per una quota crescente di opinione pubblica, che subisce con disagio una condizione sociale sempre più dura e insicura e reagisce con indignazione di fronte ai privilegi sempre più intollerabili delle classi dirigenti. Auto blu, aerei blu, stipendi blu, pensioni blu. Tutto è blu, nel meraviglioso mondo del Palazzo.

Gli italiani chiedono alla politica efficienza, produttività, equità. Le misure appena varate dal ministro del Tesoro non gli offrono nulla di tutto questo. L´abolizione delle province era invece il primo test, sia pure collocato su un piano parzialmente diverso, per dare una risposta a questa domanda degli italiani. Il Pd quella risposta gliel´ha negata. E non ha capito che cogliere un «attimo» come questo è il modo migliore per evitare che monti ancora l´onda dell´antipolitica. È il metodo più efficace per contenerla, senza lasciarsi travolgere e poi essere costretti a subirla e a inseguirla. Com´è successo tante volte alla sinistra, dai girotondi di Nanni Moretti ai raduni di Beppe Grillo.

Ai riformisti non si richiede l´agio di lasciarsi «etero-dirigere» dalle masse, rifiutando la fatica necessaria di provare invece a guidarle. Il voto favorevole alla soppressione delle province poteva essere motivato senza cedimenti al populismo e al qualunquismo, perché la buona politica non deve mai ridursi a un´alzata di mano o alla x su una scheda. Il Pd aveva strumenti per inquadrare quel voto in uno schema di riordino complessivo dell´architettura istituzionale, dove non si punta a picconare a casaccio un sistema di autonomie locali codificato dalla Costituzione. Quello che non doveva fare è trincerarsi dietro la difesa di questo sistema, per giustificare la sua codina astensione. Ed è invece esattamente quello che ha fatto. Legittimando così i peggiori sospetti di chi vede in questa mossa malsana l´intenzione malcelata e maldestra di salvare le solite guarentigie e le solite poltrone.

Le province italiane sono 110. Costano al contribuente circa 17 miliardi di euro, cioè quasi la metà dell´importo della stangata a orologeria di Tremonti. Le presidenze di provincia occupate dal Pd sono 40, contro le 36 del Pdl, le 13 della Lega, le 5 dell´Udc. Tutti tengono famiglia. Ma se la sinistra non ha la forza e il coraggio di dimostrare agli italiani che non tutti sono uguali, la partita dell´alternativa non comincia nemmeno. Siamo fermi a Nenni: le piazze si riempiono, ma le urne si risvuotano.

Postilla

Ha ragione Giannini a denunciare la mancanza di coraggio della sinistra. Ma la sinistra (Giannini si riferisce alla sinistra parlamentare, cioè al PD) non ha sbagliato perché si è astenuta sulla proposta Di Pietro. Proposta che era anch’essa sbagliata, ancora più radicalmente, come è sbagliata la critica alla mancata abrogazione della provincia che è venuta da altre parti della “sinistra coraggiosa”, a cominciare dal suo più interessante rappresentante, Nichi Vendola. La sinistra, quella “senza coraggio” e quella coraggiosa, hanno sbagliato per un’altra ragione.

In realtà la denuncia di Giannini e la critica di Vendola dimostrano quanta distanza c’è tra la puntuale denuncia e critica di ciò che avviene sul territorio (consumo di suolo, frane e alluvioni, malfunzionamenti delle reti delle comunicazioni, della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della gestione dell’edilizia pubblica e privata, dell’organizzazione dei servizi di livello territoriale, dell’organizzazione del ciclo alimentare dell’uomo e così via) e la conoscenza degli strumenti mediante i quali quei malanni possono essere sanati.

In tempi nei quali l’attenzione della sinistra (e non solo) era meno miope e più colta, nei quali la strategia non era meno importante della tattica e non ne era schiava, si rifletté a lungo, in Parlamento e fuori, su due versanti paralleli: che cosa fare della provincia, e che cosa fare per risolvere alcuni problemi del territorio. Si trattava appunto dei problemi dai quali cominciavano a nascere quei malanni che ho sopra elencato: malanni che vengono deprecati quando si manifestano, e dei quali si dimostra di ignorare le cause e gli strumenti che permettano di rimuoverle.

Il legislatore di allora comprese ciò che quelli attuali (e i loro suggeritori) hanno dimenticato: che per governare efficacemente il territorio non bastano le competenze dei comuni e quelle delle regioni. Esistono problemi per i quali il comune è troppo piccolo e frammentato, e la regione troppo grande e lontana. Occorre, come in altri paesi, una dimensione intermedia alla quale affidare il governo di “area vasta” . Si tentò una strada in alcune regioni (il Piemonte, la Lombardia, l’Umbria tra gli altri), e in alcuni esperimenti a livello statale (la legge speciale per Venezia del 1973): si inventarono i “comprensori”. I comprensori non funzionarono anche perché, non essendo i loro organi eletti direttamente dai cittadini (allora si credeva fino in fondo alla democrazia, almeno a quella rappresentativa), non riuscivano a decidere quando gli interessi generali confliggevano con quelli del singolo comune. Allora si ebbe un’idea convincente: anziché inventare un nuovo ente elettivo di primo grado, ciò che implicherebbe una modifica della costituzione, perché non utilizzare, modificandone radicalmente competenze e organizzazione, un istituto esistente e allora poco utile, appunto la provincia? Così si fece, con la legge 142 del 1990, al termine di una lunga riflessione e sperimentazione.

Ma i tempi erano cambiati. Era cambiata la politica, era cominciata un’epoca di cui il caxismo è stato” la fase infantile”, il berlusconismo quella matura. La fiducia nella pianificazione, nel pubblico, nel “noi” era scemata. Nell’ombra affilavano i loro dentini i Lupi e i Brunetta. La sinistra era «parassitizzata» (per adoperare la metafora entomologica di Piero Bevilacqua) dall’ideologia neoliberista. La cultura urbanistica ufficiale invitava a praticare la “facilitazione” delle operazioni immobiliari. Anziché essere intelligentemente riformate per adempiere i loro nuovi compiti vennero utilizzate così come lo erano stato, regioni, comuni – e l’ampia e crescente pletora del mondo parastatale. Quasi dappertutto, ma non dappertutto: alcune lavorarono seriamente, nel silenzio dei media; e se il parlamento fosse ancora una cosa seria provvederebbe a studiarne l’operato, prima di discuterne l’eliminazione.

E allora, chiediamo a Massimo Giannini, a Nichi Vendola e agli altri, vogliamo risolvere il problema dando un segnale demagogico e illusorio con l’abolire le province? Oppure decidiamo di impegnare le nostre risorse (e magari, dove li abbiamo, i nostri poteri democratici) per riformarle davvero? Se alla domanda di pulire la politica e ridurne le spese rispondiamo con la demagogia e il pressapochismo, non andremo certo lontano. Aspettiamo risposte.

Vale la pena meditare su cosa significhi precisamente partito degli onesti, visto che a proporlo è stato il nuovo segretario del Pdl. ossia della formazione che sin qui non aveva la rettitudine come stella polare. Può darsi che Alfano abbia emesso un mero suono, un flatus vocis senza rapporto alcuno con la realtà, ma i realisti che credono nella consistenza delle parole hanno tutto l´interesse a ripensare vocaboli come onestà, morale pubblica, virtù politica. A meno di non essere incosciente, il ministro della Giustizia non può infatti ignorarlo: i passati diciassette anni non sono stati propriamente intrisi di probità (lui stesso ne è la prova vivente, avendo aiutato Berlusconi a inserire nella manovra economica un codicillo ad personam, che tutelando il premier dalla sentenza sul Lodo Mondadori nobilita a tutti gli effetti il concetto di insolvenza nel privato). Alle spalle abbiamo un´epoca corrotta, molto simile al periodo dei torbidi che Mosca conobbe fra il XVI e il XVII secolo, prima che i Romanov salissero al trono e mettessero fine all´usurpazione di Boris Godunov.

Meditare sull´onestà dei politici significa che da quest´epoca usciremo - se ne usciremo - a condizione di capire in concreto cosa sia la morale pubblica, e come la sua cronica violazione abbia prodotto una propensione al vizio quasi naturale, che va ben oltre la disubbidienza alle leggi. Soprattutto, significa guardare al fenomeno Berlusconi come a qualcosa che è dentro, non fuori di noi: la cultura dell´illegalità, i conflitti d´interesse vissuti non come imbarazzo ma come risorsa, non sono qualcosa che nasce con lui ma hanno radici più profonde, non ancora estirpate. Sono un male italiano di cui il premier è il sintomo acutizzato: chiusa la parentesi non l´avremo curato ma solo preteso d´averlo fatto. L´inferno non sono gli altri, ogni giorno lo constatiamo: dal dramma dei rifiuti a Napoli alle vicende che scuotono il partito di Bersani e D´Alema.

Il fatto è che ci stiamo abituando a restringere la nozione di morale pubblica. L´assimiliamo a una condotta certamente cruciale – l´osservanza delle leggi, sorvegliata dai tribunali – ma del tutto insufficiente. Perché esistano partiti onesti, altri ingredienti sono indispensabili: più personali, meno palpabili, non sempre scritti. Attinenti alle virtù politiche, più che a un dover-essere codificato in norme scritte. Precedenti le stesse Costituzioni.

Di che c´è bisogno dunque, per metter fine alla leggerezza del vizio che riproduce sempre nuovi boiardi e nuovi disastri trasversali come la monnezza napoletana e la corruttela? Gli ingredienti mancanti sono sostanzialmente due: una memoria lunga della storia italiana, e un´idea chiara di quelle che devono essere le virtù politiche a prescindere dalle norme scritte nel codice penale.

La memoria, in primo luogo. Non si parla qui di un semplice rammemorare. Le celebrazioni ci inondano e forse anche ci svuotano; esistono date che evochi continuamente proprio perché sono stelle morte. Per memoria intendo la correlazione stretta, e vincolante, tra ieri e oggi: ogni atto passato (come ogni omissione) ha effetti sul presente e come tale andrebbe analizzato. Diveniamo responsabili verso il futuro perché lo siamo del passato, di come abbiamo o non abbiamo agito. Il ragionamento di Tocqueville sull´individuo democratico vale anche per le sue azioni, specialmente politiche: la «catena aristocratica delle generazioni» viene spezzata, e lascia ogni anello per conto suo. Così come avviene per l´individuo, l´atto – sconnesso dalla vasta trama dei tempi – «non deve più nulla a nessuno, si abitua a considerarsi sempre isolatamente (...) Ciascuno smarrisce le tracce delle idee dei suoi antenati o non se ne preoccupa affatto. Ogni nuova generazione è un nuovo popolo (...) La democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo (a ogni azione) i suoi avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei: lo riconduce incessantemente a se stesso e minaccia di rinchiuderlo per intero nella solitudine del suo cuore».

La citazione si applica perfettamente alla calamità napoletana. Sono settimane che i leghisti sbraitano, negando la solidarietà con una città che precipita. Se la memoria funzionasse, non potrebbero. Dovrebbero dire, a se stessi e agli italiani, la verità: se Napoli e la Campania sono diventate un´immensa mefitica discarica di rifiuti tossici e non tossici, è perché il Nord da vent´anni ha perpetuato quello che Tommaso Sodano, ex senatore e oggi vice di de Magistris, chiama lo «stupro del Sud»: una «specie di guerra etnica, giocata con l´arma del rifiuto, alimentata dalla camorra, ma anche da una catena di falsificazione e di enti di controllo assenti». Il Nord è responsabile di quanto avviene a Sud, quali che siano le colpe delle amministrazioni campane. La sua industrializzazione ha prodotto rifiuti tossici smaltiti senza trattamento nel Sud, sancendo con la connivenza di clan camorristi la morte del Mezzogiorno, e avvelenando uomini, animali, fiumi, piantagioni (Tommaso Sodano, «La Peste«, Rizzoli 2010).

Il secondo ingrediente, essenziale, è la virtù personale del politico. Indipendentemente dal codice penale, essa dovrebbe escludere frequentazioni di mafiosi, connivenze con personaggi come Cosentino, assuefazione infine alla droga che è il conflitto d´interessi. Piano piano cominciamo a capire come mai, sul conflitto d´interessi berlusconiano, la sinistra non ha mai fatto nulla, anche quando governava: il conflitto era droga anche per lei. Come definire altrimenti il caso Franco Pronzato? Ecco infatti un uomo, vicinissimo ai vertici Pd, che nello stesso momento in cui agiva nel consiglio d´amministrazione dell´Enac (Ente nazionale per l´aviazione civile), era coordinatore nazionale del trasporto aereo nel Pd. Pronzato ha percepito tangenti sulla rotta Roma-Isola d´Elba e il suo corruttore, Morichini, ha fatto favori finanziari a D´Alema. «L´incarico pubblico assegnato senza neppure mascherare la sua finalità lottizzatoria viene notato ora solo perché Pronzato va in carcere», ha scritto Gad Lerner su «Repubblica« (30 giugno).

Lo scandalo esiste solo quando la magistratura interviene: qui è il male italiano che precede Berlusconi, e per questo è urgente pensare la morale pubblica. Il mondo si rimette nei cardini così: individuando il punto dove la legge non arriva, e però cominciano le indecenze, le cattive frequentazioni, la triviale leggerezza del politico. Non tutte le condotte sono perseguibili penalmente (il doppio incarico di Pronzato non è illegale) ma politicamente non denotano né probità né prudenza: due virtù fra loro legate. Si parla di giustizialismo, del potere dei giudici sulla politica. Se questo accade, è perché la morale pubblica ha come unico recinto la magistratura, e non anche la coscienza.

Borsellino ha detto, in proposito, cose che restano una bussola: «La magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire: ci sono sospetti, anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica (...) Però siccome dalle indagini sono emersi fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi». Se le conseguenze non sono state tratte, «è perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza». (La presenza di grossi sospetti) «dovrebbe quantomeno indurre, soprattutto i partiti politici, non soltanto a essere onesti ma a apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche non costituenti reati». Era questo il fresco profumo di libertà che augurava all´Italia, prima d´esser ammazzato. Non era flatus vocis, il suo, anche se è stato preso per tale da un´intera classe politica.

Dopo Berlusconi, la morale pubblica sarà da reinventare: non uscirà come Afrodite dalle acque. S´imporranno farmaci forti, perché gli italiani osino fidarsi del Politico. Oggi non si fidano: i No-Tav pacifisti di Val di Susa dicono questo. Possiamo sprezzarli, possiamo denunciare la sindrome Nimby (Not In My Backyard, «non nel mio cortile»). Ma non senza dire, prima, che tutti soffrono la stessa sindrome, a cominciare dal Nord di Bossi.

La Cgil è in campo. Minato 


di Loris Campetti 


Contratti. Quelli nazionali si possono derogare, la «tregua» sospende il diritto di sciopero e i lavoratori non possono più votare accordi e delegati. Il direttivo approva l'accordo con Cisl, Uil e Confindustria con 117 sì, 21 no e un astenuto. Ora la consultazione degli iscritti. Fiom e minoranza denunciano una svolta pericolosa per democrazia e i diritti dei lavoratori

Il direttivo nazionale della Cgil ha approvato a larga maggioranza il dispositivo con cui si sottoscrive l'accordo siglato con Cisl, Uil e Confindustria con cui si modificano profondamente le norme che regolano democrazia e rappresentanza nei posti di lavoro, la natura e il valore dei contratti nazionali e persino alcuni diritti fondamentali, come quello di sciopero. 117 voti favorevoli, 21 contrari e un solo astenuto sanciscono un cambiamento di stagione e - secondo chi si è opposto alla firma - la natura stessa del sindacato. Dato l'investimento fatto dalla segreteria e personalmente da Susanna Camusso sul «ritorno alla normalità» della Cgil nel rapporto con le altre confederazioni chiamate fino a ieri «complici» e con la Confindustria, il voto di ieri è stato di fatto un «voto di fiducia» alla segretaria generale. Anche i dubbi e i mal di pancia, che non mancano, sono stati messi da parte e le percentuali raccolte dai sì e dai no rispecchiano gli schieramenti usciti dal congresso nazionale.

Ora, il testo dell'accordo insieme al dispositivo approvato che lo «interpreta» saranno messi a disposizione di tutti gli iscritti alla Cgil che entro il 17 di settembre dovranno esprimersi anch'essi con un voto. Sembra escluso che Cisl e Uil accettino una consultazione generale dei loro iscritti e a nessuno - tranne alle minoranze Cgil - è venuto in mente di consegnare la decisione finale a tutti i lavoratori interessati, con o senza tessere sindacali. Il «perimetro» interessato, cioè gli iscritti alla Cgil che potranno dire la loro, comprende i dipendenti delle aziende che aderiscono a Confindustria. Quel che gli iscritti non potranno conoscere è il documento della minoranza congressuale, perché nelle assemblee nelle fabbriche e negli uffici il loro documento non avrà cittadinanza. In teoria, il segretario della Fiom Maurizio Landini dovrebbe andare alla Fiat o in Fincantieri a difendere la posizione contro cui ha votato e si è battuto. O forse alle assemblee la relazione sarà fatta solo dai dirigenti fedeli alla linea. Sembra di leggere Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler: «La vostra fazione, cittadino Rubasciov, è stata battuta e disfatta. Volevate spezzare il Partito, pur dovendo sapere che una scissione nel Partito avrebbe significato la guerra civile. Sapete dello scontento fra i contadini, che non hanno ancora imparato a comprendere il senso dei sacrifici imposti loro. In una guerra che può scoppiare da qui a qualche mese, tali correnti possono portare a una catastrofe. D'onde la necessità imperiosa per il Partito di essere unito. Esso deve essere come fuso in una colata, tutto cieca disciplina e fiducia assoluta. Voi e i vostri amici, cittadino Rubasciov, avete creato una frattura nel Partito. Se il vostro pentimento è sincero, dovete aiutarci a sanare questa frattura. Come vi ho detto, è l'ultimo servizio che il Partito vi chiede».

A decidere le modalità della consultazione saranno le categorie interessate (quelle del «perimetro») e le assemblee dovranno svolgersi entro il 17 di settembre, per consentire l'elaborazione dei risultati non oltre il 20 e, dunque, la formalizzazione della firma della Cgil in calce all'accordo. Susanna Camusso ha sostenuto il testo sottoscritto con la motivazione che finalmente si chiude la stagione degli accordi separati. Tesi contestata dalla Fiom e dalla minoranza, secondo cui l'unica garanzia per evitare che si continuino a firmare contratti e accordi di parte è il diritto di voto di tutti i lavoratori interessati. È proprio questo uno dei punti critici dell'accordo, un punto che concerne la democrazia: mentre si raccolgono le firme per un referendum che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, questo diritto viene negato ai lavoratori. «Forse i lavoratori non sono cittadini? si chiede il segretario generale della Fiom Maurizio Landini. Il portavocie della «Cgil che vogliamo», Gianni Rinaldini, aveva chiesto una gestione «più democratica» della consultazione tra gli iscritti ma è stato respinto con perdite.

Dal principio «una testa un voto» si passa alla mediazione sindacale ma, sostiene Susanna Camusso, «c'è sempre una relazione con i lavoratori e la loro rappresentanza». Più difficile invece sostenere che il contratto nazionale non si tocca, visto che le deroghe sono previste in tutti i casi di crisi, ristrutturazione e investimenti. Cioè sempre. Inoltre, ricorda Rinaldini, se nel 2009, quando fu siglato un accordo separato sul sistema contrattuale da tutti tranne la Cgil, si fossero applicate le regole previste con l'accordo unitario varato ieri dal direttivo, anche senza la firma della Cgil che non ha il 50% più uno della rappresentanza sarebbe passato e avrebbe avuto valore generale. La «tregua» (il divieto di sciopero), sostiene il dispositivo, impegna «soltanto» le organizzazioni firmatarie dell'accordo e non i singoli lavoratori.

Ieri di fronte alla sede nazionale della Cgil, in Corso d'Italia a Roma, un gruppo di delegati «autocovocati» ha manifestato contro l'accordo con uno striscione in cui era scritto «No al patto di resa finale, il sindacato non si deve suicidare». In alcune fabbriche, in Toscana e in Lombardia, c'è anche chi ha scioperato contro l'accordo unitario.

L'ex segretario generale Guglielmo Epifani ha dato il suo appoggio alla scelta della segreteria, al contrario di Giorgio Cremaschi che ha messo in fila tutte le ragioni di un voto contrario al direttivo.

Gallino: «Così si va a destra»

intervista di Francesco Paternò

Il sociologo: «Contratto sempre derogabile, la "tregua" è un colpo ai diritti»

Il sociologo Luciano Gallino non ha dubbi: l'intesa sul lavoro firmata dalla Cgil il 28 giugno scorso «rappresenta uno spostamento a destra». E continua a pensare anche che alla Fiat non dispiacerebbe avere un «pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia».

L'accordo interconfederale con la Confindustria riavvia un processo di contrattazione unitario che pare però preoccupante. Il contratto nazionale non diventa così sempre derogabile?

In effetti il secondo comma dell'art. 7 dell'accordo prevede che in presenza di «situazioni di crisi» o di «investimenti significativi» si possono modificare gli istituti del CCNL. Sia le une che gli altri possono venire definiti in cento modi diversi, in specie nelle piccole e medie imprese. Perciò, di fatto, in tema di prestazioni lavorative, orari e organizzazione del lavoro, il CCNL è derogabile praticamente senza limiti.

L'accordo non toglie quasi definitivamente la possibilità per i lavoratori di votare intese firmate dai vertici sindacali?

Non mi pare vi siano dubbi. Quando un accordo aziendale è firmato da una rappresentanza certificata, i lavoratori non hanno più la possibilità di esprimere il loro consenso o dissenso in merito ad esso. In astratto, potrebbero anche organizzarsi per esprimerlo, ma stando all'accordo interconfederale esso non avrebbe alcun valore. Paradossalmente, il principio per cui i lavoratori hanno comunque il diritto di esprimersi mediante il voto è ribadito con particolare forza dallo statuto della stessa Cgil.

Secondo lei, perché la Cgil oggi ha firmato quel che nella sostanza è la stessa cosa che non ha firmato nel 2009?

Da anni la Cgil ha tutti contro: le altre due confederazioni, il governo, il 90 per cento degli accademici che si occupano di lavoro, i media, perfino gran parte dei politici del centro-sinistra. L'accordo in parola rappresenta senza dubbio uno spostamento verso destra, ma in un contesto politico e culturale che nonostante la crisi, o meglio proprio per sfruttare la crisi, appare sempre più virare a destra, un'organizzazione così vasta e complessa non può non avvertire anche al proprio interno spinte per portarsi su posizioni meno distanti da quelle dominanti.

Quale è il suo giudizio sulle Rsa?

I membri delle Rsu sono eletti dai lavoratori. I membri delle Rsa sono designati dai sindacati, anche se minoritari. In altre parole le Rsu sono una forma, imperfetta quanto si vuole, di democrazia diretta o partecipativa. Le Rsa sono un'ennesima forma di democrazia per delega dall'alto. Sono per la prima forma di democrazia.

La centralità che assume sempre di più la contrattazione aziendale non rischia di accentuare la tendenza alla frammentazione del sistema industriale italiano?

Su questo non c'è il minimo dubbio. Un sistema che è già di per sé il più frammentato della Unione europea a 17 ed è molto meno organizzato, ad onta delle infinite discussioni su distretti in forme di cooperazione interaziendali come avviene invece con i «poli di competitività» in Francia, le «reti di competenza» in Germania, ecc.

Come valuta la «tregua», in sostanza la sospensione del diritto di sciopero?

E' un altro colpo inferto alla libertà di associazione e di azione sindacale.

Cosa prevede nelle relazioni fra Fiat e Fiom, se il prossimo 18 luglio il tribunale desse ragione al sindacato sul contratto di Pomigliano?

Ho l'impressione che alla Fiat non spiacerebbe avere un pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia. Il suo centro produttivo è ormai in Brasile e in Messico, dove a Toluca vengono costruite sia la 500 che i macchinoni Chrysler da vendere in Italia e in Europa con la placchetta Lancia o Alfa Romeo. Nel 2010 la Fiat ha prodotto in Italia meno auto di quante non ne abbiano prodotte al loro interno Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca e Serbia. Ritornare ad essere, dall'ottavo, anche solo uno dei primi tre costruttori è un impegno di enorme portata. Se ai lavoratori italiani e alla Fiom potesse venire appioppata definitivamente l'accusa di essere inaffidabili, poco produttivi, renitenti alle forme moderne di organizzazione del lavoro, il disegno americanocentrico del Lingotto ne sarebbe facilitato.

Spostare la Consob da Roma a Milano. A più riprese la Lega Nord è tornata alla carica con questa proposta, presentata alla Camera lo scorso 23 giugno. L'ultima volta lo ha fatto l'excapogruppo del Carroccio a Palazzo Marino Matteo Salvinialla vigilia delle elezioni comunali di Milano,poi perse nettamente dal centro-destra. In linea di principio avrebbe senso che l'autorità di controllo dei mercati avesse sede nella città della Borsa. La proposta leghista ha tuttavia incontrato dure critiche da parte di addetti ai lavori e sindacati. Questi ultimi per esempio hanno stimato in 50 milioni di euro l'aggravio che il trasferimento comporterebbe per il bilancio della Consob.



La classifica

A supporto dei contrari allo spostamento al nord della sede principale dell'authority arriva un recente studio di Simon-Kucher & Partners. La società di consulenza ha stilato una classifica delle città italiane in base alla capitalizzazione delle società che vi hanno sede. Dallo studio, che prende in esame 38 società quotate del paniereFTSE MIB(mancanoTenaris, che ha sede in Lussemburgo, ed Stm, che ha base in Svizzera) emerge che la capitalizzazione delle società che hanno sede a Roma è di gran lunga superiore a quella delle milanesi. In base alla chiusura di borsa del 26 maggio 2011, quella delle romane ammonta a 175 miliardi e 340 milioni di euro mentre quella delle milanesi è di 43 miliardi e 150 milioni.



Il peso delle big

La ragione di tale sproporzione sta nel fatto che a Roma hanno sede le due maggiori società quotate italiane:Eni (oltre 65 miliardi di market cap) edEnel (43,73). A queste poi si aggiunge un colosso del calibro diUnicredit(29 miliardi e 720 milioni di capitalizzazione). La banca ha ufficialmente sede legale in via Alessandro Specchi 16 a Roma e non, come in molti potrebbero pensare, nella più nota Piazza Cordusio a Milano ,dove invece c'è quella operativa. Altre romane sonoAtlantia(9,66 miliardi), Bulgari(3,68),Enel Green Power(9,25),Finmeccanica(4,94),Lottomatica(2,45) eTerna(6,75).



Milano e Torino

La quotate di maggior peso a Milano sonoLuxottica Group(10 miliardi e 310 milioni) eTelecom Italia(12,99 mld). AggiungendoMediaset,Mediobanca,Pirelli & C,Banca Popolare di Milano; AzimuteImpregilosi arriva a 43 miliardi e 150 milioni di euro. Milano è distanziata poco da Torino, la città diFiat(7,72 miliardi)Fiat Industrial(10.06) e della controllanteExor(3,64). Con la banca Intesa Sanpaolola capitalizzazione delle torinesi arriva a 41 miliardi e 690 milioni di euro.



Al terzo posto San Donato Milanese

Al terzo posto di questa classifica c'è San Donato Milanese, comune alle porte di Milano dove sorge Metanopoli, la "città del metano" voluta da Enrico Mattei nel secondo dopoguerra per i lavoratori dell'Eni. Qui hanno sedeSaipemeSnam Rete Gasche insieme fanno 30 miliardi e 290 milioni di euro di capitalizzazione. Nella classifica compaiono anche piccoli centri come Sant'Elpidio al Mare (provincia di Fermo) dove ha sede laTod's(2,75 miliardi di market cap).

MILANO - Le province, per ora, non si toccano. Con i voti contrari del Pdl e la decisiva astensione del Pd, la Camera dice infatti «no» alla proposta di legge sulla loro soppressione presentata dall'Idv. Un risultato che accende la polemica all'interno delle opposizioni, visto che non solo il partito di Antonio Di Pietro ma anche il Terzo Polo ha invece votato a favore.

I NUMERI - Più in dettaglio, la Camera ha respinto innanzitutto il mantenimento del primo articolo del testo, quello che cancellava le parole «le province» dal Titolo V della Costituzione (225 i voti contrari, 83 quelli a favore, 240 gli astenuti). Poi, è stata bocciata l'intera proposta di legge dell'Idv.

LA POLEMICA - «Si è verificato un tradimento generalizzato degli impegni e dei programmi elettorali fatti da destra a sinistra - attacca Di Pietro -. Tutti hanno fatto a gara nel far sognare gli italiani sul fatto che si sarebbe tagliata la "casta" eliminando le province e poi non hanno mantenuto gli impegni. In aula si è verificata una maggioranza trasversale: la maggioranza della "casta"». «Mi dispiace molto perché il Pd ha perso l'occasione per fare una cosa saggia, visto che se avessero votato a favore il governo sarebbe andato in minoranza» rincara la dose il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Il Pd risponde con Pier Luigi Bersani: «Non ci facciano per favore tirate demagogiche, noi abbiamo una nostra proposta che prevede di ridurre e accorpare le Province ma bisogna anche dire come si fa, perché le Province gestiscono un certo numero di cose importanti, come ad esempio i permessi per l'urbanistica».

Postilla

La proposta di legge costituzionale dell'Idv proponeva la semplice cancellazione delle province dalla Costituzione, rinviando a una futura legge la definizione degli istituti e strumenti che avrebbero dovuto sostiituirle. Qui gli argomenti con cui Di Pietro ha motivato la richiesta di cancellazione dalla Costituzione delle province quali livelli di governo della Repubblica, quali sono oggi insieme allo stato, alle regioni, alle aree metropolitane (?) e ai comuni. Li si mettano a confronto con il dibattito politico-culturale che si svolse in preparazione alla legge sugli enti locali, soprattutto in relazione ai problemi di assetto urbanistico e territoriale di area vasta. Ma le questioni di merito, soprattutto quando riguardano l'assetto del territorio, interessano poco. Salvo piangere e protestare dopo, quando il territorio si ribella.

Il tema della libertà in Rete attraversa il mondo, mobilita ovunque il popolo di Internet e oggi troverà una sua particolare manifestazione a Roma con una "notte bianca" per protestare contro un provvedimento dell´Autorità per la garanzia nelle comunicazioni in materia di diritto d'autore.

Provvedimento che potrebbe essere approvato domani. Il punto chiave della delibera riguarda il potere che l´Agicom assumerebbe di oscurare, anche in via cautelare, con un semplice procedimento amministrativo e senza le necessarie garanzie, l´accesso a siti e servizi web per presunte violazioni del diritto d´autore.

Bisogna dire subito che il modello tradizionale del diritto d´autore sta strettissimo alla rete, ne ignora le caratteristiche. Un legislatore consapevole dovrebbe in primo luogo prendere atto di questo dato di realtà, partire dalla premessa che la Rete è un luogo di condivisione del sapere, che il diritto di manifestazione del pensiero ha trovato strade nuove, sì che provvedimenti puramente repressivi legati ai vecchi schemi concretamente possono diventare uno strumento che, con il pretesto della tutela del diritto d´autore, introducono una nuova e inammissibile forma di censura.

Non si nega la necessità di dare tutele alla creazione artistica, di perseguire i comportamenti illegali. Ma non si può entrare nel futuro con la testa rivolta al passato. Abbarbicati a un modello di diritto d´autore di cui pure i liberisti contestano ormai l´efficienza, non vogliamo renderci conto che oggi il vero tema è quello che Lawrence Lessig ha chiamato "il futuro delle idee" nel tempo di Internet, legato alla diffusione delle tecnologie digitali, alla generalizzazione delle pratiche di condivisione del sapere, alle nuove modalità di creazione rese possibili dalla Rete. E ricordiamo pure che due anni fa il premio Nobel per l´economia è stato attribuito a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi sulla conoscenza come bene comune, e che qualche settimana fa all´Onu è stato presentato un documento che definisce l´accesso a Internet come un diritto fondamentale d´ogni persona.

Da qui bisogna partire, come fa, ad esempio, il "programme numérique" appena presentato dal Partito socialista francese, che indica come obiettivi l´abrogazione della legge Hadopi (che ha finalità censorie analoghe a quelle della delibera dell´Agicom), la fine della "guerra alla condivisione" dei contenuti presenti su Internet, l´accettazione dello scambio dei beni culturali al di fuori del mercato, nuove forme di gestione dei diritti degli autori. Si condividano o no questi obiettivi, e le specificazioni che li accompagnano, è comunque evidente che si impone un cambiamento di registro per affrontare il tema della conoscenza in Rete, partendo proprio dalla premessa che siamo di fronte alla necessità di inventare nuove forme giuridiche, come già sta avvenendo, ad esempio attraverso la possibilità dell´autore di gestire la propria opera con la tecnica dei "creative commons" (cinque milioni di casi anche in Italia).

L´Agicom deve prendere atto di tutto questo, rinunciando alla frettolosa approvazione di regole censorie e aprendo una vera consultazione in materia. Ma il punto centrale di una vera riflessione collettiva deve essere un altro e partire da un interrogativo molto semplice. Si può ammettere che in una materia cruciale per l´assetto delle libertà e dei diritti, per lo sviluppo complessivo e le dinamiche della società, le regole vengano da una autorità indipendente? Questo è materia di stretta competenza del Parlamento, che non può sfuggire ad una responsabilità davvero di natura costituzionale. Inammissibile, comunque, è la pretesa di imporre sanzioni con un semplice provvedimento amministrativo quando sono in questione diritti fondamentali, cancellando una competenza propria della magistratura, come prevede la Costituzione e come ha ricordato in Francia il Conseil constitutionnel, dichiarando illegittima una norma che affidava ad una autorità amministrativa, e non ai giudici, la competenza in materia.

Non possiamo dire che la libertà in Rete è un bene prezioso, con una scappellata alle primavere arabe, e poi accettare spensieratamente logiche che possono ridurre al silenzio chi si esprime su Internet.

Ieri ho partecipato alla manifestazione in Val di Susa. Eravamo in migliaia, a manifestare pacificamente il nostro dissenso. Sui giornali e dalla politica solo menzogne Sono appena rientrato dopo 6 ore di marcia a Chiomonte. Incredibile, un serpente umano colorato e festante proveniente da tutta Italia percorreva i boschi verdeggianti della media Valsusa in una giornata calda e luminosissima. La stima minima è di 50.000 persone, quella massima 100.000, fate voi... Statale del Monginevro bloccata e autostrada pure.

In queste ore ancora si sparano lacrimogeni, un teatro osceno per un Paese civile nel museo archeologico del villaggio neolitico della Maddalena di Chiomonte, che la polizia ha usurpato come suo quartier generale. Lì, nel punto di contatto tra manifestanti e poliziotti io non sono stato, e qualche ferito c'è, qualche sasso è volato, qualche episodio da deplorare può darsi che ci sia, ma aspettiamo a parlare quando avremo sentito i racconti e visto i video di chi era lì... Il 412 della polizia ha volato sopra di noi come fossimo stati in Afghanistan, dalle 8 alle 18 almeno, e sono 100 euro al minuto... io non ci sto, è uno scenario surreale per aprire un cantiere.

Ciò che vi vorrei dire a caldo è:

1) già ora le prime pagine dei giornali titolano di guerriglia, di back bloc e altre amenità simili: si tratta di elementi del tutto marginali della giornata, ciò che conta, e che doveva essere oggetto dei titoli, è l'enormità della gente normale qui confluita, cittadini italiani ed europei, famiglie con bambini, pensionati, professionisti, docenti, medici, artigiani, studenti che da tutta italia (pullman da Pisa, Macerata, Udine, Bologna, Genova...) hanno affrontato levatacce e disagi, per venire a passare una domenica di civile indignazione insieme a noi. Chapeau a tutti loro, che dimostrano come vi sia una presa di coscienza sempre più vasta del problema dei beni comuni e una voglia individuale di "contare" qualcosa sul piano delle scelte. Mi sembra che politica e giornalisti siano terribilmente indietro, impegnati a proteggere i loro privilegi o tremebondi a sperare che il loro servilismo porti una promozione sulla scala sociale. Ma la gente sta correndo più veloce di loro. Ho parlato con centinaia di persone e ne ho tratto una grande impressione di competenza, di coraggio, di onestà, di passione. Altro che black-bloc!

2) tutti hanno ben chiaro, per vivere ogni giorno sulla propria pelle altre simili usurpazioni sui loro territori, che le priorità per il Paese sono altre, che nessuno vuole questi monumenti faraonici ma desidera interventi semplici, evidenti e efficaci sulla quotidianità. Tutti hanno ben chiaro che i tempi stanno cambiando in fretta. Nelle ore di marcia sotto il sole, i discorsi che sentivo fare erano dei rapporti dell'Asia con il mondo occidentale, della crisi delle risorse, dell'opposizione economia capitalistica-benessere, dell'impossibiltà della crescita continua, della crisi petrolifera... insomma, un campione interessante di pubbliche riflessioni sul presente e sul futuro.

3) speriamo che ognuno di loro stasera su facebook dica: "c'ero anch'io e vi spiego quali menzogne i giornali e la tv diffondono su di noi e su questa faccenda".

4) fino al 12 luglio 1980 non c'era il traforo autostradale, quindi sulla ferrovia attuale passavano tutte le merci e i passeggeri per la Francia, inclusa la navetta per le automobili Bardonecchia-Modane. Nel 1980 eravamo forse all'età della pietra? La ferrovia attuale bastava allora, basterebbe a maggior ragione in un mondo futuro con meno risorse. Ma Chiamparino è al delirio sviluppista e vede il Tav Valsusa come una fede: o il Tav o la terribile decrescita! Allora Tav sia. Aggiungo che un'opera di questo genere avrebbe un overhead di sistema enorme rispetto a opere più semplici e resilienti. In un'epoca postpicco petrolifero, l'imponente infrastruttura tecnologica ed energetica necessaria a garantire la sicurezza di un tunnel di 54 km con temperature interne di oltre 50 C, collasserebbe dopo pochi mesi, anche solo per via dei costi. Vedere Rutilio Namaziano... le mitiche strade di Roma, poco dopo la caduta dell'impero erano impraticabili per mancanza di manutenzione e si preferiva il periglioso viaggio via mare da Roma alla Liguria piuttosto che affrontare il fango dei tratturi maremmani...

5) finanziamento europeo: per ora, a inizio cantiere, si parla di sbloccare 671 milioni di euro, pari a circa il 4,5% del valore del progetto (calcolato dell'ordine dei 15 miliardi di euro, anche qui non ci sono mai numeri trasparenti). In caso di realizzazione successiva, si parla di ulteriore finanziamento EU del 30% della sola tratta internazionale, che escluderebbe quindi i circa 2 miliardi di euro della tratta di adduzione Torino-Chiomonte, interamente a carico italiano. Sono dati vaghi perchè è quel poco che si riesce a leggere sui giornali locali. Anche questo fatto dovrebbe indignare tutti: non c'è uno straccio di rapporto ufficiale che faccia chiarezza verso i cittadini. I promotori, che i dati immagino li avranno, con fior di tecnici pagati per far solo quello, tacciono, lasciando tutti noi a baloccarci con stime e supposizioni. Anche questo è strano: se avessero dati seri, certi e inoppugnabili a sostegno dell'opera, non pensate che avrebbero già convocato una conferenza stampa internazionale, spazzando via ogni nostra chiacchiera? Invece stanno nascosti nelle gallerie, lasciando che la gente si arrabbi, che i politici sfornino la loro retorica, che i pochi come noi che tentano di ragionare si spacchino la testa su dati faticosamente estratti qua e là.

6) la stretta alleanza politica bipartisan che mostra un tenacissimo blocco favorevole all'opera, è un altro elemento di sospetto. In genere il politico, massimamente quello italico, quando trova un muro invalicabile nei propri affari, lo aggira, scantona, sceglie altri obiettivi più facili, ma non si mette contro una marea montante di rabbia popolare che sta diventando un elemento incognito estremamente instabile. Qui invece sono passati vent'anni di proteste e continuano tutti imperterriti ad andare in rotta di collisione contro il massiccio d'Ambin. Butto lì, non è che devono aver fatto tante e tali facili promesse sulla divisione di questa appetitosa torta, che ora qualcuno ha la canna di fucile puntata dietro la schiena se non le mantiene e non paga pegno?

Ciao a tutti dalla Valsusa, qui comunque è una serata ancora molto calda. Speriamo che serva a qualcosa.

Le tracce cercatele a Siena, il 9 e il 10 luglio. Perché si sono date appuntamento lì, a Santa Maria della Scala. Sono le donne che una domenica di febbraio sono scese in piazza alzando per bandiera una frase di Primo Levi, «Se non ora quando?». Non è un partito: per un giorno è sembrato un grande, grande movimento. Lo è davvero? Avrà gambe per camminare? E che fine ha fatto in questi mesi, dove si è disperso dentro questa Italia di pubblicità volgari, escort, donne licenziate dalle fabbriche, precariati spinti, ragazze immigrate costrette a matrimoni combinati, futuri incerti e crisi? Per rispondere a questa domanda bisogna andare a Siena, ascoltare, guardare, cercare di capire, contarsi.

Le rappresentanti dei 120 comitati di «Se non ora quando?» si ritrovano a Santa Maria della Scala e con loro molte altre donne: sono già quasi 900 le adesioni. Da Napoli verranno con un pullman, da Parma idem. Tante, dieci volte quel che si poteva prevedere alla vigilia e le richieste di partecipazione continuano sul blog (http://senonoraquandosiena910luglio.wordpress.com). «Mi era sembrata perfetta Santa Maria come simbolo dell´accoglienza - racconta Tatiana Campioni, direttrice del complesso museale che dava tetto e conforto ai pellegrini sulla via Francigena - ma mi sa che ci sta forse stretta».

Le adesioni piovono da tutta Italia e non sono soltanto donne. «Uomini e donne che si sono riconosciuti nella mobilitazione trasversale e apartitica del 13 febbraio potranno prendere la parola per scrivere insieme - dicono le organizzatrici - l´agenda delle richieste femminili per l´Italia di domani». Centinaia di prenotazioni ad alberghi e bed & breakfast, poi una rete di accoglienza allestita su due piedi dalle donne del comitato senese, cinquanta posti letto offerti gratis e già spazzati via. Ne servono altri. Parecchi altri. «Facciamo un appello alle famiglie di Siena, soprattutto del centro storico, perché aprano le loro case e si facciano avanti per ospitare il 9 luglio, a dormire, conoscersi e incontrarsi le donne che verranno in città» spiega Carla Fronteddu, 26 anni, un dottorato di ricerca di Filosofia politica.

«E´ bellissimo sapere che ci sono molte più adesioni del previsto, significa che c´è una grande energia e voglia di impegnarsi su questi argomenti - prosegue Tatiana Campioni - Quando Francesca Comencini, una delle ideatrici della manifestazione di febbraio, è venuta a Siena a presentare il suo libro abbiamo parlato di «Se non ora quando?» e di dove organizzare un incontro nazionale. Non volevamo una grande città perché sembrava troppo dispersiva così io ho proposto Santa Maria della Scala e a Siena il sindaco Franco Ceccuzzi ha subito accolto l´iniziativa offrendo la collaborazione del Comune». Tutto apparentemente perfetto. Il fatto è che i numeri lievitano di giorno in giorno (chi volesse partecipare deve compilare la scheda sul blog) e probabilmente se le adesioni si trasformeranno in presenze fisiche, bisognerà presto trovare soluzioni alternative al complesso museale. La macchina organizzativa è al lavoro: nei prossimi giorni dovrebbe esserci un incontro con il sindaco per fissare meglio la logistica.

Il programma invece è già abbastanza definito: i temi attorno ai quali si svilupperà questa due giorni, saranno corpo, maternità, lavoro e rappresentazione della donna. Si comincia il 9 luglio poco prima di mezzogiorno con le proiezioni video del 13 febbraio, poi aprirà i lavori Linda Laura Sabbadini direttrice centrale dell´Istat e l´economista Tindara Abbado. Una rappresentante della stampa estera racconterà perché la manifestazione di febbraio ha conquistato le prime pagine dei giornali in mezzo mondo e come viene letta oltre frontiera la questione femminile nel nostro Paese. Quindi spazio agli interventi. La regista Francesca Comencini ha girato alcuni spot che si possono trovare online sull´incontro di Siena. A sera, la festa probabilmente (ma la cosa è tutta ancora da definire) in qualche piazza. E il giorno successivo proposte e contenuti.

Per sfamare le partecipanti è stato chiamato un catering declinato al femminile, la cooperativa Mondomangione che aiuta donne disagiate: sul blog di «Snoq» (acronimo di «Se non ora quando?») si possono prenotare i pasti. E´ stata avviata anche una sottoscrizione per far fronte ai costi di un´organizzazione che si sta facendo sempre più complessa (bonifico Associazione Promozione Sociale «Se non ora quando?» Nazionale-IBAN: IT13Y0501803200000000155055 presso Banca Etica, Roma).

L´incontro nazionale sarà un momento importante per capire gli umori di questo eterogeneo neo-movimento che sta ponendo con forza domande sul ruolo della donna nel futuro dell´Italia. Per ascoltarne le tante voci, per elencare gli argomenti e cominciare da stilare una specie di patto, cominciare a mettere in agenda le battaglie, stabilendo delle priorità. Dai comitati di base dell´università, alle femministe che hanno solcato le strade nei cortei degli Anni Settanta, dalle immigrate di seconda generazione, alle donne espulse come esuberi dal mondo del lavoro. Il fronte è molto ampio e diversificato, anche politicamente sono tante le anime che si sono trovate nel corteo di «Se non ora quando?». Le prove di dialogo non saranno scontate: andranno comunque in scena dal 9 al 10 luglio e bisognerà capire se c´è e quanto è forte il collante che tiene unito il movimento. «Le donne non sono una questione, sono la maggioranza del Paese» sottolinea Carla Fronteddu del comitato senese. Da lì bisognerà partire.

Neanche il "Generale Agosto" potrà farla dimenticare. La stangata d´estate, imperniata sul combinato disposto della manovra da 47 miliardi varata giovedì scorso, gli effetti degli aumenti delle tasse locali ai quali ha aperto la strada il federalismo fiscale, e gli interventi spot come quelli sulle accise per la benzina per finanziare l´emergenza Libia e le spese per la cultura, rischia di essere dolorosa. Per la Cgia di Mestre la correzione per il solo anno in corso costerà 741 euro per ciascun italiano. la Federconsumatori, che valuta le misure in termini di perdita di potere d´acquisto, prevede un salasso di 927 euro a famiglia.

La via dolorosa è già iniziata con l´aumento delle accise sulla benzina scattate nell´ultima settimana: in tutto 6 centesimi al litro, Iva compresa, che hanno già fatto lievitare il costo del pieno. La data del 30 giugno ha anche consentito di fare il bilancio degli aumenti delle addizionali Irpef comunali, consentite dal decreto sul federalismo: 55 municipi, tra i quali Brescia e Venezia, hanno messo in campo aumenti fin da quest´anno dello 0,2 per cento. Anche le Province sono sul piede di guerra: 29, un terzo del totale, hanno approvato l´aumento dell´aliquota sulla Rc auto del 3,5 per cento, come stabilito dal federalismo, portandosi a quota 16 per cento. Si attende - a giorni - solo il decreto attuativo per far partire gli aumenti della base imponibile dell´Ipt, l´imposta sui passaggi di proprietà che potrà essere elevata del 30 per cento e sarà legata alla potenza fiscale. Ed è solo l´inizio della danza, perché i rincari potranno essere reiterati dal 1° gennaio del 2012.

I tagli di 9,3 miliardi agli enti locali imposti dalla manovra saranno la miccia che renderà inevitabili gli aumenti delle tasse locali, ad esempio nei 2.500 comuni che hanno ancora l´addizionale Irpef a quota zero. Senza contare che le Regioni, negli anni topici dell´impatto della manovra potranno aumentare le addizionali Irpef fino al 3 per cento.

E ancora: dal primo gennaio del prossimo anno tornerà il ticket di 10 euro sulla diagnostica e sulla specialistica, mentre i «codici bianchi» al pronto soccorso pagheranno 25 euro. Nemmeno due anni e, nel 2014, come previsto dalla manovra di giovedì scorso, scatterà la possibilità di un aumento della quota nazionale dei ticket sulla farmaceutica. Secondo le stime dell´Università di Tor Vergata, la manovra comporterà un taglio di 10 miliardi in tre anni alla sanità pubblica, innescando aumenti dei ticket e tasse regionali (500 euro all´anno a famiglia).

La tassa sulle auto più potenti è stata ridimensionata, ma aumenti pendono sugli automobilisti se passerà la contrastata norma sul «pedaggiamento» dei tratti stradali Anas come il Gra e e la Salerno-Reggio. Brutte sorprese, inoltre, per i risparmiatori e coloro che hanno un dossier titoli: schivato all´ultimo momento il ritorno del fissato bollato su ogni transazione, arriva però l´aumento del bollo sui dossier titoli che viene più che triplicato e passa a 120 euro.

Senza considerare che il governo nei prossimi tre anni avrà in mano una delega che gli consente di aumentare, seppure gradualmente, l´Iva: una misura che nessuno può escludere che arrivi prima dei tre anni previsti. Del resto i rincari camminano a passo veloce, da due giorni sono scattati aumenti di luce e gas: la norma che avrebbe potuto compensare i rincari e ammorbidire la bolletta energetica del 3-4 per cento con un taglio degli incentivi è scomparsa dalla manovra. Mentre si profila un nuovo rischio: le grandi aziende concessionarie di beni pubblici, come le autostrade, gli aeroporti e le ferrovie, subiranno una stretta nei bilanci sulle politiche di ammortamento e non è escluso che si vedano costrette a chiedere nuovi aumenti tariffari.

Un caso così non si trova nemmeno nel manuale del perfetto maschio-padrone dell'800. Ma i manuali non servono, quando il senso comune del terzo millennio rotola all'indietro e detta comportamenti senza vergogna. Del resto, perché vergognarsi? Dev'essere stato per buon cuore che i dirigenti della Ma Vib hanno scelto fra i loro 30 dipendenti 13 donne, tutte donne e solo donne, da mandare prima in cassa integrazione e poi a casa, «così possono stare a curare i bambini», tanto «in famiglia il loro è comunque un secondo stipendio». In altre parole, un optional. Di lusso. Come è un optional, di lusso, che le donne, che i bambini li curano comunque, pretendano pure di lavorare. Ma in tempi di crisi, i lussi non ce li possiamo più permettere. Un capitombolo e oplà, si torna all'antico: uomo-capofamiglia-lavoratore, donna-madre-moglie (cureranno meglio anche i mariti se stanno a casa, no?), e un solo stipendio che basta e avanza. Com'erano belli e ordinati gli anni 50.

Non ci si crede. E si stenta a credere pure che intervistata da un tg, una delle operaie licenziate parli di spalle per paura di ritorsioni. Più di tutto, si stenta a credere il fatto che chiude il cerchio: gli operai, maschi, che decidono un presidio di solidarietà con le colleghe, ma al dunque si sottraggono e tornano zelanti e obbedienti al lavoro. E' solo il ricatto della crisi? O il miraggio di poter tornare a essere dei veri uomini con le mogli al seguito e la pastasciutta in tavola?

Licenziare le donne quando sono incinta è ridiventata un'abitudine. Licenziarle con la giustificazione che così i figli staranno meglio può diventare una bestemmia. E un oltraggio a quell'erogazione gratuita del lavoro di cura che le donne svolgono regolarmente insieme al lavoro retribuito, senza che l'uno risenta dell'altro e spesso con migliori risultati degli uomini. L'assurdo è che mentre tutto questo accade nel civile e profondo Nord, a Roma si decida di alzare l'età pensionabile femminile. Sarà perché a 60 anni non ci sono più bambini da accudire. E per i genitori anziani basta una badante. Da pagare, va da sé, col secondo stipendio.

In base a quale criterio, mi chiedo, il manager Franco Pronzato poteva fare il consigliere d´amministrazione dell´Enac, ricoprendo contemporaneamente l´incarico di "coordinatore nazionale del trasporto aereo" nel Pd? Una circostanza come questa basta e avanza per evidenziare il rapporto patologico instaurato fra partiti e società civile nella nostra democrazia malata. L´incarico pubblico assegnato senza neppure mascherare la sua finalità lottizzatoria, viene notato ora solo perché Pronzato va in carcere, accusato di avere percepito una tangente sull´appalto per la rotta aerea Roma-Isola d´Elba. Emergono contiguità con altri "facilitatori" d´affari, come Vincenzo Morichini, che intercedeva nella raccolta di contributi privati per la Fondazione Italianieuropei, dopo aver ceduto a Massimo D´Alema la sua quota di comproprietà della barca a vela Ikarus. Per constatare quanto Franco Pronzato ci tenesse a rivendicare la sua vicinanza al segretario del Pd, Pierluigi Bersani, è sufficiente un clic alla voce "Curriculum" del suo sito, dove campeggiano due foto con "l´amico". A poco vale obiettare che tale prassi è ordinaria amministrazione nel centrodestra. Basti pensare a due esponenti di rilievo del Pdl come Maurizio Lupi e Giampiero Cantoni, che presiedono altrettante società della Fiera di Milano, con relativi emolumenti. Gli esempi di doppi incarichi consentiti dalla legge, ma non dalla pubblica decenza, occuperebbero purtroppo molte pagine di giornale.

La solita obiezione del "così fan tutti" non può essere accampata però dal Partito democratico, che fin dalla sua nascita s´impegnò a contrastare il malcostume della lottizzazione e la prassi conseguente del favoritismo negli appalti. Ricordo bene, per aver partecipato ai lavori della commissione incaricata di elaborare il Codice etico del Pd, talune resistenze sul capitolo delle incompatibilità. Ci veniva ricordato sottovoce che gli incarichi assegnati nei cda di aziende pubbliche e semipubbliche, o nelle Fondazioni, a consiglieri comunali, provinciali, regionali, consentivano una loro retribuzione surrettizia altrimenti impossibile. Ma il principio dell´incompatibilità alla fine s´impose; sebbene largamente disapplicato.

Il caso di Franco Pronzato, al di là dei risvolti penali legati a un´ipotesi di vera e propria corruzione che la magistratura dovrà giudicare, si segnala per la sua smaccata evidenza. Il manager genovese da decenni legato al gruppo dirigente Pci-Pds-Ds-Pd, infatti, sedeva già inserito nel cda dell´ente pubblico più importante del settore aereo quando venne nominato responsabile del partito sulla medesima materia. Per intenderci, è come se Nino Rizzo Nervo o Giorgio Van Straten, consiglieri d´amministrazione Rai "in quota" al centrosinistra, assumessero pure la guida dell´ufficio comunicazione del Pd. E ciò mentre il segretario Bersani va promettendo in tv che non ci saranno mai più dei lottizzati del suo partito in Rai.

Ben si capisce che qui non è in causa la diatriba fra il partito e gli antipartito. Ma il protagonismo della nuova cittadinanza democratica senza cui il centrosinistra non avrebbe mai conseguito le vittorie di maggio, può instaurare un relazione proficua con i gruppi dirigenti dei partiti solo alla condizione che questi siano disponibili a rimettere in discussione la loro sovranità e i loro comportamenti. Il verticismo dei "nominati" e l´affarismo dei lottizzati sono degenerazioni che si tengono l´una con l´altra. Non a caso hanno spesso come protagoniste le medesime personalità che non dissimulano la propria idiosincrasia nei confronti delle associazioni della società civile. Ora che la nuova politica non è più una mera suggestione, e anzi le dobbiamo la concreta speranza di un cambiamento d´epoca, tocca in primo luogo al Pd correggersi e dare il buon esempio.

Adesso non potrà più dire che mentre in America lo osannano qui in Italia gli tirano i gatti morti sul finestrino. Adesso anche da noi qualcuno lo ama. Sergio Marchionne, filosofo del Dopo Cristo, ha vinto su tutta la linea. Dopo aver cooptato Cisl e Uil alla sua corte, dopo aver dettato le regole alla Confindustria con un ricatto - o cambiate tutto come dico io o vi saluto - analogo a quello a cui sono stati sottoposti gli operai di Pomigliano - o rinunciate a diritti e dignità o chiudo e vi mando tutti a spasso - l'amministratore delegato della Chrysler-Fiat ha sbancato anche in Corso d'Italia. Incassa la resa della Cgil guidata da Susanna Camusso.

Adesso i contratti nazionali sono derogabili dunque non esistono più, siglando così la fine del basilare principio di solidarietà che ha regolato il lavoro nel secondo dopoguerra del Novecento. Adesso gli operai non possono più votare gli accordi e i contratti, firmati per loro conto da apparati sindacali sempre più organici al blocco di regime e dunque sempre meno sindacati. Adesso gli operai non possono scioperare, essendo stata sancita una «tregua». Come se il crollo di vendite di automobili Fiat in Italia e in Europa dipendesse da chi lavora alla catena di montaggio di Mirafiori o di Pomigliano, come se le tute blu avessero le braccia conserte per dimostrare la loro novecentesca aggressività e non perché non hanno nulla da costruire.

Tutto questo è avvenuto a Roma, nella dependance della Confindustria su cui erano puntati gli occhi dei lavoratori e di tutti quei cittadini e quelle cittadine che, insieme alla Fiom, avevano alzato il vento democratico del cambiamento. Adesso la strada si fa difficile e bisognerà riprendere a pedalare in salita tra le secchiate non di acqua rinfrescante ma di fango. Si è chiusa un'epoca, gridano gioiosi padroni e sindacati, plaudono i ministri, va fuori dalle righe persino il normalmente sobrio Sole 24 Ore, organo dei confindustriali che spara «Una firma per un'epoca nuova». Il Pd è contento, ma pensa un po'.

Siamo alla fine della storia? Lasciamo in pace Fukuyama, la storia non procede mai in modo rettilineo. Tra le parole di un accordo scritto nel fango e la realtà c'è di mezzo una variabile: le persone in carne e ossa, i lavoratori e tutti quelli che pensano al lavoro come a un bene comune e che non sono soli, hanno dalla loro la Fiom che «resiste ora e sempre all'invasore» come il villaggio gallico di Asterix e Obelix. Resiste e scompagina le carte ricordando a potenti e poveracci che ci sono diritti intangibili validi per tutti (sennò si trasformano in privilegi) che la dignità delle persone viene prima dei profitti. Bisognerà tenere i nervi a posto, tutti quelli che non intendono adeguarsi al modello sociale imposto da Marchionne dovranno tenere i nervi a posto. Perché la storia continua. La generosa battaglia della Fiom è una battaglia per la democrazia, perciò è una battaglia generale. Ma la Fiom, e gli operai, da soli non ce la possono fare. Non dobbiamo lasciarli soli.

Una crisi finanziaria di dimensioni globali è di nuovo alle porte. E non sarà l'ultima. Il mondo si sta avvitando intorno ai suoi debiti. Con liberismo e globalizzazione («finanzcapitalismo», orribile termine introdotto da Luciano Gallino) gli Stati hanno ceduto il potere di creare il denaro - il diritto di «battere moneta» - al capitale finanziario. Quasi tutti gli Stati dei paesi sviluppati si sono pesantemente indebitati con il sistema finanziario (quelli dell'ex Terzo Mondo lo sono da sempre). Lo hanno fatto in parte per salvare banche o aziende sull'orlo del crack; in parte per finanziare spese sia essenziali (infrastrutture, «welfare» o stipendi del Pubblico impiego non sostenuti da sufficienti entrate fiscali), sia illegittime (costi della corruzione e dell'evasione fiscale), sia inutili e dannose (armamenti, costi della «politica», di grandi opere o di «grandi eventi»). Per esempio, gran parte del debito che sta portando la Grecia al fallimento è dovuto, oltre che alla corruzione e dall'evasione fiscale, alle spese sostenute (senza adeguati ritorni) per le Olimpiadi di Atene e per l'acquisto - da Francia e Germania, gli Stati che oggi la stanno strangolando - di armamenti per «difendersi» dalla Turchia: due paesi della Nato che si armano l'un contro l'altro, comprando le stesse armi dagli stessi paesi e addestrandosi a farsi la guerra (c'è di mezzo il petrolio dell'Egeo) nelle scuole militari degli stessi fornitori.

Gli Stati si indebitano perché di nuovo denaro non ne possono creare più di tanto. In parte se lo sono vietato, con leggi nazionali (come negli Usa) o accordi internazionali (come le regole di governo della Bce e il Patto di stabilità dell'Unione Europea). In parte hanno già una montagna di debiti contratti perché per molto tempo indebitarsi era più facile che imporre nuove tasse o sostenere l'economia con l'emissione di nuova moneta e un'inflazione controllata. Quello che gli Stati nazionali hanno perseguito indebitandosi (evitare nuove tasse o maggiore inflazione) adesso li strangola; e oggi i paesi europei, anche se potessero tornare alla moneta nazionale e svalutarla, difficilmente otterrebbero un aumento di competitività con cui accrescere le esportazioni e ripagare parte del loro debito, come recita l'ortodossia economia (quella che consiglia alla Grecia di «uscire dall'euro»); si ritroverebbero solo con un debito in valuta estera ancora più pesante. Se invece, come consiglia, anche in questo caso, l'ortodossia economica, tagliano la spesa pubblica - mettendo alle strette o alla fame una parte crescente dei propri cittadini - e svendono servizi, demanio e beni comuni per ottenere un avanzo primario, soffocano ancora di più l'economia e non saranno mai più in grado di pagare né debito né interessi. È una strada senza uscita.

Se la cosa riguardasse solo la Grecia, che è un piccolo paese, una soluzione forse si troverebbe; ma riguarda anche l'Irlanda, il Portogallo, la Spagna, l'Italia, il Belgio e in prospettiva la Francia, che adesso fa invece la voce grossa. E riguarda anche gli Stati Uniti (anche il loro debito rischia un ribasso del rating), gli unici che finora avevano potuto continuare a «creare moneta» perché i loro dollari non li rifiutava nessuno. Ma crisi, salvataggi e sconti fiscali per i più ricchi (quelli che neanche Obama osa toccare) hanno moltiplicato per due il loro debito, che è quasi tutto in mani altrui; e poiché ora ne devono rinegoziare una quota consistente si trovano anche loro alle strette. La retorica - mai suffragata dai fatti - secondo cui ridurre le tasse «crea sviluppo» ha messo tutti nei guai. Poi ci sono le rivoluzioni dei paesi arabi, che a breve porranno inderogabili scadenze al sistema finanziario mondiale. Insomma, qualunque cosa venga decisa per la Grecia, si tratterà solo di tamponare una falla per rinviare un crack inevitabile.

Gli Stati non «comandano» più il denaro perché i cordoni della borsa sono ora nelle mani della finanza internazionale: basta la minaccia di un ribasso del rating ed è come se dal bilancio di uno Stato si volatilizzassero di colpo miliardi di euro. E per un paese che va in rovina c'è sempre, da qualche altra parte, qualcuno che guadagna miliardi. È la finanza internazionale, bellezza! Quella che ha riempito di titoli fasulli banche e risparmiatori rivendendo un numero infinito di volte i propri crediti dopo averli impacchettati in titoli derivati di cui era - ed è, perche sono ancora in circolazione - impossibile conoscere origine e composizione. A certificare che quei mucchi di carte, ma ormai anche solo di bit, sono moneta sonante ci pensavano e pensano tre agenzia mondiali interamente possedute da alcune delle banche che quei certificati li vendono. Ora, e sempre con denaro fittizio, la speculazione si è spostata sulle materie prime e sulle derrate alimentari, mettendo alla fame mezzo mondo. E minaccia di far fallire, uno dopo l'altro, un buon numero di Stati. Ma dobbiamo per forza continuare a lasciare in mano a costoro le redini dell'economia?

C'è un altro modo per affrontare la situazione: imporre ai propri governi un cambio di rotta. Il che richiede certo «rigore fiscale», ma non quello che ci vorrebbero imporre Tremonti. Il rigore, cioè i tagli nel bilancio, vanno imposti ai costi della politica, alla corruzione, all'evasione fiscale, alle rendite finanziarie, agli armamenti, alle guerre contro paesi che abbiamo contribuito ad armare fino a ieri, alle grandi opere, ai grandi eventi, alla burocrazia (ma senza segare l'albero del Pubblico impiego; curandolo invece ramo per ramo, coinvolgendo che ci lavora, perché dia frutti migliori). Ma un cambio di rotta richiede anche una montagna di nuove spese: in ricerca, in istruzione (scolastica e permanente), in manutenzione del territorio, in riconversione delle fabbriche obsolete o senza mercato, in promozione di una conversione energetica che ci liberi gradualmente dalla dipendenza dall'estero e dai combustibili fossili, in un'agricoltura che restituisca fertilità ai suoli e cibo sano ai consumatori. E soprattutto per garantire a tutti e ciascuno possibilità di non dipendere giorno per giorno dai capricci di un mercato globale fuori controllo e dall'arbitrio di imprese attente solo alle quotazioni del loro capitale.

Sono in gran parte le stesse rivendicazioni (e persino le stesse parole: «non vogliamo pagare la vostra crisi») delle rivolte che infiammano le strade della Grecia e delle manifestazioni che riempiono quelle della Spagna - e ora anche del Belgio - e che hanno un unico sbocco possibile: in prima istanza, l'annullamento del patto di stabilità e della stretta sui bilanci degli Stati membri. Poi la garanzia di un reddito decente per tutti. Ma fin da subito c'è da adoperarsi per coinvolgere il maggior numero di soggetti, ciascuno con le sue competenze e a partire dai luoghi dove abita, vive e lavora, nella costruzione dal basso di un piano di interventi articolato su cui esigere l'impegno dei governi, quali che siano, sia a livello locale che nazionale. Oggi programmi del genere non ci sono: troppo pochi ci pensano e quasi nessuno ne parla, perché cambiare radicalmente il paese sembra ancora un sogno. Ma l'Europa di domani, nel pieno di una crisi finanziaria che coinvolgerà l'intero continente e nel mezzo di una crisi ambientale che sta investendo l'intero pianeta, non sarà mai più come quella che abbiamo conosciuto fino a oggi. Se non vogliamo precipitare nel caos che si sta avvicinando, bisogna cominciare a discutere concretamente, caso per caso, delle cose che vogliamo, senza aver paura della sproporzione delle forze in campo. Il vento sta cambiando. «Prepariamoci» titola il suo ultimo libro Luca Mercalli, parlando delle condizioni in cui dovremo a vivere nella crisi ambientale. Prepariamoci anche a una nuova crisi finanziaria che cambierà radicalmente i rapporti di forza nelle situazioni in cui ci troveremo a operare.

Le chiamano guerre senza uomini, unmanned wars, e stanno stravolgendo il nostro rapporto con i conflitti militari e anche col potere. Protagonista è un velivolo che non ha bisogno di pilota perché basta schiacciare da lontano un bottone, e l´aggeggio parte: si chiama drone. A seconda della convenienza esplora terreni oppure decima persone: è un proiettile che varca oceani. Traiettoria, bersaglio, funzioni sono decisi da impenetrabili cerchie di tecnici e politici. Dopo aver bramato per anni guerre a zero morti, adesso Washington predilige guerre a zero uomini. Costano meno, e soprattutto non sono politicamente dannose: l´avversario stramazza, ma svanisce il rischio di veder tornare le salme dei nostri soldati. La connessione tra potere e opinione pubblica si spezza, così come si spezza il nesso tra guerra, legge, democrazia. Non solo. Hai l´impressione che il mondo non sia che un video con playstation, azionato da ignoti individui al servizio di un centro sfuggente che s´avvale impunemente dell´extraterritorialità: come la smisurata mappa di Borges, che «aveva l´immensità dell´impero e coincideva perfettamente con esso». Parte il proiettile, colpisce, e non resta che un ronzio (questo significa drone: il ronzio di un´ape maschio).

In Afghanistan queste offensive sono cominciate da tempo ma adesso sono estese a Pakistan, Yemen, Libia. Dieci anni fa Washington disponeva di 50 droni, oggi di 7 mila. Il drone è diventato una panacea, a partire dal momento in cui le guerre al terrore sono finite in vicoli ciechi. Una dopo l´altra, quasi tutte naufragano. In Afghanistan, dove sono schierati circa 4000 soldati italiani, la sconfitta è data per certa anche se non ammessa: l´aumento delle truppe deciso da Obama ha eccitato gli insorti, accrescendo l´odio delle popolazioni e consegnando a talebani e Al Qaeda terre sempre più vaste (l´intera cintura attorno a Kabul, le regioni ai confini col Pakistan: l´80 per cento circa del paese). Un rapporto pubblicato lunedì dall´International Crisis Group conferma l´esistenza di un´«oligarchia criminale di affaristi tra loro connessi, comprendente governanti corrotti e malavita, che domina l´economia usando gli aiuti occidentali».

Questo il lido desolato cui è approdata la quasi decennale guerra afghana; a questo son serviti i 2.547 caduti della coalizione, i morti civili (tra 14.000 e 34.000), i milioni di profughi, e un costo, per l´Occidente, di oltre 500 miliardi di dollari. La sola America spende ogni mese 10 miliardi. Ecco perché sono nate le trattative Usa coi talebani: cioè con l´avversario che si pretende di combattere, sterminandolo magari con i droni. Il cambio di strategia avviene senza partecipazione degli europei, e senza che essi chiedano conto. Tutte le guerre, anche in Yemen e Libia, sono concepite come brevi e regolarmente s´impantanano. Il fallimento è immenso, l´idea delle missioni umanitarie è a pezzi. Il vocabolo stesso - umanitario - nella migliore delle ipotesi non dice più nulla. Nella peggiore è svilito, giustificando dentro e fuori casa una diffusa e orgogliosa indifferenza al soffrire e morire dell´altro.

È a questo punto che è apparso il drone, cui Obama ricorre assai più sistematicamente di Bush: in Afghanistan e Libia ma anche in paesi come lo Yemen, dove pretende di non guerreggiare, o come il Pakistan, col quale Washington formalmente è alleato. Muovendosi nell´aria come predatori, i droni rappresentano una novità da molti punti di vista: politici, legali, etici. Negli Stati Uniti non è l´esercito a gestirli ma la Cia: difficilissimo chiamarla a rispondere democraticamente delle sue cacce extraterritoriali. E pressoché impossibile, per cittadini e Parlamenti, arginare i governi che danno ordini. Che si sia aperto un baratro tra popolo e potere, storcendo la democrazia, lo si è visto quando Obama si è rifiutato di sottoporre l´intervento libico all´approvazione parlamentare: la guerra condotta con droni e senza uomini non è guerra, ha obiettato. «Non è ostilità». La legge del 1973 che obbliga i Presidenti a smettere dopo 60 giorni i conflitti, salvo autorizzazione del Congresso, non vale più.

I droni annientano postazioni libiche e uomini, l´operazione è già costata al Pentagono 716 milioni di dollari e se continua costerà entro settembre 1,1 miliardi, ma appunto: è un ibrido. Stephen Walt, professore di relazioni internazionali a Harvard, denuncia l´inaudito sotterfugio. Che stiamo facendo in Libia - domanda nel suo blog - se non una guerra? «Quel che sappiamo, è che abbiamo inviato missili Cruise e droni per colpire vari bersagli militari; che più volte abbiamo attaccato il quartier generale di Gheddafi; che diamo informazioni agli alleati Nato che compiono raid per proprio conto».

Quando Bush s´armò contro il terrore molti lo criticarono, in America ed Europa. Era sbagliato il termine guerra: dava ai terroristi il nobile statuto di belligerante. Meglio escogitare una politica che riconoscesse le radici del male, accompagnandola a sequestri bancari e azioni di polizia come si fa con le mafie. Lo scacco in Iraq e Afghanistan non ha tuttavia insegnato alcunché e la vecchia strategia continua, solo che s´acquatta e mimetizza: i droni rivoluzionano la tecnica, i cervelli, la democrazia, ma a fini conservatori. La politica di ieri vien resa più efficace eludendo la legge internazionale, sottraendola a controlli democratici. La parola guerra scompare, ma guerra resta: per chi viene ucciso non è una differenza enorme, farsi ammazzare da velivoli con piloti o senza. In patria, saranno ricordati come morti in guerra. Dominiamo forse la mappa immaginaria di Borges. Non i vocaboli del mondo reale.

La nuova guerra viene condotta nel frattempo in Pakistan e Yemen. Anche qui, è stato Obama a incrementare le occulte guerre senza equipaggi. In Yemen, l´offensiva è condotta nella convinzione che né il governo locale né gli istruttori militari Usa siano capaci. La guerra senza uomini è clandestina, opaca, mortifera: nessuno è responsabile. Lo Stato israeliano è ricorso ripetutamente agli UAV (unmanned aerial vehicles) nella guerra in Libano del 1982 e a Gaza (Piombo Fuso) nel 2008. È l´arma perfetta per un occupante che si finge non occupante.

Lo scandalo è che nessuna discussione seria è iniziata, tra europei e americani, sul futuro in cui stiamo entrando. Da tempo le amministrazioni Usa sprezzano la Nato, che richiede troppe consultazioni pubbliche ed è vista come residuo fastidioso della guerra fredda. Solo gli Stati europei, governi italiani compresi, s´aggrappano accidiosamente al residuo sfilacciato. Eppure ce ne sarebbero, di cose da ripensare. L´articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra ma non l´esclude, visto che «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità» imposte da organismi internazionali di cui siamo parte e che promuoviamo. Ma queste istituzioni dove sono, quando si tratta di pace e guerra? L´Europa non ha il fegato né per chiederlo, né per osare una propria risposta.

Non rimane che questo ronzio d´api in cielo, ma nessuno sa chi spari, chi sia giuridicamente imputabile. Spesso non si sa neanche il volto dell´ucciso, nonostante l´anonimato sia vietato dal diritto internazionale. È proibito anche seppellire la vittima in fosse comuni o luoghi non identificabili, come il mare nel quale è stato immerso Bin Laden: perché se scoppia una controversia, come riesumare la salma?

Cosa significa l´articolo 11, in tali condizioni? La guerra dei droni è a immagine della mappa di Borges, e arriverà il momento in cui i cartografi la riterranno inutile: «Non senza empietà, l´abbandoneranno alle inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei Deserti dell´Ovest sopravvivono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti».

I No Tav.
Un movimento «comune»

di Pierluigi Sullo

In Valle di Susa si scontrano il passato e il futuro. La mobilitazione militare di migliaia di poliziotti, di tutti i media, di pressoché tutti i partiti e delle istituzioni locali e nazionali, di Confindustria e di plotoni di parlatori televisivi di centro-qualcosa non è riuscita a capovolgere la realtà: il passato è il preteso "sviluppo", la vantata modernità del mega-tunnel che distruggerebbe la valle; il futuro sta nelle azioni, nei progetti, nelle proposte dei valsusini che si oppongono a questa "grande opera", i No Tav.

Ieri, sulla Repubblica, Ilvo Diamanti ha scritto, a proposito dei referendum: «C'era nell'aria una domanda di valori... diversi da quelli propagandati dal "pensiero unico"», e, aggiungeva, in occasione dei referendum «è avvenuta "la scoperta del movimento"... una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate». Chiediamoci quale sia il movente, anzi la cultura, che anima, in modo diffuso e articolato anch'essa, queste esperienze. E perché risulta che nel referendum le motivazioni "politiche", ossia dare una lezione a Berlusconi, e lo stesso quesito sul legittimo impedimento, fossero di gran lunga meno importanti, agli occhi di chi è andato a votare, dell'oggetto dei referendum: la tutela dell'acqua dalla privatizzazione e il rifiuto del nucleare. Ovvero, la ripulsa di due capisaldi di un modo - irrimediabilmente vecchio, ormai gravemente dannoso - di guardare alla vita della società. Un modo che, con uno stile e un linguaggio che i partiti e gli opinion maker cominciano a scoprire solo ora, la nuova società organizzata respinge - cambiando anche en passant i sindaci di grandi città e le percentuali di partecipazione ai voti referendari. I beni comuni non sono commerciabili, privatizzabili, sottoponibili alla logica inesorabile della massima profittabilità. E per conseguire questo scopo si deve creare una nuova forma della democrazia, dato che quella vecchia è ormai pienamente nelle mani di chi i beni comuni vuole a tutti i costi commerciare e privatizzare. Qui sta la frattura sempre più profonda tra i "rappresentanti" e i cittadini.

Questo "movimento" - più che altro un cambio progressivo di civilizzazione e di mentalità, di relazioni tra persone e dentro le comunità - non è "nuovo". Viene ora a compimento un processo iniziato alla fine del secolo scorso, che ha avuto le sue tappe nell'opposizione alle guerre - quella contro la Serbia e quella contro l'Iraq - e nelle manifestazioni come quella di Seattle, nei Forum sociali mondiali, nello zapatismo e nell'insorgenza indigena latinoamericana, nel grande movimento che a Genova, dieci anni fa, fu aggredito in modo feroce. E lo fu, come ora i valsusini, perché il potere ha perso la sua legittimità, qualcuno direbbe la sua egemonia: il suo discorso sullo "sviluppo" che certo costa ma che frutterà inevitabilmente benessere suona ora come una brutta favole in cui il lupo divora l'agnello. Perché nel frattempo l'espressione "beni comuni" si è allargata a tutta la vita della società: tale è l'acqua, tale l'energia, ma lo è anche il suolo, quello agricolo e quello urbano, lo sono l'aria e il paesaggio, il mutuo aiuto sociale (o welfare), bene comune è evitare che i sottoprodotti di un modo di vivere dissennato riempiano le strade come a Napoli, lo sono il lavoro (il buon lavoro utile alla società) e la stessa democrazia.

Di questo rinascimento, in fondo al tunnel di trent'anni di liberismo, ossia del capitalismo più cinico nei confronti del contesto sociale e ambientale, i cittadini della Val di Susa sono padri fondatori. La loro opposizione alla Tav è iniziata vent'anni fa, e in questo periodo hanno resistito ad ogni sorta di minaccia e di tentativi di corruzione, hanno argomentato e conquistato non solo la partecipazione dei loro concittadini ma la simpatia di chiunque, in Italia, si trovi alle prese con quel genere di "sviluppo", si tratti di un'ennesima autostrada, di un rigassificatore, di una speculazione fondiaria in città già esauste. I No Tav sono i fratelli della «molteplicità di esperienze» di cui parla Diamanti. Perciò nel 2005, quando le truppe di un altro ministro degli interni li invasero, furono decine di migliaia a migrare verso l'ultima valle in alto a sinistra, dove formarono un corteo lungo 80 mila persone e insieme ai valsusini si ripresero Venaus. Lo facevano per se stessi, non solo per solidarietà, e gettavano le fondamenta di quella bella casa comune che è il solo no sancito da un voto popolare, in tutto il mondo, al furto dell'acqua.

Ora risulta che la valle sia bloccata, che gli operai - chiamati dalla Fiom - siano in sciopero. Nonostante la conquista della Maddalena e il ridicolo atteggiamento da "veni, vidi, vici" di Maroni, quello che "fa casino" nella Lega nord. Sanno anche loro, Fassino, Marcegaglia e il capo della polizia ferroviaria di Torino, Spartaco Mortola, condannato per la "mattanza" alla Diaz e quindi promosso, che non si può fare un tunnel di quel genere contro un'intera popolazione. Vogliono solo mettere le mani su un po' di soldi europei e aprire un cantiere, fare qualche buco per terra e battersi il petto come gorilla soddisfatti. Lo stesso Castelli, quello che da ministro della giustizia visitò nel 2001 la caserma di Bolzaneto mentre i ragazzi venivano torturati, e non notò nulla di strano, e che ora dice che gli argomenti dei No Tav sono "tutte balle" (è il loro stile), ha dovuto ammettere, da viceministro alle infrastrutture, che il mega-tunnel è del tutto inutile, ai fini del traffico ferroviario, che piuttosto diminuisce. Ma sappiamo che è molto utile a imprese, a politici, alla mafia, ad arraffare denaro. E a spezzare le reni, colpendo i valsusini, a quelli che in tutto il paese pretendono di fare politica a modo loro, ad esempio umiliando la Lega a casa sua, a Milano.

Non sappiamo cosa decideranno di fare adesso i valsusini. Se chiameranno a una manifestazione, è probabile che sarà anche più grande di quella del 2005. Ma sarebbe un grande segnale se, come nel 2003 milioni di balconi furono decorati con i colori della pace, e come in primavera molte finestre esposero la bandiera blu dell'acqua, ora si producessero, distribuissero ed esponessero ovunque le bandiere bianche con la scritta rossa "No Tav", come si vede da anni in Val di Susa. È un'idea come un'altra: la fantasia non manca di sicuro, al movimento dei beni comuni.



Alla Maddalena la società dei beni comuni

di Ugo Mattei

Una bellissima serata estiva. Automobili parcheggiate in ordine su chilometri di strada tra Gravere e Chiomonte. Un serpente illuminato, lunghissimo, fiaccole in fila che procedono silenziose dal primo cancello della Libera Repubblica della Maddalena, fondata sui beni comuni, fino al campo base. Tende in bell'ordine, un'organizzazione attenta a ogni dettaglio. Una tenda con i medici, un presidio di avvocati, un'attenzione assoluta alla legalità formale e sostanziale. Il campo base regolarmente concesso dal Comune; regole condivise, attente al rispetto della natura. Nessuno può buttare per terra neppure un mozzicone spento. 5000, forse 8000 persone raccolte nella serata di domenica sera. Un palco allestito dal quale parlano intellettuali, artisti, sindacalisti, il leader di Rifondazione Paolo Ferrero, quello del Partito Comunista dei lavoratori Marco Ferrando, quello storico del movimento No Tav Alberto Perino, recentemente inquisito per reati d'opinione: autorevolissimo e rassicurante.

Viene letto un appello a fermarsi che avevamo messo insieme affannosamente nel pomeriggio (fra i firmatari anche due magistrati); viene portata la solidarietà dei compagni del Valle occupato, anche loro in lotta per un bene comune. Il popolo dei beni comuni, impegnato nelle battaglia contro lo scempio legale, sociale e politico della Tav, discute e condivide. C'è consapevolezza di essere dalla parte della ragione, tanto formale quanto sostanziale. La strategia di resistenza fondata sulla non violenza ma sulla fisicità "con la schiena dritta" è ribadita, ma non c'era neppure bisogno di farlo. È la conseguenza naturale della prosecuzione in Val Susa di quella lotta per la difesa dei beni comuni che implacabilmente sta cambiando gli assetti politici del nostro paese. I beni comuni sono concepibili soltanto in una logica ecologica, sono legittimati da un grande progetto costituente di lungo periodo, il solo che potrebbe salvare la vita sul pianeta. Questa logica collettiva, a differenza di quella individualizzante della proprietà privata e dello Stato sovrano, include e non esclude, diffonde il potere, sconfigge ogni sopraffazione.

Tutto è condivisione a Chiomonte. La Libera Repubblica della Maddalena è stata, e ancora sarà, una buona pratica globale di governo locale dei beni comuni. Alla Maddalena c'era la parte migliore dell'Italia, quella che sconfiggerà un modello di sviluppo scellerato, imposto senza alternative da un pensiero unico bipartisan. Il potere se ne accorge. Ha paura perché vede messa in discussione la sua legittimità formale e sostanziale. Per questo risponde con la violenza dei suoi blindati, dei suoi lacrimogeni, dei suoi arresti. Il potere (di maggioranza e opposizione parlamentare) sa di essere oggi privo del sostegno politico della maggior parte del paese.

Tutti quei temi referendari che solo due settimane fa si sono rivelati maggioritari nel paese sono declinati, come in un minilaboratorio, in Val di Susa. Negli scorsi mesi la resistenza di fronte all'implacabile tenaglia dell'alleanza fra Stato e capitale privato, che produce saccheggio in nome della legalità, ha reso naturalmente coerenti (e vincenti) la battaglia per l'acqua e quella contro il nucleare. Oggi si tratta di far capire a tutto il paese che quello stesso scontro, con tutti gli stessi protagonisti sull'uno e sull'altro fronte, è in corso intorno alla Tav, un nuovo grande progetto di saccheggio. Farlo capire è difficile ora come allora, perché il blocco mediatico oscura la verità, confonde la ragione e il torto, asserisce falsità con la stessa violenza fascista (le cose vanno chiamate col loro nome) con la quale migliaia di uomini armati ed equipaggiati di tutto punto hanno brutalizzato, nelle prime ore del mattino, quella mirabile simbiosi fra uomo e territorio che è la Libera Repubblica della Maddalena. Da oggi questo territorio, questo primo esperimento di "Società dei beni comuni" è occupato illegalmente, governato dalla logica brutale della sopraffazione sull'uomo e sulla natura. La lotta sembra impari. Anche il referendum sull'acqua sembrava una battaglia impossibile da vincere.

É opportuno ricordare che il movimento No Tav non si batte solo (con altissima civiltà e competenza) per la salvezza della valle, ma anche contro un’opera che, al di là della retorica di cui la maggioranza dei potenti (della politica, dell’economia e della comunicazione) la ammanta, è inutile, dannosa e costosa per il bilancio pubblico (cioè per i cittadini). Rinviamo ai molti articoli in questa cartella che dimostrano come e perché quell’opera è una truffa. Per esempio, Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga, oppure volete sapere perchè L'analisi costi-benefici boccia la Torino - Lione, oppure volete sentire il parere del prof. Marco Ponti che vi racconta perchà I costi dell'alta velocità corrono più dei treni. E per venire ai più recenti, ancora il parere di Marco Ponti, e i numeri ricordati da Luca Mercalli

Grande è il disordine sotto il nostro cielo. Due mesi di consultazioni - elezioni amministrative e referendum - hanno rivelato un cambiamento profondo nel clima d´opinione. Ma non è ancora chiaro come e perché sia avvenuto. I dati dell´Atlante Politico, raccolti da Demos nel sondaggio condotto nei giorni scorsi, offrono al proposito molte indicazioni. Utili a decifrare i motori della svolta elettorale - e politica - di questa fase. 


1. La prima causa è la delusione. Nei confronti del governo, di Berlusconi, ma anche della Lega. Il giudizio sul governo non è mai stato così negativo, da quando è in carica. Come, d´altronde, quello su Berlusconi. Apprezzato dal 26% degli elettori. Quasi 10 punti in meno rispetto a sei mesi fa. Perfino Bossi lo supera, seppur di poco. Tuttavia, i suoi elettori sono insoddisfatti. Tanto che, tra i motivi della partecipazione al referendum, i leghisti indicano la volontà di "punire il (loro) governo" in misura maggiore rispetto a tutti gli altri elettorati (43%; 10 punti in più della media generale). D´altronde, non è un caso che il leader più apprezzato sia Tremonti. Cioè: l´alternativa a Berlusconi. 


2. La "delusione" verso il governo si riflette negli orientamenti elettorali. Il Pdl, infatti, è superato dal PD. In generale, peraltro, il vantaggio dei partiti di Centrosinistra su quelli della Maggioranza supera ormai i 7 punti. D´altronde, Bossi l´ha detto chiaramente, a Pontida. Se si votasse oggi, la Sinistra vincerebbe. Per cui conviene "resistere". Asserragliati nel Palazzo. 


3. Tuttavia, il cambiamento del clima d´opinione ha altre ragioni, oltre la delusione. Anzitutto, la voglia di partecipazione, che ha spinto quasi il 60% degli elettori a votare, in occasione del referendum. Nonostante l´indifferenza o l´ostilità dei partiti di maggioranza. Nonostante il silenzio di MediaRai. O forse proprio per questo. D´altra parte, ha votato oltre un quarto degli elettori del PdL, ma quasi metà (il 42%, per la precisione) di quelli della Lega. Un orientamento favorito dall´emergere di nuove domande e nuovi valori. Il quesito relativo al "legittimo impedimento" risulta, infatti, il meno importante, secondo l´opinione degli elettori. Scelto dal 13% dei votanti (intervistati da Demos). Molto più larga la componente di quanti attribuiscono maggiore significato ai quesiti sul "nucleare" e sulla "privatizzazione dell´acqua". Segno che la mobilitazione ha intercettato sentimenti che vanno ben oltre l´antiberlusconismo. C´era nell´aria una domanda di valori (e anche "timori") diversi da quelli propagati dal "pensiero unico" del nostro tempo. Il referendum ha fornito loro l´occasione di "rivelarsi" ed esprimersi.


4. Tuttavia, il clima d´opinione non cambia da solo. Non bastano la "delusione" e le "nuove paure" - relative all´ambiente, alla salute, al lavoro - a modificarlo. Ci vogliono nuovi "attori", in grado di ri-scrivere l´agenda pubblica. Imponendo all´attenzione dei cittadini nuovi temi.
Ciò è avvenuto in occasione del referendum - e prima delle amministrative. In questo esatto momento è avvenuta la "scoperta del movimento". Formula semplice e un po´ semplificatoria, attraverso cui si è cercato di definire la mobilitazione sociale - inattesa - alle amministrative e ai referendum. In effetti, non di "un" movimento, si tratta. Ma di una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate. Nella società e sul territorio. Hanno agito e scavato per - e da - molto tempo, in modo carsico. Oltrepassando l´area tradizionalmente "impegnata", prevalentemente composta da uomini, di età matura.

I dati dell´Atlante politico di Demos tratteggiano, al proposito, una radiografia piuttosto precisa e chiara. Diversa dalla tradizione. Proviamo a ricostruirla, risalendo (o ri-scendendo), un ramo dopo l´altro, "l´albero della partecipazione".
a) Se il 57% degli elettori italiani ha votato al referendum, il 16% ha fatto campagna elettorale. Oltre un quarto dei votanti. Tanti, se si pensa agli stereotipi che vorrebbero la società amorfa e conformista. 
b) In secondo luogo: quasi il 60% di chi ha partecipato alla campagna elettorale (il 9% dell´elettorato) non l´aveva mai fatto prima. Si tratta di una partecipazione "nuova", caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all´impegno politico. In primo luogo e in particolare, le donne e i giovani. Un terzo dei "nuovi" impegnati, infatti, ha meno di trent´anni. Una misura doppia rispetto a quel che si osserva nell´ambito degli impegnati di "lungo corso". Parallelamente, nell´area della "nuova" partecipazione appare molto ampio il contributo degli studenti - ma anche degli operai. La partecipazione "tradizionale", invece, è ancora animata da pensionati e impiegati pubblici.
c) Quanto alle modalità e ai canali di partecipazione, solo il 18% circa delle persone impegnate in campagna elettorale ha adottato modelli di "militanza" esclusivamente tradizionali. Partecipando a comizi, manifestazioni, distribuendo volantini, ecc. 
Metà di coloro che si sono impegnati nel referendum, invece, ha praticato una sorta di "campagna leggera". Realizzata attraverso contatti personali. Con amici, genitori, nonni, zii, cugini. Parenti e conoscenti. Infine, la rimanente parte dei cittadini impegnati (circa un terzo) ha seguito un modello "reticolare". Ha, cioè, utilizzato le nuove tecnologie della comunicazione e in particolare la Rete. 
Si tratta di due modelli altrettanto importanti. Il primo perché penetra nelle pieghe della vita quotidiana. Plasma il senso comune. Coinvolge persone altrimenti escluse dai messaggi politici. L´altro modello, invece, sfida la - e si sottrae alla - comunicazione tradizionale. In particolare, al/la televisione e a/i suoi padroni. Pubblici e privati. 
Entrambe queste modalità di partecipazione, peraltro, sono poco visibili. E per questo non sono state colte per tempo. 
I "nuovi" protagonisti dell´impegno politico - donne, giovani e studenti - si sono caratterizzati per un elevatissimo utilizzo del modello "reticolare". 


5. Quelli che hanno votato al referendum, quelli che si sono impegnati per militanza consolidata o per la prima volta. Hanno un orientamento politico trasversale. Prevalentemente di Centrosinistra. Ma molti di essi sono di Centro e di Destra. Oppure incerti e disillusi. Canalizzarne il consenso: non sarà facile per nessuno. Non può venire dato per scontato da nessuno. Neppure nel Centrosinistra. Dove si sono già accese le liti e le dispute - partigiane e personali. Per contendere il "nuovo" clima d´opinione. Per intercettare le molecole della "nuova" partecipazione. Largamente inattesa e invisibile. Anche a Centrosinistra

Di Pietro dice a Bersani di darsi una mossa e convocarvi. E a voi di Sel, Vendola, di non anteporre le primarie al programma.

Non mi piace l'atteggiamento di chi ha sempre addosso una toga e un dito puntato. Propongo a tutti una clausola di stile: evitiamo gli effetti speciali. Capisco il problema di Di Pietro: vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra. E sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra. In sostanza torna al moderatismo radicale delle origini. Intendiamoci, non è trasformismo, solo un riposizionamento. Ma è inaccettabile il modo: offre un argomento formidabile a una maggioranza allo sbando, attacca Bersani e me dicendo che non c'è l'alternativa. E propone il tema del programma nella forma più vecchia e politicistica: lui, io e il leader Pd dovremmo riunirci in una stanza per scrivere il libro del futuro?

Non ci sta?

Ma sarebbe capovolgere il significato di quello che è accaduto in Italia nelle ultime settimane. Sottrarre alla partecipazione democratica, a quel diritto di ingerenza che ha scompaginato i giochi ai referendum, l'oggetto vero del cambiamento, e cioè le scelte che devono riguardare la vita, il lavoro, la scuola, l'ambiente, la parità di genere. Facendo leva su un punto vero, il ritardo di tutti noi a mettere in campo quel processo e quel cantiere oggi maturi.

Ecco, nel merito l'ex pm ha ragione.

Non se riduce l'alternativa a un problema di agreement fra stati maggiori.

Quando invece chiedete primarie di programma che proponete nei fatti?

Faccio un esempio che mi riguarda: se nelle primarie pugliesi avesse vinto Francesco Boccia (deputato Pd, due volte sconfitto da Vendola, ndr) il più grande acquedotto d'Europa, il nostro, sarebbe stato privatizzato. Era immaginabile decidere del sì o no alla privatizzazione in un incontro riservato del centrosinistra? Invece ha deciso il popolo. E per piacere, non facciamo un'inutile disputa nominalistica sulla nozione di popolo. Ma il Pd alla direzione di oggi (ieri, ndr) ha fatto scelte importanti. Ha superato il dibattito su primarie sì o no, oggi siamo al come e al quando. E se posso dire una cosa a Bersani sul come, più vasta è la platea più rappresentano il cambiamento.

Insisto: in concreto cosa sono le primarie sul programma?

Nella contesa bella, spero, incassiamo le convergenze, penso alla tassazione delle rendite, e discutiamo alla luce del sole sui punti di divergenza. Per esempio di cosa significa fuoriuscire dal contratto nazionale con il rischio di far schiantare la condizione di lavoratrici e lavoratori. Di questi temi, ormai liberi da ipoteche ideologiche, non è forse giusto parlare dentro la piazza, perché la politica non sia un discorso calato dall'alto?

Parlate di una nuova sinistra unitaria, ma Bersani non risponde.

Il popolo del centrosinistra è mescolato, arricchito dalle competenze e dalle passioni di tanti senza tessere in tasca. La politica non si esaurisce nel recinto dei partiti. E la forza di alcune questioni, sottovalutate anche dal centrosinistra, è evocare una nuova fondazione della res publica, la trama dei beni comuni, il primato dell'interesse collettivo, un'idea forte di socialità.

Non è rischioso convocare i gazebo prima di sapere quando si vota?

Ormai è possibile mettere le primarie in calendario. Senza paura del confronto tra noi. Non ho la sindrome del vampiro, non ho l'ossessione di erodere consensi al Pd. Ho lavorato a costruire un soggetto politico il cui obiettivo non fosse l'autosufficienza. E lo stile non fosse la boria di partito.

Lei definisce Sinistra ecologia libertà 'movimento', non partito. Non a tutti piace, in Sel.

Movimento è più importante, comprende il partito, ma più tante altre cose. Bisogna essere laici, non avere atteggiamenti feticistici verso i luoghi che costruiamo. Sono solo strumenti.

Ma se non chiedete un tavolo dei leader, dove dovranno essere decise le primarie e il programma?

Non dico che gli incontri fra noi non siano importanti. Ma dobbiamo dare segnali all'altezza dell'attesa che si è creata nel paese. Si tratta di costruire anche momenti simbolici.

Come si immagina questi 'momenti' simbolici?

Non voglio immaginare niente, non mi interessa avere il copyright di nulla. Tanta Italia ci guarda con molta speranza e qualche ansia. Dobbiamo interrogarla, continuare a farla sentire protagonista, chiederle di aiutarci a scrivere l'agenda del cambiamento. Faccio un esempio: le mobilitazioni nella scuola, nell'università, nella cultura hanno squadernato una straordinaria dimensione di competenze a cui è indispensabile attingere. Oppure: ora tutti si accorgono di quanto sia catastrofica la dimensione della precarietà. Il mondo dei precari racconta storie, propone scelte. Vogliamo ascoltarli? Ho in testa la stagione milanese: una riappropriazione della politica come dello strumento che ti fa capire dove siamo finiti. Il berlusconismo è stato la più grave forma di privatizzazione della politica. Gramsci avrebbe detto 'rivoluzione passiva'. Il centrosinistra non può che essere il contrario della passivizzazione.

Questa piazza comune include la Federazione della sinistra? Loro temono che vogliate tenerli fuori.

Figuriamoci se è mia intenzione escluderli. Sono io oggetto di un atteggiamento schizofrenico: un giorno la proposta unitaria, un altro la contumelia. Mi piacerebbe tornare a discutere con loro. Vedo che anche nel dibattito interno si sollevano critiche alla marginalità e all'orgoglioso sconfittismo a cui sembrano candidarsi. Per quanto mi riguarda, chi declina la radicalità in termini di minoritarismo non sta sulla mia strada. Detto questo, lotterò perché non ci siano esclusioni a sinistra. Ma il tema è l'autoesclusione di chi considera il terreno del governo come una sorta di perdizione e quello dell'opposizione una salvazione.

Non le dispiace essere considerato un populista di sinistra?

Se posso fare la parte del vanitoso, no. Faccio tendenza. Le espressioni che ho inventato, dalla «rivoluzione gentile» all'«Italia migliore», alla «narrazione», sono state imitate e emulate. Ma lascerei correre questa discussione stucchevole. Oggi (ieri, ndr) Massimo Mucchetti, economista rigoroso, elogia sul Corriere della sera il lavoro del presidente Vendola sull'acquedotto pugliese. Ecco cosa intendo: sento il dovere di sottrarmi alla scorciatoia della bella sconfitta. Siamo chiamati a organizzare la speranza e a trasformarla in un blocco sociale, una nuova egemonia culturale.

La crisi greca rappresenta in modo impietoso come il sistema finanziario di fatto governi ormai la Ue mediante i suoi bracci operativi: la Commissione europea, il Fmi e la Bce. I governi eletti dal popolo hanno scelto da tempo di fungere da rimorchio al sistema finanziario. Avrebbero dovuto riformarlo dopo l´esplosione della crisi nell´autunno del 2008, quando, con le parole del ministro tedesco dell´economia di allora, Peer Steinbruck, «abbiamo visto il fondo dell´abisso». È vero che a Bruxelles si discute da due anni di riforme finanziarie, ma dinanzi alla natura ed alle dimensioni del problema si tratta del solito secchiello per vuotare il mare.

Non avendo riformato il sistema finanziario, ed avendolo anzi aiutato a diventare più potente di prima, i governi Ue si trovano ora esposti alle sue pretese. Giusto come è avvenuto negli Stati Uniti. Al momento esso pretende siano salvate le banche dalla crisi del debito greco, in vista di altre richieste analoghe che nei prossimi mesi potrebbero riguardare il Portogallo, la Spagna, l´Italia. Fedeli al loro ruolo di organi democraticamente eletti che non vedono alternative se non quella di soggiacere al dettato di organi mai eletti da nessuno, quali sono la Ce, la Bce e l´Fmi , i governi Ue sono unanimi nell´esigere dalla Grecia di ridurre drasticamente il suo debito pubblico. Ha vissuto al disopra dei suoi mezzi, affermano, e ora deve imboccare un severo percorso di austerità. Come sia formato tale percorso lo sanno tutti, anche perché è lo stesso che quasi tutti i governi Ue, compreso quello italiano, stanno proponendo ai loro cittadini: tagliare i salari, le pensioni, la sanità, la scuola; privatizzare tutto, i trasporti, le spiagge, i servizi collettivi, le isole, i porti, e perché no, il Partenone.

Ciò che si tace in merito alla crisi greca è che le sue cause non sono quelle di solito addotte; che i rimedi finora proposti in sede Ue sono peggiori del male; e che la paralisi politica cui è stato ridotto il governo greco, privato della possibilità di decidere alcunché in tema di politica economica, costituisce uno svilimento della democrazia di importanza mondiale. Innanzitutto la causa prima dell´elevato debito pubblico non risiede affatto in un eccesso di spesa sociale, bensì in un flusso troppo ridotto di entrate fiscali, imputabile a un alto tasso di evasione durato parecchi anni. Adesso il governo greco, pressato dalla Ue, chiede ai pensionati, ai lavoratori, agli insegnanti, agli impiegati pubblici, di restituire al bilancio dello stato i miliardi di euro, in moneta attuale, sottratti col tempo ad esso da una minoranza che percepisce un reddito centinaia di volte superiore al loro. Dopo averli pure incolpati – il governo tedesco per primo – di lavorare poco, andare in pensione prima degli altri cittadini Ue, percepire pensioni d´oro, fare troppe ferie: laddove tutti i dati disponibili, per chi voglia appena informarsi, attestano che si tratta di affermazioni false.

Ma a quanto ammonta realmente il debito pubblico della Grecia, di cui si dice che potrebbe far saltare l´intera zona euro? Si tratta di 350 miliardi di euro. È certo una bella somma. La quale però rappresenta soltanto il 3,7% del Pil dell´intera zona euro, esclusa quindi una grande economia come il Regno Unito. Non soltanto: il 43% di tale debito è in mano a creditori greci, che per metà sono banche. Dal totale vanno ancora tolti 7 miliardi di debiti verso gli Usa, 3 verso la Svizzera, circa 2 nei confronti del Giappone. Il debito greco verso la Ue (banche e stati compresi) consistente soprattutto in obbligazioni e altri titoli, ammonta dunque a meno di 190 miliardi di euro, di cui circa 35 sono dovuti alla Bce. Ora, dal 2008 ad oggi i Paesi Ue, a parte la Svizzera, hanno speso o accantonato oltre 3.000 miliardi di euro (tre trilioni) per salvare le proprie istituzioni finanziarie. Ed ora davvero tremano perché un´economia tutto sommato periferica è in difficoltà per ripagare, a rate, poco più del 6% di tale somma? Il y a quelque chose qui cloche, dicono i francesi, qualcosa che non va nell´intera faccenda.

Le cose che non vanno sono principalmente due. La crisi greca è in primo luogo un´anteprima di quel che potrebbe succedere ad altri Paesi, Italia compresa, se i governi Ue non la smettono di subire le manovre del sistema finanziario, ivi comprese le agenzie di valutazione, e non provano sul serio a regolarlo, anche per evitare che ci piombi addosso tra breve una crisi peggiore di quella del 2008. Lo scenario comprende com´è ovvio il rinnovo potenziato di manovre speculative che i maggiori gruppi finanziari costruiscono scientemente per estrarne il maggior profitto possibile in forma di interessi e plusvalenze; il che implica, come insegnano i modelli di gestione del rischio, il far correre un rischio elevato non già ai gruppi stessi, bensì ai cittadini oggi greci, domani spagnoli o italiani. Ma comprende anche una spinta selvaggia alle privatizzazioni, che essendo condotte sotto la sferza della troika Ce, Fmi e Bce, consisteranno al caso in vere e proprie svendite di immensi patrimoni nazionali. L´Italia, dopotutto, ha ottomila chilometri di coste e centinaia di isole da mettere all´asta, più il Colosseo e magari l´intera Venezia; altro che la Grecia.

Una seconda cosa che non va è la Bce. Il suo limite fondamentale, imposto dal trattato istitutivo della Ue, sta nell´avere come massimo scopo statutario la stabilità dei prezzi, ossia la difesa dall´inflazione. Ciò spiega in parte la lentezza e la goffaggine con cui si è mossa a fronte della crisi greca. Ma un simile limite equivale a decidere per legge, poniamo, che il pronto soccorso del maggior ospedale cittadino si occupa soltanto di lesioni alla gamba sinistra. Le altre due banche centrali dell´Occidente, la Banca d´Inghilterra e la Fed, hanno tra i loro scopi statutari anche lo sviluppo e la crescita dell´occupazione. Scopi che perseguono pure creando esplicitamente nuovo denaro: una funzione fondamentale che gli stati Ue hanno ceduto alla Bce, ma che questa non sembra voler esercitare come, dove e quando più ne avrebbero bisogno. Per questo motivo nella Ue cominciano a moltiplicarsi le voci favorevoli a un ampliamento degli scopi statutari della Bce. La crisi greca potrebbe essere una buona occasione per passare dalle voci all´azione. Sempre che i governi non temano di disturbare la macchina di cui sono per ora a rimorchio

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