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In questa stagione torbida le prove di decostituzionalizzazione si susseguono e si infittiscono. Per la prima volta nella storia della Repubblica un governo vuole modificare un articolo della parte iniziale della Costituzione, l´articolo 41.

Una norma contigua, l´articolo 40 che disciplina il fondamentale diritto di sciopero, viene messo concretamente in discussione dal documento della Fiat riguardante i lavoratori di Pomigliano d´Arco. Non a caso dall´attuale maggioranza si è affermato perentoriamente che è venuto il momento di cambiare lo stesso articolo 1, considerandosi anacronistico che si parli di «una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ancora il Governo propone di modificare l´articolo 118, altri ritengono che si deve porre mano all´articolo 81 e si è addirittura pubblicamente sostenuto che si debba ammettere il referendum sulle leggi tributarie, escluso dall´articolo 75. In questo clima si dice apertamente che deve cadere il tabù della prima parte della Costituzione, e che è tempo di cambiarne persino i principi fondamentali. Ho parlato di decostituzionalizzazione, e non di modifiche, perché siamo di fronte a tentativi dichiarati di liberarsi della Costituzione. Sembra così giungere a compimento un vecchio progetto, che attraversa tutta la storia della Repubblica e che finora era stato sventato. Il caso dell´articolo 41 illustra bene lo stato delle cose. In questi giorni sono state ricordate la genesi e la portata della norma: storia nota, consegnata da anni a studi impeccabili, che smentiscono sia la tesi di una sua ascendenza comunista, sia quella dell´impossibilità di introdurre regole più flessibili per le imprese senza modificare quell´articolo. L´ignoranza della storia sta divenendo una sua continua falsificazione. Non si leggono gli atti dell´Assemblea costituente né la giurisprudenza costituzionale, si inventano inesistenti "vuoti" costituzionali, che dovrebbero essere colmati con le parole "mercato" e "concorrenza", necessarie perché l´Italia si allinei all´Europa e all´ultima generazione di costituzioni. Un´altra falsificazione. La concorrenza non figura più tra i principi di base del Trattato europeo di Lisbona: piaccia o no, questo è il risultato di una iniziativa di Sarkozy, che l´ha confinata in uno dei tanti protocolli che accompagnano il Trattato. Tutte le costituzioni europee prevedono il diritto dei poteri pubblici di regolare il funzionamento del mercato e quando questa parola compare, come nella costituzione spagnola, la si accompagna con la previsione esplicita del potere dello Stato di sottoporla a pianificazione. E ricordo per l´ennesima volta quel che è scritto nella costituzione tedesca: "La proprietà impone obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività" (art. 14); "la proprietà terriera, le ricchezze naturali e i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della socializzazione, alla collettività o essere sottoposti a altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell´indennizzo").

Peraltro, bisogna pure ricordare che l´articolo 41 si apre con le parole "l´iniziativa economica privata è libera", che sono una evidente descrizione del mercato. Diventa così evidente il carattere strumentale e ideologico dell´operazione che si sta conducendo intorno all´articolo 41. Si addita questa norma come un ostacolo per fornire alla maggioranza un alibi per la sua perdurante incapacità di dare regole ragionevoli e per giustificare spallate pubbliche o private. Si cerca un collante per una maggioranza a pezzi, e si apre un inquietante scenario. Se la modifica costituzionale andrà in porto, sarà inevitabile un referendum su di essa e i costumi ormai noti del Presidente del consiglio lo indurranno a esasperare i toni, a gridare che si deve scegliere tra libertà e collettivismo, a evocare tutti i possibili "spiriti animali", facendo sempre più terra bruciata, spazzando via ogni ragionevolezza, immergendoci sempre più profondamente nella regressione culturale.

Di questa regressione cogliamo ogni giorno i segni. Si ripropone una identificazione tra mercato e libertà che ignora persino la polemica che divise Croce e Einaudi, e che ci riporterebbe ai tempi in cui Adolphe Thiers, nel 1831, scriveva che "alla proprietà non possono darsi giudici migliori di essa stessa". Si cade in contraddizione proponendo modifiche dell´articolo 41 insieme alla rievocazione dell´economia sociale di mercato. Si ignora una realtà nella quale la crisi finanziaria ha provocato autocritiche anche da parte di sacerdoti del mercato come Richard Posner. Si trascura proprio la planetaria discussione in corso sulle regole del mercato. E così non ci si accorge che proprio lì, nell´articolo 41, si trovano le indicazioni per collocare l´azione economica dei privati nella sua giusta dimensione, subordinandola agli ineludibili principi di dignità, libertà e sicurezza e riconoscendo che il mercato non è uno spazio separato della società. O siamo tornati a Margaret Thatcher e al suo "la società non esiste"?

Sui rischi dell´altra modifica annunciata dal Governo, quella dell´articolo 118, ha già richiamato l´attenzione Salvatore Settis. L´intenzione di sottrarsi alle lungaggini nella materia urbanistica, in nome dell´efficienza, può portarci a travolgere le garanzie necessarie per la tutela del territorio e del paesaggio, di cui parla esplicitamente l´articolo 9 della Costituzione, che così verrebbe fortemente depotenziato. Ma può il bisogno di efficienza travolgere ogni garanzia? È quello che dobbiamo chiederci davanti a quella forma di decostituzionalizzazione di fonte privata rappresentata dalla limitazione del diritto di sciopero contenuta nel documento della Fiat. L´articolo 40 della Costituzione, infatti, prevede che le modalità del diritto di sciopero possano essere regolate solo dalla legge. Siamo di fronte a un diritto indisponibile, necessario perché la democrazia non si fermi "ai cancelli della fabbrica" e che, se pure venisse negato in un solo caso, perderebbe la sua universalità e potrebbe essere negato in ogni altra situazione. Per contrastare gli abusi, se provati, esistono altre vie e altri strumenti.

La lotta per i diritti, dunque, riguarda ormai anche l´ambito dell´economia, si aggiunge alle rivendicazioni riguardanti il diritto della persona di governare liberamente la propria vita ed alla opposizione contro la legge bavaglio. Queste non sono iniziative figlie di una "egemonia borghese" da respingere in nome dei diritti del lavoro. Sul terreno costituzionale l´indebolimento pure di un solo diritto ha effetti negativi su tutti gli altri.

La decostituzionalizzazione deve essere fermata perché sta accompagnando la decomposizione del paese, le dà forma, la legittima. Ma, proprio perché violentemente aggredita, la Costituzione sta generando anticorpi sociali che la difendono in forme nuove e efficaci, che hanno messo in difficoltà gli aggressori, come dimostra la vicenda della legge bavaglio. Insistiamo

Cari compagni del manifesto, «Pensavo che piovesse, non che diluviasse». La vecchia metafora acquatica cade a proposito per commentare il superamento di un milione di firme, che ne rovescia il tradizionale significato pessimistico. Credo che, in tutti, vi fosse la consapevolezza che le firme necessarie per il referendum sull'acqua come bene comune sarebbero state raccolte: una previsione, questa, confortata dall'esperienza della legge d'iniziativa popolare, sottoscritta da quattrocentomila di persone. Ma i tempi rapidi e l'ampiezza del consenso non erano affatto scontati. Questo indubitabile successo merita qualche commento. Eccone alcuni, in rapida sintesi.

L'agenda politica è stata cambiata. Ma il punto vero non è tanto quello di aver allungato un elenco. Si è imposto un tema, quello appunto dei beni comuni, che risponde a logiche e a categorie diverse da quelle oggi prevalenti, e violentemente prevalenti. Un mutamento qualitativo, dunque. E questo è avvenuto ad opera di un soggetto nuovo che, se i quesiti saranno ritenuti ammissibili, assumerà la qualità di «potere dello Stato» per tutta la fase referendaria. Bisogna, allora, cominciare ad agire «come se» questa fase si fosse già formalmente aperta, affrontando in primo luogo il tema, politico e non solo giuridico, della difesa dei quesiti davanti alla Corte costituzionale.

Si deve poi registrare il fatto che le divisioni, indubitabili e prevedibili, non seguono gli allineamenti abituali delle forze politiche. Di questo bisogna tenere il massimo conto, non cedendo però alla logica vecchia dell' «aprire contraddizioni». Si deve cercar di capire in che cosa consista questo schieramento altro. Non si deve cedere alla tentazione autoreferenziale, comprensibile dato il successo ottenuto, ma cercar di stare in questo campo più aperto, con strumenti culturali e forme organizzative adeguate.

In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.

Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato - l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 - ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».

La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l'altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.

Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro (...) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).

La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.

È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.

In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali. Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma - quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi - sta precipitando».

Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.

La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.

Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.

L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica.

Regole. Legalità. Principi alla base di qualsiasi riflessione per Gherardo Colombo, l´ex pm di Mani Pulite che tre anni fa ha lasciato la magistratura per entrare nelle scuole e raccontare ai ragazzi i valori della Costituzione. Mercoledì compirà 64 anni. Dallo scorso settembre è presidente della casa editrice Garzanti. Non rilascia facilmente interviste. Ieri si è concesso un piccolo strappo, partecipando al videoforum di Repubblica Tv.

Intercettazioni. Cosa sceglie tra privacy e sicurezza?

«I due aspetti vanno bilanciati. La riservatezza va garantita. Ma con il ddl Alfano l´attività della magistratura verrebbe resa ancor più difficile e sarebbe pregiudicata la sicurezza. Certo, ci sono anche altri strumenti di investigazione. Però non mi pare che il ricorso alle intercettazioni sia impressionante, casomai la mia esperienza di giudice in Cassazione mi fa sorgere interrogativi sul perché vengano lasciati in penombra altri strumenti di inchiesta, come le interrogazioni bancarie, le indagini patrimoniali. Detto questo, alcuni punti della legge sono pericolosi».

Quali?

«A parte il limite di 75 giorni, mi preoccupano molto le mini-proroghe di 72 ore. Servirebbero almeno 15 giorni in più di volta in volta. Allungare le inchieste a singhiozzo non farebbe che ingolfare le procure, costrette ad una specie di gioco dell´oca. E poi i video, le immagini registrabili solo quando ci si trova in un luogo nella disponibilità della persona sottoposta ad indagini o di qualcuno a conoscenza dei fatti. Beh, faccio davvero fatica a comprendere la ragione di questo limite».

Pensa che Tangentopoli sarebbe esplosa con questa legge?

«Nel ‘92 non fu fatto un uso monumentale delle intercettazioni ma ci fu un grandissimo allarme sulla corruzione e le indagini fecero emergere un sistema malato. Da allora non è stato fatto nulla per rendere più difficile la corruzione e più facile la sua scoperta. Semmai il contrario. Lo dimostrano le inchieste che sono sui giornali, anche su quelli locali. Andando nelle scuole in giro per l´Italia li leggo spesso. Il malcostume è tuttora diffusissimo e spesso i politici non sono peggiori dei loro elettori».

Dicevamo però della riservatezza.

«Le regole che abbiamo, se applicate, già tutelano il diritto alla riservatezza dei cittadini. Oggi non si possono pubblicare tutte le intercettazioni, per esempio quelle che non riguardano l´indagato. Basterebbe seguirle, queste norme. Ad ogni modo: di fronte a reati e comportamenti in distonia con l´esercizio di una funzione pubblica il diritto alla privacy salta a prescindere».

Chi ha rotto l´equilibrio, magistrati o giornalisti?

«Non si può generalizzare. Credo che i magistrati abbiano spesso e giustamente fatto ricorso alle intercettazioni, ma penso pure che altre volte si siano mossi con disinvoltura. Sui quotidiani ho invece visto pubblicare notizie prima che fosse possibile o che proprio non potevano essere diffuse. Alcuni giornalisti e alcuni magistrati dovrebbero rivedere il loro rapporto con le regole. Questa considerazione non è comunque sufficiente per negare qualsiasi possibilità di informazione tempestiva».

E le multe agli editori previste dal ddl?

«Come editore non vorrei entrare in conflitto di interessi, per cui la metto così: la limitazione è coerente con i principi della Costituzione? Per me l´informazione è la base stessa della democrazia. La riservatezza va difesa sin quando non si trova in contrasto con il diritto dei cittadini ad essere informati su circostanze di rilievo. Ripeto: di rilievo».

Toghe contro la manovra, secondo il ministro Alfano è uno sciopero politico.

«I tagli riguardano "casualmente" chi si trova a passare di livello, il peso della manovra graverà soprattutto sui giovani magistrati, quelli pagati di meno».

Lei è mai stato tentato dalla piazza?

«No. Per me è importante stimolare la riflessione nei giovani. Qualche anno fa si discuteva sull´opportunità di mandare l´esercito a Napoli. Un sacerdote disse che avrebbe voluto un plotone di insegnanti. Sono di quell´idea».

Libertà d’impresa, ecco la legge meno vincoli anche nell’urbanistica

Valentina Conte

La «rivoluzione liberale» voluta da Berlusconi e Tremonti per le imprese arriva oggi alle 12 sul tavolo del Consiglio dei ministri. All’esame del governo, la tanto invocata proposta di riforma degli articoli 41 e 118, comma quarto, della Costituzione, considerata dall’esecutivo un passaggio indispensabile e imprescindibile per liberale l’economia dalla «zavorra» di regole e burocrazia e rilanciare così la crescita. E con le nuove regole per la libertà di impresa si scioglie poi un altro nodo importante, quello della nomina del successore del dimissionario Scajola alla guida del ministero dello Sviluppo economico. Il nome individuato sembrerebbe quello di Aldo Brancher, uomo di fiducia del premier e già sottosegretario alle Riforme.

La proposta di riforma costituzionale, secondo quanto riportato in tarda serata dall’agenzia Apcom, avrà la forma di due testi distinti: un disegno di legge ordinario sulla segnalazione di inizio attività imprenditoriale e un altro disegno di legge costituzionale, che andrà a variare gli articoli della Carta del ‘48. In entrambi i casi, precisa Palazzo Chigi in una nota, si parla di «avvio di discussione» e non di «approvazione». Tra i punti chiave dei "nuovi" articoli 41 e 118, il principio della «buona fede» dell’imprenditore che consentirà di avviare un’attività con una semplice segnalazione autocertificata, sapendo che i controlli avverranno solo «ex post». Fatti salvi «i casi regolati da legge penale». Ma la vera novità, che farà discutere, è in materia urbanistica. Secondo la nuova legge costituzionale, lo Stato e gli enti locali avranno tempo sei mesi per adeguare le normative in modo che «le restrizioni del diritto di iniziativa economica siano limitate allo stretto necessario».

Le modifiche alla Costituzione, annunciate da Tremonti il 4 giugno scorso durante il G20 coreano di Busan e poi ribadite ai giovani industriali di Santa Margherita Ligure e alla festa nazionale Cisl («Se non modifichi l’articolo 41 non vai da nessuna parte»), sono oggetto da settimane di un aspro dibattito. Da una parte il presidente del Consiglio, che le invoca come liberazione da un testo costituzionale «datato» in materia di lavoro e impresa e di matrice «catto-comunista», come ha ripetuto all’assemblea della Confartigianato prima e a quella della Confcommercio poi. «Oggi - ha spiegato il premier - chi vuole avviare un’attività deve passare per decine di autorizzazioni. Noi vogliamo fare in modo che chi vuole aprire una pizzeria, possa farlo senza autorizzazioni».

Posizioni condivise da Confidustria e Antitrust. Dall’altra parte, opposizione ed economisti, che individuano in questa mossa del governo un pretesto per attaccare la Costituzione che invece, ribatte Bersani, «va rafforzata e preservata nei suoi punti di fondo», anche perché, sottolinea il segretario del Pd, «l’articolo 41 non ha mai impedito né potrebbe impedire l’iniziativa economica». «L’ostinazione di governo e maggioranza a non capire o far finta di non capire che per semplificare la vita delle imprese non c’è bisogno di scomodare la Costituzione è allo stesso tempo preoccupante e sospetta», dice Michele Ventura, vicepresidente vicario del Pd alla Camera. «O non vogliono far nulla o hanno obiettivi destabilizzanti».

Norme generiche e confuse rischiano di stravolgere il paesaggio

Lucio Cillis – intervista a Salvatore Settis

C’è un passaggio nel disegno di legge costituzionale di modifica agli articoli 41 e 118 della Carta, che fa scorrere dei brividi sulla schiena di chi si occupa di tutela del paesaggio, di urbanistica.

Salvatore Settis, archeologo, scrittore, e direttore della Normale di Pisa, è in questo caso uno degli interlocutori ideali. Settis premette di «non conoscere» nel dettaglio il testo appena battuto dalle agenzie di stampa. Ma quando nel ddl compare inaspettatamente il richiamo alla «materia urbanistica», quando si concedono tre mesi a Comuni, città metropolitane, Province e Regioni per adeguare le proprie normative in modo da "limitare le restrizioni del diritto di iniziativa economica", i dubbi, così come i timori di un colpo di mano mascherato tra le righe del documento, cominciano a farsi largo tra i pensieri di chi si occupa di queste tematiche.

Professore, come giudica le novità in materia urbanistica introdotte nel ddl che oggi verrà esaminato dal Consiglio dei ministri?

«Da questa prima lettura a me sembra una pessima idea. In questo modo, se quello che leggiamo oggi sarà confermato, si rischia di stravolgere la tutela stessa del paesaggio. Garantita, vorrei sottolineare, dall’articolo 9 della Costituzione...».

Eccolo, professore: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione...". Il ddl del governo, tra l’altro, chiama in causa "normative comunitarie o internazionali" e concede tre mesi agli Enti locali per adeguarsi alla nuova legge costituzionale. Quasi a salvaguardia di eventuali abusi sul fronte urbanistico, non crede?

«Intanto a me sembra che queste norme siano state scritte in modo generico e confuso. Inoltre, va detto che a livello europeo non c’è nulla di così "protettivo", non c’è niente di più alto rispetto all’articolo 9 della nostra Costituzione...».

Quindi lei ha il sospetto che dietro questa modifica si possano celare dei colpi di mano?

«Ripeto, da questa prima lettura del testo, intravedo dei seri rischi. Qualsiasi cosa attacchi in modo diretto l’articolo 9, è un qualcosa che attacca direttamente l’urbanistica e il paesaggio...».

Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, si avvia alla fine del suo lungo mandato in uno dei momenti più turbolenti per il sindacato e dei più drammatici per il mondo del lavoro. Una manovra economica che il governo vuole durissima soprattutto per le spalle dei più deboli, cioè le fasce di reddito dei lavoratori dipendenti; una trattativa, quella tra Fiat e metalmeccanici sull'organizzazione della produzione a Pomigliano d'Arco, che lo schieramento degli imprenditori vive come la chiave di volta dei nuovi rapporti in fabbrica. In mezzo, le scelte di un sindacato non più unitario da tempo, la scommessa sul suo ruolo, la sfida sul suo futuro.

Epifani, perché Pomigliano è la madre di tutte le trattative?«Perché la Fiat dice: o così o non facciamo l'investimento; oggi se vogliamo fare fabbrica dobbiamo essere più flessibili, ma bisogna tenere sempre conto che c'è un limite di flessibilità delle persone...».

Lei cosa pensa: l'accordo va fatto o no?«L'opinione della Cgil è che l'accordo vada fatto. Ma non si possono mettere sul piatto richieste che mettono in discussione diritti costituzionali».

Ultimamente la Cgil è rimasta sola: a palazzo Chigi vanno gli altri sindacati e voi no. Vi sentite in castigo?«Questa è l'unica democrazia al mondo dove accade che un governo non voglia discutere con un'organizzazione sindacale: capita solo nei regimi autoritari, altrove si parla con tutti, per poi dire nel merito se una posizione è giusta o sbagliata. Cosa fanno i sindacati in Europa? Ogni tanto protestano, tutti. Lo fanno in Francia, in Grecia, in Spagna. C'è una parte della rappresentanza sociale che a volte deve esprimere con delle iniziative il suo punto vista. E dire i sì e i no».

Non si è un po' radicalizzato il no?«Non è vero: abbiamo firmato 45 contratti. Ma sull'arbitrato no, no, no: non è che la Cgil per caso ha ragione?».

La ragione si misura con il consenso. «Certo: infatti aumentiamo gli iscritti. E aspettiamo di votare, a dicembre, per le rappresentanze nei luoghi di lavoro. Vediamo che succede»

Nega di essere in difficoltà?«Voglio essere chiaro. Il sindacato è in difficoltà in tutto il mondo. In una gloabalizzazione di questo tipo, con la velocità di spostamento dei capitali, il rischio crescente di una concorrenza senza regole, non ho più il potere negoziale che avevo un tempo. O faccio questo o l'imprenditore prende l'azienda e la sposta da un'altra parte. Sono cambiati i rapporti di forza, in quest'epoca di liberismo, come sono cambiate la culture legate al lavoro, perché l'idea che si potessero fare soldi solo con la finanza non è finita, e il rapporto con il lavoro si è allentato sia nella rappresentaione che ne dà l'informazione, sia la cultura corrente».

Qual è il punto irrinunciabile?«Quello del sindacato confederale, che non protegge solo piccoli interessi ma prova a fare politiche che uniscano e pensino a tutti. Peccato che in questo momento non ci sia un interlocutore con un progetto vero di ammodernamento del paese».

Quanto influisce sul sindacato il fatto che a sinistra non ci sia più una forza politica trainante?«La novità vera di questi miei otto anni sta nel fatto che il centrosinistra non è mai stato in difficoltà come oggi. Pesa il grande fallimento dei due anni del governo Prodi, dove le speranze sono naufragate tra divisioni, irresponsabilità, risse continue. Forse è stato Prodi stesso a dirmi: "Ci vorrà tantissimo per riprendere". Non abbiamo colto fino in fondo lo tzunami che quella esperienza ha provocato, anche nella coscienza degli elettori, travolgendo la fiducia che il centrosinistra potesse governare bene, dando risposte ai problemi».

Questo vi ha danneggiato come forza sindacale?«Sì, soprattutto nelle battaglia parlamentari: avere un'opposizione più unita e più forte, non ci farebbe sentire soli, per esempio sulla storia dell'arbitrato».

Quali sono i nodi che vede all'orizzonte?«Il sistema degli ammortizzatori sociali, su cui il governo offre una soluzione corporativa; il mondo della precarietà; le grandi sfide delle riforme nel settore pubblico. Poi abbiamo bisogno di un po' di politica industriale perché navighiamo a vista. Infine, c'è il mezzogiorno dove i problemi sono tutti aggravati».

Questa è un'agenda paese. E l'agenda del sindacato?«Contrattare di più e non di meno. Per il futuro sono convinto che crescerà la contrattazione territoriale, e sociale, nei comuni grandi e piccoli e nelle provincie: è sempre più lì che i bisogni si esprimono, e la contrattazione è quasi sempre unitaria. Stiamo costruendo una grande rappresentaza sindacale nel territorio».

Non è più la fabbrica il luogo di elezione?«La fabbrica resta il terreno per contrattare su condizioni di lavoro, retribuzioni, turni. Nel territorio su quello che riguarda la vita dei cittadini. Faccio esempio: durante la crisi abbiamo contrattato per chi perde il lavoro mense e trasporti gratis. È una forma di sostegno al reddito. La rappresentazione di questo tipo di domanda sociale sta crescendo, sta diventando forte».

Che voto dà alla sua segreteria?

«Nessuno».

Neanche un sette e mezzo?

«Me lo darei alto, ma non sarei credibile».

Cosa farà dopo?

«Andrò a fare il presidente dell'istituto Bruno Trentin».

Che cos'è?

«Un nuovo isituto di ricerca sociale ed economica che nascerà dalla fusione di Ires e centro di formazione».

Ha il sapore di una fondazione...

«Come ha detto Veltroni, ognuno ha sua sua fondazione...».

Pentimenti?

«L'unica cosa che non mi piaciuto fare è stato alzarmi dal tavolo in Confindustria ai tempi di Montezemolo. Lo so che di si solito non ci si alza, ma avevano fatto una scorrettezza: le cose che avevamo definito le avevano cambiate; dovevamo discutere di un tema, e me ne sono trovato un altro. A slealtà ho risposto in questo modo».

Oggi il profilo di un leader sindacale è più trattativista o più combattente?«Per la Cgil, che attraverso il suo segretario ha bisogno di una identità visibile, precisa, in molti casi è il fare opposizione che prevale. Ma al fondo della Cgil resta la spinta a vedere i risultati. Lo dimostra il fatto che, pur non avendo sottoscritto il nuovo modello contrattuale, abbiamo giorno dopo giorno ricostruito 45 contratti di lavoro con la presenza determinante della Cgil. Il conflitto è un lievito della democrazia ma deve servire a raggiungere accordi. Questo è l'abc del sinbacato».

I disastri naturali ed ecologici sono l´imprevedibile che mette a dura prova la politica dettando le forme e i costi degli interventi, imponendo la sua temporalità. Come le guerre, sono un´alterità radicale rispetto alla politica. L´istituzione di agenzie di intervento rapido e di soccorso, come la nostra Protezione Civile, sono nel migliore dei casi efficaci nel tamponare gli effetti del disastro e, come si dice con un tono ottimistico che a volte rasenta il cinismo, aiutare il ritorno alla normalità. Nel frattempo, milioni di persone soffrono e in molti casi perdono letteralmente tutto, come abbiamo visto in Abruzzo, Louisiana, Haiti e nei numerosi luoghi devastati dai cataclismi.

Ma è proprio corretto parlare di imponderabile e imprevedibile? La domanda è retorica nel caso dei disastri ecologici poiché qui il fattore umano, colpevole o negligente che sia, è determinante. Secondo Anthony Giddens, che è intervenuto recentemente al 20th European Annual Meeting di Amalfi organizzato dal Dipartimento di Studi Politici dell´Università la Sapienza, la scienza sociale e la politica farebbero bene a considerare le questioni climatiche come parte delle politiche sociali, insieme ai disastri ecologici e ai cataclismi naturali, non perché si sia in grado di determinare un rapporto causale tra loro, ma perché il mutamento climatico, i disastri ecologici e la crisi energetica ed economica sono incasellabili come emergenze del nostro tempo tra loro integrate. Di fronte alle quali, secondo Giddens, la politica dimostra tutta la sua deprimente inconsistenza, persa a gestire, spesso molto male, l´amministrazione quotidiana, stordita in un letargo che la tiene fissa al bricolage del presente.

La politica ha perso o deperito la vocazione a progettare e indirizzare la società civile e l´economia verso un fine che dovrebbe essere quello di realizzare le promesse democratiche: più eguaglianza, più o meglio distribuito benessere. Ma l´appello alla politica non deve essere inteso come un appello al ritorno del "big government", però. Giddens è stato tra i padri fondatori della "terza via" che ha messo sotto accusa lo statalismo sociale e non ha alcuna intenzione di rovesciare la propria posizione. La sua proposta è quella di applicare la partnership pubblico-privato, mercato-stato che era della terza via, alle questioni ecologiche e dei mutamenti climatici. Propone alla politica di riacquistare un´autorevolezza progettuale per porre regole, limiti e promuovere azioni di stimolo o di dissuasione; per impedire che il mercato sia solo nella cabina di regia.

Comprendere la natura della sfida del cambiamento climatico è essenziale. Secondo Giddens, questa sfida può essere governata riuscendo a portare il mercato a fare ciò che spontaneamente tende a non fare, soprattutto in casi come questi: considerare il futuro come una risorsa. La politica come correzione della miopia endogena all´economica. Progetto e regole, gli strumenti delle comunità politiche, sono improrogabili quando eventi solo in parte prevedibili o non prevedibili affatto travolgono la natura e la vita di milioni. L´uragano Kathrina o il disastro ecologico del Golfo del Messico targato BP sono invariabilmente portatori di povertà o perché si abbattono su regioni povere (anche quando parti di uno stato non povero come gli Stati Uniti) o perché causano impoverimento o aggravano l´esistente povertà. La sfida è chiara e non c´è chi non condivida l´inadeguatezza degli strumenti fin qui usati. Lo stato sociale era organizzato secondo previsione più o meno certe, basate su una regolarità e normalità delle relazioni sociali. Pensare al futuro era in qualche modo parte dell´investimento. Come si può incoraggiare il mercato a pensare in termini di futuro in situazioni di rischio radicale come sono quelle naturali? E´ proprio questa domanda che dovrebbe convincere a considerare i mutamenti ambientali e climatici come parte della elaborazione politica e sociale.

A provare che i cambiamenti climatici hanno cambiato i comportamenti economici tradizionali è il mutamento delle strategie delle assicurazioni: i rischi di alluvione, per esempio, sono diventati così alti che le assicurazioni coprono solo parzialmente o per nulla. Indubbiamente la frequenza e la gravità di queste calamità è messa in conto dalle assicurazioni (e questo vale ad ammettere che esiste una relazione tra mutamento climatico e disastri naturali) e se questo è vero, allora è urgente la riscrittura delle regole per indurre le compagnie assicurative a mutare le loro strategie. Incoraggiare il mercato – quello delle assicurazioni in modo particolare – è un´impresa tutt´altro che facile come la battaglia di Barack Obama per una riforma sanitaria seppur minima ha dimostrato. È arduo convincere le corporations che si deve proteggere chi è vulnerabile; compito della politica è convincere che è conveniente farlo. Giddens propone esplicitamente di "assicurare i poveri" o i disastrati del mutamento climatico come si assicura la vecchiaia o la malattia. Questa sarebbe la nuova frontiera dell´utopia pragmatica: inserire l´ambiente e l´ecologia tra gli obiettivi dell´equità, come la salute o l´educazione. Fare dell´ecologia a un tempo un progetto di giustizia sociale e un progetto di innovazione tecnologica al servizio del benessere generale.

Il padre teorico della "terza via" – che la Regina d´Inghilterra ha da poco elevato a Lord – ha mantenuto intatta la fiducia nella partnership virtuosa di pubblico e privato per la costruzione di una società dell´equa condivisione di responsabilità rispetto alla vulnerabilità. Tuttavia questa volta l´aspetto utopico è molto più accentuato di quanto non lo fosse quando si trattava di rinegoziare lo stato dei servizi sociali. Anche perché quella terza via ci ha lasciato una politica che è indubbiamente più debole, al punto che, come assistiamo da due anni, gli stati democratici pare non abbiano sufficiente autorità per imporre ai mercati finanziari regole di trasparenza e di responsabilità verso la comunità. Il capitale finanziario non ha confini né patria, soprattutto è indifferente alla materialità e alla produzione di beni. Perché dovrebbe sentire solidarietà per i vulnerabili dei cambiamenti climatici? E, poi, se i governi destinano finanziamenti per assicurare chi è colpito dalle catastrofi, non c´è il rischio che i disastri diventino cose economicamente vantaggiose e trattate come tali? C´è un assunto non detto nella "terza via" ecologica che non è convincente: che le corporations siamo mosse nelle loro decisioni da un senso civico o umanitario. E c´è un assunto ancor meno dimostrabile: che le relazioni di forza tra mercato finanziario globale e stati sovrani nazionali siano come tra partner equipollenti. E´ un fatto che gli stati sono sempre più impotenti di fronte ai mercati (luoghi di disastri altrettanto imprevedibili di quelli naturali). La politica è riflesso dell´economia anche nel senso che con l´economia essa condivide lo stato di miopia, l´incapacità o la non volontà di progettare il futuro.

Pomigliano è diventata, è, la materia viva e il simbolo di uno scontro che investe la sopravvivenza della Costituzione della Repubblica fondata sul lavoro e della storica, e sempre più drammatica questione meridionale. La sostanza è nota: a Pomigliano c'è un impianto della Fiat, che attualmente dà lavoro a circa quindicimila persone e la Fiat ha posto ai sindacati, ai lavoratori, ai meridionali un aut aut feroce: o i lavoratori si impegnano a utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno per sei giorni la settimana; a essere disponibili per 80 ore di straordinari a testa; a recuperare gli eventuali ritardi lavorando la mezzora della refezione, a rinunciare al diritto di sciopero, oppure la Fiat chiude lo stabilimento e c'è disoccupazione per tutti. E in più, si instaura una «metrica del lavoro» che - come scrive Luciano Gallino, nel suo ottimo articolo sulla Repubblica di ieri - «si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot». Saremmo così alla Repubblica fondata sulla robotizzazione degli uomini. Anche il papa, penso avrebbe qualcosa da ridire.

Ecco come il ministro Giulio Tremonti presenta questa mostruosità: «Sarà un modello per tutti. Con la globalizzazione è finito il conflitto capitale lavoro». La globalizzazione infatti ha enormemente aperto alla delocalizzazione e ingrossato il cosiddetto esercito industriale di riserva. I lavoratori da persone umane sono ridotte a merci, la Costituzione è ridotta a carta straccia. L'art. 41 della Costituzione viene modificato: non più «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». La nuova prassi, imposta senza voto alcuno, recita: «L'iniziativa economica privata è sovrana e, quando sia a lei utile, può mettere i cittadini in campi di lavoro forzato». Dalla Repubblica democratica degradiamo alla sovranità assoluta.

Di fronte a questa aggressione Cisl e Uil hanno capitolato, hanno alzato le mani in segno di resa. Ma si rendono conto sia Tremonti sia la Cisl e la Uil che cosa provocherebbe una capitolazione del genere? Al degrado sociale, civile cui ci porterà? Il diritto di sciopero diventa violazione della Repubblica fondata «sulla sovranità assoluta dell'iniziativa economica privata ». I contratti nazionali, firmati anche dai padroni, vanno nella spazzatura.

Cerchiamo di avere un po' di memoria. Quando in Italia, nel primo dopoguerra, le crisi erano grosso modo a questo punto, l'esito fu il fascismo. Ma pensano i nostri attuali governanti che si possa tornare agli anni '20? Non pensano che violenza provoca violenza? Pensano che le popolazioni del Mezzogiorno subiranno senza reagire il ricatto dell'abbandono e la localizzazione nel Sud, già tanto provato, di nuovo lavoro schiavo? La Cisl e la Uil hanno ceduto, subito la violenza accettandola come necessità. La Cgil e la Fiom resistono e fanno bene. La storia è dalla parte loro.

Postilla

Dice Tremonti (ma altri, da sponde opposte, l’hanno detto prima di lui): “è finito il conflitto tra capitale e lavoro”. Già, ma non perché non ci sia più contrasto d’interessi, solo perché ha vinto il capitale.

È possibile che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L´industria mondiale dell´auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente. A farne le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un´auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all´assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all´ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato.

Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano - ben 15.000 se si conta l´indotto - è probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l´azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta.

Una volta riconosciuto che forse l´azienda non ha alternative, e non ce l´hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti.

Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L´azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all´anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l´orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzione a seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell´autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz´ora a fine turno - giusto quella della refezione - o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l´indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat.

Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla "metrica del lavoro." Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l´analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è l´uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l´adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per "produzione di qualità o livello mondiale"). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un´azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall´altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot.

È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell´ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello.

È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l´anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.

Questa legge va fermata «nell´interesse della democrazia, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza di informazione. Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato». Le parole di Ezio Mauro su Repubblica ripropongono il tema della disobbedienza civile, ovvero il limite oltre il quale obbedire può contribuire a riconoscere una legge ingiusta.

E lo ripropongono in un momento nel quale la democrazia costituzionale è a rischio poiché chi ha ottenuto la maggioranza per governare sta accampando pretesti per cambiare le regole: per governare secondo le proprie regole, per i propri desideri e interessi. L´Italia si trova di fronte a un bivio e la proposta di legge bavaglio è una tappa decisiva verso una pericolosissima fase anticostituzionale. Che cosa fare per impedire una nuova stagione liberticida? E prima ancora, come comportarsi di fronte a questa legge, se venisse approvata dal Parlamento?

Se questa legge passasse, molti cittadini si troverebbero fatalmente a dover decidere se rispettare la legge o rispettare la verità, se obbedire alla maggioranza o alla costituzione, poiché chiaramente la contraddizione tra le due è ormai aperta. Come ci ha fatto comprendere il presidente del Consiglio, la costituzione è un impaccio del quale lui vuole liberarsi; un impaccio come la libertà di stampa e l´autonomia della magistratura. Ma quando una decisione politica mette legge e verità, legge e Costituzione in contraddizione tra di loro, è la libertà di tutti a rischio. È su questo semplice ragionamento che si basa la disobbedienza civile, un´azione che è possibile solo dove la politica è sotto lo scrutinio permanente e pubblico dei cittadini e condotta nei limiti della costituzione.

È negli Stati Uniti che si è sviluppata la più ricca e completa teoria della disobbedienza civile: prima contro la schiavitù, poi contro la coscrizione obbligatoria per la guerra del Vietnam. La cornice ideale l´hanno tracciata David Henry Thoreau e Martin Luther King, i quali presero la strada della disobbedienza civile consapevoli che la loro scelta avrebbe comportato la repressione, ma senza per questo desistere. La disobbedienza è «civile» appunto perché fatta rispettando le leggi, perché chi disobbedisce accetta le conseguenze punitive previste. Non è dunque la legge che la disobbedienza civile rifiuta e contesta, ma una specifica decisione di una specifica maggioranza. La quale, quando provoca una reazione così radicale da parte dei cittadini, è davvero contro la legge, fuori della legge.

Thoreau nel 1846 rifiutò di pagare le tasse al governo federale per non contribuire a finanziare una guerra ingiustificata, quella contro il Messico, e una legislazione che sosteneva la schiavitù degli stati del Sud. Spiegò il suo gesto in una lezione al locale liceo pubblico di Concord, nel Massachusetts, che divenne il testo canonico della disobbedienza civile: se la coscienza del cittadino onesto è il sovrano ultimo della democrazia, quando la legge votata da una maggioranza la viola gravemente, la disobbedienza è un atto dovuto a se stessi, un dovere di onestà. Più politica ma non meno radicale la posizione che tenne Luther King, un secolo dopo, questa volta contro la segregazione razziale imposta da decisioni ingiuste. Il leader del movimento americano per i diritti civili scrisse dalla prigione di Birmingham, Alabama, un memorabile discorso-sermone nel quale, affidandosi ad autori religiosi e laici, da San Tommaso a Thomas Jefferson, giustificò la disobbedienza ad una decisione ingiusta con l´argomento che quest´ultima viola il patto fondamentale che tiene insieme la società civile e si mette, lei non i disobbedienti, fuori della legge. Anche per Luther King come per Thoreau, disobbedire era un dovere del cittadino se obbedire significava lasciare che la legge fondamentale venisse calpestata.

Disobbedire voleva dire non solo conservare la propria dignità di cittadini ma anche difendere lo spirito e la lettera della Costituzione. Al dispotismo della maggioranza si risponde riconoscendo obbedienza alla norma fondamentale. Questo principio fu ribadito da John Rawls negli anni della guerra in Vietnam. Rawls, in un saggio memorabile nel quale dettò una specie di statuto della disobbedienza civile, spiegò che questa è l´ultima ratio, una scelta che è fatta dai cittadini singoli e che viene dopo che tutti i passi politici per impedire l´approvazione di una legge sono andati a vuoto: dall´opposizione parlamentare, alle manifestazioni dell´opinione pubblica, al controllo di costituzionalità degli organi competenti. Alla fine, se tutto ció non ha sortito effetto, non resta che la responsabilità di chi individualmente si trova nella condizione di dover decidere se obbedire o no a quella legge.

La disobbedienza civile è per questo un segnale fortissimo di emergenza democratica perché con essa i cittadini si mettono individualmente nelle mani della legge proprio quando la disobbediscono: facendosi disobbedienti restano soli davanti al potere coercitivo dello Stato. Questa estrema ratio, quando necessaria, è una denuncia della situazione di incostituzionalità nella quale si trova a operare la maggioranza con la sua smania dispotica di liberarsi dalle regole. «Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze», ha detto il Premier, definendo i controlli previsti dalla Carta «una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».

Ma è lui, è una maggioranza che si vuole incoronare sovrana che ci farebbe sudditi e servi se passasse questa pericolosa politica anticostituzionale, se passasse questa legge bavaglio: la madre di tutte le leggi liberticide. Silenziare le opinioni, spegnere la mente dei cittadini rendendoli bambini idioti davanti a una televisione che commercia il nulla: è questa l´Italia che il nostro Premier ha costruito in questi anni, un serraglio di docili sudditi che egli chiama popolo della libertà. Dove si fermerà questo incalzante assalto alle nostre libertà fondamentali?

Sogno una grande mobilitazione. D’altri tempi, sì, perché questi, purtroppo, sono proprio altri tempi. Non solo le manifestazioni nazionali – che spero convergeranno, tra l’altro – ma una manifestazione diffusa in tutta Italia e vicina alle persone. Ci sono le intercettazioni che, nel Paese dalla fragile libertà di stampa, costituiscono uno scandaloso bavaglio per i mezzi d’informazione e un vero e proprio monumento all’insicurezza (!), perché, nel Paese del telefono, negare la possibilità di indagare anche attraverso il ricorso alle intercettazioni è come togliere i poliziotti dalle strade: nel Paese della corruzione che dilaga è un episodio davvero grave e avvilente.

C’è un attacco alla Costituzione (infernale!) che supera di slancio tutte le precedenti sparate di Berlusconi e dei suoi. C’è una manovra che non contiene una riga sul futuro del nostro Paese e che va nella direzione sbagliata, perché non riduce ma, anzi, aumenta le differenze tra chi sta bene e chi non ce la fa (perché in Italia non si può mai parlare di rendita – chissà poi perché – e si è tolta l’Ici a chi la poteva pagare, proprio quando la crisi stava arrivando). Non dobbiamo più dare l’impressione di essere sulla difensiva, se è vero com’è vero che questa finanziaria riscatta in pieno anche la memoria delle cose fatte in campo economico da parte del governo Prodi. Usciamo dai circoli, allora, diamoci da fare, incontriamo i cittadini, parliamone nei luoghi di lavoro e nelle mille piazze di questo paese,ma anche nei luoghi dell’estate che inizia, nelle mille spiagge, nelle serate d’estate che ci attendono.

Chiediamo il coinvolgimento più ampio e la partecipazione più larga possibile. Ci sono i Mondiali? E allora giochiamoci la partita delle partite, Italia contro Berlusconia, perché il gioco si è fatto fin troppo pericoloso. Per tutti. Ritroviamo il gusto dell’informazione politica, della passione, l’ospitalità nei confronti di chi s’indigna e chi ha qualcosa da dire: perché il Pd è uno spazio nel quale capire le cose e dirle, denunciarle, raccontarle al Paese, con parole diverse, un partito che non ha paura di confrontarsi con nessuno e che conosce l’importanza di chi difende la Costituzione, la libertà di informazione e la dignità del lavoro.

Il Pd quest’estate non può andare in vacanza, per il suo e nostro bene. E, forse, senza presunzione, per il bene del Paese. La rassegnazione è pericolosa e la rinuncia è la cosa meno progressista che ci sia. Per ora, in questo momento noir, si sono mossi soprattutto i movimenti, Popolo Viola e Valigia Blu in primis. Ora è il momento che il Pd faccia il Pd. E si faccia trovare dove si trovano i cittadini. Se non ora, quando?

QUALE governo ha drasticamente ridotto la privacy dei dipendenti pubblici, modificando addirittura il primo articolo del Codice che regola questa materia? Quale governo ha messo nelle mani delle società di marketing la privacy telefonica delle persone, capovolgendo le regole che proprio gli interessati avevano mostrato di gradire? Quale governo ha incentivato il diffondersi della sorveglianza capillare sulle persone? Quale governo ha abbandonato ogni iniziativa sulla tutela della libertà su Internet, che aveva dato all´Italia un significativo primato internazionale? Quale maggioranza ha sfornato e continua a sfornare proposte di legge e emendamenti volti a limitare la privacy di chi naviga in rete? Proprio governo e maggioranza che ora innalzano il vessillo della privacy, invocano l´art. 15 della Costituzione e ricorrono al voto di fiducia.

Questi fatti, incontestabili, non mettono soltanto in luce una contraddizione clamorosa. Consentono di cogliere quale sia l´obiettivo vero dell´improvviso entusiasmo per la riservatezza. Mentre viene sacrificata senza batter ciglio la privacy di milioni di persone, si fanno le barricate proprio là dove la riflessione culturale e l´evoluzione legislativa inducono a ritenere che, per alcune categorie di persone e in situazioni particolari, le "aspettative di privacy" debbano essere drasticamente ridotte. Si tratta delle "figure pubbliche", delle persone indagate, delle attività economiche.

Questi non sono argomenti inventati oggi per dare sostegno a chi polemizza contro "la legge bavaglio". Quando, nel 2003, con una significativa convergenza tra il Garante per la privacy e il Consiglio nazionale dell´ordine dei giornalisti, si misero a punto le regole sul diritto d´informare, l´articolo 6 del Codice di deontologia venne scritto così: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza.

Si era consapevoli della necessità di non far divenire la privacy uno strumento che, invece di tutelare le sacrosante ragioni dell´intimità, serva a coprire attività che devono essere sempre sottoposte al giudizio di una opinione pubblica adeguatamente informata. Si seguiva così il filone inaugurato nel 1964 da una celebre sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso New York Times contro Sullivan, quando si riconobbe il diritto della stampa di pubblicare addirittura notizie false e diffamatorie riguardanti "figure pubbliche", salvo nel caso in cui ciò fosse fatto con "actual malice". Questa linea è stata seguita in moltissimi paesi e, in un caso riguardante uno stretto collaboratore del Presidente Mitterrand, la Corte europea dei diritti dell´uomo è andata oltre, affermando che, in un sistema democratico, è legittima persino la pubblicazione di notizie coperte dal segreto, per consentire il controllo su come viene esercitato il potere. Diritto di sapere, esercizio del controllo democratico e trasparenza sono strettamente intrecciati, e neppure il segreto e l´eventuale falsità della notizia possono interrompere questo circuito virtuoso, impedire la circolazione delle informazioni.

Una pur minima cultura della privacy dovrebbe essere provvista di questo bagaglio, che ci avrebbe risparmiato quell´impasto di ignoranza e malafede che ci affligge in questi giorni. Ma la regressione culturale, con conseguente pessima politica, ci avvolge da ogni parte, sì che ogni volta si è costretti a ricominciare dall´abc. Ricordando, anzitutto, che è falso sostenere che la legge appena approvata dal Senato abbia come obiettivo quello di frenare il gossip, di impedire la pubblicità di informazioni irrilevanti o intime. Ripeto quello che è stato detto mille volte, scritto in disegni di legge: questo è un fine, sacrosanto, che si può agevolmente raggiungere, con il consenso di tutti, stabilendo la cancellazione di questi brani delle intercettazioni, irrilevanti per le indagini. Poiché non ci si è fermati a questo punto, ma si è voluto imporre il silenzio totale su notizie rivelatrici di malefatte politiche o amministrative e persino su ammissioni di mafiosi, allora è evidente che l´obiettivo è un altro, quello di mettere a punto una rete protettiva di un ceto che del disprezzo delle regole ha fatto la propria regola. La sintonia tra questo atteggiamento e l´assalto alla legalità costituzionale è del tutto evidente.

E diventa chiarissimo che cosa si avvia ad essere il sistema di tutela della privacy, in un totale stravolgimento del rapporto tra pubblico e privato. Trasparenza crescente per l´inerme persona "comune"; opacità crescente di un ceto per il quale l´esercizio del potere non è più fonte di responsabilità, ma di immunità. Si mette a disposizione di poteri politici, economici, tecnologici la vita quotidiana d´ogni persona, scrutata in ogni momento, "profilata", ridotta ad oggetto di cui si può impunemente disporre. Si sottrae alla democrazia, come "governo in pubblico" una delle sue ragion d´essere, allungando l´ombra dove la trasparenza dovrebbe essere massima. È questa la logica che dev´essere capovolta, restituendo alla privacy l´onore che le spetta come elemento essenziale della libertà dei contemporanei.

Difficile capire i pericoli che corre Israele ­ pericoli non nuovi, ma immensamente dilatati dall’assalto, in acque internazionali, alla flottiglia che il 31 maggio ha tentato di forzare il blocco di Gaza ­ se non si adotta uno sguardo lungo, che amplifichi le nozioni dello spazio e del tempo. Lo spazio più ampio è quello popolato da forze, in Medio Oriente, che sono in mutazione e tendono a divenire potenze decisive: l’Iran è una di queste, ma anche la Turchia. Il tempo più ampio sono i 43 anni in cui Israele è divenuto uno Stato che occupa in maniera permanente spazi non suoi, abitati da un popolo che aspira a emanciparsi dal colonizzatore e a farsi Stato. In questi 43 anni Israele ha goduto di uno speciale privilegio, e ad esso si è abituato: era l’unico Paese nucleare della zona, anche se lo negava, e l’atomica costruita nel ‘55-58 con l’aiuto francese ha funzionato da deterrente. Nessuno Stato arabo poteva oltrepassare certi limiti e mettere in forse la sua esistenza, grazie alla tutela dell’arma ultima che è la bomba.

Questa condizione di privilegio non poteva durare in eterno è infatti ora sta vacillando. Il desiderio iraniano di rompere il monopolio israeliano sul nucleare è antico, e precede l’avvento del regime teocratico a Teheran. L’America stessa ha tollerato il monopolio, sia pure faticosamente, e lo tollera di meno oggi che il suo potere globale si sfalda. Nei rapporti tesi fra Obama e Netanyahu c’è la questione atomica, non detta ma sempre più pensata.

Difficile alla lunga vietare ad altri attori l’arma, se la si concede a Israele. Difficile chieder loro di parlare vero, senza chiederlo a Israele. Obama aveva questo in mente, quando invitò il premier israeliano a partecipare alla conferenza sulla sicurezza nucleare del 12-13 aprile a Washington. Invito che Netanyahu declinò, credendo di immortalare in tal modo il proprio statuto di potenza nucleare opaca, che nega il possesso della bomba e, al massimo, parla di «opzione nucleare». La conferenza ha auspicato una zona denuclearizzata in Medio Oriente, pensando all’Iran ma anche a Israele. I motivi della non partecipazione si possono capire - Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione - ma rimanere assenti significa vietare a se stessi lo sguardo lungo, nello spazio e nel tempo, che urge in questo momento.

In Israele si parla poco della bomba e della centrale di Dimona. Mordechai Vanunu, il tecnico che lavorava a Dimona e ne rivelò l’esistenza, parlò di 200 testate in un’intervista al Sunday Times del 1986, e venne incarcerato per 18 anni, accusato di alto tradimento. Israele resta una democrazia, ma sull’atomica mantiene un segreto di natura autoritaria. I suoi esperti danno alla segretezza il nome di opacità. Lo storico Avner Cohen, autore di un libro importante sulla questione (Israel and the Bomb, Columbia University Press 1998, rifiutato in Israele) sostiene che l’opacità è una «cultura chiusa in se stessa che non permette di pensare l’epoca della post-opacità». I responsabili dell’atomica si sono «abituati a lavorare nell’anonimato, immunizzati da critiche esterne». Il segreto nucleare è un paravento forse necessario in passato, ma che ora copre debolezze e gesti di follia politica.

La guerra dei Sei giorni, nel ’67, fu combattuta al riparo della bomba, ultimata tra la fine degli Anni 50 e i primi 60. Ma possedere la bomba senza ammetterlo ha finito col congelare il pensiero, dando a Israele l’impressione di un tempo immobile, di un monopolio non scalfibile. Congelamento accentuato dall’assenza di test nucleari. Per le altre potenze atomiche il test è stato un atto di trasparenza, oltre che di orgoglio o tracotanza. In Israele la dissimulazione ha consentito che la bomba restasse un deterrente puro, che mette paura senza uscire dall’irrealtà del simbolo.

La volontà dell’Iran di divenire una nazione nucleare (e in futuro una simile volontà turca) mette fine al simbolo dissimulato. La bomba comincia a farsi reale, forse usabile in caso di aggressione. È il risultato d’un monopolio contestato ma anche della politica dell’opacità, che molti leader arabi considerano un oltraggio. È anche il risultato della nuova fragilità delle forze convenzionali israeliane. La bomba è un deterrente efficace quando il suo uso è minacciato, ma non necessario. Quando è necessario, la deterrenza rovina. Le ultime guerre israeliane e l’assalto alla flottiglia hanno confermato tale fragilità. Inoltre Israele ha alle spalle una potenza Usa in declino, invischiata in guerre fallimentari, meno disponibile.

Tanto più grave è la delegittimazione di cui soffre lo Stato israeliano, soprattutto da quando Hamas ha vinto le elezioni del giugno 2007 ed è iniziato il blocco di Gaza. Una delegittimazione che tende a espandersi, non solo localmente ma mondialmente. Il nuovo potere regionale esercitato da Iran e Turchia è guardato con sospetto da Washington, ma in fondo tollerato. L’Iran è trattato come un reietto ma la Turchia resta membro della Nato, con cui esistono solidarietà preziose per Washington. Basti pensare allo strano gioco di scacchi in corso sull’atomica iraniana. Il 9 giugno, il Consiglio di sicurezza ha adottato sanzioni contro Teheran, con il consenso di Russia e Cina. Ma il 17 maggio, un accordo regionale di vasta portata era stato raggiunto tra Iran, Turchia e Brasile, in base al quale Teheran accettava di trasportare in Turchia 1200 chilogrammi di uranio a basso arricchimento, in cambio di 120 chilogrammi di uranio arricchito al 20 per cento da usare per il proprio reattore di ricerca medica. Quel che America, Europa, Russia non erano riuscite a fare per anni, due potenze medie l’hanno ottenuto rapidamente. Ma c’è di più: il 27 maggio, il ministero degli Esteri brasiliano ha reso pubblica una lettera inviata da Obama a Lula (e probabilmente al turco Erdogan) in cui l’accordo di Teheran veniva appoggiato, sia pure scetticamente. Le sanzioni lo hanno messo in sordina, ma forse non affossato.

In questo mondo in mutazione si muove Israele, sempre più ingabbiato dalle inferriate che si è fabbricato. Sempre più prigioniero della propria tendenza a considerare equivalenti due minacce che non lo sono: la minaccia alla sua legittimità, e alla sua esistenza. La prima va combattuta politicamente, e preliminarmente alla lotta per la sopravvivenza. Equiparare all’Olocausto l’atomica iraniana, e la rottura del monopolio sul nucleare, significa impedire a se stessi correzioni di rotta e sforzi di rilegittimazione. Se ogni correzione è rifiutata, niente ha senso: né la lotta alla banalizzazione della bomba, né l’uscita dall’opacità, né un negoziato con potenze nucleari in fieri, né, soprattutto, la soluzione del dramma palestinese. È quest’ultimo che consente a tanti Paesi di delegittimare continuamente Israele.

Se adotta uno sguardo lungo, Israele dovrà per forza scoprire che di tempo ne ha pochissimo, per cambiare radicalmente. Non può continuare a colonizzare terre quando anche il Papa denuncia l’occupazione, non può costruire sempre nuovi insediamenti, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, senza attrarre su di sé il risentimento non solo di Stati contigui ma della stessa America e dell’Europa. Quarantatré anni di colonizzazione hanno reso affannoso quello che ora le tocca fare: facilitare la nascita di un vero Stato accanto a sé, che renda il popolo palestinese non solo fiero ma infine responsabile, dunque anche imputabile.

Gli uomini di Netanyahu ancora si muovono nel mondo di ieri, quello dell’opacità e della sicurezza di sé. Nell’aprile scorso, il presidente del Parlamento Reuven Rivlin ha dichiarato preferibile uno Stato bi-nazionale, piuttosto che dividere Israele e Cisgiordania in due Stati separati. Altri la pensano allo stesso modo. Sono posizioni suicide. Perché se Israele incorpora gli arabi delle zone colonizzate, cesserà di essere uno Stato ebraico. Se non li incorpora, e continuerà a rendere impossibile lo Stato palestinese, cesserà di essere una democrazia. È questo il dilemma cui è condannato, terribile ma ineludibile.

Perché, e come, usare i grandi eventi come occasione, seria, di governace. Questa l’applicazione, tutta italiana, della ricerca, commissionata dall’OCSE Leed per lo sviluppo locale, effettuata da Greg Clark, consulente per lo sviluppo del sindaco di Londra e per le strategie del governo inglese. Una ricerca che se, in Europa, è stata recepita come una guida per i benefici per lo sviluppo locale dall’organizzazione dei “global events”, in Italia arriva sotto forma di un libro dal titolo che più chiaro non si può: Cosa succede in città. Olimpiadi, Expo e grandi eventi: occasioni per lo sviluppo urbano (ed.Gruppo 24 Ore).

Significativo anche chi è il curatore dell’edizione italiana del lavoro di Greg Clark: Paolo Verri, già direttore del Salone del Libro di Torino, del Piano Strategico di Torino e, oggi, direttore del Comitato per il 150° anno dell’Unità d’Italia. Un Grande Evento. Ecco, allora, che il motivo che ha spinto Verri a pubblicare in Italia un simile libro, «in un momento in cui» scrive «alla parola “grande evento” si associa perlopiù un connotato negativo», altro non è se non quello di riabilitare i “grandi eventi” rendendoli compatibili «con la nostra cultura politica, giornalistica e manageriale». Se poi andiamo a vedere chi ha finanziato, patrocinato e curato presentazione e prefazione del libro, il quadro è completo. I finanziamenti e i patrocini arrivano, infatti, direttamente dal Comitato Italia 150 e dalle Camere di Commercio di Torino e Milano. La presentazione, in realtà un elogio ex post delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 e una chiara propaganda all’Expo di Milano 2015, è stata redatta da Alessandro Barberis, Presidente della Camera di commercio di Torino, e del suo alter ego milanese, Carlo Sangalli. Per chiudere il cerchio, la prefazione è stata curata direttamente dal sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, che ha parlato del “caso Torino” come chiaro esempio di evento utilizzato come motore di “ri/forma” urbana. Per evitare di essere frainteso, il primo cittadino di Torino mette le cose in chiaro fin dalle prime righe della sua prefazione: «non v’è dubbio» scrive «che il momento di svolta di Torino sia stato un grande evento, anzi due: le Olimpiadi invernali del 2006 e – udite udite – la presentazione della nuova Cinquecento». Non solo. Chiamparino ci spiega come «entrambe le occasioni sono state lungamente preparate e la seconda è fortemente debitrice della prima». Quindi, la mega presentazione e l’enorme pubblicità in diretta tv su Canale 5 dalle sponde del Po della vettura di “casa Agnelli” è merito degli investimenti pubblici per le Olimpiadi invernali. Buono a sapersi, soprattutto ora che siamo in tempi di “Piano Fiat”. E siamo solo all’inizio della “grande opera” firmata Greg Clark. A far tremare i polsi, però, e a inquadrare “cosa accadrà in città”, è la proposta, che arriva nelle ultime pagine scritte da Paolo Verri, per il futuro prossimo del nostro paese, «un paese che si appresta a festeggiare i 150 anni della sua unità» e a dirlo è proprio il Direttore del Comitato Italia 150 «a ospitare l’Expo del 2015, a candidarsi per le Olimpiadi del 2010. Appuntamenti unici, da non sprecare».

Tra l’introduzione e la postfazione, ribattezzata, sempre per non lasciar spazio alle interpretazioni, “Agenda Italia: come e perché una strategia dei grandi eventi in Italia è possibile, anzi necessaria”, 196 pagine sul “Ruolo degli eventi globali a livello globale”, visto che, secondo Clark, «l’era globale sta rinnovando le domande di eventi globali». Eventi che hanno diversi vantaggi, primari e secondari in base alla finestra temporale. Uno su tutti, quello di poter essere sfruttati tanto in funzione del loro impatto sul turismo e sull’economia che, e qui è la partita italiana come spiegherà Verri nella postfazione, «come strumenti di politica di governo». Sono molti gli elementi interessanti toccati da Clark in quello che, ricordiamo, è l’esito di una ricerca commissionatagli dall’Ocse Leed per lo sviluppo locale: dal “fare in modo che diventi un’abitudine: ospitare più eventi” a quello che sembra un capitolo scritto appositamente per il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, relativo alla candidatura della Città Eterna alle Olimpiadi del 2020: “candidarsi a ospitare un evento globale senza vincere”. «La scelta di candidarsi» spiega infatti Clark «è di per sé una mossa vincente». Il motivo? Perché «la presentazione della candidatura per un evento globale incoraggia l’adozione di nuovi punti di riferimento per lo sviluppo urbano, dettando nuove regole di ingaggio». In poche parole «presentare una candidatura significa accelerare la pianificazione dello sviluppo e i progetti di trasformazione urbana». E come non vedere un nesso tra la candidatura di Roma 2020 e il primo incontro in Italia, tenutosi la scorsa settimana in Campidoglio, dell’International Business Aviation Council per discutere delle prospettive di investimento e sviluppo offerte da Roma? Non appena lanciato il Gran Premio di F1 del 2013 e la candidatura di Roma olimpica, Alemanno ha aperto le porte della città a Martin Sorell, chairman dell’Ibac, al magnate dell’editoria Rupert Murdoch, all’ad di Eni Paolo Scaroni, a Ferrovie dello Stato, Ferrari, Bulgari, Finmeccanica, Fiat, Enel, Aeroporti di Roma, Trussardi, Prada, Mediaset per le aziende battenti bandiera tricolore. Mentre, tra gli internazionali, si sono riversati a Roma i vertici di Coca Cola, Pepsi, Ibm, Colgate, Volkswagen, Goldman Sachs, Goolge… E l’elenco potrebbe continuare a lungo.

Alla fine, quindi, per Greg Clark il vero vantaggio di ospitare, o di candidarsi ad ospitare, un global event consiste nell’accelerazione degli investimenti e nell’attuare strategie locali e regionali in modo più completo e rapido. Peccato, però, che tutto questo si traduce nell’offerta di «un potenziale contributo all’incentivazione del mercato immobiliare e dell’infrastruttura delle regione». Il che, in Italia, significa cemento verticale e orizzontale. Altre costruzioni e altre autostrade.

Ma in Italia, una strategia dei global events ha un’applicazione tutta sua: quella, come spiega chiaramente Paolo Verri nella postfazione, di «motore di sviluppo e occasione (seria) di governance». Per Verri, quindi, ci sono dieci anni, dal 2011 al 2021, «per riposizionare il paese». Quello che si apre è, infatti, per il direttore del Comitato Italia 150, «un decennio dalle grandi potenzialità».

Prima grande occasione, ovviamente, Italia 150 per lanciare un piano di intervento decennale capace di coinvolgere almeno sei delle maggiori aree metropolitane del paese. «A partire dal 2011» sostiene Verri «si potrebbe lanciare in maniera sistematica la dorsale Torino – Milano – Bologna – Firenze – Roma – Napoli legata alla nuova infrastruttura dell’alta velocità ferroviaria». Eccolo il vero obiettivo di Italia 150: capitalizzare la Tav estendendola al tessuto culturale.

Quindi, nel 2013, sarà la volta di Napoli con il Forum delle Culture. Giunto alla sua quarta edizione. Dopo Barcellona 2004, Monterrey 2007, Valparaiso 2010, ecco Napoli 2013. Obiettivo: milioni di euro per la “riqualificazione” dell’area di Bagnoli. Quindi, Milano 2015: Verri si scaglia contro il budget decurtato e sul fatto che «mai dopo la candidatura è parso esserci da parte del governo nazionale un impulso forte a fare dell’Expo il centro delle politiche economiche e commerciali del paese». Per questo, è necessaria «una campagna positiva dal basso che renda partecipe tutto il mondo delle imprese italiane».

Ma a preoccupare, scampato il “rischio” Europei 2016 con una figuraccia planetaria sulla candidatura dell’Italia, sono i Grandi Eventi a venire. Quattro, per l’esattezza. Tre dei quali, esclusa la corsa di Roma per le Olimpiadi del 2020, tenuti sotto traccia fino a oggi: due nel 2019, quando una città italiana da scegliere (in lizza Bari, Matera, Rimini, Ravenna e Venezia), sarà Capitale europea della Cultura e quando ricorrerà il Cinquecentenario della morte di Leonardo; l’altro nel 2021, quando ricorreranno i 700 anni dalla morte di Dante.

Un evento, quest’ultimo, che Verri ha definito «la ciliegina sulla torta» nell’ottica di un piano strategico nazionale per i grandi eventi. Così, alla fine di un decennio, quello 2011-2021, «che porterà notevoli conseguenze negli stili di vita e nei modelli di crescita e sviluppo del nostro paese e che potrà essere costellato di grandi eventi condivisi» ci sarà da ricordare Dante Alighieri. «Dante è Firenze» scrive Verri «è la lingua italiana, è la commedia, è la chiesa, è la politica». In suo onore, quindi, «bisognerà prevedere uno sforzo supremo per ricordare questo personaggio unico nella cultura mondiale».

Purtroppo l’anniversario della sua nascita è troppo lontano (2065!) per fare in modo che il ricordo di Dante si utile allo sviluppo del piano strategico per i grandi eventi. Così, l’anniversario della sua morte casca a fagiolo per iniziare a pensare a un riassetto urbano non solo di Firenze e della Toscana, ma anche di Verona e Ravenna, le altre due città principali nella storia della vita di Dante. È così che questa rassegna di grandi eventi, possibili e organizzabili in Italia nei prossimi dieci anni, «mette in luce un’opportunità unica e irripetibile per il nostro paese»: quella di instaurare una nuova governance.

Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili – nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia – e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.

La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all´ostruzionismo irragionevole l´attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell´interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L´Aquila.

Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.

Ciò che resta, finché potrà durare, è l´atto d´imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini – quello di sapere – cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere.

Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.

Si chiama principio di “precauzione” e non può mancare nell’armamentario concettuale di chi - per esigenze professionali o di impegno civile - si occupa di problematiche ambientali. Applicato all’urbanistica, comporta che siano evitati gli interventi dei quali non sono esattamente quantificabili i potenziali effetti impattanti sulle risorse naturali, sulla salute e la vita di relazione delle comunità interessate. Da sempre utilizzato per ragioni di buon senso, il suo sistematico impiego, in tutti i casi di valutazione di nuovi piani o programmi, viene ormai prescritto da specifiche disposizioni legislative.

Nel 1992 il concetto di precauzione compare per la prima volta nel Trattato di Maastricht, quando gli Stati dell’Unione Europea decidono di fissare 3 obiettivi e 4 principi di comune orientamento alle rispettive strategie in tema di “ambiente”. Gli obiettivi sono quelli di protezione della salute umana, di progressivo miglioramento della qualità ambientale e di accorta utilizzazione delle risorse naturali, cui vanno associati i principi di precauzione, di prevenzione, di correzione alla fonte e di riparazione economica (“chi inquina paga”) dei danni all’ambiente. Di fronte a pericoli già identificati si possono adottare misure di “prevenzione”, ma quando la pericolosità di un determinato piano è percepita solo come indizio, il principio di “precauzione” impone una gestione prudente del rischio per non dover tardivamente ricorrere ad azioni correttive o ad indennizzi monetari compensativi.

In Italia nel 2008 il principio di precauzione trova finalmente spazio nel codice ambientale (art. 3 ter) e da febbraio 2010 compare tra le finalità della legge regionale n. 10/2010, con la quale vengono prescritte le procedure di valutazione ambientale da seguire in Toscana. Basteranno i richiami di legge a impedire ambigue o distorte interpretazioni del generale principio di cautela? Quando si vuol vedere un progetto realizzato a tutti i costi, infatti, è proprio per “precauzione” che lo si supporta con costosi e autorevoli pareri tecnico-giuridici, gli si assicura largo consenso politico, lo si affida a procedimenti amministrativi complessi e ridondanti, si sollecita l’opinione pubblica facendo leva su situazioni di emergenza, si sposta gradualmente verso il basso l’asticella degli indicatori di conformità.

Nel 1985 il Governo italiano, incalzato dalle prescrizioni della Direttiva europea sulla qualità delle acque destinate al consumo umano, fissò i limiti di contaminazione per le falde acquifere. Da un giorno all’altro mezza Italia si trovò a non poter utilizzare i pozzi nelle zone interessate dalla coltura del mais e il ministro della Sanità Donat Cattin emanò subito l’ordinanza con cui veniva elevato a 1 microgrammo per litro il contenuto massimo di atrazina ammesso, 10 volte di più del limite legislativo di 0,1 che a giudizio ministeriale non era “necessariamente correlabile alla presenza di rischi tossicologici”. Ma l’assenza di prove non è prova di assenza e la magistratura chiarì che prima di spostare una virgola si sarebbero dovuti scientificamente provare gli effetti innocui della contaminazione di 1 microgrammo per litro.

A forza di spostare virgole, “ogni secondo che passa un metro quadrato viene ricoperto di cemento”, denuncia il presidente del Parco dell’Arcipelago Mario Tozzi. A Venturina, intanto, si parla di un nuovo regolamento urbanistico basato sull’edilizia “premiale”: sarà consentito costruire nuovi alloggi, soprattutto se destinati all’affitto a canone sociale, almeno fino a quando non sia stato scientificamente provato che lo sforamento della soglia di sostenibilità altera davvero i flussi di traffico veicolare, aumenta la quantità di polveri sottili in circolazione, impoverisce la biodiversità, limita la fruizione degli spazi comuni, influenza le condizioni di salute e di equilibrio socio- ambientale della Val di Cornia.

Si allarga il movimento per una nuova tassazione sulle transazioni finanziarie, sostenuta a parole (ma non nei fatti) anche da alcuni governi europei. Una guida in libreria e in rete

Il mondo ha salvato la finanza cocainomane, ora c’è il rischio concreto che la finanza possa uccidere chi l’ha mantenuta in vita. Non tanto i governi, che hanno deciso nel momento dello tsunami di mettere a disposizione del sistema finanziario oltre 13.000 miliardi di dollari (dati del Fondo monetario internazionale), quanto i cittadini dei paesi che hanno visto aggravarsi pesantemente i deficit pubblici, non a causa di un incremento della spesa pubblica per investimenti o welfare, ma per pubblicizzare banche o per costituire società ad hoc dove inserire titoli e immobili tossici. 


Una tassa sulle transazioni finanziarie è quindi un’urgenza, una necessità, uno dei primi obiettivi della società civile, che, in tutto il mondo da ormai due decenni, si batte per mettere un argine alla deriva distruttrice, e in alcuni casi criminale, del sistema finanziario globalizzato. Analisi e numeri in materia non mancano, a sostegno di un prelievo fiscale di ridottissime dimensioni (tra lo 0,01 e lo 0,05%), che vada a ridurre la propensione altamente speculativa di alcuni operatori e, nello stesso tempo, a costituire un fondo per la democrazia, la giustizia e la coesione sociale. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali ogni giorno si effettuano transazioni finanziarie per un controvalore di 7.200 miliardi di dollari tra scambi sulle valute, derivati e opzioni di svariata natura e rischiosità in larga parte su mercati non regolamentati (gli stessi che hanno originato il panico post fallimento Lehman). 


Intervenire con una tassa globale è una battaglia di democrazia e trasparenza, la stessa evocata da alcune istituzioni internazionali e da una parte dell’ideologia iper-liberista quando si tratta di mettere le mani sui beni comuni o di contrastare minimi interventi di regolazione. Attraverso un piccolo, quasi insignificante, prelievo fiscale è possibile portare alla luce del sole i protagonisti dell’assalto alle materie prime (che ha lasciato una pesantissima eredità soprattutto sui paesi del sud del mondo dove sono triplicati i prezzi per acquistare il cibo per la sopravvivenza giornaliera), ma anche quelli che, negli ultimi dodici mesi, hanno deciso di sfruttare le difficoltà di alcuni Paesi dell’area euro per attaccare la moneta unica. Mentre la Grecia si dibatteva per ottenere un aiuto da Bruxelles e Fmi, una parte dei suoi cittadini metteva al riparo i capitali rastrellati negli ultimi due decenni per acquistare immobili di prestigio a Londra oppure acquistava Cds (credit default swap, sulla carta assicurazioni contro il fallimento dello stato debitore), senza neppure possedere bond emessi da Atene. 


La Tassa sulle transazioni finanziarie non è una panacea, ma rappresenta il primo mattone di nuove fondamenta che possano permettere di invertire una rotta che rischia, altrimenti, di avere effetti realmente drammatici sulle democrazie di tutti i paesi europei e nord americani. Gli introiti della Tassa globale (come viene illustrato in questo opuscolo da Andrea Baranes) possono essere utilizzati per risanare i conti pubblici, ridefinire le politiche per un welfare di cittadinanza, decidere strategie economiche basate sulla sostenibilità sociale e ambientale, perseguire gli obiettivi del Millennium Goal delle Nazioni Unite per sradicare la povertà assoluta. E, con l’istituzione di questo strumento, si può dare un contributo fondamentale al tentativo dei regolatori di mettere le briglia ai mercati fuori controllo. 


La stragrande maggioranza dei cittadini è all’oscuro del fatto che gli operatori finanziari si sono costruiti un territorio extralegale, chiamato Otc (Over The Counter), dove, in virtù della deregulation e dell’applicazione del principio ideologico del mercato che si autoregola, possono esporsi a rischi incalcolabili e destabilizzanti. Un terzo del gigantesco Tarp, il fondo per la crisi creato dal Congresso degli Stati Uniti su indicazione del Governo, è finito a una società di assicurazione privata, Aig, che ha utilizzato il danaro pubblico per ripagare alcuni grandi operatori finanziari, Goldman Sachs in testa, che si erano assicurati contro il fallimento della Lehman Brothers. 
Ancora oggi, a distanza di quasi due anni da quella vicenda che ha contrassegnato drammaticamente per tutto il mondo l’esistenza di una crisi in atto già da più di un anno, il mercato Otc è fuori controllo e le autorità monetarie non sono in grado di dimensionare la reale esposizione al rischio, che, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, a fine 2009 ammontava a 614.000 miliardi di dollari! La Ttf serve anche a evitare che il mondo possa essere travolto dalla leva finanziaria di una finanza fuori controllo

Bene, benissimo la pensione delle donne all’età di 65 anni! Ecco cosa rispondo alle tante persone che in questi giorni chiedono un mio parere a proposito. No, non è un paradosso, né ironia, ma solo speranza. Infatti noi donne dovremo affrontare una vita che si fa sempre più impossibile e, chissà, forse necessità farà finalmente virtù. Questa è la mia speranza, lo confesso. Perché dovremo affrontare concretamente il vuoto pressoché assoluto di servizi, di strutture di sostegno. Dovremo fare i conti con una scuola che sta andando in rovina, con i tempi e i modi della politica spesso proibitivi per la nostra partecipazione. Dovremo fare i conti anche con l’organizzazione della città, i suoi tempi, i suoi orari, e con la progettazione delle case e dei nuovi quartieri dove vivere. Insomma proprio perché la vita si fa sempre più impossibile per noi, che siamo le donne che lavorano più ore giornaliere al mondo - così dicono le statistiche-, finalmente ci dovremo porre il problema del governo di questa società. Ecco perché sono contenta.

Stavolta non si scappa. Non ci resta che governare, e per questo bisogna abbandonare l’idea che il governare sia un’azione neutrale. Dovremo agire invece politicamente quello che abbiamo sempre saputo, che uomini e donne hanno moltissimi interessi contrastanti e che non sono complementari, come ci hanno raccontato da secoli. L’esperienza ci dice che i due sessi possono essersi utili, di tanto in tanto anche piacevoli, ma spesso si ritrovano ad essere pericolosi nemici. Insomma dovremo agire con la certezza che per chi governa essere uomo o essere donna conta non poco. Tutti o quasi in Italia riconoscono che la pensione a 65 anni è una batosta per le donne.

All’estero si stupiscono. Ma come mai? Chiedono. Semplice la risposta: perché non sanno come non funziona il nostro paese, paese dove né destra né sinistra si sono mai preoccupate veramente della famiglia. Parole tante ma fatti niente. La stessa risposta potrebbe valere anche per altre domande: perché in Italia c’è una così bassa natalità? perche le donne in Italia fanno difficilmente carriera? Ci sarebbe proprio da dire che da noi la famiglia è sacra e le donne, per esserne all’altezza, devono fare miracoli. Ma la cosa più strabiliante del nostro paese è che proprio noi donne ci siamo occupate poco e male di noi e abbiamo intascato e detto pure grazie a scelte politiche che ci riguardavano che, al contrario di quello che sembrava, ci mettevano in un angolo o ci facevano fuori del tutto.

Una di queste scelte è per l’appunto il falso e ipocrita privilegio di andare in pensione prima. Davvero non sembra che nel nostro paese ci sia stato un femminismo tanto forte, un femminismo che ha fatto della “differenza” una categoria politica centrale. Se l’idea della parità e l’idea dell’uguaglianza alludono ad un semplice accesso a certi benefici, condizioni e luoghi, la differenza è un’idea da grande rivoluzione, è quella che, se agìta politicamente, ha la forza di far cambiare l’assetto di una società. Ma così non è stato. Pensavamo, noi femministe, che bastasse l’idea? Ma quando mai per una rivoluzione sono bastate solo le idee? In questa nostra società c’è ancora da registrare la presenza vera e intera delle donne, le loro necessità, le loro esigenze, i loro desideri.

E allora che batosta sia! Chissà se in questo modo, riusciremo a terminare la nostra rivoluzione? Infatti diventerà sempre più impossibile arrangiarci, non basterà più quel reticolo di nonne, di zie, di vicine di casa che abbiamo messo a salvaguardia della nostra vita. La piccola politica del vicinato non basterà più. No, non basterà più, anche se una certa teoria femminista, per me irresponsabile, la chiama politica prima, e le concede dignità assoluta rispetto al discredito di “mettere le mani in pasta” in quella merda della politica istituzionale chiamata invece politica seconda. E poco importa se la politica seconda decide della vita di tutti. Insomma quella sorta di antistato muto e non belligerante che le donne, acrobatiche, funambole, futuriste hanno messo in piedi per sopravvivere e per far sopravvivere la propria famiglia, no, non basterà più. O meglio mi auguro che non debba bastare e che le donne la smettano, una volta per tutte, di arrangiarsi. 

Di fronte alle condizioni miserevoli, non solo economiche, del nostro paese, discutiamo e ci vogliamo convincere che noi donne siamo eccellenti. «L’eccellenza femminile» è l’ultimo tema lanciato sul tappeto della riflessione femminista. Ma quale sarebbe questa eccellenza? Quella di farsi spremere come limoni, quella di sopportare, di rimediare, di rabberciare, di non protestare, di pazientare, di farsi sfruttare, di accettare elemosine, pensando che siamo eccellenti? Da dove esce fuori quest’idea dell’eccellenza femminile? Dalla storia oscura del passato? Dal grande silenzio delle donne? Dal fatto che abbiamo curato e pulito incessantemente questo mondo, nonostante gli orrori della storia? Eccellenti perché sopravvissute? Oppure è il far male di tanti uomini che ci rende eccellenti, il loro annaspare tra potere, denaro, sessualità incontrollata, capacità di rubare, di ingannare, di mentire, di delinquere, di violare. 

Sarebbe poca cosa... Personalmente, sento che mi devo difendere dall’idea dell’eccellenza femminile come in gioventù sono stata costretta a difendermi dall’idea dell’inferiorità femminile. Statene alla larga, giovani donne! Mi viene da dire. Tra di noi c’è chi è buona e chi è cattiva, chi è intelligente, chi stupida, chi è eccellente e chi è inetta. Insomma siamo umane ed è questo ciò che conta. E questo deve bastare per autorizzarci a costruire per noi una vita possibile e dignitosa Non serve altro. Perché Luisa Muraro approva commossa la proposta del Nobel alle donne africane? Mi ha sorpreso, almeno in questo pensavo che andassimo ancora d’accordo. Questa proposta, buona certamente nelle intenzioni, a me femminista sembra invece indecente. Cosa hanno in più le donne africane per meritarsi il Nobel: forse perché, in aggiunta all’elenco sopracitato, sono le donne più violentate dei cinque continenti e che a molte di loro le cuciono il sesso da bambine? Forse perché sono martiri? Sono eroine?

Non ho mai potuto soffrire chi ha la pretesa di costruire la propria identità nel dolore e nel vittimismo, ho in sospetto perfino il sentimento del coraggio come terreno identitario, e della pazienza e sopportazione nemmeno se ne parli. Da tempo penso che si possa costruire solo nella gioia e nella consapevolezza. Il grande risultato del nostro femminismo è stato quello di far pensare a tutte le donne necessaria e lecita la ricerca della propria felicità. Perché proprio in nome dell’eccellenza femminile premiare un indistinto? Un corpo unico? quando in Africa ci sono tante donne, scienziate e politiche, con nome e cognome che meriterebbero il Nobel, per delle imprese concretissime come la lotta contro la fame e la sete. Loro sì donne eccellenti, portatrici di gioia.

Per terminare la nostra rivoluzione non dobbiamo fare «le donne in politica» dobbiamo fare «la politica delle donne». Ma per questo ci vogliono tante donne in politica e tante donne fuori, per ripristinare quel circolo virtuoso appena intravisto negli anni ‘80 e subito sparito. Oggi ci sono tantissime donne forti, tante imprenditrici, giornaliste, direttore di quotidiani, avvocate, professioniste, scienziate, pubblicitarie, filosofe, registe tutte pronte a fare ciascuna la propria parte. Perché non dovremmo farcela? E chissà se la sinistra, la nostra sinistra che abbiamo dovuto sempre trascinare, quasi come un peso morto, alle grandi battaglie di civiltà come il divorzio, l’aborto, quella sinistra che ci ha tradito con la legge oscena della maternità assistita, questa volta capirà che una lotta per gli interessi delle donne è una lotta per una società migliore, più giusta, più equilibrata. Chissà se, una volta per tutte, capiranno che non servono politiche protettive per le donne, ma servono, come piace tanto dire, «cambiamenti strutturali». 

Chissà anche se capiranno che questa è per loro l’ultima spiaggia, l’ultimo treno da prendere in corsa. Questa sinistra che ha promesso sempre alle donne e che non ha dato mai, questa sinistra con troppe poche donne per governare, così malata di realpolitik da rendersi irriconoscibile. Ma per quanto riguarda noi... via, fuori dai condomini, dai conventini, dai convegnucci, dalle famigliole, dai giardinetti. Facciamoci una società migliore. Animo!

Raccontano che la crisi rifiuti è risolta. Che l´emergenza non c´è più. Gli elenchi dei soldati di camorra e ´ndrangheta arrestati dovrebbero rassicurare che la battaglia è vinta. O almeno, questa è la versione. Molto distante, però, da ciò che realmente accade. Ogni anno Legambiente attraverso il suo Osservatorio ambiente e legalità produce storie e numeri: "Ecomafia".

Quello dei rifiuti è uno dei business più redditizi che negli anni ha foraggiato le altre economie. Come il narcotraffico, il fare affari con i rifiuti, sotterrare scorie tossiche, devastare intere aree, ha permesso alle organizzazioni criminali e a semplici consorterie imprenditoriali di accumulare capitali poi necessari per specializzarli in altri settori. Catene di negozi, imprese di trasporti, proprietà di interi condomini, investimenti nel settore sanitario, campagne elettorali. Sono tutte economie sostenute con i rifiuti. Esempio lampante ne è l´economia campana e i suoi gangli politici che si sono strutturati intorno alla crisi rifiuti.

Il mondo intero non si spiegava come fosse possibile che un territorio in Europa vivesse una piaga tanto purulenta. Come fosse possibile che le dolcissime mele annurche o le pregiate bufale campane, caratteristiche proprio di quelle zone, potessero trasformarsi improvvisamente in prodotti rischiosi per la salute. Possibile che convenga di più avvelenare che concimare e raccogliere?

Evidentemente sì, basta saperne leggere i vantaggi. L´emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l´anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. Di fronte a cifre come questa è comprensibile che nessuno avesse convenienza a porre rimedio all´emergenza. Rapporti di consulenza politica, assunzioni, e persino specializzazione delle ditte nello smaltimento; oggi le imprese campane del settore rifiuti, grazie anche ai soldi dell´emergenza e alla pubblicità - sembra assurdo parlare di pubblicità, no? - che ne hanno ricavato, sono tra le più richieste in Europa. Ma risolvere un´emergenza significa anche non averne più i benefici e gli utili. E in verità, nonostante i proclami, oggi si è risolto poco. Si è tolta la spazzatura dalle strade ma, come afferma chi lavora nel settore, è solo fumo negli occhi, perché sta per tornarci. «Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come molte regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti». Sono parole dell´amministratore delegato dell´Asia (l´azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani.) Come un tempo, quindi, la spazzatura sta di nuovo per essere accumulata. Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese e il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Nel Sud le bonifiche delle terre avvelenate da decenni di sversamenti di veleni sono rare e lente. I rifiuti tossici hanno spalmato cancro prima nei terreni, poi nei frutti della terra, nelle falde acquifere, nell´aria. Poi addosso alla gente, nelle loro ossa e nei tessuti molli. Ogni ciclo di vita è stato compromesso.

La diossina, i metalli pesanti e le sostanze inquinanti vengono ingerite, respirate, assimilate come una qualunque altra sostanza. La pelle di ogni cittadino delle zone ammorbate trasuda sudore e scorie. Il cancro ha raggiunto percentuali molto più alte che negli altri Paesi europei. Gli ultimi dati pubblicati dall´Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica «The Lancet Oncology», già nel settembre 2004, parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Ma l´ecomafia non è un fenomeno che appartiene solo al Sud. Nel Sud assume caratteristiche totalizzanti e più evidenti: nelle strade si inscena il dramma dei cassonetti incendiati, il puzzo accompagna ogni movimento, e il silenzio copre ogni cava, ogni singolo luogo dove è possibile accumulare e nascondere. Ma è sempre più il nord Italia il centro del vero business. E la novità di quest´anno, al di là del noto primato di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, è che il Lazio si posiziona al secondo posto tra le regioni con il più alto numero di reati ambientali. Tra le inchieste più rilevanti del settore, nel 2009, ce ne sono alcune con nomi fantasiosi, talvolta anche vagamente familiari. "Golden Rubbish", "Replay", "Matassa", "Ecoterra", "Serenissima", "Laguna de Cerdos", "Parking Waste". Alcune, già dal nome si riescono anche a localizzare geograficamente, e tutte quelle che ho citato sono inchieste che riguardano il nord Italia. È evidente che il Nord ce la sta mettendo davvero tutta per non essere secondo al Sud in questa gara all´autodistruzione. La "Golden Rubbish" è un´inchiesta che vede coinvolta la provincia di Grosseto, ma ancora conserva legami con Napoli e la Campania perché ha preso le mosse da un´inchiesta che riguardava la movimentazione dei rifiuti prodotti dalla bonifica del sito industriale contaminato di Bagnoli. Si tratta di un traffico spaventoso: un milione di tonnellate di rifiuti e un sistema che ha coinvolto decine e decine di aziende di caratura nazionale. L´inchiesta "Replay" è tutta lombarda e l´organizzazione criminale sgominata operava tra Milano e Varese. Un affiliato al clan calabrese che fa capo a Giuseppe Onorato è finito in manette insieme a un manipolo di colletti bianchi, tra cui funzionari di banche. Lombarda è anche l´inchiesta denominata "Matassa".

È trentina, e precisamente della Valsugana, l´inchiesta "Ecoterra" che ha bloccato un traffico illecito di scorie di acciaierie che venivano riutilizzate, senza alcun trattamento, per coprire discariche o per bonifiche agrarie. Come dimenticare Porto Marghera, dove l´operazione "Serenissima" ha scoperto il traffico illecito di rifiuti diretti in Cina. Ma anche nelle Marche l´"Operazione Appennino" ha intercettato un flusso criminale di scarti derivanti dalle lavorazioni delle industrie agroalimentari e casearie.

È umbra, invece, nonostante il nome spagnoleggiante l´operazione "Laguna de Cerdos" un traffico illecito di rifiuti liquidi di origine suinicola per cui la regione e i singoli comuni si sono a lungo palleggiati le responsabilità. Friulana, invece è l´inchiesta "Parking Waste" che ha smascherato lo smaltimento illecito di medicinali scaduti. In tutte queste inchieste, l´aspetto che più colpisce è il legame strettissimo che si è creato tra gestori delle ditte di smaltimento, politici locali e istituti di credito presenti sul territorio.

Tra le altre cose, vale la pena ricordare che a marzo l´Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell´Unione Europea per come ha gestito l´emergenza rifiuti in Campania. È stata condannata per "non aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l´ambiente". E nella sentenza si legge che l´Italia ha ammesso che "gli impianti esistenti e in funzione nella regione erano ben lontani dal soddisfare le sue esigenze reali".

Come non rimanere colpiti da questo dato: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell´Everest, alto 8850 metri.

Se un cittadino straniero conservava l´illusione delle colline toscane e del buon vino, delle belle donne e della pizza gustata osservando il Vesuvio da lontano mentre il mare luccica cristallino, qualcosa inesorabilmente cambia. Tutto assume una dimensione meno idilliaca e più sconcertante. La domanda più semplice che viene da porsi è come può un Paese che dovrebbe tutto al suo territorio, alla salvaguardia delle sue coste, al suo cielo, ai prodotti tipici, unici nelle loro caratteristiche, permettere uno scempio simile? La risposta è nel business: più di venti miliari di euro è il profitto annuo dell´Ecomafia, circa un quarto dell´intero fatturato delle mafie. Le mafie attraverso gli affari nel settore ambientale ricavano un profitto superiore al profitto annuo della Fiat, che è di circa 200 milioni di euro, e più del profitto annuo di Benetton, che è di circa 120 milioni di euro. Quindi in realtà usare il territorio italiano come un´eterna miniera nella quale nascondere rifiuti è più redditizio che coltivare quelle stesse terre. Tumulare in ogni spazio vuoto disponibile rifiuti di ogni genere costa meno tempo, meno sforzi, meno soldi. E dà profitti decisamente più alti. Bisogna guadagnare il più possibile e subito. Ogni progetto a lungo termine, ogni ipotesi che tenga conto di una declinazione del tempo al futuro viene vista come perdente. Un euro non guadagnato oggi è un euro perso domani. Questo è l´imperativo del nostro Paese che vede coincidere mentalità dell´imprenditoria legale e criminale.

Per difendere il Paese, per continuare a respirare, è necessario comprendere che in molte parti del territorio il cancro non è una sventura ma è causato da una precisa scelta decretata dall´imprenditoria criminale e che molti, troppi, hanno interesse a perpetrare.

O quello delle ecomafie diventa il tema principale della gestione politica del Paese, o questo veleno ci toglierà tutto ciò che aveva permesso di riconoscere il nostro territorio. La speranza è che questo allarme venga ascoltato, e che non si aspetti di sentire la puzza che affiori dalla terra, che tutto perda di luce e bellezza, che il cancro continui a dilagare prima di decidersi a fare qualcosa. Perché a quel punto sarebbe davvero troppo tardi. E coloro che sono stati chiamati i grandi diffamatori del Paese sarebbero rimpianti come Cassandre colpevolmente inascoltate.

©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

(Il testo pubblicato è la prefazione al volume "Ecomafia" di Legambiente che sarà in libreria mercoledì 9 giugno)

I mercati finanziari sono per loro natura instabili. L'Europa dovrebbe dunque avviare politiche economiche e monetarie per regolamentarli. Gli interventi in soccorso della Grecia dimostrano però che a Bruxelles è prevalsa l'ortodossia che vede nel libero mercato finanziario la soluzione della crisi.



Nelle scorse settimane, le borse hanno avuto un andamento molto altalenante, al punto che molti hanno parlato di mercati «folli»: definizione che non troverebbe d'accordo André Orlean. André Orlean è un economista poco conosciuto in Italia. Nel corso degli ultimi 20 anni, la sua ricerca si è focalizzata sull'analisi e il comportamento dei mercati finanziari. Partendo dalle tesi di John Maynard Keynes, Orléan sostiene che il comportamento degli operatori finanziari non si fonda sull'idea di una razionalità individuale tesa a ottenere il massimo guadagno, bensì sull'interpretazione di quella che può essere definita una razionalità collettiva, intesa come il senso comune espresso da coloro (Banche, operatori finanziari) che sono in grado di condizionare i mercati finanziari.

La metafora del concorso di bellezza di Keynes è al riguardo illuminante: così come un giudice in un concorso di bellezza non deve valutare l'avvenenza dei concorrenti in base al suo individuale senso estetico ma piuttosto in base a quelli che lui ritiene essere i canoni estetici dominanti, così un bravo «speculatore» crea le proprie aspettative sul valore futuro atteso delle attività finanziarie non in base alle proprie aspettative e convinzioni individuali, ma in base a ciò che lui stesso ritiene essere il senso comune presente nei mercati finanziari. Tale comportamento, lungi dall'essere irrazionale, come sostengono gli economisti ancorati alla visione neoliberista dell'homooeconomicus, determina il fatto che nei mercati finanziari le regole della concorrenza, e del pilastro su cui regge, la legge della domanda e dell'offerta, non sono valide. Di conseguenza, i mercati finanziari sono strutturalmente instabili: un andamento ciclico e volatile, che, se non controllato e limitato, rischia di avere ripercussioni deflagranti per il capitalismo contemporaneo, se si considera che i mercati finanziari svolgono oggi il ruolo di governance economica mondiale.

Abbiamo incontrato André Orléan nel corso di una serie di seminari che ha tenuto in Italia, a Milano, Bergamo e Pavia, in occasione della prima edizione italiana di una delle sue opere: Dall'euforia al panico (Ombre Corte).



Quale ripercussione potrebbe avere l'attuale crisi economico-finanziaria sulla teoria dei mercati finanziari e sulle politiche economiche che si dovrebbero adottare per fronteggiarla?

A partire dalla svolta monetarista della Federal Reserve del 1979, la teoria dominante dei mercati finanziari si fonda sull'idea di un mercato finanziario mondiale in grado di espandersi in modo integrato e flessibile, grazie alla crescita del debito pubblico e alle innovazioni finanziarie. È questa la cosiddetta teoria dell'efficienza finanziaria, in base alla quale la concorrenza finanziaria segue le stesse regole di quella dei beni tradizionali. I prezzi che si formano sui mercati finanziari dovrebbero cosi rappresentare la migliore espressione dei valori reali degli scambi economici sottostanti.

Nella realtà, invece, i mercati finanziari non sono né efficienti, né stabili, mentre i prezzi non sono l'esito dell'agire della concorrenza ma semplicemente delle aspettative su ciò che il mercato, nel suo insieme, determinerà. Nei mercati finanziari è invece presente un comportamento che potremmo definire mimetico. Il G20, ad esempio, parte dal presupposto che i mercati finanziari siano efficienti. Nel caso si verifichi un'instabilità, ciò è dovuto al fatto che è venuta meno l'integrità degli stessi mercati finanziari. Per il G20, dunque, la crisi dei subprime non è dovuta alla struttura stessa dei mercati finanziari, ma piuttosto a fattori esogeni: l'«opacità» dei nuovi prodotti finanziari, gli eventuali errori delle agenzie di rating, l'avidità dei manager e delle banche. Sono fattori esistenti, ma non spiegano l'essenza della crisi.

Torniamo alla teoria dell'efficienza finanziaria in base alla quale i mercati sono regolati sulla base della legge della domanda e dell'offerta. Per quanto riguarda i mercati finanziari, ciò non è vero, perché i prezzi delle attività finanziarie seguono una regola opposta: quando un titolo aumenta di valore, la sua domanda, lungi dal ridursi, tende invece a crescere, perché le plusvalenze aumentano all'aumento del valore dei titoli, attirando nuovi investitori e quindi aumentano la domanda di quegli stessi titoli. È un meccanismo produttore di instabilità. Si verificano, così, dei movimenti eccessivi nei prezzi (o verso l'alto nel caso di euforia, o verso il basso nel caso di panico). Tale andamento ciclico, di natura strutturale, viene poi amplificato dalle società di rating. È questa la causa principale della crisi.



In questo quadro analitico, è possibile una regolamentazione dei mercati finanziari?

Se i mercati finanziari sono endemicamente instabili, dovremmo regolarli e limitarli il più possibile. Ne va della sopravvivenza del sistema stesso. Tuttavia, nella situazione attuale è un obiettivo politicamente difficile da perseguire. In ogni caso, si potrebbe intervenire in tre direzioni: arrestare la crescita e il peso dei mercati finanziari, oppure ridurla, limitando il ricorso ad essi; le economie e gli Stati nazionali dovrebbero creare un sistema di valutazione autonoma dei titoli come contrappeso al potere pervasivo e di condizionamento svolto dalle società private di rating. Il caso della Grecia, a questo proposiro, è emblematico: la valutazione del debito greco si basa, infatti, su aspettative future che prefigurano uno scenario tragico creato ad hoc. Una società di valutazione esterna ai mercati finanziari dovrebbe essere in grado di capire fino a che punto è possibile fare una previsione. Inoltre, una valutazione pubblica deve definire il quadro macroeconomico e non lasciare che siano le società di rating a farlo. In tal modo si può limitare il potere discrezionale e l'autonomia del potere della finanza.

La terza direzione verso cui muoversi dovrebbe ridurre la liquidità, aumentando ad esempio i costi di transizione, applicando una sorta di Tobin Tax sulle attività speculative di brevissimo periodo. Nel caso di debito pubblico, gli Stati nazionali potrebbero rendere più rigidi e più trasparenti i tempi e le modalità del rimborso dei titoli e degli interessi.



In Europa è possibile fare qualcosa di simile? Il caso della Grecia sembra dirci l’opposto.

In Europa il rapporto tra debito e Pil è circa l'80%, in Usa del 100%, in Giappone supera il 200%. Ma la pressione speculativa punta sull'Europa. La ragione principale è che il debito pubblico giapponese è detenuto dai giapponesi. Negli Usa e in Europa non è così (con l'eccezione dell'Italia). Ma il debito Usa è generato comunque da una potenza non solo economica, ma anche politico-militare, per la quale le aspettative di crescita sono maggiori rispetto, ad esempio, a quelle dell'Europa o, ancora peggio, dell'Europa mediterranea.

In Europa, la questione della crescita è centrale. Il rischio è accresciuto dal timore di una fase deflazionista che ricorda la situazione degli anni '30. La protezione della moneta - oro in quegli anni - ha comportato effetti negativi sulla crescita degli anni Trenta. Le politiche fiscali restrittive di oggi, con l'effetto di generare una deflazione, rischiano di avere gli stessi effetti che hanno avuto allora le politiche protezionistiche sulla valuta. Viviamo però in un mondo dove non c'è più la «moneta-oro». La politica di svalutazione può avere effetti positivi, i quali rischiano di essere annullati da una politica fiscale restrittiva. Per ridurre il deficit è necessario piuttosto fare politiche di crescita. L'opposto di ciò che vorrebbero i mercati finanziari.

E in ciò vi è la responsabilità dell'Europa che non è in grado di dare una risposta unitaria. L'Europa ha una visione contabile dell'economia (soprattutto la Germania) che non consente di reagire alla pressione dei mercati finanziari. Vi è, così, il rischio di creare il fantasma di un'Europa a due velocità. È il trionfo del nazionalismo. L'Europa si è costruita su una stretta visione economica della moneta, intesa solo come mezzo di scambio che consente l'acquisto dei mercati. Da qui l'enfasi sui vincoli economici posti dai parametri di Maastricht sull'inflazione e sul deficit pubblico. Ciò deriva, ancora una volta, dalla cieca adesione alla visione dell'efficienza dei mercati: una tesi che postual che la tendenza all'equilibrio è la caratteristica fondamentale del mercato e che è quindi inutile qualunque intervento di politica monetaria.



È possibile un ripensamento del ruolo della Bce?

La Bce ha una concezione della moneta inadeguata. Le recenti dichiarazioni di Trichet - «La Bce è orgogliosamente indipendente e autonoma» - è una dichiarazione di impotenza. Ed è falsa. Infatti, è condizionata dai governi europei, come dimostra il fatto che recentemente la Bce ha deciso di riacquistare parte del debito pubblico in cambio di liquidità su pressioni di alcuni Stati dell'Unione europea. È stata la manifestazione di una contraddizione palese tra teoria e prassi. Una contraddizione che evidenzia come il modello della moneta come variabile neutra non funziona, confermando che la moneta è, in realtà, un rapporto sociale gerarchico.



Un economista controcorrente

André Orléan è direttore di ricerca al CNRS e di studi alla «École des Haute Études en Sciences Sociales». Ha fatto parte della Scuola Francese della Regolazione. Attualmente è membro del laboratorio Paris-Jordan-Sciences économiques. I suoi interessi di ricerca si sono sempre concentrati sul ruolo sociale svolto dalla moneta e dai mercati finanziari. Fondamentali al riguardo sono i due testi: «La violence de la monnaie» (con Michel Aglietta) e «Le pouvoir de la finance», mai tradotti in Italia. Tra i suoi scritti recenti, ricordiamo: «La monnaie entre violence et confiance» (ancora con Aglietta) e «Petit dictionnaire des mots de la crise» (con Ph. Frémeaux e G. Mathieu).

Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?

In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.

Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.

Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».

Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.

Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.

Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».

È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.

I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.

Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.

Milano è una città sotto assedio ben prima che i cento milioni di metri cubi di cemento previsti dal Pgt la travolgano definitivamente. Attacchi alla linea del cielo. A sfigurare i tetti spuntano ogni dove abbaini che paiono cucce per cani giganti, antenne dei telefonini che hanno l’aspetto di scheletri rattrappiti, impianti di condizionamento alti uno, due piani: il tutto a mettere in crisi ogni idea di equilibrio e di dignità degli organismi edilizi.

Attacchi al sottosuolo per creare parcheggi e box privati in luoghi centrali e semicentrali con le immancabili rampe e i volumi tecnici che sbucano come funghi a rovinare l’unità di piazze e strade (quando il fallimento della società che ha intrapreso l’opera non lascia vere e proprie voragini, paesaggi di guerra in tempo di pace).

Attacchi all’architettura dei luoghi. Come la svendita della residua decenza di spazi pubblici con operazioni pubblicitarie triviali. Esemplare quella che ha recentemente interessato l’intera cerchia dei Bastioni; o il sequestro ripetuto di monumenti impacchettati per anni in giganteschi teli pubblicitari con la scusa del loro restauro.

Ultimo fronte dell’assedio è la richiesta di soggetti privati di occupare ,con volumi, spazi pubblici prestigiosi. La Apple per il suo cubo di vetro ha puntato nientemeno che su piazza del Duomo. E ora, sulle stesse orme, la mossa di “Cardi black box”, la nuova galleria d’arte contemporanea promossa da facoltosi investitori. Come scriveva Oriana Liso ieri su queste pagine, si vuole piazzare in uno spazio pubblico prestigioso un ottuso e arrogante parallelepipedo nero di almeno tre/quattro piani con base di venti metri per venti (un oggetto per intenderci delle dimensioni di uno dei due caselli costruiti nel 1828 da Rodolfo Vantini a Porta Venezia, senza averne la benché minima grazia). Cosa presuppongono queste proposte? Che lo spazio pubblico sia in vendita. Che luoghi urbani che sono patrimonio di tutti, stelle polari dell’immaginario e della memoria collettiva, possano essere manomessi a piacimento, purché si trovi l’accordo fra privati aggressivi e amministratori spregiudicati e compiacenti. I quali, anche solo per il fatto di giudicare interessanti e ammissibili simili proposte indecenti, danno l’impressione di trattare la cosa pubblica come fosse cosa loro.

La mossa dei proprietari della “Cardi black box” si distingue per un’altra ragione. Oltre a proporsi come ulteriore atto di svendita di prezioso suolo pubblico, punta a rimuovere un monumento come quello di Aldo Rossi in via Croce Rossa. Due piccioni con una fava? Molti di più, perché qui i piccioni sarebbero tutti i cittadini milanesi, ovvero i proprietari di quel monumento (donato alla città dalla Metropolitana Milanese) e di quel sito. Si sa che l’opera di Aldo Rossi è stata oggetto di attacchi, più o meno in buona fede (quel punto fa gola a molti, a cominciare da chi possiede gli immobili che vi si affacciano). Quello che dà fastidio è il suo carattere squisitamente pubblico in un contesto che vede il trionfo dello shopping di lusso. Se mai l’operazione della sua rimozione dovesse andare in porto, Milano si priverebbe di un gioiello. Un organismo che fa da appropriato fondale a via Montenapoleone e allo stesso tempo costituisce un luogo-soglia fra via Manzoni e via Monte di Pietà. Una minuscola piazza-teatro capace di sospendere il “tempo del mercante” in uno spazio civile dove hanno modo di dialogare i marmi del Duomo e i gelsi, a testimonianza di due grandi motori dell’identità lombarda.

E' certamente legittimo leggere il documento di Barack Obama sulla strategia di sicurezza nazionale americana come un'operazione di «cosmesi linguistica» priva di qualsiasi discontinuità reale rispetto all'era Bush, come autorevolmente ha fatto venerdì scorso su questo giornale Tariq Ali misurandola sulla parabola della guerra in Afghanistan e sulla questione israelo-palestinese. Ma è legittimo anche, spero, riconoscere al linguaggio una valenza non meramente cosmetica bensì performativa, e riconoscere nell'impianto culturale del testo di Obama una svolta di 180 gradi rispetto a quello omologo di Bush jr del 20 settembre 2002. Si sa del resto che rispetto all'operato di Obama sempre ci si divide fra il disincanto chi sta agli atti e l'incantamento di chi punta sulla sua visione del mondo; non stupisce dunque che sia così anche stavolta. Ma leggendo in sequenza i due testi, quello di George W. Bush e questo, è davvero difficile non rovesciare la diagnosi della continuità reale che permane sotto il maquillage di una discontinuità apparente in quella, opposta, di una discontinuità radicale che si afferma malgrado la continuità della guerra.

Fra i due testi, del resto, corre meno di un decennio che però vale un'epoca: la discontinuità è nei fatti prima che nelle idee, e l'ha scavata la storia prima che la politica. Il documento di George W.Bush uscì esattamente un anno dopo l'attacco alle Torri gemelle, quando già tutti gli osservatori e i pensatori più avvertiti del pianeta avevano saputo leggere in quell'evento il sintomo della configurazione del mondo globale e delle sue inedite ed esplosive contraddizioni; eppure, a distanza di dodici anni dalla caduta del Muro di Berlino, Bush poteva ancora consentirsi di giocare tutto l'armamentario ideologico della Guerra fredda e tutto il trionfalismo occidentale sulla fine della Guerra fredda per riconfermare arrogantemente la volontà di potenza degli Stati uniti come destino, un destino attaccato ma non intaccato dall'«incidente» dell'11 settembre.

Per Bush, l'ordine mondiale era ancora una creatura nelle mani della potenza americana, uscita trionfalmente vincente dal confronto col Nemico comunista; per ripristinare l'ordine dopo l'attacco di Al Quaeda, bastava ripristinare l'immaginario del Nemico, trasferendolo dal comunismo all'Islam e agli «stati canaglia» e spostando la linea del fronte dalla cortina di ferro al Medioriente. Di nuovo, e terribile, ci mise la dottrina della guerra preventiva e infinita, la prassi della sfigurazione della Costituzione all'interno e del diritto internazionale all'estero, la tortura, Guantanamo, le corti speciali e quant'altro. Era un'analisi completamente sbagliata, in primo luogo perché il nuovo nemico terrorista era reticolare e non statuale, virale e non territoriale, nasceva dall'interno e non dall'esterno dell'Occidente e dei suoi misfatti, e la trasposizione su di esso del vecchio Nemico della Guerra fredda era puramente fantasmatica; ma quell'analisi ebbe la sua nefasta presa sull'immaginario americano e mondiale, e diventò la base della teoria e della pratica dello «scontro di civiltà», corredato di un vessillo - l'esportazione con la forza all'estero dei valori democratici traditi all'interno - e di un corollario - il neoliberismo come braccio economico della guerra all'estero e della de-costituzionalizzazione all'interno.

Niente di questa devastante armatura ideologica sopravvive nel testo di Obama. Non la certezza della potenza come destino, ormai ridimensionata dall'emersione nel frattempo avvenuta delle potenze mondiali nuove, e sostituita dalla consapevolezza che la leadership americana va rifondata in un tempo «di transizione» e di cambiamemnto globale. Non l'arroganza neoliberista, nel frattempo sconfitta dalla «più grande recessione con cui ci siamo trovati a confrontarci dalla Grande depressione in poi». Non l'analisi del nemico, che non è più l'Islam ma «uno specifico network terrorista», e non ha più il volto fantasmatico dell'Altro ma «è tra noi, qui a casa». Non la dottrina nefasta della guerra preventiva e infinita, sostituita da quella della «guerra necessaria e giusta», nefasta anch'essa ma quantomeno meno dilagante, e consapevole che dalle ultime guerre l'America è stata «indurita» e indebolita.

Non lo sfregio della Costituzione, cui viene contrapposto il richiamo imperativo alla legalità. Non la crociata dell'esportazione della democrazia, perché «la nostra leadership morale deve basarsi sulla forza dell'esempio e non sull'imposizione del nostro sistema ad altri popoli». Non lo schema dello scontro di civiltà, perché la forza dell'America sta e resta nella miscela di colori e di culture che l'ha fatta crescere. E nemmeno, infine, quell'idea esclusivamente militare della sicurezza che faceva del testo di Bush la bandiera oscurantista di un paese assediato e senza speranza: per Obama, «sicurezza» vuol dire anche crescita sostenibile, investimento sul futuro, sulla conoscenza e sulle giovani generazioni, il nemico non è fatto solo di terroristi ma anche di armi atomiche, rischi ambientali, trappole tecnologiche. E' vero, la guerra in Afghanistan resta, e tanto più dopo i fatti di ieri il Medioriente si ripresenta come l'«hic Rhodus» di Obama. Ma non è poco quello che è cambiato.

Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare il crimine commesso da Israele e nessun pretesto può motivare l’idiozia del suo governo e del suo esercito. Israele non ha inviato i suoi soldati a uccidere civili a sangue freddo, in pratica era l’ultima cosa che voleva che accadesse, eppure una piccola organizzazione turca, dall’ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele, ha arruolato alcune centinaia di pacifisti ed è riuscita a fare cadere lo Stato ebraico in una trappola proprio perché sapeva come avrebbe reagito e fino a che punto era condannato, come una marionetta, a fare ciò che ha fatto. È stato un atto criminale destinato a riaccendere la spirale di odio e vendette.

Quanto deve sentirsi insicura, confusa e spaventata una nazione per comportarsi come ha fatto Israele! Ricorrendo a un uso esagerato della forza (malgrado aspirasse a limitare la portata della reazione dei presenti sulla nave) ha ucciso e ferito civili al di fuori delle proprie acque territoriali comportandosi come una masnada di pirati. È chiaro che queste mie parole non esprimono assolutamente consenso alle motivazioni, nascoste o evidenti – e talvolta malvagie – di alcuni dei partecipanti al convoglio diretto a Gaza. Non tutti sono pacifisti animati da intenzioni umanitarie e le dichiarazioni di alcuni di loro riguardanti la distruzione dello stato di Israele sono infami. Ma tutto questo ora è irrilevante: queste opinioni non prevedono, per quanto si sappia, la pena di morte.

L’azione compiuta da Israele ieri sera non è che la continuazione del prolungato e ignobile blocco alla striscia di Gaza, il quale, a sua volta, non è che il prosieguo naturale dell’approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano, pronto a rendere impossibile la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato tenuto prigioniero, per quanto caro e amato. Il blocco è anche la continuazione naturale di una linea politica fossilizzata e goffa che a ogni bivio decisionale e ogni qualvolta servono cervello, sensibilità e creatività, ricorre a una forza enorme, esagerata, come se questa fosse l’unica scelta possibile.

E in qualche modo tutte queste stoltezze – compresa l’operazione assurda e letale di ieri notte – sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell’ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l’originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele.

Il blocco della striscia di Gaza è fallito. È fallito già da quattro anni.

Non solo tale blocco è immorale, non è nemmeno efficace, non fa che peggiorare la situazione, come abbiamo potuto constatare in queste ore, e danneggia gravemente anche Israele. I crimini dei leader di Hamas che tengono in ostaggio Gilad Shalit da quattro anni a questa parte senza che abbia ricevuto nemmeno una visita dai rappresentanti della Croce Rossa, che hanno lanciato migliaia di razzi verso i centri abitati israeliani, vanno affrontati per vie legali, con ogni mezzo giuridico a disposizione di uno stato. Il prolungato isolamento di una popolazione civile non è uno di questi mezzi. Vorrei poter credere che il trauma per la sconsiderata azione di ieri ci porti a riesaminare tutta questa idea del blocco e a liberare finalmente i palestinesi dalla loro sofferenza e Israele da questa macchia. Ma la nostra esperienza in questa regione sciagurata ci insegna che accadrà invece il contrario: che i meccanismi della violenza, della rappresaglia e il cerchio della vendetta e dell’odio ieri hanno ricominciato a girare e ancora non possiamo immaginare con quale forza.

Ma più di ogni altra cosa questa folle operazione rivela fino a che punto è arrivato Israele. Non vale la pena di sprecare parole. Chi ha occhi per vedere capisce e sente. Non c’è dubbio che entro poche ore ci sarà chi si affretterà a trasformare il senso di colpa (naturale e giustificato) di molti israeliani, in vocianti accuse a tutto il mondo.

Con la vergogna, comunque, faremo un po’ più fatica a venire a patti.

Traduzione dall’ebraico di A. Shomroni

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