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Immaginate di vivere in un Paese scandinavo. Uno di quelli dove l’amministrazione della cosa pubblica funziona, dove non si hanno notizie di scandali politici di un qualche peso. E pensate che una legge come quella approvata in Parlamento un paio di settimane fa, a seguito della manovra economica, fosse stata fatta, ad esempio, in Danimarca o in Finlandia. La nuova norma dice che le amministrazioni pubbliche potranno affidare, senza obbligo di gara, appalti che non eccedano la cifra di un milione di euro. Vale a dire che se una amministrazione pubblica (scandinava) dovesse ristrutturare una scuola, costruire una piccola strada, asfaltare una piazza e la spesa stimata fosse sotto il milione di euro, potrà chiamare direttamente la ditta (scandinava) e affidarle l’appalto.

Ecco, adesso spostiamoci nel nostro Paese. E immaginiamo che questa legge, parte della manovra economica approvata in fretta e furia da Camera e Senato nelle scorse settimane, sia invece diventata realtà nell’Italia delle cricche, degli orologi preziosi e delle escort portati in dono a politici e funzionari per ingraziarsene i favori.

Con un tratto di penna i nostri legislatori hanno raddoppiato il limite entro cui si era obbligati a indire una gara pubblica. Questo limite, 500 mila euro, era stato fissato appena un paio d’anni fa. Quanti sono gli appalti sopra un milione di euro nel nostro Paese? Pochissimi.

Walter Schiavella, che è segretario generale della Fillea, gli edili della Cgil, tra i primi si è battuto perché la norma non entrasse nella manovra. Ma la semplificazione del dibattito politico sul testo, con la corsa all’approvazione con il fiato sul collo della speculazione finanziaria, ha fatto perdere peso anche alle critiche più motivate.

Il dato resta però impressionante: “L’80% degli appalti pubblici – afferma Schiavella carte alla mano (in parte le pubblichiamo in questa pagina ndr) – è per cifre inferiori al milione di euro”. La norma, quindi, ha un effetto pratico immediato che è quello per cui la politica, da sola, vale a dire senza valutare il progetto o il prezzo migliore, può decidere chi lavora e chi non lavora in Italia. Diventa una scelta autonoma, legale, dei governi di città, province, regioni, asl. Una scelta con ogni evidenza soggetta ai “corteggiamenti” delle imprese che devono lavorare per continuare a sopravvivere.

Questo, però, segnala Schiavella, è solo il primo effetto negativo per un settore, quello edile, che nella crisi “ha perso il 20% rispetto al Pil”. Una cifra enorme anche se paragonata al periodo del dopo-tangentopoli “in cui – ricorda il segretario Fillea – si perse il 9,6%”. Questo, dunque, è il quadro da cui si parte: aziende in sofferenza, grandi appalti pubblici al lumicino (“il fondo unico per le infrastrutture segna 250 milioni per il 2012, 500 per il 213 e 800 per il 2014”), regole difficili da far rispettare. L’unico mercato ancora ricco resta quello delle cosiddette “emergenze”, che agisce, ricorda Schiavella, sempre con leggi in deroga (le inchieste sulla cricca attengono proprio al rapporto tra questi pubblici ufficiali e gli imprenditori aggiudicatari delle opere pubbliche).

Per il resto, si assiste a un mercato per cui il 10% dei costruttori ottiene oggi in Italia il 28% degli appalti pubblici e ad una preoccupazione che è apparsa evidente a tutti gli addetti ai lavori ma non ai legislatori. La preoccupazione riguarda il tessuto produttivo degli edili nel nostro Paese: “Se non vanno avanti le imprese che meglio possono reggere il confronto con il mercato, ma quelle che hanno legami più o meno leciti con la politica – attacca Schiavella – non sarà un bene per l’economia. Soprattutto se queste imprese ‘scorrette’ abbiano legami con i gruppi della malavita organizzata”. Pensiamo al movimento terra o all’intero ciclo del cemento. Ultima preoccupazione: se l’unico discrimine per ottenere un appalto pubblico è avere un buon rapporto con il politico di turno, a chi importerà più della qualità del prodotto finale?

Ci sono 150 miliardi di euro sui conti clandestini che tuttora gli italiani detengono illegalmente all´estero, al riparo dagli occhi del fisco. Un centinaio è investito in azioni, fondi, obbligazioni e titoli pubblici. Il resto in depositi e conti bancari. Lo scudo Tremonti, insomma, è servito a poco: nel 2009 sono rientrati, nonostante i termini favorevoli offerti, solo fra metà e un terzo dei soldi fuori legge investiti in titoli. E´ la stima contenuta in uno studio appena pubblicato da due ricercatori della Banca d´Italia, che hanno messo a confronto una lunga serie di dati statistici. I due ricercatori - Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti - si sono concentrati, in particolare, sugli investimenti di portafoglio, cioè in titoli, perché qui era possibile mettere a confronto i dati dei paesi che hanno emesso i titoli e sui loro acquirenti, con i dati all´altro capo della catena, cioè in Italia. Il divario che ne risulta equivale ai capitali non dichiarati. A fine 2008, prima cioè che Tremonti varasse la normativa per il rimpatrio autorizzato dei capitali, corrispondevano ad un ammontare fra 124 e 194 miliardi di euro.

I capitali illegali all´estero non sono un fenomeno solo italiano. A livello globale, dice lo studio, il divario fra attività e passività dichiarate è pari ad un po´ più del 7 per cento del Pil mondiale. L´Italia, però, va oltre: i titoli non dichiarati, nel 2008, equivalevano ad una quota fra il 7,9 e il 12,4 per cento del Pil nazionale, appunto fra 124 e 194 miliardi di euro. Negli anni, gli italiani hanno portato questi soldi all´estero con metodi ben noti. Gonfiando le spese per importare e dimagrendo gli incassi delle esportazioni, se sono imprese. Con i contanti portati dagli spalloni, se sono privati. Oppure, servendosi di un buon commercialista e di qualche finanziaria svizzera, con sistemi più raffinati: un investimento dichiarato e legale, all´inizio, in paesi al di sopra di ogni sospetto. Da qui, l´investimento in paesi con legislazioni meno stringenti, in società fittizie che poi falliscono o false transazioni. I soldi così disponibili vengono poi investiti in obbligazioni di paesi sicuri o, soprattutto, in fondi in Lussemburgo o nei centri off shore come le isole Cayman o Bermuda.

Lo scudo ha limato quelle percentuali. Nei dati ufficiali, il grosso dei rientri origina da conti e depositi bancari, ma i due ricercatori ritengono che si sia trattato del passaggio finale, dopo aver liquidato gli investimenti in titoli. Perciò ricalcolano i dati ufficiali dello scudo, attribuendo al disinvestimento di titoli circa 60 dei 97 miliardi di euro rientrati. Se, dunque, i capitali in titoli, inizialmente non dichiarati, erano pari a 140 miliardi di euro - la cifra intermedia fra 124 e 194 miliardi che lo studio della Banca d´Italia assume come riferimento - mancano all´appello, oggi, 80 miliardi di euro che gli italiani continuano a detenere clandestinamente all´estero: un ammontare pari al 5,5 per cento del Pil nazionale. Il dato si riferisce al 2009. I due ricercatori calcolano che, nel 2010, questa quota sia ulteriormente salita al 6,8 per cento, cioè a poco meno di 100 miliardi di euro.

Accanto agli investimenti illegali di portafoglio - in azioni, fondi, obbligazioni, titoli pubblici - ci sono gli altrettanto illegali conti correnti nelle banche estere. Basandosi sulle statistiche della Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti calcolano che i depositi all´estero non dichiarati ammontassero, a fine 2009, ad una cifra fra i 45 e i 50 miliardi di euro.

La politica della Gelmini ha messo in pratica il principio espresso da Roger Abravanel: “Si premiano i migliori indipendentemente dal reddito” (intervista al Corriere della Sera del 11-7-2010). La retorica sulla meritocrazia è stata usata come pretesto per creare un altro carrozzone pubblico – la Fondazione per il merito, con relativo presidente e consiglio di amministrazione – e soprattutto per demolire il diritto allo studio che, secondo lor signori, servirebbe solo a studenti mediocri e figli di evasori.

Stiamo ai fatti. Il sistema attuale assegna le borse ai meritevoli anche se privi di mezzi. La misura del merito per avere la borsa è accertata dagli esami sostenuti fin dal primo anno, con un criterio più severo rispetto ai sistemi di Germania e Francia che verificano solo al secondo anno. Applicare esclusivamente, come propone Abravanel, la valutazione del merito con un test standardizzato di ingresso, cosa molto diversa dalle prove di orientamento, sarebbe un'ingiustizia sociale e nessuno in Europa si è sognato di farlo, neppure i governi di destra. Il figlio della famiglia povera che arriva all’università ha già superato ostacoli difficili per l’assenza di borse di studio nelle medie superiori e non può essere inchiodato ai risultati della precedente formazione scolastica, anzi va aiutato con un sussidio proprio per avvicinarlo alle stesse opportunità del figlio di papà. Poi manterrà quell'aiuto solo meritandoselo con buoni risultati negli studi. Ne si puó pensare di scaricare i costi degli studi sui prestiti da restituire in età da lavoro. Con uno stipendio medio di ingresso di circa mille euro il giovane laureato dovrebbe pagare l'affitto della casa, la pensione integrativa, la restituzione del prestito per gli studi… e poi dovrebbe anche campare.

Oggi in Italia la soglia di reddito per ottenere la borsa è più restrittiva che in Europa e ciò nonostante neppure tutti gli aventi diritto la ottengono effettivamente. Il diritto allo studio è garantito solo al 9% della popolazione studentesca - ben lontano dal 25% della Francia e della Germania – e lascia scoperti non solo i ceti poveri ma anche quote significative del ceto medio. Il fondo statale è di 100 milioni, circa la metà di quanto contribuiscono gli stessi studenti col la tassa regionale del diritto allo studio, e nei prossimi anni tenderà a scomparire con 26 milioni nel 2012 e 13 milioni nel 2013.

In questa drammatica penuria di risorse la ministra, raccogliendo il suggerimento del suo ispiratore, vuole estendere il sussidio anche ai figli di papà, diminuendoli di conseguenza agli studenti privi di mezzi. A quel punto anche gli esecrati evasori fiscali non avranno più il problema di presentare dichiarazioni mendaci, rischiando un controllo della Guardia di Finanza, alla quale oggi molti enti per il diritto allo studio inoltrano le domande ricevute. Comunque, che siano evasori o no, i figli di papà non hanno certo bisogno del sussidio statale per sostenersi negli studi. Semmai a loro e a tutti i meritevoli, in questo caso davvero a prescindere dal reddito, andrebbero offerte opportunità di alta formazione, ad esempio serie scuole di specializzazione, buoni dottorati e, quando vi sono le motivazioni, anche attività di ricerca. Il sussidio pubblico, soprattutto se le risorse sono scarse, andrebbe invece concentrato sui meritevoli che non ce la fanno a sostenere i costi degli studi. Almeno questo dice la nostra Costituzione. E anche il buon senso. Solo la destra italiana pensa il contrario.

Le belle parole sul merito servono a coprire la vecchia politica di togliere ai poveri per dare ai ricchi.

Che ci fanno insieme le associazioni dei padroni piccoli, medi, grandi, artigiani, agricoli, con i banchieri, i cooperatori e i sindacati? Si sono messe insieme tante sigle, quelle che contano, le «parti sociali», per lanciare un appello disperato al Paese: la finanza ci mazzola, l'economia si trova in stato preagonico, lo sviluppo non si vede all'orizzonte e questo governo non ha l'autorevolezza per raddrizzare il timone e portare la nave Italia fuori dalla scogliera, verso il mare aperto. Se si vuole far ripartire la locomotiva (meglio sarebbe dire la littorina) è necessaria una discontinuità: fuori dai piedi Silvio Berlusconi che sputtana l'Italia nel mondo e avanti con un governo tecnico capace di tagliare spese e salari e obbedire agli ordini delle istituzioni finanziarie internazionali. Un tal governo avrebbe un blocco sociale compatto al suo fianco, perché la condizione che la nave vada è che tutti remino nella stessa direzione - l'armatore e il comandante a dare ordini e battere il tempo dalla tolda e gli operai nella stiva a eseguire. Per questo dev'essere preventivamente abbandanata ogni ipotesi di conflitto. Ecco a cosa serve la firma dei sindacati in calce al «patto», più precisamente di Cisl e Cgil perché Angeletti non ha ancora capito se Berlusconi resisterà o sarà costretto a gettare la spugna e dunque sceglie la prudenza.

Il manifesto della «discontinuità» incontra il pensiero di un Sergio Marchionne particolarmente affezionato alla metafora della nave da guerra che combatte nel libero mercato contro le altre navi da guerra, in cui il nemico del rematore non è più l'armatore con cui dev'essere pappa e ciccia ma la nave nemica, e dunque i rematori e l'armatore nemici. Tutti uniti per salvare il paese, in pace come in guerra, sembra un appello lanciato dal presidente Giorgio Napolitano per essere fatto proprio da un arco di forze che va da Bersani a Fini, naturalmente aperto a un pdl postberlusconiano.

Prima che antipopolare è - sarebbe - un patto politicista, finalizzato per molti dei sottoscrittori a garantire un governo di unità nazionale, o di transizione che dir si voglia, senza Berlusconi ma impedendo il passaggio del timone nelle mani del centrosinistra come esito possibile e forse anche probabile di un ricorso anticipato alle urne. Questo vuol dire «discontinuità». Un patto vuoto di contenuti che immagina manovre economiche non dissimili da quelle di Tremonti. Non un patto per lo sviluppo ma un patto contro Berlusconi, blindato da tutti per evitare ipotetici cambiamenti di campo. Ammesso che il centrosinistra garantirebbe un cambiamento di paradigma e di interlocutori nella definizione di un piano anticrisi.

Come ha detto ieri al manifesto il segretario della Fiom Maurizio Landini e come ripete oggi Sergio Cofferati sul nostro giornale, le organizzazioni sindacali dovrebbero organizzare grandi mobilitazioni contro la manovra ingiusta e la politica economica del governo, invece di stringere patti contro natura e inefficaci ad affrontare la precipitazione della questione sociale in autunno. Scegliere invece la seconda strada, da parte della Cgil, segnala un'ulteriore, pericolosissima perdita di autonomia del sindacato.

Sui parchi in Lombardia il federalismo funziona al contrario: la Regione azzera i consorzi di gestione e si annette i poteri affidati ai Comuni. A meno di qualche ripensamento, una spudorata operazione di potere colpisce ancora una volta il verde, il territorio e l’integrità delle aree protette.

Non si può che rilanciare il grido d’allarme delle tante associazioni ambientaliste che in questi giorni hanno continuato a segnalare i dubbi e i pericoli di un’operazione considerata un salto nel vuoto: i precedenti di rapina del verde pubblico nei 24 parchi regionali, che costituiscono un terzo del territorio lombardo, dovrebbero mettere in guardia da una decisione che indebolisce la tutela di un sistema creato per garantire equilibrio, in una zona ad alta densità di traffico e industrie. È paradossale che il crollo di un argine difensivo per il verde passi proprio nella Regione che si prepara a ospitare l’Expo ambientalista e sostenibile del 2015. Ma che coerenza c’è tra i progetti di valorizzazione dell’agricoltura e delle cascine lombarde e la possibilità di espropriare fette di terreno da riservare al cemento, a interventi urbanistici che pesano su un habitat straordinario come il parco del Ticino o all’inutile terza pista dell’aeroporto di Malpensa? Troppe volte in passato l’eccesso di prudenza e l’indifferenza politica hanno avallato gli scempi sul territorio; troppe volte in nome di una discrezionalità di parte sono stati privilegiati gli interessi dei pochi beneficiati dalle concessioni edilizie. Negli ultimi vent’anni le grandi infrastrutture e il cemento si sono mangiati un pezzo di Regione grande quanto le città di Varese e Bergamo. E le previsioni parlano di altri 53 milioni di metri quadrati di aree agricole che rischiano di essere spazzate via. La nuova legge che la regione oggi si appresta a varare è un semaforo verde in questa direzione, una direzione sbagliata, affrettata, pericolosa. Per questo è naturale sollevare dubbi, proprio mentre le inchieste della Procura aprono interrogativi su altre procedure disinvolte adottate da alcune pubbliche amministrazioni, in nome di una presunta pubblica utilità. Anche qui, con la nuova legge si parla di doverosa necessità per salvare i parchi dalla sicura soppressione, dopo una norma maldestra approvata in Parlamento. Ma l’unica necessità è quella di rafforzare i controlli sul territorio. Non è sospetta una legge che va nella direzione contraria?

"Dopo i campi di sterminio, stiamo assistendo allo sterminio dei campi". Queste parole di un grande poeta, Andrea Zanzotto, descrivono bene quel che sta accadendo in questi anni in Italia. Prigionieri di un modello di sviluppo arcaico e senza futuro, politici di ogni colore si sono alleati di fatto con chi considera il territorio materia inerte per speculazioni d’ogni sorta, e non più, come è stato per secoli, preziosa fonte di salute, cibo, vita. In un Paese dall’economia notoriamente immobile, da vent’anni inseguiamo l’idea stolta e perdente secondo cui lo sviluppo economico coincide con l’edilizia, con il consumo di suolo, con la devastazione dei paesaggi storici.

Berlusconi è il corifeo di questo gigantesco spreco della nostra risorsa più preziosa; ma i suoi seguaci si contano nelle fila di ogni partito, come ben si vide quando la parola d’ordine del fallimentare “piano casa”, lanciata dal presidente del Consiglio però mai tradotta in legge dal governo, fu prontamente raccolta da tutte le regioni italiane (senza eccezione). Invano si ripete, a orecchie sorde a ogni discorso, che la crisi economica che attraversiamo nasce dalla “bolla immobiliare” americana, e che non si può combattere con una bolla immobiliare nostrana.

Pessime abitudini, sordità culturale, incapacità di pensare, intrecci di interessi privati, vischiosità di procedure amministrative, avidità di guadagno e mancanza di immaginazione congiurano nel consegnare il suolo della patria nelle mani sbagliate, nell’indirizzare sul “mattone” il risparmio senza tener conto dell’enorme invenduto (120.000 appartamenti fra quelli costruiti negli ultimi due anni). «La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuol salvare il suolo in cui vivono gli italiani» (Luigi Einaudi).

Il caso del comune di San Vincenzo, che sta occupando in questi giorni molto spazio sul Tirreno e su altri giornali, è esemplare. A ogni festa popolare, a ogni occasione, si dispiegano sui muri le idilliche foto della San Vincenzo che fu, paesaggi e panorami che non ci sono più. La realtà è che, a fronte di un continuo calo dei residenti, il territorio comunale è stato spietatamente cementificato, con un consumo di suolo doppio di quello medio della provincia di Livorno e più che triplo della media toscana, fino all’obbrobrio di un “porto turistico” che ha letteralmente ricoperto di cemento centinaia di metri di spiaggia già pubblica, trasformandoli di fatto in un centro commerciale, invano ribattezzato “Itaca” (offendendo Ulisse e Omero), come invano le strade asfaltate del porto-shopping center sono state intitolate populisticamente a locali famiglie di pescatori. Il tentativo di recuperare coi nomi e con vecchie foto ingiallite quel che viene distrutto coi fatti denuncia la coda di paglia dell’amministrazione comunale, ma non attenua i suoi torti.

In un territorio martoriato dalla cecità di chi lo ha amministrato, non c’è che da sperare in chi lo amministra oggi. Cartina di tornasole delle intenzioni dell’amministrazione comunale è la tenuta di Rimigliano, 560 ettari di assoluta meraviglia, contro i quali intendeva accanirsi la speculazione edilizia, quando la proprietà (per intenderci, il Tanzi della Parmalat: un emblema dell’imprenditoria italiana) voleva lottizzare, costruire un enorme albergo, distruggere una straordinaria oasi flori- faunistica. Quando il sindaco Michele Biagi mi propose, qualche mese fa, di visitare la tenuta con lui e i suoi collaboratori, fui felice di sentirgli dire che il nuovo Regolamento urbanistico avrebbe previsto il pieno recupero delle bellissime case poderali, senza aumento di cubatura e rispettandone le caratteristiche architettoniche; che gli annessi agricoli sarebero stati solo in minima parte destinati a supporto delle funzioni residenziali; che la tenuta sarebbe diventata un parco da visitarsi, con pieno rilancio delle attività agricole; che non erano previste nuove costruzioni né nuove cubature.

Apprendo ora, da una lettera del sindaco al Corriere Fiorentino, che è invece previsto «un albergo più piccolo, al massimo di 6000 metri quadrati»; e apprendo dai giornali che a supporto delle attività agricole sarebbero destinati appena 650 metri quadri, men che insufficienti per 560 ettari. Queste ed altre gravi perplessità, almeno in parte presenti anche nelle osservazioni della Regione, dovrebbero indurre a riaprire un tavolo di discussione, ma è proprio quello che (sembra) il sindaco Biagi intende escludere, coinvolgendo per misteriose ragioni anche un cittadino come me (senza affiliazioni politiche) in una generale chiamata di correo: «Rimigliano, tutti sapevano: anche Settis», titola infatti il Corriere Fiorentino. Il sindaco sostiene che di discussione ce n’è stata anche troppa, del resto in linea con lo Statuto del suo Comune, che nel prevedere la possibilità di referendum consultivi di iniziativa popolare espressamente esclude fra le materie soggette a quesiti referendari «l’assetto del territorio» (art. 28, lettera h). Ma la discussione su questi temi non è mai troppa, perché i delitti consumati contro il territorio sono irreversibili.

San Vincenzo non è certo l’unico Comune in Italia (e nemmeno in Toscana) in cui miopie amministrative e avidità di privati hanno largamente esagerato nel consumare il suolo.

Ma altri Comuni, altri sindaci hanno capito quando è tempo di smettere con la droga dell’edificazione illimitata (questo è spesso il senso dello “stop al consumo di territorio” deciso dai “Comuni virtuosi” o reclamato dai cittadini).

A San Vincenzo, lo stesso quadro conoscitivo annesso al nuovo piano strutturale del Comune offre un dato agghiacciante: a fronte di un consumo di territorio del 10,6% nel 1999, nel 2009 si è raggiunto il 17,6%, con un incremento del 70% in dieci anni. A tanta overdose è tempo di dire “basta!”.

Nelle preziose memorie del primo sindaco di San Vincenzo, Lido Giomi («Io c’ero. Storie e memorie di una vita vissuta»), si trovano foto e notazioni commoventi: il porto costruito negli anni Settanta e allora gestito dal Comune, con la spiaggia ora profanata dal cemento, è messo a confronto col porto di oggi, dove a causa della «diga foranea talmente vasta, considerando le riflessioni fatte dai tecnici già nel 1970, è probabile che l’arenile scompiata definitivamente. Insomma, ciò che ha rappresentato la carta d’identità del nostro Comune fin dalla sua nascita un giorno non ci sarà più. Chi beneficerà di un lavoro così ampio a mare aperto? Non certo gli stabilimenti balneari, che dovranno portare la sabbia con mezzi meccanici, con danni economici e ambientali. Valeva la pena di spendere tanti miliardi per un aumento di circa cento posti barca? Chi ci guadagna da questa operazione? Cittadini e villeggianti per andare al mare dovranno spostarsi in macchina verso Donoratico o Rimigliano».

D’altronde, prosegue Lido Giomi, «in questi ultimi anni il peso urbanistico sul territorio si è fatto molto pesante. Sono state costruite centinaia e centinaia di case, anche troppe e qualche volta nei posti sbagliati. Il costo della casa è uno dei più alti in tutta la provincia e per questo motivo i giovani si trasferiscono spesso in altri Comuni. Intanto i cittadini residenti sono diminuiti di quasi 1000 unità rispetto al 1970. Questo tipo di sviluppo non ha risolto il problema della casa per i residenti, ha prodotto tante doppie case senza risolvere il problema della disoccupazione per i giovani.

Se solo vedessi, in qualche modo, un’inversione di tendenza rispetto al presente sarei più fiducioso; invece no, da trent’anni a questa parte si continua a mentire anche a noi stessi, si continua a costruire a macchia di leopardo, disseminando case dovunque senza una programmazione urbanistica, con costi enormi per la collettività. Il fatto è che il valore e la preservazione del patrimonio ambientale non si possono in alcun modo monetizzare. Invece, sono sempre i soldi a “farla da padrone”».

Nella postfazione al libro di Lido Giomi, il sindaco Michele Biagi dice che Giomi è una figura esemplare. «che nel tempo ha mantenuto, se non accresciuto, la sua autorevolezza, ben al di là del suo ruolo politico». Ben detto, sindaco Biagi: ma allora segua i consigli del suo autorevole predecessore. Il gravissimo errore del porto è ormai compiuto: ma ora stop al consumo di territorio a San Vincenzo, per favore!

Dobbiamo purtroppo continuare a subire le prepotenze di una maggioranza parlamentare lontana dalla percezione stessa di che cosa significhi rispetto per i diritti civili. È passato appena un giorno dalla severa lezione impartita dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il divieto di sposarsi per gli immigrati senza permesso di soggiorno, perché così veniva negato un diritto fondamentale della persona.

Ed ecco che la Camera dei deputati ha subito voluto smentire questo segnale di civiltà che, per un momento, ci aveva fatto sentire vicini ai Paesi che praticano il buon diritto, quello che ha la sua bussola nel rispetto dell´altro, nell´accettazione della diversità come fondamento dell´eguaglianza. Nell´aula di Montecitorio si è bloccata la possibilità di approvare una norma contro l´omofobia, usando addirittura, in maniera del tutto distorta l´argomento di una sua incostituzionalità. Il mondo capovolto. È il trionfo degli spiriti beceri, dell´alata parola dei ministri che indicano al pubblico disprezzo i "culattoni" e poi trovano alleati in chi continua a praticare un fanatismo ideologico in nome della morale e della "natura". Una volta di più, miseramente, la politica del disgusto ha vinto sulla politica dell´umanità, per usare le parole di Martha Nussbaum, sui cui scritti mi ero permesso di richiamare l´attenzione pochissimi giorni fa. Parole al vento.

Conosciamo le ragioni che avevano indotto a proporre una norma contro l´omofobia. Bisognava reagire a un clima omofobico, non più strisciante, ma dichiarato, grazie al quale alle parole si sono aggiunte le aggressioni fisiche. La regressione culturale che ci circonda, il cui linguaggio ci dà quotidiane testimonianze, è stato l´ottimo terreno di coltura di questi atteggiamenti. In questi casi la norma giuridica, al di là dei suoi aspetti punitivi, ha un elevato valore simbolico. È il segno di una società che non dà cittadinanza a specifici comportamenti, che rifiuta istituzionalmente ogni loro legittimazione.

Nessuno degli argomenti portati a sostegno della pregiudiziale di incostituzionalità è convincente. Alcuni, anzi, sono davvero segno di un´imbarazzante modestia giuridica, per non dire una malafede che si traduce nel peggior cavillare. Proprio per evitare alcune obiezioni, dopo il voto contrario del 2009, si era rinunciato ad introdurre un vero e proprio reato di omofobia, limitandosi a prevedere una semplice aggravante. Neppure questo è bastato. Si è detto che il riferimento all´"orientamento sessuale" è troppo generico, sicché la norma mancava della necessaria chiarezza e tassatività, lasciando troppo spazio alla discrezionalità dei giudici. Ma dell´orientamento sessuale parlava già il Trattato di Maastricht, su di esso è tornato il Trattato di Lisbona e la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea ne parla all´articolo 21 tra i casi di illegittima discriminazione (tutti documenti a suo tempo votati dal Parlamento italiano). Si tratta di un concetto tutt´altro che inafferrabile, i cui contorni sono stati definiti non solo culturalmente, ma attraverso un´ampia casistica giurisprudenziale. Nessun rischio di incertezza o di arbitrio, dunque. Per quanto riguarda, poi, la tesi secondo la quale si tratterebbe di un trattamento di favore per gli omosessuali che avrebbe creato una disparità di trattamento in altri casi o per altri soggetti, siamo di fronte ad un´altra sgrammaticatura giuridica.

Dovremmo sapere che l´eguaglianza consiste certo nel trattare in modo eguale situazioni simili, ma anche nel trattare in modo differenziato situazioni tra loro sostanzialmente diverse, come più volte ha detto la Corte costituzionale. E questo è proprio il caso dei comportamenti omofobici. Questa brutta giornata parlamentare è stata comunque segnata da qualche divisione all´interno della maggioranza.

Diciotto deputati del Pdl si sono astenuti (tra questi i ministri Carfagna e Romani) e uno, Versace, ha votato contro le pregiudiziali di costituzionalità. Qualcosa comincia a muoversi, e questo induce ad insistere perché si possa giungere ad una legge civile. Ma questa vergognosa vicenda impone due considerazioni politiche. Quale ragionevole dialogo sulle riforme in materia di giustizia e diritti può essere avviato con una maggioranza che al Senato cerca di imporre l´ennesima legge ad personam ed alla Camera sbarra sempre la via all´incivilimento del sistema giuridico? Quale alleanza politica è possibile tra le forze di centrosinistra e una Udc che appoggia la legge contro il testamento biologico, affossa la norma sull´omofobia, continua ad inveire contro il risultato dei referendum sull´acqua?

Paola Concia, relatrice alla Camera, ha proposto di avviare l´iter per una legge di iniziativa popolare. Bisogna farlo subito, utilizzando anche la spinta civile che viene dai movimenti attivi nella società. Le persone vive contro le anime morte del Parlamento. Su questo bisognerà tornare, perché la vicenda di ieri ha confermato l´esistenza di un gravissimo problema di rappresentanza. Le istituzioni non possono reggere quando ogni giorno i cittadini sono costretti a registrare incapacità di cogliere le dinamiche sociali, disprezzo per le minoranze, sacrifici di diritti civili e sociali.

Il richiamo del presidente Napolitano al premier sul decentramento dei ministeri segnala con opportuna gravità che le farse possono aprire la via a crisi gravi. Non sono mai ammissibili se coinvolgono le istituzioni e sono ancor più intollerabili nei momenti di difficoltà di un Paese. Sono assolutamente illecite se chiamano in causa questioni generali e costituzionali. Dalla meditata iniziativa del presidente Napolitano viene anche un monito a non sottovalutare le conseguenze del concitato e sempre più dissennato dibattersi di una maggioranza in agonia. Concitato e convulso anche in quella Lega che fino a un anno fa sembrava ancora in ottima salute: le elezioni regionali del 2010 la avevano fortemente irrobustita, proiettandola oltre i suoi tradizionali confini. Proprio quel successo le avrebbe imposto di riesaminare radicalmente una politica di cortissimo respiro e priva di prospettive reali (in primo luogo europee) per gli stessi "interessi del Nord", oggi ridotti alla mascherata dei finti ministeri di Monza (patetico approdo, in realtà, dei parlamenti padani di quasi vent´anni fa). Così non è stato.

Il confuso e pericoloso dibattersi della maggioranza costringe a riflettere a fondo sulla fase che attarversiamo, e molti interventi hanno evocato la crisi di Tangentopoli e il crollo del sistema dei partiti che essa innescò. A spingere in questa direzione non è solo il crescere della corruzione e il discredito del ceto politico ma la sensazione che siano crollati progressivamente gli architravi di una lunga stagione. L´ultimo atto, una manovra finanziaria pesantissima e socialmente iniqua, ha smentito un´intera politica basata sulle menzogne e sulla irresponsabilità economica. Ed è stata resa ancor più iniqua dall´immunità garantita agli sprechi e agli sperperi della politica: in questo scenario è apparsa ancor più intollerabile l´impunità penale dei singoli. È solo l´ultimo atto, come s´è detto: la fiducia nel "nuovo miracolo italiano" è un ricordo lontanissimo e il fallimento della "politica del fare" ha la sua conferma più drammatica nelle perduranti sofferenze e nella dolorosa incertezza di futuro dell´Aquila. E il premier che aveva più volte garantito la fine dell´emergenza a Napoli non è in grado di imporre alla Lega neppure misure elementari e doverose di provvisorio ripiego. Per questa via, come ha scritto Aldo Schiavone, la leadership di Berlusconi è diventata ormai «un grumo di macerie e potere, un impasto denso di seduzione finita e di ostinazione che resiste», mentre si intravede sempre più chiaramente sullo sfondo quell´infittirsi di reti illegittime di cui la P3 e la P4 sono state espressione. Il crescere degli scandali privati e pubblici, dunque, ha fatto solo risaltare meglio la fine annunciata di una fascinazione politica.

Volge dunque al termine su tutti i versanti un rapporto del centrodestra con il Paese che si è consunto da tempo. Qui vi è certo qualche significativa somiglianza, ma anche qualche differenza, con lo scenario dei primi anni Novanta. La corruzione aveva superato da tempo, allora, i livelli di guardia ma a far esplodere l´indignazione contribuì in modo decisivo la fine di quel "patto di tolleranza" fra governanti e governati che negli anni Ottanta aveva progressivamente sostituito il consenso. Era basato, in buona sostanza, sul prevalere degli interessi degli uni e degli altri (leciti o illeciti che fossero) sul bene comune. Tolleranza dell´evasione fiscale, condoni, e uso sempre più innaturale della spesa (non solo al Sud) ne erano stati gli strumenti, ed era proceduta di pari passo l´occupazione e la spartizione dello Stato da parte dei partiti di governo. Quella politica portava inevitabilmente al disastro ma la sua fine fu accelerata da una crisi economica profonda e dal processo di unificazione europea, che ci imponeva di invertire quella spirale. Ci impediva di ampliare ulteriormente un debito pubblico giunto al 120% del prodotto interno lordo. Ci "costringeva" ad essere virtuosi. La rivolta antifiscale di chi temeva più seri controlli fu la prima reazione degli interessi colpiti (e di più generali illegalismi), il Mezzogiorno divenne il simbolo negativo dell´abuso della spesa pubblica e la corruzione politica apparve sempre più intollerabile: la Lega cavalcò tutti questi umori e prosperò su di essi, costruendo il primo pilastro di un nuovo inganno.

Oggi come allora, e sia pure in forme diverse, una fase più lunga è al termine e la sua fine coinvolge culture, o inculture, profonde. Giuseppe De Rita ha osservato che, assieme al "governare facile" del berlusconismo, sono oggi in crisi tutti i miti della "seconda repubblica", incentrati su «improbabili e taroccate innovazioni delle istituzioni e delle classi dirigenti», e volge al termine anche «il primato dell´individualismo e del soggettivismo etico». Già in precedenza, negli straordinari risultati elettorali recenti e nello spirito collettivo che essi hanno fatto emergere molti avevano visto la vera fine della stagione iniziata negli anni ottanta, basata appunto sul dispregio delle norme e delle regole collettive, e su un "rampantismo" sempre più avido di puntelli e sussidi (spesso illegittimi).

Andrebbe compreso meglio, però, perché le culture, o inculture, degli anni ottanta hanno potuto durare così a lungo. Perché hanno potuto sopravvivere a quello stesso crollo che avevano provocato vent´anni fa, e riproporsi poi in altre forme. Le ragioni sono indubbiamente molte, e rimandano anche al Paese, ma un dato non va rimosso: nella bufera di Tangentopoli e nel crollo di un sistema politico ormai screditato la sinistra non seppe avanzare fino in fondo, in alternativa, proposte e modelli di buona politica. Più ancora, non seppe proporre una nuova idea di Italia, e sperperò anche le potenzialità che era riuscita a metter in campo con il primo governo Prodi. Al termine di esso prevalse il ritorno a una politica vecchia e destinata alla sconfitta (lo ha ricordato benissimo, di recente, Umberto Eco). C´è da sperare che la storia non si ripeta, ma i segnali non sono confortanti: e non solo sul versante della corruzione, che vede esponenti del Partito democratico sul banco degli accusati per episodi di rilievo e che impone una riflessione non episodica. Più in generale, il Pd non ha dimostrato sin qui di essere all´altezza della ventata di speranza alimentata dai recenti pronunciamenti elettorali. Non ha ancora dimostrato di essere capace di rinnovarsi profondamente, come essa richiedeva: di qui una sostanziale immobilità e la permanente assenza di una visione lucidamente alternativa. Con molte, infelici conseguenze quotidiane.

C´è da sperare con forza che il centrosinistra sia in grado di invertire una stanca e logora consuetudine mettendo in campo con urgenza energie e progetti nuovi, adeguati al momento. Programmi e figure di altissimo profilo e di grandissima credibilità, in grado di contrastare il gravissimo deterioramento della situazione. E di permettere agli elettori di sperare ancora. È una condizione assolutamente necessaria per chiudere definitivamente una fase e aprirne con fiducia una nuova. Ma sembra ancora tutta da costruire.

Quante manovre ancora e per giungere dove? Qual è la direzione delle politiche economiche delle democrazie occidentali più o meno consolidate? I livelli di riflessione che queste domande suggeriscono sono due, uno relativo ai caratteri delle specifiche scelte nazionali e uno relativo alla dimensione globale o, se si vuole, sovrannazionale. A proposito del primo livello, osserviamo che le manovre si ripetono a scansione regolare perdendo il carattere di eccezionalità con il quale sono proposte, giustificate e approvate. Inoltre, si assomigliano un po’ tutte. Se si va a rileggere quanto scrivevano quotidiani e riviste specialistiche nel giugno 2010 a commento della manovra economica del governo per i successivi due anni e mezzo, ci si accorge che anche allora si usava l’espressione "lacrime e sangue".

Come allora, anche in questi giorni in occasione della nuova manovra "lacrime e sangue", si è assistito a un dualismo altrettanto e forse più radicale con un "gioco" che ha certamente agevolato la velocità della decisione. Come allora, anche questa volta, la manovra ha dosato sacrifici in proporzione alla forza politica dei settori sociali interessati: colpire genericamente tutti significa colpire chi è già più debole e, inoltre, senza lobby protettive. Come allora, anche in questa occasione la manovra è depressiva e non tonica rispetto alle potenzialità di crescita della società, le quali sono affidate alla speranza in una provvidenziale congiuntura favorevole dell’economia internazionale e alle libere forze del mercato – si "spera" che queste ultime non scaglino la loro maledizione inappellabile come divinità dell’Olimpo. Oggetto di una fede che rassomiglia più a un talismano psicologico che a una previsione ragionevolmente realistica.

In sostanza i governi, il nostro tra questi, si stanno da diversi anni allenando a fare manovre economiche e a mettere in campo le strategie giustificative più sicure con lo scopo di scongiurare l’ira funesta di potenze senza volto. La differenza consiste essenzialmente nella decisione di chi far più pagare, quanto e come. I governi italiani di questi ultimi anni si sono specializzati a sacrificare il futuro, forse perché non ha lobby o forse perché sperano che la proverbiale capacità degli italiani di farcela in qualche modo farà il miracolo. Ecco allora che i tagli sulla scuola e l’umiliazione di chi è portatore forzatamente inattivo di forza lavoro sono i due pilastri consolidati sui quali si costruiscono le manovre economiche.

Se è difficile riconoscere l’identità di una manovra rispetto all’altra poiché tutte si assomigliano nei caratteri essenziali ancora più difficile cercare di comprendere quale sia il corso degli eventi che con queste manovre si intende proporre o evitare, suggerire o scongiurare. Il livello di riflessione si dovrebbe spostare a questo punto oltre gli stati nazionali. Fino a quando ancora il nostro come gli altri Paesi dovranno fare "manovre lacrime e sangue"? Qual è l’obiettivo e a che cosa esattamente si aspira? La manovra, questa come le altre che l’hanno preceduta, non si limita solo a togliere e tagliare ma anche a promettere privatizzazioni nella proprietà e nella gestione di servizi pubblici: dall’elettricità ai trasporti, ma non solo. Servizi e beni che fino ad ora erano stati con più o meno successo tenuti al riparo dal mercato si chiede prepotentemente che siano dati in toto al mercato. Sembra che i mercati non sopportino la concorrenza del pubblico su beni che possono essere generatori di ricchezza e profitto. Tutto ciò che è economico è per ciò stesso oggetto del mercato libero. Si tratta di decidere, ovviamente, che cosa mettere nel paniere "economico".

Fino a qualche decennio fa sarebbe per esempio risultata una bestemmia, in Europa almeno, che la salute fosse trattata come bene economico. Oggi la maggioranza degli Stati europei sembra meno convinta che questa distinzione valga ancora (del resto la tecnologia e la farmaceutica, settori che afferiscono a multinazionali potentissime, impongono al governo della sanità pubblica limiti notevoli). Lo stesso vale per altri settori. Negli Stati Uniti perfino la repressione e le carceri sono diventati beni economici gestibili dalla "società civile" e fonte di guadagno (le multinazionali fanno grandi profitti con il lavoro asservito dei detenuti mentre le congregazioni religiose si alimentano gestendo parte dei servizi carcerari).

La lotta tra mercato libero e bene pubblico sembra sia la vera protagonista di questo permanente stato di default contro cui le democrazie di tutto il mondo stanno combattendo. Con uno svantaggio nemmeno troppo implicito: non possono, se è vero che sono bastioni di libertà, sconfessare o anche solo limitare la libertà di mercato. Soprattutto non possono più definire che cosa debba restare fuori del mercato – un potere che la politica si era arrogata nei decenni della ricostruzione postbellica e che andava sotto il nome di "stato sociale". La democrazia è ora invitata senza nemmeno troppa gentilezza a ritirarsi dalla società; il potere della scelta politica deve autocircoscriversi in quei settori che tradizionalmente sono dello Stato: la sicurezza individuale (della vita e della proprietà) e la sicurezza delle frontiere. Le ambizioni di usare lo Stato per creare una società democratica devono fermarsi qui. E le manovre che di anno in anno vengono imposte (preferibilmente in estate quando tutti siamo un po’ più distratti e smobilitati) sono come tasselli di questo mosaico in formazione di ridescrizione dell’identità delle società democratiche. La critica giusta sul carattere della manovra per l’ineguale e quindi iniqua distribuzione dei sacrifici e dei costi dovrebbe fare uno sforzo ulteriore ed estendere l’obiettivo oltre i confini dei singoli Paesi e delle singole manovre per farci vedere, se possibile, la mutazione epocale in corso.

Postilla

La mutazione epocale che è avvenuta ha assoggettato ogni cosa alle leggi non genericamente “dell’economia”, ma dell’economia capitalistica. Questo sistema economico non è l’unico che è esistiito e non è l’unico possibile. Se vogliamo conservare la speranza dobbiamo continuare a credere che un’altra economia è possibile, e che si può cominciare a costruirla oggi, nella fatica e nell’incertezza delle sperimentazioni guidate da una volontà ma non ancora da una lucida teoria. Occorre tener viva la fiammella della possibilità di una nuova “mutazione epocale”

Venerdì pomeriggio, la notizia dell’esplosione nel centro di Oslo ha provocato in molti un immediato riflesso condizionato. Si trattava con tutta probabilità di un’autobomba e quindi di terrorismo di origine islamica. Niente di più classico. Esasperante, tragica routine.

Poi, col passare delle ore, sono arrivati i dettagli della strage sull’isolotto di Utoya ed è emerso quel giovane biondo, con lo sguardo azzurrino. Alla certezza iniziale sulla natura jihadista dell’attentato è succeduto un momento di incredulità. Il terrorista era un puro scandinavo. Un norvegese aveva ammazzato decine di ragazzi norvegesi a sangue freddo. L’assassino era di incontestata origine europea, era un cristiano e fiero di esserlo. Se il pensiero che si trattasse di un arabo, di un musulmano, era stato un riflesso condizionato, la scoperta che il criminale era "uno dei nostri" ha suscitato sgomento. Il terrorismo può dunque essere europeo. La sorpresa ha stordito non solo i norvegesi.

I primi sospettati, supposti jihadisti nostalgici di Bin Laden, sono via via scomparsi dai telegiornali e dalle prime pagine dei quotidiani (e speriamo che non vi ritornino) ed è affiorata la tesi dell’attentato neo nazista, poiché il giovane biondo, identificato come Anders Behring Breivik, 32 anni, di professione agricoltore, è subito risultato "anti marxista, anti Islam, anti multiculturale".

La polemica delle attribuzioni contrapposte, tra chi sosteneva la natura islamica dell’attentato e chi sosteneva quella di un’azione concertata di estrema destra, non ha avuto il tempo di svilupparsi, perché (con la riserva che nel corso delle indagini emergano complici e con loro una qualche organizzazione), il giovane biondo con gli occhi azzurrini appare sempre più un assassino solitario, un uomo psichicamente anormale, un individuo affetto da paranoia.

Ma anche se questa diagnosi venisse confermata, essa non ridurrebbe comunque la strage norvegese a un’azione compiuta da un pazzo, quindi a un affare di competenza dei soli psichiatri. Anders Behring Breivik è un tumore annidatosi e sviluppatosi nella nostra società europea, dove la crescita dei gruppi di estrema destra ha creato un’atmosfera che può spingere persone psichicamente disturbate a gesti di illimitata violenza. Lo sostiene Hajo Funke, professore alla Libera Università di Berlino e studioso dei fenomeni di estrema destra. E con lui sono d´accordo non pochi altri esperti nella materia.

Non c’è del resto bisogno di ricorrere agli specialisti per rendersi conto che l’opposizione all’immigrazione, in particolare a quella musulmana, alla globalizzazione, al multiculturalismo, e a tutto quello che lo favorisce, Unione Europea inclusa, rafforza i movimenti populisti solerti nel presentarsi come difensori dell’identita nazionale o dei particolarismi regionali. Ed anche se quei partiti non predicano la violenza, essi creano un clima di odio che la favorisce, anche a livello individuale. Una violenza non riservata alla Norvegia, giudicata una contrada, a torto o a ragione, tradizionalmente tollerante, ma anche possibile in tanti altri paesi, con tradizioni meno virtuose.

La lotta al terrorismo di origine islamica è stata e resta giusta, indispensabile, e dopo l’11 settembre non poteva che mobilitare la quasi totalità delle varie intelligences occidentali. Ma si può sostenere, come il New York Times, che probabilmente si è sottovalutato il pericolo del terrorismo di estrema destra. L’attentato alle Torri Gemelle ha fatto ad esempio dimenticare, lo ricorda sempre il Nyt, quello avvenuto sei anni prima, nel 1995, a Oklahoma City, dove un estremista di destra uccise 168 persone con un ordigno a base di fertilizzanti, come quello piazzato nel centro di Oslo da Anders Behring Breivik.

È stato dato, ad esempio, scarso rilievo a quel che è accaduto lo scorso novembre nella città svedese di Malmo, dove un uomo è stato arrestato con l’accusa di avere aggredito una dozzina di immigrati. In un caso con esito mortale. Sempre in Svezia un partito di estrema destra, quello dei Democratici svedesi, ha ottenuto il 5,7 % dei voti ed è entrato per la prima volta in Parlamento. In Danimarca il Partito del Popolo danese ha venticinque seggi su 179 e in Olanda il partito di Geert Wilders, il Partito della Libertà, ha ottenuto il 15,5 per cento alle ultime votazioni. Sono nuovi e vistosi coefficienti elettorali che provano la crescita dell´estrema destra nell´Europa del Nord, le cui società sono ritenute aperte, accoglienti con gli immigrati.

Nell’Europa del Sud gli esperti dedicano ovviamente particolare attenzione al Front National francese, del quale Nicolas Sarkozy cerca di contenere la crescita, a un anno dalle elezioni presidenziali, sottraendo non poche idee al limite della xenofobia, a Marina Le Pen, nuovo leader e pericoloso concorrente. La Lega di Umberto Bossi, con una schietta tendenza anti immigrati, è addirittura al governo a Roma.

In molti scritti l’assassino norvegese si dichiara difensore della "cultura nordica" e condanna il multiculturalismo, in particolare la contaminazione araba. Con un altro stile, ben inteso, tre grandi leader europei hanno sostenuto tesi identiche. Il primo ministro del paese europeo più rispettoso dei diritti degli immigrati, l’inglese David Cameron, ha condanato il multiculturalismo. E lo stesso ha fatto a chiare lettere Angela Merkel, anche se la cancelliera tedesca non si è poi risparmiata nell´enfatizzare la necessità dell´immigrazione. In quanto al presidente francese ha promosso una campagna sull’identità nazionale, rivelatasi sfortunata. E comunque per Parigi l’assimilazione resta un dogma, e si guarda dall´ammettere il comunitarismo, e quindi il multiculturalismo.

Sarebbe troppo sbrigativo, anzi assurdo, affermare che l’assassino di Oslo e Utoya ha espresso con la bomba e il mitra i propositi di eminenti dirigenti europei. Non mi permetto di dirlo. Né lo penso. Ma l’atmosfera europea risente di quelle idee. Anders Behring Breivik era, a quel che sembra, un cane sciolto negli ultimi tempi. L’estrema destra norvegese non ha un vero leader, è un mosaico di tanti gruppi, sempre più numerosi, i quali traducono in discorsi fanatici, i normali propositi della società politica democratica. E Breivik si abbeverava a quelle fonti.

Un abisso di diseguaglianze si è spalancato davanti alla società italiana, negli stessi giorni in cui veniva certificato un drammatico ritorno della povertà, di cui ha scritto su queste pagine, con i toni giusti, Adriano Sofri. La povertà è certo la condizione che più rende visibile la diseguaglianza. Ma quel che sta avvenendo, soprattutto dopo la manovra finanziaria, è una vera e propria costruzione istituzionale della diseguaglianza che investe un´area sempre più vasta di persone, ben al di là di vecchi e nuovi poveri.

La distribuzione dei "sacrifici" è rivelatrice. Uno stillicidio di balzelli che incide su chi può essere più facilmente colpito, che lima i già ristretti margini dei bilanci familiari. Si è calcolato il peso che avranno gli aumenti di imposte, tariffe, prezzi. Peso insostenibile per taluni, quasi non influente per altri. L´effetto complessivo della manovra peserà per il 13,3% sui redditi bassi e per il 5% su quelli più alti. La rappresentazione della spinta istituzionale verso la diseguaglianza non potrebbe essere più netta.

È così tornata, in ambienti insospettabili, la vecchia espressione "macelleria sociale". Ma è una macelleria ben selettiva, vista la cura con la quale si è voluto tenere lontano da alcuni ceti anche un contributo poco più che simbolico al risanamento dei conti pubblici. Rivelatrice è la cinica dichiarazione di un ministro della Repubblica che, di fronte alla proposta di un significativo aumento della tassa per le automobili di maggiore cilindrata, ha esclamato: «Ma quelli votano per noi!». Il suo grido di dolore è stato prontamente raccolto, e la platea dei colpiti da quella misura è stata drasticamente ridotta. Mentre troppi diritti vengono messi in discussione, sembra che il solo al quale si deve continuare a dare piena legittimazione sia quel "diritto al lusso", che fa bella mostra di sé nella pubblicità di alcuni prodotti. Demagogia? O registrazione di una situazione di fatto nella quale si manifestano segni inquietanti di un ritorno della "democrazia censitaria", dove l´accesso anche a diritti fondamentali è sempre più condizionato dalle risorse di cui ciascuno dispone?

Il caso che illustra più direttamente lo stato delle cose è quello dei ticket sanitari, che rivela una doppia diseguaglianza. La prima nasce dal fatto che il ticket di 10 euro per le prestazioni specialistiche, sommato all´eliminazione della franchigia di 36,15 euro, colpisce pesantemente i redditi più bassi, riguarda impiegati, lavoratori, cassintegrati e, malgrado alcune esenzioni, introduce un pesante filtro selettivo che, ovviamente, produce discriminazione. La seconda diseguaglianza nasce dall´appartenenza regionale. Alcune regioni hanno già deciso di non applicare il ticket, scelta possibile solo nelle regioni più ricche. Si dirà che questo è l´effetto della cattiva amministrazione in materia sanitaria di molte regioni. Ma tutto questo produce una distorsione gravissima. Si trasforma l´accesso al diritto alla salute, il "più fondamentale" tra i diritti fondamentali, in una variabile che lo subordina al reddito e all´appartenenza regionale. A una prova così impegnativa, il federalismo "all´italiana" conferma una delle più serie critiche che erano state avanzate, la costruzione di un paese a velocità variabili in materia di diritti, dunque proprio sul terreno dove l´eguaglianza deve essere massima.

Questa progressiva cacciata dei più deboli dall´area dei diritti non consente la considerazione, consolatoria, che così sempre accade per i provvedimenti generali, che hanno effetti diversi a seconda del reddito delle persone. L´ultima manovra, infatti, avviene in una fase in cui la tutela dei diritti è stata già pesantemente ridotta dalla crisi economica, come mostra uno studio dell´Agenzia europea per i diritti fondamentali del dicembre 2010. Il congiungersi di questi diversi fattori sta creando una situazione in cui si mette in discussione "il diritto all´esistenza", e si ricacciano le persone in una condizione che le obbliga alla quotidiana ricerca di una precaria sopravvivenza. Non più "l´esistenza libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, ma una esistenza subordinata a una contribuzione diseguale imposta dallo Stato, alle pretese di imprese che svuotano il lavoro di umanità e diritti.

I nostri, infatti, sono i tempi della vita precaria, della sopravvivenza difficile, del lavoro introvabile, delle rinnovate forme di esclusione legate alla condizione d´immigrato, all´etnia. In questo clima, dove massimo dovrebbe essere lo sforzo per produrre quella coesione sociale di cui tanto si parla, si moltiplicano invece i meccanismi di esclusione e di divisione. Poveri e diseguali: questo il nostro destino? La pura logica dei tagli offusca la capacità di progettare, di riflettere ad esempio sulla possibilità di riordinare l´intera materia dei sostegni legati alla disoccupazione per trasformarle in un reddito di base di cittadinanza, come sta accadendo in diversi paesi, mettendo al centro dell´attenzione proprio il diritto all´esistenza come diritto fondamentale della persona (lo ha fatto la Corte costituzionale tedesca).

Tornare a prendere in considerazione l´eguaglianza, la dignità, i diritti fondamentali. Non è un lusso, è la via della saggezza politica in un tempo in cui, altrimenti, i conflitti sociali si trasformano in rifiuto, rivolta. È quel che sta accadendo con la denuncia quotidiana della inaccettabilità dei privilegi di ceti, non solo quello politico, che hanno sempre più legato il loro modo d´essere a una vantaggiosa diseguaglianza. La costruzione oligarchica della società ha trovato la sua base materiale in retribuzioni sproporzionate, in franchigie per concludere qualsiasi affare, in vertiginose crescite della distanza tra i salari dei dipendenti e quelli dei dirigenti (nel caso Fiat è di 1 a 423: non è demagogia, ma informazione, ricordarlo). La questione è al centro delle discussioni di questi giorni, e la ricordo perché, muovendosi con inconsapevolezza, si può dare origine ad un´altra diseguaglianza. Penso, in particolare, a quel particolare costo della politica rappresentato dal finanziamento dei partiti. Innumerevoli vergogne lo hanno accompagnato in questi anni. Ma si torna sulla via maestra cancellandolo? John Rawls, tra i tanti, sottolinea come le risorse pubbliche siano indispensabili per evitare che la politica diventi prigioniera degli interessi privati. Riformiamo profondamente questo strumento, ma evitiamo che l´accesso alla politica sia riservato agli abbienti, per non ricadere nella radicale diseguaglianza della "cittadinanza censitaria".

Da qualche tempo, in nome della necessità di ridurre i «costi della politica» , ha ripreso vigore l’idea di abolire le Province come enti locali. Ma davvero sarebbe una buona idea? Naturalmente non basta l’argomento che le Province «costano» . Tutte le istituzioni «costano» . Il problema è se «servono» . Le Province «enti inutili» ? È vero che alla Costituente si era pensato che la creazione delle Regioni le avrebbe reso superflue. Ma poi l’idea rientrò; e l’esperienza successiva ha condotto viceversa ad un progressivo rafforzamento delle funzioni del livello di governo provinciale, pur dopo l’istituzione delle Regioni.

Sono lontani i tempi in cui si diceva che le Province servivano solo per strade, manicomi e assistenza agli illegittimi. Le Province continuano ad occuparsi di strade, ma le loro funzioni sono andate crescendo. Nella legge del 1990 sulle autonomie locali e nel testo unico del 2000 la Provincia è definita come l’ «ente locale intermedio tra Comune e Regione» , che «rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo» . Tra le funzioni delle Province vi sono quelle riguardanti «vaste aree intercomunali o l’intero territorio provinciale» , nei settori della difesa del suolo, della difesa dell’ambiente, dei trasporti, dello smaltimento dei rifiuti, dell’istruzione secondaria di secondo grado.

Alla Provincia fanno poi capo rilevanti funzioni di programmazione, in particolare il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio. Chi dovrebbe svolgere queste funzioni, se venissero soppresse le Province? Non è pensabile che compiti di «area vasta» possano essere attribuiti agli oltre 8.000 Comuni (dei quali circa 7.500 con meno di 15.000 abitanti): dunque essi andrebbero in gran parte alle Regioni. In teoria sarebbe anche possibile immaginare un sistema di «enti intermedi» costituiti da associazioni di Comuni, con uffici e strutture condivisi.

Ma l’esperienza dice che mettere d’accordo fra loro 20 o 100 Comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato, e non è detto costi meno che affidare tali funzioni ad un ente autonomo come la Provincia. Né, ovviamente, è proponibile un accorpamento massiccio dei piccoli Comuni: l’autonomia comunale si nutre della storia e del senso di autoidentificazione delle comunità, grandi e piccole, sul quale è destinato ad infrangersi ogni disegno «razionalizzatore» astratto.

Sarebbe anche possibile immaginare che la Regione decentri i suoi uffici nel territorio. Le unità organizzative (e il personale) però non diminuirebbero. Si «risparmierebbe» solo l’elezione di presidenti e di consigli: ma siamo sicuri che l’accentramento politico in capo alla Regione, che ne risulterebbe, sia una soluzione soddisfacente? Uno dei timori e dei rischi che da sempre caratterizzano il nostro sistema delle autonomie è quello del «centralismo» regionale. Non è affatto detto che un semplice decentramento amministrativo della Regione sia in grado di soddisfare le aspirazioni di autogoverno delle popolazioni.

Il punto, semmai, è un altro. Le realtà regionali non sono tutte eguali. La Lombardia ha 9 milioni di abitanti e oltre 1.500 Comuni: immaginare che tutte le funzioni di «area vasta» siano governate dal Pirellone sarebbe follia pura: provate a dire agli abitanti dei piccoli e grandi Comuni del Comasco o del Bresciano che tutto ciò che è sovracomunale deve dipendere politicamente da Milano! Non è lo stesso se si tratta di una Regione piccola o piccolissima. La Valle d’Aosta (125.000 abitanti e 74 Comuni) non è suddivisa in Province. Si può discutere se davvero il Molise (320.000 abitanti e 136 Comuni) debba essere articolato in due Province.

Ma nelle grandi Regioni l’esigenza di avere enti intermedi rappresentativi delle popolazioni è difficilmente negabile. Allora non si tratta di abolire tout court le Province, programma irragionevole e impraticabile. Semmai di limitare le spinte localistiche impedendo che nascano sempre nuove piccole Province (come le otto in cui da ultimo si è frammentata la Sardegna). E, viceversa, di dare vita finalmente, nelle aree metropolitane, a cominciare da Milano, a un vero ente di governo (elettivo) di dimensione corrispondente, che sostituisca la Provincia e riunisca in sé non meno, ma più funzioni rispetto ad essa. È la Città metropolitana, prevista da dieci anni nella Costituzione e mai realizzata (mentre si è costituita la nuova Provincia di Monza e della Brianza).

Si eviterebbe così che i problemi del territorio della «grande Milano» — dalla pianificazione territoriale dei grandi insediamenti agli interventi per evitare le periodiche esondazioni del Seveso — restino affidati all’asimmetrico rapporto fra un Comune capoluogo dai confini ristretti ma che ogni giorno è «usato» anche da centinaia di migliaia di abitanti dell’hinterland, e un gran numero di Comuni piccoli o medi privi di voce in capitolo. Meno retorica dell’antipolitica, e più capacità di affrontare i problemi con razionalità: è chiedere troppo, nell’Italia di oggi?

Postilla

L’articolo espone, con la massima chiarezza e puntualità, le ragioni della Provincia. Ci sarebbe solo da aggiungere una riflessione sul ruolo (suicida) della politica dei partiti. Quando si discusse sui modi di affrontare le nuove esigenze dell’”area vasta”, si constatò, come ricorda Onida, che «mettere d’accordo fra loro 20 o 100 Comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato», come l’esperienza insegnava. Si decise allora di procedere al “recupero delle istituzioni esistenti” (è il titolo di un editoriale di Urbanistica informazioni), di riutilizzare le province in ragione delle nuove esigenze, di formare le “città metropolitana” in alcune aree e contestualmente di dotare di nuove funzioni di “governo del territorio” le province nel resto del territorio nazionale.

L’attuazione della legge (la 142/1990) avrebbe dovuto comportare un forte impegno politico per trasformare il suo dettato in una radicale azione per ridisegnare i confini delle amministrazioni subregionali, per rendere adeguati i gruppi dirigenti delle province (e delle città metropolitane) ai nuovi compiti, e insomma per svolgere un’operazione politico-amministrativa analoga a quella che altri paesi (per esempio la Francia) avevano posto sul tema del riordino delle competenze amministrative.

Questo impegno politico non ci fu, da parte di nessuno dei partiti delle Prima Repubblica. E’ davvero difficile pensare che sappia fare di più il personale politico della Seconda Repubblica, che ha addirittura moltiplicato le province, aggiungendone 8 nuove tra il 1992 e il 2000, e altre 7 successivamente: tra queste, la BAT-provincia (Barletta, Andria, Trani) il cui stemma onora questo articolo. (e.s.)

Per il benessere dell'umanità sembra che niente sia meglio delle grandi opere. L'economia cresce e diventiamo più ricchi. Forse è stato così all'inizio, quando l'Inghilterra lanciava nel mondo macchine a vapore e il maresciallo Rondon attraversava il Brasile piantando pali del telegrafo, ma oggi ne conosciamo anche i giganteschi effetti negativi. Le grandi dighe, ad esempio, le opere simbolo dello sviluppo, sconvolgono territori e vite quotidiane, distruggono comunità, sommergono foreste, luoghi sacri e siti archeologici, cancellano memorie storiche. Danni documentati dagli ambientalisti - tre volumi curati da Teddy Goldsmith, direttore della nota rivista inglese The Ecologist, e le inchieste dell'International River Network, organizzazione con base in California - ma non solo. Agli inizi degli anni Novanta fece scalpore il rapporto indipendente sul complesso faraonico che imbrigliava il fiume Narmada, in India, così negativo da costringere la Banca mondiale a ritirare i finanziamenti. Nel 2000, a Londra, una commissione di esperti di 36 Paesi su otto grandi dighe concluse che i costi erano maggiori dei benefici.

Di quest'anno le prime ammissioni preoccupate del governo cinese sulla colossale Tre Gole: scomparsi i laghi della valle dello Yangtzee, aumentati i sedimenti e l'inquinamento, siccità e gravi problemi per la vita del milione e mezzo di sfollati.

Un altro esempio che i pro Tav preferiscono ignorare è la storia economica disastrosa del tunnel sotto la Manica che unisce via ferrovia Londra e Parigi, costruito da un consorzio privato che l'ha in gestione. Sbagliate le previsioni di traffico passeggeri e merci, sottovalutati i rischi. Sempre sull'orlo del fallimento, una volta sono i piccoli azionisti a cacciare i manager e un'altra sono le banche a bocciare i piani di ristrutturazione del debito. Perché si insiste?

Una stessa convinzione, diventata ormai un'ideologia, muove governi e istituzioni finanziarie internazionali, prima fra tutte la Banca mondiale: salvare il mondo attraverso grandi progetti, i soli che possono sradicare la povertà e sviluppare l'economia. I governi vogliono grandi opere che servono grandi affari a grandi imprese e la Banca le sostiene, elargendo finanziamenti che vengono in gran parte dai governi stessi, sono cioè i nostri soldi, senza alcun controllo democratico. Nessun popolo elegge i direttori della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, organismi che decidono il destino di intere nazioni. Gioca poi un immaginario ancora acceso da un mito ottocentesco che innerva ogni pagina "Affari e Finanza": la locomotiva. La Germania è la locomotiva d'Europa...Un motore va e trascina i vagoni.

Uno Stato con il Pil che cresce, un settore produttivo nuovo o uno vecchio consolidato, una serie di grandi opere sono il traino di un'economia che scorre su percorsi fissati in precedenza da cui è impossibile deviare, pena il deragliamento. Solo che nel secolo dell'ipotesi Gaia e delle tecnologie pioniere, locomotive e carburanti rinviano a un modello-mondo da prima rivoluzione industriale. Idee inadeguate per la contemporaneità, che ha bisogno di inventiva, collegialità, senso del vivente. Ma i miti muoiono lentamente.

Con la manovra finanziaria approvata la settimana scorsa, il reddito delle famiglie con figli è stato preso in ostaggio in vista della futura riforma fiscale e assistenziale. Solo se quest’ultima verrà approvata entro il 2013, infatti, non verranno attuate le previste riduzioni lineari dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale di cui possono attualmente godere le famiglie, in particolare quelle con figli.

L’impatto di quelle riduzioni è fortemente regressivo: inciderebbe maggiormente sulle famiglie a reddito più modesto. Ma anche se la riforma fiscale e assistenziale venisse approvata in tempo le cose non cambierebbero molto per le famiglie con figli. La riforma, infatti, ha lo scopo non tanto di razionalizzare e rendere maggiormente equo il coacervo di istituti - oltre 400 - che si sono accumulati senza logica nel tempo. Ha lo scopo pressoché esclusivo di ridurre la spesa, ovvero di determinare un risparmio non inferiore a 4.000 milioni nel 2013 e 20.000 milioni annui a decorrere dal 2014. Un obiettivo solo mascherato dal richiamo alla libertà di scelta dei cittadini. La bozza di delega, infatti, all’articolo 2 recita che il "criterio base della delega" è quello di applicare le nuove aliquote rispettivamente del 20%, 30% e 40% "su di un imponibile per quanto possibile non eroso dai regimi fiscali che nel corso degli anni sono stati introdotti per indirizzare le scelte e i comportamenti del contribuente verso obiettivi che lo Stato considerava costruttivisticamente meritevoli, lasciando invece alle persone e alle famiglie libertà di scelta in ordine all’uso del loro denaro. A questo effetto il governo è delegato ad eliminare o ridurre in tutto od in parte i regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale".

Il fatto è che molte delle misure che si vogliono eliminare sono destinate alle famiglie. E si tratta di misure che si ispirano al principio fiscale della redistribuzione: a parità di reddito riducono il prelievo sui nuclei familiari più numerosi. È il caso delle detrazioni per i figli a carico. Non è chiaro in che consista la libertà di scelta se l’eliminazione di queste facilitazioni non è sostituita da nulla e anzi si auspica un ancor maggiore coinvolgimento della famiglia nel far fronte ai bisogni economici e di cura dei propri componenti. Il potere d’acquisto di un’ampia fetta delle famiglie verrà semplicemente ridotto, comprimendo ulteriormente i consumi e quindi anche le stesse possibilità di ripresa. Non vi è dubbio che occorre mettere mano a una razionalizzazione complessiva del frammentato e carente welfare italiano, riducendo le iniquità per cui, a parità di reddito e bisogno, vi è chi può godere di più misure di sostegno (ad esempio assegni per i figli e detrazioni) e altri di nessuna (gli incapienti e coloro che non hanno un reddito da lavoro dipendente). E certo vi sono persone che godono impropriamente dell’assegno di accompagnamento. Ma ce ne sono molte altre che dovrebbero riceverlo, o avere servizi sostitutivi, ma non ricevono nulla. Così come non vi è un vero reddito minimo per chi si trova in povertà. Il welfare per le famiglie e per chi si trova in povertà è troppo risicato, oltre che ineguale, per pensare di effettuare risparmi in questo settore. Sarebbe già ottimo se si riuscisse a spendere meglio, più equamente e con maggiore efficacia. Ma i risparmi vanno cercati altrove. Sembra che anche i mercati la pensino in questo modo, non ritenendo realistica una manovra e un progetto di riforma non solo rimandati di due anni, ma che, nella loro regressività, tolgono fiato a chi già è in difficoltà. In questo contesto, anche l’opposizione e i sindacati dovrebbero avanzare proposte precise, non limitandosi a evocare la lotta all’evasione come sorta di magica lampada di Aladino che tutto risolverebbe. La lista del possibile è lunga, dalle liberalizzazioni sin qui efficacemente bloccate dagli interessi costituiti, al taglio, da domani e non in futuro, dei privilegi e dei redditi dei parlamentari ed ex parlamentari fino a quelli delle amministrazioni locali, dei grandi dirigenti pubblici e del parastato e, perché no, di alcuni conduttori televisivi. Dalla eliminazione di tutti i privilegi fiscali che favoriscono esclusivamente gli abbienti alla eliminazione tout court delle detrazioni, sempre regressive, a favore di trasferimenti diretti selettivi. Dall’anticipo dell’innalzamento dell’età pensionistica delle donne nel settore privato alla flessibilizzazione dell’età alla pensione per tutti

L'austerità finanziaria votata dal Parlamento venerdì 15 luglio sancisce l'impoverimento assoluto, non relativo, cui viene soggetta la grande maggioranza della popolazione italiana almeno da quando il passaggio all'euro ha comportato una massiccia redistribuzione del reddito a favore degli strati più ricchi. L'Italia si situa ormai in una dimensione che va oltre la crisi in corso. Solo un utopistico boom europeo, da anni Sessanta per intenderci, può arrestare l'immiserimento in corso.

Infatti la deindicizzazione totale e parziale delle pensioni non verrà certamente abolita, anche in caso di ripresa; così come non saranno annullati i ticket, né gli slittamenti salariali. Né verrà sospesa la moltiplicazione dei tagli a livello regionale e comunale, aggravati dal famigerato federalismo fiscale. L'ipotesi più concreta è che, come in Grecia, i tagli contribuiranno a perpetrare l'indebitamento rendendolo ancor più pesante.

A partire dalla manovra di Giuliano Amato nel 1992, la politica economica dei vari governi in carica si è caratterizzata per l'austerità di bilancio. Stando ai dati armonizzati prodotti dall'Ocse, dal 1993 al 2007 il deficit pubblico italiano proveniva interamente dal pagamento degli interessi sul debito. Il bilancio primario, cioè senza il computo degli interessi, è stato sempre attivo. Ciò ha comportato, fino al 2007, una marcata riduzione del deficit in rapporto al prodotto interno lordo. Il processo fu facilitato dal calo del tasso di interesse e dalla notevole performance dell'export italiano, grazie alla fase della lira debole, al boom consumistico delle tecnologicie negli Usa, in Brasile o nell'Argentina.

Dopo il 2000 - e col crollo delle dotcom statunitensi, di Brasile, Argentina e Russia - il deficit pubblico riprese a salire, rimanendo però sui livelli fissati dai criteri di Maastricht. Tra il 2001 ed il 2008 la media annua italiana è stata del 3,1%, contro il 2,2% dell'eurozona. Si noti però che, nel 1993, il deficit di bilancio italiano oltrepassava il 10% del Pil ed era quasi il doppio della media dei paesi che oggi fanno parte dell'unione monetaria. Tra i paesi dell'eurozona, l'Italia ha quindi subito la maggiore riduzione del deficit pubblico senza ottenere alcun beneficio. Le politiche di distruzione del bilancio hanno quindi contribuito alle disfunzioni infrastrutturali del paese, al crollo del meridione, all'arroccamento sulle rendite finanziarie e all'incapacità di affrontare la rivalutazione del tasso di cambio (connessa all'adozione dell'euro), se non attraverso la deflazione salariale.

Ma la moneta unica ha condotto tutti i paesi membri ad usare la deflazione salariale come criterio di competitività capitalistica. L'euro ha cementato l'unità del capitale nei confronti del lavoro e dei pensionati, permettendogli di dividersi su altre questioni, secondarie però ai rapporti di classe. L'impatto sulla domanda (deflazione salariale e gara europea sui tagli di bilancio) ha comportato, dal 2001 in poi, una forte riduzione nel tasso di crescita dell'eurozona. Il calo italiano è stato però ben maggiore, acuendo il divario con la media della zona. La stagnazione europea e la connessa crisi italiana hanno fatto risalire il deficit pubblico, anche perché le esportazioni non hanno contribuito a rilanciare l'economia. In passato, le esportazioni avevano sempre aiutato a «riacciuffare» la dinamica capitalistica per via della persistente aporia tra sviluppo interno e domanda estera. Dall'entrata in vigore dell'euro, però, la domanda reale interna è stata ulteriormente compressa dal surplus primario di bilancio e dalla deflazione salariale, mentre i conti esteri sono diventati ancora più negativi.

Malgrado la loro dinamica, le esportazioni italiane sono state neutralizzate da almeno tre fattori: deflazione salariale (soprattutto in Germania, che ha compresso la domanda interna con l'obiettivo programmato di massimizzare l'export), l'aumento dei prezzi energetici dal 2004, lo spostamento di una fetta notevole della domanda europea verso beni di consumo made in China. Il tutto coronato dalla scomparsa di settori avanzati, come impeccabilmente documentato da Luciano Gallino.

L'Italia era quindi un vaso di coccio pieno di crepe, non di ghiaccio come la torrida Grecia, già prima della crisi del 2008. È in quest'ottica che bisogna capire perché l'obiettivo di pareggiare il bilancio per il 2014 - anticipando la stessa Germania che entrerà in anoressia solo nel 2016 - significa l'impoverimento assoluto del popolo senza la possibilità di uscire dalla crisi.

È un coro quello che si leva sul costo della politica. Effettivamente in Italia quel costo è particolarmente elevato a causa dell´invasione della società politica nella società civile, che dà luogo a una rendita contaminata da inquinamenti mafiosi. Si parla della politica come di una corporazione. Magari! Le corporazioni avvertono i pericoli che le minacciano e sono pronte, quando quelli diventano imminenti, a pagare il costo di un ripiegamento: come sarebbe da noi la riduzione del numero dei deputati (promessa da secoli) o l´abolizione delle province. La politica italiana sembra invece priva anche dell´istinto di conservazione. Non è una corporazione. È una consorteria.

Ciò detto è incredibile e anche vergognoso che si punti il dito sulla invasione senza dire una parola sulla evasione. Sul fatto che un terzo del reddito reale, quello dei più ricchi, si sottrae ai propri doveri fiscali.

Pochi numeri rendono l´idea. Stime dell´Istat collocano il tasso di evasione medio nazionale al 13,5 del reddito dichiarato. Medio, significa benefici praticamente nulli per i dipendenti e i pensionati, stratosferici per gli autonomi e i rentiers che presentano un tasso di evasione rispettivamente del 56 e dell´84 per cento del reddito. In parte cospicua anche se non accertabile quelle ricchezze evasive affluiscono nei paradisi fiscali.

Secondo un calcolo dell´Ocse, che dovrebbe sorvegliarli e contrastarli, a fine 2008 i capitali accolti in paradiso ammonterebbero globalmente a circa 7 mila miliardi di dollari. Lo Scudo fiscale eretto dal nostro governo apre ai capitali italiani peccatori le porte del paradiso: una provvidenziale via di redenzione. Chiudere i paradisi? Anche per Nostro Signore sarebbe difficile: non ci si può sottrarre al ricatto capitalistico della migrazione dei capitali "altrove". Verrebbe voglia di dire: è il capitalismo, stupido. Ma c´è modo di non subire interamente il ricatto.

Primo, denunciandolo, come si fa con la mafia. Ora, l´Italia è il solo paese al mondo in cui un presidente del Consiglio dichiara invece pubblicamente di comprendere le ragioni degli evasori.

Secondo: il rapporto tra Stato e capitalismo, che può essere declinato in modi assai diversi. Si va dalle repubbliche di banane dei Caraibi al compromesso socialdemocratico o cattolico democratico tra democrazia e capitalismo.

Il livello del confronto dipende in primo luogo, ovviamente, dal rapporto di forze. Per i "mercati" altro è avere a che fare con l´Italia o con l´Europa: e qui si misura il costo della fiacchezza europea. Dipende poi dalla competenza e dalla qualità dei governi nazionali.

Ci sono due aspetti che possono aumentare il grado di autonomia della politica dal ricatto capitalistico per i governi nazionali: i conti in ordine e l´autorevolezza. In Italia purtroppo non disponiamo né degli uni né dell´altra. I conti sono pessimi. Quanto all´autorevolezza siamo piuttosto lontani da quella del generale de Gaulle (proprio in tema di paradisi fiscali non dimentichiamo che il generale minacciò di intervenire militarmente a Montecarlo. Solo Bossi potrebbe farlo con le sue baionette padane) e più vicini a una repubblica di banane.

Un soprassalto di dignità è quello che il presidente della Repubblica, il solo vero garante della dignità del Paese, ha ottenuto dal senso di responsabilità delle opposizioni con il via libera all´approvazione di una manovra disapprovata. Ma non basta certo. Affidare una manovra economicamente sconnessa e socialmente iniqua alla gestione di un governo rissoso? È questo che ci aspetta nei prossimi due anni?

La manovra in parlamento sarà immediata; questo è il momento delle decisioni irrevocabili, come si diceva una volta. Sotto le bombe - Moody's e compagni che tirano alle banche italiane mentre è Giulio Tremonti, alle spalle dell'onorevole Milanese, l'anatra zoppa - si è formata da noi un'Unione sacra che solo la misurata retorica del presidente chiama «coesione». L'opposizione si è liquefatta, affidandosi a una di quelle parole dal suono magico: tregua.

«Ecco come arrivare al pareggio subito». Il Sole 24Ore». (Roberto Perotti e Luigi Zingales) ha titolato così un editoriale dal soave occhiello: «Decalogo draconiano». Confindustria e governo vi hanno attinto largamente, o forse lo hanno largamente ispirato. Se al primo punto del decalogo sono indicate le privatizzazioni delle imprese pubbliche rimaste, o per meglio dire la vendita dei pacchetti azionari detenuti in nome del Tesoro dalla Cassa dei depositi e prestiti; se al secondo compare l'eliminazione delle Fondazioni bancarie, è il terzo che conta davvero. Vi è intimata la privatizzazione delle municipalizzate, le imprese che gestiscono nelle città i trasporti, l'acqua, l'elettricità, i rifiuti. Tremonti lo ribadisce ai banchieri riuniti in assemblea, escludendo il caso dell'acqua, ormai protetta dal risultato referendario del mese scorso. Sostiene Tremonti: gli enti locali saranno spinti a vendere «attraverso un sistema di incentivi e disincentivi». Detto altrimenti, chi si adegua e vende i beni comunali riceverà i contributi dello stato, che mancheranno invece ai sindaci riottosi.

E' facile notare che un simile comando è tipico di uno stato centralista che vuole eliminare ogni forma di autonomia locale. La misura riporta l'intero quadro politico indietro di decine di anni, agli albori della prima repubblica, con buona pace del federalismo proclamato ogni due giorni. Un secondo aspetto è che lo stato centrale - il governo di concerto con l'opposizione - in questo modo di fatto s'impadronisce di beni e attività che non sono suoi, privandone i comuni e gli abitanti. Sono beni comuni che lo stato, con il ricatto, costringe a vendere, per contenere i propri debiti, impietosire la finanza internazionale e mostrare la propria modernità.

Inoltre la cessione di attività decisive come i trasporti urbani mette le città alla mercé dei fondi e delle banche che hanno anticipato i mutui necessari agli investimenti. Infine, chi garantirà il servizio già pubblico? Se il fondo straniero, nuovo proprietario della rete tranviaria, dovrà scegliere tra maggiori profitti e migliori vetture, come si comporterà? Siamo sicuri della continuazione del servizio notturno? Chi avrà davvero la forza di imporre regole al nuovo proprietario, potente, di nazionalità indefinita, che opporrà sempre i diritti superiori del capitale?

I giorni dell'attacco finanziario all'Italia sono ormai alle spalle. Qualcuno è convinto che il paese abbia retto, tanto che l'attacco è stato respinto. A ben vedere la finanza internazionale ha inferto un colpo alla straordinaria Italia dei referendum. Primo paese del capitalismo avanzato, l'Italia si era mostrata capace di ribellarsi e di scegliere la via dei beni comuni, della democrazia partecipata, del rifiuto al nucleare. Era un colpo intollerabile per coloro che si considerano i padroni del mondo: andava subito cancellato. Occorreva un segnale forte, valido per tutti, in Europa e fuori: nessuna libertà a chi si oppone. Il segnale è arrivato: i beni comuni delle città italiane sono in vendita.



La nota Istat su «La povertà in Italia», relativa al 2010, ci restituisce l'immagine di un'Italia povera. Di un paese socialmente fragile, con un esercito di 8.272.000 individui (462.000 in più rispetto al 2009) in condizione di povertà relativa (costretti cioè a una spesa mensile inferiore a una soglia che per una famiglia di due membri è pari a 992 euro). E con 1.156.000 famiglie in condizione di povertà assoluta, per le quali cioè risulta impossibile procurarsi un pacchetto di beni e servizi considerati il minimo indispensabile per condurre una vita decente. Era così prima della crisi. Continua ad esserlo durante la tempesta.

Soprattutto però i dati Istat confermano la persistenza, anzi l'aggravamento, di tutte le caratteristiche che sono state indicate come tipiche del "modello di povertà" italiano. Un modello patologico, senza confronti in Europa. Esse sono tre. In primo luogo lo squilibrio nord-sud, con un differenziale territoriale che per la povertà relativa raggiunge le 5 volte: il 67% della povertà italiana continua a concentrarsi nel Mezzogiorno, nonostante vi risieda appena il 31% della popolazione. In secondo luogo l'altissima incidenza della povertà tra le famiglie numerose, in particolare quelle con figli minori a carico, che fa dell'Italia la maglia nera in Europa per quanto riguarda la più scandalosa delle povertà, quella dei minori, che qui raggiunge la percentuale record del 25% (secondo l'agenzia statistica europea Eurostat). Infine l'alto livello di povertà, sia relativa che assoluta, tra i lavoratori. La presenza, imbarazzante, dei working poor, dei "poveri al lavoro". O, se si preferisce, di coloro che sono poveri sebbene lavorino (più del 6% sono in condizione di povertà assoluta!).

Ebbene, tutti e tre questi aspetti risultano - in alcuni casi drammaticamente - peggiorati nell'ultimo anno. È sconvolgente che la povertà relativa sia aumentata, in un solo anno, tra le famiglie numerose, di ben 5 punti percentuali (dal 24,9% al 29,9%). E che nel Meridione, tra le famiglie con tre e più figli minori, il balzo sia stato addirittura di 11 punti (dal 36,7% al 47,3%). Significa che lì, un minore su due vive in una famiglia povera. E che una famiglia numerosa su tre è povera. Nel Meridione, d'altra parte, è peggiorata verticalmente anche la posizione dei lavoratori autonomi (dal 14% al 19,2%) e quella delle persone con titolo di studio medio alto (dal 10,7% al 13,9%), a dimostrazione di quanto la crisi sia arrivata a mordere nel vivo anche tra le classi medie (è un segnale nefasto che «tra le famiglie con persona di riferimento diplomata o laureata aumenti anche la povertà assoluta, (dall'1,7% al 2,1%)».

Possiamo immaginare quale possa essere l'effetto degli interventi lineari della manovra or ora approvata a tempo di record, su questa ampia parte dolente del Paese. Che cosa comporti il taglio delle detrazioni fiscali per figli minori e asili nido o per cure pediatriche; la soppressione di servizi essenziali in campo educativo e sanitario; la reintroduzione dei ticket, accompagnati agli effetti sperequativi del cosiddetto "federalismo fiscale". Sale sulle ferite. Come di chi preme sulla nuca di un uomo che affoga.

La politica più screditata degli ultimi decenni ha imposto agli italiani i sacrifici più duri. Una riedizione del biennio 1992-1993, probabilmente aggravata e peggiorata. Che la manovra economica sia – in queste circostanze – inevitabile, non toglie che essa sia legittimata più dallo stato di necessità e dall´autorità di Napolitano che non dalla supremazia della politica, dalla sua lungimiranza, o almeno dal consenso popolare. La rapidità con cui i due rami del parlamento hanno approvato i sacrifici presenti e futuri, con la responsabile copertura politica anche di chi ha votato No, vuole trasmettere l´idea dell´urgenza e della compattezza ai mercati finanziari.

Ma non convince il fronte interno. Ossia i cittadini, che vedono, certo, l´unità della classe politica ma che al tempo stesso constatano lo scollamento impressionante fra questa e la società.

La società non è, in sé, il ricettacolo del Bene – è un crogiolo instabile di paure e di egoismi, oltre che di speranze. E la politica non è in sé il Male: anche se oggi è in crisi strutturale e morale, minacciata com´è dalla disastrosa autonomia dell´Economico (e della Finanza) e dalla penosa inadeguatezza di troppi suoi esponenti, è pur sempre la funzione direttiva della Cosa pubblica, un´attività nobile e difficile che deve avere le caratteristiche tanto dell´esercizio intellettuale quanto della saggezza pratica quanto della competenza tecnica. Ebbene, oggi la politica non mostra questo volto: e si presenta invece come una Casta – percorsa da troppa corruzione e collusa con troppi poteri opachi – che non riesce a comunicare alla società, né a leggerne i segni.

Non comunica. E infatti non sa cogliere l´occasione che questa doppia crisi – economica e politico-morale – le offre per rilegittimarsi agli occhi dei cittadini. Mentre interviene per decreto sulla vita delle famiglie, mentre si accanisce sui bilanci del ceto medio e basso, mentre alza i ticket e taglia servizi ai deboli, mentre colpisce i risparmiatori e il pubblico impiego, mentre alza le tasse (o abbassa le detrazioni) a chi le paga nel contesto d´evasione a tutti noto, non trova invece la forza e l´intelligenza per un gesto simbolico – non però demagogico né inefficace – che riavvicini i politici ai cittadini, i potenti a coloro che devono subire. Qualcosa come un provvedimento che dimezzi, fino dalle prossime elezioni il numero dei parlamentari, norme organiche e severe contro la corruzione, la riforma immediata dell´infame legge elettorale. Per iniziare, basterebbe la capacità di trovare un atteggiamento unitario verso l´arresto dei parlamentari per i quali la magistratura lo chiede; o che i ministri sospettati di mafia abbiano un soprassalto di decoro e si dimettano. Messaggi di questo tipo non vengono oggi dalla politica – capace, al contrario, di votare una legge talebana sul "fine-vita", pur consapevole che tre quarti degli italiani la aborrisce, e che è, oltre che barbara, anticostituzionale.

Non sa, poi, leggere i segni dei tempi. Le elezioni amministrative e i referendum, ma anche la protesta delle donne, sembrano passare come acqua fresca sui Palazzi del potere. Una società civile che si mostra non fatta solo di chiusure e di rancori, un messaggio non qualunquistico di protesta e di fiducia nel futuro, una scommessa sul valore di ciò che è pubblico e comune, un´ansia di dignità individuale e collettiva, una ricerca di spazi di cultura e di comunicazione, la voglia – urlata, senza rabbia – di partecipare alla ricostruzione di un Paese umiliato; tutto ciò chiede ascolto e risposta, vuole attenzione, esige una parola che lo decifri, che offra un senso, che immagini una nuova democrazia. Un´idea che ripensi il ruolo dei partiti e li apra alla società, invece che farne delle arene di carrierismi e dei serragli di complotti; che ne attenui la presa sulle infinite "spoglie" di cui la politica si impadronisce, e che spartisce fra i propri adepti, suscitando nella società rabbia, risentimento e feroce spirito d´imitazione.

Tutto ciò resta invece senza riscontro. Prima di tutto a sinistra, dove la parola d´ordine è ancora "educare le masse", e dove, in nome di una superiorità della politica che oggi in Italia non può proprio essere invocata, ci si prepara a far digerire, nel prossimo futuro, una politica moderata a un elettorato che è ben più radicale dei suoi rappresentanti – ai quali, per fare un esempio, non è ancora venuto in mente di fornire un elenco delle leggi berlusconiane che, senza alcun costo per le casse dello Stato, sarebbero abrogate nel caso di vittoria. Ma perfino a destra ci si sta già accorgendo che quella del "partito degli onesti" era o un´illusione o una boutade, e che la strada verso la riscoperta della politica e verso l´autonomia del partito (e del segretario politico) dal suo declinante padrone è ancora molto lunga.

Il potere logora chi non ce l´ha, d´accordo. Ma un potere che non capisce neppure quando deve riformarsi, che non coglie le occasioni per rigenerarsi, si logora da sé. Si potrebbe scrollare le spalle e ricordare che quos vult perdere deus amentat, che dio rende stolti quelli che vuol rovinare. Ma la rovina non sarà solo dei politici: se aumenterà la scollatura fra questa politica e la società che si risveglia, l´attuale crisi perderà, verosimilmente, le proprie potenzialità morfogenetiche e democratiche. Priva di sponde politiche la società lascia presto cadere le proprie speranze, soprattutto in tempi difficili, e dà il peggio di sé. Anziché una nuova politica libera e moderna in una società viva, c´è così il rischio – e l´Europa ne offre già esempi – che sulle rovine della democrazia trionfino egoismi selvaggi e populismi inquietanti.

Referendum sulla “Grande Milano”

di Guido Podestà

Gentile Sindaco Giuliano Pisapia, intendo, come già feci con Letizia Moratti, lavorare con lei, unitamente con gli altri sindaci del Milanese, alla costruzione «dal basso» della Città metropolitana. L’obiettivo è quello di garantire ai cittadini più efficienza amministrativa e maggiore razionalizzazione dei cosiddetti «costi della politica» .

Le propongo, quindi, di dare seguito all’impegno di operare in questa direzione, così come ci siamo detti nel nostro primo incontro e come abbiamo riaffermato davanti alle assemblee di Confcommercio e di Assolombarda. Sarei felice, pertanto, se lei, assieme a una rappresentanza degli altri 133 sindaci della Provincia, accettasse di entrare nel Comitato promotore del referendum sull’istituzione del nuovo Ente, che, tramite questa lettera aperta, propongo di celebrare entro il 2012 in tutti i 134 Comuni del territorio.

L’entrata in attività del Comitato, nel quale andrebbero coinvolti esponenti della società civile, delle associazioni datoriali e dei sindacati, dovrebbe, a mio avviso, avvenire in ottobre previa convocazione, a settembre, di Stati generali.

Il quadro normativo ci offre, nel rispetto delle prerogative riconosciute al Parlamento, la possibilità di formulare un progetto di Città metropolitana e di chiamare alle urne i cittadini allo scopo di verificarne il consenso. Su quest’aspetto, suggerisco il 2016 del dopo Expo. Ma non voglio dettare una road-map.

Desidero, piuttosto, fornire, in sintonia con lei, risposte all’esigenza di accelerare la nascita della Città metropolitana. A tale Ente dovrebbero essere affidate competenze di area vasta in ordine a infrastrutture, trasporti, mobilità, ambiente, ciclo idrico integrato, pianificazione urbanistica, sviluppo economico e occupazione. Il nostro territorio, capace di contribuire per il 10%alla formazione del Pil, teatro dei più importanti processi politici italiani e caratterizzato da un continuum urbanistico tra il capoluogo e i Comuni di prima e seconda cintura, risulta un laboratorio ideale.

Si tratta di una convinzione della quale ho messo al corrente sia i presidenti delle Province destinate a trasformarsi in Città metropolitane, durante un incontro risalente al luglio 2010, sia il capo dello Stato, nell’ambito del colloquio svoltosi a Palazzo Isimbardi nell’aprile 2010. Il presidente Giorgio Napolitano concordò sulla necessità di velocizzare l’iter e sottolineò le similitudini di sviluppo territoriale ininterrotto di Milano e di Napoli. L’esigenza da me avvertita di trasporre il nuovo Ente dall’architettura costituzionale alla realtà non è riconducibile a polemiche e campagne giornalistiche legate alle ipotesi di abolire tout-court le Province.

La mia posizione, al riguardo, è nota. Credo che la cancellazione indifferenziata di moltissimi Enti amministrati con rigore, come tutti quelli lombardi, non comporterebbe un risparmio ma, semmai, un incremento di costi e una frammentazione di competenze tra Comuni e Regioni in contrasto con il bene dei cittadini. La Provincia di Milano, che, già agli inizi del ’ 900, il sindaco del capoluogo Emilio Caldara voleva cancellare, risponde in pieno ai requisiti della Città metropolitana.

Questa circostanza è confermata non solo dai lavori della Commissione di ex sindaci di Milano (Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri, Piero Borghini, Marco Formentini e Gabriele Albertini), che, all’indomani del mio insediamento e rispettando un impegno assunto in campagna elettorale, ho incaricato di formulare una proposta di Città metropolitana, ma pure dagli studi dell’Isap, sostenuto dalla Provincia e dal Comune nonché presieduto prima da Tognoli e oggi da Ugo Finetti.

Il nostro Ente, che persino i più convinti assertori dell’abolizione delle Province riconoscono non costare un euro allo Stato ma, anzi, assicurare, unico tra quelli italiani, un saldo positivo all’Erario (oltre 16 milioni di euro), amministra, del resto, il territorio motore dell’economia italiana proiettato verso Expo con realizzazioni infrastrutturali e prospettive di crescita occupazionale traguardanti il 2015. Chiudo questa lettera aperta invitandola a Palazzo Isimbardi per procedere, già dalla prossima settimana, a un nuovo confronto sui passi da muovere insieme verso la meta, indicata dai residenti, della Città metropolitana.

Grande Milano, partiamo dal 2016

di Giuliano Pisapia

Gentile Presidente Guido Podestà, ho letto con attenzione e interesse la sua lettera pubblicata ieri e condivido la volontà di un lavoro comune tra le istituzioni milanesi per dare concretezza alla nascita della Città metropolitana di Milano, che porterebbe al superamento dei nostri attuali enti locali. È questo un tema a me così caro da averlo già affrontato durante la mia attività parlamentare.

Mi trovo d'accordo sugli obiettivi di una maggiore efficienza amministrativa, di migliori servizi ai cittadini e della razionalizzazione dei costi, soprattutto in un momento di crisi economica quale quello che ha investito il nostro Paese. Abbiamo il dovere di essere buoni amministratori, rispettando la fiducia che i milanesi hanno riposto in noi. La realizzazione della Città metropolitana, peraltro inserita in Costituzione e prevista dalla Legge delega 42/2009, è un passo fondamentale in questa direzione.

Certo non si tratta di un'azione concretizzabile in un giorno, ma possiamo aprire un percorso serio per far si che già tra cinque anni si possa votare per il nuovo Ente. Il 2016 è una buona data, sulla quale è possibile dare già oggi rassicurazioni. Ma non si possono, e non si debbono, trovare più alibi. Oltre alle iniziative referendarie, è possibile ripartire dal contenuto del Disegno di Legge depositato in Senato nel 2009 sull'istituzione della Città metropolitana di Milano. Il documento è collegato alla Carta delle Autonomie ed è già all'esame della Commissione Affari Costituzionali.

Si tratta però di un percorso lento che va assolutamente reso più veloce. Sono quindi più che disponibile a un incontro con lei e con i rappresentanti degli altri Comuni per valutare le iniziative per dare attuazione ad azioni virtuose per il bene del nostro territorio e dei nostri cittadini. A partire da una sollecitazione nei confronti del Parlamento richiamando il senso di responsabilità e di forte volontà riformatrice per una nuova architettura costituzionale, che non deve ricadere nel taglio ai servizi, ma in una maggiore efficienza.

Ma fin da subito, in attesa di un legislatore talvolta troppo lento, è possibile operare insieme per trovare e dare risposte concrete su temi per definizione sovracomunali come quelli, tra gli altri, dell'inquinamento, della mobilità e della cultura. Da parte del Comune ribadisco che c'è il massimo impegno a far si che la Città metropolitana di Milano diventi realtà. Lo conferma il fatto che abbiamo già dato il via, come dichiarato in campagna elettorale, al processo di trasformazione dei Consigli di Zona. Si tratta di un segnale fortissimo che consentirà ai "parlamentini"di diventare vere e proprie municipalità in grado di operare autonomamente e in condizioni di equilibrio rispetto ai Comuni dell'Area, preparando di fatto il terreno alla nascita della Città metropolitana di Milano, tanto attesa a parole, ma ancora lontana nei fatti.

Un impegno che avevamo preso con molti sindaci e amministratori della Provincia, nel corso di vari incontri che si erano svolti ancora prima che diventassi sindaco. Di questo sarò felice di riparlarne con lei nei prossimi giorni.

Postilla

Meglio tardi che mai. Ma ripetiamo la nostra domanda: le Città metropolitane non avrebbero dovuto essere costituite, e i confini amministrativi delle Province sul territorio residuo ridisegnate, fin dal 1992? Chi ha impedito ai soggetti politici che oggi vogliono abolire province (e le connesse Città metropolitane) di fare il loro dovere?

Mentre vengono ulteriormente ridotte le risorse di comuni e regioni, alla faccia del tanto sbandierato federalismo che da quest´ultima manovra riceve l´ultimo colpo, Tremonti promette che i futuri risparmi derivanti dai tagli ai costi della politica saranno destinati all´8 per mille per finanziare il terzo settore. Questa promessa è insieme peculiare dal punto di vista formale e molto insidiosa da quello sostanziale. Dal punto di vista formale non si capisce il meccanismo istituzionale che ha in mente Tremonti. L´8 per mille non è alimentato da trasferimenti diretti dello Stato. Il suo ammontare è deciso dalle scelte dei contribuenti, pur all´interno di un meccanismo poco trasparente che fa sì che la quota totale dell´8 per mille del gettito da assegnare allo Stato piuttosto che a una o l´altra confessione religiosa sia deciso dalla piccola minoranza che opera una scelta esplicita. Lo Stato, poi, fa più o meno quello che vuole con la propria quota, utilizzata di solito come sorta di fondo di riserva per finanziare le cose più varie. Basterebbe impegnarsi a finanziare il terzo settore, peraltro già destinatario del 5 per mille, senza dirottarvi altri fondi.

Ma è soprattutto dal punto di vista sostanziale che questa promessa appare molto insidiosa, proseguendo nella linea già tracciata dal libro bianco sul welfare, in cui si è evocata esplicitamente la carità e gli istituti caritativi come risorsa principe del welfare dopo la famiglia, e poi dalla finanziaria 2011 ove la, miseranda, social card per alcune categorie di poveri è stata data in gestione, appunto, a istituti caritativi e di terzo settore. Tra una finanziaria e una manovra di aggiustamento dopo l´altra, le possibilità dei comuni di fornire servizi essenziali ai cittadini sono state progressivamente ridotte in modo drastico. Per il terzo settore (categoria molto eterogenea), invece, si ha un occhio di riguardo, sperando che faccia un po´ di supplenza, ma anche produca consenso. E´ un meccanismo simile a quello messo in opera nella scuola, dove ai tagli nella scuola pubblica non hanno fatto seguito quelli alle scuole private (cattoliche).

Il sospetto è che con questa promessa, che non costa nulla perché a futura memoria (mentre i tagli agli enti locali colpiscono subito), Tremonti prosegua la sua campagna personale presso le gerarchie e il mondo cattolico, per ottenere lo status di politico di riferimento. E´ una campagna che sta avendo successo, come testimoniato dalle motivazioni del premio che gli è stato recentemente assegnato dall´Università Cattolica. Ma è fatta a spese del ruolo degli enti locali e delle stesse condizioni di cittadinanza sociale nel nostro paese. Le organizzazioni di terzo settore, così come quelle di volontariato, sono una grande ricchezza. Ma non possono essere loro a garantire diritti di base e criteri universalistici. Neppure possono diventare una sorta di strumento dello Stato, pena la loro perdita di autonomia. Se ciò può andare bene a qualcuna di queste associazioni, forti della colonizzazione dello spazio pubblico che sono riuscite a operare con il sostegno dei politici, come avviene, ad esempio, con Comunione e Liberazione in Lombardia, ad altre questa possibile deriva desta legittime preoccupazioni.

Pessima giornata, ieri, per la civiltà giuridica di questo paese. Pessima giornata per la legittimazione sociale del Parlamento, che si allontana vertiginosamente dalle persone, da anni favorevoli quasi all´80% al diritto di ciascuno di decidere liberamente sulle modalità del morire.

Questo ci dice il voto con il quale la Camera dei deputati ha approvato le norme sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento" che espropriano ciascuno di noi del potere di decidere sul morire. Non è ancora una legge della Repubblica, perché il testo dovrà di nuovo essere esaminato dal Senato. Ma, dopo che si è riusciti a peggiorare un testo orribile già all´origine, ogni speranza che i senatori possano avere qualche ripensamento sembra del tutto infondata.

Al posto della volontà della persona compare ormai, violenta e invadente, quella del legislatore.

Perdiamo il diritto all´autodeterminazione, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 438 del 2008, ha riconosciuto come diritto fondamentale della persona. Si esclude, infatti, che la persona possa liberamente stabilire quali siano i trattamenti che intende rifiutare qualora, in futuro, si trovi in situazione di incapacità. Le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante, vita e corpo della persona sono sottratti al governo dell´interessato e affidate a regole autoritarie, alla pretesa del legislatore di farsi scienziato, ed alla decisione del medico. La persona scompare, altri soggetti compaiono al suo posto. La dignità nel morire è cancellata.

Invece di rispettare la persona quando riflette sul momento più difficile e intimo della sua esistenza, si dà voce ad uno spirito vendicativo, esplicitamente dichiarato da quelli che hanno attribuito al testo votato ieri la funzione di chiudere la fase aperta dalla decisione della Corte di Cassazione nel caso di Eluana Englaro.

Una rivincita contro una sentenza definita "giacobina" (quale approssimazione culturale in questo modo di esprimersi!), mentre si è trattato di una sentenza così accuratamente argomentata da mettere la nostra giurisprudenza al livello della miglior riflessione giuridica internazionale su questi temi.

Ieri, al contrario, ci siamo allontanati dall´Europa e dal mondo, spinti dal medesimo, cieco furore ideologico che ha prodotto la pessima legge sulla procreazione assistita, che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima in alcuni dei suoi punti più significativi e di cui si occuperà anche la Corte europea dei diritti dell´uomo.

Questo è il destino al quale va incontro la legge sul testamento biologico. Ed è inquietante che nel dibattito parlamentare siano state usate parole quasi intimidatorie, quando si detto che sarebbe un brutto giorno per la democrazia quello in cui la Corte costituzionale decidesse contro la maggioranza del Parlamento, una volta investita del giudizio sulla nuova legge.

Possibile che ogni volta si debba ricordare ai parlamentari che le corti costituzionali sono appunto "giudici delle leggi", che hanno proprio il compito di vegliare sul rispetto dovuto dal Parlamento alla Costituzione? Possibile che ignorino che la discrezionalità del legislatore incontra limiti precisi in particolare quando sono in questione la vita, la salute, la dignità della persona?

La verità è che il testo votato ieri non chiuderà le polemiche, ma avvierà una lacerante stagione di conflitti. Si è detto che si voleva sottrarre ai giudici il potere di decidere sulla vita. Accadrà il contrario, perché siamo di fronte a norme che apriranno la via a contestazioni, a ricorsi, a eccezioni di incostituzionalità.

Si è imposta una logica che rende le persone prigioniere proprio di quelle costrizioni dalle quali, con un testo semplicemente ricognitivo del diritto all´autodeterminazione, avrebbero potuto liberarsi. Si corre il rischio di vie traverse, di sotterfugi. Esattamente il contrario della lezione civile di Beppino Englaro, che ha accettato la via aspra e lunga della legalità, e che ieri, per questo, è stato insultato nell´aula di Montecitorio. Si incentiverà il terribile "turismo eutanasico" verso altri paesi, un cammino che già più d´uno ha cominciato dolorosamente a percorrere.

Questi sono i frutti amari dell´ideologia, della pretesa di sottomettere ai propri convincimenti "le vite degli altri", proprio quelle che dovrebbe essere massimamente rispettate. E´ quel che accade in tutti i paesi che hanno approvato leggi in questa materia, è quel che hanno fatto, con vera carità cristiana, la Conferenza episcopale tedesca e il Consiglio delle Chiese evangeliche nell´opuscolo con il quale hanno dato ai fedeli le istruzioni sul testamento biologico, che legittimano quasi tutto quello che in Italia viene vietato.

Ma questo è pure il frutto amaro di un bipolarismo distruttivo, di una cieca obbedienza di parlamentari ormai senza relazione alcuna con il mondo che li circonda, di una appartenenza imposta dal fatto che il loro destino personale e politico è solo nelle mani del padrone della maggioranza.

Nella vituperata Prima Repubblica la civiltà del confronto non venne meno neppure nella discussione di leggi assai più dirompenti per i problemi di fede che ponevano, come quelle sul divorzio e, soprattutto, sull´aborto. Oggi che si prospetta il ritorno di un partito cattolico, con imprimatur cardinalizio, la vicenda del testamento biologico non è l'auspicio migliore.

La Grecia, dunque, non èl’unica area di crisi. E il problemanon è più circoscritto al Portogallo e all’Irlanda. Ora che le locuste della speculazione hanno messo nel mirino il bersaglio grosso, cioè il nostro Paese ma anche la Francia, la Spagna e la stessa istituzione dell’Euro, ci accorgiamo di come fossero stati sottovalutati i segnali di instabilità in Europa indotti dagli effetti della crisi finanziaria americana e poi dalla recessione. A tre anni dal terremoto finanziario degli Stati Uniti, dalla rottura del sistema dei mutui subprime fino al fallimento di storiche banche, non abbiano imparato nulla, la lezione nonè servita a nessuno. Siamo ancora qui vittime della speculazione e della finanza, assistiamo al trionfo della rendita e alla sconfitta della politica e del lavoro. E la Consob fa quasi tenerezza quando “impone” la comunicazione delle posizioni al ribasso, mentre sul mercato si scatenano i cavalieri dell’Apocalisse.

L’Italia ha creduto, anzi si è illusa, che Berlusconi e Tremonti avessero davvero la situazione sotto controllo, che nessuno avrebbe osato attaccarci perchè «noi stiamo meglio degli altri», perchè «la crisi non esiste» e se c’è «l’abbiamo ormai superata». Tutte citazioni del nostro premier (oggi atteso alla “prima” del Milan... speriamo che non ci vada) e del ministro dell’Economia. Adesso è arrivato il conto, ed è un conto che pagherà l’intero Paese.

I mercati non hanno creduto al valore della manovra di rientro del debito, non hanno condiviso i tempi, non hanno fiducia che questo governo con una maggioranza così sfilacciata e litigiosa possa davvero risanare i conti. L’attacco all’Italia è partito la scorsa settimana, è esploso ieri facendo vittime illustri in Borsa e nei titoli del debito pubblico, e continuerà. Continuerà perchè le locuste si fermeranno solo quando vedranno scorrere lacrime e sangue e potranno incassare i loro profitti per poi trasferire le loro offensive su altri obiettivi. Oggi i mercati vogliono solo una cosa dal nostro Paese: l’approvazione immediata dalla manovra da parte del parlamento e l’anticipazione al 2012 e 2013 dell’obiettivo di pareggio. E se quelli della manovra di Tremonti non sono 40 e passa miliardi, allora ci vorrà qualcuno in grado di trovarli.

Il clima che si respira, piaccio o no, è lo stesso dell’estate 1992 quando Giuliano Amato si presentò al tg della sera per informare gli italiani della svalutazione della lira e del varo di una manovra da 90mila miliardi di lire, compreso il prelievo una tantum dal nostro conto corrente bancario. L’Italia si rimise in pista, la svalutazione competitiva della lira fornì fiato alle imprese e poi l’accordo del ‘93 tra le parti sociali fece il resto. Ci vorrebbe un altro Ciampi, o il Prodi che ci portò in Europa, ma non è aria. Ci possiamo aggrappare alla telefonata del cancelliere Merkel che, dopo aver ritardato per interessi elettorali gli aiuti ad Atene, è in ansia per l’attacco all’Italia che, nonostante tutto, ha la seconda industria manifatturiera d’Europa, assai integrata con quella tedesca.

Quello che è accaduto ieri sui mercati non è un episodio isolato diun sistema sbagliato, anzi malato. La crisi è sistemica. Siamo ostaggi e impotenti davanti ai movimenti di capitali speculativi, i governi per difendersi dovrebbero chiudere le borse,temiamo i giudizi delle agenzie di rating dopo averle finanziate e valorizzate (e certi leader laburisti e progressisti del passato che ostentavano le “medaglie” di Moody’s o Standard & Poor’s, oggi dovrebbe sparire). L’affronto degli speculatori, che non sono qualche cosa di estraneo a questo sistema ma ne sono parte integrante, è senza pudore. Il Wall street journal ha tributato gli onori a Mario Draghi, nuovo presidente della Bce,come garante della stabilità della moneta unica. E ieri l’euro è stato preso a sberle sui mercati. A Londra viene premiata Intesa- San Paolo come miglior banca italiana, nelle stesse ore il titolo dell’istituto perde il 7% in Borsa. Non cambia mai nulla. Tre anni fa, quando a New York fallì la Lehman Brothers “ la banca che non poteva fallire”, quando la crisi travolse il mondo industrializzato, con la perdita di milioni di posti di lavoro, governi e leader politici di ogni colore si impegnarono a limitare le invasioni della finanza, a difendere il risparmio e l’occupazione contro la rendita, a tagliare le retribuzioni dei manager. Ma non è cambiato niente.

Così va il mondo.

Una classe politica non è sempre il riflesso del paese, non solo perché, come ben sappiamo, i sistemi elettorali possono facilmente falsarla, ma anche perché è molto probabile che dopo la sua investitura elettorale le opinioni dei cittadini cambino anche se si tratta di un mutamento solo sentito e percepito. Dalla primavera del 2008 ad oggi molte cose sono avvenute che hanno incrinato il consenso alla maggioranza. Elencarle vorrebbe dire fare una lunga lista di scandali e casi di corruzione ai quali sono seguiti pochissimi casi di dimissioni e invece molte dichiarazioni diffamanti e attacchi agli organi giudiziari e alla stampa o alle istituzioni che osavano bloccare provvedimenti o limitare i danni di decisioni prese. Dopo tre anni gli italiani hanno dimostrato di non gradire più la politica e i comportamenti di questa maggioranza. Lo hanno dimostrato indirettamente nelle elezioni amministrative e con i quattro referendum. La loro voce aveva un senso assai chiaro, ma la classe politica nazionale ha adottato la strategia della sordità e dell´indifferenza. Siccome non si è trattato di elezioni politiche, si è detto, tutto deve e può continuare come prima, e se possibile più spavaldamente di prima. I tiri mancini tra i membri del governo e il clima da rissa di cui la maggioranza ha dato spettacolo in Parlamento e fuori (salvo ripetere ai fedeli inossidabili che tutto va per il meglio e questo è il migliore dei governi possibili) ha del surreale e del tragicomico. Non migliora l´immagine della nostra classe politica il comportamento di pusillanime codardia di un Pd che non mantiene saldo neppure il suo programma politico (abolizione delle Province) e sembra quasi che abbia timore di essere maggioranza nell´opinione del paese.

Tutto porta ad allargare invece che accorciare il distacco tra la politica dentro e la politica fuori delle istituzioni. Un segno nemmeno troppo criptico di una rappresentanza politica malata e zoppa, alla quale si adatta bene la descrizione di Lewis Namier della classe politica inglese alla vigilia dell´indipendenza americana: faziosa, corrotta, famelica e indifferente all´opinione del paese. Ora, se è vero che sono le elezioni a dare autorevolezza sovrana all´opinione dei cittadini, è altresì vero che nel tempo che intercorre tra due tornate elettorali non sta scritto da nessuna parte che gli eletti e il governo possano fare e disfare a loro piacimento ciò che vogliono (facendo grande affidamento sulla memoria corta dell´opinione mediatica). Tra un´elezione e l´altra la rappresentanza dovrebbe mantenere un dialogo informale con la società, registrarne gli umori, anche quelli sfavorevoli, interessarsi insomma non solo del voto dei cittadini ma anche delle loro opinioni. L´impressione invece è che a chi governa interessi davvero soltanto far sì che l´opinione venga via via riportata nell´alveo dell´accondiscendenza, che essa sia da ascoltare solo quando è addomesticata. Anche a costo di mettere un macigno tra i fatti e le parole.

Un esempio: la discussione sulla manovra che dissanguerà le amministrazioni locali, il servizio sanitario nazionale e tutto ciò che è pubblico, a cominciare ovviamente dalla scuola (la perenne punita di questo governo) e dai servizi sociali di sostegno a chi ha più bisogno come anziani e handicappati, ebbene questa discussione non ha mostrato grande interesse per ciò che gli italiani saranno costretti ancora una volta a subire senza possibilità alcuna di far sentire la loro voce e, anzi, contraddetti dal Presidente del Consiglio (che ha voce potentissima) il quale continua imperterrito a ripetere che il governo, contrariamente a quello di altri paesi europei, "non metterà le mani delle tasche degli italiani". Ma come giustificare questa affermazione con i tagli che toglieranno molti soldi dalle tasche degli italiani togliendo loro servizi e sostengo senza dare loro alcuna certezza dell´efficacia dei loro sacrifici, come ha spiegato Tito Boeri su questo giornale? Non si giustifica infatti, ma lo si ignora e lo si nega. E come giustificarla con la riforma che scippa alle donne i risparmi derivanti dall´aumento dell´età della pensione nel pubblico impiego (3 miliardi e mezzo nei prossimi sette anni) senza alcuna politica programmatica che si impegni se non altro a usare queste risorse a beneficio del lavoro delle donne?

Non pare esserci rispondenza tra parole e interessi di chi governa e interessi e vita di chi opera e lavora. Una schizofrenia che raggiunge l´apice nelle parole del Presidente del Consiglio nell´intervista rilasciata a Repubblica, una riprova ulteriore di assenza di dimestichezza con la politica democratica. È infatti il leader che decide chi andrà e dove, descrivendo la geografia umana e politica delle istituzioni di domani: dal Quirinale al Governo. Come se a lui spetti preparare il nostro futuro: non quello del suo partito, si badi bene, ma il nostro. L´Italia come una sua azienda della quale l´amministratore delegato disegna l´organigramma, dove poco o nulla conta che ci sia una cittadinanza, salvo il fatto che è "un mercato di consenso e di voti". E perché il mercato risponda a chi investe secondo le aspettative tutte le energie verranno messe in moto; c´è chi parla "per gli elettori" (ovvero dice ciò che è conveniente dire, non ciò che è per noi conveniente sapere) e c´è chi parla "per i mercati": un ministro per le orecchie del popolo e uno per quelle degli investitori. Dove stia il vero è e resta un rebus. L´accountability, il rendere conto, da cui dipende la differenza tra democrazia elettorale e oligarchia eletta, è violata senza alcun scrupolo. Se la classe politica alla quale il governo rappresentativo e costituzionale da vita è, come ci spiega Peter Oborne, una leadership che ha internalizzato l´idea di dovere pubblico perché ha gradualmente appreso a distinguere ciò che è nell´interesse di sé come gruppo o partito da ciò che è nell´interesse del paese, l´Italia di oggi non ha una classe politica.

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